La citt nel XX secolo: il successo infelice - Eddyburg
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Conclude Bernardo Secchi, dopo aver tracciato un quadro impietoso delle <strong>citt</strong>à italiane: “Al<br />
centro della mia riflessione stanno la grande, pervasiva e sconsolante mediocrità della <strong>citt</strong>à<br />
italiana, <strong>il</strong> suo carattere ordinario, dozzinale e banale e l’insoddisfazione nei confronti delle ipotesi<br />
esplicative che finora ne sono state fornite: la speculazione ed<strong>il</strong>izia; la corruzione amministrativa;<br />
<strong>il</strong> vincolo urbanistico, la divaricazione tra <strong>il</strong> campo professionale e ciò che Pierre Bourdieu<br />
chiama “campo intellettuale” pertinente, l’occupazione in particolare del primo, da parte di<br />
figure dotate di troppo scarso sapere critico; <strong>il</strong> contributo a ciò fornito dalle stesse scuole di<br />
architettura; le responsab<strong>il</strong>ità personali di molti loro docenti” (v. Secchi, 1994, p. 20). Come si vede,<br />
una critica a tutto campo che chiama in causa sia i caratteri della committenza pubblica e della sua<br />
cattiva mediazione tra i contrapposti interessi privati, sia la risposta progettuale, appiattita nei fatti<br />
sulla committenza e fautrice di una modernità intesa soltanto come ricorso a forme, tecniche e<br />
materiali vistosi.<br />
A presidiare <strong>il</strong> progetto, più che l’ispirazione, interviene la tecnica; ma, per citare ancora<br />
l’intervista di Piano, “quando l’edificazione si riduce a pura tecnica (un fatto di macchine,<br />
organizzazione, denaro) perde ogni valenza espressiva, ogni significato sociale, ogni aderenza<br />
alla vita”. Si potrebbe siglare <strong>il</strong> processo evolutivo della progettazione urbanistica e architettonica<br />
come un percorso dall’utopia all’atopia, fino alla tecnoutopia.<br />
L’egemonia della tecnica si congiunge poi con l’innamoramento per i materiali “nuovi”, capaci di<br />
portare <strong>il</strong> messaggio onnipotente della modernità, dal vecchio cemento armato al nuovo<br />
vetrocemento; con le tecnologie sempre più sofisticate rese necessarie dal gigantismo edificatorio<br />
e dall’iperbole architettonica, gli edifici diventano macchine dal ciclo di vita raccorciato e dai costi<br />
di manutenzione elevatissimi.<br />
<strong>La</strong> critica sembra però poter esorcizzare la crisi. In molti paesi europei si sta prendendo coscienza<br />
dei guasti provocati dagli esiti del modernismo imperante fino a pochi anni fa: si cominciano ad<br />
abbattere i grands ensembles che hanno imbruttito e rese alienanti le periferie urbane e aumentano<br />
gli istituti di credito che concedono mutui vantaggiosi a chi costruisce con moduli e materiali<br />
tradizionali. Così come a Roma si riscopre <strong>nel</strong>la ripavimentazione delle strade <strong>il</strong> vecchio<br />
sampietrino (anche se made in China).<br />
Un altro soggetto imperante in questa letteratura sulla crisi della <strong>citt</strong>à contemporanea è<br />
rappresentato, come abbiamo ricordato, dai mass media. L’idea che sia in atto - anche in Italia -<br />
un abbandono in massa della <strong>citt</strong>à per tornare in campagna piace molto agli operatori delle comunicazioni<br />
di massa. <strong>La</strong> stampa periodica, la televisione di informazione, ma anche quella di<br />
intrattenimento (si pensi alla trasformazione della popolare serie Casa Via<strong>nel</strong>lo in una più<br />
ecologica e accattivante Cascina Via<strong>nel</strong>lo; ma, almeno in questo caso, si irrideva alla moda dei<br />
personaggi famosi che tornano “in campagna”), offrono titoli in cui ricorrono costantemente - dopo<br />
letture affrettate delle statistiche ufficiali - le espressioni “fuga dalla <strong>citt</strong>à”, “addio <strong>citt</strong>à crudele” e<br />
così seguitando (v. Melis e Martinotti, 1998). Il guaio è che questi luoghi comuni, ingigantiti<br />
mediaticamente, vengono poi assunti come propri anche da intellettuali di grido improvvidamente<br />
pronti ad assecondare le correnti comunicative o spinti ad affermare l’aristocrazia<br />
dell’intelligenza contro ogni fenomeno di massa giudicato camp (<strong>il</strong> che equivarrebbe a plebeo, ma<br />
appare meno classista).<br />
I mass media, sospinti dalla spirale inesorab<strong>il</strong>e - una vera, continua fatica di Sisifo - di gettare in<br />
pasto ai lettori o agli spettatori una “notizia” capace di emozionare più di quella del giorno<br />
prima, non si limitano al tutto sommato poco dannoso r<strong>il</strong>ancio di una bucolica antiurbana (anche<br />
se bisognerebbe chiederci quanto questa manipolazione delle informazioni non serva da<br />
copertura ai ritardi e ai s<strong>il</strong>enzi sulla normativa relativa alle aree metropolitane); le occasioni più<br />
ghiotte sono quelle in cui i mass media possono alimentare un’immagine infernale o di “medioevo<br />
prossimo venturo” delle metropoli: la criminalità urbana d<strong>il</strong>agante, ad esempio. Sono spesso<br />
rappresentazioni a corrente alternata, perché una M<strong>il</strong>ano con un picco straordinario di rapine e<br />
omicidi in una settimana fa più notizia di una Napoli con uno st<strong>il</strong>licidio di omicidi che va avanti<br />
da mesi o da anni.