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Edoardo Salzano<br />

La lunga <strong>in</strong>fanzia<br />

A Napoli, autunno 1931


2 Edoardo Salzano<br />

Tutti gli avvenimenti e le persone di cui si parla nelle pag<strong>in</strong>e che seguono<br />

sono reali, salvi gli <strong>in</strong>evitab<strong>il</strong>i errori della memoria.


La lunga <strong>in</strong>fanzia 3<br />

OUVERTURE<br />

So come com<strong>in</strong>cia la vecchiaia. Tende a scomparire la forza sessuale (ma<br />

non <strong>il</strong> desiderio). Diventa faticoso salire grad<strong>in</strong>i e pendii, senti dolore nei<br />

muscoli delle cosce, sebbene cont<strong>in</strong>ui a camm<strong>in</strong>are bene <strong>in</strong> piano. Se corri o<br />

camm<strong>in</strong>i <strong>in</strong> salita ti manca presto <strong>il</strong> fiato, anche se da molti anni hai smesso<br />

di fumare. Ci metti molto tempo a ricordarti che l’Università di cui Dereck<br />

Drummond è decano si chiama McG<strong>il</strong>l, e che <strong>il</strong> democristiano di nome Mariano,<br />

che hai visto ogni settimana per qu<strong>in</strong>dici anni e con cui ti soffermi a<br />

chiacchierare <strong>in</strong> Frezzeria, di cognome fa Baldo. E quando non fai una cosa<br />

che ti piacerebbe fare non pensi che la farai più avanti nel tempo, ma che<br />

non la farai più. Ecco come è com<strong>in</strong>ciata la vecchiaia, per me.<br />

Ho settant’anni; non sono ancora <strong>in</strong> pensione perché i professori universitari<br />

ci vanno più tardi. Penso che forse non ci andrò mai, perché lavorare<br />

mi piace. Mi piace <strong>il</strong> mio lavoro: mettere <strong>in</strong>sieme le cose con le parole dette<br />

e quelle scritte; raccontare e scrivere per gli amm<strong>in</strong>istratori e per i ragazzi,<br />

parlando e proponendo a proposito di città, territorio, ambiente, pianificazione.<br />

Facendo quel mestiere che ho com<strong>in</strong>ciato, quasi per caso, molti anni<br />

fa.<br />

Non sono <strong>in</strong> pensione, ma ho imparato a conservare più tempo per me: a<br />

correre meno da una città a un’altra, da un impegno a un altro, da una riunione<br />

a un articolo, da una relazione a un’<strong>in</strong>tervista. Tempo anche per i ricordi.<br />

Perché con la vecchiaia i ricordi ritornano. E diventano importanti:<br />

non più aneddoti che racconti per far sorridere gli amici ma ragioni di vita,<br />

possib<strong>il</strong>i chiavi per comprendere te stesso. Per comprendere ciò che sei, e<br />

ciò che avresti potuto essere se le cose fossero andate <strong>in</strong> un altro modo. E<br />

anche per lasciare qualcosa di te ai figli e ai nipoti: perché com<strong>in</strong>ci a pensare<br />

che forse non sei eterno.


4 Edoardo Salzano


La lunga <strong>in</strong>fanzia 5<br />

Un colpo di fortuna<br />

CAPITOLO PRIMO<br />

UN BAMBINO MOLTO PER BENE<br />

Non sarei nato se <strong>il</strong> tenente del Genio Artiglieria Armando Diaz, nel 1884, a<br />

Caserta, avesse preso dal mazzo di chem<strong>in</strong> de fer una carta più bassa. Mio<br />

nonno era allora ufficiale di prima nom<strong>in</strong>a. La sera, quando era libero, andava<br />

al Circolo degli ufficiali, dove giocava volentieri. Quella volta era stato<br />

particolarmente sfortunato. Contro <strong>il</strong> suo carattere rigoroso si era lasciato<br />

prendere la mano. Un rapido conto gli aveva fatto scoprire, con terrore, che<br />

perdeva più, molto di più, di quanto avrebbe potuto pagare col suo stipendio.<br />

Di farsi prestare soldi, neanche parlarne. Prese una decisione diffic<strong>il</strong>e:<br />

“Gioco un’ultima mano, se perdo, mi brucio le cervella, se v<strong>in</strong>co, non tocco<br />

mai più una carta <strong>in</strong> vita mia”. Per fortuna v<strong>in</strong>se, e visse. Così, quarantasei<br />

anni dopo, io nacqui. A Napoli, <strong>in</strong> casa: allora si usava così.<br />

Nonno Armando<br />

La casa era molto bella. Una specie di v<strong>il</strong>la urbana, molto allungata, occupava<br />

tutto <strong>il</strong> lotto tra Corso Vittorio Emanuele (la lunga strada panoramica a<br />

mezza costa che attraversa Napoli da Mergell<strong>in</strong>a al Museo) e via Torquato<br />

Tasso (la strada che si arrampica verso la coll<strong>in</strong>a del Vomero). Due piani,<br />

più un importante scant<strong>in</strong>ato; un cort<strong>il</strong>etto ad un estremo, un microscopico<br />

giard<strong>in</strong>etto con una grande palma all’<strong>in</strong>crocio tra le due strade; entrambi<br />

racchiusi da un’alta cancellata di ferro verniciata di nero. Lì abitavano i miei<br />

nonni Salzano, mia zia Giann<strong>in</strong>a, i miei genitori: Mauro e Anna Diaz. Si erano<br />

sposati nel 1929, un anno dopo la morte di Armando.<br />

Sontuosi entrambi, i funerali e le nozze. Lo so dalle fotografie, perché io<br />

non c’ero ancora. Soprattutto <strong>il</strong> funerale. Mio nonno, oltre a v<strong>in</strong>cere la<br />

Grande Guerra (così ero stato abituato a pensare, e c’era del vero), era stato<br />

M<strong>in</strong>istro della Guerra nel primo Gab<strong>in</strong>etto Mussol<strong>in</strong>i, con l’ammiraglio<br />

Thaon de Revel (un altro “v<strong>in</strong>citore”) alla Mar<strong>in</strong>a M<strong>il</strong>itare. E poi, era “cug<strong>in</strong>o<br />

del Re”, poiché Maresciallo d’Italia e <strong>in</strong>signito del Gran Collare<br />

dell’Annunziata, la più alta onorificenza del Regno. Il trasporto funebre era


6 Edoardo Salzano<br />

un affusto di cannone (lo stesso sul quale era stato trasportato <strong>il</strong> M<strong>il</strong>ite Ignoto),<br />

tra<strong>in</strong>ato da otto cavalli neri. Dalla casa borghese di via Giambattista<br />

Vico 1, su Piazzale Flam<strong>in</strong>io, dove abitava, <strong>il</strong> corteo lo condusse prima alla<br />

vic<strong>in</strong>a chiesa di Santa Maria del Popolo, dove si svolse la cerimonia funebre,<br />

poi all’Altare della Patria a Piazza Venezia, dove si diedero <strong>il</strong> cambio per vegliarlo<br />

i grandi decorati di tutte le armi, poi <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e a Santa Maria degli Angeli<br />

dove, <strong>in</strong> una speciale tomba <strong>in</strong> marmo di Verona scavata nel pavimento della<br />

chiesa e contornata da una balaustra di ferro, fu <strong>in</strong>f<strong>in</strong>e racchiuso <strong>il</strong> suo<br />

corpo imbalsamato.<br />

Era molto popolare mio nonno. Lo è ancora, non foss’altro che per <strong>il</strong> Bollett<strong>in</strong>o<br />

della Vittoria, <strong>il</strong> proclama con <strong>il</strong> quale annunciò la disfatta generale<br />

dell’armata austriaca sul fronte orientale, <strong>il</strong> 4 novembre 1918. Il Bollett<strong>in</strong>o<br />

(che mi toccò imparare a memoria) è affisso ancora oggi <strong>in</strong> marmo o <strong>in</strong><br />

bronzo <strong>in</strong> moltissimi municipi grandi e piccoli, <strong>in</strong> tutte le caserme e nelle<br />

numerose scuole che portano <strong>il</strong> suo nome. Era popolare allora non solo<br />

perché aveva v<strong>in</strong>to la guerra, ma anche perché <strong>il</strong> suo carattere aveva fatto di<br />

lui un capo amato dai soldati tanto quanto Cadorna, che l’aveva preceduto<br />

nel Comando Supremo, era odiato.<br />

A differenza di Cadorna, rigido e severo ufficiale di chiusa, e forse un po’<br />

ottusa, obbedienza piemontese, <strong>il</strong> giovane generale Diaz curava con molta<br />

attenzione <strong>il</strong> “fattore umano”. Forse anche perché era napoletano, di antica<br />

prosapia spagnola (i suoi avi erano sbarcati nella capitale del Sud nel XVII<br />

secolo con Carlo III di Borbone), e qu<strong>in</strong>di abituato a temperare la severità<br />

tipica dell’ufficiale con la bonomia tradizionale dei governanti meridionali.<br />

A Cadorna, noto per la severità con la quale aveva comandato la fuc<strong>il</strong>azione<br />

dei soldati <strong>in</strong> fuga durante la disfatta di Caporetto, era subentrato <strong>il</strong> napoletano<br />

Diaz che raccomandava ai soldati (come mi raccontava nonna Sara) di<br />

acquattarsi durante i bombardamenti nelle buche delle granate perché <strong>il</strong> calcolo<br />

delle probab<strong>il</strong>ità le suggeriva come luogo più sicuro. All’attenzione alle<br />

condizioni del morale dei soldati, come alla capacità di lavoro collegiale e<br />

alla <strong>il</strong>lum<strong>in</strong>istica razionalità con la quale affrontava i problemi si deve, secondo<br />

gli storici, la sua capacità di ribaltare <strong>in</strong> un anno la sconfitta di Caporetto.<br />

Insomma, dopo la guerra era popolare: lo era di per sé, e lo era perché alla<br />

Real Casa (come più tardi al Fascio) conveniva ut<strong>il</strong>izzare la sua immag<strong>in</strong>e<br />

come elemento di coesione sociale e come lustro dell’unità della nazione, <strong>in</strong><br />

quel periodo attraversata dalle tensioni del “sovversivismo”. Dopo la firma<br />

del Trattato di Versa<strong>il</strong>les fu ut<strong>il</strong>izzato anche per consolidare <strong>il</strong> prestigio del<br />

Regno all’estero: fece un giro ufficiale <strong>in</strong> numerosi paesi stranieri, dai quali


La lunga <strong>in</strong>fanzia 7<br />

riportò cimeli che, anni dopo, colpivano la mia fantasia di bamb<strong>in</strong>o: Ricordo<br />

soprattutto uno splendido costume di cuoio di capo Pellirosse con un<br />

lungo diadema di piume di avvoltoio, che <strong>in</strong>dossava <strong>in</strong> una fotografia <strong>in</strong> cui<br />

scambiava <strong>il</strong> calumet della pace con un capo autentico, della tribù dei<br />

Crows.<br />

Non lo conobbi, né avrei potuto: era morto da due anni quando sono nato.<br />

Me ne raccontava mia nonna, Sara De Rosa, napoletana anche lei. È lei che<br />

mi raccontò della scommessa al gioco (“da allora non mi ha aiutato neppure<br />

a raccogliere le carte del solitario”, mi diceva), e di qualche altro aneddoto<br />

della loro vita. La prima sc<strong>in</strong>t<strong>il</strong>la del loro amore scoccò forse a Portici, nel<br />

“miglio d’oro” alle pendici del Vesuvio, dove la famiglia di nonna Sara andava<br />

<strong>in</strong> v<strong>il</strong>leggiatura. Un giorno, alzatisi dopo <strong>il</strong> pranzo nel corso del quale<br />

Sara aveva dovuto contenersi (non era bene che le signor<strong>in</strong>e di buona famiglia<br />

mostrassero appetito), Armando la scorse, dalla f<strong>in</strong>estra a pianterreno<br />

della v<strong>il</strong>la, mentre mangiava uno splendido peperone ripieno. “Buon appetito,<br />

donna Sara”, pare le abbia detto scherzosamente rimproverandola.<br />

Nonno Armando <strong>in</strong> una<br />

fotografia dei primi del secolo<br />

XX<br />

Nonno Armando, nonna Sara e zio Marcello<br />

a Napoli<br />

Nonno Armando dopo la Battaglia<br />

di Vittorio Veneto<br />

(1918)<br />

Certo è che tra i due c’era una grande <strong>in</strong>tesa. Memorab<strong>il</strong>i erano <strong>in</strong> famiglia le<br />

lettere che si scambiavano quando lui era al fronte, l’<strong>in</strong>telligenza con la quale<br />

Sara lo consigliava e aiutava nei rapporti politici e <strong>in</strong> quelli di Corte. Non<br />

ricordo che mi abbiano parlato molto di questo, però. Forse perché ero<br />

bamb<strong>in</strong>o (nonna Sara morì quando avevo sedici anni). O forse perché, essendo<br />

bamb<strong>in</strong>o, ricordavo solo le storielle che mi <strong>in</strong>teressavano. Come<br />

quella, che mi dava molto gusto, della pesca a Corte. Quando si mangiava


8 Edoardo Salzano<br />

alla tavola del Re (allora regnava Vittorio Emanuele III), appena <strong>il</strong> sovrano<br />

aveva term<strong>in</strong>ato <strong>il</strong> suo pasto nessuna forchetta, coltello, cucchiaio, bicchiere<br />

potevano agitarsi: tutti dovevano concludere, e posare <strong>il</strong> tovagliolo. Sara<br />

Diaz De Rosa stava mangiando una bellissima pesca, cont<strong>in</strong>uò a sbucciarla<br />

(con forchetta e coltello, naturalmente), fulm<strong>in</strong>ata dagli occhi dei presenti.<br />

Se ne accorse, arrossì, fece cadere le posate nel piatto. Il Re l’apostrofò sorridendo:<br />

“Cont<strong>in</strong>ui pure, donna Sara, sarebbe peccato lasciare una pesca così<br />

bella”.<br />

Mia mamma era molto legata ai suoi genitori, come del resto i suoi fratelli<br />

Marcello e Irene. Ci teneva a ricordare che quando Armando fu colpito<br />

dall’<strong>in</strong>farto che lo condusse rapidamente alla morte fu lei a correre alla ricerca<br />

del sacerdote che gli diede l’estrema unzione. E mia nonna ricordò<br />

quell’evento regalando alla figlia una fotografia di Armando Diaz, a mezzo<br />

busto e <strong>in</strong> grande uniforme, racchiusa <strong>in</strong> una vistosa cornice d’ebano e tartaruga,<br />

attraversata da una scritta vergata a mano dalla sua larga grafia: “Ad<br />

Anna che nel momento supremo procurò a Lui l’aiuto div<strong>in</strong>o”.<br />

Napoli dalla mia f<strong>in</strong>estra<br />

Quella fotografia era sempre <strong>in</strong> evidenza, nella camera da letto di Anna Salzano<br />

Diaz, <strong>in</strong> tutte le case che abbiamo abitato. Bella era la camera della<br />

mamma, nella casa di Napoli. Occupava uno dei due angoli della casa volti<br />

verso <strong>il</strong> mare: l’altra, all’estremo opposto, era la camera dei nonni. Grande,<br />

lum<strong>in</strong>osa, sia per <strong>il</strong> damasco giallo con <strong>il</strong> quale era tappezzata, sia per le tre<br />

ampie f<strong>in</strong>estre sul golfo. La mia camera era quella accanto, e guardava sullo<br />

stesso panorama.<br />

Un panorama splendido, così come lo ricordo. E vedere Napoli oggi, confrontando<br />

la realtà attuale con quella della memoria, è una cosa che ogni<br />

volta mi fa soffrire. Intendiamoci, ancor oggi è bellissimo. L’ampio specchio<br />

di mare, concluso a occidente dalla penisola sorrent<strong>in</strong>a e dall’isola di<br />

Capri (entrambe azzurr<strong>in</strong>e nelle ore più calde della lunga stagione del sole e<br />

dell’azzurro; verdibrune di campagna, solcate dalle strad<strong>in</strong>e e dissem<strong>in</strong>ate<br />

dai bianchi granelli delle case lontane nelle ore nelle quali la visib<strong>il</strong>ità è maggiore;<br />

grigie e confuse con le galoppanti nuvole nei giorni delle tempeste<br />

d’<strong>in</strong>verno), sovrastato dalla mole bonaria del Vesuvio (che ricordo ancora<br />

con <strong>il</strong> pennacchio di fumo e, la notte, rosseggiante alla bocca per la lava eruttante),<br />

solcato dalle vele, dalle barche dei pescatori, dalle navi. La superficie<br />

delle acque cangiante nelle stagioni e nelle ore, sc<strong>in</strong>t<strong>il</strong>lante e screziata di


La lunga <strong>in</strong>fanzia 9<br />

sole nelle numerose belle giornate, oppure cupa e agitata nel grigiore delle<br />

nuvole trasc<strong>in</strong>ate dal vento, oppure ancora pesante e immob<strong>il</strong>e come una<br />

coltre azzurra sotto l’afa del solleone. Questo c’era allora, e c’è ancora. Forse<br />

un po’ più torbido, per l’<strong>in</strong>qu<strong>in</strong>amento dell’aria offuscata e avvelenata<br />

dallo smog urbano.<br />

Quello che non c’è più è la verdeggiante coll<strong>in</strong>a di Pos<strong>il</strong>lipo, protesa sul mare,<br />

allora appena punteggiata dalle sagome di qualche v<strong>il</strong>la e della Tomba di<br />

Sch<strong>il</strong>izzi (<strong>il</strong> mausoleo Virg<strong>il</strong>iano: una buffa costruzione grigia sormontata da<br />

una cupola). Quello che non c’è più è la campagna scoscesa di V<strong>il</strong>lanova, la<br />

costa che collega Pos<strong>il</strong>lipo alla coll<strong>in</strong>a del Vomero, alle spalle della nostra<br />

casa. Alle rare costruzioni che sottol<strong>in</strong>eavano <strong>il</strong> carattere agreste di quelle<br />

parti della città (la grande v<strong>il</strong>la Patrizi, la chiesetta di Sant’Antonio sopra<br />

Mergell<strong>in</strong>a, gli sparsi e radi casolari, le v<strong>il</strong>le signor<strong>il</strong>i di Pos<strong>il</strong>lipo), alla campagna<br />

coltivata di vigne e ortaggi, si sono sovrapposte le orrib<strong>il</strong>i costruzioni<br />

realizzate negli anni C<strong>in</strong>quanta e Sessanta dagli improvvidi distruttori del<br />

più bel paesaggio del mondo: pseudov<strong>il</strong>le, condom<strong>in</strong>i, palazz<strong>in</strong>e, viali e vialetti,<br />

muri di sostegno e muri di suddivisione dom<strong>in</strong>icale. Una squallida periferia<br />

progettata e realizzata con la medesima cultura rapace e cret<strong>in</strong>a che ha<br />

costruito le periferie delle tristi città di pianura: lì, seppellendo sotto i palazzi<br />

e le casette risaie abbandonate e terreni divenuti <strong>in</strong>colti “<strong>in</strong> attesa di valorizzazione<br />

ed<strong>il</strong>izia”; qui, a Napoli, dove la natura aveva sorriso per secoli,<br />

sommergendo ogni cosa sotto un succedersi di lottizzazioni di cui soltanto i<br />

nomi ricordavano, con devastante ironia, ciò che c’era prima: Parco Làmaro,<br />

Parco Comola, Parco Ottieri, si chiamavano e si chiamano ancora quegli<br />

<strong>in</strong>sediamenti parassiti.<br />

“Le mani sulla città” hanno distrutto per sempre (neanche Vezio De Lucia,<br />

assessore alla Vivib<strong>il</strong>ità nella giunta del s<strong>in</strong>daco Bassol<strong>in</strong>o tra <strong>il</strong> 1993 e <strong>il</strong><br />

1997, potrà restituirmelo) <strong>il</strong> paesaggio della mia <strong>in</strong>fanzia: lo hanno sepolto<br />

sotto una “repellente crosta di cemento e asfalto”, per adoperare le parole<br />

di Antonio Cederna. Della sua bellezza rimane <strong>in</strong> me, fortissimo, solo <strong>il</strong> ricordo,<br />

e naturalmente <strong>il</strong> rimpianto.<br />

La casa del Corso<br />

Era una grande casa. Dal cort<strong>il</strong>e posto a un capo del lotto si salivano una<br />

dozz<strong>in</strong>a di grad<strong>in</strong>i, <strong>in</strong> un ampio vano coperto a botte e, varcata una porta<br />

sorvegliata dal cameriere, si entrava <strong>in</strong> un grandissimo atrio che occupava<br />

un quarto dell’<strong>in</strong>tera superficie della casa. In fondo, una grande scala a tena-


10 Edoardo Salzano<br />

glia con r<strong>in</strong>ghiera di ferro battuto dorato e bronzeo portava al piano superiore.<br />

Il soffitto, sorretto da quattro grandi p<strong>il</strong>astri c<strong>il</strong><strong>in</strong>drici verniciati di<br />

marrone, era tappezzato di stoffa blu scuro. In fondo alla sala, al di là dello<br />

scalone, un bagno di marmo bianco e lo studio del nonno. L’atrio e lo studio<br />

occupavano quasi tutta la parete verso monte; quella verso <strong>il</strong> mare era<br />

occupata da una fuga di saloni: la sala da pranzo, con l’immenso tavolo f<strong>in</strong>to<br />

R<strong>in</strong>ascimento e grandi quadri di frutta e fiori; <strong>il</strong> fumoir, con <strong>il</strong> classico<br />

cam<strong>in</strong>etto f<strong>in</strong>to e le morbide poltrone di pelle; <strong>il</strong> salott<strong>in</strong>o veneziano verde e<br />

oro; <strong>in</strong> fondo, <strong>il</strong> grande salone da ballo, <strong>in</strong> st<strong>il</strong>e Luigi XIV bianco e oro. Accanto<br />

alla sala da pranzo, <strong>il</strong> “riposto” con <strong>il</strong> grande armadio delle stoviglie e<br />

<strong>il</strong> montacarichi che conduceva le portate dalla cuc<strong>in</strong>a.<br />

