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La citt nel XX secolo: il successo infelice - Eddyburg

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<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à <strong>nel</strong> <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong>: <strong>il</strong> <strong>successo</strong> <strong>infelice</strong><br />

di Emanuele Sgroi<br />

Estratto dal volume Enciclopedia Italiana. Eredità del Novecento, Enciclopedia Italiana Treccani<br />

2001, pp. 1050-1068<br />

SOMMARIO: 1. Il <strong>secolo</strong> delle <strong>citt</strong>à: dinamiche urbane <strong>nel</strong> <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong>. 1a. Alla ricerca della <strong>citt</strong>à<br />

<strong>nel</strong> <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong>. 1b. Le trasformazioni della forma e del significato della <strong>citt</strong>à. 1c. Tra <strong>citt</strong>à e urbano:<br />

è già metropoli. 2. L’egemonia urbana. 2a. Un mondo urbanizzato. 2b. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à che cambia. 2c. I<br />

fattori del <strong>successo</strong> urbano. 3. <strong>La</strong> coscienza <strong>infelice</strong>. 3a. <strong>La</strong> mitologia dell’antiurbanesimo. 3b.<br />

Crisi e critica della <strong>citt</strong>à. 3c. Le grandi paure urbane. 3d. L’incubo e la sfida. Bibliografia.<br />

1. Il <strong>secolo</strong> delle <strong>citt</strong>à: dinamiche urbane <strong>nel</strong> <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong>.<br />

1a. Alla ricerca della <strong>citt</strong>à <strong>nel</strong> <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong>.<br />

Si può ut<strong>il</strong>izzare la definizione di “<strong>secolo</strong> breve” a proposito del <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong>, a condizione di<br />

sottolineare come esso appaia troppo breve per la folla di eventi e di processi di mutamento che è<br />

stato “costretto” a ospitare: eventi e processi che sono stati capaci di mutare più volte - in un<br />

movimento che ci appare pendolare - l’ambiente del pianeta, la geografia politica, l’ordinamento<br />

economico, <strong>il</strong> patrimonio di idee e di tecniche, le forme di regolazione politico-istituzionale,<br />

finanche la consistenza demografica e le modalità della mob<strong>il</strong>ità di merci, informazioni e uomini sul<br />

pianeta.<br />

Anche i fenomeni urbani hanno fatto la loro parte <strong>nel</strong> movimentare la realtà di questo <strong>secolo</strong>. <strong>La</strong><br />

<strong>citt</strong>à industriale aveva già raggiunto la fase della maturità in gran parte dell’Occidente europeo e<br />

negli Stati Uniti all’alba del Novecento, mentre ancora sopravviveva - e la sua vita sarebbe<br />

continuata per più di metà del <strong>secolo</strong> - <strong>nel</strong> Mezzogiorno d’Italia, così come in altri “mezzogiorni”<br />

europei, la <strong>citt</strong>à contadina; vecchie e gloriose realtà metropolitane ereditavano, pur <strong>nel</strong>la<br />

dissoluzione o <strong>nel</strong> declino degli imperi di cui erano la proiezione, un ruolo egemone e altre realtà<br />

metropolitane emergenti lo acquisivano, presentandosi le une e le altre con <strong>il</strong> nuovo volto di global<br />

city. <strong>La</strong> “haussmannizzazione” della <strong>citt</strong>à riesce a far sentire la sua influenza ancora <strong>nel</strong> nostro<br />

<strong>secolo</strong>, mentre al contempo cresce la reazione del Movimento moderno e dell’urbanistica razionalista<br />

e si sperimenta concretamente l’ambizione di disegnare, attraverso un nuovo edificio, un<br />

quartiere, una <strong>citt</strong>à l’armonico assetto di una nuova società; decolonizzazione, esplosione<br />

demografica e inurbamento di massa fanno lievitare <strong>il</strong> fenomeno delle metropoli <strong>nel</strong> Terzo Mondo;<br />

infine, la <strong>citt</strong>à postmoderna afferma <strong>il</strong> suo volto complesso e ambiguo, attraversando<br />

impetuosamente - e con esiti ancora oggi imprevedib<strong>il</strong>i - i confini del vecchio, compatto<br />

ordinamento fordista con i suoi imperativi di concentrazione spaziale, di zonizzazione funzionale, di<br />

controllo tendenziale degli st<strong>il</strong>i e dei tempi di lavoro, di consumo, di impiego del tempo libero di<br />

estese masse di abitanti, lavoratori, utenti urbani.<br />

È per questo forse che siamo usciti dal Novecento con minori certezze su che cosa sia la <strong>citt</strong>à di<br />

quante non ne avessimo all’inizio del <strong>secolo</strong>.<br />

Sembrerebbe una contraddizione, ma quanto più è evidente e imponente <strong>il</strong> fenomeno urbano <strong>nel</strong><br />

mondo contemporaneo, tanto più sembra diffic<strong>il</strong>e individuare quei caratteri necessari a definire la<br />

<strong>citt</strong>à, a distinguerla da tutto ciò che non è <strong>citt</strong>à. Un disagio conoscitivo assai diffuso, anche<br />

<strong>nel</strong>l’ambito degli studiosi dei fenomeni urbani, ha condotto non solo all’abbandono di quelle<br />

concezioni “forti” dell’urbano che avevano caratterizzato l’analisi sociologica della <strong>citt</strong>à, ma


addirittura a preconizzare la dissoluzione del concetto stesso di <strong>citt</strong>à (v. Tosi, 1987). Disagio<br />

conoscitivo o disagio ideologico? “<strong>La</strong> letteratura e <strong>il</strong> senso comune identificano per lungo tempo la<br />

<strong>citt</strong>à con la civ<strong>il</strong>tà e questa, in ispecie dalla modernità in poi, diviene sinonimo di progresso<br />

scientifico” (v. Mazzette, 1997, p. 123). I numerosi critici della modernità che questa fine di <strong>secolo</strong><br />

sta mob<strong>il</strong>itando tanto più sono efficaci <strong>nel</strong> prevedere o <strong>nel</strong> descrivere la “morte della <strong>citt</strong>à quanto<br />

più questa può essere elevata a simbolo di un continuo progredire di scienza e ragione, oggetti di<br />

fedi intiepidite per una certa parte del sentire comune. E tanto più una concezione forte dell’urbano<br />

può essere ritenuta improbab<strong>il</strong>e, forse anche inut<strong>il</strong>e sul piano esplicativo, quanto più la sua<br />

definizione diventa una cassetta di attrezzi concettuali e analitici genericamente disponib<strong>il</strong>i, ma<br />

poco affidab<strong>il</strong>i.<br />

Il fatto è che le classificazioni della <strong>citt</strong>à si moltiplicano proporzionalmente alla crescita del<br />

fenomeno urbano e della sua centralità <strong>nel</strong>la società contemporanea. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à non può più essere<br />

rappresentata come entità sociale a sé stante e non è più <strong>il</strong> solo luogo dell’urbanesimo, così come<br />

la <strong>citt</strong>à occidentale non è <strong>il</strong> punto conclusivo della storia dell’urbanizzazione: “Oggi l’intero<br />

pianeta sembra avviarsi - a poco più di cinque m<strong>il</strong>lenni dalla rivoluzione urbana - a costituire<br />

un’unica area urbanizzata <strong>nel</strong>la quale la <strong>citt</strong>à celebra <strong>il</strong> proprio trionfo, ma vede anche<br />

approssimarsi la fine dei suoi caratteri distintivi” (v. Ceri e Rossi, 1987, p. 575). Non soltanto<br />

bisogna tener conto dell’esistenza di “diverse” <strong>citt</strong>à pur all’interno di quel fenomeno “<strong>citt</strong>à che<br />

finora appariva universalmente condiviso, ma coesistono più <strong>citt</strong>à dentro ogni <strong>citt</strong>à, in particolare<br />

entro ogni <strong>citt</strong>à metropolitana. Infatti “all’interno della medesima esperienza di <strong>citt</strong>à, si sono<br />

creati mondi urbani indipendenti gli uni dagli altri [...] riconoscib<strong>il</strong>i in virtù della formazione di<br />

specifiche interazioni tra <strong>il</strong> corpo individuale, <strong>il</strong> corpo sociale e <strong>il</strong> corpo della <strong>citt</strong>à” (v. Mazzette,<br />

1998c, p. 123).<br />

Come sottolinea David Harvey (v., 1989), siamo noi abitanti e utenti a costruire, con le nostre<br />

azioni, una <strong>citt</strong>à e i suoi nuovi ritmi di vita, senza necessariamente sapere che cos’è la <strong>citt</strong>à tutta<br />

intera o cosa dovrebbe essere.<br />

<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à, in gran parte del mondo, non si contrappone più alla campagna, perché si è come<br />

diffusa e dissolta <strong>nel</strong> territorio, occupandolo fisicamente e simbolicamente, affermandovi e<br />

riproducendovi i suoi modelli di comportamento e i suoi st<strong>il</strong>i di consumo, replicandovi la sua<br />

organizzazione dello spazio e la sua tipologia abitativa: verticalizzazione ed<strong>il</strong>izia, centri<br />

commerciali, megadiscoteche, ecc. “I curati non-luoghi autostradali, gli autogr<strong>il</strong>l, i caselli, i<br />

distributori-bazar, le piazzole di umanizzazione erano la prova, tangib<strong>il</strong>e e sovraregionale, della<br />

smisurata, onnipresente estensione della metropoli diffusa” (v. Desideri, 1997, p. 13). L’addizione<br />

compatta di migliaia di edifici di abitazione non rappresenta più la sola forma e <strong>il</strong> solo spazio urbano:<br />

la fitta rete di autostrade, superstrade, tangenziali, viadotti, svincoli, assi attrezzati stringe<br />

attorno ai nuclei urbani un territorio non più agricolo, ma già postindustriale, solcato in profondità<br />

dalla tecnologia. Anche là dove la campagna conserva tutti i segni della natura, essa è ormai<br />

oggetto di insediamenti e di forme spaziali organizzate, funzionalmente comprese <strong>nel</strong> sistema<br />

urbano-metropolitano: le cascine o le fattorie che diventano centri agrituristici, mescolando magari<br />

cavalli (reintrodotti in un’economia agricola meccanizzata), colture biologiche e vasche da bagno<br />

con idromassaggio; castelli e conventi che diventano alberghi di lusso o sedi prestigiose per<br />

convegni manageriali o di partito; interi paesi che diventano “albergo”, ambienti di particolare<br />

valore naturalistico e/o paesaggistico che diventano parchi nazionali o regionali, artificializzandosi<br />

(con percorsi guidati, supporti audiovisivi o di animazione, ecc.).<br />

Siamo quindi in presenza di un vero e proprio processo di esportazione dell’urbano verso <strong>il</strong><br />

non-urbano. Sembra sempre più astratto contrapporre alla <strong>citt</strong>à <strong>il</strong> vecchio concetto di campagna<br />

(secondo quel modello dualistico di divisione del lavoro proposto dalla teoria marxista della società<br />

e ripreso dalla sociologia classica). Infatti, <strong>il</strong> <strong>successo</strong> dell’urbano ha destrutturato <strong>il</strong> mondo<br />

territoriale, architettonico, economico, sociale che in passato era esterno - ed estraneo - alla <strong>citt</strong>à: al<br />

tentativo di reintrodurre la campagna <strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à attraverso l’acquisizione di nuovi grandi spazi<br />

verdi e la riqualificazione dei parchi pubblici non si è accompagnato un tentativo in direzione


contraria. Quando la <strong>citt</strong>à si è annessa progressivamente porzioni sempre più vaste di territorio,<br />

non sempre è riuscita a trasferirvi le sue qualità urbane; anche quando non si è provocato <strong>il</strong><br />

degrado delle aree rurali, via via inglobate <strong>nel</strong>la crescita di periferie senza qualità, queste sono<br />

state precipitate in una sorta di limbo, dove non sono più campagna e non sono ancora <strong>citt</strong>à: forse<br />

non lo saranno mai, almeno <strong>nel</strong> senso compiuto che assume l’immagine a noi fam<strong>il</strong>iare di <strong>citt</strong>à.<br />

D’altra parte, anche la <strong>citt</strong>à vede sbiadire i suoi connotati tradizionali: “Lo spazio<br />

contemporaneo dell’abitare propone immagini tanto estranee all’idea di <strong>citt</strong>à sedimentata <strong>nel</strong>la<br />

coscienza collettiva, quanto aderenti ai nuovi fenomeni sociali e culturali” (v. Ricci, 1996, p. 10).<br />

Ciò non impedisce, però, che anche chi è lontano dalla <strong>citt</strong>à definisca i suoi orizzonti esistenziali in<br />

rapporto costante con essa, magari inventandosi “una <strong>citt</strong>à che non esiste da nessuna parte ma<br />

continua a trasmettere promesse” (v. Berger e Mohr, 1975; tr. it., p. 23).<br />

Malgrado tutte le incertezze epistemologiche sullo statuto della <strong>citt</strong>à e le “dissonanze cognitive”<br />

dell’esperienza urbana, <strong>il</strong> senso comune, al fondo, non è afflitto da molti dubbi. Se<br />

domandassimo a chiunque, anche a un bambino, “che cosa è, secondo te, la <strong>citt</strong>à?”, ne<br />

avremmo risposte pronte e, seppur variamente segnate da entusiasmo o disagio, in larga misura<br />

univoche: luci, negozi, folla, movimento, velocità, macchine. <strong>La</strong> stessa risposta che diede all’inizio<br />

del <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong> <strong>il</strong> futurismo italiano, anticipando provocatoriamente, in una prospettiva<br />

desiderante e apologetica, i primi segnali dello sv<strong>il</strong>uppo metropolitano. Richiamiamo alla<br />

memoria i quadri di Giacomo Balla (Velocità d’auto + luce + rumore, 1913), di Umberto Boccioni<br />

(<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à che sale, 1910-11; <strong>La</strong> strada che entra <strong>nel</strong>la casa, 1911), del primo Carlo Carrà (Ciò che mi<br />

ha detto <strong>il</strong> tram, 1910-11). R<strong>il</strong>eggiamo le prime pagine del Manifesto del futurismo pubblicato <strong>nel</strong><br />

1909 da F<strong>il</strong>ippo Tommaso Marinetti su “Le Figaro”: “Una <strong>citt</strong>à che deve nascere e crescere<br />

contemporaneamente alla nuova ideologia del movimento e della macchina. Una <strong>citt</strong>à che perde<br />

la sua staticità ed è messa in movimento dalle luci, dai tramvai, dai rumori che ne moltiplicano<br />

i punti di visione”. Anche se alla nostra coscienza di contemporanei gli elementi esaltati <strong>nel</strong>la<br />

visione futurista sono proprio quelli che suscitano maggiore insofferenza, non vi è dubbio che essi<br />

forniscano una rappresentazione della <strong>citt</strong>à ben radicata <strong>nel</strong>l’immaginario collettivo.<br />

Sembra che la maggior difficoltà <strong>nel</strong> tentativo di definizione della <strong>citt</strong>à nasca dal fatto che la<br />

conoscenza di essa si muove su piani diversi: la “<strong>citt</strong>à di pietra”, la <strong>citt</strong>à costruita,<br />

l’organizzazione fisica dello spazio; la “<strong>citt</strong>à delle relazioni e degli scambi”, i flussi materiali e<br />

immateriali che hanno luogo <strong>nel</strong>lo spazio e attraverso lo spazio; la “<strong>citt</strong>à percepita”, l’insieme<br />

dei segni e dei significati che consentono di comprendere e di descrivere l’esperienza urbana <strong>nel</strong>la<br />

sua quotidianità; la “<strong>citt</strong>à disegnata”, le invenzioni sociali, tecnologiche, ideologiche, normative<br />

che guidano la produzione e <strong>il</strong> governo dello spazio urbano.<br />

Questi diversi piani provocano una pluralità di rappresentazioni e consentono di identificare<br />

diversi meccanismi generatori ed evolutivi. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à è “<strong>il</strong> sistema d’idee, più o meno coerente, di<br />

coloro che fanno la <strong>citt</strong>à, la disegnano, le danno una struttura o perlomeno aggiungono la loro<br />

pietra a quelle del passato” (v. Roncayolo, 1988, p. 105); è “uno stato d’animo, un corpo di<br />

costumi e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti” (v. Park, 1925, p. 105), ma è anche<br />

l’immagine pubblica che gli abitanti della <strong>citt</strong>à o coloro che la frequentano si costruiscono,<br />

attingendo alla propria esperienza, alle diverse eredità di memorie, componendo e socializzando le<br />

percezioni individuali prodotte frammentariamente <strong>nel</strong>la vita quotidiana; la <strong>citt</strong>à è <strong>il</strong> risultato (e,<br />

<strong>nel</strong>lo stesso tempo, l’incubatrice) di processi produttivi e riproduttivi, del loro <strong>successo</strong> o della loro<br />

crisi; è l’insieme delle tecnologie in essa incorporate (materiali e tecniche di costruzione,<br />

trasporti, mezzi di comunicazione, ecc.), <strong>il</strong> ritmo innovativo che esse sollecitano e i costi di<br />

manutenzione che impongono; è infine la quantità e la qualità (la potenza e la forma) di<br />

governo urbano, la sua capacità di controllare la varietà sociale, di gestire i conflitti, mantenendo<br />

tendenzialmente la <strong>citt</strong>à come un sistema aperto e come un laboratorio di <strong>citt</strong>adinanza.<br />

Naturalmente queste diverse rappresentazioni e questi differenti meccanismi non costituiscono<br />

realtà separate, ma si connettono attraverso processi circolari specifici che si aggiungono<br />

all’eventuale spessore storico e costruiscono l’identità di ogni <strong>citt</strong>à, facendone un unicum.


È da dire, infine, che “le <strong>citt</strong>à rappresentano e in qualche modo prolungano i processi di lunga<br />

durata che stanno all’origine della storia europea e che si misurano in molti secoli” (v. Benevolo,<br />

1993, p. 217). Questa “lunga durata” della <strong>citt</strong>à entra a far parte di una sorta di inconscio urbano<br />

collettivo, naturalizzando un modello di <strong>citt</strong>à rispetto al quale ogni mutamento e ogni diversità<br />

vengono percepiti come un segno di alterità o come un sintomo di degenerazione. Questo<br />

imprinting della <strong>citt</strong>à occidentale riguarda anche tutti i territori urbani toccati dalla civ<strong>il</strong>izzazione<br />

europea: così che le <strong>citt</strong>à del Nuovo Continente o del Terzo Mondo hanno finito con <strong>il</strong> riprodurne<br />

i caratteri e i miti, magari ingrandendone ed esasperandone le contraddizioni.<br />

lb. Le trasformazioni della forma e del significato della <strong>citt</strong>à.<br />

Il <strong>secolo</strong> appena concluso ha visto una profonda trasformazione della <strong>citt</strong>à su tutti i piani, da quello<br />

materiale della <strong>citt</strong>à di pietra, della distribuzione dei suoi valori fondiari e della sua base<br />

produttiva, a quello immateriale del significato della <strong>citt</strong>à <strong>nel</strong>l’immaginario collettivo e delle<br />

scelte intenzionali <strong>nel</strong>le analisi, <strong>nel</strong> disegno e <strong>nel</strong> governo urbano. Il rapporto tra questi due piani si<br />

rivela dialettico o, almeno, asimmetrico e l’urbanistica moderna si è affermata - ed è entrata in<br />

crisi - esprimendo appunto l’ambizione di governare ideologicamente e tecnicamente questo<br />

rapporto. Tale ambizione ha cercato la sua realizzazione in diversi momenti che sembra opportuno<br />

ripercorrere, fosse anche per cogliere, con uno sguardo disincantato, <strong>il</strong> complesso ruolo che fattori<br />

materiali e strategie cognitive e progettuali hanno giocato <strong>nel</strong>la trasformazione della <strong>citt</strong>à.<br />

L’intervento di Georges-Eugène Haussmann su Parigi, iniziato <strong>nel</strong> 1853, può essere considerato<br />

l’atto di nascita della moderna urbanistica “amministrata”, con <strong>il</strong> suo continuo compromesso tra<br />

pianificazione urbana “di comando” e iniziativa privata, con i suoi interessi di valorizzazione<br />

della rendita fondiaria. Il <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong> è vissuto ancora per molto tempo sull’eredità<br />

haussmanniana, non soltanto perché la pratica dello sventramento, sostenuta da “una retorica<br />

tendenziosa che esagera la fatiscenza, l’insalubrità, lo squallore delle parti più antiche della<br />

<strong>citt</strong>à” (v. Benevolo, 1993, p. 183), prosegue - dopo Bruxelles, Firenze, Vienna, Barcellona - con i più<br />

tardi interventi di “risanamento” a Napoli, Roma, Palermo; ma soprattutto perché Haussmann,<br />

anticipando la futura egemonia della nuova protagonista della vita <strong>citt</strong>adina, l’automob<strong>il</strong>e,<br />

predisporrà lo spazio urbano alla velocizzazione della mob<strong>il</strong>ità. Non solo: egli troverà <strong>il</strong> modo di<br />

proporre una soluzione dei complessi problemi di una metropoli moderna concepita come un<br />

“affare’, concorrenziale <strong>nel</strong>l’ambito degli affari consentiti dalla produzione industriale, e questo<br />

modello eserciterà la sua influenza economica in gran parte del Novecento. Con Haussmann nasce<br />

l’industria fondiaria, l’alloggio di massa (come di massa sarà l’automob<strong>il</strong>e di Henry Ford); <strong>il</strong><br />

suolo urbano diventa la materia prima, l’edificio per abitazioni, studi professionali, esercizi<br />

commerciali, diventa <strong>il</strong> prodotto finito: <strong>nel</strong>le parole di Italo Insolera, “<strong>il</strong> mercato del prodotto<br />

finito coincide con <strong>il</strong> luogo di esistenza della materia prima” (cit. in V<strong>il</strong>lani, 1987, p. 455).<br />

