Kurosawa - Veramente.org
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Ordine degli Architetti Verona e Cineclub Verona<br />
presentano<br />
OMAGGIO ALL’IMPERATORE<br />
Akira <strong>Kurosawa</strong> (黒澤 明) (Ōta, 23 marzo 1910 – Setagaya, 6 settembre 1998)<br />
Lo chiamavano “Tenno” <strong>Kurosawa</strong>, “Tenno” vuol dire Imperatore, e del cinema, come pochi altri è stato il<br />
vero “Imperatore”, non solo per la lunga carriera, per i tanti film, per i premi, ma, per l’idea che ha<br />
innalzato il cinema a arte suprema. Ogni suo film, infatti, esalta la commistione delle arti, dalla pittura alla<br />
musica, dall’architettura alla coreografia, dal teatro alla narrativa, fino alla poesia, alla grande poesia del<br />
suo cinema. Il breve cammino che proponiamo cerca di darne un’immagine varia nel centenario della sua<br />
nascita, un breve gioco per invitare il pubblico a affrontare lo spettacolare corpo della sua Arte.<br />
L’Ordine degli Architetti di Verona e il Cineclub Verona hanno pensato a questo omaggio in nome di una<br />
cultura, quella della scenografia cinematografica, che fin dalle origini ha portato l’Architettura<br />
nell’immagine cinematografica. Una cultura di cui Akira Kurasawa era sicuramente l’Imperatore.<br />
I film<br />
Lunedì 22 novembre ore 21<br />
L'angelo ubriaco (Yoidore Tenshi, 1948, 98’)<br />
Regia : Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Soggetto: Akira <strong>Kurosawa</strong>, Keinosuke Uegusa<br />
Sceneggiatura: Akira <strong>Kurosawa</strong>, Keinosuke Uegusa<br />
Fotografia: Takeo Ito<br />
Musiche: Fumio Hayasaka<br />
Montaggio: Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Scenografia: So Matsuyama<br />
Interpreti: Choko Iida (vecchio servitore), Michiyo Kogure (Nanae), Toshiro Mifune<br />
(Matsunaga, gangster), Chieko Nakakita (Miyo, infermiera), Noriko Sengoku<br />
(Gin, ragazza del bar), Takashi Shimura (Sanada il medico), Eitaro Shindo<br />
(Takahama), Reisaburo Yamamoto (Okada, il boss)<br />
Produzione: Sojiro Motoki per Toho<br />
Nei bassifondi di Tokio nasce una strana amicizia fra un giovane capomafia malato di Tbc ed un<br />
medico alcolizzato che tenta di salvarlo.<br />
Giudicato dai critici giapponesi il miglior film del 1948, <strong>Kurosawa</strong> traccia a partire dall'immondo<br />
acquitrino dove s'affaccia la "clinica" del medico umanista e ubriacone un memorabile ritratto del<br />
disordine postbellico attraverso un rapporto di amore-odio tra due falliti. Angosciante, stridente,<br />
implacabile, eppure soffuso di una luce di speranza, e di riscatto, è sostenuto da due interpreti<br />
eccezionali, Shimura e l'esordiente Mifune, che saranno negli anni '50 e '60 i suoi interpreti<br />
favoriti. "... è il primo film totalmente libero da impedimenti esterni che abbia diretto" (A.<br />
<strong>Kurosawa</strong>). Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli<br />
Lunedì 29 novembre ore 21
Rashomon (Rashōmon, 1950, 84')<br />
Regia: Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Soggetto: Da due racconti di Ryunosuke Akutagawa<br />
Sceneggiatura: Shinobu Hashimoto, Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Fotografia: Kazuo Miyagawa<br />
Musiche: Fumio Hayasaka<br />
Montaggio: Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Scenografia: So Matsuyama<br />
Interpreti: Toshiro Mifune Tajomaru, Il bandito, Machiko Kyo Masago, Masayuki Mori<br />
Takehiro, Il samurai, Takashi Shimura Il boscaiolo, Minoru Chiaki Il bonzo,<br />
Fumiko Homma La maga, Daisuke Kato Il servo, Kichijiro Ueda Il passante,<br />
Kigigiro Vedo La guardia<br />
Produzione: Jingo Minoru per Diadei<br />
Sotto il portico del tempio del dio Rasho a Kyoto nel XV secolo un boscaiolo, un bonzo e un servo<br />
rievocano un tragico fatto di sangue, giudicato in un tribunale davanti al quale hanno deposto<br />
come testimoni: un bandito aveva aggredito un samurai che, in compagnia della moglie,<br />
attraversava una foresta, uccidendo l'uomo e violentando la donna. Alla prima versione dei fatti<br />
data dal bandito segue quella della donna: entrambe sono raccontate dal boscaiolo. Il bonzo<br />
riferisce una terza versione, fatta dallo spirito del defunto samurai, evocato da una maga. Allora,<br />
riprendendo la parola, il boscaiolo confessa di avere assistito al delitto e racconta ai compagni una<br />
