i primi capitoli - Università degli studi di Cagliari.

Osvaldo Loi
La
La
Filonzana
Filonzana

PARTE PRIMA
IL IL IL RITORNO RITORNO DI
DI
JUBAYL
JUBAYL

CAPITOLO UNO
Un nuovo equinozio di primavera era arrivato e con
esso il gioioso risveglio della natura, della vita, della
febbrile attività degli uomini e degli animali. Per
Crecu l’equinozio significava, all'opposto, un periodo
triste, pesante di ricordi e di dolore.
Erano tre gli equinozi di primavera trascorsi dalla
morte di Ebra, la figlia maggiore. Era morta mentre
dava alla luce la sua secondogenita. Brùscia, la
sacerdotessa, che era stata a fianco della giovane,
nulla aveva potuto per salvarle la vita. Aveva salvato,
invece, la piccina.
Crecu per lungo tempo si era rifiutato di vederla.
Trovava intollerabile che quel piccolo essere
insignificante e urlante avesse ucciso sua figlia. Solo
il dolore di Tira, sua fedele compagna e madre di
Ebra, lo aveva convinto a desistere da tale ripudio. Ma
le parole di Tira sull’ineluttabilità della morte e la
necessità di accogliere la nuova vita, in sostituzione di
quella che se n’era andata, non riuscivano a
convincerlo, tanto meno a consolarlo.
Solo quando la piccola, alla quale fu imposto il
nome di Ninìa, ebbe superato i due anni, Crecu
cominciò ad accettarla e ad osservare quella creatura,

incolpevole di ciò che la vita le aveva riservato.
Finalmente, intenerito dalle manifestazioni di affetto e
dai sorrisi che la bambina offriva anche a
quell’imbronciato e scontroso di suo nonno, rinunciò a
scacciarla da se.
Dopo la morte di Ebra, la malasorte si accanì
ancora contro la famiglia di Crecu. Lèbie, il marito di
Ebra, morì improvvisamente l’anno appresso, senza
che nessuno sapesse spiegarne la ragione. Si accasciò
una sera, accanto al fuoco, e non ci fu possibilità di
rianimarlo. Chiuso in se stesso, dopo la scomparsa
della moglie, aveva smesso di provare interesse per la
vita e la sua dipartita pose fine al suo volontario esilio
dal mondo circostante.
I figli di Ebra, Istore, il primogenito, che aveva
ereditato il nome dal nonno paterno, e la piccola
Ninìa, erano cresciuti nella capanna di Crecu, sotto lo
sguardo vigile e attento di Tira, la quale si fece carico
di guidare i componenti della propria famiglia,
cercando di alleviare il dolore che l’aveva colpita.
Senza la sua energia e la sua forza d’animo l’intero
nucleo familiare sarebbe caduto nel disfacimento
totale. Solo dalla fine dell’ultimo autunno sembravano
essere tornate le ordinarie abitudini, anche se ciascuno
di loro continuava a sentire un sordo, incessante e
inestinguibile dolore.
Quella mattina, come tante altre mattine, Crecu era
salito in cima al nuraghe di Saòmo e, poggiato al
parapetto che contornava il terrazzo, lasciava andare
lo sguardo nelle diverse direzioni, ammirando la
bellezza di ciò che lo circondava.
L’inverno era stato lungo e freddo. C’erano state
abbondanti nevicate, molte di più di quanto si fosse
abituati a vederne, anche nelle annate più rigide.
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Quando non nevicava e la temperatura era meno
inclemente, pioveva. E quando non pioveva il vento di
maestrale soffiava senza requie, rendendo la vita
difficile.
Solo dalla settimana precedente l’inverno aveva
lasciato spazio ad un timido sole e ora, finalmente,
una bella giornata. Nei campi, il grano aveva
raggiunto l’altezza di un palmo e brillava di verde
intenso. Sulle pendici delle colline e sui campi incolti,
i fiori bianchi e rosa dell’asfodelo, a tratti,
dominavano sugli altri colori, mentre il giallo dei fiori
delle ginestre si mescolava con il verde brillante
dell’euforbia. Le piante e gli arbusti si apprestavano a
pavesarsi di fiori per mostrarsi al sole della primavera
che stava per cominciare. Gli uccelli e gli animali del
bosco tornavano a lanciare i propri richiami.
Il mare, in lontananza, appariva invitante anche a
chi, come Crecu, lo considerava un elemento ostile e
dal quale era meglio tenersi lontano.
I ruscelli erano in piena e le nevi, che per lunghi
mesi avevano fatto corona alla Terra di Inòghe, si
stavano sciogliendo velocemente. Crecu si augurava
che la primavera mantenesse le promesse che stava
facendo quella mattina.
Il capotribù amava quella terra. Da contadino ne
apprezzava la forza, la ruvidezza e la generosità.
Abitava nel territorio del nuraghe di Saòmo, situato al
centro di quella che veniva chiamata la Terra di
Inòghe e ne era diventato il capo riconosciuto. Era
stato nominato anche capo della Federazione, che
raccoglieva le genti di altre sei tribù del territorio. Era
un incarico che non aveva voluto e per il quale era
stato costretto a combattere, mettendo in gioco la
propria vita. Aveva vinto contro un avversario che
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aveva tentato di ucciderlo a tradimento, con la
complicità di individui più abietti di altri. Era riuscito
a sopravvivere e ad imporre la propria autorità, grazie
al rispetto che suscitava nelle persone che entravano
in contatto con lui. Aveva cercato di apportare dei
miglioramenti nella vita di quella terra, occupandosi
di coloro che avevano necessità di sostegno, ma si era
dimostrato inflessibile quando si era trattato di
difendere gli abitanti contro i ladri di bestiame o i
razziatori che arrivavano dai territori limitrofi. Aveva
giudicato e punito in prima persona, mosso, insieme,
dalla comprensione e dalla fermezza. Non si era mai
pentito delle sue decisioni. Si era fatto dei nemici, ma
anche questi dovevano riconoscerne il valore e
avevano abbastanza timore per non sfidarlo
apertamente.
Tutto questo, mentre guardava il panorama, era
dimenticato. La bellezza di ciò che lo circondava
sembrava lenire il dolore che provava e che, in alcuni
giorni, era così intenso da sopravanzare qualunque
altro sentimento o pensiero.
Era talmente immerso nelle sue riflessioni che non
si riscosse neppure quando una voce gli parlò. Si
accorse di non essere più solo quando una piccola
mano gli sfiorò la gamba e la voce di Istore ripeté, per
la seconda volta: - Vieni nonno, dobbiamo andare.
Mentre si avvicinava alla costa, Jubayl si rese conto
che il ponte era più goffo di quanto ricordasse. I
pilastri di pietra e le volte di legno non avevano nulla
dell’eleganza dei ponti che aveva osservato nelle terre
visitate nei suoi trent’anni di navigazione. Pratico, lo
era sicuramente. Brillante era stata l’idea di costruirlo.
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Quanto ai progettisti e ai costruttori, beh, ci sarebbe
stato parecchio da ridire. Le volte di legno, anziché di
pietra, dal punto di vita dell’ingegneria, non
rappresentavano certamente la soluzione migliore.
