08.06.2013 Views

PRECLUSIONI DI MERITO E PRECLUSIONI ISTRUTTORIE NEL ...

PRECLUSIONI DI MERITO E PRECLUSIONI ISTRUTTORIE NEL ...

PRECLUSIONI DI MERITO E PRECLUSIONI ISTRUTTORIE NEL ...

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

<strong>PRECLUSIONI</strong> <strong>DI</strong> <strong>MERITO</strong><br />

E <strong>PRECLUSIONI</strong> <strong>ISTRUTTORIE</strong><br />

<strong>NEL</strong> PROCESSO CIVILE RIFORMATO<br />

Relatore:<br />

prof. Giampiero BALENA<br />

ordinario di diritto processuale civile<br />

nell’Università di Perugia<br />

Sommario: 1. Delimitazione dell’oggetto dell’indagine – 2. L’udienza di prima comparizione e la<br />

preclusione relativa alla proposizione di eccezioni in senso stretto – 3. Segue: cenni sulla<br />

problematica distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni rilevabili d’ufficio – 4. Prima<br />

udienza di trattazione e principio di concentrazione: rilievi preliminari – 4.1. Cenni sulle diverse<br />

tecniche utilizzate a tutela della concentrazione del processo – 4.2. L’effettivo valore del principio<br />

di concentrazione nella riforma del ‘90 e i riflessi in ordine al regime delle preclusioni – 5. La<br />

frazionabilità della “prima” udienza di trattazione – 6. Inesistenza di una generale preclusione<br />

quanto all’allegazione dei fatti storici. In particolare, l’allegazione dei fatti integranti eccezioni in<br />

senso lato e dei fatti secondari – 7. Il problema dell’omessa o della tardiva contestazione dei fatti<br />

allegati dall’avversario – 8. Le preclusioni operanti nella fase della trattazione – 8.1. Le nuove<br />

domande ed eccezioni consentite all’attore – 8.2. La precisazione e la modificazione delle domande,<br />

delle eccezioni e delle conclusioni originarie – 8.3. Le richieste istruttorie e le produzioni<br />

documentali. – 9. La rimessione in termini prevista dall’art. 184-bis.<br />

1. – Tra le innovazioni più significative del rito risultante dalla riforma del ‘90, pur dopo i non lievi<br />

rimaneggiamenti da questa subìti ad opera di interventi legislativi successivi, tuttora non esauritisi,<br />

non v’è dubbio che un ruolo di primo piano spetti all’introduzione di un sistema di preclusioni<br />

miranti ad incrementare la concentrazione e l’efficienza dei giudizi civili.<br />

Ciò non vuol dire, ovviamente, che prima del ‘90, ed in seguito alla ben nota Novella del 1950, il<br />

nostro processo non conoscesse preclusioni (chè, infatti, il concetto stesso di processo evoca<br />

immancabilmente l’esistenza di una serie di cadenze e di limitazioni temporali vuoi per l’attività<br />

delle parti vuoi, con minor rigore, per quella del giudice), ma sta piuttosto a significare che le<br />

attività più importanti delle parti, dal punto di vista dell’allegazione e della prova dei fatti rilevanti<br />

per la decisione, non erano costrette nella fase iniziale del giudizio ed erano consentite, in linea di<br />

principio, con la sola rilevante eccezione concernente la proposizione di domande nuove, per tutto il<br />

corso del procedimento di primo grado e poi finanche in appello.<br />

Dall’esame dei lavori preparatorii della legge 353/90, invece, emerge con chiarezza che uno degli<br />

obiettivi principali perseguiti dal legislatore era, per quest’aspetto, quello di mettere un po’ d’ordine<br />

nello svolgimento del processo, separando un po’ più nettamente la prima fase, quella di trattazione,<br />

deputata all’allegazione dei fatti, alla loro qualificazione giuridica e all’effettiva delimitazione del<br />

thema probandum, da quella stricto sensu istruttoria, volta all’accertamento dei fatti rilevanti per la<br />

decisione (1).<br />

Nel prosieguo di questa mia relazione cercherò di appurare, limitatamente al giudizio di primo<br />

grado, in quale modo quest’obiettivo sia stato realizzato ed in quale misura esso abbia trovato<br />

effettiva attuazione; partendo – sarà bene sottolinearlo – dalla convinzione che, quando si tratta di<br />

individuare dei limiti alle attività che costituiscono una diretta esplicazione dei diritti d’azione e di


difesa costituzionalmente garantiti, l’interprete per un verso debba sentirsi particolarmente vincolato<br />

alla norma positiva, rinunciando ad idee preconcette su come si vorrebbe (o su come si pensa che lo<br />

stesso legislatore avrebbe voluto) che fosse il processo, e per altro verso, nei casi dubbi, debba<br />

privilegiare le soluzioni meno penalizzanti per le parti.<br />

Fatta questa doverosa premessa metodologica e forse anche “ideologica”, è chiaro che l’indagine<br />

dovrebbe prendere progressivamente e separatamente in considerazione dapprima la fase<br />

introduttiva del processo, fino all’udienza di prima comparizione, e poi la fase della trattazione.<br />

Poiché, però, gli atti introduttivi – e in particolare la comparsa di risposta, che presenterebbe<br />

maggiore interesse sotto il profilo che qui interessa – sono stati oggetto di specifiche relazioni, potrò<br />

senz’altro tralasciare il periodo anteriore all’udienza di prima comparizione. D’altronde, in seguito<br />

al più recente intervento del legislatore, attuato col d.l. 238/95 (del quale i dd.ll. 347/95 e 432/95<br />

costituiscono, com’è noto, mera reiterazione), non sono molte le decadenze cui le parti, e in special<br />

modo il convenuto, vanno incontro in questa primissima fase del processo, tenuto conto che, com’è<br />

noto, per ciò che concerne le eccezioni in senso stretto, la modifica degli artt. 167, 2° comma, e 180,<br />

2° comma, fa sì che la barriera preclusiva operi non già al momento della costituzione (tempestiva)<br />

del convenuto, bensì in un momento successivo, compreso fra l’udienza di prima comparizione e la<br />

prima udienza di trattazione.<br />

Per completezza e per un’evidente connessione, invece, si prenderà in considerazione anche<br />

l’istituto della rimessione in termini previsto dal novellato art. 184-bis, che incide in misura non<br />

trascurabile sulla complessiva ricostruzione del sistema di preclusioni che ci si accinge ad<br />

analizzare (2).<br />

2. – Dal punto di vista delle preclusioni, l’udienza di prima comparizione, ossia la primissima<br />

udienza del processo, dovrebbe avere un’importanza minima, poiché tale udienza, se l’art. 180 c.p.c.<br />

non subirà ulteriori modifiche in sede di conversione, deve considerarsi destinata (salva, direi, una<br />

diversa e concorde richiesta di tutte le parti) alle sole verifiche concernenti la rituale instaurazione<br />

del contraddittorio. Al termine di queste verifiche, pero, il giudice fissa “in ogni caso” [id est, a mio<br />

avviso, prescindendo dall’istanza di parte e finanche in caso di mancata costituzione del convenuto]<br />

“a data successiva la prima udienza di trattazione, assegnando al convenuto un termine perentorio<br />

non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per proporre le eccezioni processuali e di merito<br />

che non siano rilevabili d’ufficio”.<br />

Questa disposizione suggerisce diversi rilievi.<br />

In primo luogo v’è da tener presente che in realtà, per ciò che concerne le eccezioni processuali, il<br />

dies ad quem è di solito specificamente stabilito dal legislatore, il quale fa spesso riferimento, ad es.,<br />

al primo atto difensivo utile, che ben potrebbe coincidere con l’udienza di prima comparizione: così<br />

l’art. 4, 1° comma, legge n. 218/95, per il difetto di giurisdizione opponibile dal convenuto<br />

straniero; l’art. 157, 2° comma, c.p.c., in tema di nullità relative, l’art. 307, 4° comma, c.p.c. a<br />

proposito dell’estinzione). Per quel che concerne, in particolare, l’eccezione di incompetenza per<br />

territorio derogabile, il comb. disp. degli artt. 38, 2° comma, e 180, 2° comma, induce a ritenere che<br />

per essa il termine fissato dal giudice valga solo se il convenuto non si è costituito prima (3). In altri<br />

casi, invece, in cui la norma discorre di “prima udienza” senz’altra specificazione (come nell’art.<br />

40, 2° comma, a proposito del rilievo della connessione), è più che legittimo il dubbio se debba<br />

intendersi l’udienza di prima di comparizione o la prima udienza di trattazione.<br />