quarta versione, prima di raccogliere un bambino abbandonato e portarselo a casa. Tratto da 2<br />
racconti di Ryumosuke Akutagawa (1892-1927), il dodicesimo film di A. <strong>Kurosawa</strong> vinse a sorpresa<br />
il Leone d'oro a Venezia nel 1951, facendo da battistrada nei festival e sui mercati europei al<br />
cinema giapponese. Scandito dal ritmo ossessivo di un bolero, è un film in cui le diverse<br />
componenti letterarie, psicologiche (persino psicanalitiche) e drammatiche si fondono in una<br />
superiore unità filmica che rimanda al cinema muto e, insieme, anticipa la tecnica televisiva con un<br />
linguaggio febbrilmente barocco nel suo virtuosistico dinamismo. L'incrociarsi delle versioni<br />
contraddittorie serve "meno a sottolineare la vanità o la debolezza umana... che a far sentire<br />
l'abisso che separa le parole e le cose, la soggettività e la realtà... A questo proposito Rashomon è<br />
più vicino a Faulkner che a Pirandello" (J. Lourcelles). Premio speciale agli Academy Awards<br />
1951: l'Oscar per il miglior film straniero fu istituito nel 1956. Rifatto a Hollywood come<br />
L'oltraggio (1964) con la regia di M. Ritt e Paul Newman nella parte di T. Mifune.<br />
Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli<br />
Lunedì 6 dicembre orario speciale ore 20.30<br />
I Sette Samurai (Shichinin no Samurai,1954, 200')<br />
Regia: Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Soggetto: Shinobu Hashimoto, Akira <strong>Kurosawa</strong>, Hideo Oguni<br />
Sceneggiatura: Shinobu Hashimoto, Akira <strong>Kurosawa</strong>, Hideo Oguni<br />
Fotografia: Asaichi Nakai<br />
Musiche: FumioHayasaka<br />
Montaggio: Akira <strong>Kurosawa</strong>;<br />
Scenografia: Kohei Ezaki, Seiton Maeda, So Matsuyama
Interpreti: Yu Akitsu (marito), Minoru Chiaki (Heihachji), Ichiro Chiba (prete),<br />
Tono Eijiro (ladro), Kamatari Fujiwara (Manzo), Bokuzen Hidari (Yohei), Fumiko Homma<br />
(paesano), Yoshio Inaba (Gorobel), Sojin Kamiyama (prete), Tsuneo Katagiri (paesano), Ko<br />
Kimura (Katsushiro), Kuninori Kodo (Gisaku), Yoshio Kosugi (Mosuke), Toshiro Mifune<br />
(Kikuchiyo), Seiji Miyaguchi (Kyuzo), Haruo Nakajima (bandito), Takashi Narita (bandito),<br />
Toranosuke Ogawa (vecchio capo villaggio), Masanobu Okubo (bandito), Senkichi Omura<br />
(bandito), Shin Otomo (bandito), Keiji Sakakida (Gosaku), Noriko Sengoku (moglie di Rikichi<br />
presa dai banditi), Yukiko Shimazaki (moglie di Risichi),Takashi Shimura (Kambei Shimada,<br />
caposamurai), Shimpei Takagi (capo dei banditi), Shuno Takahara (bandito), Akira Tani<br />
(bandito), Yoshio Tsuchiya (Risichi), Keiko Tsushima (Shino, figlia di Manzo);<br />
Produzione: Shojiro Motoki per la Toho<br />
Nel Giappone del XVI secolo in cui orde di soldati sbandati e dediti al brigantaggio saccheggiano<br />
le campagne, la popolazione di un povero villaggio decide di ricorrere ai samurai, nobile casta di<br />
soldati di ventura, nella speranza di trovare qualcuno disposto a impegnarsi in un'impresa così<br />
umile e così poco remunerata. Li trovano. Selezionati dal saggio e disincantato Kambei (Shimura),<br />
cinque rispondono all'appello. Il settimo è il contadino Kikuchiyo (Mifune), miles gloriosus che<br />
vuole conquistarsi sul campo l'onore di essere promosso samurai. Nella strenua difesa del villaggio<br />
quattro dei sette e molti contadini muoiono da prodi. Molti fattori contribuiscono a fare la<br />
grandezza del 14° film di A. <strong>Kurosawa</strong>: la sapienza della costruzione narrativa (1 prologo, 1<br />
epilogo e 4 capitoli: la ricerca dei contadini, il reclutamento dei samurai, l'<strong>org</strong>anizzazione della<br />
difesa, la battaglia che dura tre giorni e tre notti); l'ariostesca varietà degli episodi e dei registri<br />
narrativi unita alla bellezza figurativa di questo affresco corale; la straordinaria galleria dei sette,<br />
ciascuno dei quali rappresenta un diverso aspetto della moralità e del comportamento dei samurai;<br />
la ricchezza dialettica nel confronto tra due culture; l'equilibrio tra la toccante elegia dei<br />
sentimenti e l'epica turbinosa dell'azione. L'epilogo è su una nota di virile malinconia: noi samurai,<br />
dice Kambei, siamo come il vento che passa veloce sulla terra, ma la terra rimane e appartiene ai<br />