L’espansione della <strong>citt</strong>à diventerà <strong>nel</strong> <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong> - per alcuni paesi ancora fino alla crisi degli anni<br />

Settanta - <strong>il</strong> pendant del mito della crescita continua proprio dei paesi industrializzati, provocando<br />

l’emergenza critica dei centri storici, la verticalizzazione ed<strong>il</strong>izia, la crescita impetuosa delle<br />

periferie, la congestione urbana. Ma <strong>il</strong> Novecento vedrà anche la reazione delle culture<br />

d’avanguardia e dei movimenti collettivi di organizzazione e di rappresentanza degli interessi sociali<br />

degli attori più deboli della scena urbana: le classi lavoratrici. A queste reazioni faranno<br />

riferimento la nascita del Movimento moderno e quel più variegato fenomeno che ha preso <strong>il</strong> nome<br />

di urbanistica razionalista.<br />

Nel <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong> si rivela pienamente la crisi della <strong>citt</strong>à industriale, risultato di un rapporto<br />

conflittuale tra organizzazione produttiva, organizzazione sociale, qualità dell’ambiente<br />

costruito e allocazione delle risorse naturali. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à razionalista è in qualche modo la<br />

riproposizione <strong>nel</strong> mondo industrializzato del ruolo aristotelico della <strong>citt</strong>à come strumento per<br />

raggiungere la perfezione dell’esistenza umana.<br />

Il razionalismo è stato portatore di una forte convinzione, quella che la scienza (e le diverse


prospettive disciplinari scientificamente ut<strong>il</strong>izzab<strong>il</strong>i, dalla biologia alla psicologia, alla<br />

sociologia), la tecnologia, l’attività normativa e pianificatrice delle istituzioni pubbliche<br />

potessero avere la meglio sulle condizioni di disordine proprie del processo di crescita urbana.<br />

Nel Movimento moderno confluiscono diverse spinte: esso “coglie con estrema tempestività <strong>il</strong><br />

momento in cui le molteplici f<strong>il</strong>a da annodare sono aperte e disponib<strong>il</strong>i: l’esaurimento della ricerca<br />

pittorica postcubista, <strong>il</strong> desiderio di una nuova integrazione di valori dopo la tragedia della Prima<br />

guerra mondiale, i grandi programmi di ricostruzione del dopoguerra, l’inizio di una comprensione<br />

scientifica dei comportamenti individuali e collettivi” (v. Benevolo, 1993, p. 102). Ma coglie<br />

anche l’istanza di riconc<strong>il</strong>iazione tra arte e industria di cui si era fatto testimone attivo W<strong>il</strong>liam<br />

Morris e che Victor Horta e Henry van de Velde avevano concretamente tradotto - con 1’Art<br />

nouveau - in progetto architettonico a Bruxelles, la capitale del paese più industrializzato d’Europa<br />

a cavallo tra i due secoli.<br />

Il terreno culturale del Movimento moderno è preparato anche dalla riflessione sociologica sulla<br />

<strong>citt</strong>à, da Georg Simmel, che <strong>nel</strong> 1903 pubblica Die Grosstadt und das Geistesleben, a Max<br />

Weber (Die Stadt, 1920), a Robert E. Park, Ernest W. Burgess e Roderick D. McKenzie, che<br />

<strong>nel</strong> 1925 pubblicano The city, in cui vengono sv<strong>il</strong>uppati i principi della teoria sociologica della<br />

<strong>citt</strong>à.<br />

Sul piano più specificamente architettonico e urbanistico <strong>il</strong> Movimento moderno esprime la sua più<br />

forte presenza <strong>nel</strong> periodo tra le due guerre mondiali, e precisamente tra <strong>il</strong> 1929, anno in cui venne<br />

fondato <strong>il</strong> CIAM (Congrès International d’Architecture Moderne) e <strong>il</strong> 1933, anno del suo quarto<br />

congresso, le cui conclusioni - elaborate da Le Corbusier <strong>nel</strong>la Carta d’Atene - costituiranno negli<br />

anni successivi, forse proprio per la forza suggestiva assicurata dalla loro schematicità e astrattezza,<br />

<strong>il</strong> riferimento fondamentale della cultura urbanistica.<br />

Il Movimento avrà vita breve, ma lascerà una profonda impronta <strong>nel</strong>la cultura europea (e non<br />

soltanto europea) della <strong>citt</strong>à; dal Bauhaus di Walter Gropius, che costituisce in qualche misura<br />

l’incubatrice del movimento, usciranno le più straordinarie “firme” dell’architettura del <strong>secolo</strong>:<br />

Ludwig Mies van der Rohe, Le Corbusier, Alvar Aalto. L’utopia dell’urbanistica razionalista si<br />

esprime <strong>nel</strong> tentativo di coniugare le qualità dell’ambiente naturale (o naturalizzato) e la qualità del<br />

costruito - reintroducendovi a varie scale l’invenzione artistica - di creare spazi urbani che siano<br />

visib<strong>il</strong>i secondo modalità di appartenenza aperte a tutti, di promuovere, attraverso nuove forme e<br />

modi di edificazione e di integrazione tra residenza e servizi, uno stato di socialità più avanzato e<br />

più coerente con le promesse di uno Stato sociale sempre più sv<strong>il</strong>uppato. Da qui diverse opzioni,<br />

dalla garden-city alla V<strong>il</strong>le radieuse, dalla new town ai quartieri CEP italiani, ma anche<br />

realizzazioni diverse a seconda degli ordinamenti normativi e dei sistemi politici ed economici. A<br />

puntuale dimostrazione che le soluzioni tecniche non sono mai neutrali, l’urbanistica razionalista<br />

troverà accoglienza, assumendo forme diverse, <strong>nel</strong> regime sovietico o nei regimi fascisti e nazisti.<br />

Anche nei regimi democratici occidentali si realizzerà efficacemente, ma soltanto in quei paesi in<br />

cui un più avanzato ordinamento dei suoli - eliminando l’ostacolo dei confini di proprietà e la<br />

pressione della rendita fondiaria - ha consentito una equ<strong>il</strong>ibrata divisione del lavoro tra<br />

l’amministrazione pubblica e gli operatori privati.<br />

Perché entra in crisi - a partire dagli anni Settanta - l’urbanistica razionalista? Perché si rivela<br />

progressivamente inefficace <strong>il</strong> progetto di modernizzazione fordista cui essa era ancora<br />

implicitamente ispirata, sia pure attraverso la traduzione keynesiana, socialdemocratica,<br />

assistenzialista. <strong>La</strong> grande industria manifatturiera e di base esce fuori dalla <strong>citt</strong>à e da gran parte<br />

del territorio urbanizzato, si deverticalizza, si smaterializza; l’economia, almeno nei paesi sv<strong>il</strong>uppati,<br />

si terziarizza sempre di più, spostando <strong>il</strong> suo asse centrale verso i servizi, l’informazione,<br />

la ricerca, la promozione e la diffusione delle innovazioni tecnologiche. Una molteplicità di<br />

nuovi attori economici, piccoli secondo le dimensioni tradizionali, ma forti e aggressivi <strong>nel</strong> know<br />

how, <strong>nel</strong>le strategie globali di marketing, <strong>nel</strong>l’approvvigionamento finanziario, occupa porzioni<br />

sempre più estese del mercato, portando con sé una cultura di rinnovata egemonia del privato. Le<br />

conseguenze si sono avvertite anche <strong>nel</strong>la drastica riduzione del ruolo della pianificazione urbana: <strong>il</strong>


governo Thatcher abolirà <strong>nel</strong> 1985 le forme di governo metropolitano che pure avevano assicurato<br />

all’esperienza inglese di pianificazione su scala metropolitana-regionale una funzione p<strong>il</strong>ota.<br />

Un secondo fattore di crisi matura negli stessi ambienti tecnici e scientifici, con la constatazione<br />

che la complessità e l’elevato dinamismo della società postindustriale “avevano raggiunto ormai<br />

livelli tali da frustrare ogni velleità di controllo e regolazione centralizzati, ogni possib<strong>il</strong>ità di<br />

previsione e pianificazione razionale e comprensiva” (v. Strassoldo, 1998, p. 50).<br />

Infine, peserà sull’urbanistica razionalista <strong>il</strong> generalizzato clima di sfiducia sulla razionalità<br />

scientifica che comincia a permeare <strong>il</strong> mondo occidentale, principalmente con la crisi dei regimi<br />

socialisti e con l’esplosione della questione ambientale.<br />

Alla fine del <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong> si afferma così un nuovo movimento di idee, ma anche di realizzazioni<br />

concrete, destinato a mutare ancora una volta realtà e immagine della <strong>citt</strong>à, un movimento che si<br />

definisce, con una semplificazione semantica, “postmoderno”. Esso non nasce però come pura<br />

negazione del moderno, poiché è stato preceduto e preparato dalle culture metropolitane degli ultimi<br />

vent’anni: nei significanti elettronici del cinema, della televisione, dei video, dei megaconcerti; <strong>nel</strong>la<br />

moda e negli st<strong>il</strong>i giovan<strong>il</strong>i, in tutti quei suoni e immagini che ogni giorno vengono missati in quella<br />

sorta di schermo gigante che la <strong>citt</strong>à è ormai diventata.<br />

Stiamo vivendo un cambiamento radicale: “Il principio del piacere sta prendendo <strong>il</strong> posto di<br />

quello dell’ut<strong>il</strong>ità che aveva segnato l’esperienza urbana per almeno centocinquanta anni [...]<br />

colpendo al cuore i principi fondamentalmente ascetici e puritani del CIAM e del razionalismo”<br />

(v. Amendola, 1998, p. 42); a condizione, però, di sottolineare che <strong>nel</strong> postmoderno <strong>il</strong> “piacere”<br />

finisce con <strong>il</strong> produrre nuova “ut<strong>il</strong>ità” e, conseguentemente, nuova competizione e nuovi conflitti.<br />

È proprio <strong>nel</strong>l’ambito dell’architettura che <strong>il</strong> concetto di postmoderno ha fatto le sue prime prove,<br />

diffondendosi poi in altri universi del sapere e del fare. Nella <strong>citt</strong>à postmoderna l’architetturachiave<br />

non è più quella tradizionale delle grandi istituzioni civ<strong>il</strong>i e religiose, dei grandi santuari del<br />

commercio e della finanza (le banche, la borsa, ecc.): estese attrezzature espositive e museali, centri<br />

direzionali, aerostazioni, centri commerciali, stadi sportivi, macrostrutture alberghiere, <strong>citt</strong>à della<br />

scienza risaltano per dimensioni, originalità e qualità formali, per soluzioni tecnologiche<br />

innovative, imponendosi come le cattedrali di una nuova religione, quella del marketing urbano. “I<br />

luoghi più caratteristici dell’architettura e urbanistica postmoderna possono essere raggruppati in<br />

tre grandi categorie. <strong>La</strong> prima comprende le nuove <strong>citt</strong>à del tempo libero e del divertimento; la<br />

seconda le cattedrali del consumo materiale e culturale, la terza i vecchi centri storici rinnovati”<br />

(v. Strassoldo, 1998, p. 59). A volte l’architettura si misura con una distribuzione specialistica dei<br />

luoghi rispetto alle tre categorie-funzioni; più spesso deve rispondere alle esigenze di<br />

concentrazione <strong>nel</strong>lo stesso luogo di più funzioni (rafforzando la capacità competitiva della <strong>citt</strong>à),<br />

magari attraverso simulazioni della funzione assente o riconversione accelerata e fantasiosa di<br />

preesistenze fisiche ed economiche verso le nuove funzioni.<br />

L’architettura postmoderna esprime la volontà di usare le tradizioni e gli st<strong>il</strong>i del passato, ma,<br />

con un grande eclettismo st<strong>il</strong>istico, riscopre <strong>il</strong> valore dell’ornamento e ricorre ai colori anche più<br />

inusuali, ostenta la propria frag<strong>il</strong>ità e precarietà, cerca di coinvolgere l’intero apparato sensoriale<br />

degli abitanti e dei visitatori facendone degli “spettatori”.<br />

Sotto l’espressione di <strong>citt</strong>à postmoderna sembra intessersi un patchwork di sensazioni, di<br />

immagini, di punte tecnologiche, di nuovi prodotti e di nuovi consumi urbani che affascina, ma<br />

<strong>nel</strong>lo stesso tempo si rivela tanto sfuggente quanto privo di qualsiasi logica organizzativa.<br />

Ma forse è proprio questo <strong>il</strong> “possib<strong>il</strong>e” della <strong>citt</strong>à contemporanea, una possib<strong>il</strong>ità di destino<br />

metropolitano che ci offre l’ipotesi di un’ulteriore trasformazione dell’urbano.<br />

1c. Tra <strong>citt</strong>à e urbano: è già metropoli.<br />

Partiamo dall’etimo di metropoli, <strong>citt</strong>à-madre, dal quale si potrebbero ricavare, seguendo le<br />

suggestioni di una improbab<strong>il</strong>e “sociologia della maternità”, le sue vocazioni contraddittorie.<br />

Insieme captativa e oblativa, la metropoli attira e cattura risorse demografiche, economiche,


tecnologiche, culturali; ma dal suo cuore pulsante, dal suo ventre fert<strong>il</strong>e fluiscono fiumi di vita:<br />

idee, immagini, nuovi st<strong>il</strong>i di comportamento, innovazioni tecniche, mode, progetti politici destinati<br />

a fecondare territori sempre più estesi. Grande parassita e grande nutrice, la metropoli offre risposte<br />

molteplici e mutevoli ai bisogni individuali e collettivi ed è perciò di volta in volta, dagli uni o<br />

dagli altri, amata e odiata, desiderata e temuta.<br />

D’altra parte è proprio <strong>il</strong> suo volto cangiante ad aiutare l’uomo metropolitano ad accettare <strong>il</strong><br />

vortice di mutamenti <strong>nel</strong> quale è sempre coinvolto, a farsi esso stesso mob<strong>il</strong>e <strong>nel</strong>la residenza, <strong>nel</strong><br />

lavoro, nei consumi, <strong>nel</strong>la cerchia delle relazioni sociali per affrontare più fac<strong>il</strong>mente la situazione<br />

di instab<strong>il</strong>ità e di insicurezza <strong>nel</strong>la quale la Grande Madre lo sfida a vivere. Secondo le anticipatrici<br />

osservazioni di Simmel, i tanti stimoli proposti dal gran numero di individui e di gruppi sociali<br />

con cui viene a contatto l’individuo urbano, provocano in lui la progressiva formazione di una corazza<br />

di distacco intellettuale che lo conduce ad accettare l’instab<strong>il</strong>ità e l’insicurezza generale.<br />

Così come non è fac<strong>il</strong>e definire la <strong>citt</strong>à, altrettanto diffic<strong>il</strong>e da definire è la metropoli; anche<br />

perché <strong>il</strong> problema della <strong>citt</strong>à metropolitana è affrontato spesso con le categorie mentali del passato<br />

(<strong>citt</strong>à e campagna, urbano e suburbano, ecc.). Non troviamo la metropoli se continuiamo a<br />

cercarvi i “luoghi centrali”, i luoghi dello “stare” e dello “struscio”, le piazze-simbolo<br />

dell’identità storica e dei modi antichi dell’aggregazione sociale, i negozi opulenti e ben allineati, le<br />

vetrine allestite con gusto a tipizzare una strada o un quartiere. <strong>La</strong> metropoli costituisce una<br />

radicale discontinuità rispetto alla forma-<strong>citt</strong>à della società moderna.<br />

Non soltanto <strong>il</strong> senso comune, ma anche la riflessione teorica tende a priv<strong>il</strong>egiare la dimensione<br />

quantitativa individuando la metropoli soprattutto attraverso la variab<strong>il</strong>e demografica. <strong>La</strong> soglia<br />

demografica di una metropoli è fissata convenzionalmente tra 1 e 1,5 m<strong>il</strong>ioni di abitanti, un<br />

numero, però, che sembra soltanto un indicatore simbolico e che non tiene conto dell’organizzazione<br />

urbanistica e del moltiplicatore tecnologico. Rimane certamente evidente che la metropoli<br />

rappresenta la più recente configurazione del fenomeno di concentrazione urbana così come esso si è<br />

venuto sv<strong>il</strong>uppando sia nei paesi industrializzati, sia <strong>nel</strong>le società sottosv<strong>il</strong>uppate più popolose e<br />

colpite traumaticamente dalla rottura degli equ<strong>il</strong>ibri economici tradizionali. <strong>La</strong> fine del XIX<br />

<strong>secolo</strong> inaugura, <strong>nel</strong> mondo occidentale, l’epoca della m<strong>il</strong>lion city che, nei paesi più intensamente<br />

industrializzati e terziarizzati, perverrà alla formazione di aggregati urbani di molti m<strong>il</strong>ioni di<br />

abitanti o a “sistemi metripolitani”, costituiti da un tessuto urbano esteso a volte senza soluzione<br />

di continuità (si pensi a Los Angeles) in cui risiedono decine di m<strong>il</strong>ioni di abitanti e in cui appaiono<br />

ambigui i confini tra metropoli e area metropolitana. L’effetto di trascinamento della<br />

concentrazione metropolitana si è verificato a livello globale in tutti i continenti, travolgendo <strong>nel</strong> suo<br />

concretizzarsi ogni ipotesi sulle condizioni che l’avrebbero potuto favorire o, al contrario,<br />

ostacolare. <strong>La</strong> disomogeneità di condizioni sociali ed economiche, la preesistenza di vocazioni<br />

storiche dell’organizzazione del territorio, la diversificazione di ambienti culturali non impediscono<br />

l’affermarsi di una tendenza univoca al trionfo della metropoli. Tra <strong>citt</strong>à e metropoli non c’è<br />

soltanto una differenza di quantità, ma anche di qualità: “stare” e “attraversare” costituiscono<br />

gli attributi dell’una e dell’altra e corrispondono a una forma di vita, se non, addirittura, a una<br />

forma di pensiero.<br />

<strong>La</strong> concentrazione demografica urbana è, però, soltanto uno dei fattori caratterizzanti della<br />

metropoli; infatti, se proviamo a priv<strong>il</strong>egiare <strong>il</strong> grado di apertura verso l’esterno,<br />

l’internazionalità, troviamo <strong>citt</strong>à medie o piccole come Montecarlo, <strong>La</strong>s Vegas o Venezia che<br />

svolgono una pluralità di funzioni urbane od offrono servizi rari e che sono, quindi, manifestazioni<br />

di globalità quanto o più di una metropoli di molti m<strong>il</strong>ioni di abitanti. “<strong>La</strong> metropoli [...] nasce [...]<br />

dalla società industriale e dalle innovazioni tecnologiche che modificano la forma e la struttura<br />

urbana, influenzano <strong>il</strong> mercato, incidono sulla struttura sociale, provocano interdipendenze tra<br />

attività, gruppi, funzioni. Non è soltanto la dimensione fisica, ossia la disposizione spaziale e la<br />

densità della popolazione, a distinguere la metropoli di oggi, ma una complessa serie di fenomeni<br />

che investono tra l’altro la produzione, i servizi, i modelli culturali e le relazioni dei soggetti <strong>nel</strong>lo<br />

spazio” (v. Elia, 1993, p. 24).