In secondo luogo a me pare che la ratio della fissazione del termine perentorio per la proposizione<br />

delle eccezioni c.d. in senso stretto (cioè non rilevabili d’ufficio) sia quella di assicurare all’attore e<br />

allo stesso giudice un congruo lasso di tempo, prima dell’inizio della trattazione, per conoscere il<br />

contenuto delle difese del convenuto; sicché deve ritenersi che i venti giorni di cui discorre la norma<br />

in esame siano da intendere come il periodo minimo che deve correre fra il momento in cui si<br />

determina la preclusione ed il giorno della prima udienza di trattazione. Mette conto di sottolineare,<br />

poi, che, poiché il termine non è fissato direttamente dalla legge (come a mio avviso sarebbe stato


preferibile), bensì dal giudice, la preclusione non potrà scattare se il giudice avrà omesso di<br />

assegnarlo, nel qual caso direi che le nuove eccezioni saranno ammesse anche (ma non oltre) la<br />

prima udienza di trattazione. Analogamente, se il termine venisse fissato in misura inferiore a quella<br />

legale (il che, ovviamente, avvantaggerebbe il convenuto), non par dubbio che dovrà comunque<br />

aversi riguardo al termine indicato dal giudice.<br />

In terzo luogo è molto importante, anche dal punto di vista delle preclusioni, stabilire, nel caso in<br />

cui il giudice, all’udienza di prima comparizione, dovesse riscontrare uno dei vizi contemplati<br />

dall’alinea dell’art. 180, se l’udienza fissata per la regolarizzazione del contraddittorio (per es. per<br />

provvedere alla rinnovazione dell’atto introduttivo nullo, oppure alla citazione dei litisconsorti<br />

necessari pretermessi) debba considerarsi a sua volta quale nuova udienza di prima comparizione,<br />

oppure quale prima udienza di trattazione, ai sensi dell’art. 183. A mio avviso, una volta imboccata<br />

la strada – pur molto criticabile – di una così netta separazione fra l’udienza di prima comparizione<br />

e quella in cui ha inizio la trattazione della causa, la logica stessa del sistema induce a ritenere che la<br />

nuova udienza debba ancora equivalere, almeno in linea di principio, all’udienza di prima<br />

comparizione, e debba essere pertanto riservata esclusivamente al controllo dell’avvenuta<br />

regolarizzazione del contraddittorio e all’assegnazione del termine previsto dal 2° comma dell’art.<br />

180. Nell’ipotesi d’integrazione del contraddittorio, a norma dell’art. 102, una siffatta soluzione è<br />

imposta dalla circostanza che altrimenti i litisconsorti inizialmente pretermessi sarebbero costretti<br />

formulare le proprie eccezioni in senso stretto entro il medesimo termine previsto per la<br />

proposizione di domande riconvenzionali (artt. 180, 2° comma, e 167, 2° comma, c.p.c.); e<br />

sarebbero pertanto privati di quell’ulteriore margine di tempo che la legge normalmente concede al<br />

convenuto per perfezionare ed integrare l’allegazione di fatti estintivi o impeditivi o modificativi<br />

non operanti ipso iure. Per quel che concerne, poi, l’ipotesi della nullità della citazione derivante da<br />

vizi dell’editio actionis (art. 164, 4° comma), va ricordato che la dottrina, ragionando sulla base<br />

della situazione normativa anteriore al d.l. n. 238/95 (in cui l’udienza di prima comparizione<br />

coincideva con quella di trattazione), era pressoché concorde nel ritenere che la nullità medesima,<br />

tanto in caso di rinnovazione dell’atto introduttivo quanto in caso di mera integrazione della<br />

domanda, e indipendentemente dal momento in cui veniva rilevata, facesse ricominciare il processo<br />

daccapo; nel senso che il termine di costituzione del convenuto, anche al fine dell’operatività delle<br />

preclusioni contemplate dall’art. 167, dovesse per l’appunto calcolarsi con riferimento alla nuova<br />

udienza fissata dal giudice (4). È lecito concludere, pertanto, che la stessa soluzione, mutatis<br />

mutandis, dovrà affermarsi in relazione al nuovo testo dell’art 180.<br />

A diversa soluzione deve invece pervenirsi, probabilmente, allorché l’atto introduttivo sia affetto da<br />

uno dei vizi (della c.d. vocatio in ius) indicati nel 1° comma dell’art. 164. Se si conviene, infatti, che<br />

tali vizi non sono tali, di regola, da giustificare, di per sé stessi, la mancata costituzione del<br />

convenuto, e da determinare, conseguentemente, la regressione del processo alla prima udienza (5),<br />

parrebbe logico dedurne che il giudice, nel rilevare la nullità, debba fissare non già una nuova<br />

udienza di prima comparizione, bensì direttamente l’udienza di trattazione, ordinando la<br />

rinnovazione della citazione proprio per tale udienza (6) e nel contempo assegnando il termine<br />

perentorio di cui al c.p.v. dell’art. 180. L’eccezione dovrebbe essere rappresentata, tuttavia, dai vizi<br />

che, se rilevati entro la prima udienza, danno luogo ad un’automatica rimessione in termini del<br />

convenuto: infatti, allorché sia mancato l’avvertimento previsto dall’art. 163, n. 7), oppure siano<br />

stati violati i termini minimi di comparizione, il comb. disp. degli artt. 164, 3° comma, e 180<br />

impone di ritenere che il giudice debba fissare una nuova udienza di prima comparizione (7).<br />

3. – A questo punto, per completare l’analisi dell’art. 180 sotto il profilo delle preclusioni,<br />

rimarrebbe da chiarire la linea di demarcazione fra le eccezioni rilevabili d’ufficio, ammesse senza<br />

particolari limiti temporali (8) e finanche in appello (art. 345, 2° comma, c.p.c.), e le eccezioni<br />

riservate all’iniziativa di parte, che sono consentite solo fino allo spirare del termine assegnato dal<br />

giudice a norma dell’art. 180 c.p.v. Più esattamente il problema si pone per le sole eccezioni di


merito, tenuto conto che, per quelle processuali, il dato normativo, come ho già avuto modo di<br />

osservare, è assai più specifico.<br />

Poiché, peraltro, si tratta, com’è noto, di un tema assai complesso, ci si limiterà in questa sede a<br />

ricordare che nella dottrina prevale oggi la convinzione che la regola sia rappresentata dalla<br />

rilevabilità d’ufficio di tutti i fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto azionato, siano essi<br />

fatti semplici oppure fatti-diritti che potrebbero essere oggetto di accertamento in un autonomo<br />

giudizio (9). Le deroghe – pur tutt’altro che infrequenti – riguarderebbero le ipotesi in cui la legge<br />

richiede espressamente l’iniziativa della parte (v. ad es. gli artt. 2938 e 2969, rispettivamente in<br />

materia di prescrizione e di decadenza) e quelle in cui l’effetto estintivo-impeditivo-modificativo si<br />

ricollega all’esercizio di un diritto potestativo oppure di un controdiritto che potrebbe esser fatto<br />

valere con un’autonoma azione costitutiva (si pensi all’eccezione di annullabilità del contratto,<br />

oppure di risoluzione per inadempimento).<br />

La giurisprudenza, invece, dal canto suo, non sembra attenersi a criteri generali ed univoci (10), e<br />

talora parrebbe partire dall’implicita ed opposta premessa che il rilievo dei fatti estintivi-impeditivimodificativi<br />

sia riservato, in linea di principio, alla parte interessata (11).<br />

4. – È a tutti noto come la (prima) udienza di trattazione dovesse divenire, nelle intenzioni del<br />

legislatore del ‘90, il fulcro dell’intero processo; in una prospettiva non troppo diversa, in fin dei<br />

conti, da quella in cui si erano mossi già il legislatore del ‘40 e poi, per il rito del lavoro, quello del<br />

‘73. Ed è pure noto, d’altronde, che proprio su questo aspetto fondamentale della riforma sono<br />

piovute le critiche più severe. In particolare, una delle censure più frequenti si è appuntata<br />

sull’eccessiva rigidità ed astrattezza del modello di trattazione delineato negli artt. 183 e 184; nel<br />

senso che – si è detto – il legislatore “ha scelto la strada della disciplina analitica, puntuale, per certi<br />

aspetti non priva di pedanteria, di tutte le mosse che le parti dovrebbero effettuare nella fase<br />

preliminare”, dimostrando in tal modo di voler “ridurre le mosse delle parti entro binari rigidi e<br />

determinati in anticipo, come se tutte le partite dovessero svolgersi esattamente allo stesso modo e<br />

secondo la medesima sequenza” (12). Ad una primissima lettura delle disposizioni poc’anzi<br />

menzionate, una siffatta conclusione – che d’altronde rappresenta l’implicito presupposto dal quale<br />

ci si è mossi nei più recenti interventi correttivi degli artt. 180 e 183 – parrebbe ineccepibile; ed anzi<br />

deve aggiungersi che, se davvero lo schema ivi indicato fosse rigido ed invariabile, sarebbero<br />

pienamente giustificati per un verso le preoccupazioni da più parti (e in ispecie dall’avvocatura)<br />

manifestate circa un’eccessiva compressione del contraddittorio, e per altro verso i pronostici più<br />

pessimistici circa la concreta possibilità di funzionamento del nuovo rito; pronostici che<br />

rimarrebbero immutati pur dopo gli interventi correttivi cui facevo cenno poc’anzi.<br />