contadini. Anche questa volta siamo stati noi i vinti; i veri vincitori sono loro. Scritta dal regista<br />
con Shinobu Hashimoto e Hideo Oguni l'edizione originale di 200 min – ridotta subito a 160 per il<br />
Giappone e a 130 per l'esportazione – fu ripristinata nel 1980. Rifatto a Hollywood in forma di<br />
western con I magnifici sette (1960) e come film di SF: I magnifici sette dello spazio (1980).<br />
Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli<br />
Lunedì 10 gennaio ore 21<br />
La fortezza nascosta (Kakushi-toride no san-akunin, 1958, 139')<br />
Regia: Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Soggetto: Ryûzô Kikushima, Hideo Oguni, Shinobu Hashimoto, Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Sceneggiatura: Ryûzô Kikushima, Hideo Oguni, Shinobu Hashimoto, Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Fotografia: Kazuo Yamasaki (con il nome: Ichio Yamazeki)<br />
Musiche: Masaru Satô<br />
Montaggio: Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Scenografia: Yoshirô Muraki<br />
Interpreti: Minoru Chiaki Tahei, Kamatari Fujiwara Matakishi, Toshirô Mifune<br />
generale Rokurota Makabe, Misa Uehara Principessa Yuki, Susumu Fujita generale<br />
Tadokoro, Takashi Shimura generale Nagakura, Toshiko Higuchi ragazza<br />
Produzione: Sanezumi Fujimoto, Akira <strong>Kurosawa</strong>
Due astuti contadini sono assunti da un generale che vuole far passare una principessa e un carico<br />
d'oro attraverso il territorio nemico. Peripezie e pericoli a catena. Divertimento di alta classe sotto<br />
il segno di una libera e leggera fantasia ariostesca. E l'avventura allo stato puro con episodi di<br />
straordinario fascino. Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli<br />
Lunedì 17 gennaio ore 21<br />
Rapsodia in agosto (Hachigatsu no rapusodī, 1991, 98')<br />
Regia: Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Soggetto: Akira <strong>Kurosawa</strong> dal romanzo Nabe no naka di Kiyoko Murata<br />
Sceneggiatura: Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Fotografia: Takao Saito, Shoji Ueda<br />
Musiche: Shinichiro Ikebe (da Schubert e Vivaldi)<br />
Montaggio: Akira <strong>Kurosawa</strong><br />
Scenografia: Yoshiro Muraki<br />
Interpreti: Sachiko Murase (Kane), Hisashi Igawa (Tadao), Narumi<br />
Kayashima (Machiko), Richard Gere (Clark), Hidetaka Yoshioka (Tateo), Tomoko<br />
Otakara (Tami), Mie Suzuki (Minako), Mitsunori Isaki (Shinjiro), Toshie Negishi<br />
(Yoshie), Choichiro Kawarasaki (Noboru)<br />
Produzione: Hisao Kusosawa per Produzioni <strong>Kurosawa</strong><br />
In una casa di campagna vicino a Nagasaki quattro ragazzi passano le vacanze con la nonna,<br />
sopravvissuta all'attacco atomico del 1945. Dalle Hawaii arriva un loro cugino nippo-americano.<br />
Piccolo film, forse, ma non film minore: un po' verboso e didattico, ma di una semplicità così tersa<br />
e franca nell'esporre grandi temi (la strage atomica, la memoria del dolore, il lutto) da non poter<br />
essere scambiata per semplicismo. Magici intervalli descrittivi e, nell'epilogo, un grande momento<br />
di cinema. <strong>Kurosawa</strong> aveva già affrontato il tema atomico in Se gli uccelli lo sapessero (1955) e in<br />
2 episodi di Sogni (1990), ma, più che sulla tragedia di Nagasaki, è un film sulla vecchiaia. Da un<br />
romanzo di Kikoyo Murata. Infelice doppiaggio italiano.<br />
Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli<br />
Tokyo, fine della II guerra mondiale. Il gangster Matsunaga (Toshiro Mifune), ferito durante il<br />
"lavoro" va a farsi curare dal Dr. Sanada (Takashi Shimura). Scopre così di avere la TBC ma,<br />
troppo <strong>org</strong>oglioso per ammetterlo, resiste al dottore che vuole curarlo. Il dottore però non si dà per<br />
vinto e, nonostante le reazioni dell'uomo, riesce finalmente a convincerlo a curarsi. Nel frattempo,<br />
l'assistente del dottore cerca di nascondersi da Okada, il marito appena uscito di prigione (anch'egli<br />
facente parte dalla gang di Matsunaga), che la rivorrebbe con sé. Il boss yakuza, saputo della<br />
malattia di Matsunaga decide di liquidarlo e sostituirlo con Okada, appena liberato. Matsunaga,<br />
deluso e arrabbiato dal benservito del boss, si scontra con il clan. Al centro della storia l'ostinazione<br />
del dottore nel voler curare il prossimo.