<strong>La</strong> trasformazione metropolitana accompagna flessib<strong>il</strong>mente <strong>il</strong> passaggio dalla società<br />

industriale alla società postindustriale, inventando nuove soluzioni per rispondere ai bisogni di<br />

residenza, di lavoro, di consumo, di tempo libero, di comunicazione. <strong>La</strong> metropoli<br />

contemporanea è segnata da una frattura netta rispetto alla <strong>citt</strong>à industriale: “<strong>il</strong> territorio urbano<br />

non è più ordinab<strong>il</strong>e per funzioni corrispondenti a spazi prestab<strong>il</strong>iti [...] le funzioni fondamentali<br />

così come sono state sistematizzate per la <strong>citt</strong>à industriale dal Razionalismo [...] non solo non<br />

sono più individuab<strong>il</strong>i chiaramente, ma si è creato uno squ<strong>il</strong>ibrio interno, dovuto al fatto che le<br />

funzioni dell’abitare e del lavorare sono state perifericizzate, mentre quelle del circolare e del<br />

ricrearsi hanno acquisito una tale importanza da incidere pesantemente sullo spazio urbano ed<br />

extraurbano complessivamente inteso” (v. Mazzette, 1998b, p. 91). Ancora più radicalmente: “In<br />

realtà non c’è più territorio per la metropoli. Lo spazio non produce più l’abitare. Bauen, wohnen,<br />

denken, costruire, abitare, pensare si dissociano, si contraddicono, si combattono” (v. Tronti, 1998,<br />

p. 42). Meno drasticamente si può osservare che all’identità fondata sui luoghi - luoghi<br />

dell’abitare, del lavorare, del rappresentarsi - si sostituisce via via un’identità fondata sulle<br />

modalità specifiche del proprio consumo; e ogni struttura di localizzazione sfuma <strong>nel</strong>l’urgenza e<br />

<strong>nel</strong>la criticità dei problemi di attraversamento, di spostamento, di fruizione dei servizi nei nuovi<br />

tempi della quotidianità urbana.<br />

Nel nuovo ciclo capitalistico di produzione/distribuzione, la rete di sostegno della forma<br />

urbana è assicurata dal consumo e questo è movimento, variab<strong>il</strong>ità, mutamento, perché implica<br />

traffici e traffico. Così “la metropoli <strong>nel</strong>le sue dimensioni spaziali e temporali è sottoposta a<br />

un’alta flessib<strong>il</strong>ità e a processi dinamici in continuo mutamento, non prevedib<strong>il</strong>i e non ordinab<strong>il</strong>i<br />

a priori” (v. Mazzette, 1998b).<br />

In questi termini nuovi - così diversi da quell’immagine di <strong>citt</strong>à-fabbrica su cui si è attardata una<br />

riflessione sociologica di antiche memorie - la metropoli contemporanea contiene ogni possib<strong>il</strong>ità<br />

di conflitto e, insieme, di libertà. Il territorio metropolitano è <strong>il</strong> prodotto continuamente rinnovato<br />

dei desideri o dell’indifferenza del vivere di nuove figure sociali; è, <strong>nel</strong>lo stesso tempo, la forma<br />

spaziale che assume <strong>il</strong> conflitto tra i diversi percorsi individuali che attraversano la metropoli; è la<br />

forma irriducib<strong>il</strong>e della contingenza del presente di fronte al culto delle origini, delle identità<br />

storiche che possono essere reinventate secondo tracce e mappature che a esse conferiscono nuovi<br />

significati e valori d’uso.<br />

I grandi conflitti antagonistici incubati <strong>nel</strong>la prima <strong>citt</strong>à industriale restano sullo sfondo della<br />

metropoli contemporanea, occultati, se non rimossi, dalla molteplicità e dalla volub<strong>il</strong>ità dei<br />

conflitti che aggrediscono <strong>il</strong> tessuto sociale, incapaci di lacerarlo irrimediab<strong>il</strong>mente, ma al<br />

contempo non più governati da quel patto tra politica e spazio che aveva fondato la <strong>citt</strong>à come luogo<br />

della “legge” e della “conmenzione”: <strong>nel</strong>la metropoli postmoderna <strong>il</strong> noto aforisma citato da Weber,<br />

“L’aria della <strong>citt</strong>à rende liberi”, sembra assai lontano o, almeno, va interpretato in termini assai<br />

diversi.<br />

Metropoli è, <strong>nel</strong>l’epoca posturbana, <strong>il</strong> regno del solo ‘urbano’ possib<strong>il</strong>e, un urbano che anche sotto <strong>il</strong><br />

prof<strong>il</strong>o del progetto architettonico, del disegno fisico, ha scambiato la ricerca di senso con la<br />

provocazione dei sensi. L’architettura urbana sembra seguire - e vedremo in seguito che ciò<br />

rappresenta ben più che un’apparenza - le sorti della moda: abbandona le proprie categorie<br />

fondative tradizionali e si ridefinisce continuamente gettando sullo spazio sguardi obliqui e<br />

compositi come luci taglienti su un set cinematografico, cercando effetti, anche involontari,<br />

<strong>nel</strong> fantastico, <strong>nel</strong> visionario, <strong>nel</strong>l’esaltato, <strong>nel</strong>l’irrazionale. Global city (v. Sassen, 1991) e <strong>citt</strong>à<br />

diffusa come unica “<strong>citt</strong>à possib<strong>il</strong>e” (v. Indovina, 1992) appaiono i due fenomeni emergenti dalla<br />

dissoluzione della metropoli tradizionale.<br />

Si può dire per la metropoli quello che si è detto per l’urbano, anche se su scala diversa: “Persino<br />

la metropoli con <strong>il</strong> suo skyline prevalentemente verticale, con i suoi eccezionali tetti demografici,<br />

con i suoi più elevati coefficienti di occupazione del suolo, si distende su spazi sempre più ampi e<br />

abbraccia orizzonti sempre più estesi: fino al punto di generare una nuova forma urbana. L’area<br />

metropolitana - delimitata da zone limitrofe, anche extraurbane, collegate e interdipendenti per le


attività economiche e sociali che in esse si svolgono” (v. Elia, 1993, p. 16).<br />

L’area metropolitana condivide con altre forme di <strong>citt</strong>à diffusa - la conurbazione, la <strong>citt</strong>àregione,<br />

ecc. - una certa accentuazione della divisione territoriale del lavoro e un certo grado di<br />

correlazione tra centri maggiori o minori o di uguale rango. Anche le aree metropolitane si<br />

evolvono e si differenziano: la dominanza, quale principio ordinatore di un’area metropolitana,<br />

viene sostituita da un più complesso sistema di interazioni tra le parti interne all’area e, in una<br />

prospettiva di globalizzazione, tra sistemi metropolitani complessi.<br />

A partire dagli anni Settanta la metropoli si affranca dalla variab<strong>il</strong>e della concentrazione urbana.<br />

I nuovi scenari territoriali, caratterizzati dalla diminuzione della fruizione dello spazio e da nuove<br />

possib<strong>il</strong>ità di localizzazione del lavoro, della residenza, dei servizi commerciali e delle attrezzature<br />

ricreative, mutano profondamente identità e ruolo delle metropoli. “Il nuovo scenario, o quello del<br />

futuro prossimo, costituito dalle reti urbane, dalla moltiplicazione dei punti di accesso ai reticoli di<br />

comunicazioni e transazioni, dalla crisi dei vecchi fattori di localizzazione, rende la piccola e media<br />

<strong>citt</strong>à storica un punto priv<strong>il</strong>egiato di accesso tanto ai networks metropolitani e planetari che ai vicini<br />

luoghi di produzione, di scambio e di tempo libero allocati <strong>nel</strong> cuore delle grandi <strong>citt</strong>à e delle<br />

aree metropolitane” (v. Amendola, 1993, p. 32). <strong>La</strong> metropoli crea effetti dimostrativi; così che in<br />

Italia, in Francia, in Germania, in Olanda alcune medie e, a volte, piccole <strong>citt</strong>à dotate di urbanappeal,<br />

di capitale storico-culturale, a volte anche soltanto appropriatrici monopolistiche di un<br />

“evento” globale (v. Sgroi, 1998), si “metropolizzano”, assumono i modelli di vita metropolitana, si<br />

organizzano per riprodurre, in scala, funzioni e fascini metropolitani. Questo processo può essere un<br />

tentativo intenzionalmente diretto a entrare <strong>nel</strong>la competizione globale o, più semplicemente, la<br />

risposta a una domanda di metropoli che i mass media inducono ormai negli abitanti financo dei<br />

centri più piccoli, alla ricerca inquieta di una percentuale di “glocal” (una combinazione,<br />

dall’alchimia misteriosa e mutevole, di globale e di locale).<br />

Le tecnologie avanzate, quella di “rete” in modo specifico, provocano un ulteriore<br />

passo avanti <strong>nel</strong> ridurre le differenze tra le diverse scale della concentrazione urbana: la piccola<br />

<strong>citt</strong>à è oggi sempre più programmata con gli stessi mezzi fisici ed elettronici della metropoli. Si<br />

potrebbe dire, in conclusione, che <strong>il</strong> mondo si è fatto metropoli e che fuori di questa condizione ormai<br />

rimane poco o nulla.<br />

2. L’egemonia urbana.<br />

2a. Un mondo urbanizzato.<br />

<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à, intesa come grande agglomerazione demografica, continua a crescere; non è soltanto una<br />

crescita in assoluto, resa visib<strong>il</strong>e dai picchi delle megalopoli: infatti è <strong>il</strong> ritmo di crescita della<br />

popolazione urbana (della quota di popolazione residente in centri classificati come urbani) a<br />

rivelarsi molto più veloce di quello della popolazione mondiale in complesso. Nel 1955 <strong>nel</strong> mondo<br />

vi erano già 22 grandi <strong>citt</strong>à con più di cinque m<strong>il</strong>ioni di abitanti ciascuna - senza contare le rispettive<br />

aree metropolitane - otto delle quali localizzate <strong>nel</strong>le regioni economicamente più sv<strong>il</strong>uppate.<br />

Anche se si è già verificato - ed è prevedib<strong>il</strong>e che <strong>il</strong> fenomeno sarà più accentuato <strong>nel</strong> prossimo<br />

futuro - un rallentamento della crescita demografica complessiva, <strong>nel</strong> periodo tra <strong>il</strong> 2001 e <strong>il</strong> 2005<br />

la popolazione urbana crescerà ancora di 91 m<strong>il</strong>ioni. Ma la previsione è probab<strong>il</strong>mente calcolata<br />

per difetto, perché bisogna tener conto che le nuove migrazioni dall’Est e dal Sud del mondo -<br />

specialmente quelle in corso <strong>nel</strong> bacino del Mediterraneo - hanno come loro punto d’approdo le<br />

grandi aree metropolitane europee o contribuiscono a rafforzare sistemi urbani in formazione, come<br />

<strong>nel</strong> caso del nordest italiano. Se <strong>nel</strong> 1975 <strong>il</strong> 39% della popolazione mondiale viveva in centri<br />

urbani, la popolazione urbana - già salita al 45% <strong>nel</strong> 1995 - <strong>nel</strong>le aree più sv<strong>il</strong>uppate si attesta ormai<br />

intorno al 75%, <strong>nel</strong>le aree a più lento sv<strong>il</strong>uppo scende al 38%, mentre arriva al 22% <strong>nel</strong>le aree ancora<br />

chiuse <strong>nel</strong>la morsa del sottosv<strong>il</strong>uppo. Alcune proiezioni al 2025 indicano che la popolazione urbana<br />

raggiungerà l’83% nei paesi più industrializzati e <strong>il</strong> 61% in quelli sottosv<strong>il</strong>uppati, con un<br />

incremento relativo ben maggiore <strong>nel</strong> secondo caso, quindi, che <strong>nel</strong> primo (v. Vallin, 1986).


Tuttavia, le r<strong>il</strong>evazioni dell’ONU indicano che <strong>il</strong> tasso di crescita della popolazione urbana si<br />

muove in senso inverso: nei paesi più sv<strong>il</strong>uppati è fermo attorno allo 0,7%, mentre sale<br />

rispettivamente al 3,3% e al 5,7% <strong>nel</strong>le altre due aree indicate.<br />

Le analisi sulla crescita urbana tendono a sottolineare, a volte anche con accenti allarmistici,<br />

come la sua esplosione (da cui la definizione di exploding cities) caratterizzi proprio le aree meno<br />

sv<strong>il</strong>uppate. “Si valuta che <strong>nel</strong> mondo <strong>nel</strong> 1975 fossero 5 le agglomerazioni urbane con più di 10<br />

m<strong>il</strong>ioni di abitanti, tre delle quali localizzate nei paesi in via di sv<strong>il</strong>uppo, dove entro <strong>il</strong> 2015<br />

queste mega<strong>citt</strong>à dovrebbero diventare ben 22, mentre altre 4 (su un totale di 26) dovrebbero<br />

essere localizzate <strong>nel</strong> Nord del mondo” (v. Golini, 1999, p. 118). Nel 1985 la più grande<br />

metropoli del mondo era l’agglomerazione Tokyo-Yokohama, con 19 m<strong>il</strong>ioni di abitanti,<br />

seguita da Shanghai (17 m<strong>il</strong>ioni), Città di Messico (16,6 m<strong>il</strong>ioni), New York (15,6 m<strong>il</strong>ioni) e<br />

San Paolo (15,5 m<strong>il</strong>ioni). Nel 2000 salgono ai primi posti Città di Messico (con 24,4 m<strong>il</strong>ioni) e San<br />

Paolo (23,6 m<strong>il</strong>ioni). L’elemento che colpisce di più è che le due metropoli avevano già quasi<br />

raddoppiato la loro popolazione dal 1970 al 1985, arrivando a triplicarla <strong>nel</strong> 2000. Agli attuali<br />

ritmi di incremento, <strong>nel</strong> 2025 Città di Messico potrebbe raggiungere i 35 m<strong>il</strong>ioni di abitanti.<br />

<strong>La</strong> letteratura tende a considerare la crescita delle megalopoli <strong>nel</strong> Terzo Mondo l’effetto della<br />

fuga dalle campagne impoverite dalla desertificazione o dal crollo dei prezzi delle materie prime.<br />

Ma la spiegazione, pur contenendo molti argomenti condivisib<strong>il</strong>i, non è sufficiente. C’è una<br />

‘promessa’ <strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à che esercita un forte richiamo sulla popolazione extraurbana, specialmente<br />

sulla componente più dotata di spirito di iniziativa, più giovane, più provvista di risorse<br />

soggettive. D’altra parte, ben sappiamo che anche chi è ancora lontano dalla <strong>citt</strong>à definisce ormai i<br />

suoi orizzonti esistenziali in rapporto costante con essa, magari inventandosi una <strong>citt</strong>à che forse<br />

non esiste, ma che è un sogno capace di trasmettere promesse e di indurre speranze. Le stesse<br />

bidonv<strong>il</strong>les delle megalopoli del Terzo Mondo - così come certi quartieri degradati delle grandi<br />

<strong>citt</strong>à europee lo sono stati <strong>nel</strong> recente passato per gli immigrati dal sud dell’Europa e lo sono, oggi,<br />

per i nuovi immigrati delle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo – costituiscono una<br />

tappa “pedagogica” per i nuovi inurbati, <strong>il</strong> mezzo per progredire e assim<strong>il</strong>are <strong>il</strong> modo di vita<br />

urbano.<br />

Bisogna evitare di associare <strong>il</strong> fenomeno del gigantismo urbano con <strong>il</strong> sottosv<strong>il</strong>uppo e con la<br />

bassa qualità della vita. E ciò tenendo conto di almeno due variab<strong>il</strong>i: Tokyo, New York, Osaka,<br />

Londra, Hong Kong, Los Angeles sono metropoli densamente popolate, ma anche centri di affari di<br />

r<strong>il</strong>ievo mondiale. Tra le 21 <strong>citt</strong>à del mondo in cui si vive meglio (v. RUR, 1997), le due aree<br />

metropolitane di Tokyo e di Osaka si collocano rispettivamente all’undicesimo e tredicesimo<br />

posto con un punteggio di 94 (su 100); Dallas e Atlanta, che fanno registrare in questa graduatoria<br />

<strong>il</strong> più alto tasso di incremento demografico (oltre a essere già in partenza <strong>citt</strong>à fortemente<br />

popolate), si collocano rispettivamente al settimo e quarto posto (con 96 e 98 punti). <strong>La</strong> possib<strong>il</strong>ità<br />

di destini diversi si ritrova anche <strong>nel</strong>le metropoli congestionate del sottosv<strong>il</strong>uppo: <strong>nel</strong>la graduatoria<br />

delle 19 <strong>citt</strong>à con <strong>il</strong> più basso standard di qualità della vita, Città di Messico si mantiene al<br />

quarto posto (con un punteggio di 44), mentre Il Cairo si colloca al sesto posto (con un punteggio<br />

di 42); non si trovano, quindi, malgrado la loro sovrappopolazione, al fondo della graduatoria.<br />

<strong>La</strong> prospettiva della globalizzazione induce a inserire <strong>nel</strong>la valutazione delle relazioni tra<br />

sovrappopolazione urbana e sv<strong>il</strong>uppo la distinzione tra sistemi di <strong>citt</strong>à equ<strong>il</strong>ibrati e sistemi di <strong>citt</strong>à<br />

cosiddette “primaziali”: nei primi le attività produttive e i servizi sono distribuiti tra diverse <strong>citt</strong>à;<br />

nei secondi, in una <strong>citt</strong>à, solitamente la capitale, sono concentrati disordinatamente popolazione,<br />

attività economiche e servizi (v. Sassen, 1994). Di consueto i primi tipi di sistemi sono propri<br />

dell’Europa occidentale e, in generale, delle aree economicamente sv<strong>il</strong>uppate, mentre l’America<br />

<strong>La</strong>tina, i Caraibi, ampie parti dell’Asia e, in una certa misura, l’Africa sono caratterizzati dalla<br />

presenza egemonica o isolata di <strong>citt</strong>à primaziali. Lo status di <strong>citt</strong>à primaziale è certamente legato<br />

alla crescita della popolazione urbana, ma questo legame non può essere inteso in senso<br />

deterministico: se rientrano a pieno titolo tra le <strong>citt</strong>à primaziali San Paolo, che assorbe <strong>il</strong> 36% del<br />

prodotto nazionale e <strong>il</strong> 48% del prodotto industriale netto del Bras<strong>il</strong>e, e Santo Domingo, dove ha


luogo <strong>il</strong> 70% delle transazioni commerciali e finanziarie e <strong>il</strong> 56% della produzione industriale<br />

della Repubblica Dominicana, New York, viceversa, malgrado sia una delle cinque metropoli<br />

più popolate del mondo, non può essere inclusa in questa categoria a causa del carattere<br />

multipolare del sistema urbano degli Stati Uniti. Né, d’altra parte, la presenza di <strong>citt</strong>à primaziali -<br />

tra le quali si annoverano ad esempio anche Tokyo e Londra - può essere considerata un carattere<br />

esclusivo dei paesi poco sv<strong>il</strong>uppati.<br />

Infine, un elevato tasso di urbanizzazione non è necessariamente l’esito perverso delle condizioni<br />

dei paesi sottosv<strong>il</strong>uppati. “Nel 1985, ad esempio, un paese come l’Argentina aveva un tasso di<br />

urbanizzazione dell’84,6 per cento che è molto vicino a quello dei paesi più sv<strong>il</strong>uppati; per contro i<br />

tassi di urbanizzazione dell’Algeria (42,6 per cento) e della Nigeria (31 per cento) rinviano a un<br />

livello di urbanizzazione piuttosto distante da quello dei paesi sv<strong>il</strong>uppati” (v. Sassen, 1994, p. 48).<br />

Formazione di megalopoli e urbanizzazione del territorio sono, quindi, fenomeni ciascuno<br />

indipendente dall’altro e che si collegano piuttosto alle caratteristiche dello Stato nazionale di<br />

appartenenza. L’unico aspetto certo è che lo sv<strong>il</strong>uppo economico amplifica <strong>il</strong> processo di<br />

urbanizzazione: da qui la fac<strong>il</strong>e previsione che - salvo <strong>il</strong> verificarsi di eventi catastrofici naturali<br />

o umani - l’urbanizzazione del mondo è destinata a proseguire.<br />

Un ultimo elemento da prendere in considerazione <strong>nel</strong>la valutazione del ciclo che attraversa <strong>il</strong><br />

processo di urbanizzazione riguarda le metropoli del mondo industriale. Si è<br />

r<strong>il</strong>evata a partire dagli anni Settanta una progressiva deconcentrazione delle aree urbane e<br />

metropolitane a proposito della quale si è usato <strong>il</strong> termine “eurbanizzazione”, accompagnandolo<br />

con quello ben più impegnativo di “controurbanizzazione”: in altre parole, contrazione della<br />

popolazione residente <strong>nel</strong>le grandi <strong>citt</strong>à e relativa crescita della popolazione in aree non urbane. In<br />

effetti <strong>il</strong> fenomeno rivela una ben più complessa dinamica della trasformazione metropolitana:<br />

“<strong>La</strong> diminuzione della popolazione residente <strong>nel</strong>le aree centrali dei sistemi urbani e la sua<br />

crescita <strong>nel</strong>le zone periferiche metropolitane o nei comuni esterni sub-metropolitani” (v. Melis e<br />

Martinotti, 1998, p. 168). In sostanza, diminuisce la popolazione residente metropolitana, ma<br />

<strong>nel</strong>lo stesso tempo centinaia di migliaia di famiglie devono adottare - o portare con sé <strong>nel</strong>le aree<br />

dove si trasferiscono - st<strong>il</strong>i di vita metropolitani, riorganizzando radicalmente i meccanismi d’uso<br />

del tempo e dello spazio.<br />

C’è da aggiungere, peraltro, che negli ultimi anni - negli anni Novanta - si è verificato al<br />

contrario un processo di “riurbanizzazione”, di una parziale ripresa demografica <strong>nel</strong> nucleo<br />

centrale delle aree metropolitane: “la spinta centrifuga e la riurbanizzazione rappresentano due<br />

tendenze coesistenti e non necessariamente contraddittorie, legate a diverse convenienze<br />

localizzative delle funzioni urbane e a una diversa redistribuzione spaziale dei gruppi sociali” (v.<br />

Mela, 1996, p. 174).<br />

Il dubbio che la “fuga dalla <strong>citt</strong>à” fosse più un’invenzione letteraria e giornalistica che una realtà<br />

è fortemente suggerito dall’esperienza comune della realtà urbana; mai le grandi <strong>citt</strong>à ci sono<br />

apparse più affollate di uomini e di mezzi, fitte di edifici e di beni. Le ragioni per cui le analisi<br />

statistiche rischiano di essere fuorvianti per l’interpretazione del fenomeno dell’urbanizzazione<br />

crescente sono state spiegate da Guido Martinotti (v., 1993), secondo <strong>il</strong> quale la metropoli<br />

contemporanea vive con l’apporto di quattro popolazioni diverse: 1) gli abitanti veri e propri, che<br />

risiedono <strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à, in gran parte vi lavorano e vi trovano i beni e i servizi per i loro bisogni; è<br />

questa la popolazione tradizionalmente censita come popolazione ufficiale; 2) i pendolari, soggetti<br />

che non risiedono <strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à, ma vengono quotidianamente a lavorarvi e fruiscono part-time<br />

delle sue opportunità di consumo (trasporti urbani interni, pasti, ecc.); 3) i city users, soggetti che<br />

non risiedono né lavorano in <strong>citt</strong>à, ma vi fanno riferimento per alcune classi di beni e di servizi<br />

da essa offerti; 4) i metropolitan businessmen, segmento di crescente importanza per effetto dei<br />

processi di globalizzazione, presente <strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à per determinati periodi di tempo, per affari o per<br />

congressi scientifici, con domande di ospitalità, di consumo, di svago a elevato standard di qualità.<br />

Le ultime tre popolazioni vivono - e fanno vivere - la <strong>citt</strong>à in misura non inferiore a quella degli<br />

abitanti e sono spesso attori strategici <strong>nel</strong>l’orientarne lo sv<strong>il</strong>uppo e <strong>il</strong> governo.