Cinque anni erano trascorsi dal giorno in cui,
comandante di una flotta imponente, si era trovato a
visitare, per la prima volta, quella terra. Tornò con la
mente all’incarico affidatogli dal sovrano della sua
città e a come lo aveva eseguito. Aveva studiato il
territorio e gli abitanti, affidandosi a decine di
esploratori. Aveva preso contatto con le genti del
luogo e aveva cercato l’accordo con i capitribù, nella
speranza di poter organizzare un approdo
commerciale permanente. Fortunatamente, il loro capo
aveva dimostrato curiosità per la proposta e,
nonostante la diffidenza, aveva reso possibile
un’intesa fra i due popoli che mai, prima d’allora, si
erano incontrati, almeno non nella Terra di Inòghe.
Jubayl era assorto nei suoi pensieri, ripensando ai
giorni che aveva trascorso con Crecu, quando si rese
conto che la nave aveva cominciato le manovre di
attracco. Ricordava che il porto era al di là del ponte e
aveva previsto che ci sarebbe voluto ancora del tempo
prima di iniziare ad accostare alla riva. Solo allora
notò che il ponte era stato modificato. Era uno di quei
particolari che era stato da subito davanti ai suoi
occhi, ma che solo in quel momento aveva messo a
fuoco: un nuovo pilone bloccava il passaggio delle
navi verso il porto o, almeno, verso quello che
ricordava essere il porto. Il ponte non aveva più la
campata mobile: era diventato una struttura compatta.
Notò che le tavole di legno venivano sostituite
regolarmente. Lo deduceva dal colore delle nuove
assi, non ancora corrose dagli elementi naturali e dalle
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sferzate delle onde.
- Dove ci stiamo dirigendo? – Chiese Jubayl al
capitano della nave fenicia, che stava al suo fianco. –
Ricordo che l’attracco si trovava oltre il ponte.
- Hanno costruito un nuovo pontile da questa
parte. Solo le barche col fondo piatto, ormai, si
dirigono al di là di esso. – Rispose Hisarad, il
capitano della nave.
- E la campata mobile? Com’è che hanno deciso di
eliminarla?
- Perché, dopo poco tempo, si sono accorti che i
benefici che procurava erano di gran lunga inferiori
ai problemi che creava. Le loro navi veleggiano
prevalentemente a nord e ad ovest delle isole e la loro
esperienza gli consentiva di continuare a navigare
anche nelle acque basse, mentre erano soprattutto le
nostre navi ad usare il ponte mobile e spesso capitava
che si avessero degli incidenti, a causa della
mancanza di conoscenza dei fondali da parte dei
nostri marinai. Così hanno deciso di farci ancorare
da questo lato. Solo le navi dal fondo piatto passano
sotto le arcate, disalberando, mentre quelle con più
pescaggio, se proprio non ne possono fare a meno,
fanno il giro dell’isola.
- Disalberando?
- Ritengono che sia più semplice che le
imbarcazioni abbiano un albero che, all’occorrenza,
possa essere levato per consentire loro di passare
sotto le campate, piuttosto che spostare un intero
tratto di ponte.
Jubayl trovò la cosa divertente. Avrebbe
scommesso che, nella decisione, ci fosse, come
sempre, lo zampino di Crecu.
L’imbarcazione che si apprestava ad attraccare era
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lunga trenta passi e le fiancate, alte sull’acqua,
permettevano di cabotare senza problemi. Una vela
quadrata era sorretta dall’albero che si ergeva nella
parte centrale. Al vertice dell’albero un intrico di cime
ed anelli consentiva alla vela di essere levata o
ammainata. Una protome di legno si slanciava oltre la
prua, mentre la poppa si incurvava verso l’esterno
dello scafo per poi ripiegarsi a spirale verso l’interno.
Nella parte centrale della prua era stata costruita
una struttura semicoperta, usata quasi esclusivamente
dal capitano, ma che, all’occorrenza, poteva ospitare
fino a quattro persone, dove erano tracciate le rotte da
seguire, dove erano conservati i papiri con le
informazioni sulla navigazione e gli ordini dalla città.
La stiva, più piccola rispetto alle navi da carico, era
usata per trasportare quei prodotti necessari alla
navigazione o che si pensava potessero essere utili
agli avamposti che si dovevano visitare durante il
viaggio. Una parte era stata adibita a ricovero per gli
uomini.
La nave, partita da Biblo due mesi prima, doveva
toccare tutti i porticcioli creati lungo le coste del mare
occidentale e verificare se la speranza di farne punti
per lo scambio delle merci si stesse realizzando.
L’equipaggio era composto di circa quaranta uomini.
La gran parte era composta dai marinai che si
occupavano dei remi quando il vento era insufficiente
o troppo debole per gonfiare la vela. Gli altri erano
preposti alla difesa della nave e ad affrontare le
situazioni pericolose. Alcuni di loro sarebbero sbarcati
sostituendo coloro che sarebbero tornati in patria. Il
capitano avrebbe deciso come comportarsi a seconda
dei risultati che avesse trovato.
All’equipaggio, poco prima che salpasse, si era
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aggiunto Jubayl, il quale, dopo aver chiesto ed
ottenuto dal re di Biblo di lasciare il suo incarico sulle
navi del regno, cercava ora un posto dove portare a
conclusione la propria esistenza.
Ad orientarlo verso la Terra di Inòghe erano stati i
ricordi del viaggio precedente e il buon ricordo che
aveva conservato dei suoi abitanti. Questi, uniti ai
racconti che gli aveva narrato suo nonno, avevano
determinato la sua decisione. Erano racconti fantastici
per un bambino di pochi anni, ma che avevano
assunto una dimensione diversa dal momento in cui
aveva incontrato delle persone che parlavano la lingua
che il suo avo gli aveva insegnato e che nessun altro
di sua conoscenza era in condizione di parlare o di
capire, neppure sua madre o sua nonna.
Per il quinto giorno il sole, raggiunto il punto più
elevato, dopo essere passato attraverso la ferita che la
mano dell’uomo aveva inferto alla roccia e dopo aver
scavalcato i gradini d’accesso, si era tuffato nell’acqua
del Pozzo Sacro. Per cinque giorni l’anno, in
primavera, e altrettanti all’inizio dell’autunno, quando
la luce si divideva con le tenebre la durata del giorno,
il sole si gettava nel pozzo, fecondando la terra e
assicurando nuova vita.
Il Pozzo Sacro si trovava poco distante dal nuraghe
del Tempio ed era stato modellato allargando
l’apertura naturale che portava alla vena d’acqua che
scorreva sotto il pianoro. Tredici scalini di pietra,
lavorati dagli artigiani, portavano alla vasca circolare
contornata da un camminamento che consentiva di
passare da una parte all’altra dell’acqua. Tutt’attorno
si aprivano delle nicchie, all’interno delle quali
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Brùscia, la sacerdotessa della Grande Madre e delle
Acque, deponeva le offerte rituali. Il pozzo si
chiudeva con una volta ad ogiva, costruita con blocchi
di granito di identica misura.
Al tramonto, dopo l’ultima cerimonia, le
delegazioni sarebbero tornate ai rispettivi nuraghi. In
tutti i villaggi si era celebrato l’equinozio di primavera
e si erano tenute le funzioni di ringraziamento
dedicate alla Grande Madre. La sacerdotessa, dal
recinto del Pozzo Sacro, ne aveva guidato le
manifestazioni, secondo i canoni della tradizione.