Non sempre noi piccoli (dopo di me, cadenzate di due anni, erano nate le<br />

mie sorell<strong>in</strong>e Litta e Germana) mangiavamo <strong>in</strong> sala da pranzo, e raramente<br />

frequentavamo i saloni: salvo che per Natale, quando l’Albero, circondato<br />

dai regali, troneggiava nel salone da ballo; oppure quando i genitori chiamavano<br />

qualcuno di noi a salutare gli ospiti, esibendoci nella canzone patriottica<br />

di turno. I luoghi a noi riservati, e quelli che potevamo usare correntemente,<br />

erano al piano di sopra. Ad un estremo della casa c’erano le stanze<br />

dei miei genitori: la grande camera di damasco giallo, la stanza da to<strong>il</strong>ette<br />

(con gli armadi a muro <strong>in</strong> st<strong>il</strong>e veneziano, la grande to<strong>il</strong>ette della mamma, <strong>il</strong><br />

sofà per le sedute di bellezza), <strong>il</strong> grande bagno, lo studio di mio padre.<br />

All’altro estremo, l’appartamento dei nonni e di zia Giann<strong>in</strong>a. Al centro, <strong>in</strong><br />

corrispondenza del vano della scala e del ballatoio che la fiancheggiava, le<br />

nostre stanze. Sul lato a monte della casa, <strong>il</strong> guardaroba, <strong>il</strong> nostro bagno, un<br />

cuc<strong>in</strong><strong>in</strong>o.<br />

Ma ciò che soprattutto mi affasc<strong>in</strong>ava era lo scant<strong>in</strong>ato. Una piccola scala, a<br />

fianco di quella pr<strong>in</strong>cipale, conduceva nel vasto dom<strong>in</strong>io condiviso da nonna<br />

Carmela, dal cuoco Luigi Massaro e da Nann<strong>in</strong>a, protetta e confidente<br />

della nonna. Mitico era per me don Luigi. Ogni volta che uscivo gli lanciavo<br />

uno sguardo e un saluto dalle f<strong>in</strong>estre <strong>in</strong>ferriate a f<strong>il</strong>o di marciapiede. Piccolo<br />

di statura, asciutto, grigio di capelli, sovrastato dal l’alto cappello immacolato<br />

regnava, aiutato da uno sguattero, nella grande cuc<strong>in</strong>a: sull’immenso tavolo<br />

di marmo tagliava, batteva, impastava, scorticava, sventrava, disossava,<br />

farciva; nell’acquaio di marmo lavava le verdure, i pesci, le carni; f<strong>in</strong>almente,<br />

sui numerosi fuochi del lungo piano di cottura, alimentato dalla brace sempre<br />

rosseggiante, amm<strong>in</strong>istrava le pentole mescolando e agitando, scoperchiando,<br />

assaggiando, aggiungendo sapori e odori, spostando dal fuoco più<br />

vivo (là dove <strong>il</strong> piano di ghisa della cuc<strong>in</strong>a si apriva sul fuoco) ai luoghi più<br />

lontani dal fuoco. Un maestoso mortaio di marmo, appoggiato al suo tre-


La lunga <strong>in</strong>fanzia 11<br />

spolo di legno massiccio, subiva i colpi del pesante pestello sbattuto dallo<br />

sguattero di turno per preparare le scorte di pangrattato, oppure per pestare<br />

la bianca carne di pollo con la quale, mischiandola con una densa béchamel,<br />

venivano preparate a bagnomaria le ch<strong>in</strong>elle di pollo, la mia pietanza preferita.<br />

Era un cuoco d’alto lignaggio, don Luigi. Era stato chef sui transatlantici, e<br />

dalle lontane terre oltre oceano aveva riportato un pappagallo, di nome Loreto.<br />

Non abitava da noi. La sua casa, che divideva con la moglie e con Loreto,<br />

era sul Corso, più avanti, verso la fermata della Ferrovia Cumana. Ma<br />

spesso, prima di tornare a casa, si fermava nel cort<strong>il</strong>e a fumare una sigaretta<br />

con <strong>il</strong> cameriere o con l’autista. Allora poteva essere <strong>in</strong>terpellato, ed emanava<br />

massime piene di saggezza. “Don Luigi, come f<strong>in</strong>isce la guerra, chi v<strong>in</strong>cerà?”<br />

gli chiesi <strong>in</strong> un’estate del luglio 1941. “Signuri’, tra i v<strong>in</strong>ti non ci saranno<br />

i v<strong>in</strong>citori”. La Sib<strong>il</strong>la cumana non avrebbe potuto essere più ab<strong>il</strong>e.<br />

La casa di Corso Vittorio Emanuele 130,<br />

angolo Via Tasso<br />

I coloni e Vicienzo Ucciero<br />

La cuc<strong>in</strong>a, e la nostra golosità, erano alimentate dalle cant<strong>in</strong>e, altra componente<br />

essenziale dello scant<strong>in</strong>ato. Occupavano la parte verso monte. Chiuse<br />

da pesanti cancelli, Nonna Carmela le apriva e chiudeva con un gigantesco<br />

mazzo di chiavi che le pendeva alla c<strong>in</strong>tola. Non so bene che cosa ci fosse:<br />

ricordo solo le forme, grandi e piccole, di rossa e trasparente cotognata, che<br />

profumava i primi mesi dell’<strong>in</strong>verno, i formaggi, le bottiglie nelle rastrelliere,<br />

i mucchi di patate, i grandi barattoli dalla bocca tappata con la carta oleata e<br />

lo spago. E ricordo come le cant<strong>in</strong>e venivano approvvigionate.


12 Edoardo Salzano<br />

Due volte all’anno arrivavano, sui barrocci o a piedi col carretto o <strong>il</strong> mulo, i<br />

contad<strong>in</strong>i che conducevano a colonìa parziaria le numerose proprietà del<br />

nonno: piccoli appezzamenti di fert<strong>il</strong>e orto o frutteto nei paesi conf<strong>in</strong>anti<br />

(Afragola, Casoria, Giugliano, Qualiano, Vico di Pantano), per l’uso dei<br />

quali i coloni pagavano un canone (l’estaglio) corrisposto parte <strong>in</strong> moneta e<br />

parte <strong>in</strong> natura. Varcata la porta di servizio le coppie di dividevano: l’uomo<br />

andava su, nello studio, dove don Ach<strong>il</strong>le Di Santo, aiutante di nonno Eduardo,<br />

ragioniere e contab<strong>il</strong>e, riempiva di m<strong>in</strong>uta grafia <strong>il</strong> grande registro<br />

annotando la quantità di banconote rossicce che i coloni estraevano da logori<br />

portafogli e dai penetrali della biancheria, e i prodotti affluiti nelle cant<strong>in</strong>e.<br />

Qui nonna Carmela e Nann<strong>in</strong>a ricevevano le donne, e contavano e sistemavano<br />

le gall<strong>in</strong>e, i capponi e i tacch<strong>in</strong>i collocandoli <strong>in</strong> una grande stia, i<br />

sacchi di fagioli, di grano e granturco, le pannocchie, i conigli (che venivano<br />

subito trasferiti alle competenze di don Luigi), le cassette di pomodori, melanzane,<br />

peperoni, carote, sedani, cavolfiori, teste d’aglio, cotogne, mele annurche<br />

e renette.<br />

Un personaggio importante era Vicienzo Ucciero, mezzadro di Vico di Pantano.<br />

Era la più grande delle nostre proprietà: due o trecento ettari di palude,<br />

tra <strong>il</strong> Volturno e <strong>il</strong> Lago Patria. Luogo di grandi cacciate (ricordo le fotografie<br />

dove alcuni massicci signori baffuti, con lunghi schioppi, esibivano<br />

coll<strong>in</strong>e di uccelli più piccoli e sorreggevano ghirlande di anatre e altre specie<br />

commestib<strong>il</strong>i), e di bufale. Vicienzo era <strong>il</strong> bufalaro. Sempre con la febbre<br />

terzana, amm<strong>in</strong>istrava bufale, mucche e qualche moggio (tre moggi sono un<br />

ettaro) di campagna coltivata a fagioli e ortaggi. Aveva anche un grande<br />

pozzo nel quale andavano a mangiare i conigli: vi si gettavano dall’alto carote<br />

e altre golosità; poi, quando serviva, si calavano le piccole sarac<strong>in</strong>esche<br />

che chiudevano le gallerie dalle quali i conigli entravano e uscivano, e si sceglieva<br />

quello da cuc<strong>in</strong>are, o la coppia da dare alla Signora perché li portasse<br />

al Corso, nella stia dello scant<strong>in</strong>ato.<br />

Non tutte le derrate venivano conservate a lungo. Davano luogo a conserve,<br />

oppure venivano consumate (subito o previa frollatura), oppure veleggiavano<br />

verso altri lidi. Avevano diritto a due capponi o a una dozz<strong>in</strong>a di<br />

polli, a mezzo sacco di fagioli o un paio di conigli, a un tacch<strong>in</strong>o o a un canestro<br />

di mozzarelle di bufala tutte le persone che durante l’anno avevano<br />

collaborato con la casa: i medici e <strong>il</strong> pediatra professor Franzì, <strong>il</strong> dentista<br />

D’Ambrosio e le sarte Buonanno, la maestra privata signora Mart<strong>in</strong>i e la<br />

manicure della mamma, l’<strong>in</strong>fermiera che veniva a fare le <strong>in</strong>iezioni e la signora<br />

Crisafo che m’<strong>in</strong>segnava <strong>il</strong> francese, le sorelle La Morte che venivano tutte<br />

le settimane a rammendare e sistemare i vestiti, e la stiratrice Felicetta.


La lunga <strong>in</strong>fanzia 13<br />

Quantità più sostanziose di prodotti venivano consegnate alle Piccole suore<br />

dei poveri, ai beneficati del parroco della chiesa dell’Arco Mirelli, alle Dame<br />

di San V<strong>in</strong>cenzo dei Paoli.<br />

La famiglia Salzano, di Casoria<br />

Era una famiglie benefica, ed era una famiglia ricca. Come lo era diventata?<br />

Il luogo d’orig<strong>in</strong>e dei Salzano era Casoria, un grosso borgo agricolo, dagli<br />

anni C<strong>in</strong>quanta <strong>in</strong>globato nella periferia, subito al di là dell’aeroporto di Capodich<strong>in</strong>o<br />

(una parte del quale fu costruito su terreni Salzano, <strong>in</strong>dennizzati<br />

dopo decenni di vertenze). Era probab<strong>il</strong>mente, f<strong>in</strong>o all’Ottocento, una famiglia<br />

di orig<strong>in</strong>e contad<strong>in</strong>a, i cui capifamiglia erano diventati mercanti o artigiani<br />

di campagna. Secondo i ricordi di zia Giann<strong>in</strong>a, produttori e mercanti<br />

di v<strong>in</strong>o. Borghesia laboriosa di campagna, ma già aperta a <strong>in</strong>teressi urbani: i<br />

fratelli Eduardo e Mattia, i prodotti migliori di una covata di sette tra fratelli<br />

e sorelle, furono mandati alla celebrata scuola napoletana dei Padri Barnabiti.<br />

Abitavano un dignitoso palazzo, costruito da un Mauro Salzano attorno<br />

alla prima metà dell’800 nella strada pr<strong>in</strong>cipale del grosso borgo agricolo.<br />

Senza abbandonare le loro radici paesane (<strong>il</strong> palazzo rimase loro f<strong>in</strong> dopo la<br />

Seconda guerra mondiale) all’<strong>in</strong>izio del nuovo secolo si trasferirono a Napoli;<br />

<strong>in</strong> un palazzo costruito da un Mauro o un Eduardo Salzano a via San<br />

Domenico Soriano, vic<strong>in</strong>o a Piazza Dante. Mio padre e sua sorella Sis<strong>in</strong>a,<br />

nati del 1902 e nel 1903, avevano visto i natali a Casoria, la nascita di Giann<strong>in</strong>a,<br />

nel 1907, era stata la prima a Napoli.<br />

L’artefice della fortuna della famiglia fu, all’<strong>in</strong>izio del secolo, <strong>il</strong> mitico Zio<br />

Mattia, fratello di Eduardo: <strong>in</strong>gegnere, ab<strong>il</strong>e imprenditore, col socio Gaetan<strong>in</strong>o<br />

D’Aniello (di una benestante famiglia di V<strong>il</strong>laricca, un altro borgo della<br />

campagna napoletana) mise su un’impresa di costruzioni specializzata <strong>in</strong> lavori<br />

di bonifiche e di grandi <strong>in</strong>frastrutture, nel Napoletano e <strong>in</strong> Puglia, nel<br />

Foggiano. Mattia morì di febbre spagnola nel 1918. Da allora degli affari di<br />

famiglia dovette occuparsi Eduardo.<br />

Mio nonno però non era tagliato per gli affari. Laureato <strong>in</strong> medic<strong>in</strong>a, esercitò<br />

la professione di chirurgo all’Ospedale dei Pellegr<strong>in</strong>i (una qualificata istituzione<br />

di beneficenza della nob<strong>il</strong>tà napoletana), dove divenne assistente del<br />

famoso chirurgo Caccioppoli, fratello del grande matematico Renato. Ma la<br />

chirurgia era un’attività sociale e benefica: <strong>il</strong> reddito, e la pr<strong>in</strong>cipale occupazione,<br />

erano le terre e l’impresa.


14 Edoardo Salzano<br />

In vacanza, Eduardo portava la famiglia soprattutto a Capri, isola frequentata<br />

dalla famiglia Salzano f<strong>in</strong> da prima della guerra 1914-1918. Abitavano<br />

all’Hotel Quisisana. Invece la famiglia Diaz (anche Armando era <strong>in</strong>namoratissimo<br />

di Capri) affittava una v<strong>il</strong>la. Lì le due famiglie si conobbero: le bamb<strong>in</strong>e<br />

Giann<strong>in</strong>a, Sis<strong>in</strong>a, Irene e Anna esploravano le campagne e le mar<strong>in</strong>e di<br />

una Capri frequentata solo da pochi turisti come Turgeniev e Gorki, e dai<br />

soci dei circoli nautici che si sp<strong>in</strong>gevano f<strong>in</strong> lì nelle gite con <strong>il</strong> cutter. A volte<br />

andavano <strong>in</strong> montagna, soprattutto a Cort<strong>in</strong>a d’Ampezzo, dove diventarono<br />

amici di Alberto P<strong>in</strong>cherle, poi noto come Moravia. Le leggende fam<strong>il</strong>iari lo<br />

raccontano <strong>in</strong> flirt con zia Giann<strong>in</strong>a.<br />

Non ricordo molto di nonno Eduardo. La sua presenza gioviale e vociante,<br />

<strong>il</strong> suo affetto ruvido ed espansivo, i suoi munifici regali e <strong>il</strong> suo spiccato accento<br />

napoletano (dal quale la mamma mi teneva lontano, per evitare che<br />

<strong>in</strong>flessioni poco eleganti <strong>in</strong>qu<strong>in</strong>assero <strong>il</strong> mio eloquio <strong>in</strong> formazione) mi accompagnarono<br />

solo f<strong>in</strong>o ai miei c<strong>in</strong>que anni. Nel 1935 un colpo apoplettico<br />

lo portò via all’improvviso.<br />

Con Nonno Eduardo.<br />

Nel cort<strong>il</strong>etto di Corso Vittorio Emanuele<br />

Non ricordo i suoi funerali: forse i bamb<strong>in</strong>i non vi erano ammessi. Furono<br />

certo grandiosi. Dovette accompagnarlo una vastissima corte di persone dei<br />

ceti più diversi, legate al suo ricordo (e ai suoi redditi) dalla sua trasbordante<br />

generosità. La sua morte concluse una fase della vita della famiglia e ne aprì<br />

un’altra, posta sotto un diverso segno: non <strong>il</strong> corno ridondante


La lunga <strong>in</strong>fanzia 15<br />

dell’abbondanza e del fasto, del lusso e della generosità scialona, ma la b<strong>il</strong>ancia<br />

della parsimonia, la severità dignitosa di un benessere difeso con accortezza<br />

e, quando le vicende della Storia lo richiedevano, con sacrifici e r<strong>in</strong>unzie.<br />

I miei genitori<br />

F<strong>in</strong>o alla morte di nonno Eduardo suo figlio Mauro, mio padre, non aveva<br />

lavorato. Il nonno l’aveva tenuto lontano dagli affari. I miei genitori dovevano<br />

seguire le loro <strong>in</strong>cl<strong>in</strong>azioni (vere o presunte che fossero) al divertimento<br />

e al lusso. Laureato <strong>in</strong> giurisprudenza, Maur<strong>in</strong>o aveva ottenuto la libera<br />

docenza con alcuni studi, pubblicati dall’editore Loffredo, sul Negozio giuridico<br />

e sulla Pubblica amm<strong>in</strong>istrazione. Il suo ruolo di r<strong>il</strong>ievo nella vita<br />

mondana aveva visto accrescere <strong>il</strong> suo splendore con <strong>il</strong> matrimonio con<br />

Anna Diaz, figlia del Duca della Vittoria e legata alla famiglia reale. Fascista<br />

come lo erano rapidamente diventati quelli della sua generazione e della sua<br />

classe, apparteneva a quella cerchia di persone che, senza esercitare direttamente<br />

<strong>il</strong> potere politico né quello economico, contribuivano però a costruirgli<br />

l’immag<strong>in</strong>e, a fornirgli la prima fascia del consenso, a formargli<br />

l’op<strong>in</strong>ione, la cultura, le parole. A formare una certa fronda, anche.<br />

L’aristocrazia napoletana gravitava <strong>in</strong>fatti sulla corte di Umberto di Savoia e<br />

della sua moglie Maria José, vic<strong>in</strong>a all’ala <strong>in</strong>tellettuale dei Ciano e dei Bottai.<br />

Il conf<strong>in</strong>e tra mondanità e impegno sociale era lab<strong>il</strong>e, seppure esisteva. Non<br />

so se contasse di più, nella sua vita e nel ruolo sociale, la sua carica di Presidente<br />

dell’Opera nazionale bal<strong>il</strong>la di Napoli, o <strong>il</strong> suo carisma di spadacc<strong>in</strong>o,<br />

baller<strong>in</strong>o, velista, dirigente di mitici circoli nautici, oppure le feste che, con<br />

la mamma, organizzava nella casa del Corso o a V<strong>il</strong>la Diaz.<br />

Mammà era sempre <strong>il</strong> centro delle feste e dei salotti. Spiritosa, br<strong>il</strong>lante, elegante:<br />

era davvero “molto chic”. Aveva dei bellissimi capelli castani con<br />

sfumature rosse, che ravvivava con l’henné. Amica f<strong>in</strong> da piccola dei Salzano,<br />

temeva però che <strong>il</strong> dialetto napoletano, correntemente adoperato da<br />

nonno Eduardo, corrompesse la mia l<strong>in</strong>gua. E non le piaceva che, quando<br />

andavo a salutare nonna Carmela, lei mi prendesse nel letto.<br />

Erano una coppia molto bella, e avevano moltissimi amici: G<strong>in</strong>o e Did<strong>in</strong>a<br />

Santas<strong>il</strong>ia (abitavano <strong>in</strong> un bellissimo palazzo a Piazza dei Martiri), la “Baronne”<br />

Anna Ricciardi, Gigione (che mi cantava: “O capitan, c’è un uomo<br />

<strong>in</strong> mezzo al mare”), i più anziani Marcello Or<strong>il</strong>ia (arbiter elegantiarum: ord<strong>in</strong>ava<br />

le camicie a dozz<strong>in</strong>e a Londra, dove andava ogni anno per aggiornare


16 Edoardo Salzano<br />

<strong>il</strong> guardaroba), Ettore Ricciardi, i baroni di feudi calabresi Baracco e Compagna,<br />

e tanti altri che costituivano la crema dell’aristocrazia napoletana. Il<br />

salotto della casa del Corso era frequentato, ma le feste più belle erano,<br />

d’estate, a V<strong>il</strong>la Diaz, al Vomero.<br />

V<strong>il</strong>la Diaz<br />

Un grande edificio bianco, immerso nel verde, con un giard<strong>in</strong>o che si concludeva<br />

con una lunga balaustra bianca aperta sul Golfo di Napoli. Così era<br />

la v<strong>il</strong>la che la Città di Napoli aveva donato al Generalissimo, dopo averne<br />

decretato <strong>il</strong> trionfo. (Per <strong>il</strong> vero, avevano deciso di regalargli una v<strong>il</strong>la a Pos<strong>il</strong>lipo,<br />

ma lui aveva preferito quella del Vomero). Era a cento metri di quota<br />

sopra la casa del Corso, probab<strong>il</strong>mente era <strong>in</strong> orig<strong>in</strong>e parte della più grande<br />

e famosa V<strong>il</strong>la Floridiana.<br />

Quando, d’estate, ci trasferivamo lassù (con i genitori, le sorell<strong>in</strong>e, le governanti),<br />

appena grandicello scendevo attraverso gli orti, i sentieri, le scalette e<br />

<strong>in</strong> dieci m<strong>in</strong>uti ero al Corso. Ricordo ancora <strong>il</strong> sapore dei pomodori colti al<br />

volo: un sapore scomparso, mai più ritrovato, cancellato dall’omologazione<br />

delle colture artificiosamente allontanate, con l’aiuto della chimica e dei teli<br />

di plastica, dalla natura e dal sito.<br />

Belle le feste a V<strong>il</strong>la Diaz, d’estate. Ricordo i grandi fuochi artificiali che le<br />

coronavano. Ricordo le signore che, accompagnate dalla mamma, venivano<br />

a vederci addormentati nei nostri lett<strong>in</strong>i. Erano feste alle quali erano certamente<br />

<strong>in</strong>vitati, e a cui partecipavano, <strong>il</strong> Pr<strong>in</strong>cipe ereditario Umberto di Savoia<br />

(che poi divenne Umberto II, <strong>il</strong> “re di maggio”) e la sua bella moglie<br />

alta e dagli occhi cerulei, Maria José.<br />

Per me V<strong>il</strong>la Diaz erano soprattutto i giochi estivi, nel grande giard<strong>in</strong>o. Pochi<br />

erano i miei amici, rare le loro visite. Ma mi divertivo molto a giocare<br />

con la terra dei vialetti e l’acqua che facevo colare dai rub<strong>in</strong>etti per<br />

l’irrigazione, costruendo col fango arg<strong>in</strong>i e canali. Mi divertivo ad arrampicarmi<br />

sui lecci dai tronchi rugosi, costruendomi dei rifugi dove mi nascondevo<br />

<strong>in</strong> attesa che mi chiamassero per la merenda o la passeggiata. E mi divertivo,<br />

quando ero più piccolo, con <strong>il</strong> Capitano Gamboni Mazzitelli.<br />