A me sembra, tuttavia, che le suddette critiche, al pari delle preoccupazioni che ne sono derivate,<br />

siano almeno in parte dovute ad un equivoco circa il significato dello schema di svolgimento della<br />

trattazione delineato negli artt. 180 e segg. c.p.c.; o comunque che, soprattutto alla luce del noto<br />

canone interpretativo che impone di preferire, fra tutte le esegesi astrattamente possibili, quelle più<br />

ragionevoli, le norme in questione si prestino anche ad una “lettura” e ad una ricostruzione affatto<br />

diverse, idonee ad offrire un apprezzabile contemperamento fra le spesso confliggenti esigenze di<br />

concentrazione del processo, da un lato, e di salvaguardia dell’effettività del contraddittorio,<br />

dall’altro. A questo riguardo vorrei sottolineare alcuni punti che mi sembrano essenziali per una<br />

corretta impostazione del problema.<br />

4.1. – Un primo punto da considerare è che, nonostante la loro evidente correlazione funzionale, è<br />

necessario tenere ben distinte, nell’ambito delle disposizioni miranti ad assicurare la concentrazione<br />

del processo, quelle rivolte precipuamente al giudice da quelle di cui sono destinatarie direttamente<br />

le parti.<br />

Appartengono al primo gruppo, tra l’altro, le numerosissime disposizioni che impongono al giudice<br />

di provvedere entro un certo termine (si pensi, ad es., agli artt. 186, 190-bis, 275 e 321 c.p.c.),<br />

oppure di far procedere il giudizio secondo certi ritmi o di rispettare determinati limiti massimi nella


fissazione di termini a lui rimessa dalla legge (v. ad es. l’art. 81, 2° comma, disp. att.; gli artt. 415,<br />

3° comma, 420, 6°, 8° e ult. comma, e 435, 1° comma, c.p.c.; l’art. 307, 3° comma, ult. parte, c.p.c.;<br />

il nuovo art. 168-bis, 5° comma, c.p.c.). Com’è noto, peraltro, si tratta di norme assai spesso violate,<br />

se non addirittura, in qualche caso, superate dalla prassi, e comunque prive di sanzione, quanto<br />

meno sul piano strettamente processuale (prescindendo, ovviamente, dai possibili riflessi di ordine<br />

disciplinare); anche perché da tutti si ammette che sarebbe assurdo far pagare alle parti il prezzo del<br />

comportamento del giudice.<br />

Del tutto diverso è invece il rilievo delle disposizioni che, avendo sempre come obiettivo la<br />

concentrazione del processo, stabiliscono direttamente dei termini perentori per il compimento di<br />

determinate attività delle parti (si pensi, per il processo del lavoro, all’art. 416, nonché, per il<br />

riformato rito ordinario, agli artt. 38, 40, 2° comma, e ai già menzionati artt. 167 e 269 c.p.c.): in<br />

questo caso, infatti, lo spirare del termine produce direttamente ed immancabilmente la perdita del<br />

potere non esercitato, e dunque può avere effetti ben piu incisivi sul processo e sulla decisione.<br />

Una situazione in un certo senso intermedia, ma ben più frequente dell’ultima testé considerata, si<br />

verifica allorché il termine riguardi un’attività delle parti che dev’essere autorizzata dal giudice e<br />

nel contempo compiuta entro un termine fissato dal giudice stesso. In questi casi, infatti, è ben<br />

possibile che l’istanza di parte, volta ad ottenere la fissazione del termine, sia consentita dalla legge<br />

entro un determinato momento del processo, che segnerebbe la consumazione del relativo potere;<br />

ma è chiaro che, al di fuori di tale ipotesi, e comunque quando l’istanza sia proposta<br />

tempestivamente, nessuna preclusione può scattare in danno delle parti fino a quando il giudice non<br />

abbia provveduto ad assegnare il termine e quest’ultimo non sia decorso.<br />

Nel prosieguo dell’indagine si avrà modo di verificare quali di queste tecniche siano state utilizzate<br />

relativamente alla fase di trattazione del processo. Per intanto mi sembra interessante sottolineare<br />

come, a mio sommesso avviso, proprio una non limpida distinzione fra le suddette tecniche sia alla<br />

base di un ricorrente equivoco circa le caratteristiche del nuovo procedimento dinanzi al giudice di<br />

pace; nel senso che, sebbene a tale procedimento siano pacificamente inapplicabili le disposizioni<br />

riguardanti la fase introduttiva del processo ordinario, e sebbene i novellati artt. 320 e 321 non<br />

discorrano in alcun modo di termini perentori, una parte della dottrina finisce coll’individuarvi un<br />

sistema di preclusioni “implicite” finanche più rigide e repentine di quelle che governerebbero il<br />

processo dinanzi al tribunale (13). Risultato, quest’ultimo, palesemente confliggente con le<br />

caratteristiche di minore complessità e tecnicismo che hanno sempre contraddistinto il<br />

procedimento dinanzi al giudice onorario.<br />

4.2. – Un secondo punto sul quale è opportuno riflettere riguarda l’effettivo valore attribuito dal<br />

legislatore del ‘90 alla concentrazione del processo. La maggior parte dei primi commentatori della<br />

riforma, per il sol fatto che la legge 353/90 ha (re)introdotto un sistema organico di preclusioni, ha<br />

ritenuto logico e doveroso prospettare soluzioni analoghe a quelle che si erano andate consolidando<br />

per il rito del lavoro; rispetto al quale si è soliti affermare, com’è noto, che la disciplina delle<br />

preclusioni “risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo,<br />

in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano” (14), sicché la<br />

sua violazione è rilevabile d’ufficio e non può essere superata, almeno per quel che concerne i limiti<br />

alle domande ed eccezioni nuove (ma non anche, stranamente, per quanto riguarda i limiti alle<br />

richieste istruttorie) (15), neppure dalla non opposizione della parte avversa (16). In altre parole si<br />

potrebbe dire che, tenuto conto degli obiettivi perseguiti dal legislatore del ‘90, la concentrazione<br />

del processo avrebbe assunto un valore strettamente pubblicistico, sottratto, in quanto tale, alla<br />

disponibilità delle parti.<br />

A mio avviso, però, una siffatta conclusione è priva di una base positiva e non trova corrispondenza<br />

neppure nelle intenzioni del legislatore, quali emergono dai lavori preparatorii. Cominciando<br />

proprio da questi ultimi, mi sembra estremamente significativo il passo della Relazione al Senato<br />

(17) in cui si sottolinea che la finalità fondamentale perseguita dalla riforma non è quella di imporre


“alle parti una accelerazione dell’iter processuale non richiesta”, bensì, piuttosto, quella di<br />

“consentire alla parte che abbia interesse ad una sollecita decisione sul merito di ottenerla,<br />

sventando ogni tattica dilatoria dell’avversario o l’eventuale inerzia del giudice” (18). Sul piano più<br />

strettamente positivo, d’altronde, quest’affermazione di principio trova riscontro e perfetta<br />

corrispondenza nella mancata riproduzione del divieto delle udienze di mero rinvio, già adottato per<br />

il processo del lavoro con l’ult. comma dell’art. 420 c.p.c.. Questa omissione, certamente non<br />

involontaria, sta a testimoniare che ciò che stava a cuore al legislatore non era assicurare la<br />

concentrazione del processo a qualunque costo e pure prescindendo dalla volontà delle parti, ma<br />

solo offrire una tutela processuale più efficiente e razionale alla parte che intendesse realmente<br />

approfittarne.<br />

Se a ciò si aggiunge, poi, che le preclusioni introdotte nel rito ordinario sono [ed erano, si badi, già<br />

prima che i più recenti decreti-legge ne ridimensionassero ulteriormente il rigore] di gran lunga più<br />

graduali ed elastiche di quelle sperimentate nel processo del lavoro, mi par lecito concludere che la<br />

riforma del ‘90 non implica alcun mutamento di rotta rispetto al tradizionale orientamento secondo<br />

cui, nel processo ordinario di primo grado, la violazione delle preclusioni (fino ad oggi prospettabile<br />

essenzialmente in relazione alla proposizione di domande nuove o riconvenzionali) ha carattere<br />

relativo (19) e resta dunque sanata, a seconda dell’opinione che si ritenga preferibile, in seguito alla<br />

mancata opposizione (20) oppure in seguito all’effettiva accettazione del contraddittorio<br />

proveniente dalle altre parti (21).<br />

In altre parole, se è vero che le preclusioni non tutelano esclusivamente il diritto di difesa dei<br />

litiganti, bensì mirano ad assicurare un più ordinato e razionale svolgimento del processo, ciò non<br />

toglie che siffatto obiettivo – immanente, si badi, a qualunque ordinamento processuale (e dunque<br />

anche al rito ordinario ante riforma) – sia pur sempre perseguito nel prevalente interesse delle parti<br />

(o almeno della parte che al processo ha dato vita), e pertanto, lungi dall’elevarsi a principio di<br />

ordine pubblico, debba intendersi, in assenza di contrarie indicazioni positive, tendenzialmente<br />

disponibile dalle parti medesime (22).<br />

Questa conclusione, già provvista di un autonomo rilievo rispetto per l’appunto al regime delle<br />

preclusioni di cui ci si sta occupando, tornerà particolarmente utile per valutare l’effettiva rigidità<br />

dello schema di trattazione della causa delineato negli artt. 180, 183 e 184 c.p.c.<br />