Per i cinque giorni delle solennità le attività nella
Terra di Inòghe erano state ridotte all’essenziale. Ogni
contesa o disputa fra gli abitanti era stata sospesa. Nei
decenni precedenti era capitato che, proprio in quei
giorni, i capitribù fossero riusciti a trovare
quell’accordo considerato impossibile nel corso
dell’anno.
Il primo giorno il capotribù di ciascun villaggio
raggiungeva il Tempio, alla testa di una delegazione e
della Karritta, il carro consacrato agli dei, bardato con
i fiori e i frutti più belli del proprio territorio. Il carro
era trainato da una coppia di buoi: sul collo e sulle
corna, avevano le ghirlande e i campanacci forgiati
dagli artigiani più abili. Ciascuna delegazione portava
il pane cerimoniale, da deporre nelle nicchie del
Pozzo, e la statuetta di bronzo che i maestri dei metalli
e delle leghe avevano modellato, da sistemare lungo il
sentiero lastricato che portava al suo ingresso. Se la
forma del pane era lasciata alla maestria e alla fantasia
delle donne del villaggio, la figura bronzea aveva
finito, nel corso degli anni, per contraddistinguere
ciascun nuraghe.
I pani avevano le forme più diverse: pani a corona
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dentellata, semplici o con le figure di animali o di
uccelli, alcuni guarniti con le uova; grandi pani
rotondi che raggiungevano anche due palmi di
diametro; sfoglie rettangolari che i pastori portavano
in campagna quando si assentavano a lungo con le
greggi e sfoglie circolari tanto sottili da sfidare lo
spessore dei fiocchi di neve. Portavano infine i dolci
fatti col miele, con la ricotta e col vino cotto.
Le figure di bronzo si erano, invece, consolidate
negli anni. Pranu e il nuraghe del Tempio, sede delle
caserme, avevano portato l’arciere e il guerriero. Sulci
aveva portato la navicella, Barrèca e Tintirèddu i
lottatori e l’arciere a cavallo, Saòmo la raffigurazione
del capotribù e Nurachenòu il muflone. Brùscia e
Subòe avevano fatto forgiare la Grande Madre e
l’Eroe, raffigurante il capostipite del popolo sardo.
Le cerimonie si erano svolte all’alba, al centro
della giornata e al tramonto. Erano numerosi gli
abitanti degli altri nuraghi che si erano trasferiti per
l’occasione. Per loro erano state costruite capanne e
tettoie che riparavano dal sole e dalle intemperie.
Attorno al Pozzo, all’interno del quale potevano
accedere solamente la sacerdotessa e le sue assistenti,
era stato edificato un anfiteatro costruito con un muro
a secco. All’interno di esso, poggiato al muro, si
trovava un sedile di pietra dove gli spettatori potevano
riposare e pregare.
Intervallate dalle cerimonie si erano tenute le
esibizioni delle maschere rituali, raffiguranti la vita e
le attività della comunità. Rappresentavano i bovini e i
loro aggiogatori, i cacciatori col lazzo che insidiavano
le fanciulle ancora da maritare, gli spiriti ancestrali
raffigurati con maschere inquietanti. Avevano danzato
attorno al perimetro sacro intonando le loro
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filastrocche ripetitive ed ipnotiche, ringraziando la
Madre Terra e chiedendo la sua benevolenza per
l’anno a venire.
Al tramonto del quinto giorno tutti sarebbero
tornati alle loro capanne e il giorno seguente si
sarebbero riprese le abituali occupazioni. Il Pozzo
Sacro sarebbe tornato a ricevere le visite della
sacerdotessa, delle sue assistenti e quella degli abitanti
del villaggio e dei guerrieri della caserma del Tempio.
La terra, fecondata dal sole dell’equinozio, avrebbe
fatto nascere gli animali e la vegetazione delle
stagioni calde, in attesa di essere fecondata una
seconda volta nel corso dell’equinozio autunnale,
pronta per generare i frutti dei mesi freddi dell’anno.
- Quali sono le novità che ci porti da Biblo? – Chiese
Bahitil al capitano della nave attraccata quella
mattina.
Bahitil aveva trent’anni e proveniva da Biblo.
Aveva ricoperto cariche importanti a corte fino a
quando le sue attività, remunerate con prebende
illecite, non avevano coinvolto il re in persona. Il
sovrano era stato clemente e lo aveva posto davanti
alla scelta: essere appeso per il collo o imbarcarsi con
la prima nave, scegliendo una località fra quelle che la
stessa avesse via via toccato e, una volta arrivato, farsi
dimenticare per sempre. Bahitil aveva deciso di
imbarcarsi per Sulci. Da quattro anni ne godeva il
clima favorevole.
- Gli egiziani pretendono, dalla nostra città, le
tasse esose di un tempo? - Questa volta a porre la
domanda era stato Hadad, un uomo di sessant’anni,
portati con grande dignità. Era stato diplomatico in
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Egitto e grazie ai suoi uffici aveva potuto mettere da
parte una fortuna piuttosto sostanziosa
dimenticandosi, però, di parlarne con il sovrano del
proprio paese. Quando vennero a cercarlo i gendarmi
della città, per condurlo davanti ai giudici, Hadad,
grazie alle sue conoscenze, si trovava già sulla stessa
nave in cui si trovava Bahitil, con destinazione Sulci.
- Potremo far ritorno a casa? Quando ci daranno
il cambio? Quali sono le disposizioni che il re ci
manda?
Queste erano le domande poste da Sancun, Bethel
e Shafon, arrivati a Sulci con l’incarico di dare vita,
nell’isola di Skina, ad un punto commerciale stabile,
lungo le rotte che le navi fenicie, da anni, tracciavano
all’interno del grande mare occidentale. Le rotte erano
sufficientemente sicure ma le scorribande dei popoli
africani, delle terre dell’ovest e delle isole, e la
concorrenza delle navi del Peloponneso, rendevano
necessaria la costruzione di porti dove le merci
potessero considerarsi al riparo dalle incursioni e dalle
ruberie.
Arrivati cinque anni prima con la grande flotta agli
ordini di Jubayl, i fenici non avevano più abbandonato
quel posto, considerandolo troppo importante dal
punto di vista strategico. Jubayl aveva ottenuto, da
Crecu e dai capitribù, di poter lasciare sull’isola un
dignitario della corte per accordarsi sulla costruzione
di un porto. Ma nonostante la disponibilità di Sorcu, il
capotribù di Sulci, l’ignoranza della lingua da parte
del dignitario, la sua mole enorme e flaccida, unita
alla sua altezzosità, avevano rallentato il
raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Da allora, ad intervalli più o meno regolari,
funzionari della città di Biblo approdavano sull’isola
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di Skina e poi ripartivano, sostituiti da altri. I risultati
complessivi di questi tentativi erano del tutto
insoddisfacenti per gli interessi fenici.
All’arrivo della nave, la presenza fenicia era
composta da circa settanta persone tra soldati,
pescatori e servi, guidati da tre incaricati ufficiali e da
due esiliati. Jubayl, presente all’incontro con i
responsabili di quella comunità, pensava che ci
sarebbe stato molto da fare. Fortunatamente non
toccava a lui.