Così si chiamava l’<strong>in</strong>qu<strong>il</strong><strong>in</strong>o dell’ultimo dei tre piani della v<strong>il</strong>la, affittuario di<br />

zia Irene, sorella di mia mamma (a quest’ultima era toccato <strong>il</strong> piano di mezzo,<br />

e nonna Sara con zio Marcello, <strong>il</strong> terzo dei figli Diaz, occupava <strong>il</strong> piano<br />

rialzato e lo scant<strong>in</strong>ato). Capitano di lungo corso <strong>in</strong> pensione, molto vecchio<br />

(aveva probab<strong>il</strong>mente l’età che ho adesso che scrivo), era ab<strong>il</strong>issimo


La lunga <strong>in</strong>fanzia 17<br />

con gli attrezzi di falegname. Mi aveva costruito una daga e uno scudo, accuratamente<br />

verniciati, e altri attrezzi per guerreggiare. Ricordo che una volta,<br />

mentre duellavamo, si ferì a una mano e perse (così mi sembrò) molto<br />

sangue. Ne rimasi scosso, con un senso di colpa da cui provai di liberarmi<br />

ipotizzando che la causa fosse stata un temper<strong>in</strong>o che portava <strong>in</strong> tasca e che<br />

s’era <strong>in</strong>op<strong>in</strong>atamente aperto.<br />

Quando nonno Eduardo morì, mio padre dovette piombare nel faticoso<br />

mondo degli affari. Si scoprì che tutto era andato a rotoli. La crisi del 1929<br />

aveva picchiato duro, ma nonno Eduardo aveva cercato di nascondere e di<br />

aggiustare. L’<strong>in</strong>debitamento era molto consistente. Papà e nonna Carmela<br />

chiesero consigli autorevoli. Il livello di competenza più alto fu raggiunto<br />

consultando Raffaele Mattioli, <strong>il</strong> mitico banchiere e mecenate, fondatore<br />

della Banca Commerciale e dei Classici della letteratura italiana dell’Editore<br />

Ricciardi. Mattioli consigliò di dichiarare bancarotta, per tentar così di salvare<br />

qualcosa. Maur<strong>in</strong>o non volle. Gli sarebbe sembrato di tradire la memoria<br />

del padre, di sputtanarlo dopo morto. S’<strong>in</strong>caponì. Fece ogni sforzo per tacitare<br />

i debitori, vendendo quello che poteva e riprendendo l’attività<br />

dell’impresa. In poche settimane ricordo che i suoi capelli, da neri quali erano,<br />

diventarono grigi. Non aveva ancora quarant’anni.<br />

Le mie educatrici<br />

Ero un bamb<strong>in</strong>o molto perbene. Una bamb<strong>in</strong>aia di Olevano romano, balia<br />

Nunziata, quando ero piccolo, una governante tedesca, Schwester Maria<br />

Simon, dopo i c<strong>in</strong>que anni badavano alla mia pulizia, alla custodia, al nutrimento;<br />

sorvegliavano i miei giochi, mi accompagnavano a passeggiare o ai<br />

giard<strong>in</strong>etti. Una signora g<strong>in</strong>evr<strong>in</strong>a, madame Crisafo (aveva sposato un cuoco<br />

italiano) mi veniva a prendere <strong>il</strong> mercoledì pomeriggio e mi portava a spasso<br />

<strong>in</strong>segnandomi <strong>il</strong> francese. Frère Jaques e i libri di Madame de Ségur, con i<br />

libri della Scala d’oro, Struwelpeter (così si chiamava <strong>in</strong> tedesco Pier<strong>in</strong>o <strong>il</strong><br />

porcosp<strong>in</strong>o), le favole di Grimm, Perrault e La Fonta<strong>in</strong>e e le canzonc<strong>in</strong>e dei<br />

bamb<strong>in</strong>i tedeschi (mi commuoveva soprattutto Rosele<strong>in</strong> rot, un leed di<br />

Sch<strong>il</strong>ler e Schubert) sono stati i primi alimenti della mia cultura letteraria<br />

plur<strong>il</strong><strong>in</strong>gue.<br />

A queste donne era affidata anche la mia educazione sessuale. Ricordo balia<br />

Nunziata che mi puliva <strong>il</strong> pisell<strong>in</strong>o mentre mi faceva <strong>il</strong> bagno. Ricordo<br />

Schwester Maria quando <strong>il</strong> suo sguardo gelido e severo, dietro gli occhialetti<br />

sc<strong>in</strong>t<strong>il</strong>lanti bordati d’acciaio, mi rimproverava senza parole scoprendomi a


18 Edoardo Salzano<br />

masturbarmi. Ricordo madame Crisafo che denunciava <strong>il</strong> fatto che giocherellavo<br />

col sesso attraverso le tasche dei pantaloni, provocando la repressiva<br />

cucitura delle tasche.<br />

La mamma era vic<strong>in</strong>a (dormivo nella stanza accanto alla sua), ma lontanissima.<br />

La matt<strong>in</strong>a potevamo andare a salutarla, nel suo grande letto rivestito<br />

di damasco giallo, solo quando la suoneria di un apposito campanello collocato<br />

nella mia stanza veniva attivato dalla sua mano. La sera, veniva lei a salutarci<br />

quando tornava a casa, dai salotti che con papà frequentava. Buono e<br />

dolce era <strong>il</strong> suo profumo odoroso di mughetto, Arpége di Lanv<strong>in</strong>; gradevole<br />

e pungente l’odore dello smalto con cui curava le sue unghie, sdraiata sul<br />

canapè della to<strong>il</strong>ette. La severità di Schwester Maria era un prolungamento<br />

della sua, ma <strong>in</strong> lei c’era una morbida dolcezza che veniva concessa con<br />

prudenza ed ironia. Come capii più tardi, con troppa parsimonia rispetto al<br />

mio bisogno.<br />

Papà era più lontano, più esterno; probab<strong>il</strong>mente, anche più occupato. Era<br />

accanto alla mamma, ma <strong>in</strong> secondo piano. Mi sarebbe piaciuto seguirlo<br />

quando faceva (non so <strong>in</strong> che modo) <strong>il</strong> comandante dei Bal<strong>il</strong>la: ragazzi appena<br />

un po’ più grandi di me, che raramente <strong>in</strong>travedevo. Mi sarebbe piaciuto<br />

andare nella favolosa barca a vela che possedeva, la S<strong>il</strong>phea II, un<br />

cutter col fasciame di mogano <strong>il</strong> cui modell<strong>in</strong>o ammiravo (fu venduto dopo<br />

la crisi). Ma f<strong>in</strong>o ai c<strong>in</strong>que anni ero evidentemente troppo piccolo per queste<br />

cose e, dopo, la crisi doveva aver cambiato le abitud<strong>in</strong>i. Benché noi non<br />

ce ne fossimo accorti, la vita era diventata più seria, meno giocosa.<br />

Di balie e d’amore<br />

Dalle parole di balia Nunziata com<strong>in</strong>ciai a conoscere l’Amore. Compariva<br />

nelle canzonette che canterellava quando mi accompagnava ai giard<strong>in</strong>i<br />

(“Parlami d’amore, Mariù, tutta la mia vita sei tu...”), <strong>in</strong> carrozzella o <strong>in</strong> passegg<strong>in</strong>o,<br />

nelle chiacchiere che faceva con le altre bamb<strong>in</strong>aie, negli scherzi<br />

che facevano con noi. Non avevo ancora c<strong>in</strong>que anni quando mi <strong>in</strong>namorai<br />

di Giovanna Pignatelli, che ne aveva tre, andava ancora <strong>in</strong> carrozz<strong>in</strong>a e aveva<br />

dei lunghi boccoli biondi. Non fu un amore che durò a lungo. E non fu<br />

neppure ricambiato: questo, da allora, mi è successo abbastanza spesso. O<br />

almeno così ho pensato.<br />

Alludeva all’Amore anche Rita, la nipot<strong>in</strong>a di Nann<strong>in</strong>a, che qualche volta la<br />

zia, quando veniva da Casoria a Napoli per aiutare la nonna, portava con sé.


La lunga <strong>in</strong>fanzia 19<br />

Mi piaceva, Rita. Mi piaceva guardare le sue cosce sotto i vestiti, buttandomi<br />

per terra. E mi piaceva come cantava:<br />

È arrivato l’ambasciatore<br />

con le piume sul cappello<br />

È arrivato l’ambasciatore,<br />

a cavallo d’un cammello,<br />

Ha portato una letter<strong>in</strong>a<br />

dove scritto sta così,<br />

tu mi piaci, N<strong>in</strong>ì ti darò tutto <strong>il</strong> cuor<br />

è arrivato l’ambasciator.<br />

E ancora di più mi piaceva quando cantava:<br />

All’alba quando spunta <strong>il</strong> sole<br />

là nell’Abruzzo tutto l’or<br />

le prosperose campagnole<br />

discendono le valli <strong>in</strong> fior.<br />

Ma io, non sapendo che cosa fosse l’Abruzzo, capivo: La Nella bruzza tutto<br />

odor.<br />

Avevo sette od otto anni quando, un pomeriggio d’estate, mentre scendevo<br />

la lunga gradonata che dal Vomero conduceva al Corso Vittorio Emanuele,<br />

ebbi una improvvisa <strong>il</strong>lum<strong>in</strong>azione: compresi (o pensai) che l’Amore era <strong>il</strong><br />

pensiero centrale di tutti, uom<strong>in</strong>i e donne. Perché mi balenò così <strong>in</strong>tensamente<br />

questo pensiero? Non riesco a ricordare. Ma ricordo che mi colpì<br />

con l’evidenza di un profumo <strong>in</strong>tenso e <strong>in</strong>discutib<strong>il</strong>e: ebbi la sensazione di<br />

aver raggiunto una verità che f<strong>in</strong>o allora non avevo visto.<br />

Giochi<br />

Giocavo molto da solo: credo che questo capitasse spesso ai bamb<strong>in</strong>i per<br />

bene, che non fossero forniti di una banda di fratelli. Le sorell<strong>in</strong>e erano piccole<br />

ed erano femm<strong>in</strong>e: due buone ragioni per condurre vite completamente<br />

diverse. Ricordo, da piccolissimo, una grande cuc<strong>in</strong>a per bamb<strong>in</strong>i, con le<br />

provviste vere (lenticchie, past<strong>in</strong>a) portate da don Luigi, forse premio di<br />

consolazione dopo qualche malattia. Ricordo un cannone rosso, con le ruote,<br />

molto bello, ma non sparava. Ricordo una sciabola di latta e un cappello<br />

da bersagliere, sotto l’albero di Natale del 1934 e, alla Pasqua dell’anno successivo,<br />

una bellissima bicicletta rossa che mi regalò zio Marcello, fratello<br />

della mamma. Ricordo una macch<strong>in</strong>etta che, mossa da uno stantuffo premuto<br />

dal pollice, emetteva tutte le sc<strong>in</strong>t<strong>il</strong>le che una pietra focaia può produrre,<br />

e riusciva a <strong>il</strong>lum<strong>in</strong>are gli angoli bui della stanza.


20 Edoardo Salzano<br />

Era simpatico zio Marcello Diaz, Duca della Vittoria per eredità. Era un avventuroso.<br />

P<strong>il</strong>ota, volontario nella guerra d’Abiss<strong>in</strong>ia (io registravo su di una<br />

carta geografica, con bandier<strong>in</strong>e patriottiche, le città conquistate dalle Camicie<br />

nere), dove fu abbattuto riportando molte gloriose ferite, e nella guerra<br />

di Spagna. Poi si fece dare una concessione a Derna, <strong>in</strong> Somalia, dove coltivava<br />

banane. Arrivava sempre pieno di regali generosi e strani. Era quello<br />

che mi trattava più da grande, sia pure sfottendomi bonariamente.<br />

La domenica, zia Giann<strong>in</strong>a mi portava al Catechismo, dalle suore del Sacro<br />

Cuore, a piazza Amedeo. E tornando a casa mi comprava <strong>il</strong> Corriere dei<br />

Piccoli, che leggevo avidamente. Erano buffe le suore, <strong>in</strong>tabarrate nei veli<br />

neri, con le dita fredde che sporgevano dai mezzi guanti. Ed era buono <strong>il</strong><br />

caffellatte nelle grandi scodelle bianche, e <strong>il</strong> pane e cioccolata che ci davano<br />

dopo la comunione.<br />

F<strong>in</strong>o alla seconda elementare studiavo a casa. Veniva ogni matt<strong>in</strong>a la signora<br />

Mart<strong>in</strong>i, una volta alla settimana controllava i compiti e li correggeva, firmando<br />

le pag<strong>in</strong>e con la matita rossa o con quella blu. Al colore della firma<br />

corrispondeva l’entità del premio che mi dava <strong>il</strong> nonno: due lire per la firma<br />

rossa, c<strong>in</strong>que lire per la firma blu. Non mi divertiva studiare. Nella mia<br />

stanza c’era una scrivania costruita apposta per me: un ripiano <strong>in</strong>cl<strong>in</strong>ato doveva<br />

contribuire a curare la scoliosi. Il ripiano era <strong>in</strong>cernierato <strong>in</strong> alto. Avevo<br />

preso l’abitud<strong>in</strong>e di appoggiare sotto <strong>il</strong> ripiano un libro d’avventure che<br />

leggevo <strong>in</strong>vece di studiare, pronto ad abbassare <strong>il</strong> piano se sentivo qualcuno<br />

avvic<strong>in</strong>arsi.<br />

Quando avevo f<strong>in</strong>ito di studiare mi era permesso di andare ai giard<strong>in</strong>etti, al<br />

di là della strada. Erano giard<strong>in</strong>etti privati, per gli ospiti dei due alberghi vic<strong>in</strong>i,<br />

<strong>il</strong> Britannique e <strong>il</strong> Parker, entrambi appartenenti a una famiglia svizzera,<br />

Löhliger. Avevano due figlie, S<strong>il</strong>via e Mirta. S<strong>il</strong>via era più grande di noi, mi<br />

piaceva molto, a lei dedicai i miei primi dormiveglia erotici. Il giard<strong>in</strong>etto del<br />

Parker fu <strong>in</strong> def<strong>in</strong>itiva <strong>il</strong> mio primo esperimento di socializzazione; guardie<br />

e ladri, nasconderella, e cerimonie rituali di impiccagione e squartamento<br />

delle bambole di Mirta erano i giochi consueti. A rivedere oggi quel giard<strong>in</strong>etto<br />

(poco più di un’aiuola, un po’ di alberi e qualche cespuglio) sembra<br />

<strong>in</strong>credib<strong>il</strong>e che per noi potesse essere un’arena così vasta.<br />

Quello che c’era fuori dalla casa e dal suo cort<strong>il</strong>etto, dal giard<strong>in</strong>etto del Parker,<br />

dalle passeggiate strettamente controllate e protette dalla balia, dalla<br />

Schwester o da madame Crisafo, era sconosciuto e rischioso. Anche affasc<strong>in</strong>ante,<br />

a volte: peccato che i bamb<strong>in</strong>i per bene non potessero attaccarsi al<br />

paraurti posteriore dei tram sferraglianti, e neppure far arrabbiare <strong>il</strong> conducente<br />

mettendo i fulm<strong>in</strong>anti tra ruota e rotaia oppure, addirittura, staccando


La lunga <strong>in</strong>fanzia 21<br />

<strong>il</strong> trolley e provocando l’arresto del tram. Neppure <strong>il</strong> “carruoccio” era permesso:<br />

quel carretto costruito con un rozzo pianale di legno, quattro cusc<strong>in</strong>etti<br />

a sfera come ruote (le due davanti montate su un asse <strong>in</strong>cernierato al<br />

pianale e comandato da una funicella a mo’ di timone), con <strong>il</strong> quale si lanciavano<br />

<strong>in</strong> spericolate corse lungo le discese, tra i carri e le automob<strong>il</strong>i.<br />

Gli amici<br />

Uno di quelli con cui giocavo di più era mio cug<strong>in</strong>o Luigi. Aveva esattamente<br />

un anno più di me. Figlio di zia Sis<strong>in</strong>a (sorella di mio padre) e del colonnello<br />

Franz Carignani, veniva da noi per lunghi pomeriggi. Mi sembrava che<br />

la merenda fosse più buona quando veniva lui: forse perché era consentito<br />

scegliere, tra lo sciroppo d’amarena e quello d’orzata. A volte facevamo giochi<br />

tranqu<strong>il</strong>li, con i soldat<strong>in</strong>i o con le carte, a volte facevamo lotte furibonde,<br />

nelle quali generalmente v<strong>in</strong>ceva lui: <strong>il</strong> combattimento cessava quando<br />

riusciva a <strong>in</strong>f<strong>il</strong>armi sotto al letto, oppure quando entrava <strong>in</strong> camera la<br />

Schwester.<br />

Diventati un poco più grandi <strong>in</strong>ventammo un gioco bellissimo. Si giocava<br />

con le fiches, la base era <strong>il</strong> gioco “pulce”: sp<strong>in</strong>gendo con una fiche sul bordo<br />

di un’altra, questa saltava: se copriva per un pezzo quella dell’avversario<br />

quest’ultima era “morta”. Avevamo perfezionato molto <strong>il</strong> gioco. Grandi<br />

battaglie avvenivano tra eserciti contrapposti: uno era arroccato <strong>in</strong> cittadelle<br />

formate da f<strong>il</strong>e di libri accortamente disposti, l’altro attaccava. Un grande<br />

foglio a quadretti, sul quale era tracciata una carta geografica (le città, le<br />

strade, gli stati contrapposti), conteneva la strategia. Un quadernetto riportava<br />

le posizioni e la consistenza degli eserciti. La prima parte del gioco avveniva<br />

con i dadi; contando i quadrat<strong>in</strong>i: gli eserciti avanzavano, f<strong>in</strong>o allo<br />

scontro, che avveniva con le fiches tra i libri. La guerra “vera” e gli sfollamenti<br />

ci impedirono di proseguire quel bellissimo gioco. (Più tardi qualcun<br />

altro lo re<strong>in</strong>ventò, e brevettò <strong>il</strong> gioco Risiko).<br />

Un altro che veniva spesso a giocare (ma divertimenti più semplici e tradizionali)<br />

era Luigi Rod<strong>in</strong>ò, dei Rod<strong>in</strong>ò di Migliore. Non mi piaceva molto,<br />

mi sembrava un po’ troppo melenso e “perbene”. Eppure rimasi malissimo<br />

quando, correndo sulla grande terrazzona che copriva la casa, sbatté con la<br />

gola contro un f<strong>il</strong>o per stendere la biancheria. Le bamb<strong>in</strong>aie lo raggiunsero<br />

subito; con mio sollievo, aveva riportato solo una escoriazione.<br />

Era bellissima la terrazza. Copriva l’<strong>in</strong>tera casa, qu<strong>in</strong>di era grandissima. Tutta<br />

pavimentata di piastrelle esagonali bianche e rosse, circondata da una ba-


22 Edoardo Salzano<br />

laustra di ferro nero <strong>in</strong>tercalata da p<strong>il</strong>astr<strong>in</strong>i sui quali fioriere di terracotta<br />

ospitavano qualche pianta. Di lì vedevo, nella casa vic<strong>in</strong>a e più bassa, al di là<br />

del cort<strong>il</strong>etto, giocare dei bamb<strong>in</strong>i più ricchi di me di amici e di feste giocose.<br />

Un giorno lanciai loro dei sassi, non per offendere ma per richiamare la<br />

loro attenzione. L’<strong>in</strong>tenzione fu compresa. Com<strong>in</strong>ciò uno scambio di soldat<strong>in</strong>i,<br />

con una teleferica di fortuna che Vittorio De Feo (così si chiamava <strong>il</strong><br />

più grande dei due fratelli vic<strong>in</strong>i) <strong>in</strong>dustriosamente costruì.<br />

Diventammo molto amici con Vittorio. Aveva un anno più di me. Tentammo<br />

(avevo ormai dieci anni) dei piccoli commerci: cercavamo di vendere<br />

al mio cuoco foglie di bas<strong>il</strong>ico, senza molto successo. Più arditamente,<br />

fondevamo soldat<strong>in</strong>i di piombo che versavamo <strong>in</strong> un ditale, costruendo pallottole<br />

che, dalla loggetta sullo scalone di casa mia, lanciavamo sulla zucca<br />

pelata di Ottavio, <strong>il</strong> cameriere. Il quale un giorno s’arrabbio, acchiappò Vittorio<br />

e m<strong>in</strong>acciò di metterlo nella vasca <strong>in</strong>naffiandolo d’acqua fredda.<br />

A mare<br />

A volte, d’estate, quando stavamo <strong>in</strong> città ci portavano al mare. Ricordo <strong>il</strong><br />

viaggio verso Lucr<strong>in</strong>o, una grande spiaggia pulitissima e deserta, subito al di<br />

là della coll<strong>in</strong>a di Cuma. Percorrevamo a piedi un pezzo del Corso, fermandoci<br />

dalla drogheria St<strong>in</strong>ca a comprare le caramelle, e raggiungevamo, subito<br />

dopo la casa di Luigi Massaro, la stazione della ferrovia Cumana. Era divertente<br />

guardare dal f<strong>in</strong>estr<strong>in</strong>o <strong>il</strong> paesaggio prima urbano poi, dopo Pozzuoli,<br />

aperto sulla Baia. Come tutti i bamb<strong>in</strong>i, raccoglievamo conchiglie, facevamo<br />

i castelli di sabbia, prendevamo <strong>il</strong> bagno nelle ore stab<strong>il</strong>ite e ci facevamo<br />

asciugare dai grandi lenzuoli a spugna. Più tardi, su quella spiaggia fecero<br />

arrivare la grande cloaca che portava i liquami delle fogne napoletane.<br />

Qualche volta andavamo a V<strong>il</strong>la Pavoncelli, a Pos<strong>il</strong>lipo: un luogo dove sarei<br />

tornato spesso da grande. Era una v<strong>il</strong>la di amici. Una serie di scalette e corridoi<br />

umidi ci portava giù, alla spiaggetta contenuta tra <strong>il</strong> muro di sostegno<br />

della v<strong>il</strong>la e una breve scogliera, nei cui anfratti, mormoravano, si celavano<br />

grandi “ranci felloni”. Lì Schwester Maria mi <strong>in</strong>segnava a nuotare, con teutonica<br />

regolarità. Indossava un costume olimpionico, tutto d’un pezzo, nero.<br />

Al polso conservava l’orologio. All’ora giusta scendevamo <strong>in</strong> acqua,<br />

nuotavamo con lente bracciate per un numero stab<strong>il</strong>ito di m<strong>in</strong>uti, poi tornavamo<br />