5. – A mio avviso, infatti, la premessa fondamentale dalla quale occorre muovere è che, sebbene<br />

l’art. 183 (cui è strettamente collegato il successivo art. 184) faccia espresso riferimento alla “prima<br />

udienza di trattazione”, lasciando in tal modo intendere che questa prima udienza dovrebbe<br />

tendenzialmente esaurire tutta l’attività di trattazione e contestualmente aprire la strada finanche alle<br />

deduzioni istruttorie di cui all’art. 184, ciò non esclude affatto, però, che le attività da tale norma<br />

contemplate possano legittimamente snodarsi attraverso una pluralità di udienze di trattazione,<br />

anche al di fuori delle ipotesi espressamente considerate dal legislatore; né significa, comunque, che<br />

le attività consentite alle parti dagli artt. 183 e 184 restino in ogni caso precluse, rispettivamente,<br />

dopo la prima o dopo la seconda udienza.<br />

Cominciando dalla prima questione, che in un certo senso appare pregiudiziale, io non vedo motivi<br />

per negare, alla luce di quanto osservato nel precedente § 4.2 circa i limiti del principio di<br />

concentrazione, neppure la piena legittimità di “pause”, e dunque di rinvii della prima udienza,<br />

determinate dalla mera volontà concorde delle parti.<br />

A prescindere da questa eventualità, comunque, è fin troppo facile prospettarsi infinite situazioni in<br />

cui la concentrazione del processo – nella specie la tendenziale unitarieta dell’udienza disciplinata<br />

nell’art. 183 – dovrà cedere il passo ad esigenze obiettive del contraddittorio o di altra natura, tali da<br />

rendere inevitabile il frazionamento della trattazione, e più precisamente delle attività contemplate<br />

dagli artt. 183 e 184, in più udienze (23). Si pensi, in primo luogo, ai molti casi in cui, anche in<br />

relazione al numero di cause “nuove” chiamate alla medesima udienza, risulterà semplicemente<br />

impossibile esaurire le suddette attività in un’unica udienza; magari perché, data la particolare


complessità della causa in fatto, l’interrogatorio delle parti, cui il legislatore ha giustamente<br />

attribuito la massima importanza, richiede molto tempo. Oppure si pensi all’ipotesi in cui sia<br />

giustificato un (occasionale) impedimento di taluna delle parti ad essere presente all’udienza per<br />

l’interrogatorio medesimo e per il tentativo di conciliazione. E soprattutto, direi, si consideri che la<br />

nuova disciplina, nonostante le preclusioni comminate in danno del convenuto tardivamente<br />

costituito, non potrà impedire che il convenuto medesimo si costituisca all’udienza di prima<br />

comparizione, o addirittura direttamente alla prima udienza di trattazione, allorquando non abbia in<br />

animo di svolgere alcuna delle attività contemplate dagli artt. 167, 2° e 3° comma, e 180, 2° comma,<br />

ossia non debba proporre domande riconvenzionali o eccezioni in senso stretto, né chiamare in<br />

causa un terzo: se dunque si verifica tale situazione, com’è possibile esigere che l’attore si studi<br />

nella stessa prima udienza la comparsa di risposta del convenuto e la documentazione da lui<br />

prodotta, e proponga contestualmente, a pena di decadenza, “le domande e le eccezioni che sono<br />

conseguenza (...) delle eccezioni proposte dal convenuto” (24)? E com’è possibile pensare che lo<br />

stesso giudice, senza aver potuto previamente conoscere le difese del convenuto, debba comunque<br />

svolgere nella medesima udienza quelle delicatissime attività rappresentate dall’interrogatorio delle<br />

parti e dal tentativo di conciliazione; attività che a loro volta costituiscono il primo ed essenziale<br />

tassello della trattazione della causa; in mancanza del quale sarebbe assurdo esigere dalle parti e<br />

dallo stesso giudice le ulteriori attività contemplate dai commi 3°, 4° e 5° dell’art. 183 nonché<br />

dall’art. 184.<br />

E ancora, a dimostrazione di quanto sarebbe ingenuo pretendere di schematizzare rigidamente ed in<br />

modo tassativo lo svolgimento della trattazione, basterà por mente alla recente (e, per quest’aspetto,<br />

improvvida) modifica dell’art. 180 c.p.c. Tale norma, come si è visto, si preoccupa di riservare<br />

l’udienza di prima comparizione alle verifiche concernenti la regolare instaurazione del<br />

contraddittorio, quasi che vi fosse bisogno di rimarcare la perdurante vigenza delle disposizioni che<br />

tali verifiche specificamente impongono. È chiaro, peraltro, che non di rado, in ispecie se il<br />

convenuto si costituisce tardivamente, i vizi in questione potranno emergere (penso soprattutto<br />

all’esistenza di litisconsorti necessari pretermessi) proprio durante la trattazione della causa, che in<br />

questo caso dovrà essere inevitabilmente differita, pur se l’art. 183 non lo prevede, per provvedere<br />

all’indispensabile regolarizzazione del processo.<br />

V’è da considerare, infine, che, sebbene il principio informatore della trattazione rimanga, a norma<br />

dell’art. 180, 2° comma, quello dell’oralità, lo stesso art. 180 espressamente prevede, in via<br />

generale, delle parentesi di trattazione scritta autorizzate dal giudice su istanza di parte. Sicché ben<br />

potrebbe accadere che, essendo stata sollevata alla prima udienza di trattazione, magari dallo stesso<br />

giudice, una delle questioni menzionate nell’art. 183, 3° comma, per es. relativa alla giurisdizione, e<br />

data la complessità della questione stessa, il giudice conceda un termine per la comunicazione di<br />

comparse a norma degli artt. 180, 2° comma, e 83-bis disp. att., rinviando di conseguenza il<br />

prosieguo della trattazione ad altra udienza.<br />

Alla luce di tali considerazioni, in parte finanche banali, la frazionabilità della trattazione (rectius:<br />

dell’attività contemplata dall’art. 183) in più udienze dovrebbe costituire un punto fermo ed<br />

indiscutibile; e di conseguenza dovrebbe ammettersi che la sua concentrazione in un’unica udienza<br />

rappresenta sì un criterio direttivo – o, se si preferisce, un vero e proprio dovere – per il giudice, ma<br />

un criterio dal quale il giudice stesso potrà discostarsi [a mio avviso pure in virtù della concorde<br />

volontà delle parti, e comunque] in presenza di obiettive esigenze del contraddittorio o, più in<br />

generale, del processo.<br />

Se su questa conclusione si conviene, il vero problema risulta essere non già quello di giustificare<br />

specificamente, sul piano positivo, ogni ipotesi di differimento o di frazionamento della (prima)<br />

udienza di trattazione (25), bensì quello, assai delicato e di enorme spessore pratico, di stabilire non<br />

soltanto quali siano le preclusioni che possono verificarsi in questa fase, ma anche a quale momento<br />

le singole preclusioni debbano essere più precisamente ascritte: se, cioè, ci si debba riferire in ogni


caso alla prima udienza di trattazione, oppure se si debba avere piuttosto riguardo al concreto<br />

progredire della trattazione medesima.<br />

6. – In merito al primo aspetto del problema, mi sembra opportuno partire da una questione che<br />

vede abbastanza nettamente divisa la dottrina, e cioè dall’esistenza o no di una preclusione di ordine<br />

generale relativa all’allegazione di nuovi fatti dopo la prima udienza di trattazione o comunque<br />

dopo la conclusione della fase disciplinata nell’art. 183 c.p.c. (26).<br />

Sulla portata di siffatta questione è bene intendersi. Non si può trascurare, infatti, che una<br />

rilevantissima limitazione all’introduzione di fatti nuovi discende innegabilmente dai commi 4° e 5°<br />

dell’art. 183; nel senso che, se si tratta di fatti c.d. principali (ossia costitutivi, estintivi, impeditivi o<br />

modificativi del diritto dedotto in giudizio) la cui allegazione implica la proposizione di domande o<br />

di eccezioni nuove, o anche la mera “modificazione” delle domande ed eccezioni proposte con gli<br />

atti introduttivi, l’allegazione medesima sarà consentita, in linea di principio, solamente nei termini<br />

e alle condizioni indicate nel medesimo art. 183 (che esamineremo più avanti) e resterà preclusa,<br />

invece, nel prosieguo del giudizio. Ciò non toglie, però, che, se si esclude l’esistenza della<br />

preclusione generale di cui discorrevo poc’anzi, è possibile individuare almeno due categorie di fatti<br />

la cui allegazione sfugge alla disciplina dell’art. 183: i fatti estintivi-impeditivi-modificativi che<br />

integrino eccezioni in senso lato, cioè rilevabili d’ufficio, e i fatti c.d. secondari.<br />

Per quel che concerne i primi, è agevole constatare che tanto l’art. 180, 2° comma, quanto l’art. 345,<br />