I fenici, accolti dagli abitanti di Sulci senza astio
ma, insieme, senza grandi entusiasmi, avevano
edificato nella parte meridionale dell’isola abitazioni
rettangolari e grandi magazzini, con la speranza di
farne dei depositi per le merci da barattare. Avevano
capito che non sarebbe stato facile entrare nella
mentalità di quel popolo e ancora non ne avevano
trovato la chiave.
Pur essendo fra compatrioti, Jubayl non si sentiva
particolarmente attratto dalla loro compagnia e fu ben
lieto quando il gruppo si sciolse.
Lo fu ancora di più quando nessuno dei propri
connazionali si offrì di andare da Sorcu, il capotribù,
che Jubayl aveva già avuto modo di conoscere anni
prima.
- Che gli dei ti siano propizi. – Disse Jubayl,
quando si trovò davanti a Sorcu.
- Che gli dei siano propizi anche a te. – Rispose
Sorcu, senza rammentare chi fosse quell’uomo. Poi
ricordò ed esclamò: – Il capitano delle navi.
- Noto con piacere che hai buona memoria.
- Fortunatamente. Dove hai lasciato la tua flotta?
- La comanda qualcun altro. Se gli dei me lo
consentiranno ho terminato di occuparmi delle navi.
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- Come mai?
- Non c’è una ragione particolare. Solo la voglia
di fermarmi e, se mi sarà possibile, morire con i piedi
sulla terra.
- E vorresti fermarti e morire qui?
- Non ho fretta. Viverci per un po’, da queste parti,
non mi dispiacerebbe. Poi si vedrà.
- Che tu sia il benvenuto, allora.
Sorcu era contento di vedere quel vecchio
capitano. Per quanto poco lo avesse conosciuto era
stato facile fraternizzare, al contrario di quegli
individui scialbi e sfuggenti che erano arrivati dopo di
lui e che abitavano nell’altra parte dell’isola. Non gli
erano simpatici, ma riconosceva che non avevano
assunto atteggiamenti tali da potergli rimproverare
qualcosa di specifico. Erano diversi, e questo lo
irritava, ma si rendeva conto che la diversità non
poteva considerarsi una colpa. Nonostante questo,
continuavano a non piacergli.
Come leggendo nei pensieri di Sorcu, Jubayl
domandò: - Come sono i rapporti con i miei
connazionali?
Dopo averci riflettuto qualche secondo, Sorcu
rispose con un’altra domanda: - Avete solo questo tipo
di persone o, nel tuo paese, ci sono anche uomini
migliori?
- Ho capito. – Rispose, ridendo, Jubayl. – Certo, ce
ne sono di migliori ma non quanti dovrebbero
essercene.
- E’ una vera disgrazia. – Sentenziò Sorcu. E
passò ad un altro argomento. – Cosa conti di fare, ora
che sei qui?
- Sono completamente privo di idee. Sapevo di
voler tornare e di rivedere la vostra terra. Domani
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vorrei andare a trovare Crecu, ma non ho idea di
quello che farò dopodomani. Si vedrà allora.
- Ti farò accompagnare da uno dei miei uomini.
- Ti ringrazio, ma preferirei arrivarci da solo,
guardarmi attorno e familiarizzare con questa terra.
- Ti capisco e capisco la voglia che hai di vedere,
con i tuoi occhi, ciò che ti circonda. Consentimi di
donarti questo medaglione, che porterai sul petto. E’
difficile che, da qui a Saòmo, abbia modo di
incontrare gente ostile ma, l’averlo in vista, ti metterà
al sicuro, qualunque persona della Terra di Inòghe
possa incontrare. Solo noi capitribù possiamo
consegnarlo e chi lo porta è ospite sacro e
intoccabile.
- Non ho parole per ringraziati. – Disse Jubayl.
- Lo hai appena fatto.
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CAPITOLO DUE
Attraversando il ponte che univa Skina alla
terraferma, Jubayl notò la cura con cui erano tenute le
assi che formavano la passerella. Nessuno dei legni
mostrava segni di cedimento o di usura, a parte quelle
dovute alle ultime intemperie. Quando fu al centro di
esso, dopo essersi sporto oltre il parapetto, osservò
che vi era solo una leggera corrente che passava sotto
le arcate, in direzione sud. Era talmente lieve che, per
rendersi conto della sua direzione, bisognava
individuare un piccolo oggetto o una foglia trasportata
dall’acqua e seguirla nel suo percorso.
Arrivato alla fine della passerella doveva decidere
in quale direzione proseguire. Andare diritto e arrivare
a Pranu, oppure voltare a sinistra e seguire la costa. Il
percorso più breve sarebbe stato quello che aveva
davanti a se, ma la curiosità e la mancanza di urgenza
nel raggiungere la meta lo indussero a dirigersi verso
sinistra.
Costabascia era pianeggiante, rocciosa, con brevi
intervalli in cui la sabbia depositata dal mare la faceva
da padrona. Ai lati crescevano i cespugli di giunco,
ma la maggior parte della vegetazione era data dalle
erbe spontanee che si incontrano in tutte le coste
marine. Molto più numerosi di quello che si sarebbe
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aspettato erano gli arbusti di ginepro che
raggiungevano, in alcuni casi, l’altezza di veri e propri
alberi.
Poco lontano dal triangolo che divaricava le due
strade, si apriva un bacino artificiale, lungo e largo,
colmo di acqua salmastra poco profonda. Gli argini
del bacino erano stati elevati, per evitare che le
mareggiate fossero in grado di far entrare nuova
acqua. Quella presente, durante il periodo primaverile
ed estivo, sarebbe evaporata lasciando sul fondo la
patina di sale che sarebbe stata raccolta, ammassata
nei nuraghi e usata per insaporire i cibi o per
conservarli durante la lunga stagione invernale. Da
qualche tempo il sale era raccolto anche per essere
scambiato con i prodotti importati dai nuovi arrivati, il
popolo di cui anche Jubayl faceva parte, che lo
barattava con le merci del paese d’origine. La richiesta
di sale era diventata così elevata che, nell’ultimo
anno, il bacino era triplicato in estensione.
All’interno della salina gli uccelli ripulivano i
fondali dalle larve, dai piccoli crostacei e dai
molluschi. Si vedevano in gran numero anatre,
avocette, garzette e fenicotteri rosa. Sulla riva più
lontana nidificavano altri pennuti che Jubayl non
sarebbe stato in grado di identificare.
Stette ai bordi della salina ad osservare i
movimenti lenti e cadenzati degli uccelli all’interno
dello stagno, mentre in alto volavano i gabbiani, che
preferivano tenersi al di sopra delle acque di
Abbabàscia, alla ricerca dei pesci da catturare,
tuffandosi all’improvviso dopo aver individuato la
preda.
Durante il tragitto Jubayl poté notare il
cambiamento di vegetazione. Sulla destra della strada
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si estendeva una pineta di cui non vedeva la fine. La
riva era deserta e ripiegava verso l’interno, impedendo
di vedere cosa vi fosse oltre il gomito della costa.
Arrivato in quel punto si trovò davanti la foce di un
fiume. Era stato allargato dalla mano dell’uomo per
renderlo navigabile, infatti, più a monte, poteva
vedere alcune imbarcazioni dal fondo piatto che
avevano, al centro dello scafo, un albero con, in alto,
un anello di bronzo e delle cime che calavano da esso.