Attraverso tutti questi percorsi cresce l’appartenenza al mondo urbano, un’appartenenza non più<br />

siglata dalla fisicità o dalla condizione giuridica e fortemente variegata, che presuppone,<br />

richiede, legittima un’offerta urbana largamente diversificata e flessib<strong>il</strong>e.<br />

2b. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à che cambia.<br />

“<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à è un grande <strong>successo</strong> dell’uomo: essa oggettivizza <strong>il</strong> sapere più sofisticato in un<br />

paesaggio fisico di complessità, potenza e splendore straordinari, e contemporaneamente unisce<br />

forze sociali capaci delle più stupefacenti innovazioni sociotecniche e politiche. Ma è anche luogo<br />

di squallido fallimento esistenziale, parafulmine dello scontento disperato, arena del conflitto<br />

sociale e politico. È un luogo misterioso, dove l’inatteso è di casa, pieno di agitazione e di<br />

fermento, di libertà, opportunità e alienazione; pieno di passione e repressione, di<br />

cosmopolitismo e campan<strong>il</strong>ismo estremi; di violenza, innovazione e reazione. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à capitalista<br />

è l’arena dei massimi disordini sociali e politici, ed è insieme testimonianza monumentale<br />

e forza propulsiva <strong>nel</strong>la dialettica dello sv<strong>il</strong>uppo ineguale capitalista” (v. Harvey, 1989; tr. it., p.<br />

266). Pur scontando <strong>il</strong> ricorso alla retorica marxista, questa frase di Harvey può essere ut<strong>il</strong>izzata<br />

come un buon incipit per un’analisi del <strong>successo</strong> urbano e del suo b<strong>il</strong>ancio - ambivalente come<br />

quello di qualsiasi <strong>successo</strong> - di risultati e di costi. Occorre però entrare <strong>nel</strong>lo specifico,<br />

identificando i fattori del <strong>successo</strong> e tracciando, pur se per accenni, una tipologia delle “<strong>citt</strong>à di<br />

<strong>successo</strong>”.<br />

Il <strong>successo</strong> urbano è legato <strong>nel</strong> mondo contemporaneo a due variab<strong>il</strong>i che possiamo definire<br />

rispettivamente “la <strong>citt</strong>à che cambia” e “la pluralizzazione dell’offerta urbana”. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à del <strong>XX</strong><br />

<strong>secolo</strong> è sottoposta a un tasso di cambiamento ben più accelerato di quanto non sia stato quello a<br />

cui da sempre sono stati sottoposti i fenomeni urbani: si tratta di processi spontanei, ma anche di<br />

mutamenti intenzionali e governati, la cui misura è rappresentata dalla rapidità, dall’efficacia, dalla<br />

potenza moltiplicatrice, ma anche dalla capacità di mantenere un certo rapporto con i sentimenti di<br />

appartenenza e di preservare la cultura e l’identità.<br />

Il ritmo di mutamento di molte <strong>citt</strong>à contemporanee, di quelle storiche così come di quelle di più<br />

recente impianto, contraddice <strong>il</strong> principio affermato tradizionalmente <strong>nel</strong>le scuole di architettura che<br />

le <strong>citt</strong>à siano entità “lente” rispetto all’economia e alla scienza. Non sono soltanto la quantità e la<br />

qualità della popolazione, le funzioni, la loro localizzazione <strong>nel</strong>le diverse aree urbane, le attrezzature<br />

tecnologiche a cambiare: cambia anche la <strong>citt</strong>à di pietra, <strong>nel</strong>l’estendersi in determinate direzioni,<br />

<strong>nel</strong> rapporto tra spazi pubblici e spazi privati, <strong>nel</strong> suo prolungarsi verso l’alto o <strong>nel</strong> suo<br />

sprofondare sotto <strong>il</strong> livello del suolo, e cambia rapidamente anche <strong>nel</strong>le caratteristiche dei suoi<br />

manufatti.<br />

Dentro la <strong>citt</strong>à e verso la <strong>citt</strong>à si sv<strong>il</strong>uppa un continuo movimento che è anche mutamento<br />

continuo delle dimensioni spaziali e temporali della <strong>citt</strong>à. Prendiamo un caso limite come<br />

Shanghai. Per modernizzarsi (o per “occidentalizzarsi”) la più popolosa <strong>citt</strong>à cinese sembra<br />

aver ingaggiato una lotta contro <strong>il</strong> tempo. È un cantiere globale e permanente in cui si demoliscono<br />

a tappe forzate e con spregiudicata disinvoltura begli edifici di inizio <strong>secolo</strong>, sostituendoli con<br />

centinaia e centinaia di palazzi alti e moderni, anche se di dubbia qualità. A Shanghai, come in altre<br />

<strong>citt</strong>à dell’Estremo Oriente, <strong>il</strong> processo di trasformazione è così rapido che le mappe urbane sono<br />

continuamente ristampate e rimangono comunque assai approssimative. Le <strong>citt</strong>à in quanto espressione<br />

della società e dell’economia sono percepite come beni di consumo e non come documenti della<br />

storia, e tanto meno come opere d’arte. Basti pensare che <strong>nel</strong> centro di Shanghai manca ormai<br />

qualsiasi elemento riconoscib<strong>il</strong>e come “cinese” e che recentemente si è arrivati al paradosso di<br />

costruirvi una Chinatown con finalità prevalentemente commerciali (ristoranti, sale da tè, antiquari,<br />

souvenir, ecc.) in modo da offrire ai turisti qualcosa di coerente con le loro aspettative. Così come<br />

accade, al contrario, che in <strong>citt</strong>à nuove si recuperi un “passato” storico-artistico appartenente ad altre<br />

realtà: a <strong>La</strong>s Vegas, sulle ceneri del glorioso Hotel Sands, imbottito di dinamite e fatto saltare in aria, è<br />

sorta una installazione multifunzionale, The Venetian, completa di giochi acquatici, Canal Grande,<br />

Ponte di Rialto e relativi gondolieri d’importazione, mentre già si stanno apprestando le repliche di


Tour Eiffel, Arc de Triomphe e Opéra.<br />

Ma anche Berlino, Londra, M<strong>il</strong>ano, Parigi, Torino hanno mutato o stanno mutando radicalmente <strong>il</strong><br />

loro aspetto, non soltanto attraverso la progettazione e la realizzazione di opere architettoniche di<br />

grande richiamo, ma riscattando interi patrimoni ed<strong>il</strong>izi e aree urbane: fabbriche dismesse, vecchie<br />

e meno vecchie, diventano sale da concerto o spazi espositivi o luoghi di ricerca e di alta<br />

formazione; aree industriali sono convertite in zone residenziali; quartieri degradati ricevono nuova<br />

popolazione con culture differenziate e più elevato potere d’acquisto.<br />

Intere <strong>citt</strong>à vengono sottratte al declino o a un’immagine caratterizzata in senso negativo.<br />

Ritorniamo al caso di <strong>La</strong>s Vegas. Una volta era soltanto una <strong>citt</strong>à per giocatori e per turisti in<br />

cerca di emozioni forti, tra <strong>il</strong> gioco d’azzardo e <strong>il</strong> sesso fac<strong>il</strong>e. Intorno alla fine degli anni Ottanta i<br />

maggiori azionisti dell’“affare <strong>La</strong>s Vegas” si resero conto che <strong>il</strong> gioco d’azzardo, per <strong>il</strong><br />

progressivo ingresso <strong>nel</strong> mercato della maggior parte degli altri Stati confederati, non aveva<br />

più avvenire e che l’immagine della <strong>citt</strong>à era sempre più legata a falliti alcolizzati e a prostitute,<br />

come <strong>nel</strong> f<strong>il</strong>m Leaving <strong>La</strong>s Vegas di Mike Figgis. Partirono così i primi progetti di rinnovamento<br />

per trasformare la <strong>citt</strong>à del vizio in una vera e propria stazione turistica multidimensionale, rivolta<br />

a una più ampia fascia di utenti: famiglie con bambini, pensionati con un certo reddito,<br />

professionisti e personaggi importanti. Un progetto ambizioso: la costruzione di 24 m<strong>il</strong>a appartamenti<br />

l’anno a prezzi concorrenziali rispetto alla vicina California, 125 m<strong>il</strong>a camere<br />

d’albergo, servizi offerti a basso costo, spazio e verde a volontà. <strong>La</strong>s Vegas si sta trasformando in<br />

una delle principali metropoli degli Stati Uniti e la sua popolazione è passata dai 200 m<strong>il</strong>a<br />

abitanti degli anni Ottanta a circa un m<strong>il</strong>ione e duecentom<strong>il</strong>a di oggi, fino alla previsione di<br />

oltrepassare i 2 m<strong>il</strong>ioni entro <strong>il</strong> 2005.<br />

Ma anche <strong>citt</strong>à più piccole manifestano la volontà di proiettarsi <strong>nel</strong> futuro, trasformando <strong>il</strong><br />

proprio volto e dotandosi di nuove funzioni urbane avanzate. Un caso esemplare può essere quello<br />

di L<strong>il</strong>le, situata in una povera regione: una <strong>citt</strong>à di appena 180 m<strong>il</strong>a abitanti che, sfruttando la<br />

propria collocazione strategica al centro di un territorio sovranazionale (che va da Londra a<br />

Bruxelles, da Colonia e dal bacino della Ruhr ad Amsterdam e Rotterdam) dotato di un sistema<br />

integrato di trasporti avveniristico e cogliendo l’occasione della propria candidatura alle Olimpiadi<br />

del 2004 (assegnate poi ad Atene), si è proiettata <strong>nel</strong> <strong>XX</strong>I <strong>secolo</strong>. A poche centinaia di metri dalla<br />

vecchia L<strong>il</strong>le fiamminga è sorta una <strong>citt</strong>à nuova di zecca, Eurol<strong>il</strong>le: 275 m<strong>il</strong>a metri quadrati per un<br />

investimento pari a 5,3 m<strong>il</strong>iardi di franchi (per due terzi investiti da privati), una Manhattan in<br />

miniatura, una parata di cattedrali high-tech disegnata e realizzata da uno staff internazionale di<br />

architetti, coordinato dall’olandese Rem Koolhaas.<br />

Sembra che si faccia strada <strong>nel</strong> mondo urbano europeo - pur con le differenze imposte dalla<br />

presenza in molte <strong>citt</strong>à di estesi centri storici ricchi di memoria e di arte - qualcosa di sim<strong>il</strong>e alla<br />

tendenza propria a molte <strong>citt</strong>à degli Stati Uniti di rinnovare periodicamente <strong>il</strong> proprio patrimonio<br />

ed<strong>il</strong>izio, cambiandone <strong>il</strong> design, ma anche facendo ricorso, come in qualsiasi industria, alla<br />

ricerca e all’ut<strong>il</strong>izzazione di nuovi materiali e di nuove tecnologie. A volte <strong>il</strong> cambiamento può<br />

consistere soltanto in una più attenta manutenzione o in interventi di abbellimento che, però, se<br />

accompagnati dall’accorta azione di un’amministrazione capace di dare e produrre fiducia, come<br />

<strong>nel</strong> caso di Napoli, promuovono un nuovo clima che può sostenere l’impulso al mutamento della<br />

<strong>citt</strong>à.<br />

<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à contemporanea è una realtà composita che offre tanto ai suoi abitanti come ai suoi<br />

ut<strong>il</strong>izzatori molti volti, molti processi, differenti forme di vita urbana. Ciò avviene non soltanto<br />

in una metropoli scissa tra occidentalizzazione esasperata e persistente peso delle tradizioni come<br />

Tokyo, in cui basta addentrarsi in una stradina dietro i grattacieli tutto vetro e alle sopraelevate dal<br />

sofisticatissimo di segno architettonico per ritrovare case di legno a due piani, botteghe, venditori<br />

ambulanti di patate dolci, ecc. Anche <strong>citt</strong>à come Parigi offrono luoghi che hanno forme e fruitori<br />

diversi: dai luoghi consacrati dal turismo di massa (Champs-Élysées e Montmartre) alla<br />

rassicurante quotidianità di Place de Vosges, al futurib<strong>il</strong>e della Defense, fino all’intensità relazionale<br />

della Bellev<strong>il</strong>le immaginata da Daniel Pennac e dei quartieri in trasformazione al di là della


Bast<strong>il</strong>le descritti <strong>nel</strong> f<strong>il</strong>m Chacun cherche son chat di Cédric Klapitsch. Ma anche la “Grande<br />

Mela” ci offre una realtà variegata <strong>nel</strong>le forme edificate e negli st<strong>il</strong>i di vita, dal cuore della Fifth<br />

Avenue al Greenwich V<strong>il</strong>lage, alla Brooklyn plurietnica, eppure ancora capace di conservare una<br />

forte identità, così come ci viene proposta dai f<strong>il</strong>m di Wayne Wang e Paul Auster (Smoke e Blue in<br />

the face). Questi ultimi due documenti della fantasia r<strong>il</strong>evano con l’intuizione dell’arte un<br />

microcosmo di interazioni calde tra le due popolazioni di un quartiere metropolitano, gli<br />

“attraversanti’ e gli abitanti, non indifferenti gli uni agli altri, ma anzi capaci di venire in contatto e<br />

di riconoscersi con le loro diversità, con i tic dei loro atteggiamenti e dei loro comportamenti,<br />

facendo di essi - anche se per un momento - comuni abitanti del v<strong>il</strong>laggio metropolitano.<br />

Regioni di ribalta e regioni di retroscena (v. Goffman, 1956), luoghi ad alta e a bassa<br />

vitalità (v. De Carlo, 1995), luoghi di quiete quasi provinciale e luoghi di frenetica e convulsa<br />

attività si succedono <strong>nel</strong>lo stesso tessuto metropolitano e, spesso, si scambiano ruoli e funzioni.<br />

Via via che i soggetti urbani, vecchi e nuovi, modificano i loro linguaggi, questi modificano le<br />

forme urbane; <strong>nel</strong>lo stesso tempo i vincoli fisici o le risorse spaziali emergenti dalla crescita e dalla<br />

trasformazione urbana mutano comportamenti e st<strong>il</strong>i di vita urbani in un continuo processo<br />

circolare.<br />

2c. I fattori del <strong>successo</strong> urbano.<br />

Il fattore di <strong>successo</strong> per una <strong>citt</strong>à e, ancor di più, per una metropoli, è la qualità, sia del prodotto<strong>citt</strong>à<br />

e della sua immagine, sia del governo locale, ma anche la capacità di accettare la sfida della<br />

globalizzazione, di entrare cioè come partner attivo ed efficace in una rete urbana, in un club di<br />

<strong>citt</strong>à in cui interagiscono virtuosamente relazioni competitive e cooperative.<br />

Ragionare in termini di prodotto-<strong>citt</strong>à (e, quindi, in termini di marketing urbano) è coerente con<br />

<strong>il</strong> modello di <strong>citt</strong>à-impresa imposto dalla competizione globale, perché è quello che esalta le<br />

componenti e le potenzialità spaziali e contenutistiche del fenomeno urbano in un processo espansivo<br />

aperto, <strong>nel</strong> confronto senza confini proprio di un’impresa. <strong>La</strong> qualità del prodotto-<strong>citt</strong>à ne fa un<br />

luogo strategicamente vincente: per la localizzazione, in forme diverse, di élites internazionali, di<br />

determinate imprese e servizi high-tech, di istituzioni e impianti di rango nazionale e<br />

sovranazionale capaci di produrre ricchezza e lavoro, di attirare intelligenze e generare conoscenze;<br />

per la produzione di eventi che richiamino flussi di visitatori e trasmettano immagini e messaggi di<br />

eccezionalità; ma anche per garantire qualità della vita ai suoi abitanti e utenti e per promuoverne<br />

identità e patriottismo civico.<br />

Il sogno della qualità urbana sarebbe quello di ottenere, secondo la felice sintesi di Colin Rowe,<br />

una <strong>citt</strong>à in cui ci fosse un centro storico europeo, ricco di valori estetici storicamente consolidati, e<br />

una grande periferia nordamericana, linda, efficientissima e funzionale. Rimane un sogno sia per le<br />

<strong>citt</strong>à nordamericane, che hanno assunto con ottimistica baldanza <strong>il</strong> carattere simulativo della<br />

società postmoderna, ricostruendo, con la logica del souvenir del turismo<br />

di massa, pezzi di storia monumentale e architettonica importati dall’Europa, sia per molte <strong>citt</strong>à<br />

europee, che non riescono a sottrarre le loro periferie a uno st<strong>il</strong>e architettonico anonimo e sciatto,<br />

quando non le abbandonano a un destino di degrado. Ma, al di là dei sogni, l’accresciuta attenzione<br />

all’estetica della <strong>citt</strong>à è una realtà che si impone con evidenza.<br />

<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à del XIX <strong>secolo</strong> e di buona metà del <strong>XX</strong> doveva essere funzionale, rispondere a criteri di<br />

ut<strong>il</strong>ità <strong>nel</strong>la localizzazione delle funzioni e <strong>nel</strong>la solidità del suo patrimonio ed<strong>il</strong>izio; poteva anche<br />

essere bella, ma questo requisito rimaneva un effetto secondario. Oggi, al contrario, la <strong>citt</strong>à<br />

postmoderna si misura attraverso la sua capacità di rispondere a una “domanda di bellezza” (v.<br />

Amendola, 1997) ancora tutta da esplorare <strong>nel</strong> suo contenuto sostanziale, <strong>nel</strong>la tipologia e <strong>nel</strong>la<br />

capacità dei <strong>citt</strong>adini di rispecchiarsi <strong>nel</strong> “bello urbano”, ma anche <strong>nel</strong>le alterazioni provocate<br />

sulla domanda dalle concrete manifestazioni dell’offerta urbana così come determinate dai poteri<br />

del mercato e delle ideologie. “<strong>La</strong> voga, la voglia di inserire ‘arte’, ‘attrazioni artistiche’, eventi,<br />

lusinghe e distrazioni estetiche negli spazi urbani è un complemento dell’aspirazione


contemporanea a recuperare vita, ambienti e funzioni della <strong>citt</strong>à: cioè a ricostruire modelli di<br />

convivenza, vagheggiati da un generico senso comune, in siti dall’aspetto gradevole” (v. Fabbri e<br />

Greco, 1995, p. 7).<br />

<strong>La</strong> “estetizzazione” della <strong>citt</strong>à supera la tradizionale distinzione tra <strong>citt</strong>à dal cuore antico e <strong>citt</strong>à<br />

pulsanti proposte dal nuovo urbanesimo, tra <strong>citt</strong>à d’arte e <strong>citt</strong>à delle funzioni. In ogni <strong>citt</strong>à opera<br />

un “sindaco Chirac” che azzarda un restyling dei monumenti e della grande ed<strong>il</strong>izia civ<strong>il</strong>e e religiosa<br />

inventando colori e scolorimenti adatti a migliorarne la “confezione”; l’arredo urbano<br />

diffuso richiama abitanti sulle strade e sulle piazze, anche là dove le condizioni meteorologiche<br />

sono mediamente sfavorevoli (Stoccolma) o recuperando luoghi alla socializzazione<br />

intergenerazionale (<strong>il</strong> progetto “Centopiazze” a Roma); cresce l’attenzione alla tutela, al restauro e<br />

alla valorizzazione dei centri storici, visti <strong>nel</strong>la loro unità, superando, cioè, la concentrazione estetica<br />

sul singolo episodio artistico-monumentale che dominava <strong>nel</strong> passato; <strong>il</strong> patrimonio museale<br />

viene ricollocato al centro dell’offerta urbana, non soltanto aprendolo con supporti logistici e<br />

tecnologici a una fruizione più ampia, articolata e flessib<strong>il</strong>e, ma anche progettando via via nuovi<br />

“contenitori” dotati di attrattiva estetica propria; una molteplicità di artisti, osc<strong>il</strong>lando tra<br />

l’happening urbano (gli impacchettamenti di Christo) e la land art, distribuiscono oggetti e<br />

avvenimenti estetici negli spazi della <strong>citt</strong>à.<br />

Nelle <strong>citt</strong>à storiche della vecchia Europa le vie dell’estetizzazione dell’ambiente urbano possono<br />

diversificarsi da realtà di più recente urbanizzazione come quelle del Nordamerica e<br />

dell’Estremo Oriente. In queste ultime la ricerca artistico-monumentale si verticalizza, dando luogo<br />

alla tipologia ed<strong>il</strong>izia e architettonica del grattacielo, testimonianza enfatizzata della modernità,<br />

connubio, a volte felice, di ricerca formale e di tecnologia, simbolo di potenza e di storia che<br />

rinnova l’ambizione che <strong>nel</strong>le <strong>citt</strong>à dell’Italia medievale spingeva le grandi famiglie a costruire<br />

torri sempre più alte per affermare <strong>il</strong> prestigio del proprio casato.<br />

Come immaginare Manhattan senza <strong>il</strong> prof<strong>il</strong>o dell’Empire State Bu<strong>il</strong>ding e delle Twin Towers,<br />

spazio emozionale non per nulla destinato a innovare <strong>il</strong> motivo del paesaggio <strong>nel</strong>la pittura<br />

americana (Georgia O’Keeffe, Thurman Rotan)? Ed è l’Asia a raccogliere <strong>il</strong> testimone della sperimentazione<br />

dell’architettura verticale in una rincorsa ambiziosa che con le Torri Petronas in<br />

Malaysia - 450 metri di altezza e ricettività per 60 m<strong>il</strong>a persone - si lasciano dietro <strong>il</strong> più alto<br />

grattacielo americano, la Torre Sears di Chicago (443 metri), mentre Tokyo progetta la Torre<br />