2° comma, contemplano una preclusione per le sole eccezioni in senso stretto, lasciando in tal modo<br />

intendere che i fatti estintivi-impeditivi-modificativi rilevabili d’ufficio siano allegabili per la prima<br />

volta finanche in appello. I fatti secondari, invece, secondo l’accezione più diffusa – che a me<br />

sembra preferibile poiché fondata su una differenza qualitativa rispetto ai fatti principali – sono<br />

quelli che, pur essendo estranei alla fattispecie (costitutiva, estintiva, impeditiva o modificativa)<br />

dedotta in giudizio (di talché non potrebbero mai implicare la proposizione o la modificazione di<br />

una domanda o di una eccezione), rilevano indirettamente per la decisione della causa, giacché è da<br />

essi possibile desumere, in ispecie attraverso il meccanismo delle presunzioni, l’esistenza,<br />

l’inesistenza o un modo di essere dei fatti principali.<br />

Chiariti, dunque, i reali confini del problema, non posso che ribadire, in questa sede, la convinzione<br />

(27) che, sebbene dai lavori preparatorii della l. 353/90 si tragga sicuramente l’impressione che il<br />

legislatore intendesse confinare l’allegazione dei fatti storici, in linea di principio, nella fase<br />

preparatoria del processo (28), nulla autorizza, poi, sul piano strettamente positivo, a ritenere che il<br />

relativo sbarramento preclusivo sia più massiccio ed ermetico di ciò che può dedursi dall’art. 183.<br />

La contraria opinione, secondo cui l’esaurimento della fase di trattazione (o addirittura, per alcuni,<br />

della prima udienza di trattazione) escluderebbe qualunque ulteriore allegazione (in fatto), è<br />

d’altronde costretta a prospettare un’interpretazione riduttiva e piuttosto artificiosa dei citati artt.<br />

180, 2° comma, e 345, 2° comma, secondo cui tali disposizioni non autorizzerebbero<br />

(argomentando a contrario) la allegazione di nuovi fatti (rilevabili d’ufficio) senza limiti di tempo,<br />

ma si riferirebbero solo alla possibilità di rilevare (anche d’ufficio), e dunque di porre a base della<br />

decisione (di rigetto), l’effetto giuridico (estintivo-impeditivo-modificativo) di un fatto già<br />

tempestivamente allegato o comunque introdotto nel processo (29); tesi, quest’ultima, che era stata<br />

già prospettata, ma senza incontrare il favore della giurisprudenza, in relazione agli artt. 416 e 437<br />

per il rito del lavoro.<br />

In definitiva, pertanto, direi che, almeno per ciò che concerne il giudizio di primo grado, che qui<br />

interessa, l’allegazione dei suddetti fatti deve ritenersi consentita, in deroga al regime desumibile<br />

dall’art. 183, commi 4° e 5°, fino al momento della precisazione delle conclusioni.<br />

Analoga soluzione dovrebbe valere, in linea di principio, per l’allegazione di fatti secondari; fermo<br />

restando, però, che, quando non si tratti di fatti pacifici, oppure accertabili attraverso l’esercizio di<br />

poteri istruttorii officiosi (per es. un’ispezione), un limite indiretto alla loro introduzione nel<br />

processo deriverà dalle preclusioni istruttorie contemplate dall’art. 184 (v. infra il § 8.3).


Mette conto di sottolineare, poi, che la nozione di fatto secondario non appare del tutto univoca,<br />

tenuto conto che non di rado la dottrina definisce come secondari i fatti che, pur non essendo<br />

propriamente estranei alla fattispecie dedotta in giudizio a fondamento della domanda o della<br />

eccezione, non concorrono, in ragione della loro marginalità, ad identificare la domanda o<br />

l’eccezione medesima, rappresentando dei meri “elementi di contorno” (30). Ai nostri fini è<br />

sufficiente rilevare che, alla luce di un tale criterio distintivo, essenzialmente quantitativo, la<br />

contrapposizione tra fatti principali e fatti secondari finisce per corrispondere a quella tra<br />

modificazione in senso lato (comprensiva della mutatio e della emendatio), da un lato, e mera<br />

“precisazione” delle domande e delle eccezioni, dall’altro. Sicché il problema dell’allegazione di<br />

tali fatti secondari appare intimamente connesso a quello concernente i limiti temporali della<br />

suddetta “precisazione” (v. infra il § 8.1).<br />

Vi sono, per finire, altri fatti la cui allegazione, pur implicando la modificazione di domande o<br />

eccezioni (in senso stretto), sfugge per diverse ragioni alle preclusioni contemplate dall’art. 183. Di<br />

essi mi occuperò più avanti, con riferimento alla rimessione in termini ex art. 184-bis.<br />

7. – Per esaurire l’analisi delle preclusioni più discusse ed opinabili, mi sembra indispensabile una<br />

breve digressione relativamente ad una disposizione che, pur riguardando direttamente la fase<br />

introduttiva del processo, che esula dall’oggetto della mia relazione, potrebbe avere – e secondo<br />

alcuni autori, infatti, ha – un ruolo di primissimo piano nella ricostruzione del complessivo sistema<br />

di preclusioni introdotto dalla riforma.<br />

Mi riferisco, come si sarà forse intuito, al 1° comma dell’art. 167, il quale fa obbligo al convenuto<br />

di “proporre [nella comparsa di risposta] tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti<br />

dall’attore a fondamento della domanda”. Questa disposizione, estrapolata dal contesto normativo,<br />

potrebbe far pensare che il legislatore abbia inteso (sia pure con una tecnica non certo felice, poiché<br />

il problema non si pone, ovviamente, per il solo convenuto, né tantomeno per la sola comparsa di<br />

risposta) introdurre anche nel nostro ordinamento quell’onere di contestazione che molti altri<br />

ordinamenti processuali conoscono da lungo tempo (31), escludendo, nel contempo, il c.d. “diritto<br />

di tacere” di fronte alle avverse allegazioni; e così essa è stata intesa, infatti, da una parte dei primi<br />

commentatori della legge n. 353/90, i quali conseguentemente, ancora una volta nel nome di un<br />

tendenziale confinamento delle allegazioni in fatto nella fase preparatoria della causa, negano pure<br />

(salva la rimessione in termini) la possibilità di contestazioni successive alla prima udienza (di<br />

trattazione), finendo per individuare un’altra preclusione che la legge non prevede (32).<br />

A mio avviso una siffatta innovazione, opportunamente modulata (attraverso una più puntuale<br />

specificazione dei comportamenti in cui deve tradurrsi la contestazione) e limitata ai processi aventi<br />

ad oggetto diritti disponibili, sarebbe stata da accogliere col massimo favore, poiché, consentendo<br />

una più chiara ed immediata selezione dei fatti da provare, avrebbe contribuito in misura<br />

determinante a realizzare una vera fase preparatoria del processo, e nel contempo a consentirne<br />

quella più netta separazione dalla fase stricto sensu istruttoria che lo stesso legislatore<br />

dichiaratamente si proponeva. Allo stato, però, mi sembra piuttosto difficile approdare a questo pur<br />

auspicabile risultato – che si tradurrebbe nell’introduzione di una preclusione “implicita” ben più<br />

incisiva di quelle contro le quali, a torto o a ragione, è insorta l’avvocatura – muovendo dall’art.<br />

167. È il caso di ricordare, a tal proposito, che la giurisprudenza di gran lunga prevalente, sulla scia<br />

di autorevole dottrina (33), ha sempre ritenuto, fino ad oggi, che, per aversi “non contestazione”,<br />

con l’effetto di escludere il fatto non contestato dal thema probandum, non fosse sufficiente il mero<br />

silenzio di una parte (pur costituita) circa i fatti allegati ex adverso, ma fosse necessario, invece, che<br />

la parte stessa ammettesse esplicitamente tali fatti, oppure impostasse la propria difesa su argomenti<br />

logicamente inconciliabili con il disconoscimento dei medesimi (c.d. ammissione implicita) (34).<br />

L’unico temperamento, peraltro non trascurabile, è stato spesso individuato sul piano probatorio,<br />

riconoscendo la possibilità di trarre elementi di prova dal silenzio o, più in generale, dal<br />

comportamento processuale della parte destinataria delle allegazioni non (espressamente) contestate