Nessuna barca aveva le vele issate. Non erano neppure
a bordo, salvo su una che, comunque, l’aveva
arrotolata lungo la fiancata. Le barche sembravano
agili anche se non particolarmente comode. Solo una
panca di legno si trovava a poppa dell’imbarcazione,
congiungendo le due fiancate.
Sulla riva destra del fiume si trovava il villaggio di
Matzèrra. Era composto da una trentina di capanne
circolari, costruite attorno a delle piccole piazze.
Non aveva ancora incontrato nessuno. Le sole
persone che riusciva a vedere erano accanto alle
imbarcazioni più lontane, troppo impegnate a fare
qualcosa per notarlo. Da lontano sentiva dei cani
abbaiare, più lamentosi che preoccupati della sua
presenza. Osservò per qualche minuto il villaggio e le
rive del fiume, quindi decise di proseguire.
Dopo aver verificato come l’unica possibilità di
arrivare dall’altra parte del fiume, senza bagnarsi,
fosse quella di usare il ponte che stava a monte del
villaggio, decise che, tutto sommato, prendere in
prestito una delle piccole imbarcazioni ormeggiate lì
davanti, non sarebbe stato così grave. Depositò lo
zaino che portava con se all’interno di una di esse e
approdò sull’altro lato del fiume. Riprese, quindi, il
proprio cammino, dirigendosi verso quella parte di
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costa che avrebbe imparato a conoscere e a
identificare come Marecàrmu.
Malu e Pizzinu avevano rispettivamente undici e otto
anni. Per tutta quella giornata avevano avuto l’ingrato
compito di custodire le pecore della famiglia e degli
amici del padre.
Alzarsi all’alba, aiutare nella mungitura, portare al
pascolo le bestie, sorvegliarle durante il giorno,
evitando che si disperdessero o che provocassero
incidenti, riportarle al tramonto all’interno degli ovili
per la mungitura serale, non era certamente il modo in
cui i due ragazzi avrebbero voluto trascorrere quella
giornata. Non avevano avuto scelta. O meglio,
l’alternativa esisteva e consisteva nel subire la
punizione da parte del genitore, a base di schiaffi e di
frustate. Non avrebbero avuto la certezza che questo
avrebbe significato evitare di dover andare,
comunque, al pascolo.
I due ragazzi avevano condotto il gregge fino a
Riotròttu, il fiume che, scendendo da Serrone Artu, si
riversava in mare a lato della grande spiaggia di
Mantalonga, dopo aver allagato lo stagno di
Abbamàla.
L’erba migliore si trovava sul lato sinistro del
fiume e il guado era facile da superare. Il pericolo
consisteva nella possibilità che le bestie finissero sui
terreni del nuraghe del Tempio. I rapporti fra le
popolazioni dei due nuraghi non erano buoni. Ci si era
adattati a convivere all’interno della Federazione per
convenienza, e sembrava che la coesistenza, dopo
tanti anni, avesse modificato o attenuato i rancori
atavici. A questo aveva contribuito la contemporanea
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elezione di due cugini a capotribù: Sàbiu, nel nuraghe
del Tempio ed Erettu a Nurachenòu. Con la morte di
Erettu i rapporti erano tornati all’antico e capitava che
un nonnulla, una scintilla qualunque, appiccasse un
incendio enorme.
- Evitate di varcare il fiume. - Il padre di Malu e
Pizzinu era stato categorico.
Durante quella giornata lui sarebbe stato troppo
occupato, con i suoi amici, a cacciare i cinghiali sulle
pendici della montagna e non avrebbe potuto
occuparsi degli animali.
Quelle erano state le consegne, ma figurarsi se due
piccoli guerrieri, e Malu in particolare, si sarebbero
spaventati di fronte alla minaccia di qualche botta.
Appena arrivati al fiume, via a condurre le bestie
sull’altro lato, solo per sfidare gli ordini del genitore.
Tutto si svolse senza problemi fino all’ora di
pranzo. Tutto era calmo fino a che non ebbero finito di
mangiare. Dopo pranzo Malu svelò l’idea che aveva
covato per tutto il giorno.
- Ti lascio per un po’. Vado a vedere se le uova del
falco si sono dischiuse. – Disse a Pizzinu.
- Non voglio restare solo. Le pecore possono
scappare.
- Dove vuoi che vadano?
- Non lo so. Ma non voglio rimanere solo.
- Tornerò presto.
- Se andrai via, lo dirò a babbo.
- Così le buscherai da me e anche da lui.
Pizzinu scoppiò a piangere, avvilito per la sua
impotenza e per la prepotenza del fratello.
Malu non voleva andare via lasciando il fratello in
lacrime. Cercò di tranquillizzarlo con la promessa di
rientrare al più presto, con l’impegno di trovare un
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falchetto da regalargli e che avrebbe potuto allevare
da solo.
Malu doveva arrivare fino ai costoni più elevati di
Costera e pur sapendo dove trovare il nido, era
cosciente che la sua assenza sarebbe stata più lunga di
quanto avesse assicurato al fratello. Per
tranquillizzarlo ulteriormente, gli lasciò il cane perché
lo aiutasse nella custodia delle bestie.
Pizzinu, a malincuore, dovette rassegnarsi a vedere
andar via Malu, al quale chiese ancora una volta: -
Torna presto, per favore.
Dopodiché si distese sotto l’albero di leccio, al
riparo del quale avevano pranzato, e fissò le foglie in
alto, sperando di crescere nel più breve tempo
possibile, per essere finalmente in grado di ribattere
alle prepotenze che subiva a causa della sua giovane
età. Di tanto in tanto dava uno sguardo alle pecore che
brucavano indolenti accanto a lui. Senza rendersene
conto fu avvolto dal mantello del sonno, mentre il
cane se ne stava accucciato al suo fianco.
D’improvviso, senza una ragione, le pecore
cominciarono ad avviarsi lungo il sentiero che portava
ai campi del nuraghe del Tempio, senza che il cane
riuscisse a trattenerle. Pizzinu, intanto, dormiva così
profondamente che non si rese conto di nulla.
Al suo risveglio, molto più tardi, capì
immediatamente cosa era successo. Sperava
solamente che le pecore non fossero andate nei campi
seminati. Si mise a correre a perdifiato, nella speranza
di raggiungere gli animali, e alla fine li vide, là in
fondo, proprio dove non avrebbero mai dovuto essere:
nei campi di grano del villaggio del Tempio. Con la
disperazione nel cuore accelerò l’andatura, per quanto
potevano consentirgli le gambe.
24

Ma la cosa peggiore doveva ancora vederla. Tre
giovani guerrieri della caserma, accortisi di quanto
stava accadendo e capito che il gregge poteva
provenire solamente da Nurachenòu, anziché limitarsi
a scacciarlo e tentare di limitare i danni, dopo aver
ucciso il cane, avevano cominciato ad ammazzare le
pecore. Quando Pizzinu raggiunse i guerrieri, decine
di bestie giacevano inanimate al suolo.
- Smettetela. Non ammazzate le mie pecore. -
Invocò a gran voce.
I tre guerrieri, abbandonate le bestie, cominciarono
a malmenare il piccolo pastore e quando questi, in un
impeto di rabbia e di ribellione, raccolse un bastone
per difendersi, fu colpito da un fendente di spada
inferto da uno di loro, quello che più degli altri subiva
il fascino dell’arroganza e della prepotenza verso il
più debole, e la testa di Pizzinu si aprì in due parti.
