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Kurosawa - Veramente.org

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equisitoria: «Che cosa c’è di male a dire la verità? Lanciano una bomba<br />

atomica e si offendono se uno glielo ricorda. Capisco che vogliano dimenticare,<br />

ma non fingano che non sia mai successo». Le parole di Kane appaiono dure,<br />

quasi beffarde, certamente sgradevoli per una certa America, ma poi, senza<br />

soluzione di continuità, cedono il passo all’espressione di una pietà sincera:<br />

«Hanno detto che la bomba l’hanno lanciata per mettere fine alla guerra. Ormai<br />

la guerra è finita da quasi cinquant’anni, ma la bomba continua a fare la sua<br />

guerra. Non passa giorno che non uccida ancora». E conclude, la vecchia nonna,<br />

con un generico appello per l’umanità: «Tutto questo è solo colpa della guerra.<br />

Gli uomini fanno di tutto per vincere la guerra. In questo modo finiranno per<br />

distruggerci tutti». Il breve discorso, così bilanciato nelle motivazioni da<br />

non apparire coerente, non sembra tale da giustificare polemiche se non in chi<br />

si sente coinvolto per senso di colpa. E polemiche non sono in grado di<br />

giustificare gli altri minimi riferimenti politici. Durante la visita di<br />

Nagasaki, per esempio, i ragazzi si fermano di fronte ai monumenti<br />

commemorativi regalati da Stati esteri. «Manca quello americano», osserva uno.<br />

Gli replica l’altro: «Ragiona, sono stati loro a lanciare la bomba». O ancora<br />

la sottolineatura presente nel dialogo, e peraltro smentita dallo sviluppo<br />

degli avvenimenti, secondo cui i nippoamericani non vorrebbero gli si<br />

ricordasse di essere stati in salvo negli anni di guerra nel Paese nemico.<br />

Ci sono invece bugie e omissioni di cui gli americani dovrebbero essere grati<br />

a <strong>Kurosawa</strong>. La bomba di Nagasaki non è stata lanciata, come finge di credere<br />

Kane, per porre fino alla guerra (forse quella di Hiroshima servì allo scopo, o<br />

meglio a contenere le perdite americane nel conflitto, non certo quella dì<br />

Nagasaki). <strong>Kurosawa</strong> non sostiene che il Giappone fu vittima dell’atomica perché<br />

abitato da «musi gialli» contro i quali si potevano usare gli strumenti di<br />

morte non permessi contro gli europei. Infine, non ricorda la totale<br />

disattenzione che gli americani, abituati ad inviare nei porti dell’arcipelago<br />

navi con armamento atomico, continuano ad avere per la sensibilità giapponese<br />

sul problema nucleare. Con buona pace degli americani, non c’è manicheismo in<br />

questo film, ma solo una requisitoria, forse un po’ gridata, certo un po’<br />

sentenziosa, ma tutta diretta contro la guerra. E, come sempre in <strong>Kurosawa</strong>, c’è<br />

la scelta di affrontare il sociale come momento del dramma privato, in questo<br />

caso quello di una donna che sovrappone le considerazioni sull’angoscia<br />

planetaria al timore della propria morte.<br />

Con Rapsodia in agosto <strong>Kurosawa</strong> torna dopo vent’anni a girare un film d’<br />

ambiente contemporaneo che rappresenta anche la sua prima produzione<br />

interamente giapponese dal 1970. Ma né quell’ormai lontano Dodès’ka-den, nella<br />

sua singolare cifra stilistica, né il più lontano Anatomia di un rapimento,<br />

ultima su opera «neorealista», possono costituire il precedente anello di quest<br />

<strong>Kurosawa</strong> d’ambiente contemporaneo. Insomma, superati gli ottanta, il maestro<br />

giapponese si contraddice e si rinnova. E crea un’opera inedita che,<br />

indipendentemente dagli esiti, occupa un posto a sé nella filmografia del<br />

maestro. Rivisitazione della storia del Giappone contemporaneo e insieme della<br />

tradizione drammatica nipponica. Ecco dunque realismo e poesia in uno strano<br />

connubio che costituisce uno degli aspetti più singolari del film. Un realismo<br />

sobrio, scarno fino allo schematismo: lontanissimo da quello di cui il <strong>Kurosawa</strong><br />

degli esordi era stato maestro. Un realismo che, nella sua pretesa di<br />

comunicazione, giunge a dividere la società giapponese in segmenti<br />

incomunicabili, quelli generazionali. Ma ecco anche una tensione poetica che<br />

non rifugge dall’onirismo e dalla visionarietà.<br />

<strong>Kurosawa</strong> sottolinea questi mondi con differenti cifre stilistiche modellate<br />

nel solco della cultura generazionale dei personaggi. Attorno alla vecchia

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