<strong>in</strong>dietro.<br />

Noi bamb<strong>in</strong>i stavamo <strong>in</strong> un angolo della spiaggia. Altrove, sulla sabbia e sulla<br />

scogliera, chiacchieravano e giocavano i grandi, salutavano festosi gli ami-


La lunga <strong>in</strong>fanzia 23<br />

ci che arrivavano a nuoto buttandosi dalla barca a vela giunta dal Circolo, si<br />

cimentavano <strong>in</strong> grandi gare di palla a nuoto - nelle quali, come al solito, mia<br />

mamma eccelleva.<br />

Alcune volte, quando ero ormai più grandicello, mammà mi portava a v<strong>il</strong>la<br />

D’Avalos. Lì non c’era spiaggia: una banch<strong>in</strong>a di cemento, e scogli. Meno<br />

bamb<strong>in</strong>i, più giovanotti e ragazze. I D’Avalos erano una famiglia colta,<br />

grandissimi appassionati di musica. Francesco, un ragazzo mio coetaneo,<br />

diventò più tardi un famoso direttore d’orchestra e compositore. Ammiravo<br />

molto questo ragazzo che sapeva riconoscere autori e st<strong>il</strong>i diversi, valutare<br />

cantanti, parlare di opere e di s<strong>in</strong>fonie con i grandi.<br />

La scuola<br />

È solo dalla terza elementare che com<strong>in</strong>ciai a frequentare una scuola. Andavo<br />

al Pontano, la celebre scuola dei Gesuiti dalla facciata adornata dai busti<br />

di tutti gli <strong>il</strong>lustri frequentatori divenuti famosi, dove tornai più tardi, dopo<br />

la guerra, per <strong>il</strong> liceo. Altre due classi le feci alla Ravaschieri, una scuola<br />

pubblica. Non ho conservato molto di quelle esperienze. Frequentavo solo i<br />

bamb<strong>in</strong>i per bene come me, con i quali ci vedevamo fuori, ma seguendo<br />

complicati rituali: non ci s’<strong>in</strong>contrava casualmente, bisognava che ci fosse<br />

un <strong>in</strong>vito trasmesso dall’alto, dalle governanti o, addirittura, dai genitori.<br />

Alla Ravaschieri m’<strong>in</strong>namorai, naturalmente, della prima della classe, la bellissima<br />

Richetti. Anche lei alimentò i miei sogni erotici. Una volta temetti di<br />

averle fatto seriamente male: l’avevo colpita con un rotol<strong>in</strong>o di carta lanciato<br />

con l’elastico (un gioco allora molto diffuso negli <strong>in</strong>tervalli della ricreazione)<br />

e <strong>il</strong> giorno dopo non era venuta a scuola: per mia colpa, pensai.<br />

Più tardi andai, per la prima media, all’Umberto I, una scuola grande e affollata.<br />

Non ricordo grandi amicizie. Ricordo <strong>il</strong> contad<strong>in</strong>o che, fuori dal cancello<br />

della scuola, vendeva fichi d’India con l’affollato gioco della “appizzata”:<br />

bisognava “appizzare” con un coltell<strong>in</strong>o spuntato, lasciato cadere<br />

dall’alto sulla cesta, un fico e sollevarlo portandolo fuori dalla cesta. Costava<br />

“un soldo semplice, quattro soldi cont<strong>in</strong>uata”: la “cont<strong>in</strong>uata” era praticata<br />

dai più esperti, potevi portar via tutti i fichi che riuscivi a sollevare f<strong>in</strong>o al<br />

primo errore. Credo di non aver mai giocato neppure la “semplice”.


24 Edoardo Salzano<br />

Il monumento a nonno Armando<br />

La V<strong>il</strong>la Diaz al Vomero, più <strong>in</strong> basso Casa Salzano al Corso. Prolungando<br />

verso <strong>il</strong> mare la l<strong>in</strong>ea ideale che congiunge questi due punti si tocca un terzo<br />

punto <strong>in</strong> Via Caracciolo. Lì c’è oggi <strong>il</strong> monumento ad Armando Diaz: una<br />

statua equestre posta su di un alto parallelepipedo di marmo bianco, su cui è<br />

scolpito <strong>in</strong> grandi caratteri <strong>il</strong> Bollett<strong>in</strong>o della Vittoria, firmato: “Armando<br />

Diaz, Duca della Vittoria”. Mi portarono con nonna Sara a vedere la fonderia,<br />

verso Poggioreale, nella quale si stava elaborando la grande statua: fuoco,<br />

fumo e odor di ferro fuso riempiono ancora le narici della mia memoria.<br />

L’<strong>in</strong>augurazione fu una grande cerimonia. In una fotografia rivedo nonna<br />

Sara e mamma, con ta<strong>il</strong>leur e cappell<strong>in</strong>i con la veletta nera, zia Giann<strong>in</strong>a con<br />

velo nero <strong>in</strong> lutto di nonno Eduardo, e me stesso (avevo sei anni), con eleganti<br />

pantalonc<strong>in</strong>i dalla piega ben stirata, camicia col collo tondo, g<strong>il</strong>et grigio<br />

e giacchetta sul braccio: doveva far caldo, quella matt<strong>in</strong>a, a Via Caracciolo.<br />

Signori <strong>in</strong> orbace e fez e m<strong>il</strong>itari <strong>in</strong> alta uniforme ci circondavano, e i bal<strong>il</strong>la<br />

facevano da picchetto d’onore.<br />

Anche a me fu imposta l’uniforme, più tardi. La divisa di Figlio della lupa la<br />

misi solo per casa. Ma quando frequentai le medie, all’Umberto I, era obbligatorio<br />

<strong>in</strong>dossare <strong>il</strong> sabato la divisa di Bal<strong>il</strong>la e andare alle adunate. Ricordo<br />

la scomodità delle doppie calze (i calzettoni lunghi, grigioverdi, senza piede<br />

e con la str<strong>in</strong>ga sotto, e i calz<strong>in</strong>i neri arrotolati, che scendevano sempre nelle<br />

scarpe) e della larga fascia elastica che sostituiva la c<strong>in</strong>ta (e lasciava sfuggire<br />

sempre l’orlo dei pantaloni), la noia delle lunghe e <strong>in</strong>ut<strong>il</strong>i attese (di che cosa?)<br />

nei piazzali assolati e polverosi. Fui anche, per un certo periodo, Mar<strong>in</strong>aretto,<br />

ma la cosa non era molto diverse: solo la divisa era più realistica:<br />

r<strong>in</strong>viava a un mestiere vero, <strong>il</strong> mar<strong>in</strong>aio.<br />

Selva di Val Gardena<br />

In vacanza andavamo a volte a Selva di Val Gardena. Era proprio bello. Ricordo<br />

l’aria pulita, lo scroscio dei torrentelli, l’<strong>in</strong>tenso profumo delle assi di<br />

abete sopra le quali giocavamo, le belle passeggiate sulle vic<strong>in</strong>e montagne, le<br />

fragole e le stelle alp<strong>in</strong>e che raccoglievamo. Mammà era bravissima, la<br />

chiamavamo “occhio di l<strong>in</strong>ce”, scopriva fragol<strong>in</strong>e saporitissime dove vedevamo<br />

solo distese di foglie, e stelle alp<strong>in</strong>e lontane dec<strong>in</strong>e di metri.<br />

Andavamo <strong>in</strong> treno, e dovevamo essere una bella comitiva: mammà, noi tre,<br />

la bamb<strong>in</strong>aia di turno, la cameriera della mamma. Quest’ultima si chiamava


La lunga <strong>in</strong>fanzia 25<br />

Iolanda, era friulana di Tarso. S’<strong>in</strong>namorò del post<strong>in</strong>o di Selva, Albert Mussner.<br />

Prima della guerra lasciò Napoli, sposò <strong>il</strong> suo Alberto <strong>il</strong> quale, oltre<br />

che <strong>il</strong> post<strong>in</strong>o, faceva l’<strong>in</strong>tagliatore di legno; era specializzato <strong>in</strong> aqu<strong>il</strong>e, e ne<br />

faceva di tre tipi: una guardava <strong>in</strong> avanti, una a destra e una a s<strong>in</strong>istra: sempre<br />

le stesse aqu<strong>il</strong>e, più grandi o più piccole, ma senza mai trasgredire dai<br />

modelli prescelti. Dopo aver concluso una lite con i parenti per ottenere un<br />

pezzo di terra, Iolanda costruì una casa <strong>in</strong> st<strong>il</strong>e friulano (gliela costruirono i<br />

fratelli). Era davvero bruttissima. Poiché com<strong>in</strong>ciavo ad essere spiritoso dicevo<br />

che era <strong>il</strong> più bel posto dove abitare, perché era l’unico punto della valle<br />

di Selva da cui non si vedesse V<strong>il</strong>la Iolanda.<br />

Una volta <strong>il</strong> nostro treno si fermò <strong>in</strong> una stazione sulla l<strong>in</strong>ea del Brennero,<br />

passava <strong>il</strong> treno speciale con <strong>il</strong> quale Mussol<strong>in</strong>i andava a Monaco per <strong>in</strong>contrare<br />

Hitler. Fu stipulato <strong>il</strong> patto con <strong>il</strong> quale gli anglofrancesi lasciavano<br />

mano libera a Hitler per rivolgere le sue truppe verso l’Oriente bolscevico.<br />

Eravamo alla vig<strong>il</strong>ia della seconda guerra mondiale: una guerra nella quale<br />

non c’era nessun nonno Armando a renderci vittoriosi.


26 Edoardo Salzano


La lunga <strong>in</strong>fanzia 27<br />

CAPITOLO SECONDO<br />

ACCANTO ALLA GUERRA<br />

Viva la guerra! E zia Giann<strong>in</strong>a mi rimprovera<br />

Avevamo le serrande avvolgib<strong>il</strong>i, di legno, nella casa del Corso. Il sole entrava<br />

a strisce, faceva strani disegni sulle pareti e i mob<strong>il</strong>i. Una porta f<strong>il</strong>trante<br />

per la luce, da fuori a dentro. Da dentro a fuori f<strong>il</strong>trava i miei sguardi, <strong>il</strong> mio<br />

cercare <strong>il</strong> mondo. Anche comunicare con <strong>il</strong> mondo, nella mia fantasia. Come<br />

quella volta, nel giugno 1940, quando sentimmo alla radio che l’Italia era<br />

entrata <strong>in</strong> guerra. Il discorso del Duce, dal balcone su Piazza Venezia, le parole<br />

bellicose ed entusiasmanti, le ovazioni del popolo Mi sentivo riempito<br />

anch’io di sacro furore. Ritagliai <strong>in</strong> piccole strisciol<strong>in</strong>e un foglio di carta, su<br />

ciascuna scrissi “Viva la Guerra”, le ripiegai e mi acc<strong>in</strong>gevo a gettarle per<br />

strada, tra le stecche della persiana, per comunicare al mondo la mia partecipazione.<br />

Mi sorprese Zia Giann<strong>in</strong>a, mi fulm<strong>in</strong>ò con lo sguardo gelido e mi<br />

spiegò che non si <strong>in</strong>neggia mai alla guerra. Nelle sue parole si esprimeva la<br />

cultura cattolica.<br />

Nonostante la sostanziale partecipazione al fascismo della mia famiglia, nonostante<br />

gli ascendenti m<strong>il</strong>itari, la guerra non entusiasmò nessuno. Certo, le<br />

vicende sui diversi fronti erano seguite con partecipazione: ricordo come si<br />

ascoltava, con attenzione ed emozione, <strong>il</strong> quotidiano bollett<strong>in</strong>o di guerra alla<br />

radio, all’una. Ricordo un’atmosfera più di attesa, di sospensione, che di tifo.<br />

Forse la famiglia aveva com<strong>in</strong>ciato la revisione critica del fascismo. Un<br />

episodio che dovette aiutare, <strong>in</strong> questa direzione, fu certamente la partenza<br />

di Maria Simon.<br />

La mia Schwester era ebrea. Quando <strong>il</strong> Führer venne <strong>in</strong> Italia, nel 1938, papà<br />

fu avvertito dalla Questura che, se non avessimo provveduto ad allontanare<br />

Schwester Maria, sarebbe stata messa <strong>in</strong> camera di sicurezza <strong>in</strong>sieme a<br />

tutti gli altri ebrei stranieri. Non serviva che essa avesse un genitore ariano,<br />

che fosse cristiana protestante. La soluzione che fu concordata fu di mandarla<br />

per qualche giorno a Foggia, dove papà aveva una casa. Qualcosa mi<br />

turbò, di questo episodio, più di quanto mi entusiasmassero i portali di cartone,<br />

le gigantesche bandiere, i fasci e le svastiche eretti lungo <strong>il</strong> percorso


28 Edoardo Salzano<br />

che Hitler e Mussol<strong>in</strong>i avrebbero compiuto salutando, dall’automob<strong>il</strong>e scoperta,<br />

la folla <strong>in</strong>neggiante.<br />

All’<strong>in</strong>izio della guerra papà fu richiamato alle armi. Non aveva fatto <strong>il</strong> servizio<br />

m<strong>il</strong>itare, così com<strong>in</strong>ciò dalla gavetta, soldato semplice. All’<strong>in</strong>izio stava<br />

alla caserma di fanteria al Corso, verso Mergell<strong>in</strong>a. Sul muro verso la strada<br />

c’era una grande scritta: “Fu <strong>il</strong> Fante <strong>il</strong> seme e la Vittoria <strong>il</strong> fiore”. Dopo<br />

l’addestramento, da sottotenente e poi tenente, andò <strong>in</strong> Grecia e <strong>in</strong> Jugoslavia:<br />

ricordo una cartol<strong>in</strong>a di saluti da Mostar, con <strong>il</strong> ponte distrutto <strong>in</strong> questi<br />

anni dalla guerra dei serbi..<br />

La raccolta delle schegge<br />

Com<strong>in</strong>ciarono i bombardamenti. Prima sporadicamente, poi tutte le notti.<br />

Era diventato un rito: andando a letto ci si preparava sulla sedia <strong>il</strong> maglione,<br />

le calze, <strong>il</strong> cappotto con <strong>il</strong> quale ci si sarebbe coperti appena avesse suonato<br />

la sirena d’allarme. Nei primi tempi, si correva <strong>in</strong> una stanza appositamente<br />

attrezzata <strong>in</strong> cant<strong>in</strong>a. Travi di legno puntellavano pareti e soffitto, e sacchi<br />

di sabbia avrebbero dovuto riparare dalle schegge. Tutti i vetri di casa erano<br />

rigorosamente decorati di larghe strisce di carta gommata, per impedire che<br />

gli spostamenti d’aria delle esplosioni rompessero i vetri m<strong>in</strong>acciando<br />

l’<strong>in</strong>columità dei passanti.<br />

La nonna, Nann<strong>in</strong>a, zia Giann<strong>in</strong>a recitavano <strong>il</strong> rosario, gli uom<strong>in</strong>i, negli <strong>in</strong>tervalli<br />

tra un bombardamento e l’altro, andavano <strong>in</strong> strada per fumare una<br />

sigaretta e guardare le sventagliate dei riflettori, i fuochi degli <strong>in</strong>cendi dove<br />

le bombe erano cadute, le ultime raffiche dell’antiaerea. Ma dopo un po’, si<br />

capì che, se una bomba fosse caduta sulla nostra casa, <strong>il</strong> rifugio non avrebbe<br />

costituito riparo sufficiente. Subito al di là di via Tasso c’erano (e ci sono<br />

ancora) due alberghi, <strong>il</strong> Britannique e <strong>il</strong> Parker, entrambi appartenenti alla<br />

stessa famiglia. Dagli alberghi, attraversando le cuc<strong>in</strong>e e i magazz<strong>in</strong>i, si raggiungevano<br />

immense caverne scavate nella montagna di tufo che si alzava<br />

verso <strong>il</strong> Vomero. In quelle caverne erano stati organizzati dei giganteschi rifugi,<br />

ben più sicuri della nostra frag<strong>il</strong>e cant<strong>in</strong>a.<br />

Furono presi i necessari accordi. Diventammo frequentatori abituali del rifugio<br />

del Britannique. Là c’erano bamb<strong>in</strong>i, si poteva giocare e girare.<br />

C’erano anche le nostre amiche Löl<strong>in</strong>ger, Maria Antonia d’Ayala Valva e i<br />

suoi fratell<strong>in</strong>i Inigo e Diego, Eddy Perriello, Leonetto Levi de Leon e altri.<br />

Quando si prevedeva che i bombardamenti fossero molto prolungati, la


La lunga <strong>in</strong>fanzia 29<br />

nonna e noi piccoli dormivamo direttamente <strong>in</strong> albergo, per essere pronti a<br />

scendere nel rifugio al primo allarme.<br />

La matt<strong>in</strong>a dopo i bombardamenti la città era piena di novità. Non erano<br />

novità le automob<strong>il</strong>i con i fari tappati da maschere di carta, né i piccoli bunker<br />

costruiti all’entrata dei rifugi; queste erano diventate componenti<br />

normali della città, come le grandi strisce di carta <strong>in</strong>collate sulle vetr<strong>in</strong>e e<br />

sulle lastre delle f<strong>in</strong>estre. La novità effimera erano le schegge: le tracce che<br />

avevano lasciato i bombardamenti della notte prima, e che noi ragazzi<br />

facevamo scomparire ogni matt<strong>in</strong>a per arricchire le nostre collezioni.<br />

Schegge piccole e grandi, d’allum<strong>in</strong>io, di rame e di leghe sconosciute,<br />

proiett<strong>il</strong>i dell’antiaerea e spolette dei razzi traccianti, pezzi dalla cui<br />

curvatura si poteva comprendere se provenivano dall’esplosione di una<br />

bomba grande o di una di pochi ch<strong>il</strong>i.<br />

Priv<strong>il</strong>egiati nella raccolta di schegge erano gli scugnizzi, che si svegliavano<br />

presto la matt<strong>in</strong>a ed avevano la strada come loro residenza abituale, e i<br />

bamb<strong>in</strong>i dotati, come me, di una grande terrazza, luogo riservato di raccolta.<br />

Era una strana emozione salire, la matt<strong>in</strong>a, <strong>in</strong> terrazza, cercare per terra e<br />

trovare questi strani pezzi di metallo, dalle forme stravaganti foggiate<br />

dall’esplosione.<br />

Vacanze a Fiuggi<br />

Era forse <strong>il</strong> primo anno di guerra quando andammo <strong>in</strong> vacanza a Fiuggi.<br />

Forse perché era un luogo più vic<strong>in</strong>o a casa e più lontano dagli <strong>in</strong>sicuri conf<strong>in</strong>i,<br />

rispetto alla consueta Val Gardena. Avevo una bicicletta, con le ruote<br />

di legno marca Ballon, che facevano ridere i miei nuovi amici: mi sentivo<br />

preso <strong>in</strong> giro, e la mia timidezza ne veniva ribadita. Diventai amico di un ragazzo<br />

Campello, non ricordo <strong>il</strong> nome. Organizzammo <strong>in</strong>sieme una specie di<br />

festicciola a pagamento, <strong>in</strong> una sala del grande albergo dove abitavamo, con<br />

le sorell<strong>in</strong>e che ballavano addobbate da grandi.<br />

Con <strong>il</strong> ragazzo Campello progettammo a lungo una “fuga”, che avremmo<br />

<strong>in</strong>trapreso appena attrezzati. Raccoglievamo oggetti che potevano servirci.<br />

Non se ne fece nulla. Eravamo dei chiacchieroni.<br />

Conobbi la prima barzelletta sporca. Era la risposta alla domanda: quante<br />

palle ci sono sul campo se c’è una squadra di undici giocatori? La risposta<br />

era: ventitré. Ci misi un bel po’ a capirla. E mi <strong>in</strong>namorai di una nuova<br />

bamb<strong>in</strong>a: si chiamava Eva, aveva dei bellissimi boccoli biondi, mi sembra<br />

che fosse di orig<strong>in</strong>e ungherese. Naturalmente non si accorse di me.