Colpiti dal gesto del compagno, gli altri due
guerrieri restarono ammutoliti di fronte all’assassinio,
a sangue freddo, di un bambino spaventato e indifeso.
La solidarietà tra commilitoni ebbe, alla fine, il
sopravvento e dopo aver finito con la spada le bestie
rimanenti, cercarono di far sparire il corpo del piccolo
sotterrandolo in un tratto di bosco poco distante, nella
speranza che non fosse mai più ritrovato.
Dopo averlo seppellito, i tre guerrieri si avviarono
verso la caserma, con l’intento di denunciare la
devastazione compiuta dalle pecore di Nurachenòu,
sapendo bene che questo avrebbe provocato come
ritorsione una spedizione punitiva, per far pagare alla
gente di quel nuraghe il danno provocato dagli
animali.
Malu, rientrato dalla sua ricerca dei falchi, una
volta arrivato sul luogo dove aveva lasciato il fratello,
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intuito che era accaduto qualcosa, si avviò verso i
campi seminati. Proprio quando fu in vista dei campi
di grano si immobilizzò di fronte a tanto orrore: non
poteva credere a quello che vedeva. Non poteva
credere che degli uomini, preposti alla difesa del
territorio e delle persone che lo abitavano, infierissero
su degli animali incolpevoli e uccidessero un bambino
indifeso.
Ciò che Hisarad aveva da riferire, a nome di Hiraim,
re di Biblo, non sarebbe stato piacevole per i suoi
interlocutori.
Biblo sorgeva su un promontorio poco distante dal
mare. Due corsi d’acqua garantivano la difesa della
città, l’approvvigionamento idrico per la popolazione
e, insieme, assicuravano l’irrigazione dei piccoli
appezzamenti di terreno coltivati con alberi da frutto
ed ortaggi. La città, fiorente come mai era stata prima,
rischiava di precipitare nuovamente nella miseria. La
corte non ne avrebbe sofferto, ma il resto degli
abitanti e i mercanti, pilastro dell’economia della città,
sicuramente sì, se non si fosse trovata una nuova fonte
di ricchezza, dopo che gli egiziani avevano
ricominciato ad essere particolarmente esigenti e pieni
di pretese per la protezione che, a loro dire,
garantivano alla città.
Biblo, una delle città più imponenti, doveva fare i
conti anche con la concorrenza delle altre città fenicie,
dopo che il tentativo di federarsi e organizzarsi in uno
Stato sufficientemente forte, capace di respingere gli
attacchi militari dei cananei e dei siriani, da una parte,
e la protezione piuttosto cara dei faraoni, dall’altra,
era miseramente fallito.
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Ora che Jubayl si era allontanato per andare a
trovare il suo amico capotribù, il capitano dell’ultima
nave arrivata e i cinque fenici residenti a Sulci
potevano parlare liberamente, lontano dalle orecchie e
dagli scrupoli di quell’uomo. Un uomo a cui la città
doveva molto, ma che aveva cominciato a diventare
ingombrante. La sua richiesta di lasciare la flotta era
stata accolta immediatamente dal re, prima che questi
dovesse escogitare qualcosa per metterlo da parte.
- Il re non è contento dei vostri risultati. Devo dire
che, a vedere ciò che siete riusciti a costruire, non ha
tutti i torti. – Disse Hisarad.
- Cosa intendi dire? – Ribatté Sancun.
- Guardati intorno. Ti sembrano abitazioni in cui
si possa vivere? Niente intonaci alle pareti, nessun
colore a rendere accogliente l’interno. Mobili che
nessun pezzente a Biblo accetterebbe. Nella nostra
città neppure gli schiavi vivono in tuguri simili. Non
c’è un legno intagliato, non un tavolo levigato e
lucidato. Per non parlare dei vestiti. E voi sareste i
rappresentanti dell’aristocrazia e degli uomini liberi,
dediti alla prosperità della città? E i magazzini?
Vuoti. Dove sono i prodotti di questa terra che
dovremmo scambiare con l’oro, l’argento, gli avori, i
gioielli, da portare in città? O il grano per sfamare la
nostra popolazione e il legno per rifinire le nostre
navi? E il sale da portare ai popoli che ne hanno
necessità, e l’olio e i legumi? Dove sono? Ditemi?
- Tu credi sia facile vivere con questa gente? Sono
pigri e fannulloni, come mai mi era capitato di
vedere.
- Siete voi che avete dimenticato la bellezza dei
nostri palazzi, il colore dei muri e delle finestre, i
fregi dei balconi e dei terrazzi. Avete scordato le
27

strade lastricate, dove si può camminare senza
sporcarsi neppure d’inverno. Avete scordato i templi
dove si rende omaggio ad Astarte, a Baal e a
Melquart.
- Non sai quello che dici. Tu pensi di essere a
Biblo e condurre la vita circondato dai parenti e dagli
amici, protetto dalle leggi che abbiamo ereditato dai
nostri padri, e non capisci che qui siamo in un altro
mondo, dove nulla di ciò che conosci ha valore.
- Se non ha valore per loro, mostrate
quell’autorità che vi consente di realizzare quei lavori
che sono necessari.
- Sei matto. Nessuno costruisce per te, se sei in
condizione di fare il lavoro.
- Voi offrite di più.
- Non capisci. Qui tutti lavorano per produrre ciò
che è necessario per i loro miseri bisogni, oppure
aiutano chi non è in condizione di farlo da sé. Per i
lavori comuni è il capotribù a decidere come
procedere.
- Possibile che non ci sia nessuno interessato alla
ricchezza e al benessere?
- In questo luogo, la ricchezza e il benessere sono
dati dall’avere un ricovero per la notte e per ripararsi
dal freddo o dal caldo, e riuscire a mangiare tutti i
giorni. Le loro bestie offrono cibo e vestiti e sono
contenti così. Sono anche permalosi. Se vengono
contrariati eccessivamente non hanno remore ad
aprirti in due con i loro spadoni.
- Non esiste un posto dove l’oro o l’argento non
siano abbastanza allettanti.
- Beh. Quel posto esiste e l’hai trovato. Questa è
gente che non è interessata alla ricchezza e al lusso.
Non gli interessa l’oro. Non conoscono quasi
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l’argento e una volta che riescono ad avere un
monile, dopo qualche giorno è già dimenticato.
- La verità è che a voi non interessa nulla dello
sviluppo della nostra città e dei desideri del nostro
sovrano.
- Ti sbagli. Nessuno meglio di noi è capace di
apprezzare la comodità. Ma in queste terre essa non
ha asilo. Ci si accontenta dell’indispensabile e, a
vederli, sembrano felici così.
- In ogni caso, ho l’ingrato compito di comunicarvi
che se, entro il prossimo anno, non avrete dei risultati
concreti, facendo di questo scalo un centro attivo e
capace di agevolare le navi che portano i prodotti nel
nostro paese, ne subirete le conseguenze. Vi assicuro
che, al vostro posto, ci metterei tutto l’impegno
possibile.
- Questo vuol dire che nessuno ci darà il cambio?
Che non ci sarà consentito di rientrare a Biblo con
te?
- Non ci sarà nessun avvicendamento per voi.