M<strong>il</strong>lennium che con i suoi 840 metri - se e quando sarà realizzata - conquisterà <strong>il</strong> primato .e<br />

aggiungerà un altro segno di eccezionalità al volto multiforme della metropoli nipponica.<br />

E intanto matura una nuova generazione di grattacieli, sottoposti a nuove, originali tensioni e a<br />

nuovi trattamenti di materiali, per opera di Ph<strong>il</strong>ip Johnson, di Helmut Jahn, di Michael Graves. Il<br />

grattacielo, con le sue lisce superfici vetrate che riflettono <strong>il</strong> cielo e, <strong>nel</strong> gioco della luce, le forme<br />

mutevoli degli spazi costruiti circostanti, si propone come segnale concreto ed emozionante di una<br />

<strong>citt</strong>à utopica, fatta di libertà creativa, di onnipotente artifizio che manipola <strong>il</strong>limitatamente lo spazio.<br />

Anche le <strong>citt</strong>à europee, che per i vincoli posti dal tessuto urbano storico - oltre che per le<br />

caratteristiche produttive e commerciali dell’industria della costruzione - non possono certamente<br />

riprodurre la struttura serrata e continua dell’architettura verticale delle <strong>citt</strong>à americane,<br />

sembrano d’altra parte non saper rinunciare al messaggio architettonico che <strong>il</strong> grattacielo<br />

trasmette; ogni grande <strong>citt</strong>à europea vi paga <strong>il</strong> suo tributo, costruendosi <strong>il</strong> suo simbolico grattacielo.<br />

L’estetizzazione della <strong>citt</strong>à ha due esiti estremi che pure, malgrado le reazioni critiche che hanno<br />

provocato e continuano a provocare, finiscono con <strong>il</strong> concorrere al <strong>successo</strong> urbano. Da una<br />

parte tale processo si accompagna con lo sv<strong>il</strong>uppo della signature architecture: molti nuovi manufatti<br />

urbani, quelli di maggior impegno progettuale e di maggior impatto visivo, sono<br />

caratterizzati dalla “firma” che conferisce valore aggiunto a un edificio esattamente come a un<br />

abito o a un paio di jeans, a un’automob<strong>il</strong>e come a un profumo. Sono opere che, quale che sia la<br />

loro destinazione ufficiale, sembrano realizzate non per un luogo, non per una funzione, ma<br />

per essere visitate, fotografate, raccontate. Ad Amsterdam Renzo Piano ha progettato un museo<br />

della scienza in forma di nave; a Parigi, Ieoh Ming Pei ha scherzato sul “Louvre-santuario” con


l’elegante sberleffo di una piramide trasparente e Gae Aulenti con un colpo da fantasiosa<br />

<strong>il</strong>lusionista ha trasformato la vecchia Gare d’Orsay in un museo. Più che <strong>il</strong> prodotto, è la firma a<br />

fare la differenza e ad attirare l’attenzione del turista: può sembrare un paradosso, ma è<br />

probab<strong>il</strong>e che <strong>nel</strong>l’immediato futuro si vada ad Amsterdam come a B<strong>il</strong>bao o a Berlino per<br />

conoscere l’ultima moda dell’architettura o dell’urbanistica più che per cogliere <strong>il</strong> genius loci<br />

della <strong>citt</strong>à. D’altra parte, la tendenza alla delocalizzazione dell’opera architettonica avanza<br />

sempre di più: <strong>nel</strong> quartiere Schtitzenstrasse di Berlino, <strong>nel</strong>l’area una volta attraversata dal<br />

muro, Aldo Rossi, l’architetto italiano recentemente scomparso, ha realizzato un falso d’autore (di<br />

gran pregio estetico, certamente) che ci spiazza perché ci rende diffic<strong>il</strong>e capire se siamo a New<br />

York o a Disneyland o <strong>nel</strong> Rinascimento romano.<br />

L’altro effetto è la spettacolarizzazione della <strong>citt</strong>à. Si parla a questo proposito di una<br />

‘disneylandizzazione’ dell’architettura urbana (v. Zukin, 1995). “Disneyland è un modello<br />

perfetto e insuperato non per <strong>il</strong> suo carattere di straordinario e grandioso parco-gioco, ma per la sua<br />

logica totalizzante fondata sulla prevedib<strong>il</strong>ità, sulla coerenza e sulla comprensib<strong>il</strong>ità grazie alle<br />

grammatiche e ai codici provenienti dal consolidato mondo dei media e dell’immaginario che<br />

permettono alla pluralità dei pubblici, da cui è composta la cosiddetta massa, di vivere<br />

l’esperienza del parco” (v. Amendola, 1997, p. 140). È curioso notare che, così come <strong>nel</strong>le<br />

Disneyland si riproducono luoghi e situazioni delle <strong>citt</strong>à di grande tradizione storica e artistica,<br />

anche le <strong>citt</strong>à storiche o d’arte sono indotte a “pensare’ se stesse secondo una lettura<br />

massmediologica, trasformandosi di fatto in giganteschi musei o addirittura in parchi<br />

dei divertimenti o in centri commerciali globali. Ma la <strong>citt</strong>à moderna non gioca soltanto con i<br />

parchi tematici. Ispirandosi alla poetica della pop art e manovrando la leva dell’esibizionismo<br />

tecnologico, l’architettura americana ha introdotto <strong>nel</strong> disegno della <strong>citt</strong>à caratteri affabulatori e<br />

parodistici. L’influenza è andata ben oltre i confini della realtà urbana metropolitana. Se l’Illinois<br />

ospita la casa a forma di hot dog di Stanley Tigerman, la piazza del Beaubourg vede contrapporsi<br />

i mostri “patafisici” di Niki de St. Phalle alle strutture “macchiniste” del Centro Pompidou; Claes<br />

Oldenburg progetta negli Stati Uniti giganteschi edifici a forma di molletta o di forbice e piazza <strong>nel</strong><br />

parterre de <strong>La</strong> V<strong>il</strong>lette, a Parigi, la sua bicyclette ensevelie, mentre Jean Dubuffet distribuisce le<br />

sue sagome traforate a Parigi come a New York e a Chicago.<br />

È una sorta di trionfante marinismo che applica la poetica della meraviglia al territorio urbano.<br />

E la meraviglia si vende, e bene. Non per nulla si va sv<strong>il</strong>uppando impetuosamente <strong>il</strong> turismo urbano<br />

che porta <strong>citt</strong>à come Londra e New York in cima alla graduatoria dei luoghi più visitati; non per<br />

nulla <strong>il</strong> turismo d<strong>il</strong>aga in tutte le direzioni alla ricerca di tutte quelle esperienze che possono<br />

produrre emozioni (o, soltanto, essere trendy) e che passano ormai soprattutto attraverso le realtà<br />

metropolitane.<br />

Queste considerazioni ci guidano verso un altro fattore di <strong>successo</strong>, la capacità della <strong>citt</strong>à<br />

postmoderna di produrre eventi: “la produzione di <strong>citt</strong>à è una produzione di eventi, di cui<br />

l’architettura, la modellazione dello spazio fisico forma parte integrante ed è manifestazione<br />

sensib<strong>il</strong>e: ma sono gli eventi quelli che contano” (v. Fabbri e Greco, 1995, p. 58). È <strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à che,<br />

per definizione, “accadono le cose”. Se attraverso <strong>il</strong> suo patrimonio simbolico, materiale e<br />

immateriale, la <strong>citt</strong>à si rappresenta, attraverso gli eventi la <strong>citt</strong>à si racconta. <strong>La</strong> produzione di<br />

eventi culturali, artistici, sportivi, religiosi, esplicitamente ricreativi - siano essi in qualche modo<br />

“incardinati” a una <strong>citt</strong>à (<strong>il</strong> Giub<strong>il</strong>eo per Roma), o “catturati” dalla <strong>citt</strong>à (le Olimpiadi o i<br />

Mondiali di calcio), oppure “inventati” (Expo, grandi mostre capaci di presentarsi come epocali) -<br />

si annuncia enfaticamente, trasmette messaggi di forte impatto emotivo, induce <strong>il</strong> bisogno di<br />

esserci, attrae, quindi, centinaia di migliaia, m<strong>il</strong>ioni di visitatori <strong>nel</strong>le <strong>citt</strong>à che li ospitano. E, così,<br />

produce effetti e ottiene ritorni sul piano dell’aggregazione sociale, pur provvisoria, sul piano<br />

economico, sul piano della riorganizzazione e del restyling delle strutture urbane, soprattutto<br />

<strong>nel</strong>l’immagine forte che la <strong>citt</strong>à attraverso l’evento rinvia a tutto <strong>il</strong> mondo. E, alla fine, è la stessa<br />

<strong>citt</strong>à, la metropoli, a farsi evento, “evento totale”: Londra, New York, Parigi, <strong>nel</strong> prossimo futuro<br />

forse la stessa nuova Berlino, rappresentano <strong>nel</strong>l’immaginario collettivo una sorta di grande evento


permanente di cui è necessario essere o sentirsi - per un giorno, per una settimana, per una volta o<br />

per tutte le volte che potremo tornarci - ‘<strong>citt</strong>adini’, tributandone <strong>il</strong> <strong>successo</strong> con <strong>il</strong> farne una sorta<br />

di patria sia pur provvisoria.<br />

Un terzo fattore di <strong>successo</strong> va ricercato <strong>nel</strong> ruolo produttivo della <strong>citt</strong>à. <strong>La</strong> crisi della <strong>citt</strong>à<br />

industriale aveva provocato molte incertezze sul futuro economico delle <strong>citt</strong>à e in particolare delle<br />

metropoli. Ma la forte spinta verso l’economia immateriale sta assicurando nuove prospettive alla<br />

<strong>citt</strong>à. Il processo di globalizzazione crea interdipendenze tra le diverse economie locali, promuove lo<br />

sv<strong>il</strong>uppo di imprese transnazionali, modifica radicalmente gli assetti del mercato del lavoro. Questi<br />

processi esaltano <strong>il</strong> ruolo di quelle <strong>citt</strong>à che presidiano i crocevia dell’economia mondiale, le<br />

<strong>citt</strong>à globali, le quali conservano o accrescono <strong>il</strong> proprio peso economico attraverso <strong>il</strong> controllo<br />

delle reti di informazione e di comunicazione.<br />

Accanto alle <strong>citt</strong>à globali, dotate di un ruolo strategico di controllo e di innovazione<br />

<strong>nel</strong>l’economia del terziario avanzato, si collocano <strong>citt</strong>à, magari di dimensioni meno estese, che<br />

esercitano la loro globalità attraverso funzioni più specializzate, ma che proprio per questo si<br />

propongono come obiettivo a livello mondiale. E <strong>il</strong> caso delle <strong>citt</strong>à turistiche. Infatti, <strong>il</strong> turismo è<br />

un’istituzione “universalizzante” che conferisce senso alla vita e propone una nuova scansione allo<br />

spazio-tempo; a esso accedono masse sempre più estese di persone, sottratte dal progressivo<br />

innalzamento del tenore di vita alle rigide delimitazioni del loro territorio. Sia le <strong>citt</strong>à d’arte sia le<br />

<strong>citt</strong>à dello svago e degli eventi sono coinvolte dal turismo di massa (e usiamo, finalmente, questa<br />

espressione senza valenze negative, ma come possib<strong>il</strong>ità diffusa di accesso alla soddisfazione di<br />

bisogni di gratificazione e di autorealizzazione) dentro un sistema di coordinate internazionali<br />

in cui l’economia come processo globale ha una forte funzione regolatrice. Il luogo urbano<br />

divenuto oggetto di consumo turistico è <strong>nel</strong>lo stesso tempo “estero-determinato” e ricomposto <strong>nel</strong>la<br />

sua unità e identità a partire proprio dallo sguardo turistico. Anzi, l’identità urbana in quanto tale<br />

diventa una risorsa meritevole di offerta, <strong>il</strong> patrimonio culturale un capitale da contab<strong>il</strong>izzare,<br />

l’etnicità una differenza che consente e rafforza <strong>il</strong> riconoscimento reciproco. <strong>La</strong> scommessa della<br />

<strong>citt</strong>à turistica (come e forse più di ogni altro luogo offerto al turismo) è diffic<strong>il</strong>e perché è<br />

caratterizzata da un delicato equ<strong>il</strong>ibrio tra conservazione e fruizione del patrimonio, tra ricerca di<br />

autenticità e offerta serializzata di esperienze omologate o simulate, in definitiva tra l’universalismo<br />

dei comportamenti di consumo e <strong>il</strong> particolarismo del luogo. Nella gestione di questo equ<strong>il</strong>ibrio<br />

stanno le ragioni del durevole <strong>successo</strong> di una <strong>citt</strong>à turistica.<br />

Un’altra tipologia di <strong>citt</strong>à globale con funzioni specialistiche si aggiunge alla lista della nuova<br />

economia urbana: la <strong>citt</strong>à tecnologica. Ogni <strong>citt</strong>à sta diventando in una certa misura una <strong>citt</strong>à<br />

tecnologica, <strong>nel</strong> senso che le tecnologie avanzate sono sempre più la cornice all’interno della quale<br />

si collocano le attività di servizio, le interazioni tra individui e organizzazioni (<strong>citt</strong>à cablate). Ma<br />

in questo caso si parla di <strong>citt</strong>à che hanno fatto delle tecnologie la risorsa per qualificarsi come<br />

m<strong>il</strong>ieux innovateurs, aree in cui si assemblano funzioni pregiate di ricerca e di sperimentazione, ma<br />

anche incubatrici di nuove potenzialità imprenditrici. Seguendo l’esempio, probab<strong>il</strong>mente non<br />

ancora uguagliato né tanto meno superato, della S<strong>il</strong>icon Valley, negli Stati Uniti e in altre aree<br />

dell’Europa e dell’Asia sono nate <strong>citt</strong>à dell’alta tecnologia: Salt <strong>La</strong>ke City, Seattle, Boston, ma<br />

anche Cambridge e Dublino, Sophia-Antipolis in Francia e Helsinki, Xinzhu (Hsinchu) a<br />

Taiwan, Singapore, Bangalore e Tel Aviv, pur attraverso percorsi diversi, rappresentano <strong>il</strong> comune<br />

tentativo di non perdere l’appuntamento con <strong>il</strong> futuro creando uno scambio diretto tra la ricerca<br />

per l’innovazione tecnologica e la fert<strong>il</strong>izzazione del tessuto imprenditoriale, attirando quella che è<br />

ormai la materia prima dello sv<strong>il</strong>uppo, l’intelligenza, ma <strong>nel</strong>lo stesso tempo garantendo un<br />

complesso di servizi e di qualità di vita che promuova un clima di fiducia e di effervescenza intellettuale.<br />

<strong>La</strong> graduatoria delle <strong>citt</strong>à metropolitane, ottenuta incrociando volume demografico, capacità<br />

produttiva e reddito pro capite, vedeva <strong>nel</strong> 1990 l’area metropolitana di Tokyo al primo posto con<br />

una produzione globale di oltre 800 m<strong>il</strong>iardi di dollari, seguita da New York con oltre 400 m<strong>il</strong>iardi,<br />

Parigi con 300 m<strong>il</strong>iardi <strong>nel</strong>la stessa posizione di Osaka e di Los Angeles, infine Londra con 170


m<strong>il</strong>iardi di dollari. <strong>La</strong> crisi economico-finanziaria che ha colpito <strong>il</strong> Giappone e la forte ripresa<br />

economica dell’economia statunitense hanno certamente variato in questi ultimi anni le posizioni<br />

di queste aree metropolitane, ma i dati, al di là della con<br />

giuntura, sottolineano la convergenza tra area metropolitana e capacità produttiva. <strong>La</strong><br />

globalizzazione determina una profonda ristrutturazione economica e sociale, conferendo un<br />

nuovo carattere duale all’economia e al mercato del lavoro urbani. “Da una parte abbiamo la <strong>citt</strong>à<br />

“quaternaria”, densa di attività produttive sofisticate e complesse ad alto valore aggiunto, con la<br />

verticalizzazione del terziario, con la presenza estesa di élites cosmopolite (managers, esperti di<br />

finanza, ricercatori scientifici, imprenditori e professionisti dei media, ecc.); dall’altra, abbiamo<br />

la <strong>citt</strong>à “marginale”, in cui persistono rapporti di produzione precapitalistici (artigianato di<br />

servizio, piccola ed<strong>il</strong>izia, basso terziario e commercio ambulante abusivo, spezzoni di agricoltura<br />

localistica) e in cui crescono nuove attività economiche di tipo interstiziale o informale,<br />

provocate dalla complessità e dalla difficoltà di funzionamento del sistema urbano (dal ponyexpress<br />

ai vig<strong>il</strong>antes, dai sistemi di vendita “porta a porta” agli interventi di “aiuto sociale” in<br />

b<strong>il</strong>ico tra volontariato e lavoro sussidiato)” (v. Sgroi, 1997, p. 94): la maggior parte delle <strong>citt</strong>à<br />

metropolitane anche <strong>nel</strong>le società industriali avanzate, mostra un’articolazione composita cui<br />

partecipano, in diversa misura da <strong>citt</strong>à a <strong>citt</strong>à, l’un tipo e l’altro di economia urbana.<br />

Infine, <strong>nel</strong>la valutazione del significato economico della <strong>citt</strong>à non bisogna dimenticare che<br />

<strong>nel</strong>l’immaginario collettivo la <strong>citt</strong>à metropolitana assume le caratteristiche di un supermercato<br />

globale in cui si offrono sempre nuovi beni e servizi e tutti i desideri sono appagab<strong>il</strong>i. Sia<br />

attraverso i grandi centri commerciali, sia attraverso la trasformazione di certe strade, consacrate<br />

tradizionalmente ai consumi di qualità, che creano una sorta di megacentro commerciale diffuso,<br />

si sv<strong>il</strong>uppa <strong>nel</strong>le <strong>citt</strong>à una nuova pratica urbana, lo shopping, che, accanto al carattere di<br />

comportamento economico che gli è proprio, assume quello di pratica sociale, impiego del tempo<br />

libero, occasione di socializzazione. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à del consumo fa suo lo slogan di Harrod’s a<br />

Londra - “tutto per tutti dappertutto” - testimoniando la sua funzione di mercato totale. Ma<br />

anche attraverso questa sua funzione di capitale del consumo, la metropoli r<strong>il</strong>ancia <strong>il</strong> suo ruolo<br />

competitivo <strong>nel</strong>l’attirare nuovi flussi di ut<strong>il</strong>izzatori.<br />

Nel <strong>successo</strong> di una <strong>citt</strong>à si inserisce anche la capacità di governare <strong>il</strong> rapporto tra mob<strong>il</strong>ità<br />

urbana e fruib<strong>il</strong>ità della <strong>citt</strong>à. Un sistema di trasporti integrato e veloce <strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à e tra la <strong>citt</strong>à e <strong>il</strong><br />

suo hinterland, <strong>il</strong> quale - sfruttando una molteplicità di livelli spaziali, dalla metropolitana alle<br />

sopraelevate - sottragga larghe aree al traffico automob<strong>il</strong>istico e le pedonalizzi: con questa<br />

formula avviata precocemente (si pensi alla costruzione delle prime linee di metropolitana<br />

sotterranea a Londra già <strong>nel</strong> 1863) alcune metropoli sono riuscite a garantire una certa qualità di<br />

vita urbana, pur in presenza di impetuosi processi di crescita.<br />

Le grandi <strong>citt</strong>à capaci di raggiungere <strong>il</strong> <strong>successo</strong> sono i luoghi dove meglio sembra realizzarsi la<br />

promessa urbana, quel progetto di vita pubblica che comprende maggiore libertà di pensiero e di<br />

azione per i <strong>citt</strong>adini, un paniere di entitlements, provisions e chances tendenzialmente disponib<strong>il</strong>e<br />

per tutti, un’economia più dinamica e diversificata, occasioni più frequenti di comunicazione sociale<br />

e un’offerta culturale più ricca e aggiornata.<br />

Ma questo risultato non è <strong>il</strong> frutto di processi spontanei o delle sole forze di mercato. Il b<strong>il</strong>ancio tra<br />

costi e benefici della crescita urbana è diverso da regione a regione, da <strong>citt</strong>à a <strong>citt</strong>à, perché dipende<br />

anche dalla capacità di governare la complessità metropolitana da parte delle istituzioni pubbliche e<br />

dei dirigenti politici.<br />

Gli ultimi anni del Novecento sono stati caratterizzati dalla ricerca di nuove forme di governo<br />

locale, capaci di affrontare i problemi di una realtà urbana policentrica e di mantenere l’equ<strong>il</strong>ibrio<br />

tra l’esigenza di decisioni rapide ed efficaci e la necessità di negoziare continuamente tra interessi<br />

e bisogni di una realtà sociale sempre più articolata e differenziata. <strong>La</strong> ricerca di nuove<br />

modalità di governo sostanziale dei fenomeni urbani si muove non soltanto attraverso<br />

innovazioni legislative, ma anche attraverso nuove pratiche politiche e tecniche. Si rafforzano i<br />

poteri esecutivi <strong>nel</strong> governo municipale. Non soltanto in Italia, ma anche in altri paesi, <strong>il</strong> ruolo del


sindaco diviene più visib<strong>il</strong>e e assume nuovi poteri, fino a sfiorare un prof<strong>il</strong>o monocratico che<br />

spesso si traduce in manifestazioni improprie, dall’intervento in prima persona <strong>nel</strong>la politica<br />

nazionale (<strong>il</strong> “partito dei sindaci”) all’assunzione della rappresentanza diretta degli interessi<br />

metropolitani a livello sovranazionale (<strong>nel</strong> rapporto con l’Unione Europea o <strong>nel</strong>l’avvio di<br />

procedure transnazionali di cooperazione <strong>citt</strong>à/<strong>citt</strong>à), fino alla tentazione del sindaco-impresario<br />

e del sindaco-sceriffo (v. Sgroi, 1997).<br />

<strong>La</strong> macchina amministrativa municipale ha di recente adottato in Italia una figura<br />

professionale già attiva - anche se con un b<strong>il</strong>ancio ancora incerto (v. Golombiewski e Gabris,<br />