30 Edoardo Salzano<br />

Da Fiuggi tornammo a Napoli. La guerra non accennava a concludersi. Si<br />

cont<strong>in</strong>uava ad andare a scuola, a raccogliere le schegge dopo i bombardamenti,<br />

a passare le notti al rifugio del Britannique. L’anno dopo andammo<br />

<strong>in</strong> v<strong>il</strong>leggiatura a Sorrento. Di lì, la notte, si vedevano i bombardamenti da<br />

lontano: sembravano fuochi d’artificio, accompagnati da un cupo rombo.<br />

La guerra era diventata ormai una cornice permanente della nostra vita. Un<br />

bamb<strong>in</strong>o mio coetaneo (abitava con noi all’Hotel Vittoria) era noto come<br />

“Ton<strong>in</strong>o bollett<strong>in</strong>o”. Aveva una memoria formidab<strong>il</strong>e e l’impiegava per imparare<br />

a memoria <strong>il</strong> bollett<strong>in</strong>o di guerra, che ogni giorno veniva trasmesso<br />

dall’Eiar <strong>in</strong> apertura del giornale radio dell’una: da quel momento era <strong>in</strong><br />

grado di ripeterla a memoria a chiunque glie lo chiedesse.<br />

Renato e Riccardo<br />

Una fotografia ci ritrae <strong>in</strong> terrazza, al Corso. Avevamo forse una dozz<strong>in</strong>a<br />

d’anni. Era qu<strong>in</strong>di durante la guerra, gli ultimi tempi prima dello sfollamento<br />

a Roccaraso. Eravamo tre amici <strong>in</strong>separab<strong>il</strong>i.<br />

Riccardo Tomacelli era figlio di un’amica di mammà, molto simpatica, e di<br />

un signore un po’ noioso che era lettore d’italiano <strong>in</strong> una università di Dubl<strong>in</strong>o<br />

(o lo divenne dopo, non ricordo). Era un ragazz<strong>in</strong>o con capelli lisci,<br />

pett<strong>in</strong>ati con cura. Era legato a una vasta parentela, che frequentai anni dopo:<br />

i Del Balzo di Presenzano, possessori e <strong>in</strong>qu<strong>il</strong><strong>in</strong>i di una bellissima v<strong>il</strong>la<br />

sul mare, a Pos<strong>il</strong>lipo, dove da piccolo Schwester Maria mi aveva <strong>in</strong>segnato a<br />

nuotare.<br />

Renato era figlio d’una famiglia della tranqu<strong>il</strong>la borghesia napoletana. Suo<br />

zio era un importante personaggio della Dc napoletana, Leopoldo Rub<strong>in</strong>acci,<br />

che lo prese sotto la sua protezione e, più tardi, lo avviò alla carriera diplomatica.<br />

Renato ne percorse tutti i grad<strong>in</strong>i, poi diventò “m<strong>in</strong>istro degli esteri”<br />

della Fiat, m<strong>in</strong>istro del commercio estero nei governo Goria, De Mita<br />

e Andreotti, poi presidente del Trade World Office. Lo rividi ai primi passi<br />

della sua carriera: era Primo consigliere (o qualcosa del genere) a Stoccolma.<br />

Mi parlò solo dei nuovi tipi di preservativi che si usavano lì.<br />

Sfollati a Roccaraso<br />

Quando i bombardamenti divennero più <strong>in</strong>tensi un certo numero di famiglie<br />

prese la diffic<strong>il</strong>e decisione di “sfollare”: si radunarono armi e bagagli e ci


La lunga <strong>in</strong>fanzia 31<br />

si trasferì a Roccaraso, un paes<strong>in</strong>o d’Abruzzo dove qualche volta si andavano<br />

a passare le vacanze di Natale. I marchesi Santas<strong>il</strong>ia con i loro bamb<strong>in</strong>i,<br />

Enzo Strongoli e la bella moglie, i pr<strong>in</strong>cipi D’Avalos, i cug<strong>in</strong>i Carignani, tutti<br />

ci trasferimmo tra le montagne abruzzesi. Ogni cosa i miei portarono con<br />

sé: bauli e bauli contenenti tutta la biancheria, personale e di casa, i vestiti e<br />

le pellicce, i gioielli e le scarpe, casse contenenti i 150 ch<strong>il</strong>i d’argenteria di<br />

famiglia, libri, e ricordi preziosi, come una delle due copie del Bollett<strong>in</strong>o<br />

della Vittoria vergato dalla mano di nonno Armando. Tutto si cercò di salvare<br />

dai bombardamenti: gli oggetti portandoli <strong>in</strong> Abruzzo, i mob<strong>il</strong>i, i quadri<br />

e i tappeti sistemandoli <strong>in</strong> una v<strong>il</strong>la a Ottaviano, un paesone tra Napoli e<br />

Caserta, nella v<strong>il</strong>la di amici.<br />

La nostra vita cambiò. Non <strong>in</strong> peggio. Abitavamo <strong>in</strong> un appartamento costruito<br />

sulla rocca che dom<strong>in</strong>ava <strong>il</strong> paese, e da cui esso trae <strong>il</strong> nome. (Rocca<br />

raso, rocca di raso, si poteva pensare, e i prati erbosi che circondavano <strong>il</strong><br />

paese giustificavano <strong>il</strong> toponimo; solo dopo compresi che era anche una<br />

premonizione: rocca rasata, come la storia volle). Sotto di noi abitavano i<br />

Santas<strong>il</strong>ia. Una grande stufa di terracotta, della ditta Becchi di Forlì, riscaldava<br />

splendidamente la casa.<br />

Si giocava più di quanto si studiasse; lo studio, del resto, era affidato prevalentemente<br />

alla buona volontà del parroco, <strong>il</strong> quale disponeva pure d’una<br />

bibliotech<strong>in</strong>a circolare alla quale att<strong>in</strong>gevamo i libri di Fantomas e altri polizieschi<br />

per ragazzi. F<strong>in</strong>o ad allora le mie letture si erano limitate alla traduzione<br />

per bamb<strong>in</strong>i delle grandi storie della letteratura romantica nella collana<br />

della Scala d’Oro, e all’amato Em<strong>il</strong>io Salgari (Jules Verne, di cui ricordo<br />

uno splendido Le pays des fourrures, r<strong>il</strong>egato e con <strong>in</strong>cisioni d’autore, mi piaceva<br />

molto meno).<br />

Nel paio d’anni che trascorremmo a Roccaraso le mie amicizie cambiavano,<br />

a seconda delle stagioni e delle passioni. Soprattutto nel primo periodo passavo<br />

le giornate con i bamb<strong>in</strong>i del paese, i “roccolani”. La cosa che mi entusiasmava<br />

di più erano le gite <strong>in</strong> montagna. Si partiva la matt<strong>in</strong>a presto, con<br />

una pentola o una padella che qualcuno aveva trafugato, una mezza bottiglia<br />

d’olio, un pacco di pasta. Per strada si scavavano un po’ di patate da qualche<br />

campo. Arrivati sulle brulle montagne a pochi ch<strong>il</strong>ometri dal paese so completava<br />

la costruzione di una “casola”, <strong>in</strong>iziata alla gita precedente: una costruzione<br />

rozzamente messa su con muri a secco, e coperta da rami di p<strong>in</strong>o.<br />

Si cuc<strong>in</strong>ava, si mangiava, i più ab<strong>il</strong>i davano la caccia agli scoiattoli con le<br />

fionde, sapientemente costruite da un legno a forcella e due pezzi di camera<br />

d’aria legati da una toppa di pelle, o addirittura con le frombole nelle quali <strong>il</strong>


32 Edoardo Salzano<br />

sasso, adagiato all’<strong>in</strong>terno di un attrezzo di corda e pelle, veniva scagliato<br />

dalla forza della rotazione del braccio.<br />

In questo, come negli altri giochi d’ab<strong>il</strong>ità e di forza, non solo non eccellevo<br />

ma neppure mi cimentavo volentieri. E <strong>in</strong>vidiavo la capacità dei miei amici<br />

paesani a giocare a “mmazza e piuze”, con un bastone lungo che percuoteva,<br />

lanciandolo lontano con mira precisa, un bastoncello più corto, rastremato<br />

alle due estremità, dopo averlo sollevato da terra con un appropriato<br />

colpo su una delle punte. Così come <strong>in</strong>vidiavo la loro bravura nel precipitarsi<br />

giù sui campi di neve, avendo ai piedi due tavole di legno grezzamente<br />

foggiate, o due doghe di botte, e correndo più veloci degli sciatori di città<br />

calzati con gli sci di marca accuratamente trattati con la specifica sciol<strong>in</strong>a.<br />

Naturalmente anch’io sciavo, ma senza fare grandi prodezze. Sono arrivato,<br />

al massimo della mia carriera di sciatore, a fare dei buoni “spazzaneve” e<br />

qualche assaggio di “christiania”. I miei genitori erano bravissimi, <strong>in</strong>vece,<br />

specialmente la mamma. A volte affittavamo una slitta tra<strong>in</strong>ata da cavalli e<br />

salivamo alla Piana dell’Aremogna, dove noi piccoli facevamo campetti e i<br />

grandi percorrevano passeggiate di fondo, con le splendide pelli di foca (che<br />

qualche volta anch’io adoperai, con notevole fatica e imbarazzo).<br />

Altre gite le facevano <strong>in</strong> primavera e <strong>in</strong> autunno. In queste occasioni a un<br />

certo punto si apriva una grande tovaglia, sulla quale venivano adagiate<br />

grandi frittate di maccheroni (<strong>in</strong> genere erano sia rosse, con gli spaghetti<br />

prelim<strong>in</strong>armente conditi con la salsa di pomodoro, sia bianche, con gli spaghetti<br />

conditi con burro e parmigiano). Una direzione tipica per le gite erano<br />

le pendici del Monte Tocco, dove prima delle feste di Natale di andava a<br />

raccogliere <strong>il</strong> vischio parassitariamente abbarbicato sui vecchi alberi del<br />

querceto. A volte raggiungevamo Pietransieri: Un paes<strong>in</strong>o poverissimo, dove<br />

la vita scorreva cento anni più antica di quella che si svolgeva nella stazione<br />

turistica di Roccaraso, distante pochi ch<strong>il</strong>ometri. Pastori, contad<strong>in</strong>i e<br />

taglialegna erano i mestieri di questo paese (diventerà presto tragicamente<br />

famoso), dove ancora l’elim<strong>in</strong>azione degli escrementi avveniva vuotando<br />

per strada, all’ora serale annunciata dal banditore, i domestici vasi.<br />

Nuovi amori<br />

In quegli anni gli amori, da fantasmi <strong>in</strong>fant<strong>il</strong>i, diventarono sentimenti quasi<br />

istituzionalizzati da una sorta di riconoscimento sociale. Ancora <strong>in</strong>fant<strong>il</strong>e era<br />

<strong>il</strong> sentimento che m’ispirava Mimma Chiar<strong>in</strong>i, snella bionda dagli occhi celeste,<br />

sorella di Paolo e Carlo (più tardi famoso germanista l’uno, noto archi-


La lunga <strong>in</strong>fanzia 33<br />

tetto l’altro; Mimma sposò Vito Laterza, editore <strong>in</strong> Bari come suo padre e<br />

suo nonno). Pienamente adolescenziale fu l’amore per Annamaria Sepe, sorella<br />

anche lei di amici romani, <strong>in</strong>contrati e conosciuti a Roccaraso con <strong>il</strong> solito<br />

tramite dei genitori. Annamaria, che era amica delle sorelle, ricevette anche,<br />

turbata quanto me, un fuggevole bacio. Mi regalò (o sottrassi a qualcuno)<br />

una sua fotografia. E mi arrabbiavo molto, f<strong>in</strong>o alle lacrime, quando i<br />

miei amici un po’ più grandi, primo fra tutti mio cug<strong>in</strong>o Luigi, mi prendevano<br />

<strong>in</strong> giro. Ancora ricordo quando, dopo una rissa, mi strapparono di tasca<br />

la fotografia che, nella colluttazione, f<strong>in</strong>ì <strong>in</strong> un mucchio di patate: “Annamaria<br />

tra le patate!” fu l’urlo di guerra, per me profondamente offensivo.<br />

Un ulteriore amore di quel periodo, quando i Sepe partirono per l’Alta Italia,<br />

fu per Maria Stella Signor<strong>in</strong>i. Era una bamb<strong>in</strong>a più piccola di noi (di me<br />

e del cug<strong>in</strong>o Luigi, che <strong>in</strong>sieme a me le faceva la corte). La madre era una<br />

donna bellissima, sic<strong>il</strong>iana credo. Il padre Renato faceva (si diceva) deliziose<br />

statuette d’oro; ma non era uno scultore, era proprietario di un grande albergo<br />

a Via Veneto, <strong>il</strong> Flora.<br />

Con Maria Stella, e la sua bamb<strong>in</strong>aia <strong>in</strong>glese, lunghe passeggiate nei prati autunnali<br />

raccogliendo crochi viola e bianchi. La rividi qualche mese più tardi<br />

a Roma, dove per <strong>in</strong>contrarla andavo a Piazza di Siena, luogo dei suoi giochi.<br />

Non so come, avevo scoperto questa sua abitud<strong>in</strong>e. La sfruttavo, acquistando<br />

così un vantaggio rispetto a Luigi. Aspettavo lei (e l’immancab<strong>il</strong>e governante)<br />

seduto sul prato, le spalle appoggiato a uno degli alti p<strong>in</strong>i a ombrello,<br />

leggendo un libbricc<strong>in</strong>o trafugato dalla biblioteca di zia Irene: Baudelaire,<br />

Les Fleurs du mal. Ma questo successe, come dicevo, qualche mese più<br />

tardi. A Roccaraso accaddero altri eventi, nuovi e drammatici, <strong>in</strong>aspettati nel<br />

loro svolgimento.<br />

La caduta del fascismo e la fuga dei giovani<br />

A luglio, nel 1943, cadde <strong>il</strong> fascismo. Mussol<strong>in</strong>i fu chiamato da Vittorio<br />

Emanuele III e portato via con un’ambulanza, verso <strong>il</strong> domic<strong>il</strong>io coatto<br />

dell’Albergo Campo Imperatore, sul Gran Sasso. In tutto <strong>il</strong> paese furono<br />

abbattuti i simboli del fascismo: i fasci, gli emblemi del Duce. All’<strong>in</strong>izio fu,<br />

anche a Roccaraso, una gran festa. Tutti quelli che avevano ascoltato Radio<br />

Londra clandest<strong>in</strong>amente, con le radiol<strong>in</strong>e a galena, uscirono trionfanti e diventarono<br />

dei leader. Si discuteva di politica. Parole <strong>in</strong>usitate (come Partito<br />

d’Azione, socialisti e comunisti, Comitato di liberazione nazionale) entrarono<br />

nel nostro l<strong>in</strong>guaggio.


34 Edoardo Salzano<br />

Nel frattempo, sulle montagne e sugli altipiani era com<strong>in</strong>ciata (e si sv<strong>il</strong>uppo<br />

<strong>in</strong> modo consistente dopo l’8 settembre e <strong>il</strong> tentativo dell’Italia di uscire dalla<br />

guerra) un’azione clandest<strong>in</strong>a di soccorso ai paracadutisti atterrati dagli<br />

aerei abbattuti, ai prigionieri <strong>in</strong>glesi e americani evasi dai campi di concentramento,<br />

ai primi partigiani che nelle boscaglie dell’Abruzzo s’erano arroccati.<br />

Ci fu, probab<strong>il</strong>mente, anche qualche colpo di mano contro i m<strong>il</strong>iti fascisti<br />

o le scarse truppe tedesche. Com<strong>in</strong>ciarono le rappresaglie, e soprattutto<br />

com<strong>in</strong>ciò un’azione tesa a fare terra bruciata davanti agìll’esercito degli<br />

Alleati. Come sapemmo più tardi Pietransieri, colpevole d’aver dato as<strong>il</strong>o a<br />

prigionieri e partigiani, fu distrutta, la popolazione (124 persone) <strong>in</strong>teramente<br />

trucidata.<br />

I giovani e gli uom<strong>in</strong>i adulti erano fuggiti suoi monti. Ogni tanto, pattuglie<br />

tedesche guidate da qualche fascista immarcescib<strong>il</strong>e facevano rapidi rastrellamenti.<br />

Ma una volta l’azione avvenne <strong>in</strong> grande st<strong>il</strong>e. La ricordo ancora,<br />

con precisione.<br />

Rastrellamenti e nascondigli<br />

Ci eravamo appena seduti a tavola. A casa nostra si era preparata una splendida<br />

m<strong>in</strong>estra di pasta e fagioli, con le cotiche di maiale. Mangiavano con<br />

noi i Santas<strong>il</strong>ia. Papà e G<strong>in</strong>o Santas<strong>il</strong>ia, dopo un periodo di permanenza alla<br />

macchia erano tornati alla base: avevano entrambi assolto gli obblighi m<strong>il</strong>itari,<br />

credevano d’essere al sicuro. Arrivano <strong>in</strong> paese due camion tedeschi, da<br />

cui scendono correndo pattuglie di SS, brandendo mitra m<strong>in</strong>acciosi, con i<br />

c<strong>in</strong>turoni guarniti di bombe a mano. Una pattuglia salì correndo le scale, irruppe<br />

nella nostra casa. Eravamo tutti atterriti. Mia mamma andò <strong>in</strong>contro<br />

agli SS e, parlando <strong>in</strong> tedesco, con grande tranqu<strong>il</strong>lità chiese loro se potevano<br />

aspettare che avessimo f<strong>in</strong>ito di mangiare e che papà avesse potuto preparare<br />

la valigia. Questo atteggiamento fugò <strong>in</strong> noi ogni paura.<br />

La valigia era pronta. Gli uom<strong>in</strong>i furono scortati fuori, <strong>in</strong> piazza. Alcuni camion<br />

li portarono via, nella direzione di Rivisondoli, Sulmona, Roma, <strong>il</strong><br />

Nord. Il giorno dopo sapemmo che non li avevano portati al Nord: si erano<br />

fermati a Rivisondoli. Le SS li avevano affidati alla m<strong>il</strong>izia territoriale tedesca,<br />

a un corpo del Genio. Erano accantonati un una scuola, dormivano per<br />

terra su mucchi di paglia. Dovevano scavare tr<strong>in</strong>cee.<br />

Trascorsi alcuni giorni alcuni com<strong>in</strong>ciarono ad avanzare ragioni e pretesti<br />

per essere esentati da quella corvée. Il primo fu mio zio Franz Carignani:<br />

aveva l’ernia. Con lui tornò a casa Enzo Strongoli. Poi a papà fu riconosciu-


La lunga <strong>in</strong>fanzia 35<br />

to un vizio cardiaco. In realtà non producevano molto. Non che battessero<br />

la fiacca, ma come manovali non valevano un gran che. Solo G<strong>in</strong>o Santas<strong>il</strong>ia<br />

rimase lì, a Rivisondoli e nei d<strong>in</strong>torni, a scavar tr<strong>in</strong>cee contro le armate degli<br />

Alleati. Il lavoro lo prendeva sul serio, ci dava dentro con energia.<br />

La vita proseguì. Cont<strong>in</strong>uarono le gite, Luigi ad io accompagnavamo Maria<br />

Stella a raccogliere crochi, con la governante <strong>in</strong>glese. Il cibo non mancava.<br />

Mammà aveva barattato un paio di stivali da cavallo con mezzo maiale. Fu<br />

grande festa e gran lavoro quando fu macellato, quando le carni e le frattaglie<br />

furono trasformate <strong>in</strong> salsicce, lardo, prosciutto, sugna colata nelle vesciche<br />

e nei barattoli. E poi c’erano le patate, i fagioli, certi mastelli di marmellata<br />

di paese (alla quale att<strong>in</strong>gevamo di nascosto, le sorelle ed io, <strong>in</strong>t<strong>in</strong>gendo<br />

<strong>in</strong>dice e medio appaiati nel mastello). F<strong>in</strong>ché non fummo sfollati:<br />

non deportati come accadde, <strong>in</strong> quegli anni, <strong>in</strong> tanti altri luoghi, ma sfollati,<br />

forzosamente. Cacciati da Roccaraso, che doveva essere rasa al suolo.<br />

Cacciati verso Roma<br />

Un giorno arrivarono di nuovo le SS. Questa volta <strong>il</strong> messaggio era diverso.<br />

Tutti gli abitanti di Roccaraso dovevano andar via <strong>in</strong> due giorni. Avrebbero<br />

potuto portare con sé una valigia a testa. Autobus e camion requisiti dai tedeschi<br />

li avrebbero portati via, non si sapeva dove.<br />

L’evento fu traumatico. In due giorni bisognava decidere e fare. Si decise di<br />

priv<strong>il</strong>egiare la sussistenza: poiché non si sapeva dove i tedeschi ci avrebbero<br />

trasc<strong>in</strong>ati, si decise di riempire le valigie di cibi. Il resto, <strong>in</strong> un’accorta operazione<br />

notturna, fu nascosto. Gli uom<strong>in</strong>i avevano scoperto, sotto la cant<strong>in</strong>a<br />

della Rocca, scavata nella roccia, un’ulteriore cavità, raggiungib<strong>il</strong>e dalla cant<strong>in</strong>a<br />

con una botola. Lì furono nascoste le ricchezze nostre, e delle famiglie<br />

amiche. Anche una parte consistente del tesoro della chiesa. Nella cavità<br />

sotto la cant<strong>in</strong>a fu poi scavata un’ulteriore buca, dove furono nascosti i<br />

gioielli: all’ultimo m<strong>in</strong>uto mammà tirò fuori i suoi, non si sentiva di abbandonarli.<br />

La buca dei gioielli, <strong>il</strong> pavimento della cant<strong>in</strong>a furono cementati: entrambi<br />

i pavimenti furono rifatti e sporcati con polvere di carbone. I gioielli<br />

di mia mamma furono dissimulati all’<strong>in</strong>terno di grandi gomitoli di lana di<br />

pecora, con i quali mammà lavorava<br />

Gli autobus targati Roma che i tedeschi avevano requisito vennero puntuali<br />

a prelevarci. Passando con le nostre valigie tra due f<strong>il</strong>e di m<strong>il</strong>itari con i mitra<br />

puntati fummo caricati e partimmo, per dest<strong>in</strong>azione ignota. Il viaggio non<br />

dovette essere traumatico, visto che non ne ricordo nulla. Ricordo solo che


36 Edoardo Salzano<br />

ci scaricarono a Sulmona, accampati <strong>in</strong> una scuola. Quanto tempo saremmo<br />

rimasti lì? Nessuno poteva immag<strong>in</strong>arlo.<br />

Nonna Sara stava a Roma. Come vedova di un ex m<strong>in</strong>istro della guerra aveva<br />

ancora dei priv<strong>il</strong>egi, e delle conoscenze. Riuscì ad ottenere che<br />

un’automob<strong>il</strong>e del m<strong>in</strong>istero venisse a prelevarci a Sulmona. Con le nostre<br />

valigie piene di carne di porco un viaggio di molte ore ci portò a Roma.<br />

Tutti, eccetto papà: lui e G<strong>in</strong>o Santas<strong>il</strong>ia erano rimasti a Sulmona, a trenta<br />

ch<strong>il</strong>ometri dai nostri beni sepolti nella rocca, pronti a tornare lì e recuperarli<br />

quando la tempesta fosse passata.<br />

Miseria e nob<strong>il</strong>tà<br />

Arrivammo a Roma che doveva esser passata almeno una settimana<br />

dall’esodo forzoso da Roccaraso. Faceva evidentemente già caldo, perché i<br />

resti del mezzo maiale, barattato contro un paio di stivali, e lungamente lavorato,<br />

erano marciti: si dovette buttare tutto.<br />

Ci sistemammo, non male, a casa di Nonna Sara: <strong>il</strong> primo v<strong>il</strong>l<strong>in</strong>o di via<br />

Giambattista Vico, affacciata su Piazzale Flam<strong>in</strong>io. La nonna aveva ricavato<br />

un appartament<strong>in</strong>o tutto per noi. Il bagno era separato dalla stanza di stiro<br />

da una tramezza vetrata. Stavo nella vasca quando, pochi mesi dopo <strong>il</strong> nostro<br />

arrivo a Roma, improvvisamente arrivò papà, con sei o sette sacchi di<br />

stracci: erano tutto ciò che era rimasto del nostro patrimonio domestico, dei<br />

corredi di nozze e dei regali accumulati. Scoppiò irrefrenab<strong>il</strong>e <strong>il</strong> pianto della<br />

mamma.<br />

Poi papà ci raccontò. I tedeschi avevano raso al suolo Roccaraso (ecco la<br />

nuova ragione del toponimo) per fare terra bruciata su di un probab<strong>il</strong>e direttrice<br />

dell’avanzata delle truppe alleate. Ma prima avevano cercato i tesori,<br />

che certamente le famiglie abbienti avevano dovuto lasciare. Sette giorni di<br />

ricerche e di sondaggi avevano impiegato. Poi, alla f<strong>in</strong>e, forse aiutati dalla<br />

spiata di qualche roccolano, avevano scoperto le cant<strong>in</strong>e murate. Tutto avevano<br />

portato via: compreso l’autografo del Bollett<strong>in</strong>o della Vittoria. Erano<br />

rimasti solo i sacchi di stracci, accuratamente raccolti e portati a casa da papà.<br />

Eravamo diventati quasi poveri. Ancora non sapevamo che nella v<strong>il</strong>la di<br />

Ottaviano, dove erano stati depositati i mob<strong>il</strong>i, i quadri, i tappeti (l’altra parte<br />

del patrimonio domestico) erano state accantonate le truppe marocch<strong>in</strong>e<br />

che con gli alleati risalivano lo stivale. Faceva freddo, non c’era di meglio<br />

per riscaldarsi che bruciare quella legna stagionata. Così f<strong>in</strong>irono le suppellett<strong>il</strong>i<br />

della casa del Corso. Così f<strong>in</strong>irono i nostri beni.