L'idea è quella di quattro serate in cui saranno presentati:<br />
Rashomon (1950, 84')<br />
Mario Gromo<br />
La Stampa<br />
In questo singolare e potente film giapponese siamo intorno al millecento,<br />
l'epoca è remota ma potrebbe esserlo anche di più. Siamo, in realtà, nel tempo<br />
degli istinti primordiali, in una foresta, dove, più che del Fujihama, ci si<br />
ricorda delle selve nibelungiche. Un taglialegna trova un cadavere, corre a<br />
farne denuncia; e poco dopo, dinanzi ai giudici che non si vedono (al posto dei<br />
giudici ci sono gli spettatori, imputati e testimoni a essi si rivolgono),<br />
dinanzi al tribunale invisibile, sta in ceppi l'assassino, Accanto a lui sono<br />
la vedova della vittima, il taglialegna che scoprì il cadavere, e la guardia<br />
che arrestò il brigante.<br />
Fu colpa di una lieve brezza che si levò improvvisa, dice il truce brigante<br />
Tagiomaru. Se ne stava assopito nel bosco, era stanco, non aveva bisogno di<br />
nulla, non avrebbe mai certo pensato di aggredire il samurai Tachehiro che<br />
passava nei pressi, con la bella moglie Masago, avvolta in un fitto velo,<br />
pendente dalla cavalcatura. Ma un po' di brezza risveglia il brigante assopito,<br />
e gli offre lo schiudersi di quel velo. Basta quella rapida visione, Tagiomaru<br />
raggiunge i due, con uno strattagemma s'apparta con il marito, lo aggredisce,<br />
lo vince, lo lega a un albero; e usa violenza alla donna. Si allontanerebbe,<br />
poi; ma quella, che non ha subito la violenza soltanto con orrore, incita i due<br />
a decidere con le armi a chi dovrà per sempre appartenere. Gran duello, il<br />
samurai cade colpito a morte, la donna fugge inorridita. È questa la «versione»<br />
del brigante. Nel suo animo primordiale la giustificazione della brezza<br />
improvvisa, che di tanto malfamate; l'essere poi riuscito a legare come un<br />
fagotto il samurai, e avergli quindi combinato, secondo lui, quel bellissimo<br />
scherzo, che ancora gli desta acutissime risate; ma sopratutto l'aver risolto<br />
la lotta decisiva con un regolarissimo duello all'ultimo sangue: tutto ciò<br />
colora e giustifica per lui il fatto, anche se sa che lo porterà alla forca.<br />
Tocca ora al racconto-deposizione della donna. Quando il brigante,<br />
bestialmente soddisfatto, se n'era andato, lasciandola con il marito, aveva<br />
creduto, subito dopo averlo liberato, di sc<strong>org</strong>ere in lui furore, orrore, pietà,<br />
disperazione. E invece: un freddo, gelido sguardo, di tagliente, silente<br />
ironia. Dapprima incredula, poi come smarrita, infine fremente, l'aveva<br />
scongiurato di non guardarla così, di non farle quell'affronto forse peggiore<br />
di quello che aveva subito. Ma perdurando quel silenzio che la giudica e la<br />
condanna, e per sempre la scosta da quella che sarebbe stata la loro vita;<br />
facendosi sempre più sottile e crudele quell'impercettibile risolino d'ironia,<br />
che si è annidato nel fondo di quelle gelide pupille; la donna sempre più se ne<br />
ossessiona, se ne esaspera, fino a immergere un pugnale nel cuore del marito.<br />
Ora è dinanzi ai giudici, disperata; proprio non saprebbe come tutto ciò sia<br />
potuto accadere, si sente soltanto la sciagurata vittima ed eroina del più<br />
tremendo dramma che mai donna abbia dovuto subire.<br />
E tocca ora alla versione del... morto. Siamo nel millecento, il tribunale fa<br />
evocare, da una maga-medium fattucchiera, lo spirito del poveraccio. Il quale<br />
racconta come abbia raggiunto gli inferi. È laggiù, nella tetra landa dei<br />
suicidi. Quando il brigante, bestialmente soddisfatto, stava per abbandonare la<br />
donna, questa l'aveva supplicato di portarla con sé, non solo, ma l'aveva<br />
incitato a uccidere il marito. Ci sono dei limiti, anche per un brigante<br />
giapponese del millecento. Tagiomaru, a quella proposta; aveva subito sentito<br />
una mascolina e nobile colleganza per il disgraziato marito, odio e disprezzo
per la donna. L'aveva minacciata di morte, quella era fuggita. Anche Tagiomaru<br />
se n'era andato; e il povero samurai, rimasto solo e disperato, si era ucciso,<br />
il meno che un nobile samurai, in simili circostanze, potesse fare.<br />
E infine ci sarebbe ancora una quarta versione, quella del taglialegna, più o<br />
meno plausibile, come le altre. Relatività delle percezioni e delle<br />
interpretazioni umane, lo sapevamo. Il brigante vede ogni cosa da bel brigante,<br />
e ci tiene, e ci tiene che gli altri vi credano; la donna idem; il samurai<br />
idem. Sono questi i significati più innegabili del film; che avvince perché la<br />
regia è ottima, ogni pagina di per sé non potrebbe forse essere meglio<br />
scandita, e la recitazione è quasi superba (Toshiro Mifune, il più popolare<br />
attore giapponese, Machico Chiyo, Masayuki Mori e Takasci Scimura). Ma il film<br />
desta qualche dubbio per il non sempre dissimulato stridore fra la<br />
sottigliezza, tutta. contemporanea, di voler indagare, dello stesso fatto, le<br />
più diverse e inconsce interpretazioni di quanti l'hanno vissuto, e il fatto in<br />
sé, primitivo, acre, selvaggio, bestiale. Ciò che dovrebbe primeggiare,<br />