1996) - in altri paesi europei e negli Stati Uniti, <strong>il</strong> city manager, <strong>il</strong> quale dovrebbe assicurare,<br />

<strong>nel</strong>la prospettiva della <strong>citt</strong>à-impresa e della sempre crescente ricerca di autonomia<br />

dell’amministrazione rispetto alla politica, la capacità strategica di risolvere problemi e di<br />

ut<strong>il</strong>izzare in modo efficiente ed efficace le risorse.<br />

Anche sul piano tecnico si affermano nuovi principi, si propongono nuovi strumenti e metodologie<br />

per la gestione urbana. <strong>La</strong> tradizionale cultura della pianificazione urbanistica è in crisi, forse anche<br />

perché, come afferma Jean Daniel, <strong>il</strong> nostro <strong>secolo</strong> si è caratterizzato essenzialmente per l’incapacità<br />

di prevedere e anticipare <strong>il</strong> futuro: più oggettivamente, perché i nuovi paradigmi adoperati<br />

<strong>nel</strong>l’analisi dei processi decisionali hanno portato al riconoscimento della policy come interazione<br />

tra soggetti piuttosto che alla contrapposizione tra piano “disegnato” e piano “strategico” (v.<br />

Mazza, 1997).<br />

Il 30 maggio del 1998 <strong>il</strong> Consiglio europeo degli urbanisti, espressione di undici paesi europei, ha<br />

approvato la nuova Carta di Atene, che ribalta i principi ispiratori di quella del 1933: essa<br />

afferma la necessità di costruire <strong>citt</strong>à multifunzionali superando la pianificazione per zone, di redigere<br />

piani urbanistici attenti alla fattib<strong>il</strong>ità economica e ambientale, di aumentare la<br />

collaborazione, anche attraverso forme negoziali, tra amministrazioni pubbliche e soggetti privati, di<br />

favorire la partecipazione dei <strong>citt</strong>adini. Questi concetti si erano diffusi in Europa già da molti anni<br />

in conseguenza della fallimentare esperienza di pianificazione che aveva coniugato <strong>il</strong> massimo di<br />

autoritarismo e <strong>il</strong> massimo di impotenza. <strong>La</strong> nuova Carta d’Atene è una dichiarazione di principi la<br />

cui attuazione è ancora tutta da verificare, perché - come sta contemporaneamente avvenendo con la<br />

privatizzazione dei servizi urbani - da una parte sconta i tentativi di fuga verso una deregulation selvaggia<br />

e dall’altra incontra le resistenze sorde degli apparati politico-amministrativi.<br />

In questa complessa ricerca di nuove modalità di governo dei fenomeni urbani si sta inserendo una<br />

prospettiva nuova: di fronte all’urgenza di trovare soluzioni politiche e istituzionali di tipo<br />

sovranazionale per molti problemi di una società sempre più complessa, sono paradossalmente le<br />

realtà territoriali locali a riconquistare significati e spazi di autonomia e a cercare forme di<br />

cooperazione che oltrepassano i confini nazionali. Il <strong>successo</strong> urbano salda con più forza i legami e le<br />

interdipendenze del network metropolitano liberando la <strong>citt</strong>à globale da ogni tentazione<br />

monopolistica o egemonica. È semmai l’ordinamento istituzionale a essere in ritardo.<br />

3. <strong>La</strong> coscienza <strong>infelice</strong>.<br />

3a. <strong>La</strong> mitologia dell’antiurbanesimo.<br />

“Ora l’immensa Roma mi maciulla. / Un giorno mio, qui, quando ce l’ho? / Catapultato<br />

<strong>nel</strong>l’oceano urbano / perdo la vita in ster<strong>il</strong>i fatiche”. All’incirca m<strong>il</strong>lenovecento anni fa Marziale,<br />

inurbato di grande <strong>successo</strong> ma di pochi quattrini, scriveva parole che, st<strong>il</strong>e a parte, potremmo<br />

ritrovare sulla bocca di molti abitanti contemporanei delle metropoli.<br />

“Una delle più antiche immagini della <strong>citt</strong>à è quella dell’agglomerato caotico, decadente,<br />

corrotto, violento e insicuro; la si ritrova in tutta la letteratura antiurbana, dalla Bibbia a<br />

Giovenale a Rousseau ai romanzi ottocenteschi” (v. Strassoldo, 1998, p. 69).<br />

Nella storia del genere umano c’è <strong>il</strong> “destino” del fare <strong>citt</strong>à. Ma anche in questo caso sembra<br />

ripetersi l’esperienza del diffic<strong>il</strong>e rapporto tra gli uomini e <strong>il</strong> loro destino, come se gli uomini ne


prendessero per cautela psicologica le distanze rispetto ai vincoli e ai possib<strong>il</strong>i rischi,<br />

rifiutandone la paternità e la responsab<strong>il</strong>ità. E come se la consapevolezza di questo destino, delle<br />

sue incognite e delle sue sfide, producesse un forte sentimento di inadeguatezza e la vergogna di<br />

fronte a tale inadeguatezza portasse al fatalismo o alla ribelle negazione. Nei confronti della <strong>citt</strong>à<br />

gli uomini osc<strong>il</strong>lano tra la negazione del <strong>successo</strong> (la tesi della morte della metropoli) e la sua<br />

psicologicizzazione (l’enfatizzazione delle grandi paure urbane).<br />

<strong>La</strong> mitologia dell’antiurbanesimo nasce sul terreno del continuo conflitto tra natura e cultura di<br />

cui gli uomini sono partecipi in maniera ambigua. Socrate <strong>nel</strong> Fedro risponde all’amico che lo<br />

rimprovera di non uscire quasi mai fuori dalle mura della <strong>citt</strong>à: “Perdona me, buon uomo: io sono<br />

uno che ha amore per imparare; or i paesi, gli alberi, non mi vogliono insegnare nulla; gli uomini<br />

sì”. Città-civ<strong>il</strong>tà: Socrate esprime <strong>il</strong> pensiero fondante di questo percorso. Ma la realtà non è sempre<br />

collocab<strong>il</strong>e entro questo rassicurante divenire, non per tutti, almeno; non per coloro che vivono <strong>nel</strong>la<br />

paura e <strong>nel</strong>la schiavitù, non per coloro che pagano subito i costi della nascita o della trasformazione<br />

della <strong>citt</strong>à e che ne avranno, forse molto più in là, i benefici.<br />

L’antichità, che con l’invenzione della <strong>citt</strong>à ha sottratto lo spazio al disordine della natura, non<br />

può ignorare che <strong>il</strong> “dentro” della <strong>citt</strong>à è sempre aggredito e spesso invaso dal disordine che viene<br />

dal “fuori”; non ci sono mura sufficientemente alte e spesse che un cavallo di Troia non possa attraversare<br />

col suo carico di violenza e di distruzione. Da qui l’immagine, tramandata dai testi sacri<br />

come dai miti prestorici, delle <strong>citt</strong>à sante e delle <strong>citt</strong>à maledette: le une prosperano<br />

<strong>nel</strong>l’abbondanza e <strong>nel</strong>la felicità, sono governate da sovrani giusti e sapienti offerti<br />

all’ammirazione del mondo intero che a esse invia i pellegrini di speranza, gli assetati di sapere, i<br />

bisognosi di giustizia; le altre sono inferno di abominio e di corruzione, destinate alla rovina<br />

sotto i colpi della collera divina.<br />

Cambia la <strong>citt</strong>à <strong>nel</strong>la dissoluzione del mondo antico e cambiano i sentimenti dell’urbano. Alle<br />

soglie dell’età moderna si afferma in Europa l’esigenza di una forma permanente, la “<strong>citt</strong>à ideale”,<br />

in cui geometria e f<strong>il</strong>osofia, accresciuta cultura visiva e potere del principe si saldano in un<br />

progetto politico che è insieme organizzazione razionale dello spazio e rappresentazione del mondo,<br />

così come sono state fissate <strong>nel</strong>le categorie senza tempo e senza confini dell’ideale della monarchia<br />

assoluta.<br />

Il trauma provocato dalle grandi rivoluzioni - politica, economica, tecnologica, sociale - che<br />

accompagnano <strong>il</strong> passaggio dal XVIII al XIX <strong>secolo</strong> spiega <strong>il</strong> rinnovato vigore del pensiero<br />

antiurbano. Sono f<strong>il</strong>osofi come Jean-Jacques Rousseau o Johann Fichte, romanzieri come Eugène<br />

Sue, Victor Hugo, Honoré de Balzac e Charles Dickens, raffinati critici d’arte e artisti come John<br />

Ruskin e W<strong>il</strong>liam Morris, poeti come W<strong>il</strong>liam Blake e Ralph Emerson, perfino statisti come<br />

Thomas Jefferson, che <strong>nel</strong> Vecchio e <strong>nel</strong> Nuovo Mondo, entrati <strong>nel</strong>l’era urbano-industriale, denunciano<br />

la <strong>citt</strong>à come espressione estrema della rottura con la natura e come sconfitta della<br />

piccola comunità integrata e solidale. Alla fine del <strong>secolo</strong> <strong>il</strong> tema viene ripreso dalla<br />

contrapposizione tra Gemeinschaft (comunità) e Gesellschaft (società): “<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à è la forma più<br />

alta, cioè più complicata, della convivenza umana in generale. Essa ha in comune con <strong>il</strong> v<strong>il</strong>laggio<br />

la struttura locale in antitesi a quella fam<strong>il</strong>iare della casa. Ma entrambi conservano molti<br />

caratteri della famiglia - e <strong>il</strong> v<strong>il</strong>laggio in misura maggiore della <strong>citt</strong>à, la <strong>citt</strong>à li perde quasi<br />

completamente quando si sv<strong>il</strong>uppa in grande <strong>citt</strong>à” (v. Tónnies, 1887; tr. it., p. 290).<br />

Nel corso del XIX <strong>secolo</strong> la visione apocalittica del destino della <strong>citt</strong>à non rimane appannaggio<br />

soltanto di pochi profeti <strong>il</strong>luminati, né si affida soltanto a giudizi etici ed estetici. Gli strumenti<br />

delle nuove scienze sociali offrono al sentimento antiurbano una provvisoria base scientifica.<br />

Thomas Malthus, Friedrich Engels e Charles Booth documentano, in momenti successivi e con<br />

strumenti empirici diversi, le condizioni delle classi povere <strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à per eccellenza, Londra,<br />

denunciandone l’invivib<strong>il</strong>ità. Si fa strada la tesi della morte della <strong>citt</strong>à: tesi del tutto compatib<strong>il</strong>e<br />

con <strong>il</strong> suo <strong>successo</strong>. Anche per l’escatologia materialistica di Marx, la <strong>citt</strong>à, che pure ha avuto un<br />

ruolo positivo consentendo di superare l’isolamento e l”idiotismo” del mondo rurale, è destinata a<br />

sparire con l’abolizione del modello di produzione capitalistico (v. Marx, 1867-94). Robert


Owen e Charles Fourier offrono una possib<strong>il</strong>e soluzione alla crisi della <strong>citt</strong>à prospettando forme di<br />

insediamento urbano alternativo, <strong>il</strong> cui messaggio utopico sarà peraltro raccolto in parte dal<br />

successivo Movimento moderno.<br />

I cambiamenti materiali della <strong>citt</strong>à provocati dalla rivoluzione industriale sono ingigantiti e<br />

deformati dalla forte impressione di novità che domina la riflessione colta degli intellettuali non<br />

meno che l’immaginazione popolare. Da qui deriva la nostalgia per una natura elegiacamente<br />

rivissuta o per una <strong>citt</strong>à bella e ordinata che è sempre quella che ha preceduto la <strong>citt</strong>à in cui si è<br />

costretti a vivere. Questa visione catastrofista si alimenta di una tendenza più generale che<br />

potremmo definire con l’espressione “paura della modernità”. <strong>La</strong> modernizzazione ha sempre<br />

suscitato timori e violente opposizioni nei ceti i cui confini sociali, le posizioni di potere, gli st<strong>il</strong>i di<br />

vita rischiavano di essere sconvolti dal mutamento. Nell’Ottocento l’antimodernismo e<br />

l’antiurbanesimo sono perciò più fac<strong>il</strong>i da ritrovare <strong>nel</strong>l’ambito della cultura conservatrice, non<br />

di rado attivando nostalgie e movimenti reazionari. È la lettura catastrofista del Manifesto di Marx<br />

che trasferisce successivamente questo sentimento all’interno della cultura politica di sinistra. Ma<br />

questa è già storia del <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong>.<br />

3b. Crisi e critica della <strong>citt</strong>à.<br />

Don Martindale, <strong>nel</strong>la sua prefazione all’edizione inglese del saggio di Weber sulla <strong>citt</strong>à, afferma<br />

che “al suo interno la <strong>citt</strong>à è oggi in uno stato di decadenza [...] l’etica della <strong>citt</strong>à sembra essere<br />

sul finire” (v. Martindale, 1958, p. 62). Oswald Spengler (v., 1918-22), che pure sottolinea <strong>il</strong><br />

valore della <strong>citt</strong>à come fattore di evoluzione culturale, vede <strong>nel</strong>la metropoli lo stadio finale del<br />

ciclo di vita urbano, quello che precede la dissoluzione. Anche Lewis Mumford (v., 1961) avanza<br />

la stessa previsione: la metropoli è la manifestazione più alta dello sv<strong>il</strong>uppo urbano, ma <strong>il</strong> suo<br />

declino si è già avviato <strong>nel</strong> nostro <strong>secolo</strong> e sono molto limitate le possib<strong>il</strong>ità che l’uomo moderno ha<br />

per arrestare questo processo, un processo che attraverso la megalopolis sembra portare<br />

all’infausto destino di nekropolis.<br />

Malgrado la reazione del Movimento moderno e l’ulteriore reazione della cultura postmoderna,<br />

<strong>il</strong> pessimismo sul presente e sul futuro della <strong>citt</strong>à permane, anzi si aggrava, tra noi contemporanei.<br />

Emerge, però, da una riflessione e un’analisi concettualmente più ricche ed empiricamente più<br />

attrezzate, <strong>il</strong> tema non più della morte della <strong>citt</strong>à, ma quello della crisi urbana. È un’espressione,<br />

questa, di <strong>successo</strong>, perché permette di comprendervi <strong>il</strong> “molto”, ma porta con sé anche <strong>il</strong> rischio di<br />

stringere <strong>il</strong> “poco”. “L’idea di crisi, infatti, è diventata altrettanto vaga quanto l’idea di <strong>citt</strong>à che<br />

porta dietro” (v. De Carlo, 1995, p. 30). Ha ragione Paul-Henry Chombart de <strong>La</strong>uwe (v., 1981)<br />

quando, domandandosi se la <strong>citt</strong>à sia morta, conclude che è morta la teoria tradizionale della <strong>citt</strong>à,<br />

mentre la <strong>citt</strong>à rinasce in forme nuove. Il fatto è che ut<strong>il</strong>izziamo, senza averne sempre<br />

consapevolezza, le vecchie metafore della “<strong>citt</strong>à-corpo” e della “<strong>citt</strong>à-macchina” che si<br />

coniugavano più fac<strong>il</strong>mente (non <strong>il</strong>ludiamoci più di tanto: anche <strong>nel</strong>la polis greca, così come<br />

<strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à rinascimentale italiana, l’ideologia faceva aggio sulla realtà, che era molto meno<br />

organica e integrata di quanto volesse la rappresentazione) con la categoria dell’ordine urbano. Ma<br />

l’ordine urbano, a sua volta, ha bisogno di una forma compatta; la <strong>citt</strong>à è <strong>il</strong> “dentro”, che ha<br />

confini, legittimazioni, funzioni (le mura, la <strong>citt</strong>adinanza, le risorse, gli st<strong>il</strong>i di vita) suoi propri: si<br />

contrappone al “fuori”, da cui deve difendersi (la <strong>citt</strong>à medievale) o che deve annettere e dominare<br />

(la <strong>citt</strong>à moderna). Ma quando <strong>il</strong> dentro d<strong>il</strong>aga <strong>nel</strong> suo fuori, la <strong>citt</strong>à diventa confusa, funzioni e<br />

luoghi si separano, i confini tra dentro e fuori sbiadiscono. Si determina una forma nuova di <strong>citt</strong>à -<br />

chiamiamola post-<strong>citt</strong>à o iper<strong>citt</strong>à - che richiama con evidenza la categoria del disordine o, più<br />

semplicemente, denuncia la presenza di più ordini apparentemente non componib<strong>il</strong>i e conflittuali.<br />

<strong>La</strong> qualità essenziale che ci si aspetta dalla <strong>citt</strong>à è la sua leggib<strong>il</strong>ità, la fac<strong>il</strong>ità con cui le sue<br />

diverse parti possono essere visualmente percepite o apprese, riconosciute e organizzate secondo<br />

uno schema unitario e coerente di identificazione (v. Lynch, 1960). <strong>La</strong> riproposizione attuale


dell’immagine della <strong>citt</strong>à come foresta impenetrab<strong>il</strong>e evidenzia la negazione di questa fac<strong>il</strong>ità di<br />

lettura; forse rivela più un disagio interpretativo delle discipline che si occupano della <strong>citt</strong>à che una<br />

oscurità oggettiva. Ma le immagini, le rappresentazioni sociali, specie quando sono veicolate da<br />

canali forti, diventano più reali di ogni realtà materiale.<br />

Ogni crisi - usiamo questo termine <strong>nel</strong> significato corrente - ha <strong>il</strong> suo tempo e a esso appartiene:<br />

la Roma metropolitana della decadenza imperiale, la Parigi secentesca delle tante “corti dei<br />

miracoli”, la Londra fumosa e crudele di Dickens sono realtà diverse, accomunate dallo sguardo<br />

retrospettivo o dalla capacità universalistica dell’invenzione letteraria. In realtà, ci si presentano<br />

con indicatori oggettivi diversi. Se c’è una costante <strong>nel</strong>le crisi sociali è, semmai, quella determinata<br />

dal venir meno della corrispondenza tra forme fisiche e comportamenti delle istituzioni da una parte<br />

e bisogni, aspettative, comportamenti dei gruppi sociali dall’altra: quando le prime non riescono più<br />

a contenere, indirizzare, dare forma coerente alle trasformazioni reali, e gli altri, cioè i gruppi sociali,<br />

percepiscono confusamente <strong>il</strong> mutamento, ma non sono rassicurati dalla presenza di fattori<br />

automatici o intenzionali di riadattamento e di riequ<strong>il</strong>ibrio, accade che questi ultimi siano costretti<br />

ad assumersi soggettivamente <strong>il</strong> carico delle tensioni trasformative, elaborandolo in termini di<br />

disagio, rischio, allarme sociale.<br />

<strong>La</strong> crisi della metropoli contemporanea è sostenuta - <strong>nel</strong> senso di una più enfatizzata elaborazione<br />

- da due soggetti nuovi, l’urbanistica e i mass media, che trasformano, non intenzionalmente, i<br />

problemi urbani in gravi patologie. Cercherò di dimostrare che questo non è affatto un paradosso,<br />

come invece potrebbe sembrare.<br />

L’urbanistica è un potente elaboratore di analisi e di terapie che nasce dalla crisi urbana e di<br />

questa ha bisogno per crescere e affermarsi come potere tecnico, per alimentare le proprie<br />

contraddizioni e offrirle ora all’una ora all’altra manifestazione della coscienza inquieta del vivere<br />

urbano. L’urbanistica moderna nasce un po’ farmaco dulcamariano, un po’ tecnica di rigore<br />

sperimentale, un po’ proclama utopico, un po’, addirittura, scientia scientiarum di fronte ai mali<br />

di una <strong>citt</strong>à vista sempre, almeno dall’Ottocento a oggi, come “malata” (v. Choay, 1980); non per<br />

nulla <strong>il</strong> suo linguaggio usa spesso delle metafore (sventramento, demolizione, risanamento, ecc.).<br />

L’urbanistica come sapere e saper fare autonomi rivendica la sua tecnicità politicamente<br />

neutra, ma ha sempre portato <strong>nel</strong> suo seno le due anime contrapposte del pensiero utopico urbano:<br />

progressisti contro culturalisti, razionalismo e industrialismo contro comunitarismo e naturalismo.<br />

E, malgrado la sua dichiarata oggettività, non può non indurre <strong>nel</strong>le “proiezioni architettoniche<br />

o spaziali, un certo numero di pratiche e di mutamenti sociali” (v. Roncayolo, 1988, p. 112).<br />

<strong>La</strong> progettazione urbanistica finisce col “muovere società”, proponendo con modalità<br />

sostanzialmente autoritarie modelli che implicano nuovi st<strong>il</strong>i di vita o che finiscono anche<br />

indirettamente per determinarli. D’altra parte l’invenzione urbana può trasformarsi in formula e<br />

questa può essere riprodotta - in un delirio tecnocratico - in contesti temporali e spaziali diversi,<br />

senza curarsi della presenza o meno di altri interventi che pur appartengono alla coerenza del<br />

piano: la V<strong>il</strong>le radieuse si trasforma <strong>nel</strong> Corviale di Roma o <strong>nel</strong>le sette Vele di Napoli o <strong>nel</strong>lo Zen<br />

di Palermo; non ci si può aspettare che la new town, anche quando sia realizzata con la giusta<br />

dotazione di servizi e di verde, crei necessariamente la comunità.<br />

<strong>La</strong> crescita dell’urbanistica ha provocato la sua separazione dall’architettura: “Questa<br />

(recente) separazione nasconde altre fratture e altre lacerazioni profonde. L’urbanistica si è<br />

allontanata dal suolo, dalla <strong>citt</strong>à fisica, dalla sua carica simbolica, dalle pratiche sociali, dalle<br />

comunità, dalle loro aspirazioni, dalla loro domanda d’identità e di futuro” (v. Pavia, 1996, p. 7).<br />

Viene a mancare così la capacità di rispondere alla domanda di qualità simbolica e di rappresentazione<br />

espressa dalla comunità: la grande opera architettonica, come si è ricordato in<br />

precedenza, si delocalizza; non è inscrivib<strong>il</strong>e, quindi, all’interno di una possib<strong>il</strong>ità di lettura<br />

comune della <strong>citt</strong>à. Una <strong>citt</strong>à che non si può leggere, che non offre alla maggior parte possib<strong>il</strong>e dei<br />

suoi <strong>citt</strong>adini e dei suoi visitatori codici, anche diversi, di rappresentazione e di appropriazioneappartenenza,<br />

è una <strong>citt</strong>à che genera alienazione, che evidenzia i suoi costi ma scolora i suoi benefici,<br />

che, in altre parole, trasmette immagini di crisi.