La lunga <strong>in</strong>fanzia 37<br />

La nostra vita cambiò di nuovo. Ripresi gli studi regolari: prima al Collegio<br />

San Giuseppe Demerode, a piazza di Spagna, poi al G<strong>in</strong>nasio Liceo Tasso,<br />

di grande fama. Al Demerode mi ricordo un s<strong>in</strong>golare episodio di convivenza<br />

conflittuale. Tra gli studenti <strong>in</strong>terni c’era un ragazzo che si chiamava<br />

Zamboni: <strong>in</strong> realtà era un ragazzo ebreo, <strong>il</strong> cui nome (forse Zabban) era così<br />

camuffato per nasconderlo ai fascisti. Lo sapevamo tutti. Lo sapeva anche<br />

un ragazz<strong>in</strong>o fascista che, a causa del suo essere fascista, veniva r<strong>in</strong>corso e<br />

sv<strong>il</strong>laneggiato nelle ore di ricreazione. Non fece mai la spia. Del Tasso mi<br />

ricordo l’amicizia con un ragazz<strong>in</strong>o molto <strong>in</strong>telligente, amante della musica<br />

classica e della letteratura, figlio del chirurgo Cerletti. Ricordo anche<br />

un’atmosfera di sommesso antifascismo, che trapelava dalle lezioni di qualche<br />

nostro maestro.<br />

Due benefattori<br />

Nutrirci era diventato diffic<strong>il</strong>e, e anche coprirci. Ricordo due risorse che si<br />

rivelarono essenziali, una <strong>in</strong> alto e una <strong>in</strong> basso nella gerarchia sociale, ma<br />

entrambe preziose: <strong>il</strong> Card<strong>in</strong>ale Maglione di Casoria e Maria Ruocco di Venafro.<br />

Il Card<strong>in</strong>ale Maglione era Segretario di Stato del Vaticano. Era molto <strong>in</strong>fluente.<br />

Tra l’altro, era l’uomo che aveva imbastito e concluso i Patti Lateranensi,<br />

che avevano assicurato la convivenza, e nella sostanza l’alleanza, tra<br />

Fascismo e Vaticano. Era un uomo potente. Era nato a Casoria, nel paese<br />

d’orig<strong>in</strong>e della mia famiglia. Papà lo conosceva bene: era un vecchio amico<br />

di famiglia. Tramite suo fu concesso a papà di andare talvolta ad approvvigionassi<br />

allo spaccio del Vaticano: alcuni bellissimi tagli di stoffa, zucchero,<br />

torronc<strong>in</strong>i di fichi secchi, sigarette, a volte qualche tavoletta di cioccolata:<br />

tutto questo costituiva <strong>il</strong> dono che, di tanto <strong>in</strong> tanto, arrivava grazie<br />

all’<strong>in</strong>tercessione del Card<strong>in</strong>ale Maglione.<br />

Maria Ruocco era la moglie, sfiancata dalla fatica e dai parti, di un manovale<br />

di Venafro che aveva lavorato con papà quando l’impresa svolgeva un appalto<br />

di strade e ponti <strong>in</strong> quella zona. Era arrivata a Roma con i figli, <strong>il</strong> marito<br />

era sperduto <strong>in</strong> qualche fronte della guerra. Mammà la <strong>in</strong>contrò accampata<br />

<strong>in</strong> una scuola dove si raccoglievano gli sfollati poveri, che le buone signore<br />

per bene assistevano. Non sapeva dove andare. Nella casa di via Giambattista<br />

Vico c’erano delle stanze nello scant<strong>in</strong>ato dove Maria con i suoi figli<br />

(uno dei quali lattante) furono sistemati. Maria ogni tanto andava <strong>in</strong> campagna,<br />

dai contad<strong>in</strong>i, a scambiare merci cittad<strong>in</strong>e (o soldi) con olio, far<strong>in</strong>a, a


38 Edoardo Salzano<br />

volte carne, uova: era la “borsa nera”. Una parte di queste merci preziose<br />

venivano da noi, contribuivano a nutrirci. Ancora più prezioso diventò<br />

l’aiuto di Maria quando arrivarono gli americani, e la borsa nera divampò<br />

con abbondanza.<br />

Piccoli tesori della casa della nonna<br />

La casa della nonna era una m<strong>in</strong>iera di oggetti e di ricordi. Adoperavo spesso<br />

la scrivania a calatoia che era stata di nonno Armando: nei cassett<strong>in</strong>i<br />

c’erano ancora i suoi penn<strong>in</strong>i, fermagli, francobolli, monet<strong>in</strong>e, piccoli blocchetti<br />

riempiti di appunti. C’era uno strano accend<strong>in</strong>o, costruito con due<br />

bossoli di proiett<strong>il</strong>e, d’ottone. Veniva a darmi ripetizione di matematica <strong>il</strong><br />

fratello più grande del mio amico Maurizio Lucidi (che poi diventò un regista<br />

c<strong>in</strong>ematografico abbastanza noto). Era un giovanottone allampanato,<br />

con cravatta e scarpe lucide. L’accend<strong>in</strong>o gli piacque moltissimo. Faceva <strong>il</strong><br />

gesto: “Signor<strong>in</strong>a, permette che le accenda?”. Non mi ricordo che cosa mi<br />

promise purché glielo regalassi, ma resistetti.<br />

In una vetr<strong>in</strong>a (una specie di grande sarcofago di vetro) c’erano i trofei di<br />

guerra: le medaglia, le fotografie con <strong>il</strong> Capo Crow, i regali di Clemenceau e<br />

di W<strong>il</strong>son, <strong>il</strong> Collare dell’Annunziata e così via. Sotto, <strong>in</strong> una cassa foderata<br />

di velluto rosso, c’era la sciabola di Maresciallo d’Italia.<br />

Quello che mi piaceva di più, e che mi teneva avv<strong>in</strong>to per ore, erano i libri<br />

di zia Irene: la sorella di mammà che, sposata con l’<strong>in</strong>gegner Pier<strong>in</strong>o Parisi,<br />

aveva lasciato lì parte della sua adolescenza. Così entrai <strong>in</strong> un mondo nuovo:<br />

da Via col Vento alla Saga dei Forsyte, da Cron<strong>in</strong> a Dos Passos, da Ste<strong>in</strong>beck<br />

a Maurois, com<strong>in</strong>ciai a conoscere la realtà del mondo attraverso i romanzi.<br />

Com<strong>in</strong>ciò allora anche <strong>il</strong> mio amore per la poesia, e <strong>il</strong> romanticismo.<br />

Tra i libri di zia Irene avevo scoperto una serie di m<strong>in</strong>uscoli libricc<strong>in</strong>i, r<strong>il</strong>egati<br />

di stoffe provenzali. I Fleurs du mal, che leggevo per far colpo su Maria<br />

Stella, facevano parte di quella serie.<br />

Tra i tesori collocherei Angel<strong>in</strong>a, la vecchia cuoca della nonna. Era di un<br />

paes<strong>in</strong>o della Sab<strong>in</strong>a. Cuc<strong>in</strong>ava bene, ma soprattutto aveva dei grandi barattoli<br />

di vetro sempre pieni di caramelle, che le regalava un suo nipote proprietario<br />

d’una drogheria, al paese. Credo che fosse Angel<strong>in</strong>a la produttrice<br />

della migliore marmellata d’arance che abbia mai mangiato. Le arance venivano<br />

bucherellate, poi stavano per ore e ore sotto un f<strong>il</strong>o d’acqua, nel piccolo<br />

acquaio di marmo nel corridoio della cuc<strong>in</strong>a. Una volta spurgate


La lunga <strong>in</strong>fanzia 39<br />

dell’amaro più forte venivano tagliate, con la buccia, a strisciol<strong>in</strong>e sott<strong>il</strong>i e<br />

lungamente cotte con lo zucchero. Era squisita.<br />

Via Rasella dall’hotel Imperiale<br />

Nonna Carmela e zia Giann<strong>in</strong>a, con i miei cug<strong>in</strong>i Carignani, soggiornavano<br />

<strong>in</strong> quel periodo all’Hotel Imperiale, nell’ultimo tratto di Via Veneto verso<br />

piazza Barber<strong>in</strong>i. Spesso andavo lì per giocare con Luigi. L’albergo era molto<br />

frequentato da ufficiali tedeschi. Un giorno sentimmo un gran botto. Ci<br />

affacciammo alla f<strong>in</strong>estra. I tedeschi andavano di corsa verso piazza Barber<strong>in</strong>i,<br />

alcuni seguiti da cani lupo; motociclette con sidecar arrivavano e ripartivano.<br />

Tutto quel chiasso ci stupì. Più tardi sapemmo che a via Rasella, una<br />

traversa di piazza Barber<strong>in</strong>i, i partigiani avevano fatto esplodere una bomba<br />

al passaggio d’un plotone di soldati nazisti.<br />

Dopo uno o due giorni la tragedia esplose <strong>in</strong> molte famiglie: si sparse subito<br />

la voce della rappresaglia. Per ogni tedesco ucciso i nazisti avevano ammazzato<br />

dieci prigionieri prelevati <strong>in</strong> fretta e furia, più qualcuno per aggiungere<br />

peso alla m<strong>in</strong>accia. Anche i miei genitori avevano amici a Reg<strong>in</strong>a Coeli o<br />

nella tremenda prigione di Via Tasso. Mia mamma era andata qualche volta<br />

<strong>in</strong> quest’ultima prigione, camera di tortura delle SS (come si seppe dopo), a<br />

cercare notizie di F<strong>il</strong>ippo di Montezemolo, suo amico, ufficiale monarchico<br />

antifascista, arrestato e torturato. È uno di quelli che furono trucidati,<br />

all’<strong>in</strong>domani dell’attentato, prima del proclama, pubblicato con evidenza sul<br />

Messaggero, con cui si <strong>in</strong>timava agli attentatori di autodenunciarsi, m<strong>in</strong>acciando<br />

di fare ciò che era già stato consumato.<br />

L’arrivo degli alleati<br />

Era giugno. L’aria era tiepida, le f<strong>in</strong>estre aperte. Quelle della casa della nonna<br />

davano su piazzale Flam<strong>in</strong>io; erano al primo piano. C’era attesa. Da tempo<br />

si diceva che gli Alleati, bloccati a Nettuno da mesi, sarebbero entrati a<br />

Roma stasera, no, domani, no, fra una settimana al massimo. Avevamo sentito<br />

colonne di camion tedeschi andare verso la Flam<strong>in</strong>ia, attraversando <strong>il</strong><br />

piazzale oppure scorrendo dal lungotevere. Poi, un lungo s<strong>il</strong>enzio. Si com<strong>in</strong>ciò<br />

a veder arrivare dal viale del Muro Torto una f<strong>il</strong>a di soldati diversi,<br />

con gli elmetti a padella rovesciata: <strong>in</strong>glesi o australiani. Alcune camionette<br />

con la stella bianca (americani) arrivarono da Piazza del Popolo, quando un<br />

camion tedesco scese all’impazzata da V<strong>il</strong>la Borghese. Un ritardatario.


40 Edoardo Salzano<br />

Scoppi, raffiche: una scaramuccia proprio sotto casa. Ci fecero buttare per<br />

terra, dietro <strong>il</strong> avanzale.<br />

La matt<strong>in</strong>a dopo, gli alleati erano entrati a Roma, l’avevano liberata. Tripudio.<br />

Ricordo la folla a piazza del Popolo che assaliva le jeep e i camion con<br />

la stella bianca cerchiata, abbracciava i soldati <strong>in</strong> uniforme cachi che buttavano<br />

sigarette e razioni di guerra.<br />

La carestia era f<strong>in</strong>ita. Gli Alleati portavano ogni ben di Dio. Le prime cibarie<br />

con cui festeggiammo la f<strong>in</strong>e della fame erano delle scatolette <strong>in</strong>cerate, di<br />

cartone verdognolo, nelle quali c’erano scatolette di ham and eggs, m<strong>in</strong>estre <strong>in</strong><br />

polvere, tavolette di cioccolata, pacchett<strong>in</strong>i di sigarette: erano la quotidiana<br />

razione di guerra, di cui i soldati, giunti nella grande città, si liberavano senza<br />

rimpianto. Poi com<strong>in</strong>ciarono le porzioni più grosse. Le scatole di m<strong>in</strong>estra<br />

di piselli secchi <strong>in</strong> polvere diventò <strong>il</strong> cibo più diffuso: la pea soup divenne<br />

un sapore ricorrente: <strong>in</strong>teressante all’<strong>in</strong>izio (sfamava, ed era diverso) <strong>in</strong>sopportab<strong>il</strong>e<br />

dopo alcuni mesi.<br />

Com<strong>in</strong>ciai a fumare, di nascosto. Sigarette, cioccolata e liquori erano i prodotti<br />

più diffusi alla borsa nera. E Maria di Venafro, con i suoi numerosi figli,<br />

era ben <strong>in</strong>serita nel commercio clandest<strong>in</strong>o. Le novità erano i sapori, ma<br />

anche le confezioni: c’erano dec<strong>in</strong>e e dec<strong>in</strong>e di tipi diversi di pacchetti di sigarette,<br />

americane <strong>in</strong>glesi australiane francesi <strong>in</strong>diane. Mio cug<strong>in</strong>o Luigi ed<br />

io ne facevamo collezione, raccogliendole per strada.<br />

Appare la politica<br />

Nel l<strong>in</strong>guaggio corrente entrò la politica. C’era stata la breve stagione tra la<br />

caduta del fascismo e l’8 settembre 1943, poi l’occupazione tedesca aveva<br />

rigettato la politica nella clandest<strong>in</strong>ità, e la preoccupazione dom<strong>in</strong>ante era<br />

divenuta la sopravvivenza. L’unica abitud<strong>in</strong>e “politica” era l’ascolto clandest<strong>in</strong>o<br />

di Radio Londra, che trasmetteva strani messaggi <strong>in</strong> cifra, comprensib<strong>il</strong>i<br />

solo agli oscuri m<strong>il</strong>itanti della lotta antifascista, e dava notizie sui fronti<br />

di guerra: a noi, ovviamente, <strong>in</strong>teressava la lenta risalita dal sud dell’esercito<br />

alleato.<br />

Dopo l’arrivo delle truppe alleate scoprii che la politica era vic<strong>in</strong>a: mio cug<strong>in</strong>o<br />

Alberto (<strong>il</strong> fratello maggiore di Luigi) era nella Resistenza come liberale o<br />

azionista, non ricordo. I miei genitori erano vic<strong>in</strong>i ad esponenti della clandest<strong>in</strong>ità<br />

antifascista monarchica. Ma papà diventò (o si scoprì) socialdemocratico:<br />

com<strong>in</strong>ciò a partecipare alle riunioni, le assemblee, i comizi. Pepp<strong>in</strong>o<br />

Galasso mi raccontò molti anni dopo (quando lo conobbi come m<strong>in</strong>istro


La lunga <strong>in</strong>fanzia 41<br />

per i Beni culturali) che mio padre era stato <strong>il</strong> primo che l’aveva avvic<strong>in</strong>ato<br />

alla politica, portandolo al Teatro Eliseo ad una manifestazione alla quale<br />

partecipavano Togliatti e Nenni, Ru<strong>in</strong>i e De Gasperi.<br />

Ma per noi ragazzi la politica restava una cosa estranea, lontana. Non ne capivamo<br />

nulla. Non coglievamo <strong>il</strong> fermento che agitava la Capitale, <strong>in</strong> quei<br />

mesi che separarono <strong>il</strong> giugno del 1944 (la liberazione di Roma, ad opera<br />

dell’armata alleata) dall’apr<strong>il</strong>e 1945 (la liberazione, ad opera dei partigiano<br />

del Comitato di liberazione italiana). A Roma, del resto, la mia famiglia ci<br />

rimase poco: appena fu possib<strong>il</strong>e tornammo a Napoli, dove erano la nostra<br />

casa, i nostri averi residui, l’impresa di papà. Almeno, così credevamo.


42 Edoardo Salzano


La lunga <strong>in</strong>fanzia 43<br />

Il viaggio a Napoli e l’arrivo<br />

CAPITOLO TERZO<br />

UN’ADOLESCENZA UN PO’ TARDIVA<br />

Per tornare a Napoli fu necessario aspettare <strong>il</strong> turno su di un camion. Le<br />

strade erano <strong>in</strong>terrotte, le ferrovie non funzionavano. Non so come, mediante<br />

quali canali i miei genitori riuscissero a organizzare quel viaggio. Era<br />

un camion scoperto, sul quale erano accumulate le masserizie di alcune famiglie<br />

e, sopra, i passeggeri. Del viaggio non ricordo gran che; ricordo<br />

l’arrivo a Napoli. La strada era un canyon, tra due alte rive di macerie, alte<br />

quasi quanto lo erano le case demolite dai bombardamenti.<br />

Andammo ad abitare a Palazzo Ottaviano, un palazzo nob<strong>il</strong>e all’<strong>in</strong>izio di via<br />

Chiaia, dove c’era, e c’è ancora, la famosa pasticceria Caflisch: di ottocentesca<br />

orig<strong>in</strong>e svizzera, come di orig<strong>in</strong>e olandese o belga erano le altre famose<br />

ditte di cioccolata e dolci di Van Bol & Feste e Gay & Od<strong>in</strong>. Era un appartamento<br />

di amici (Fernanda Del Balzo di Presenzano, nota per la passione<br />

per <strong>il</strong> gioco, che soddisfaceva a Montecarlo), molto bello e grande, al primo<br />

piano, con una gigantesca terrazza a livello. Aveva un solo <strong>in</strong>conveniente:<br />

una stanza era stata attraversata da una bomba fortunatamente non esplosa,<br />

che però con <strong>il</strong> suo peso aveva sfondato tetto e pavimento: si poteva attraversare<br />

la stanza solo sullo stretto spazio addossato alle pareti. Ma aveva<br />

una gigantesca terrazza, aperta su Via Chiaia, proprio sul centro elegante<br />

della città.<br />

La casa del Corso era stata veduta, non ricordo se prima del nostro arrivo a<br />

Napoli o subito dopo. Per 10 m<strong>il</strong>ioni. E si scoprì che l’impresa di papà praticamente<br />

non esisteva più: la guerra aveva travolto tutto. Rimanevano le<br />

terre, che poco a poco furono vendute.<br />

Il Pontano, balletti e <strong>il</strong> tennis<br />

Com<strong>in</strong>ciai a conoscere amici nuovi: ragazzi e ragazze che erano diventati<br />

adolescenti come me negli anni della guerra. Oltre agli amici d’un tempo<br />

(con Riccardo e Renato prendemmo la prima gigantesca sbornia di v<strong>in</strong> san-


44 Edoardo Salzano<br />

to), i primi amici nuovi li conobbi a scuola: al G<strong>in</strong>nasio-Liceo Pontano, dove<br />

completai la confusa formazione degli anni della guerra. Ammiravo un<br />

<strong>in</strong>telligentissimo e coltissimo ragazzo ebreo, Gianni Em<strong>in</strong>ente, con cui gareggiavo<br />

nell’<strong>in</strong>dov<strong>in</strong>are gli autori dei brani di musica classica e nel risolvere<br />

<strong>in</strong>dov<strong>in</strong>elli colti. Ricordo Nello Ajello, con cui non ci frequentavamo molto<br />

ma che condivideva con me <strong>il</strong> ruolo del migliore della classe <strong>in</strong> italiano (i<br />

nostri temo venivano premiati col massimo dei voti, che era <strong>il</strong> 7, e che ci<br />

obbligavano a portare <strong>il</strong> giorno dopo confetti a tutta la classe); Nello è diventato<br />

un famoso giornalista, una delle migliori penne delle pag<strong>in</strong>e culturali<br />

di Repubblica. Ricordo i fratelli Mar<strong>in</strong>o: Paolo, sordo e ottimo viol<strong>in</strong>ista, Angelo<br />

spigliato rubacuori; sulla scia (e con le risorse) dei loro genitori, sono<br />

diventati facoltosi commercianti di abbigliamento masch<strong>il</strong>e, con negozi nelle<br />

strade eleganti di Chiaia e Toledo. E Franco Persico, e Lello Pagliarulo,<br />

vocianti e grezzi adolescenti senza pensieri, con i quali condividevamo le<br />

fughe da scuola, per sfuggire a un’<strong>in</strong>terrogazione diffic<strong>il</strong>e rifugiandoci nei<br />

c<strong>in</strong>emetti <strong>in</strong> Galleria o evadendo, nella buona stagione, verso le scogliere di<br />