(35). Ciò che è importante sottolineare, tuttavia, è che questo tradizionale orientamento è stato per<br />

lo più ribadito pure in relazione al rito del lavoro, sebbene l’art. 416, 2° comma, c.p.c., con una<br />

formulazione ben più perentoria rispetto a quella del nuovo art. 167, faccia obbligo al convenuto, tra<br />

l’altro, di “prendere posizione [nella memoria difensiva] in maniera precisa e non limitata ad una<br />

generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda” (36); sicché<br />

appare quanto meno improbabile ch’esso venga rivisitato e radicalmente modificato rispetto al<br />

nuovo rito ordinario.<br />

Ragionando in concreto, d’altronde, a me pare che, per conseguire gli obiettivi ed i vantaggi<br />

poc’anzi indicati, sarebbe già più che sufficiente ammettere che dagli artt. 167, 1° comma, e 416, 3°<br />

comma, c.p.c. può oggi desumersi, in via sistematica, la positiva introduzione di un vero e proprio<br />

onere di contestazione (o, se si preferisce, di “dichiararsi”); senza dover pure dimostrare – mèta a<br />

mio avviso assai più impervia – che sussista un termine, più o meno rigido, per assolvere<br />

quell’onere. Dal punto di vista pratico, infatti, una volta stabilito che anche il mero silenzio serbato<br />

da una parte (costituita) di fronte alle avverse allegazioni rende pacifici i fatti oggetto di tali<br />

allegazioni, escludendoli dunque dal thema probandum, l’eventualità di una contestazione<br />

successiva [eventualità di per sé piuttosto remota, laddove il giudice abbia sfruttato nel migliore dei<br />

modi l’interrogatorio libero previsto dal nuovo art. 183 c.p.c.], che intervenga in un momento in cui<br />

non siano più ammesse ulteriori richieste istruttorie, per un verso puo essere sanzionata, se<br />

ingiustificata, attraverso un’opportuna valutazione di tale comportamento processuale, ai sensi<br />

dell’art. 116, 2° comma, c.p.c. (37), e per altro verso può comunque trovare un adeguato rimedio<br />

nella rimessione in termini a norma dell’art. 184-bis (v. infra il § 9).<br />

8. – Dopo aver parlato di preclusioni assai dubbie, è venuto finalmente il momento di esaminare<br />

quelle previste in modo più o meno esplicito dagli artt. 183 e 184, soprattutto per stabilire in quale<br />

momento della trattazione della causa esse più precisamente operino.<br />

Appurato, infatti, che l’unitarietà dell’udienza disciplinata nell’art. 183 rappresenta un valore<br />

tendenziale, ma nient’affatto cogente, è chiaro che il problema testé prospettato non può tollerare<br />

soluzioni generalizzanti oppure fondate su un criterio meramente cronologico (che faccia in ogni<br />

caso riferimento, cioè, alla “prima” udienza di trattazione), ma dev’essere affrontato tenendo conto<br />

del concreto svolgimento dell’attività di trattazione, secondo uno schema progressivo, in parte<br />

desumibile dalle stesse norme in esame, che si articola attraverso l’interrogatorio libero delle parti e<br />

il tentativo di conciliazione, la segnalazione e la trattazione delle questioni rilevabili d’ufficio, la<br />

definizione del thema decidendum e del thema probandum, ed infine l’esame delle richieste<br />

istruttorie delle parti. Mi rendo conto che la ricostruzione che mi accingo a prospettare può apparire<br />

per qualche aspetto ed in qualche misura arbitraria o comunque opinabile. E tuttavia a me pare<br />

ch’essa per un verso sia imposta dalle esigenze obiettive dianzi illustrate, e per altro verso sia<br />

autorizzata da una certa reticenza del legislatore; il quale discorre sì di termini “perentori”<br />

assegnabili dal giudice, ma non stabilisce espressamente fino a quale momento le parti possano<br />

farne istanza (38).<br />

Fatta questa doverosa premessa, un primo punto da tener fermo mi sembra il seguente: poiché<br />

l’interrogatorio libero delle parti rappresenta, per espressa indicazione del legislatore, il primo e<br />

fondamentale tassello dell’attività di trattazione della causa, non è pensabile che le attività<br />

contemplate dagli ultimi due commi dell’art. 183 e dall’art. 184 possano rimanere precluse allorché<br />

la “prima” udienza di trattazione si sia risolta, per una qualunque delle ragioni esemplificativamente<br />

indicate nel precedente § 5, in un’udienza di mero rinvio (ragioni tra le quali va compresa, a mio<br />

avviso, anche la concorde richiesta delle parti), senza che la trattazione medesima abbia avuto<br />

neppure inizio. Tale principio, del resto, è stato fino ad oggi più volte ribadito, per il rito ordinario,<br />

in relazione alla preclusione prevista, quanto alla chiamata in causa di un terzo, dal previgente art.<br />

269 c.p.c.; essendosi per l’appunto riconosciuto che il riferimento alla “prima udienza”, ivi<br />

contenuto, doveva intendersi non in senso meramente cronologico, bensì come indicativo della fase


di effettiva trattazione della causa, anteriore all’inizio di quella istruttoria (39). Quanto al rito del<br />

lavoro, poi, mette conto di ricordare che la giurisprudenza prevalente intende il riferimento alla<br />

“udienza di cui all’art. 420”, che rappresenta il limite temporale al rilievo officioso<br />

dell’incompetenza ex art. 428 c.p.c., non gia come prima udienza di discussione, bensì come<br />

indicativo del momento in cui, “attraverso l’interrogatorio libero delle parti e le eventuali<br />

modificazioni delle domande e delle eccezioni, non sia stato delimitato l’oggetto della controversia<br />

e non sia stato esperito con esito negativo il tentativo di conciliazione” (40).<br />

Chiarito questo primo punto, è venuto il momento di analizzare distintamente le attività disciplinate<br />

nei commi 4° e 5° dell’art. 183 e nell’art. 184.<br />

8.1. – La prima parte dell’art. 183, 4° comma, prevede che l’attore, “nella stessa udienza” (ossia<br />

nella prima udienza di trattazione), possa “proporre le domande e le eccezioni che sono<br />

conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto nella<br />

comparsa di risposta”. Se le nuove domande ed eccezioni dell’attore si ricollegano a domande<br />

riconvenzionali o ad eccezioni in senso stretto del convenuto, che quest’ultimo può proporre,<br />

rispettivamente, entro il termine di costituzione indicato dall’art. 166 ovvero entro il termine<br />

concesso dal giudice a norma dell’art. 180, 2° comma, non v’è ragione di negare che il termine di<br />

preclusione sia realmente rappresentato dalla prima udienza di trattazione effettiva (non risoltasi,<br />

cioè, in un mero rinvio). Se però le suddette domande ed eccezioni nuove dovessero trarre origine<br />

da eccezioni in senso lato o da mere difese, sollevate dal convenuto nella stessa prima udienza di<br />

trattazione (non importa se con la comparsa di risposta, in caso di costituzione tardiva, o<br />

direttamente all’udienza), mi sembra evidente che l’attore avrà diritto ad un rinvio e potrà<br />

provvedere alle nuove domande ed allegazioni entro l’udienza successiva.<br />

Una situazione del tutto analoga a quella testé ipotizzata può verificarsi quando “dalle difese del<br />

convenuto” sorga in capo all’attore l’interesse a chiamare in causa un terzo (art. 183, 4° comma,<br />

seconda parte). Anche in questo caso, dunque, in tanto la preclusione potrà scattare alla prima<br />

udienza effettiva (di trattazione), in quanto non si tratti di difese sollevate proprio in tale udienza, o<br />

comunque dopo lo spirare del termine assegnato dal giudice per la proposizione di eccezioni in<br />

senso stretto.<br />

8.2. – L’ultima parte dell’art. 183, 4° comma, consente ad entrambe le parti di “precisare e<br />

modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate”. E va sottolineato che, mentre<br />

nel testo risultante dall’art. 17 della l. 353/90 la “modificazione” delle domande ecc. era subordinata<br />

ad autorizzazione del giudice, ora, in seguito all’art. 5 del d.l. 238/95 e dei dd.ll. successivi, questa<br />

condizione è stata opportunamente eliminata. Rimane impregiudicato, però, il problema di tracciare<br />

la linea di demarcazione fra i due concetti, di “precisazione” e di “modificazione”; anche perché, a<br />

mio avviso, nonostante l’apparente equiparazione, la mera “precisazione” delle domande, delle<br />

eccezioni e delle conclusioni sfugge ad una rigida preclusione e deve intendersi in realtà consentita<br />

pure nel prosieguo del processo.<br />

Per giustificare siffatta convinzione è necessario tenere anzitutto presente che, sebbene sul piano<br />

strettamente lessicale la “modificazione” non sia distinguibile dal “mutamento”, è ampiamente<br />

consolidata, in dottrina e in giurisprudenza, la convinzione che debbano nettamente distinguersi,<br />

quanto al regime di preclusione, la mutatio libelli, tendenzialmente esclusa in qualunque momento<br />

(salvo espressa previsione normativa), e la emendatio libelli, corrispondente alla mera “modifica”<br />

della domanda e consentita, nel sistema anteriore alla riforma del ‘90, fino alla rimessione della<br />

causa al collegio. In questa sede è appena il caso di rammentare come in concreto, poi, la<br />

distinzione fra le due ipotesi sia largamente controversa e dunque incerta, in ispecie alla luce dei<br />

criteri tutt’altro che univoci adoperati dalla giurisprudenza. Ai nostri fini è sufficiente sottolineare<br />

che ogni nuova allegazione, che implichi una variazione in aumento del petitum oppure si traduca<br />

nella deduzione di nuovi fatti costitutivi, ricade inevitabilmente o nell’ambito della mutatio o in


quello della emendatio (41); sicché appare assai difficile trovare spazi residui entro i quali collocare<br />

questo tertium genus rappresentato dalla “precisazione” della domanda. Per essere ancora più<br />

espliciti, tale operazione mi sembra praticamente impossibile ove si parta dalla premessa che pure la<br />