Il tema della crisi urbana è centrale, anche se con accenti diversi e diverse chiamate di correità,<br />

<strong>nel</strong> dibattito più recente tra addetti ai lavori, urbanisti, architetti, geografi urbani; forse perché più<br />

cocente appare la frustrazione per chi questa <strong>citt</strong>à ha contribuito in qualche misura a costruire e se<br />

l’è trovata diversa dal modello che le aspettative ideali e <strong>il</strong> progetto tecnico avevano disegnato.<br />

Proponiamo, senza pretese di rappresentatività, alcuni esempi di riflessioni tecniche, a volte anche<br />

autocritiche. “<strong>La</strong> crescita della <strong>citt</strong>à ha comportato una perdita d’identità e di valori<br />

riconoscib<strong>il</strong>i per secoli come attributi degli<br />

spazi insediativi. Il mancato controllo dei processi di espansione dei centri abitati, della qualità<br />

oltre che della funzionalità delle reti infrastrutturali, la difficoltà di costruire spazi sociali che<br />

avessero la stessa forte identità della <strong>citt</strong>à storica e consolidata hanno condotto non solo alla<br />

costruzione delle periferie anonime e al degrado dei nuclei urbani antichi, ma anche alla perdita di<br />

una diffusa pratica di socialità negli spazi pubblici [...]. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à contemporanea è diventata la<br />

realtà dove è massima l’atomizzazione sociale e dove le relazioni conflittuali vedono <strong>il</strong><br />

predominio dell’homo oeconomicus, <strong>il</strong> cui comportamento si basa su di una razionalità<br />

strumentale che non tiene conto dell’altro in quanto persona con cui cum-vivere [...]. Con la <strong>citt</strong>à<br />

moderna <strong>il</strong> processo di identificazione tra spazio e società civ<strong>il</strong>e si è disgregato e risulta diffic<strong>il</strong>e<br />

ristab<strong>il</strong>ire <strong>il</strong> “patto’ tra urbs (sistema fisico) e civitas (sistema sociale), infranto” (v. Fusco Girard<br />

e altri, 1998).<br />

Il dibattito urbanistico scopre la nostalgia del passato perché, come ha sostenuto Piano in<br />

un’intervista apparsa su un quotidiano, “<strong>il</strong> nostro <strong>secolo</strong> ha fatto degenerare questa grande<br />

invenzione dell’uomo che è la <strong>citt</strong>à. I suoi valori positivi: la socialità, la miscela delle funzioni, la<br />

qualità del costruito, sono tutte presenze di un tempo che fu, e sopravvivono a stento nei centri<br />

urbani di oggi”.<br />

<strong>La</strong> critica si appunta soprattutto sulle <strong>citt</strong>à italiane. Esse non soltanto mancano gravemente di<br />

infrastrutture e attrezzature, sopravvivendo in pratica con la dotazione assicurata dalle politiche<br />

urbane e dalle opere pubbliche del <strong>secolo</strong> scorso e dell’inizio di questo <strong>secolo</strong> o con le isolate grandi<br />

opere - talvolta inut<strong>il</strong>i e abbandonate al successivo degrado - catturate con qualche grande evento<br />

(le Olimpiadi, i Mondiali di calcio); sono anche (o lo sono diventate), se confrontate con altre <strong>citt</strong>à<br />

europee, faticose da viverci, prive di comfort, brutte, insicure.<br />

Se le <strong>citt</strong>à italiane sono criticate per <strong>il</strong> “meno” che esse offrono quanto a efficienza e qualità<br />

dell’organizzazione urbana, le <strong>citt</strong>à americane sono investite dalle critiche per <strong>il</strong> “troppo” che<br />

l’architettura postmoderna ha prodotto in loro, muovendosi con arbitrarietà rispetto al contesto<br />

fisico e sociale, per <strong>il</strong> carattere di gioco e di dissipazione che presiede alla progettazione delle<br />

nuove realtà architettoniche e urbane, entrate ormai <strong>nel</strong> regno delle merci e come queste sottoposte<br />

a una rapida obsolescenza per consentire altre innovazioni e nuova produzione.<br />

<strong>La</strong> “atopia” (un mondo staccato dal luogo) viene denunciata <strong>nel</strong>la critica all’architettura<br />

postmoderna come fede <strong>nel</strong>la capacità <strong>il</strong>limitata della tecnica di produrre la <strong>citt</strong>à felice, anche a<br />

costo di farne una <strong>citt</strong>à virtuale per una vita virtuale, come quella descritta da Peter Weir<br />

<strong>nel</strong>l’agghiacciante f<strong>il</strong>m The Truman show. Argomento, questo, che non è poi soltanto materia di<br />

f<strong>il</strong>m.<br />

Celebration, la <strong>citt</strong>à disneyana, a un quarto d’ora di auto da Orlando (Florida),<br />

recentemente inaugurata, potrebbe essere la scenografia per un f<strong>il</strong>m su questa “pazza, pazza<br />

America”, ma anche sui vezzi di certa signature architecture: <strong>il</strong> suo centro commerciale è<br />

progettato da Rossi, <strong>il</strong> municipio è firmato da Johnson, l’ufficio postale da Graves, la banca da<br />

Robert Venturi e la futura edificazione offre una scelta tra sei st<strong>il</strong>i architettonici a chi vorrà<br />

acquistarvi una casa. Eppure, appena <strong>nel</strong> 1982, è stato demolito <strong>il</strong> Portland Bu<strong>il</strong>ding, “una delle<br />

opere emblematiche di uno dei pionieri del postmoderno, Michael Graves; e con ciò molti<br />

dichiararono chiusa, dopo dieci o vent’anni di vita, anche l’epoca del postmoderno” (v. Strassoldo,<br />

1998, p. 77). Ma, come si vede, <strong>il</strong> <strong>successo</strong> dell’architettura postmoderna continua e comincia a<br />

essere evidente, malgrado le iniziali resistenze, anche <strong>nel</strong>le <strong>citt</strong>à europee e, quindi, anche in Italia<br />

(anche se, talvolta, con una traduzione più “popoladresca” che pop).


Conclude Bernardo Secchi, dopo aver tracciato un quadro impietoso delle <strong>citt</strong>à italiane: “Al<br />

centro della mia riflessione stanno la grande, pervasiva e sconsolante mediocrità della <strong>citt</strong>à<br />

italiana, <strong>il</strong> suo carattere ordinario, dozzinale e banale e l’insoddisfazione nei confronti delle ipotesi<br />

esplicative che finora ne sono state fornite: la speculazione ed<strong>il</strong>izia; la corruzione amministrativa;<br />

<strong>il</strong> vincolo urbanistico, la divaricazione tra <strong>il</strong> campo professionale e ciò che Pierre Bourdieu<br />

chiama “campo intellettuale” pertinente, l’occupazione in particolare del primo, da parte di<br />

figure dotate di troppo scarso sapere critico; <strong>il</strong> contributo a ciò fornito dalle stesse scuole di<br />

architettura; le responsab<strong>il</strong>ità personali di molti loro docenti” (v. Secchi, 1994, p. 20). Come si vede,<br />

una critica a tutto campo che chiama in causa sia i caratteri della committenza pubblica e della sua<br />

cattiva mediazione tra i contrapposti interessi privati, sia la risposta progettuale, appiattita nei fatti<br />

sulla committenza e fautrice di una modernità intesa soltanto come ricorso a forme, tecniche e<br />

materiali vistosi.<br />

A presidiare <strong>il</strong> progetto, più che l’ispirazione, interviene la tecnica; ma, per citare ancora<br />

l’intervista di Piano, “quando l’edificazione si riduce a pura tecnica (un fatto di macchine,<br />

organizzazione, denaro) perde ogni valenza espressiva, ogni significato sociale, ogni aderenza<br />

alla vita”. Si potrebbe siglare <strong>il</strong> processo evolutivo della progettazione urbanistica e architettonica<br />

come un percorso dall’utopia all’atopia, fino alla tecnoutopia.<br />

L’egemonia della tecnica si congiunge poi con l’innamoramento per i materiali “nuovi”, capaci di<br />

portare <strong>il</strong> messaggio onnipotente della modernità, dal vecchio cemento armato al nuovo<br />

vetrocemento; con le tecnologie sempre più sofisticate rese necessarie dal gigantismo edificatorio<br />

e dall’iperbole architettonica, gli edifici diventano macchine dal ciclo di vita raccorciato e dai costi<br />

di manutenzione elevatissimi.<br />

<strong>La</strong> critica sembra però poter esorcizzare la crisi. In molti paesi europei si sta prendendo coscienza<br />

dei guasti provocati dagli esiti del modernismo imperante fino a pochi anni fa: si cominciano ad<br />

abbattere i grands ensembles che hanno imbruttito e rese alienanti le periferie urbane e aumentano<br />

gli istituti di credito che concedono mutui vantaggiosi a chi costruisce con moduli e materiali<br />

tradizionali. Così come a Roma si riscopre <strong>nel</strong>la ripavimentazione delle strade <strong>il</strong> vecchio<br />

sampietrino (anche se made in China).<br />

Un altro soggetto imperante in questa letteratura sulla crisi della <strong>citt</strong>à contemporanea è<br />

rappresentato, come abbiamo ricordato, dai mass media. L’idea che sia in atto - anche in Italia -<br />

un abbandono in massa della <strong>citt</strong>à per tornare in campagna piace molto agli operatori delle comunicazioni<br />

di massa. <strong>La</strong> stampa periodica, la televisione di informazione, ma anche quella di<br />

intrattenimento (si pensi alla trasformazione della popolare serie Casa Via<strong>nel</strong>lo in una più<br />

ecologica e accattivante Cascina Via<strong>nel</strong>lo; ma, almeno in questo caso, si irrideva alla moda dei<br />

personaggi famosi che tornano “in campagna”), offrono titoli in cui ricorrono costantemente - dopo<br />

letture affrettate delle statistiche ufficiali - le espressioni “fuga dalla <strong>citt</strong>à”, “addio <strong>citt</strong>à crudele” e<br />

così seguitando (v. Melis e Martinotti, 1998). Il guaio è che questi luoghi comuni, ingigantiti<br />

mediaticamente, vengono poi assunti come propri anche da intellettuali di grido improvvidamente<br />

pronti ad assecondare le correnti comunicative o spinti ad affermare l’aristocrazia<br />

dell’intelligenza contro ogni fenomeno di massa giudicato camp (<strong>il</strong> che equivarrebbe a plebeo, ma<br />

appare meno classista).<br />

I mass media, sospinti dalla spirale inesorab<strong>il</strong>e - una vera, continua fatica di Sisifo - di gettare in<br />

pasto ai lettori o agli spettatori una “notizia” capace di emozionare più di quella del giorno<br />

prima, non si limitano al tutto sommato poco dannoso r<strong>il</strong>ancio di una bucolica antiurbana (anche<br />

se bisognerebbe chiederci quanto questa manipolazione delle informazioni non serva da<br />

copertura ai ritardi e ai s<strong>il</strong>enzi sulla normativa relativa alle aree metropolitane); le occasioni più<br />

ghiotte sono quelle in cui i mass media possono alimentare un’immagine infernale o di “medioevo<br />

prossimo venturo” delle metropoli: la criminalità urbana d<strong>il</strong>agante, ad esempio. Sono spesso<br />

rappresentazioni a corrente alternata, perché una M<strong>il</strong>ano con un picco straordinario di rapine e<br />

omicidi in una settimana fa più notizia di una Napoli con uno st<strong>il</strong>licidio di omicidi che va avanti<br />

da mesi o da anni.


Né si può dimenticare <strong>il</strong> cinema: da Metropolis di Fritz <strong>La</strong>ng a Batman di Tim Burton, da Blade<br />

runner di Ridley Scott a Nirvana di Gabriele Salvatores, riceviamo - forte dell’immagine di verità<br />

della creazione cinematografica - una rappresentazione suggestiva e terrib<strong>il</strong>e della metropoli<br />

futura, modernissima e decadente, multirazziale e isolante, la cui disperata condizione è alla fine<br />

riscattata da un eroe solitario, umano o non umano.<br />

<strong>La</strong> rappresentazione della crisi urbana nei suoi toni più esasperati e <strong>nel</strong>le sue forme più efficaci<br />

può condurci a due alternative. Può funzionare come una profezia che si autodistrugge, oppure può<br />

trasformarsi in un laboratorio di paure e di allarme sociale e fomentare un clima di m<strong>il</strong>lenarismo<br />

metropolitano.<br />

Ancora una volta, come avviene sempre davanti ai problemi epocali, alle grandi questioni sociali<br />

e di civ<strong>il</strong>tà, <strong>il</strong> genere umano si trova di fronte a un bivio: o accettare la sfida che la situazione di<br />

crisi impone ed elaborare strategie progettuali, disegnando e costruendo, per tentativi e approssimazioni,<br />

soluzioni razionalmente e tecnicamente appropriate nonché socialmente gestib<strong>il</strong>i; o<br />

ripiegare sull’adattamento, elaborando atteggiamenti e comportamenti devozionali, destinati a<br />

placare l’ansia collettiva, portando problemi e soluzioni fuori dalla portata dell’intelligenza e dei<br />

saperi umani ed elaborando una qualche metafisica della speranza o della rassegnazione (fatalismo,<br />

ricerca di un capro espiatorio, attesa messianica di uno straordinario intervento salvifico).<br />

L’atteggiamento devozionale può essere elaborato attraverso meccanismi magico-religiosi, magari<br />

aggiornati con contaminazioni affascinanti e di <strong>successo</strong> (new age); oppure attraverso <strong>il</strong> pensiero<br />

forte dell’ideologia (la convinzione che la <strong>citt</strong>à postmoderna sia l’ultimo stadio di un’egemonia<br />

capitalistica ormai sfinita; o, su fronti del tutto diversi, che la metropoli sarà l’arena in cui si<br />

combatterà l’ultima guerra, quella tra civ<strong>il</strong>tà). L’atteggiamento progettuale, d’altra parte, può<br />

ossificarsi in uno scientismo autoreferenziale o <strong>nel</strong>la semplificazione della <strong>citt</strong>à salvata dalla<br />

tecnologia.<br />

Né è detto che l’elemento, per così dire oggettivo, del problema - <strong>nel</strong> nostro caso la questione<br />

metropolitana - costituisca di per sé, per grave che sia, la componente determinante. Si potrebbe dire<br />

che non è tanto la morte della <strong>citt</strong>à, quanto la paura della sua morte a caratterizzare l’immagine e la<br />

vita urbana, a condizionare l’organizzazione degli insediamenti e delle abitazioni, dei percorsi e dei<br />

tempi di uso.<br />

3c. Le grandi paure urbane.<br />

Sovraffollamento, degrado ambientale, povertà ed emarginazione sociale, criminalità: <strong>il</strong> <strong>secolo</strong> del<br />

<strong>successo</strong> urbano sembra essersi chiuso con un forte e allarmante passivo. Sono problemi che hanno<br />

radici fuori della <strong>citt</strong>à, ma che <strong>nel</strong>la <strong>citt</strong>à si radicalizzano o comunque diventano più visib<strong>il</strong>i. Sono<br />

problemi che rivelano anche esplicitamente l’insufficiente capacità di regolazione sia dello Stato sia<br />

del mercato, ma che quanto più provocano allarme sociale, tanto più occultano questa incapacità.<br />

Problemi che si intrecciano e fanno massa, provocando <strong>il</strong> cortocircuito delle grandi paure, anche<br />

perché quello che succede <strong>nel</strong>la metropoli è sempre vissuto come un’anticipazione di quel che potrà<br />

avvenire - che avverrà - <strong>nel</strong> resto del mondo.<br />

L’esplosione demografica del pianeta, malgrado le martellanti previsioni, è un’ipotesi che in<br />

termini complessivi rimane astratta per l’uomo comune: diventa concreta quando essa si traduce<br />

<strong>nel</strong>la congestione urbana che vincola o altera i nostri ritmi di vita, i nostri orari e calendari urbani,<br />

che ci fa sentire la massa dei nostri con<strong>citt</strong>adini, dei pendolari, degli ut<strong>il</strong>izzatori, che ci schiaccia<br />

<strong>nel</strong>le metropolitane o negli autobus urbani, che intasa e rende meno fruib<strong>il</strong>i le nostre strade e piazze<br />

più preziose, i nostri monumenti, quando diventa f<strong>il</strong>a irrequieta e spesso rissosa che ci precede e ci<br />

allontana dallo sportello del servizio pubblico cui abbiamo bisogno di accedere. Oppure, quando la<br />

vediamo materializzarsi nei nuovi movimenti migratori che, specialmente nei paesi senza una<br />

tradizione di immigrazione, provocano la sindrome della “goccia che fa traboccare <strong>il</strong> vaso”, dando<br />

l’impressione di incombere minacciosamente sugli equ<strong>il</strong>ibri già frag<strong>il</strong>i dell’organizzazione urbana


e della convivenza civ<strong>il</strong>e.<br />

L’affollamento urbano non è però un fenomeno che si possa valutare al di fuori delle condizioni di<br />

contesto. Nelle <strong>citt</strong>à del Terzo Mondo la forte crescita demografica provocata dall’inurbamento di<br />

massa e dall’alto tasso di natalità si contrappone all’insufficiente sv<strong>il</strong>uppo della base produttiva,<br />

all’inesistenza di politiche pubbliche dell’abitazione, all’assenza di servizi sociali, provocando la<br />

formazione di estese masse di inoccupati o di occupati precari, la crescita ai margini della <strong>citt</strong>à di<br />

estese bidonv<strong>il</strong>les in condizioni igieniche, sociali e morali drammatiche. Nelle <strong>citt</strong>à del mondo<br />

industrializzato o postindustriale la pressione demografica si presenta in modi diversi e produce<br />

effetti diversi, anche perché vi si è registrato un rallentamento o addirittura un arresto della crescita<br />

demografica naturale. Si ha semmai una trasformazione della struttura della popolazione, che pure<br />

ha i suoi effetti <strong>nel</strong>l’organizzazione della vita urbana: l’aumento della componente anziana<br />

provocata dall’incremento della speranza media di vita. Inoltre, la popolazione si distribuisce su una<br />

rete più articolata di centri urbani. Infine, l’acquisizione di nuove funzioni produttive che<br />

sostituiscono quelle manifatturiere - decentrate in altre aree dello stesso paese o nei nuovi paesi in via<br />

di industrializzazione - e la sopravvivenza o, addirittura, l’espansione dell’economia informale,<br />

insieme al ruolo delle politiche di welfare urbano, mantengono un certo equ<strong>il</strong>ibrio tra bisogni e risorse.<br />

Non si producono automaticamente quegli effetti che la Scuola ecologica di Chicago pronosticava<br />

per la metropoli; neanche <strong>nel</strong>le metropoli più disperate l’ordine biotico prevale totalmente<br />

sull’ordine simbolico e sociale; gli abitanti metropolitani non diventano topi impazziti che lottano<br />

ciecamente per la sopravvivenza, ma trovano e inventano forme di adattamento, sv<strong>il</strong>uppano attitudini<br />

di destrezza sociale, acquisiscono capacità di negoziazione <strong>nel</strong> privato quanto <strong>nel</strong> pubblico.<br />

<strong>La</strong> sovrappopolazione urbana diventa traino, però, per altri problemi. Tra questi emerge<br />

immediatamente la questione dell’aumentato rischio ambientale; per una collocazione più<br />

realistica del problema va ricordato che la questione ambientale non si declina oggi soltanto in<br />

termini urbani: pensiamo alla desertificazione, alla deforestazione, al dissesto idrogeologico<br />

provocato dalla trasformazione delle colture, al depauperamento del patrimonio vegetale e faunistico.<br />

Altrettanto importante è <strong>il</strong> fatto che l’eccessivo affollamento mette in crisi la capacità di carico<br />

dell’ambiente urbano. Una popolazione estesa con le sue esigenze di prelievo e di emissione<br />

(pensiamo soltanto all’acqua per <strong>il</strong> primo e ai rifiuti solidi e liquidi per la seconda); la congestione<br />

del traffico urbano e l’aumento dei gas di scarico; gli effetti inquinanti delle tecnologie necessarie<br />

per far funzionare abitazioni, uffici, servizi; l’intensificazione ed<strong>il</strong>izia e la cattiva manutenzione di<br />

un patrimonio “costruito” in continua crescita; l’inquinamento acustico provocato dall’aumento del<br />

traffico aereo e di quello urbano di superficie: sono tutti elementi di una emergenza ambientale<br />

che aumenta la complessità del sistema urbano e della sua governab<strong>il</strong>ità.<br />