Pos<strong>il</strong>lipo.<br />

Con Riccardo Tomacelli e Renato Ruggiero, sulla terrazza della<br />

casa di Renato (1947?)<br />

Le ragazze si <strong>in</strong>contravano ai balletti: festicciole, con aranciate e dischi suonati<br />

sul fonografo a manovella: com<strong>in</strong>ciavano appena ad apparire quelli<br />

elettrici, e i primi dischi a 33 giri, i V-Disc dell’esercito USA. Attraverso i dischi<br />

com<strong>in</strong>ciai ad imparare l’<strong>in</strong>glese: Frank S<strong>in</strong>atra fu un maestro molto migliore<br />

da quella signora, non ricordo come si chiamava, dove andavo una<br />

volta alla settimana a leggere Oscar W<strong>il</strong>de, The importance of be<strong>in</strong>g Ernest. Lo


La lunga <strong>in</strong>fanzia 45<br />

sport che praticavo (un poco) era <strong>il</strong> tennis. Su Via Caracciolo era stato riaperto,<br />

con aiuti degli Alleati, la nuova sede del Circolo del Tennis, uno dei<br />

luoghi di ritrovo dell’aristocrazia napoletana.<br />

Né lo sport né i balletti mi guarivano dalla mia timidezza. Ricordo<br />

l’imbarazzo quando, per far colpo, mi presentai a un balletto dalla nipot<strong>in</strong>a<br />

di Benedetto Croce con <strong>il</strong> maglione e le scarpe da tennis. Credevo di far<br />

colpo, mi sentii sprofondare quando mi resi conto (o immag<strong>in</strong>ai) che gli altri<br />

mi guardavano con disprezzo dall’alto dei loro abiti eleganti.<br />

Un’estate a Capri<br />

Un’estate andammo a Capri. Era la prima volta che andavo <strong>in</strong> quest’isola,<br />

che ogni giorno per dieci anni - quando abitavamo a Corso Vittorio Emanuele<br />

130 - avevo visto dalla f<strong>in</strong>estra della mia stanza, a chiudere la visuale<br />

del Golfo. Eravamo <strong>in</strong> un piccolo albergo vic<strong>in</strong>o alla Strada Krupp. Pochi<br />

ricordi mi rimasero impressi, ma tutti con molta forza.<br />

Un concerto per pianoforte <strong>in</strong> una v<strong>il</strong>la a Tragara, una grande terrazza a<br />

strapiombo sul mare, con i Faraglioni immersi <strong>in</strong> una <strong>in</strong>tensa luce lunare. Fu<br />

lì forse che conobbi Perla Cacciaguerra, una ragazza di poco più grande di<br />

me, poetessa. Mi <strong>in</strong>segnò ad amare Rab<strong>in</strong>dranath Tagore, un poeta <strong>in</strong>diano.<br />

Un <strong>in</strong>gegnere che <strong>in</strong>contravamo nel ristorante dell’albergo, sapeva tutto<br />

d’ogni cosa: non c’era evento, piccolo o grande, che non sapesse spiegare.<br />

Forse è allora che sognai di diventare <strong>in</strong>gegnere.<br />

E fu a Capri che conobbi una ragazz<strong>in</strong>a bionda con gli occhi celesti, di cui<br />

m’<strong>in</strong>namorai. Cater<strong>in</strong>a Galli si chiamava. Figlia di amici dei miei genitori,<br />

amica delle mie sorell<strong>in</strong>e. La rividi a Roma. Le feci la posta negli ombrosi<br />

corridoi della casa a Monte di Dio 18, dove ci eravamo trasferiti, le strappai<br />

un esitante umido bacio. E qualche volta andavamo a passeggio per le strad<strong>in</strong>e<br />

di Pos<strong>il</strong>lipo, vic<strong>in</strong>o al Mausoleo Virg<strong>il</strong>iano (‘a tomba ‘e Sch<strong>il</strong>izzi, la<br />

chiamavano i napoletani, dal nome del signore che volle costruirvi <strong>il</strong> suo<br />

mausoleo, poi fallì prima di morire e potervi essere sepolto). Ci scrivemmo<br />

lettere d’amore che ho perduto.<br />

Estati a Sorrento<br />

Un luogo che frequentavo spesso, d’estate, era Sorrento. Eravamo andati lì<br />

<strong>in</strong> v<strong>il</strong>leggiatura i primissimi anni di guerra, all’Hotel Victoria, <strong>il</strong> più bello e


46 Edoardo Salzano<br />

lussuoso. Un <strong>in</strong>sopportab<strong>il</strong>e bamb<strong>in</strong>o, di cui ho subito dimenticato <strong>il</strong> nome,<br />

recitava a memoria, appena erano stati letti dall’annunciatore dell’Eiar e f<strong>in</strong>o<br />

al giorno dopo, i bollett<strong>in</strong>i di guerra. Dalle terrazze dell’albergo vedevamo,<br />

di notte, i fuochi dell’artiglieria contraerea senza sentirne i rumori, mentre<br />

come lontani boati ci giungevano gli annunci delle bombe esplose sui quartieri<br />

del porto e della zona <strong>in</strong>dustriale.<br />

Dopo la guerra andavo a Sorrento da solo, da amici che avevano una bellissima<br />

v<strong>il</strong>la decadente, a Piano di Sorrento: i pr<strong>in</strong>cipi di Fondi. Un grande<br />

giard<strong>in</strong>o pens<strong>il</strong>e si apriva sul mare. Una fotografia che mi è rimasta ricorda<br />

una ragazza bionda, Giuliana S<strong>il</strong>vestri, che corteggiavo <strong>in</strong> gara con <strong>il</strong> mio<br />

amico Renato Ruggiero. Ma ciò che soprattutto mi rimane nella memoria<br />

sono le semplici prime colazioni, costituite da una scodella di caffellatte, sapide<br />

fette di ottimo pane e meravigliose noci schiacciate <strong>in</strong> grandi quantità.<br />

I boy scout<br />

A Sorrento, sulla terrazza di V<strong>il</strong>la Fondi,<br />

con Renato Ruggiero e Giuliana S<strong>il</strong>vesti<br />

Prima del fascismo c’erano a Napoli i boy scout. Lo era stato mio padre.<br />

Dopo la guerra un gruppo di amici decise di ricostituire l’antica organizzazione,<br />

fondata dopo la guerra dei Boeri da lord Baden Powell. Ci organizzavano<br />

e portavano <strong>in</strong> giro due amici di mio padre, l’<strong>in</strong>gegnere Luigi Cosenza<br />

e <strong>il</strong> signor Cavallo, un simpatico e dist<strong>in</strong>to commerciante di tessuti. Com<strong>in</strong>ciammo<br />

con una gita alle pendici del Vesuvio. Rimasi <strong>in</strong>dietro, perché a uno<br />

dei piccoli figli di Cosenza (non ricordo se Giulio o Giancarlo) scoppiò un<br />

febbrone. Fummo lasciati <strong>in</strong> un campo, tra le stoppie, dall’imbrunire alla<br />

notte, mentre gli altri raggiungevano <strong>il</strong> luogo dell’accantonamento, f<strong>in</strong>ché <strong>il</strong><br />

padre tornò a prenderci e ci riportò <strong>in</strong> città.<br />

Eravamo un gruppo molto disord<strong>in</strong>ato: una compag<strong>in</strong>e del tutto diversa rispetto<br />

a quello che poi i boy scout divennero più tardi: irreggimentati e tirati


La lunga <strong>in</strong>fanzia 47<br />

a lustro. Vestivamo uniformi raccogliticce: pochi fortunati avevano<br />

l’uniforme e <strong>il</strong> cappello del padre (ricordo solo Franco Cavallo), gli altri si<br />

arrangiavano con ciò che trovavano. Con grande impegno trasformammo<br />

<strong>in</strong> cappelli con la tesa, tipici del boy scout, i feltri verdi di avanguardista sottratti<br />

ai padri o ai fratelli maggiori: scoprimmo che bastava bagnarli e stirarli,<br />

aiutandosi con una pignatta a mo’ di forma e un ferro caldo.<br />

La nostra pattuglia (gli Scoiattoli) era comunque la più organizzata. Ci eravamo<br />

dotati di fazzoletti da collo bordeaux, “nastr<strong>in</strong>i omerali”, fischietti col<br />

cordonc<strong>in</strong>o, bastoni regolamentari e temper<strong>in</strong>i robusti. La domenica facevamo<br />

gite ai Camaldoli accompagnati da Luigi Cosenza. In quegli anni, appena<br />

superate due f<strong>il</strong>e di isolati da Piazza Sannazzaro, al Vomero, si entrava<br />

<strong>in</strong> aperta campagna. Ai pochi casolari abitati da famiglie contad<strong>in</strong>e seguivano<br />

rapidamente boschi di castagni, f<strong>in</strong>o a quello che avvolgeva l’Eremo e<br />

nel quale ci accampavamo.<br />

A volte pernottavamo nelle tende messe su alla meglio. All’<strong>in</strong>izio erano vecchie<br />

coperte prese a casa, legate con funicelle e spaghi; poi qualche ufficiali<br />

degli Alleati, che vedevano di buon occhio la sostituzione dei Bal<strong>il</strong>la fascisti<br />

con la democratica istituzione scoutistica, ci regalarono qualche avanzo della<br />

guerra. La notte facevamo rigorosi turni di guardia. I due di turno vig<strong>il</strong>avano<br />

accanto a un fuoco di bivacco, accuratamente alimentato. Più dei vagabondi,<br />

<strong>il</strong> timore erano i lupi che - si diceva - erano scappati con la guerra<br />

dallo Zoo della Mostra d’Oltremare, ai piedi della Coll<strong>in</strong>a dei Camaldoli.<br />

Luigi Cosenza<br />

Luigi Cosenza era un personaggio davvero s<strong>in</strong>golare. Piano piano (e soprattutto<br />

qualche anno dopo) conobbi la sua storia. Generoso e irruente quando<br />

ci organizzava e accompagnava (ricordo un suo a corpo a corpo con due<br />

giov<strong>in</strong>astri che ci m<strong>in</strong>acciavano, nelle campagne tra <strong>il</strong> V’omero e i Camaldoli),<br />

queste caratteristiche presiedevano tutta la sua vita. Comunista, era stato<br />

amico di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del PC d’Italia, <strong>in</strong>gegnere come<br />

lui. Negli anni del fascismo aveva abbracciato la scuola razionalista, e<br />

costruito alcune pregevoli architetture a Napoli, con <strong>il</strong> famoso Rudofsky.<br />

Era una delle figure em<strong>in</strong>enti dell’ala <strong>in</strong>tellettuale del PCI a Napoli. Un altro<br />

che ricordo, ma che non conobbi di persona, era <strong>il</strong> grande matematico Renato<br />

Caccioppoli. Geniale nel suo mestiere, grandissimo musicologo e musicista,<br />

era legato da v<strong>in</strong>coli fam<strong>il</strong>iari all’anarchico Michele Bakun<strong>in</strong>. Quando<br />

lo ricordo <strong>in</strong>segnava ancora all’Università (ma non ho frequentato i suoi


48 Edoardo Salzano<br />

corsi), e si aggirava la sera nelle strade di Napoli avvolto <strong>in</strong> un impermeab<strong>il</strong>e<br />

bianchiccio, vac<strong>il</strong>lante per l’alcool e la droga.<br />

Cosenza non era matematico, ma <strong>in</strong>gegnere: portato alla pratica più che alla<br />

teoria, dunque. Dicono che quando fu <strong>in</strong>carcerato a Poggioreale (capeggiava<br />

una grande dimostrazione contro la visita <strong>in</strong> Italia di Ike Eisenhower, preludio<br />

all’<strong>in</strong>gresso nella NATO, repressa dalla polizia) conv<strong>in</strong>se <strong>il</strong> direttore del<br />

carcere che le condizioni erano <strong>in</strong>tollerab<strong>il</strong>i e ottenne l’<strong>in</strong>carico di studiare <strong>il</strong><br />

progetto per un carcere moderno e razionale.<br />

Invece del carcere progettò la nuova sede della facoltà d’<strong>in</strong>gegneria, a Fuorigrotta,<br />

e la bella sede della Olivetti a Pozzuoli. Abitava <strong>in</strong> una casa con una<br />

splendida terrazza, a Mergell<strong>in</strong>a. Sulla terrazza scorrazzavano gli animali che<br />

volta per volta amava. Una volta aveva avuto un leonc<strong>in</strong>o, che nel tempo<br />

era cresciuto. Si racconta che una volta chiese agli <strong>in</strong>gegneri della Olivetti,<br />

con cui doveva andare a vedere <strong>il</strong> cantiere a Pozzuoli: “Vi dispiace se passiamo<br />

un momento alla Mostra d’Oltremare, che porto Leo a giocare con i<br />

suoi amici?”. Pensando che si trattasse di un cane gli <strong>in</strong>gegneri risposero:<br />

“Senz’altro, la macch<strong>in</strong>a è grande”: si spaventarono molto quando scoprirono<br />

che Leo era <strong>il</strong> nome di un leone.<br />

Aveva un fratello più giovane di lui, Carlo. Più giovane e più mondano. Era<br />

<strong>in</strong>fatti nel giro dei miei genitori. Era <strong>in</strong>namorato di una ragazza, la cui bellezza<br />

ancora mi rapisce: Carlott<strong>in</strong>a Del Pezzo, si chiamava. Un giorno si<br />

ammazzò, per amore si disse.<br />

I campeggi liberi<br />

Dopo l’esperienza dei boy scout prendemmo l’abitud<strong>in</strong>e di andare a fare dei<br />

campeggi per conto nostro. Allora era molto diverso da adesso: poche cose<br />

sono più distanti dei campeggi come li ho vissuti <strong>in</strong> quegli anni dai camp<strong>in</strong>g<br />

che costellano le coste del Mediterraneo.<br />

Si partiva con robusti sacchi e, per le gite più lunghe, grandi rotoli <strong>in</strong> cui erano<br />

stretti i teli delle tende e le coperte. Scatolette, qualche pentola, <strong>in</strong>dumenti<br />

caldi, lampade a petrolio e ferramenta varia erano d’obbligo. A volte<br />

un mulo ci accompagnava per i fardelli più pesanti e i sentieri più impervi.<br />

Una volta raggiunto <strong>il</strong> punto dell’accampamento, si passava la giornata ad<br />

accudire al campo, giocare a carte, esplorare i d<strong>in</strong>torni. Ogni due o tre giorni<br />

una passeggiata di corvée al paese più vic<strong>in</strong>o per comprare la pagnotta<br />

fresca e qualche alimento.


La lunga <strong>in</strong>fanzia 49<br />

L’<strong>in</strong>telligenza era di scegliere un posto riparato, tra ombra e luce, vic<strong>in</strong>o a<br />

vegetazione da usare per ammorbidire <strong>il</strong> suolo sotto <strong>il</strong> fondo della tenda,<br />

non distante da una sorgente dove approvvigionarsi per bere e cuc<strong>in</strong>are, lavare<br />

i panni e le stoviglie (che strof<strong>in</strong>avamo con cenere e terra).<br />

Ricordo un campeggio a Sant’Angelo ai Tre Pizzi, nei Lattari, tra la Costiera<br />

amalfitana e quella sorrent<strong>in</strong>a. Le tende erano sulle pendici di una sella, al<br />

limitare del bosco, su un pendio coperto di morbide felci. Ero di guardia<br />

accanto a un fuoco ormai ridotto a poche braci rosseggianti. L’alba ancora<br />

non appariva e la luna era appena scomparsa, ma la sua residua luce rivelava<br />

i brandelli di nebbia sul fondo della sella. All’improvviso delle luci più forti,<br />

l’abbaiare dei cani, e un certo numero di uom<strong>in</strong>i con i fuc<strong>il</strong>i a tracolla animarono<br />

<strong>il</strong> paesaggio: cacciatori, <strong>in</strong> marcia d’avvic<strong>in</strong>amento. Non ci videro.<br />

Dopo qualche istante <strong>il</strong> s<strong>il</strong>enzio e la nebbiol<strong>in</strong>a lattig<strong>in</strong>osa ripreso <strong>il</strong> dom<strong>in</strong>io.<br />

La rapida scena, e l’emozione, mi sono rimaste impresse.<br />

Attendati sul Monte Faito, Franco Cavallo<br />

col cerotto, io al centro e a destra<br />

Maurizio Piscicelli<br />

V<strong>il</strong>la Pavoncelli<br />

A quei tempi Napoli era anche, per i suoi abitanti, una stazione balneare.<br />

Gli scugnizzi d’estate si gettavano <strong>in</strong> mare dalle scogliere prospicienti Via<br />

Caracciolo (ma a noi, ragazzi per bene, era proibito: già si diceva che non<br />

fosse igienico). Uno stab<strong>il</strong>imento frequentato era però <strong>il</strong> Sea Garden a Mergell<strong>in</strong>a,<br />

proprio dove dalla strada litoranea si stacca la coll<strong>in</strong>a di Pos<strong>il</strong>lipo.<br />

Noi andavamo a mare più su, a Pos<strong>il</strong>lipo, dove grandi e <strong>in</strong>tricate v<strong>il</strong>le occupano<br />

<strong>il</strong> costone verdeggiante tra la strada e <strong>il</strong> mare.<br />

Palazzo Donn’Anna, l’antica residenza di Giovanna La Pazza, non aveva<br />

spiaggia, ma una discesa a mare attraverso i diruti saloni dove <strong>il</strong> tufo delle<br />

rocce e quello dei muri si sfaldavano. Le v<strong>il</strong>le che frequentavamo di più era-


50 Edoardo Salzano<br />

no più avanti: v<strong>il</strong>la Pavoncelli, V<strong>il</strong>la Carunchio, V<strong>il</strong>la D’Avalos. La prima<br />

soprattutto, abitata da alcune famiglie dell’aristocrazia napoletana molto legate<br />

alla mia: i Del Balzo di Presenzano e i Pavoncelli.<br />

Da Via Pos<strong>il</strong>lipo si scendeva per una scaletta, vig<strong>il</strong>ata dal portiere. Si attraversavano<br />

corridoi umidi, a volte aperti sul mare, terrazze, ballatoi, scalette e<br />

atri, f<strong>in</strong>ché si giungeva a una spiaggetta protetta da una breve scogliera.<br />

Prima dell’ultima rampa una umida stanza scavata nella roccia era <strong>il</strong> luogo<br />

dove ci si cambiava e si lasciavano gli abiti e, al ritorno, si poteva fare la<br />

doccia. Sulla spiaggetta si apriva un’ampia grotta, deposito di <strong>in</strong>numerevoli<br />

scafi.<br />

Miei amici erano soprattutto i Pavoncelli. Famiglia di nob<strong>il</strong>tà recente (si diceva,<br />

con una certa sufficienza, che erano diventati marchesi con l’unità<br />

d’Italia), la loro ricchezza veniva dalle terre <strong>in</strong> Puglia, a Cerignola (<strong>il</strong> paese<br />

del grande s<strong>in</strong>dacalista contad<strong>in</strong>o Giuseppe Di Vittorio, che contribuì poderosamente<br />

a portare nella democrazia repubblicana i mezzadri e i braccianti<br />

del Sud). Avevano un’azienda molto ben condotta che produceva, tra<br />

l’altro, ottimi v<strong>in</strong>i. Dei due figli maschi (Giuliana, la sorella, era un po’ più<br />

grande di noi) Nico era già orientato verso l’azienda fam<strong>il</strong>iare. Fraternizzavo<br />

più con Giuseppe, che fu per me un magister elegantiarum (ma l’impr<strong>in</strong>t<strong>in</strong>g me<br />

l’avevano dato i geni e l’esempio paterni). Naturalmente le gite per comprare<br />

le cravatte da Mar<strong>in</strong>ella, <strong>il</strong> negozietto alla Torretta poi diventato famoso,<br />

erano d’obbligo: per noi, allora, non c’era altro chic se non quello. Per ciascuno<br />

di noi <strong>il</strong> signor Mar<strong>in</strong>ella conservava la forma per tenere <strong>in</strong> piega la<br />

cravatta, e ci avvertiva quando era arrivata una nuova partita di pezze..<br />

Il Circolo Italia e <strong>il</strong> farmacista<br />

Un altro luogo della buona società napoletana dove sport e mondanità<br />

s’<strong>in</strong>trecciavano erano i circoli nautici. Ve n’erano diversi: <strong>il</strong> Savoia, <strong>il</strong> Napoli,<br />

l’Italia. Comuni a tutti erano le attività nautiche (di giorno) e <strong>il</strong> gioco<br />

d’azzardo (la sera). Il Circolo del remo e della vela Italia era <strong>il</strong> più su, nella<br />

gerarchia sociale: <strong>il</strong> Savoia era frequentato soprattutto da commercianti, e al<br />

Napoli prevalevano i nuovi ricchi. All’Italia solo molto tardi, ai rentiers e ai<br />

professionisti, si tollerò l’aggiunta dei commercianti. Anzi, c’è una storiella<br />

che dip<strong>in</strong>ge bene l’atmosfera.<br />

Un commerciante, un farmacista, era appena stato ammesso al Circolo: uno dei<br />

primissimi. Una sera perde, molti m<strong>il</strong>ioni. Il giorno dopo non si presenta. Il Presidente<br />

è <strong>in</strong><strong>formato</strong>, cerca subito i due presentatori. “Non ti preoccupare - rispon-


La lunga <strong>in</strong>fanzia 51<br />

dono - vedrai che sta male o s’è rotto una gamba, non ha trovato nessuno per venirci<br />

a <strong>in</strong>formare. Adesso andiamo noi”.<br />

Si precipitano a casa del farmacista. Bussano, <strong>il</strong> cameriere apre. “Come sta ‘u signor<strong>in</strong>o?”,<br />

chiedono. “Benissimo”, risponde <strong>il</strong> cameriere, e chiama <strong>il</strong> padrone. “UÈ,<br />

ma tu qua stai? Stai bene” fanno stupiti. “E ch’aggio ‘a tenÈ?”, esclama <strong>il</strong> farmacista,<br />

facendo gli scongiuri. Qui <strong>il</strong> dibattito diventa <strong>in</strong>tenso.<br />