“precisazione”, che deve evidentemente rappresentare un quid minus rispetto alla “modifica” della<br />

domanda, sia confinata nella fase preparatoria della causa: difatti, sia che la s’intenda come<br />

un’attività diretta alla mera interpretazione della domanda (a chiarire, cioè, quanto era già implicito<br />

in essa) ovvero ad una diversa qualificazione giuridica della fattispecie, sia che si pensi alle ipotesi<br />

di mera riduzione della domanda originaria, appare inevitabile ammettere che le parti possano<br />

provvedervi finanche in sede di precisazione delle conclusioni (42); tanto più che, almeno per quel<br />

che concerne i primi profili, si tratta di poteri talora esercitabili dallo stesso giudice d’ufficio, in<br />

applicazione del principio iura novit curia.<br />

D’altronde, che la formulazione dell’art. 183 non possa costituire, da questo punto di vista, un<br />

ostacolo insormontabile, è dimostrato dal fatto ch’essa, sia nel 4° sia nel 5° comma, parrebbe<br />

assoggettare a preclusione pure la precisazione o modificazione delle “conclusioni” già proposte;<br />

quand’è ovvio, invece, che le “conclusioni” rimangono liberamente modificabili fino all’udienza<br />

indicata nell’art. 189 c.p.c., a condizione che siano mantenute “nei limiti di quelle formulate negli<br />

atti introduttivi o a norma dell’art. 183”, e dunque non implichino nuove domande o occezioni in<br />

senso stretto.<br />

A mio avviso, dunque, i termini “perentori” contemplati dall’art. 183, 5° comma, mirano solo ad<br />

evitare (in linea di principio e con le limitazioni più volte ribadite nei paragrafi precedenti)<br />

un’eccessiva diluizione della fase di trattazione (scritta). Ma la mera “precisazione” delle domande<br />

e, a fortiori, delle eccezioni originariamente proposte deve intendersi liberamente consentita per<br />

tutto il corso del processo, al di là della fase di trattazione di cui all’art. 183. E non escluderei la<br />

possibilità di far rientrare nell’ambito della “precisazione” anche le allegazioni che si traducano<br />

nella specificazione o nella modificazione di elementi marginali relativi ai fatti principali<br />

(costitutivi-estintivi-impeditivi-modificativi), tali da lasciare sostanzialmente immutati i fatti<br />

medesimi (43).<br />

Per quel che concerne, invece, la “modificazione” delle domande e delle eccezioni, che il legislatore<br />

ha inteso sicuramente limitare alla fase preparatoria del processo, è chiaro che la preclusione potrà<br />

derivare dalla scadenza del termine perentorio eventualmente fissato dal giudice. Fino a quando,<br />

però, le parti potranno chiedere l’assegnazione di tale termine? A mio avviso, se la trattazione si<br />

articola in più udienze, il dies ad quem dovrebbe essere rappresentato dal suo effettivo esaurimento,<br />

e cioè dal momento in cui il giudice passa ad esaminare le richieste istruttorie delle parti oppure<br />

rinvia a tal fine la causa ad una successiva udienza (v. il successivo § 8.3). È chiaro, infatti, che<br />

l’opportunità della “modificazione” potrebbe palesarsi proprio in seguito alle altre attività di<br />

trattazione contemplate dall’art. 183; per es. in seguito all’interrogatorio delle parti oppure in<br />

seguito all’esercizio dei poteri officiosi previsti nel 3° comma. Ed inoltre, sebbene non si tratti di<br />

un’ipotesi espressamente disciplinata dal legislatore, siffatta “modificazione” potrebbe riguardare<br />

anche le domande proposte dall’attore nella prima udienza, a norma del 4° comma dell’art. 183,<br />

qualora l’attore medesimo fosse a ciò indotto dalle repliche o dalle eccezioni formulate dal<br />

convenuto entro il termine concesso ai sensi della seconda parte del 5° comma dell’art. 183.<br />

Nella logica del sistema in esame, insomma, a me pare che, prescindendo dall’appendice di<br />

trattazione scritta prevista dal 5° comma dell’art. 183, l’emendatio delle domande e delle eccezioni<br />

già proposte dovrebbe rappresentare la linea di confine e di separazione tra la fase preparatoria,<br />

deputata alla fissazione (potenzialmente) definitiva del thema decidendum e del thema probandum,<br />

e la fase lato sensu istruttoria, destinata all’articolazione delle richieste istruttorie e poi<br />

all’assunzione delle prove ammesse.<br />

8.3. – Per quel che concerne le richieste e le produzioni istruttorie, l’art. 184 prevede ora che il<br />

giudice istruttore, “salva l’applicazione dell’art. 187” – ossia salva l’ipotesi in cui la causa sia


matura per la decisione senza istruttoria (eventualmente per il profilarsi di una questione<br />

preliminare o pregiudiziale idonea a definire il giudizio) – “ammette i mezzi di prova proposti [che<br />

ritenga ammissibili e rilevanti], ovvero, su istanza di parte, rinvia ad altra udienza, assegnando un<br />

termine entro il quale le parti possono produrre documenti e indicare nuovi mezzi di prova, nonché<br />

altro termine per l’eventuale indicazione di prova contraria”. Premesso che, secondo<br />

l’interpretazione prevalente, l’integrazione delle iniziali richieste istruttorie è svincolata da<br />

qualunque condizione, che d’altronde non troverebbe alcun appiglio né nella norma in esame né nei<br />

lavori preparatorii (44), una parte della dottrina sembra ritenere che l’istanza di concessione dei<br />

suddetti termini debba essere avanzata, a pena di decadenza, nella prima udienza di trattazione (45),<br />

oppure (per il caso in cui sia stata chiesta la trattazione scritta a norma dell’art. 183, 5° comma)<br />

entro l’udienza immediatamente successiva (46); ma una tale limitazione per un verso non è affatto<br />

imposta dalla lettera dell’art. 184, e per altro verso contrasterebbe con la logica del sistema che si è<br />

tentato di delineare e di ricostruire nei paragrafi precedenti. Per quel che concerne il primo profilo,<br />

si è esattamente rilevato che il 2° comma della norma in esame “qualifica come perentori i termini<br />

concessi dal giudice ai sensi del 1° comma, non la richiesta entro la prima udienza di assegnazione<br />

del termine” (47); sicché è chiaro che qui si tratterebbe di individuare una preclusione non prevista<br />

dalla legge. In secondo luogo – quel ch’è più importante – mi pare evidente che, una volta ammessa<br />

la frazionabilità dell’attività di trattazione in più udienze, la preclusione relativa alle richieste<br />

istruttorie e alle produzioni documentali non può che essere l’ultima a scattare, poiché tali richieste<br />

e produzioni potrebbero rendersi opportune proprio in conseguenza delle attività contemplate<br />

dall’art. 183 (per es. alla luce delle risposte rese dall’avversario in sede di interrogatorio, oppure<br />

delle precisazioni o modificazioni da questi apportate alle allegazioni iniziali).<br />

In virtù di tali considerazioni, deve ritenersi che le parti abbiano tempo per integrare le deduzioni<br />

originarie, ovvero per chiedere la fissazione dei termini di cui all’art. 184, fino all’udienza in cui il<br />

giudice istruttore, esaurita l’attività di trattazione prevista nell’art. 183, passerà in concreto ad<br />

esaminare le richieste istruttorie (se del caso, riservandosi i relativi provvedimenti a norma dell’art.<br />

186 c.p.c.) (48), oppure, ritenendo la causa già matura per la decisione, ordinerà l’immediata<br />

precisazione delle conclusioni. La questione, d’altronde, potrebbe essere in qualche modo superata,<br />

qualora dovesse instaurarsi la prudente prassi di chiedere l’assegnazione dei suddetti termini già con<br />

gli atti introduttivi.<br />

È il caso di sottolineare, piuttosto, che l’abrogazione del 3° comma dell’art. 244 c.p.c. (art. 89, 1°<br />

comma, l. 353/90), che consentiva al giudice di assegnare alle parti un termine perentorio per<br />

formulare o integrare i capitoli della prova testimoniale o l’indicazione delle persone da interrogare,<br />

renderà assai difficile porre rimedio agli eventuali (e tutt’altro che infrequenti) difetti di<br />

formulazione della prova medesima. In ordine a tale prova, pertanto, sembra raccomandabile che le<br />

parti provvedano direttamente, entro il termine sopra precisato, ad articolarne compiutamente i<br />

capitoli e la lista dei testi, chiedendo al giudice (quantunque la legge non lo preveda) che si<br />

pronunci subito su tali richieste, prima ancora di fissare i termini di cui all’art. 184; termini che<br />

allora potrebbero essere utilizzati anche per porre rimedio ai difetti cui facevo cenno poc’anzi.<br />