Malgrado le dismissioni industriali e lo sv<strong>il</strong>uppo delle infrastrutture e attrezzature di igiene<br />

urbana (rete fognante, rete idrica, servizi igienici <strong>nel</strong>le abitazioni, servizi di raccolta di rifiuti<br />

solidi, ecc.) quelle deficienze ambientali che sembravano prerogative delle vecchie e insalubri<br />

<strong>citt</strong>à industriali si ritrovano accentuate, anche se cambiate di segno, <strong>nel</strong>le metropoli moderne e si<br />

ritrovano anche <strong>nel</strong>le metropoli ancora poco industrializzate: infatti i dati ci informano che Città<br />

di Messico e Nuova Delhi sono le due metropoli più inquinate del pianeta.<br />

L’allarme provocato dal crescente degrado ambientale sta determinando reazioni individuali<br />

(dalla mascherina di garza antinquinamento a un minor uso dell’autovettura privata, là dove le<br />

condizioni dei trasporti pubblici lo consentono, all’uso di autovetture meno inquinanti), reazioni<br />

sociali (accresciuta domanda di verde pubblico), politiche ambientali più mirate (nuovi sistemi di<br />

raccolta e smaltimento dei rifiuti, risparmio energetico e idrico, vincoli alla circolazione<br />

automob<strong>il</strong>istica privata, adozione di mezzi per <strong>il</strong> trasporto pubblico meno inquinanti e meno<br />

congestionanti). L’offerta urbana deve sempre più misurarsi non soltanto con una domanda di ut<strong>il</strong>ità<br />

e di bellezza, ma anche di qualità dell’ambiente.<br />

Un altro aspetto della vita metropolitana che desta sorpresa, almeno <strong>nel</strong>le società<br />

economicamente sv<strong>il</strong>uppate - una sorpresa che si converte in scandalo o in allarme, quando invece<br />

non costringe <strong>il</strong> fenomeno in un ghetto di invisib<strong>il</strong>ità, anche se esso si mostra <strong>nel</strong>la quotidianità


delle strade della <strong>citt</strong>à - è quello della povertà e dell’emarginazione sociale. <strong>La</strong> <strong>citt</strong>à<br />

metropolitana ha con la povertà un rapporto complesso; da una parte esercita un’attrazione nei<br />

confronti dei soggetti poveri o a rischio di povertà provenienti dall’esterno: la sua capacità di<br />

promessa provoca un effetto perverso, induce cioè aspettative e speranze in misura maggiore di<br />

quanto non sia in grado di soddisfare con le sue risorse di ospitalità, dall’alloggio al lavoro,<br />

dall’accettazione delle diversità all’integrazione sociale. Dall’altra, è essa stessa luogo di<br />

produzione di povertà: i cambiamenti frequenti <strong>nel</strong>la struttura produttiva e le loro conseguenze sul<br />

mercato del lavoro, la restrizione <strong>nel</strong>le politiche di welfare, la questione abitativa, la presenza di<br />

immigrati irregolari o clandestini, privi dei requisiti necessari per accedere al mercato del lavoro<br />

istituzionale e ai servizi sociali, hanno provocato in molte <strong>citt</strong>à degli Stati Uniti e dell’Europa la<br />

formazione di sacche di povertà che tendono a d<strong>il</strong>atarsi e a cronicizzarsi.<br />

Se la povertà può apparire, pur <strong>nel</strong>la tragicità delle sue dimensioni e delle sue forme,<br />

“comprensib<strong>il</strong>e” <strong>nel</strong>le metropoli del Terzo Mondo in cui sembrano destinati a concentrarsi i<br />

“dannati della terra”, spinti dalla modernizzazione senza sv<strong>il</strong>uppo, più diffic<strong>il</strong>e è spiegare la<br />

presenza massiccia e permanente della povertà <strong>nel</strong>la metropoli opulenta del Primo Mondo coi suoi<br />

sistemi assistenziali, società di consumi e di sprechi, di garanzie diffuse e di flussi<br />

redistributivi. Dobbiamo invece constatare che la povertà <strong>nel</strong>le sue molte forme, materiali e<br />

immateriali, non è soltanto un fenomeno residuale delle <strong>citt</strong>à postindustriali, di natura frizionale,<br />

dovuto cioè a fasi di squ<strong>il</strong>ibrio <strong>nel</strong> passaggio da una condizione all’altra (transizione<br />

scuola/lavoro, disoccupazione tecnologica, primo impatto <strong>nel</strong>l’inurbamento, nuove forme di<br />

handicap non coperte o non adeguatamente coperte da servizi socio-sanitari, ecc.) o di tipo<br />

soggettivo (rifiuto o incapacità di inserirsi in un tipo di organizzazione produttiva e in ritmi di vita<br />

troppo stressanti e competitivi): tant’è che i processi di impoverimento crescono in misura<br />

più che proporzionale rispetto alla stessa crescita della <strong>citt</strong>à e alla sua diffusione sul territorio (v.<br />

Guidicini, 1998).<br />

I mutamenti continui che caratterizzano la metropoli moderna si incrociano con i mutamenti<br />

dell’esperienza esistenziale propri dell’epoca che stiamo vivendo: cambia <strong>il</strong> ciclo di vita,<br />

diminuisce la centralità della famiglia e, soprattutto, delle relazioni di parentela, cambiano i<br />

ruoli di genere. Tutto ciò ha effetti sull’appartenenza e sull’identità urbane, genera solitudine e<br />

insicurezza, spinge a rifugiarsi nei mondi artificiali dell’alcolismo o della droga.<br />

Alla povertà la metropoli offre luoghi particolari. Il degrado urbano che si manifesta in modo<br />

più visib<strong>il</strong>e in certi quartieri della <strong>citt</strong>à isola la povertà, la materializza più <strong>nel</strong>le cose che <strong>nel</strong>le<br />

persone. Il degrado fisico assume in sé <strong>il</strong> degrado sociale, funziona da f<strong>il</strong>tro o da as<strong>il</strong>o per i<br />

nuovi poveri (immigrati, gruppi sociali in declino, persone dimesse dagli ospedali psichiatrici).<br />

Oppure i poveri vengono costretti in luoghi che, come la strada, hanno perduto la caratteristica di<br />

ambito relazionale e dove essi pagano la loro insopportab<strong>il</strong>e e ingombrante presenza con<br />

l’invisib<strong>il</strong>ità. Nella metropoli contemporanea i barboni escono dall’immaginario collettivo come<br />

elemento eccezionale e pittoresco ed entrano <strong>nel</strong> quotidiano: sono gli homeless, senza-tetto che<br />

diventano inesorab<strong>il</strong>mente anche senza-luogo.<br />

<strong>La</strong> povertà alimenta così, pur in una società aperta per definizione qual è quella urbana, <strong>il</strong><br />

grande fiume dell’esclusione sociale. Nelle <strong>citt</strong>à questa non è come altrove un percorso individuale,<br />

ma può diventare tratto distintivo di un gruppo che condivide condizioni di emarginazione e insediamento.<br />

Nasce la tribù urbana dei poveri e si crea un tappo che chiude la sacca della povertà e ne<br />

rende ancora più diffic<strong>il</strong>e la fuoriuscita; <strong>nel</strong> ghetto urbano si sv<strong>il</strong>uppano “reti informali di carattere<br />

apertamente anomico, o parzialmente anomico, che in qualche modo attingono a risorse<br />

solidaristiche degradate e offrono sostituti funzionali della solidarietà in particolari situazioni” (v.<br />

Mela, 1996, p. 63); oppure, se <strong>nel</strong> ghetto urbano alla povertà e all’emarginazione sociale si<br />

aggiungono fattori come la discriminazione etnica e la presenza di un’estesa popolazione giovan<strong>il</strong>e<br />

cui è interdetto l’accesso alla maggior parte delle risorse, maturano le condizioni per l’esplosione<br />

della reazione violenta, sia <strong>nel</strong>la forma delle sommosse di quartiere (come quelle verificatesi<br />

negli anni Novanta a Newcastle, Hartcliffe, Carlisle in Ingh<strong>il</strong>terra, a Sartrouv<strong>il</strong>le e Mantes-la-


Jolie in Francia, a Los Angeles negli Stati Uniti) sia come violenza collettiva di strada (v.<br />

Magnier, 1996). Incremento della violenza e diffusione della criminalità sono al centro della<br />

paura urbana per antonomasia e producono un’immagine di <strong>citt</strong>à inevitab<strong>il</strong>mente violenta, “che<br />

crea aggressività perché aggressiva” (ibid., p. 280).<br />

Confrontiamoci con alcuni dati: tra le 17 <strong>citt</strong>à con un indice di criminalità grave (numero di<br />

omicidi per 1.000 abitanti) sono presenti <strong>nel</strong>la fascia alta della graduatoria grossi agglomerati<br />

metropolitani dell’Africa (Città del Capo e Il Cairo) seguiti da Man<strong>il</strong>a, Rio de Janeiro, Miami,<br />

caratterizzati da un indice a due cifre. Tutte le metropoli europee presentano invece un indicatore<br />

a una cifra e si collocano quindi <strong>nel</strong>la fascia più bassa della graduatoria. Sembra perciò<br />

determinante, anche per questo problema, piuttosto che la forte concentrazione demografica, <strong>il</strong><br />

contesto sociale di appartenenza con la sua spietata competitività economica, religiosa, etnica o<br />

con <strong>il</strong> suo troppo rapido e squ<strong>il</strong>ibrato processo di modernizzazione.<br />

Nelle <strong>citt</strong>à metropolitane la violenza criminale tende ad assumere due diverse dimensioni<br />

territoriali. Da una parte possiamo incontrarla come presidio di certi segmenti del territorio: è <strong>il</strong><br />

caso, ormai assunto a simbolo, del Bronx a New York che comincia ad avere le sue riproduzioni<br />

anche in paesi come l’Italia (lo Stadera a M<strong>il</strong>ano, San Salvario a Torino, <strong>il</strong> Corviale a Roma,<br />

Ponticelli a Napoli, lo Zen a Palermo): sono quartieri off-limits non soltanto per gli imprudenti<br />

visitatori esterni, ma anche per le forze di polizia che esitano ad avventurarvisi e spesso, se sono<br />

costrette a intervenire, divengono oggetto di violente reazioni da parte della popolazione locale a<br />

copertura dei criminali ricercati. Dall’altra parte c’è una criminalità diffusa che si distribuisce su<br />

tutto <strong>il</strong> territorio urbano (scippi, rapine, borseggi, risse, ecc.). Questa, malgrado sia spesso<br />

eufemisticamente definita “microcriminalità”, è quella che per la sua ubiquità, per la sua<br />

quotidianità, per <strong>il</strong> suo abbattersi spesso sui <strong>citt</strong>adini più deboli (anziani, donne, piccoli operatori<br />

commerciali) e per le insufficienti o inesistenti azioni di contrasto delle forze dell’ordine e delle<br />

autorità giudiziarie colpisce di più l’immaginario collettivo e indebolisce <strong>il</strong> sentimento di<br />

sicurezza dei <strong>citt</strong>adini.<br />

Infine, <strong>nel</strong>le grandi <strong>citt</strong>à e <strong>nel</strong>le metropoli sembra oggi localizzarsi preferib<strong>il</strong>mente, con forme<br />

più complesse ed efficienti, la criminalità organizzata che si salda con la grande corruzione<br />

politico-amministrativa. Anche su questo fenomeno la globalizzazione produce i suoi effetti perversi:<br />

la metropoli diventa <strong>il</strong> crocevia o <strong>il</strong> terminale politico e finanziario dei più diversi traffici criminali,<br />

dalla droga al commercio delle armi, dalla prostituzione all’immigrazione clandestina,<br />

sfruttando debolezze o complicità degli apparati amministrativi, capacità delle strutture<br />

creditizie, coperture o commistioni tra movimenti politici clandestini e organizzazioni criminali.<br />

Malgrado la sua diffusione e la sua gravità, la criminalità urbana non appare, neanche agli<br />

osservatori più pessimisti, un male inevitab<strong>il</strong>e della <strong>citt</strong>à o quanto meno un fenomeno non riducib<strong>il</strong>e<br />

entro una soglia che ne consenta <strong>il</strong> controllo tanto da rispondere positivamente alla domanda di<br />

sicurezza degli abitanti e degli utenti della <strong>citt</strong>à. Il riferimento a New York e alla politica di zero<br />

tolerance del sindaco Rudolph Giuliani è ormai rituale nei dibattiti e <strong>nel</strong>le proposte di nuove<br />

politiche dell’ordine pubblico. Può risultare stucchevole, ma si può comprendere proprio perché la<br />

“Grande Mela” sia stata spesso al centro di descrizioni catastrofiche: criminalità e violenza<br />

d<strong>il</strong>aganti, scandali politico-finanziari, speculazione, tensioni etniche e razziali, povertà estrema,<br />

alcolismo e droga, degrado fisico e sociale di edifici e di interi quartieri. Ma anche in altre<br />

metropoli americane ed europee <strong>il</strong> problema della criminalità tradizionale e delle nuove forme che<br />

essa assume è al centro di efficaci risposte politiche, di tipo sia repressivo sia preventivo, le quali<br />

dimostrano che esiste la possib<strong>il</strong>ità di governarlo.<br />

3d. L’incubo e la sfida.<br />

Il <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong> lascia in eredità una realtà urbana e metropolitana in forte crescita; è, però, una<br />

realtà carica di problemi che sembrano troppo grandi anche per coloro che allo studio e alla


progettazione della <strong>citt</strong>à hanno dato arte e sapienza e, tanto più, quindi, provocano paure e allarme<br />

sociale <strong>nel</strong> sentimento comune.<br />

Non basta confermare l’esistenza e la validità del <strong>successo</strong> urbano, bisogna chiedersi perché esso<br />

turbi la coscienza degli uomini molto di più di quanto non ne esalti l’orgoglio; perché provochi<br />

più incubi che speranze. Forse perché i suoi costi sono manifesti, mentre i suoi benefici sono dispersi<br />

<strong>nel</strong>la crescente differenziazione degli attori urbani e delle modalità di fruizione.<br />

Ancora una volta bisogna ricordare che molti dei problemi che noi imputiamo alla <strong>citt</strong>à<br />

chiamano in causa scenari ben più generali: uno sv<strong>il</strong>uppo economico <strong>il</strong> cui ritmo e le cui<br />

forme sono sempre meno compatib<strong>il</strong>i con la salvaguardia dell’ambiente (ma anche <strong>il</strong> nonsv<strong>il</strong>uppo<br />

si sta traducendo in una bomba ecologica); istituzioni statuali che si rivelano inadeguate<br />

ad affrontare i tempi imposti dalla globalizzazione e dal risveglio in forme nuove del localismo;<br />

acquisizioni scientifiche e tecnologiche che corrono troppo rispetto al passo lento dell’etica e del<br />

diritto; uno squ<strong>il</strong>ibrio tra Nord e Sud del mondo che si esaspera mentre si vanificano le “ricette”<br />

di volta in volta imposte dal pensiero occidentale.<br />

Senza cedere alla tentazione intellettuale di allargare i problemi, cerchiamo dunque di tracciare<br />

un b<strong>il</strong>ancio puntuale della <strong>citt</strong>à <strong>nel</strong> <strong>XX</strong> <strong>secolo</strong>, limitando <strong>il</strong> campo di osservazione agli elementi<br />

specifici della questione urbana.<br />

<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à metropolitana è un sistema complesso: chiamata a rispondere a una mutevole pluralità di<br />

domande, richiede strutture e azioni capaci di affrontare insieme problemi di lunga durata e<br />

l’esplosione continua di emergenze. I bisogni e le aspettative dei suoi abitanti non sono più<br />

riferib<strong>il</strong>i alla figura del citoyen della <strong>citt</strong>à liberale, né alle forti identità di classe della <strong>citt</strong>àfabbrica.<br />

<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à si trova di fronte un individualismo di massa; essa stessa si qualifica sempre di<br />

più come un complesso di individualità organizzate, portatrici di desideri e di interessi, le quali<br />

si compongono e si ricompongono continuamente, di volta in volta si aggregano, cooperano,<br />

confliggono per imporre la propria domanda, per ottenere una risposta priv<strong>il</strong>egiata, per influire sui<br />

processi decisionali strategici, per contare di più o, magari, per raggiungere una visib<strong>il</strong>ità.<br />

<strong>La</strong> complessità rende la <strong>citt</strong>à contemporanea vulnerab<strong>il</strong>e: basta un black-out di energia, un<br />

evento meteorologico eccezionale, lo sciopero in un servizio strategico, <strong>il</strong> concentrarsi <strong>nel</strong>lo stesso<br />

giorno di più manifestazioni collettive, senza parlare poi di un eventuale attentato terroristico o<br />

più semplicemente di un atto teppistico mirato, perché la funzionalità della macchina urbana si<br />

inceppi con effetti traumatici per le vite umane o per l’economia. <strong>La</strong> sua manutenzione è diffic<strong>il</strong>e<br />

perché la <strong>citt</strong>à richiede insieme livelli tecnologici tradizionali e sofisticati, è usata da una pluralità<br />

di popolazioni che hanno modalità e ritmi di fruizione assai diversificati, si serve di apparati<br />

tecnico-organizzativi burocratizzati, rigidi, scarsamente efficienti.<br />

Il funzionamento del governo metropolitano e quello del mercato non possono contare sul sostegno<br />

s<strong>il</strong>enzioso delle forme primarie di controllo sociale: i mutamenti continui della popolazione, le<br />

differenze culturali, la crisi delle tradizionali istituzioni di aggregazione sociale aggredite dalla<br />

modernizzazione lo rendono più lasco e precario, così che le relazioni di scambio, le tensioni<br />

sociali tra individui o tra gruppi o tra individui e istituzioni d’ordine non possono contare <strong>nel</strong>la loro<br />

gestione su uno zoccolo sicuro di norme fortemente interiorizzate.<br />

<strong>La</strong> fuoriuscita dalla <strong>citt</strong>à delle attività industriali ha sottratto alla <strong>citt</strong>à la forza suggestiva<br />

dell’ordine razionale della fabbrica - con le sue gerarchie professionali, con la sua disciplina, ma<br />

anche con le sue solidarietà - così come ha fatto perdere l’ordinata ciclicità dei suoi tempi di<br />

lavoro.<br />

Il welfare pubblico non risponde più con <strong>il</strong> paradigma della crescita continua (inclusione di<br />

nuovi bisogni <strong>nel</strong>l’area della protezione sociale, spesa pubblica aggiuntiva, nuovi servizi e<br />

prestazioni, maggiore occupazione per la stessa espansione del welfare) all’esigenza di controllo<br />

delle tensioni sociali, al sostegno della domanda interna, alle esigenze di redistribuzione sociale del<br />

reddito.<br />

Infine, la metropoli cambia troppo rapidamente rispetto alle capacità di adattamento degli<br />

individui, dei gruppi, delle organizzazioni. E i cambiamenti appaiono improvvisi, inesplicab<strong>il</strong>i,


una minaccia che sembra colpire ciascuno di noi, o da cui ciascuno di noi si sente più aggredito<br />

rispetto agli altri.<br />

<strong>La</strong> <strong>citt</strong>à non ci garantisce più quello che ci ha promesso: libertà e <strong>citt</strong>adinanza, centralità della<br />

ricchezza pubblica che attenui gli effetti della diseguale distribuzione della ricchezza privata,<br />

vitalità economica <strong>nel</strong>l’offerta di redditi e occupazione, pluralismo culturale, promozione di st<strong>il</strong>i<br />

di vita e di consumo più aperti e sofisticati. Oppure lo promette a troppi perché non accada che gli<br />

altri ci appaiano concorrenti sempre più pericolosi <strong>nel</strong>la fruizione della <strong>citt</strong>à. “A Mosca, a<br />

Mosca”: lo diciamo ancora, lo facciamo anche, ma senza più crederci molto; viviamo <strong>il</strong> <strong>successo</strong><br />

urbano con una coscienza inquieta, pronti a denunciare la nostra infelicità metropolitana.<br />

<strong>La</strong> promessa urbana è <strong>nel</strong>lo stesso tempo una sfida: tutti gli attori sono chiamati ad affrontare <strong>il</strong><br />

disordine che è l’altra faccia dello sv<strong>il</strong>uppo urbano. Vivere i problemi della <strong>citt</strong>à - pur grandi, a<br />

volte drammatici - come se fossero incubi non ci porta lontano. Infatti, constatiamo che vi sono <strong>citt</strong>à<br />

travolte dal mutamento o soverchiate da una massa di problemi che hanno cause geopolitiche assai<br />

complesse, ma vi sono anche storie di <strong>successo</strong> urbano, <strong>citt</strong>à che hanno saputo accettare la sfida e<br />

rinnovarsi. <strong>La</strong> capacità di riottenere fiducia sulla promessa urbana è oggi <strong>nel</strong>le possib<strong>il</strong>ità delle<br />

grandi <strong>citt</strong>à metropolitane: esse sono già <strong>nel</strong> futuro con <strong>il</strong> loro disordine che può sembrare<br />

mostruoso e insieme bellissimo, con la durezza con cui impongono i loro costi, ma anche con le<br />

immense opportunità che offrono. Nelle metropoli si vince e si perde una sfida che lascerà<br />

<strong>il</strong> segno anche <strong>nel</strong>le realtà urbane minori che a esse guardano non per un banale processo imitativo,<br />

ma perché soltanto entrando “in rete” con esse conserveranno e valorizzeranno la loro identità.<br />

Non c’è mai nulla di definitivo <strong>nel</strong>la storia e, quindi, la metropoli contemporanea non è <strong>il</strong><br />

punto di arrivo della storia urbana. Altri successi e altre crisi, altre sfide e altre paure si<br />

accompagneranno alla <strong>citt</strong>à <strong>nel</strong> futuro. E gli uomini ne saranno sempre protagonisti, ora come<br />

produttori, ora come prodotto.<br />

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