interessando e convincendo, è la diversità di quelle interpretazioni, di volta<br />
in volta; la travolge invece il silvestre Grand Guignol che ogni volta belluino<br />
irrompe con la sua nuova variazione; mentre la finale moraluccia edificante è<br />
piuttosto posticcia,non risolve ciò che dovrebbe risolvere.<br />
Tuttavia, pur essendo in qualche sua giuntura pirandelliana qua e là<br />
predisposto e persino artificioso, il film è di quelli che non si dimenticano,<br />
ha accenti genuini, pagine superbe: come la lunga carrellata nella foresta, il<br />
primo mortale duello, il racconto della donna, l'evocazione della maga, e molti<br />
toni di un'atmosfera nella quale vibrano echi secolari e vorrebbe vibrare una<br />
sottile inquietudine dei nostri giorni che a quelle secolari tradizioni sapesse<br />
inchinarsi. Bello, inaspettato ritorno del cinema giapponese, con un'opera che<br />
è di uno dei più significativi ed esperti fra i suoi registi.<br />
(1951)<br />
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957<br />
I Sette Samurai ( 1954, 200')<br />
Mario Gromo<br />
La Stampa<br />
Il film è di Akira <strong>Kurosawa</strong>, il regista di Rashomon, ed è un'ultra<br />
rievocazione del Giappone feudale. Con minori raffinatezze dei precedenti film<br />
del genere, ma con un suo nerbo e un suo carattere, alle volte francamente<br />
sbrigliati e popolari, inseriti in quell'epoca lontana con cadenze di un vasto<br />
dramma e con accenti di un rusticano poema eroicomico. Vale la pena di tentarne<br />
un succinto racconto, almeno della prima parte.<br />
Nel vecchio Giappone dei samurai, dei «Signori della guerra», imperversano le<br />
lotte intestine. Siccità, carestie e predoni accrescono quelle sciagure. Con<br />
molti altri un povero villaggio di contadini è già stato vittima di saccheggi e<br />
di razzie. Ora una pattuglia di banditi a cavallo appare sull'alto della<br />
collina, il capo dice che adesso non vale la pena di scendere a predare, meglio<br />
attendere la mietitura. Un contadino ha tutto udito, corre a dare l'annuncio di<br />
quella nuova sventura; e terrori, e pianti, e lamentazioni, destano fra le<br />
povere case un coro di una pena antica, il dolore dei deboli, degli oppressi.<br />
Qualcuno propone di prepararsi a resistere ai predoni, ma altri gli dà del<br />
pazzo, un tentativo di resistenza significherebbe per tutti la morte. Decidono<br />
allora di recarsi per consiglio dai «nonno», il decano del villaggio; e quel<br />
volto ormai al di là del tempo ha poche, lente parole. L'unica salvezza è<br />
nell'assoldare, per difesa, qualche samurai; gli si potrà offrire del buon riso<br />
ogni giorno, per nutrire i samurai il villaggio potrà anche nutrirsi di
miglio.<br />
Quattro contadini partono allora alla ricerca di chi; a quelle condizioni, li<br />
vorrà difendere. Timidi, incerti, persino atterriti, di paese in paese non<br />
osano affrontare quei bravacci dalle armi forbite, dallo sguardo duro e dal<br />
passo sciolto, i «signori» che «sanno fare» la guerra. Raggiungono un altro<br />
villaggio, in subbuglio perché un ladro si è asserragliato in una capanna, dopo<br />
aver rapito un bambino: lo ucciderà se tenteranno di arrestarlo. Appare allora<br />
Kambei, un robusto, calmo samurai sulla cinquantina. Non. parla. Si siede sulla<br />
proda di un fosso, cava di tasca un suo piccolo rasoio, si fa fondere il<br />
cranio, come un bonzo. Poi si fa portare una tunica da bonzo, la indossa; e con<br />
fra le mani un po' di riso si avvicina alla capanna, esorta il ladro a cibarsi,<br />
a nutrire anche il bambino. L'altro lo crede un bonzo, un sacerdote, lo lascia<br />
entrare; fulmineo il bonzo-samurai lo colpisce a morte; poi prende il bambino,<br />
lo restituisce alla madre; e se ne va, senza una parola, così come era venuto.<br />
I quattro contadini esultano. Quello, farebbe al caso loro. Per bravo, è<br />
bravissimo; e per di più non ha chiesto nessun compenso. Ma da Kambei hanno un<br />
lento rifiuto. È quasi vecchio, è stanco di guerre, di sangue. Poi, a poco a<br />
poco, la pena di quei poveracci lo persuade, lo commuove. Si fa spiegare la<br />
situazione del villaggio. Per difenderlo occorreranno sei, no sette, almeno<br />
sette samurai. I contadini si guardano. Il «nonno» aveva loro tanto<br />
raccomandato di ingaggiarne non più di tre, sarebbe già stato un grosso<br />
sacrificio nutrirne tre; ma poi si rassegnano; e Kambei, che si è sempre più<br />
convinto della bontà di quella causa, vuole essere allora sicuro degli altri<br />
sei compagni, li sceglierà lui, a uno a uno. Ma se ne trovano soltanto cinque.<br />
Invano si offre Kikuchio, un po' gradasso, un po' mentecatto, un po' sbruffone.<br />
Kambei lo ha subito fiutato, che non è samurai: È infatti figlio di contadini,<br />
il suo villaggio era stato più volte saccheggiato e infine distrutto dai.<br />
predoni; e, rubate alcune armi, Kikuchio si era messo a vivere alla ventura,<br />
vuole anche ora farsi credere un nobile guerriero. Come un cane seguirà il<br />
gruppo dei samurai e dei contadini; invano ne sarà dileggiato, respinto; alla<br />
fine la spunterà, sarà accolto.<br />