“Ma come, non ti ricordi che l’altro ieri sera hai perso 15 m<strong>il</strong>ioni?”<br />

“Certo che mi ricordo. Non vuoi che mi ricordo una puttanata e una scalogna così<br />

grossa. M’ero proprio <strong>in</strong>fognato”<br />

“E allora? Non sai che i debiti di gioco si pagano entro le 24 ore?”<br />

“Ah si? Davvero si devono pagare entro le 24 ore?”<br />

“Ma certo, m<strong>il</strong>le volte te l’abbiamo detto”<br />

“E se uno non paga che succede?”<br />

“Come che succede: ti affiggono”, rispondono costernati i soci presentatori.<br />

“Ah, mi affiggono. E che vuol dire?”<br />

“Come che vuol dire? Vuol dire che scrivono <strong>il</strong> tuo nome su <strong>in</strong> foglio, con la cifra<br />

che non hai pagato, e lo mettono nella bacheca all’<strong>in</strong>gresso!”<br />

“Ah, se non pago 15 m<strong>il</strong>ioni mettono <strong>il</strong> mio nome su un foglio e lo mettono nella<br />

bacheca?”<br />

“Certo, si, proprio così!”<br />

“Vabbuo’ - fa <strong>il</strong> farmacista - e a me che me ne fotte?”<br />

Guardandosi negli occhi, i due presentatori rispondono a una voce:<br />

“Farmaci’, tu si’ ‘nu ddio!”<br />

Nessuno dei soci dell’Italia si sarebbe permesso di violare una regola così<br />

severa. Ma certo si permettevano di sorridervi sopra. E la battuta “Farmaci’,<br />

tu ‘si ‘nu ddio” rimase a contrassegnare chi svelava l’<strong>in</strong>coerenza che si nascondeva<br />

sotto uno stereotipo.<br />

Dell’Italia mio padre era socio <strong>in</strong>fluente. Per un certo periodo ne fu l’amato<br />

vicepresidente. Io ero di casa, qu<strong>in</strong>di. Di giorno, come tutti i ragazzi. Ma<br />

non praticavo <strong>il</strong> remo: non volli mai vogare su quegli es<strong>il</strong>i scafi lucidissimi,<br />

dove selezionate squadre ogni anno si allenavano per alcune famose regate,<br />

le cui coppe v<strong>in</strong>te ornavano <strong>il</strong> salone del circolo. Preferivo la vela, più adatta<br />

a un pigro come me.<br />

La domenica c’erano le gite sociali. I soci e le loro famiglie s’imbarcavano la<br />

matt<strong>in</strong>a su alcune barche a vela (i “monotipi”), generalmente guidate da uno<br />

dei mar<strong>in</strong>ai salariati, e si allontanavano verso baie vic<strong>in</strong>e (come la Cala di<br />

Trentaremi, al Capo di Pos<strong>il</strong>lipo) o più lontane (come la scogliera di Puolo,<br />

al Capo di Sorrento, o alla Mar<strong>in</strong>a Grande di Capri). Si mangiava a bordo: le<br />

frittate di maccheroni portate da casa, o i taralli “‘nzogna e pepe” offerti da<br />

barcaioli stazionanti nei punti di maggior afflusso. Si chiacchierava e si<br />

prendeva <strong>il</strong> sole, ancorata la barca si facevano i tuffi e i più coraggiosi (mia<br />

mamma era tra questi) sommozzavano e pescavano i ricci, poi al ritorno si


52 Edoardo Salzano<br />

prendevano ancora <strong>il</strong> sole e <strong>il</strong> vento. Dip<strong>in</strong>gono bene l’atmosfera di questa<br />

gite alcuni versi di Ernesto Murolo:<br />

L’arberatura schioppa…’E vele sbanneno,<br />

ruciulèa sottoviento nu b<strong>in</strong>ocolo…<br />

‘O cottero va “orza”…<br />

Nu poco ancora…N’atu ppoco ancora…<br />

Pare c’affonna, pare<br />

Cu ‘a murata ‘<strong>in</strong>t’all’acqua e a chiglia ‘a fore…<br />

…Che viento frisco!<br />

…e quant’è bello, ‘o mare,<br />

ca fragne a poppa e sciaqquettèa p’’a prora…<br />

Ecco, tra le emozioni della mia giov<strong>in</strong>ezza ritrovate nei poeti questa è forse<br />

tra le prime. Sento ancor oggi “quant’è bello, ‘o mare, che fragne a poppa e<br />

sciaqquettea p’’a prora”.<br />

Ernesto Murolo era padre di Roberto, <strong>il</strong> famoso e bravissimo cantante di<br />

canzoni napoletane (la sua f<strong>il</strong>ologica Antologia della canzone napoletana,<br />

edita da Ricordi, è molto bella), Massim<strong>in</strong>o, gran giocatore di carte e amico<br />

dei miei genitori, e Maria, con cui mio padre ebbe un flirt, <strong>in</strong>tessuto di gite<br />

<strong>in</strong> barca a vela: forse <strong>in</strong> quelle stesse occasioni cui <strong>il</strong> poeta si riferisce, nella<br />

sua poesia “‘O viento”.<br />

Isabella Mosca e Francesca Sersale<br />

Nel giro di V<strong>il</strong>la Pavoncelli e del Circolo Italia conobbi due ragazze di cui<br />

divenni <strong>in</strong>separab<strong>il</strong>e amico, <strong>in</strong>namorandomi prima dell’una e poi dell’altra:<br />

Isabella Mosca e Francesca Sersale. Isabella abitava a via Monte di Dio, la<br />

strada dove abbiamo abitato alcuni anni. Un vecchio palazzo nob<strong>il</strong>iare, del<br />

quale occupavano un appartamento, devastato dalle bombe e reso vivib<strong>il</strong>e<br />

da drappi appesi alle pareti a nascondere i muri rattoppati alla meglio, arricchito<br />

da una grandissima terrazza a livello. Adoravo le donne della famiglia:<br />

la vecchia nonna Giordano, la mamma che nel salotto modesto ed elegante,<br />

dopo <strong>il</strong> tea, mi leggeva le carte <strong>in</strong>terrompendo i suoi solitari, la sorell<strong>in</strong>a<br />

Schatzy, spiritosa e turbolenta.<br />

Per Isabella ebbi un breve trasporto d’amore, che subito si trasformò <strong>in</strong> <strong>in</strong>tensa<br />

amicizia. Di Francesca Sersale <strong>in</strong>vece, sua amica e “fidanzata” di Peppe<br />

Pavoncelli, mi <strong>in</strong>namorai perdutamente. Era molto bella e gaia, di una<br />

semplicità <strong>in</strong>genua e spensierata. Corpo es<strong>il</strong>e e lunghissime gambe, lunghi<br />

capelli castani e occhi <strong>in</strong>tensi, a volte sorridenti a volte gravi. Non ho mai<br />

capito <strong>il</strong> suo flirt con Peppe Pavoncelli: lei aveva una profondità di pensieri


La lunga <strong>in</strong>fanzia 53<br />

e di sentimenti che doveva sfuggire alla fatuità di Peppe, cui <strong>in</strong>teressava<br />

molto pavoneggiarsi (nomen, omen) con la ragazza più bella del giro.<br />

Francesca aveva molti fratelli (di uno era perdutamente <strong>in</strong>namorata Isabella),<br />

e la sua famiglia viveva nell’angosciato lutto per la scomparsa, <strong>in</strong> Russia,<br />

del fratello maggiore, dato per disperso. Da questo evento era nato nella<br />

famiglia (soprattutto negli anziani genitori, ma con riverberi anche sui figli)<br />

un aspro anticomunismo.<br />

A s<strong>in</strong>istra<br />

Isabella Mosca e Francesca Sersale.<br />

A destra<br />

Francesca a V<strong>il</strong>la Pavoncelli<br />

La politica? Non c’era<br />

Non ero comunista allora. Di politica si parlava poco, e meno ancora vi si<br />

pensava. Se avessi dovuto def<strong>in</strong>irmi, avrei detto che ero socialdemocratico:<br />

una s<strong>in</strong>istra sentimentale e “per bene”. È per <strong>il</strong> partito di Saragat che votai<br />

<strong>in</strong>fatti, al mio primo esercizio di democrazia.<br />

Della politica mi arrivavano solo gli echi lontani, attraverso le poche persone<br />

che, <strong>in</strong> qualche modo vic<strong>in</strong>e al mondo della politica, raggiungevano con<br />

qualche loro dimensione <strong>il</strong> mondo delle frivolezze, delle buone maniere e<br />

dell’estetica, al quale appartenevo, sia pure con un crescente distacco. La<br />

dimensione politica che c’era dietro Luigi Cosenza o Renato Caccioppoli,<br />

oppure dietro Leopoldo Rub<strong>in</strong>acci (<strong>il</strong> sottosgretario democristiano, zio e<br />

protettore del mio amico Renato Ruggiero), la compresi molto più tardi.<br />

Una volta, tra <strong>il</strong> 1946 e <strong>il</strong> 1948, <strong>in</strong>tuii che c’era un’altra dimensione, sconosciuta<br />

e potente, fonte di timore e soggezione. Fu dall’alto del Ponte di<br />

Chiaia che vidi passare, giù <strong>in</strong> strada, un grande e compatto corteo di operai


54 Edoardo Salzano<br />

delle fabbriche di Fuorigrotta: una folla s<strong>il</strong>enziosa, muta, dai volti chiusi più<br />

dei pugni, colorata del blu delle tute. Una realtà che <strong>in</strong>cuteva, <strong>in</strong>sieme, paura<br />

e rispetto.<br />

Un’estate a Colle Isarco<br />

Fu forse dopo la licenza liceale, qu<strong>in</strong>di nel 1948, che andammo <strong>in</strong> v<strong>il</strong>leggiatura<br />

a Colle Isarco. Ricordo quella vacanza per la conoscenza, fugace, di un<br />

gruppo di em<strong>il</strong>iani di cui faceva parte una ragazza che mi piaceva molto, e<br />

che si faceva distrattamente accarezzare, e per la frequentazione di un<br />

s<strong>in</strong>golare personaggio: Ch<strong>in</strong>ch<strong>in</strong>o Compagna.<br />

Ch<strong>in</strong>ch<strong>in</strong>o era <strong>il</strong> rampollo d’una famiglia di nob<strong>il</strong>i calabresi, ricchissimi e (a<br />

quanto si diceva) altrettanto rozzi: vera nob<strong>il</strong>tà borbonica. La loro ricchezza<br />

era prodotta dai cafoni dei latifondi calabresi. Non si era trasformata né <strong>in</strong><br />

cultura né <strong>in</strong> lusso. Si diceva (horresco dicens!) che a tavola loro si mangiasse <strong>il</strong><br />

formaggio con le mani.<br />

Oggi def<strong>in</strong>iremmo forse <strong>il</strong> Ch<strong>in</strong>ch<strong>in</strong>o degli anni Quaranta un giovane teppista.<br />

Era certamente ignorante e maleducato: famoso rimase un sonoro pernacchio<br />

col quale salutò <strong>il</strong> presidente dell’elegante Circolo del Tennis, alla<br />

festa per la sua <strong>in</strong>augurazione. Quando lo conobbi era <strong>in</strong> una fase di profonda<br />

trasformazione. Aveva frequentato casa Croce (non so se ve lo condusse<br />

mio padre), e aveva scoperto l’esistenza dei libri. Leggere gli aveva<br />

cambiato la testa, <strong>in</strong> pochi mesi. Ricordo le signore amiche di mia mamma,<br />

tutte rigorosamente monarchiche, che dicevano scandalizzate: “Capisci, è<br />

diventato repubblicano perché ha letto duecento libri!”, meravigliandosi del<br />

fatto che si potesse cancellare una fede, così saldamente impressa, come<br />

quella monarchica, semplicemente perché si era fatto l’esercizio frivolo e un<br />

po’ stravagante della lettura!<br />

A Colle Isarco, dove era con la giovane ed es<strong>il</strong>e moglie Licia, partecipava<br />

con comodo alle gite che facevamo, ma la sua attività preferita era la lettura,<br />

f<strong>in</strong> dalla matt<strong>in</strong>a presto. Le cameriere che facevano le pulizie nei saloni<br />

dell’albergo lo trovavano già a leggere la matt<strong>in</strong>a all’alba.<br />

Ch<strong>in</strong>ch<strong>in</strong>o alimentò la mia passione per la poesia regalandomi un libro di<br />

cui gli fui molto grato: <strong>il</strong> primo volume di una bellissima rivista di poesia (la<br />

testata era, appunto, Poesia, ed era diretta da Enrico Falqui). Con una bellissima<br />

dedica:<br />

Un modesto ricordo, un s<strong>in</strong>cero augurio, una certa speranza di sicuri successi <strong>in</strong><br />

una vita serena, rischiarata da caldi affetti, <strong>il</strong> mio compreso.


La lunga <strong>in</strong>fanzia 55<br />

Lo persi di vista. Per meglio dire, lo seguii a distanza: era diventato un uomo<br />

pubblico. Con i soldi dei cafoni calabresi fondò una rivista, Nord e Sud,<br />

che riuniva gli <strong>in</strong>tellettuali meridionali e meridionalisti di area repubblicana e<br />

socialdemocratica. Lo ritrovai molti anni dopo, bravo m<strong>in</strong>istro per i Lavori<br />

pubblici. Morì a Capri, sulla spiaggia sotto <strong>il</strong> Palazzo di Tiberio, per un <strong>in</strong>farto,<br />

d’improvviso.<br />

Gite da Colle Isarco – A s<strong>in</strong>istra con Ch<strong>in</strong>ch<strong>in</strong>o Compagna e Carlo Capodiferro al Lago di Braies; a destra<br />

con mamma <strong>in</strong> un rifugio<br />

L’università<br />

All’università, <strong>in</strong> quegli anni, non mi impegnavo molto. Mi ero iscritto a Ingegneria<br />

senza una vera ragione. Gli argomenti che mi conv<strong>in</strong>sero erano<br />

due: al liceo andavo bene <strong>in</strong> matematica, mio padre aveva (ancora per poco)<br />

un’impresa di costruzioni. Se avessi potuto seguire le mie <strong>in</strong>cl<strong>in</strong>azioni, avrei<br />

scelto mestieri “poetici”. Ma carm<strong>in</strong>a non dant panem.<br />

Dell’università di quegli anni ricordo ben poco. La mesta cerimonia della<br />

“matricola”, consistente <strong>in</strong> una grande abbuffata di paste offerte agli amici<br />

della lista Bacco Tabacco e Venere; le aule sovraffollate e i professori <strong>in</strong>avvic<strong>in</strong>ab<strong>il</strong>i<br />

nell’immenso palazzo tra <strong>il</strong> Rettif<strong>il</strong>o e Via Mezzocannone. Non ricordo<br />

come diedi gli esami, meno ancora come mi preparai nelle diffic<strong>il</strong>i<br />

materie che farcivano <strong>il</strong> biennio. I miei <strong>in</strong>teressi erano altrove.


56 Edoardo Salzano<br />

Carlo Frezza, <strong>il</strong> c<strong>in</strong>ema e Benedetto Croce<br />

Non ricordo come conobbi Carlo Frezza. La comune passione per <strong>il</strong> c<strong>in</strong>ema?<br />

Forse. A quei tempi si frequentava un circolo del c<strong>in</strong>ema a Via Martucci,<br />

dove f<strong>in</strong>almente vedemmo f<strong>il</strong>m diversi da quelli dell’<strong>in</strong>fanzia (Capitano<br />

Blood o Stanlio ed Ollio), e dalle “americanate”, tipo Bellezze al bagno, che<br />

si proiettavano dal dopoguerra al c<strong>in</strong>ema Della Palme o al c<strong>in</strong>ema Corona.<br />

De Sica ed Eisenste<strong>in</strong>, Pudovk<strong>in</strong> e Rossell<strong>in</strong>i, Autant–Lara e Dreyer erano<br />

le nostre scoperte e i nostri entusiasmi.<br />

Carlo apparteneva a una famiglia della piccola borghesia <strong>in</strong>tellettuale: notai<br />

o avvocati. Mi <strong>in</strong>trodusse nella politica universitaria. Ero appena iscritto a<br />

Ingegneria, e mi chiese di partecipare a una lista diversa da quelle legate ai<br />

partiti, dal titolo goliardico, e un po’ qualunquista, di Bacco Tabacco e Venere.<br />

Aveva un programma culturale impegnativo: Carlo avrebbe dovuto dirigere<br />

<strong>il</strong> Centro universitario teatrale e, nell’ambito di questo, mi chiese di<br />

mettere su una nuova Sezione c<strong>in</strong>ema. Accettai. La lista ottenne una rappresentanza<br />

nel parlament<strong>in</strong>o universitario. Con grande fatica organizzai una<br />

splendida rappresentazione di un bellissimo f<strong>il</strong>m, cha a Napoli nessuno aveva<br />

ancora visto: Breve <strong>in</strong>contro, di David Lean, con Trevor Howard e Celia<br />

Johnson: due eccezionali attori drammatici. Grandissimo successo: la sala<br />

del C<strong>in</strong>ema Santa Lucia, che avevamo affittato per l’occasione, era gremita,<br />

<strong>il</strong> pubblico attento e s<strong>il</strong>enzioso. Ne ero così entusiasta che, da allora, Francesca<br />

Sersale mi chiamava Eddy Lean.<br />

Ricordo le lunghe serate, con Carlo, a discutere di c<strong>in</strong>ema, di arte, di poesia.<br />

Il tema <strong>in</strong> voga, nel mondo che frequentava i circoli del c<strong>in</strong>ema, era “lo specifico<br />

f<strong>il</strong>mico”: se ne discuteva sulle riviste che leggevamo (Bianco e Nero,<br />

C<strong>in</strong>ema, C<strong>in</strong>éma d’Aujourd’hui), se ne dibatteva <strong>in</strong> sala alla f<strong>in</strong>e delle proiezioni.<br />

Dopo <strong>il</strong> c<strong>in</strong>ema io accompagnavo lui f<strong>in</strong>o al portone, poi lui riaccompagnava<br />

me, poi ancora e ancora. In quei mesi uscì un articolo di Benedetto<br />

Croce, <strong>in</strong> cui sosteneva che <strong>il</strong> c<strong>in</strong>ema è Prosa e non Poesia. Eravamo entrambi<br />

crociani: <strong>in</strong> quegli anni, a Napoli, o si era crociani o si era comunisti:<br />

non c’erano alternative per i giovani <strong>in</strong>tellettuali. La presa di posizione ci<br />

turbò moltissimo: non eravamo affatto d’accordo con <strong>il</strong> Maestro, per noi <strong>il</strong><br />

c<strong>in</strong>ema era Poesia con sei maiuscole, sebbene non fosse ancora chiaro se lo<br />

“specifico f<strong>il</strong>mico” risiedesse nel montaggio (come era nostra op<strong>in</strong>ione), o<br />

altrove.


La lunga <strong>in</strong>fanzia 57<br />

Sul balcone di casa Frezza: Carlo, Andrea<br />

Sersale…ed io (1949)<br />

Mammà e papà entrano <strong>in</strong> crisi<br />

Abitavamo a Via Monte di Dio 18, nel bel palazzo della baronessa Barracco,<br />

amica dei miei genitori. Una casa molto grande, che girava attorno a un cort<strong>il</strong>e<br />

adorno di piante. Vecchi e solidi arredi. Ricordo <strong>il</strong> nostro bagno, con<br />

vasca e lavand<strong>in</strong>i di marmo massiccio, ornati da zampe di leone e attrezzati<br />

con una consunta rub<strong>in</strong>etteria <strong>in</strong>glese di ottone brunito dal tempo.<br />

Una fuga di stanze: per raggiungere la mia dovevo attraversare quelle di<br />

rappresentanza, dove a volte <strong>in</strong>contravo gli amici dei genitori, ascoltavo<br />

brevemente i loro discorsi. La musica era molto presente. Sui frequentava <strong>il</strong><br />

San Carlo, ma soprattutto i concerti del Conservatorio di San Pietro a<br />

Maiella. Fu lì che catturai l’autografo di Rub<strong>in</strong>ste<strong>in</strong>, ed è lì che i miei genitori<br />

conobbero <strong>il</strong> maestro Franco Caracciolo, che frequentava la nostra casa e<br />

a volte suonava al pianoforte.<br />

I conf<strong>in</strong>i tra mondanità e cultura erano praticamente <strong>in</strong>esistenti: si scivolava<br />

dall’una all’altra con grande leggerezza. Si discuteva dell’immortalità<br />

dell’anima e del paradiso, ad esempio, e la battuta più conv<strong>in</strong>cente era quella<br />

del marchese Agost<strong>in</strong>o Patrizi, che diceva<br />

Pe ‘mme ‘o Paraviso è quel posto che, se quando sei vivo ti piacevano le sfogliatelle,<br />

mangi tutto <strong>il</strong> giorno sfogliatelle<br />

Una visione un po’ maomettana. Ma questo lo penso adesso: allora<br />

l’immag<strong>in</strong>e, e la prospettiva, mi colpirono.<br />

Dal cort<strong>il</strong>e si accedeva al nostro appartamento, che era al primo piano, da<br />

una scala a una rampa <strong>in</strong>terna, con una larga guida. Fu lì che mio padre si<br />

sparò un colpo di rivoltella: un <strong>in</strong>cidente, fu detto; si ferì lievemente, un


58 Edoardo Salzano<br />

graffio. L’impressione che ne ebbi fu quella di una storia d’amore con una<br />

signora amica di famiglia (una storia che forse proseguiva dagli anni di Roccaraso),<br />

e di una crisi profonda nei rapporti tra i miei genitori. Il fatto è che,<br />

di lì a poco, mia mamma e le sorell<strong>in</strong>e si trasferirono a Roma, mio padre<br />

rimase a Napoli <strong>in</strong> un appartament<strong>in</strong>o ammob<strong>il</strong>iato a Via Carducci, per badare<br />

agli affari (quali, non so, visto che l’impresa si era dissolta e le terre via<br />

via vendute). Rimasi con lui, per f<strong>in</strong>ire <strong>il</strong> biennio all’Università.<br />

Per me, la vita cont<strong>in</strong>uò come prima.<br />

F<strong>in</strong>ito di stampare lunedì 21 apr<strong>il</strong>e 2003

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