Avete ancora un anno per dimostrare di essere degni
di rientrare. Oppure sarete condannati a restare in
questo luogo.
- Di noi cosa si dice? Sanno che ci troviamo qui? -
Chiesero Hadad e Bahitil.
- Sanno benissimo dove siete e contavano sul fatto
che, con le vostre capacità di convincimento e di
corruzione, foste capaci di aiutare quelli come
Sancun, Bethel e Shafon, che devono agire con
maggiore diplomazia. A voi invece, giacché il re e il
governo non dovrebbero essere a conoscenza della
vostra presenza in questo posto, non sono posti
vincoli particolari. Almeno per riconoscenza, perché
vi è stata concessa la vita, si sperava poteste essere
29

d’aiuto. Ma, a quanto pare, anche su voi, ci si era
sbagliati.
- Pensi che ci sarà concesso di tornare a casa,
magari fra qualche tempo?
- Fossi in voi lo escluderei. La vita, in ogni caso,
riserva delle sorprese.
Era metà mattina quando Jubayl decise di fare una
sosta e, dove le rocce formavano un comodo sedile, si
sedette a riposare. Davanti a sé aveva la punta nord di
Skina, mentre poteva vedere, in tutta la sua ampiezza,
il tratto di mare che separava l’isola da quella di Pisci.
In lontananza si scorgevano il villaggio e il nuraghe di
Sulci.
La sua attenzione fu attirata da un cormorano che
si immergeva sotto il pelo dell’acqua, poco distante
dal luogo in cui si trovava. Non sembrava alla ricerca
di cibo. Sembrava invece esercitarsi nella esecuzione
di una danza complicata e nello sfidare se stesso a
stare il più a lungo possibile sott’acqua. Benché lo
osservasse da parecchio, mai una volta, Jubayl, lo
aveva visto con un pesce nel becco o nell’atto di
ingurgitare qualcosa. La calma dei suoi tuffi e dei suoi
movimenti lo inducevano a pensare che non fosse
affamato, ma stesse semplicemente godendosi la bella
giornata.
Bella, la giornata, lo era davvero. Il cielo era
azzurro e completamente sgombro di nuvole. Il sole
era tiepido e piacevole. Seduto sulle rocce, Jubayl
aveva perso la nozione del tempo. Cominciava a
sentire un certo appetito e stava prendendo in
considerazione l’idea di mangiare una fetta di pane,
quando la sua attenzione fu attirata dalla vista di un
30

uomo che risaliva la costa, tenendosi ai bordi del
mare.
Quest’uomo compiva delle azioni che Jubayl non
riusciva a capire. Si teneva lungo gli scogli che
lambivano il mare e aveva in mano un bastone, non
troppo lungo ma particolarmente flessibile. Nella
parte inferiore che, di tanto in tanto, immergeva
nell’acqua, c’era legato qualcosa che da quella
distanza non poteva vedere distintamente. L’uomo,
quindi, sollevava il bastone e, di frequente, a questo
era attaccato un pesce. Non era una fiocina, almeno
non di quelle che conosceva, ma non avrebbe saputo
dire cosa fosse quello strumento che consentiva a
quell’uomo di pescare. Poi lo vedeva compiere dei
gesti che Jubayl riusciva a capire ancora meno. In
alcuni casi impugnava un bastone corto e robusto e lo
batteva sul pesce, dopo averlo poggiato sulle rocce,
evidentemente per ucciderlo, oppure infilava in bocca
il pesce e dopo un morso lo riponeva nel sacco che gli
pendeva sul fianco, assieme a quelli che aveva colpito
col bastone.
Risaliva la costa lentamente, controllando ogni
piega degli scogli prima di usare il bastone e una volta
scelta una pozza, lo immergeva con cautela e
precisione. L’uomo si era fatto più vicino e Jubayl ora
poteva notare che, dopo aver pescato un pesce e dopo
averlo riposto, ne prendeva un altro dalla tasca della
giubba e ne staccava un pezzo con i denti. Fatto
questo infilzava il pezzo su quello che sicuramente era
un amo, legato ad un filo non più lungo di un palmo.
- Gli dei siano con te. – Lo salutò Jubayl, quando
l’uomo si fu avvicinato abbastanza.
- Perché tu non sai più che fartene? – Fu la
risposta che ricevete in cambio.
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- E’ solo un modo di dire. E’ il modo che usiamo
per salutare. - Replicò Jubayl, più stupito che
interdetto.
- Anche noi salutiamo allo stesso modo, ma volevo
vedere quale sarebbe stata la tua reazione. Non ci
siamo mai incontrati, eppure sono abbastanza vecchio
e tu non sei più di primo pelo. Credo che tu non sia di
uno dei villaggi della Terra di Inòghe.
- E’ vero. Vengo da una terra che sta a molti
giorni di navigazione da qui.
- Allora sei uno di quelli che sono venuti per
insegnarci come si fanno i figli?
- Ho il sospetto che ce l’abbia con noi. E’ così?
- Non direi. Francamente non mi disturbate per
niente, ma trovo che siate un po’ troppo presuntuosi e
che pensiate di sapere tutto della vita. Invece sono
invecchiato anche senza di voi e non sentivo la
necessità della vostra presenza. Ma, visto che ci siete,
dovreste cercare di ascoltare di più e parlare e
sentenziare di meno.
- Mi spiace che ti abbiamo fatto questa
impressione.
- Non so se anche tu sei come gli altri o se sei
diverso. Se sei venuto per insegnarci, o insegnare a
me, come vivere, non farlo, non mi piacerebbe e mi
diventeresti antipatico. Piuttosto, vedo che conosci
Sorcu, il nostro capotribù.
- Come fai a saperlo?
- Solo lui può averti dato il medaglione che porti al
collo e che ti identifica come ospite gradito, che deve
essere rispettato da chiunque ti incontri.
- E’ vero, è stato lui a darmelo.
- Allora? Chi sei?
- Il mio nome è Jubayl e non ti dirà sicuramente
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niente ma, forse, un fatto accaduto circa cinque anni
fa potrebbe aiutarti a capire chi sono. A quel tempo
arrivò su questa terra una flotta, che lasciò su queste
coste degli uomini, per voi stranieri, e che oggi sono
alloggiati sulla parte meridionale di Skina. Ebbene,
quella flotta era ai miei ordini. Per questo conosco
Sorcu e conosco anche Crecu. E’ da lui che sono
diretto.
- Il mio nome è Nìbaru e non credo di essere
troppo importante. Ero troppo avanti con gli anni per
essere tra quelli che, in armi, attendevano il vostro
sbarco ed ero poco curioso per andare a vedere da
vicino. Ho sentito raccontare di te molte volte e, ad
ogni versione, venivano aggiunti nuovi particolari,
tanto che, alla fine, sembravate sbarcati in almeno
una dozzina di modi differenti.
- Succede sempre così nei racconti. Mi spiace se
non ti sono simpatico. – Disse Jubayl.
- Non darti troppe arie. - Rispose Nìbaru. – Non mi
sei antipatico più degli altri. A me sono poco
simpatici tutti, indistintamente. Comunque, che gli dei
siano con te. – Concluse Nìbaru, sedendosi su una
roccia, poco distante da dove si trovava Jubayl.