Lo spazio manca per minutamente seguire le vicende del film, che consisteranno<br />
nell'apprestare a difesa il villaggio, nell'addestrare gli uomini con rozze<br />
lance, poi in una fortunosa sortita fino al covo dei briganti, ormai apparsi<br />
nei pressi, e nella decisiva battaglia. I banditi saranno sconfitti, a gruppi<br />
successivi; e infine, dopo lotte, morti e lutti, si potrà iniziare la<br />
piantagione del riso, preludio a un nuovo raccolto. Anche Shino, il più giovane<br />
dei samurai, lavorerà di lena; e rimarrà nel villaggio, per i begli occhi della<br />
bella Katsuhiro.<br />
Sono parecchie le insistite ridondanze nelle foltissime e convulse sequenze<br />
della battaglia, ma non si possono formulare altre notevoli riserve a questo<br />
bel film. Tutto vi è inquadrato e animato con molta sapienza, ma specialmente i<br />
vari tipi sono disegnati con robusta finezza. Il saldo Kambei è davvero un<br />
capo, guerriero di una giusta causa, solitario e onnipresente, severo e<br />
paterno; il giovane Shino è all'opposto il giovanissimo, il cadetto, quale<br />
avrebbe potuto tratteggiarlo un piccolo Stendhal di Kioto; Kyuzo, agile e<br />
asciutto, talvolta dagli atteggiamenti quasi femminei, schivo, taciturno, è c<br />
il diavolo della spada», sa scattare in incredibili gesta di un preciso<br />
ardimento, per poi rimettersi a sedere, come annoiato, come se non avesse fatto<br />
un bel nulla. Ma la figura più vistosa, pittoresca e difficile era quella di<br />
Kikuchio, il contadino sbruffone che infine morirà da guerriero, da samurai. Un<br />
po' ricorda certe figure di saghe popolari slave, un po' lo spaccone, uri po'<br />
un rustico semifolle; ed è modulato con una penetrazione rara che culmina in un
suo grido quando, alla prima minaccia dei banditi, riesce a salvare un bimbo da<br />
un mulino in fiamme. Guarda quel bambino che gli si dibatte fra le manacce, lo<br />
fissa costernato, atterrito, e urla: «Sono io, ero io, così!».<br />
Un commento sonoro efficacissimo, per lo più affidato a metallici clangori di<br />
trombe, o a cupi ritmi di tamburo, o a immanenti cori a labbra chiuse; la<br />
solita fotografia im peccabile dei giapponesi; e un folto gruppo d'attori che<br />
dovremmo citare a uno a uno, basterà ricordare Takashi Shimura (Kambei), Seiji<br />
Miyaguchi (Kyuzo), Keiko Tsushima (Shino), e infine Toshiro Mifune (Kikuchio),<br />
il bandito di Rashomon.<br />
(1954)<br />
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma,<br />
1957<br />
La fortezza nascosta (1958, 139')Due astuti contadini sono assunti da un<br />
generale che vuole far passare una principessa e un carico d'oro attraverso il<br />
territorio nemico. Peripezie e pericoli a catena. Divertimento di alta classe<br />
sotto il segno di una libera e leggera fantasia ariostesca. E l'avventura allo<br />
stato puro con episodi di straordinario fascino.Morandini<br />
Guerre Stellari viene da qui. Questo film è in bianco e nero, ma più magico di<br />
un movie in 3D con effetto surround e FX digitali. È un piccolo gioiello<br />
giapponese, che reca la firma del ‘gigante’ Akira Kuraswa. Per i critici è il<br />
suo film più libero, disimpegnato, brillante e divertente. Si diverte <strong>Kurosawa</strong><br />
a sbizzarrirsi con le possibilità offerte dal cinemascope, si diverte a<br />
raccontare una storia a briglia sciolta. La trama in breve, è questa: due<br />
astuti contadini sono assunti da un generale che vuole far passare una<br />
principessa e un carico d'oro...».<br />
In un Giappone feudale, dilaniato da conflitti intestini, il generale Rokurota<br />
Makabe (Toshiro Mifune), a seguito della sconfitta e della morte del suo<br />
signore, deve portare in salvo, in territorio neutrale, la sedicenne<br />
principessa erede al trono (Yuki) e il tesoro dello stato - sbarre d'oro<br />
camuffate dentro rami secchi - necessario a finanziare la riscossa.Mettendo a<br />
buon partito l'avidità, nonché la furbizia e il buon senso di Matakishi e<br />
Tahei, uomini del popolo alla ricerca di un riparo dall'inferno che infuria<br />
tutt'intorno, e tenendoli all'oscuro dell'identità sua e della principessa,<br />
riesce ad attraversare, tra mille insidie, il territorio nemico e a portare a<br />
termine la missione<br />
RAPSODIA IN AGOSTO (1991, 98')Estate 1990, quattro cugini trascorrono le<br />
vacanze dall’anziana nonna, Kane, in una casa vicino a Nagasaki: i loro<br />
genitori sono andati nelle Hawaii per rispondere all’appello di un vecchio zio,<br />
Suzujiro, emigrato laggiù negli anni Venti. Ormai vecchio e malato, desidera<br />
rivedere la sorella prima di morire. Kane esita: non si ricorda bene di questo<br />
fratello. I ragazzi invece si entusiasmano all’idea del viaggio.<br />
La nonna racconta ai nipoti i ricordi di un’altra estate, quella del 1945, l’<br />
estate della bomba. I cugini vanno in città e visitano la scuola dove è morto<br />
il nonno che vi insegnava. C’è un monumento nel cortile e una lapide che<br />
ricorda il giorno e l’ora della tragedia. La nonna racconta quel 9 agosto. Era<br />
rimasta a casa mentre il marito era nella scuola dove anche lei insegnava. Ci<br />
fu un bagliore, il cielo si oscurò, e da casa, guardando verso la città, vide<br />