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CAPITOLO TRE
- Nonno, chi erano quelli che avevano la maschera sul
viso, ieri e gli altri giorni, alla cerimonia del Tempio
del Pozzo?
Istore, il figlio di Ebra, aveva quasi sei anni. Aveva
partecipato, come tanti bambini, alle manifestazioni
che si erano tenute al Pozzo Sacro del nuraghe del
Tempio, restandone impressionato. Ora, finite le
cerimonie, poteva chiedere spiegazioni al nonno.
- Erano le stesse persone che vedi tutti i giorni e
che, anche tu, conosci. – Rispose Crecu.
- Perché, allora, ieri avevano la maschera, mentre
gli altri giorni non la portano?
Crecu aveva terrore dei “perché?” del nipote.
Sapeva quando cominciavano. Sapeva, anche, che la
conclusione delle domande sarebbe stata molto
lontana.
- Perché quella di ieri, e quella degli altri giorni,
era la festa di ringraziamento alla grande Madre
Terra per averci donato la vita.
- A me, facevano paura.
- Non bisogna avere paura. Ci sono poche cose
che possono farci del male. Ci vuole poco per evitare
il pericolo.

- La nonna dice sempre che ci sono animali cattivi
ed anche uomini cattivi, dai quali bisogna stare
lontani.
- Ha ragione, anche se qualche volta si preoccupa
eccessivamente. Devi solamente stare attento a non
allontanarti troppo dalla capanna.
- Perché ci sono persone cattive?
- Non possiamo saperlo mai con certezza se sono
persone cattive. Per questo, i bambini devono
chiedere ai grandi.
Dopo aver meditato sulle risposte del nonno, Istore
ricominciò con le domande sulla cerimonia del Pozzo.
- Chi erano quelli che avevano le pelli bianche e la
maschera con le corna?
- Raffiguravano i buoi e le mucche che aiutano gli
uomini nel lavoro nei campi, che ci danno la carne
per saziarci e il latte da bere o per fare il formaggio.
- Perché?
- E’ il dono che gli dei hanno fatto agli uomini
perché ci vogliono bene, perché non ci manchi nulla.
- Perché?
- Questo non lo so.
- La nonna dice che sai sempre tutto. Altre volte
afferma che non sempre dici la verità.
- E’ questo che ti riferisce la nonna?
- Non lo dice a me. Però ho sentito che lo diceva a
Brùscia, quando è venuta a trovarla.
- Stava solo scherzando.
- A me sembrava seria.
Istore era certo di quello che affermava e voleva
sapere se anche il nonno, una persona adulta, che gli
spiegava ed imponeva di dire sempre la verità, fosse
non solo capace di mentire, ma di farlo, anche, di
proposito.
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Crecu non aveva alcuna intenzione di addentrarsi
in una discussione sul vero e sul falso, con un
moccioso e un curioso. Doveva ricordarsi di parlare
con Tira a proposito della sua capacità di mentire.
Perciò chiuse il discorso col nipote con un perentorio:
- Ti sbagli.
- Chi erano quelli vestiti di nero che cercavano di
guidare i buoi? – Chiese ancora Istore, indifferente
della reazione del nonno e troppo curioso di conoscere
il resto dei misteri della cerimonia.
- Quelli erano i bovari. Erano gli uomini che, tanto
tempo fa, per primi, erano riusciti ad aggiogare i buoi
per allevarli.
- Perché la loro maschera è così brutta?
- Perché gli uomini antichi erano brutti.
Successivamente, con l’aiuto degli dei e con i doni che
ci hanno fatto, siamo diventati più belli.
- Però ci sono ancora uomini brutti. Ci sono anche
nel nostro villaggio. Perché sono ancora brutti? Gli
dei non gli vogliono bene?
- Non sono brutti.
- Sì. Li ho visti. Sono brutti.
- Non sta bene dire queste cose. Non è buona
educazione parlare della bellezza degli altri.
- Ma è vero.
- Non si deve dire lo stesso.
- Allora bisogna dire una bugia?
- Non bisogna dire una bugia. Non bisogna dire
niente e basta. Se qualcuno non ti piace, non devi
dirgli che è brutto. Non devi parlare di bellezza. Hai
capito?
- No. – Ad Istore tornavano a confondersi le idee.
Se si doveva sempre dire la verità, la si diceva. Cosa
significava che, a volte, invece, si doveva tacere? Non
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era mentire anche questo? La vita degli adulti è così
ingarbugliata e poco chiara. Decise di non insistere.
- Non fa niente. Te lo spiegherò un’altra volta. –
Tagliò corto Crecu.
- Quelli che lanciavano il laccio, chi erano?
- Erano i cacciatori.
- Perché lanciavano il laccio?
- Per catturare le donne più belle.
- Perché?
- Perché tutti gli uomini hanno bisogno di una
donna che faccia loro compagnia e scelgono una
bella donna per sposarsi e per far nascere i bambini.
- Perché non scelgono le brutte?
- Ti ho già detto che non ci sono persone brutte.
- Sì, che ci sono persone brutte. Tante. Anche
Brùscia è brutta.
- Smettila. Ti ho detto che te lo spiegherò un’altra
volta.
Questa volta la reazione di Crecu era stata piuttosto
sgarbata. Istore non se l’aspettava. Il nonno non si
irritava mai con lui, anche se lo aveva visto diverse
volte adirato e non gli era piaciuto. Pensava che con
lui non sarebbe stato mai cattivo, invece questa volta
aveva perso la calma e si sentiva ferito. Era anche
impaurito dalla reazione che aveva suscitato. Stavano
arrivando le lacrime e non aveva voglia di fermarle.
- Non vorrai metterti a piangere come le bambine,
ora? Quando mai i guerrieri si mettono a piangere?
Istore riuscì a fermare le lacrime e a calmarsi. Per
il nonno continuava ad essere il piccolo guerriero.
Questo stava a significare che non era così arrabbiato,
come sembrava. Attese ancora qualche secondo per
accertarsi che la sfuriata fosse terminata e appena
intravide un sorriso sul viso di Crecu, Istore ripartì
37

con le domande.
- Quelli che avevano i campanacci sulle spalle, chi
erano? Perché saltavano in quel modo?
- Rappresentano gli spiriti che vivono nella terra,
nell’aria e nell’acqua. Saltare è il loro modo di
muoversi da una parte all’altra.
- Sono tutti uguali?
- Non sono tutti uguali. Sono diversi fra loro, ma
poiché noi non possiamo vederli, li rappresentiamo
con una sola maschera.
- Come facciamo a sapere che ci sono?
- Lo vediamo grazie ai prodotti della terra che ci
danno. Ci hanno dato gli animali per saziarci e per
aiutarci nei lavori. Ci hanno dato le erbe e i frutti che
possiamo mangiare. Ci hanno dato gli alberi per il
fresco e per costruire le capanne. Anche le pietre ci
sono utili e le utilizziamo per fare tante cose. Hai
capito?
- Non tutto. E’ difficile capire quello che dici.
- Vedrai che fra qualche anno tutto ti sembrerà
semplice.
- Nonno, posso andare a giocare ora? – Disse
Istore, stanco di tutte queste cose che non capiva.
- Sì, piccolo guerriero. Vai pure a giocare. Ma stai
attento a non farti del male. – Rispose Crecu,
sperando che, almeno per quel giorno, i “perché?” del
nipote, fossero terminati.
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