in cielo un occhio gigantesco. Dalle Hawaii giunge una lettera per Kane. È del<br />
figlio di Suzujiro, Clark, che insiste perché venga a far visita al vecchio<br />
fratello. La donna si convince: partiranno subito dopo le cerimonie<br />
commemorative del 9 agosto. Ritornano dalle Hawaii i figli di Kane e scoprono
con disappunto che la donna nel giustificare la data del viaggio aveva scritto<br />
ciò che loro per opportunismo avevano accuratamente taciuto: che il marito di<br />
Kane era stato ucciso dalla bomba.<br />
Un telegramma annuncia l’arrivo di Clark. Disagio in famiglia: tutti credono<br />
che il cugino americano, offeso dalla rivelazione, voglia troncare ogni<br />
rapporto, ma Kane difende il suo diritto a raccontare la verità. Il giorno dell’<br />
arrivo, i ragazzi, invece di accogliere Clark, se ne vanno a Nagasaki per<br />
rivedere la scuola. Ma è proprio qui che Clark, che racconto di aver appreso<br />
con dolore la verità sulla morte dello zio, vuole essere condotto. Durante il<br />
sopralluogo giunge una comitiva di anziani. Sono i sopravvissuti di quel 9<br />
agosto: molti sono ciechi. Rendono omaggio in silenzio al monumento. Si<br />
avvicina la partenza per le Hawaii. Ma un telegramma che annuncia la morte di<br />
Suzujiro impone a Clark di partire subito. Il giorno dopo figli e nipoti<br />
scoprono che in casa non c’è più la nonna. La cercano e la trovano che si<br />
dirige a piedi, di corsa, a Nagasaki: il cielo livido e tempestoso è lo stesso<br />
di quel giorno.<br />
Il tema dell’angoscia atomica percorre tutto il cinema giapponese dopo<br />
le esplosioni fatidiche del 6 (Hiroshima) e del 9 agosto 1945 (Nagasaki), dai<br />
Bambini di Hiroshima di Kaneto Shinto (1952) a Pioggia nera di Shohei Imamura<br />
(1989). Anche in <strong>Kurosawa</strong> il tema dell’angoscia atomica non è nuovo: ci sono<br />
due episodi del recentissimo Sogni (1990), ma soprattutto c’è Ikimono no kiroku<br />
(noto come Se gli uccelli sapessero, 1955), dove Toshiro Mifune, ossessionato<br />
dalla minaccia nucleare, cerca di espatriare con la famiglia in Brasile. Eppure<br />
il breve, recente e apprezzato romanzo della Murata «Nabe no naka» (Nella<br />
pentola), che ha ispirato Rapsodia in agosto, parla molto poco della bomba<br />
atomica, tema centrale nello svolgimento del film. Ma come la protagonista<br />
Kane, anche <strong>Kurosawa</strong> non può dimenticare quell’estate del ’45, in Giappone<br />
tuttora un duro segno di contraddizione.<br />
In Rapsodia in agosto la bomba è vista attraverso tre generazioni: tre<br />
differenti esperienze di vita, tre differenti sensibilità. La generazione più<br />
giovane ha mitizzato l’avvenimento, relegandolo nel mondo della SF televisiva,<br />
ma è disposta a conoscere e a farsi coinvolgere. Quella di mezzo, per ragioni<br />
poco pulite e per opportunismo nei confronti degli americani, vuole cancellare<br />
il ricordo della bomba, ritenuto una turbativa nella vita sociale o negli<br />
affari. I più anziani, infine, hanno cristallizzato le tragedie del 6 e del 9<br />
agosto in un eterno presente. A confrontarsi con la bomba sono anche chiamati<br />
gli americani: gli autoctoni e quelli di origine giapponese. I primi sono solo<br />
evocati, e gli si attribuisce la pretesa non solo di voler rimuovere la bomba,<br />
ma anche di fingere che non sia mai esistita. I secondi sono presentati nella<br />
figura di Clark, dapprima attraverso il luogo comune di chi non vuole ricordare<br />
e poi attraverso un vissuto assolutorio fatto di lacrime e di<br />
accettazione/ammirazione della cultura d’origine.<br />
I giornalisti americani, che ne hanno riferito dal Giappone o da Cannes, hanno<br />
sollevato riserve su quest’ultimo film di <strong>Kurosawa</strong>: Rapsodia in agosto<br />
tacerebbe delle responsabilità giapponesi nella guerra nippo-americana. È<br />
difficile addebitare al film questo capo d’accusa: qui si parla d’altro, non<br />
della seconda guerra mondiale. La bomba è il simbolo di un’epoca, l’immagine di<br />
un martirio, la profezia dell’apocalisse e perfino la causa di morti attuali:<br />
tutte cose che l’attacco a Pearl Harbor non può cancellare. <strong>Kurosawa</strong> è<br />
generazionalmente lontano sia dai ragazzini che rovistano un po’ distrattamente<br />
nel passato, sia da quei genitori che sembrano pantomime dell’ipocrisia<br />
quotidiana. Il vecchio regista vede con gli occhi della nonna, ne condivide la
equisitoria: «Che cosa c’è di male a dire la verità? Lanciano una bomba<br />
atomica e si offendono se uno glielo ricorda. Capisco che vogliano dimenticare,<br />
ma non fingano che non sia mai successo». Le parole di Kane appaiono dure,<br />
quasi beffarde, certamente sgradevoli per una certa America, ma poi, senza<br />
soluzione di continuità, cedono il passo all’espressione di una pietà sincera:<br />
«Hanno detto che la bomba l’hanno lanciata per mettere fine alla guerra. Ormai<br />
la guerra è finita da quasi cinquant’anni, ma la bomba continua a fare la sua<br />
guerra. Non passa giorno che non uccida ancora». E conclude, la vecchia nonna,<br />
con un generico appello per l’umanità: «Tutto questo è solo colpa della guerra.<br />
Gli uomini fanno di tutto per vincere la guerra. In questo modo finiranno per<br />
distruggerci tutti». Il breve discorso, così bilanciato nelle motivazioni da<br />
non apparire coerente, non sembra tale da giustificare polemiche se non in chi<br />
si sente coinvolto per senso di colpa. E polemiche non sono in grado di<br />
giustificare gli altri minimi riferimenti politici. Durante la visita di<br />
Nagasaki, per esempio, i ragazzi si fermano di fronte ai monumenti<br />
commemorativi regalati da Stati esteri. «Manca quello americano», osserva uno.<br />
Gli replica l’altro: «Ragiona, sono stati loro a lanciare la bomba». O ancora<br />
la sottolineatura presente nel dialogo, e peraltro smentita dallo sviluppo<br />
degli avvenimenti, secondo cui i nippoamericani non vorrebbero gli si<br />
ricordasse di essere stati in salvo negli anni di guerra nel Paese nemico.<br />
Ci sono invece bugie e omissioni di cui gli americani dovrebbero essere grati<br />
a <strong>Kurosawa</strong>. La bomba di Nagasaki non è stata lanciata, come finge di credere<br />
Kane, per porre fino alla guerra (forse quella di Hiroshima servì allo scopo, o<br />
meglio a contenere le perdite americane nel conflitto, non certo quella dì<br />
Nagasaki). <strong>Kurosawa</strong> non sostiene che il Giappone fu vittima dell’atomica perché<br />
abitato da «musi gialli» contro i quali si potevano usare gli strumenti di<br />
morte non permessi contro gli europei. Infine, non ricorda la totale<br />
disattenzione che gli americani, abituati ad inviare nei porti dell’arcipelago<br />
navi con armamento atomico, continuano ad avere per la sensibilità giapponese<br />
sul problema nucleare. Con buona pace degli americani, non c’è manicheismo in<br />
questo film, ma solo una requisitoria, forse un po’ gridata, certo un po’<br />
sentenziosa, ma tutta diretta contro la guerra. E, come sempre in <strong>Kurosawa</strong>, c’è<br />
la scelta di affrontare il sociale come momento del dramma privato, in questo<br />
caso quello di una donna che sovrappone le considerazioni sull’angoscia<br />
planetaria al timore della propria morte.<br />
Con Rapsodia in agosto <strong>Kurosawa</strong> torna dopo vent’anni a girare un film d’<br />
ambiente contemporaneo che rappresenta anche la sua prima produzione<br />
interamente giapponese dal 1970. Ma né quell’ormai lontano Dodès’ka-den, nella<br />
sua singolare cifra stilistica, né il più lontano Anatomia di un rapimento,<br />
ultima su opera «neorealista», possono costituire il precedente anello di quest<br />
<strong>Kurosawa</strong> d’ambiente contemporaneo. Insomma, superati gli ottanta, il maestro<br />
giapponese si contraddice e si rinnova. E crea un’opera inedita che,<br />
indipendentemente dagli esiti, occupa un posto a sé nella filmografia del<br />
maestro. Rivisitazione della storia del Giappone contemporaneo e insieme della<br />
tradizione drammatica nipponica. Ecco dunque realismo e poesia in uno strano<br />
connubio che costituisce uno degli aspetti più singolari del film. Un realismo<br />
sobrio, scarno fino allo schematismo: lontanissimo da quello di cui il <strong>Kurosawa</strong><br />
degli esordi era stato maestro. Un realismo che, nella sua pretesa di<br />
comunicazione, giunge a dividere la società giapponese in segmenti<br />
incomunicabili, quelli generazionali. Ma ecco anche una tensione poetica che<br />
non rifugge dall’onirismo e dalla visionarietà.<br />
<strong>Kurosawa</strong> sottolinea questi mondi con differenti cifre stilistiche modellate<br />
nel solco della cultura generazionale dei personaggi. Attorno alla vecchia
Kane, la nonna, tutto si svolge su un palcoscenico sapientemente costruito su<br />
tavole di legno ricoperte dal tatami: gli sfondi e le quinte, in casa come nel<br />
tempio, sono teatrali. Attorno ai genitori c’è invece l’anonimato di una<br />
produzione televisiva e un dialogo quasi sempre prevedibile o ripetitivo.<br />
Attorno ai ragazzi, ci sono il gioco, il sogno, l’avventura, il coinvolgimento<br />
(il serpente marino dagli occhi di fuoco, il folletto verde della notte).<br />
Quando queste tre culture interagiscono, <strong>Kurosawa</strong> fa scattare una dimensione<br />
mensione nuova, sospesa tra la fiaba, la poesia e la visionarietà. Si pensi<br />
alla scena in cui la vecchia evoca ai nipoti quel 9 agosto, oppure alla<br />
contemplazione muta da parte dei ragazzi e dei loro genitori del pellegrinaggio<br />
dei superstiti della bomba nella scuola, o, infine, alla grande corsa delle tre<br />
generazioni del finale. Tre risultati di diverso interesse, tipici di questo<br />
film discontinuo. Nel primo purtroppo gli effetti speciali di Hishiro Honda non<br />
rendono giustizia all’emozione. Nel secondo il regista scommette tutto sul<br />
contrasto sonoro tra il silenzio della pietà e la musica religiosa che l’<br />
accompagna. Nel terzo la chiave espressiva è solo cinematografica: è il<br />
prodigioso montaggio di <strong>Kurosawa</strong>. Attraverso il quale emergono sentimenti<br />
fortissimi di comunione al di sopra delle generazioni e delle tragedie<br />
storiche.<br />
Gi<strong>org</strong>io Rinaldi, Cineforum n. 309, 11/1991