Qualche precisazione è poi necessaria a proposito della prova documentale. È opinione pressoché<br />

pacifica che la produzione di documenti sia sottratta alla generale preclusione di cui all’art. 345, 3°<br />

comma, (come pure, nel rito del lavoro, a quella dell’art. 437, 2° comma) c.p.c., e sia pertanto<br />

consentita pure in appello. A mio avviso, peraltro, questo non può significare che nuovi documenti<br />

siano incondizionatamente producibili in qualunque momento del giudizio di primo grado; ché, al<br />

contrario, la formulazione dell’art. 184 lascia inequivocamente intendere che la preclusione in essa<br />

disciplinata si riferisce anche ai documenti (49). Nè ciò deve meravigliare, poiché la concentrazione<br />

endoprocedimentale – “interna”, cioè, a ciascun grado di giudizio – ben può essere tutelata in modo<br />

autonomo e piu intenso rispetto alla concentrazione complessiva del processo.<br />

Rispetto all’art. 184, pertanto, l’unica eccezione – quanto ai mezzi di prova riservati alle parti (50) –<br />

parrebbe doversi ammettere, semmai, per il giuramento decisorio (cfr. ancora l’art. 345, 3° comma),


in considerazione della sua peculiare idoneità a decidere in ogni caso, almeno in parte, la causa,<br />

finanche in contrasto con le risultanze di tutte le prove anteriormente assunte (51). Per questa<br />

soluzione, d’altronde, depone la mancata modifica dell’art. 233, 1° comma, c.p.c., che continua a<br />

consentire il deferimento del giuramento “in qualunque stato della causa davanti al giudice<br />

istruttore” (52).<br />

L’ultima questione da esaminare, quanto alle preclusioni istruttorie, riguarda l’ipotesi in cui la causa<br />

venga rimessa immediatamente al collegio, senza ammissione di prove, ai sensi dei primi tre commi<br />

dell’art. 187 c.p.c. In relazione a tale ipotesi il 4° comma del medesimo art. 187 prevede poi che,<br />

“qualora il collegio provveda a norma dell’art. 279, 2° comma, n. 4), i termini di cui all’art. 184,<br />

non concessi prima della rimessione al collegio, sono assegnati dal giudice istruttore, su istanza di<br />

parte, nella prima udienza dinanzi a lui”.<br />

In via preliminare va sottolineato che il legislatore sicuramente minus dixit quam voluit, poiché la<br />

norma deve trovare applicazione, con ogni evidenza, in tutti i casi in cui il processo, alla luce della<br />

decisione del collegio, debba comunque proseguire (si pensi, in particolare, alla sentenza resa su una<br />

soltanto di più cause cumulate, ai sensi del n. 5 dell’art. 279); come pure, del resto, mutatis<br />

mutandis, nelle cause affidate alla decisione dello stesso giudice istruttore in funzione di giudice<br />

unico.<br />

Ciò premesso, è ovvio che l’assegnazione dei termini (perentori) per l’integrazione delle iniziali<br />

deduzioni istruttorie deve essere stata gia tempestivamente chiesta al giudice prima della rimessione<br />

al collegio (o, più in generale, prima del passaggio della causa in fase di decisione); ed è su questo<br />

presupposto che la norma in esame per un verso esclude la possibilità di definire senz’altro la<br />

controversia in base al principio enunciato nell’art. 2697 c.c. (cioè facendo leva sull’insufficienza<br />

della prova offerta circa uno o piu fatti principali), e per altro verso fa onere alle parti di reiterare la<br />

relativa richiesta. A mio avviso, peraltro, il riferimento alla “prima udienza” dinanzi al giudice<br />

istruttore dev’essere inteso come termine ordinatorio per il giudice stesso, piuttosto che come<br />

termine di decadenza per le parti. In altre parole, direi che, anche per simmetria rispetto alla<br />

soluzione proposta rispetto all’art. 184, l’istanza di parte menzionata nell’art. 187, 4° comma, potrà<br />

utilmente intervenire fino a quando il giudice non passi concretamente ad esaminare le originarie<br />

richieste istruttorie.<br />

Mette conto di rilevare, infine, che l’applicazione dell’art. 187, 4° comma, potrà rendersi necessaria<br />

pure in appello (naturalmente da parte del collegio); per es., quando venga riformata una sentenza di<br />

accoglimento di un’eccezione pregiudiziale di rito o preliminare di merito, ovvero di rigetto di una<br />

domanda stricto sensu pregiudiziale.<br />

9. – Dai paragrafi che precedono emerge un sistema di preclusioni che, anche (ma non soltanto) alla<br />

luce dei più recenti interventi legislativi, appare molto meno rigido ed assillante di quel che si era<br />

soliti dipingere nei primi commenti della l. 353/90; sistema che comunque è assai distante, per<br />

intendersi, da quello adottato per il processo del lavoro.<br />

Per di più, rispetto al legislatore del ‘73, quello del ‘90 ha avuto il merito e l’accortezza di porsi il<br />

problema delle situazioni, difficilmente tipizzabili in astratto, che possono rendere consigliabile, se<br />

non addirittura doveroso, in relazione alle garanzie costituzionali del diritto d’azione e di difesa, il<br />

superamento delle barriere preclusive. Lo strumento tecnico all’uopo adoperato è quello della<br />

rimessione in termini, prevista dall’art. 184-bis per l’ipotesi in cui la parte dimostri “di essere<br />

incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile”. Questa, per la precisione, è la formulazione<br />

della norma quale risulta opportunamente emendata dai dd.ll. 238/95 e successivi; mentre il testo<br />

originario, introdotto dall’art. 19 della l. 353/90, prendeva in considerazione le sole “decadenze<br />

previste negli artt. 183 e 184”, omettendo di richiamare, invece, per un evidente difetto di<br />

coordinamento, le decadenze comminate, in danno del convenuto, dall’art. 167.<br />

È il caso di rilevare, peraltro, che siffatta modifica, eliminando il riferimento a preclusioni<br />

specifiche, potrebbe conferire all’istituto in esame una dimensione assai più ampia di ciò che


probabilmente era nelle intenzioni del legislatore; nel senso che l’art. 184-bis, svincolato dal rinvio<br />

a determinate disposizioni di legge, parrebbe ora prestarsi ad operare rispetto a tutte le preclusioni e<br />

a tutti i termini (perentori) interni al giudizio di primo grado e forse anche (tenuto conto dell’art.<br />

359 c.p.c.) al giudizio d’appello; con la sola esclusione, dunque, dei termini d’impugnazione. Il che<br />

rappresenterebbe un deciso passo verso la talora auspicata generalizzazione del rimedio della<br />

rimessione in termini per errore scusabile.<br />

Rimane da stabilire, naturalmente, almeno in via esemplificativa, quando ricorra l’ipotesi della<br />

“causa non imputabile”.<br />

Nulla quaestio, direi, per ciò che concerne gli impedimenti di natura strettamente materiale o<br />

comunque obiettiva, riportabili al concetto di forza maggiore: si pensi, per es., al caso in cui il<br />

procuratore dimostri di non aver potuto partecipare ad una determinata udienza e di essere stato, nel<br />

contempo, nell’impossibilità di provvedere tempestivamente alla propria sostituzione; oppure<br />

all’ipotesi in cui il convenuto, nell’allegare tardivamente un fatto estintivo-impeditivo-modificativo<br />

non rilevabile d’ufficio, dimostri di averlo scoperto solo dopo la scadenza del termine per la<br />

proposizione delle eccezioni in senso stretto.<br />

A me pare, peraltro, che l’ambito di applicazione del rimedio in esame possa e debba essere assai<br />

più vasto, per abbracciare tutte le situazioni in cui il superamento delle preclusioni sia giustificato<br />

da eventi o comunque da esigenze difensive sopravvenute, magari in conseguenza di (consentite)<br />

variazioni nel complessivo apparato difensivo dell’altra parte. A favore di questa ampliatio depone,<br />

d’altronde, l’esperienza applicativa del processo del lavoro, in relazione al quale la giurisprudenza,<br />

nonostante l’assoluta mancanza di una disposizione analoga a quella ora considerata, ha ammesso il<br />

superamento delle preclusioni in non poche ipotesi del genus testé indicato: ad es., per le eccezioni<br />

nuove fondate su fatti sopravvenuti (53), oppure rese necessarie da precisazioni o da integrazioni<br />

(magari in diritto) apportate dall’attore alle allegazioni iniziali (54), o comunque giustificate da<br />

“gravi motivi” (55); nonché per le prove nuove giustificate da nuove difese dell’avversario (56).<br />

Nella medesima prospettiva esegetica, inoltre, sarebbe agevole spiegare l’ammissibilità – da tutti<br />

riconosciuta, ancorché con diverse argomentazioni – delle nuove allegazioni (pur se implicanti una<br />

mutatio libelli) e/o richieste istruttorie aventi a fondamento fatti sopravvenuti, oppure fatti che<br />

traggano una nuova rilevanza dallo ius superveniens, o che costituirebbero motivo di revocazione<br />

straordinaria.<br />

Mi pare di poter concludere, insomma, che l’art. 184-bis rappresenta un’irrinunciabile garanzia di<br />

elasticità del sistema di preclusioni introdotto dalla Novella del ‘90; e che, di conseguenza, una sua<br />

equilibrata applicazione può costituire un elemento determinante per le concrete possibilità di<br />

funzionamento del riformato rito civile.<br />

(1) In questo senso v. la relazione sul d.d.l. n. 1288/S/X presentata dai senatori Acone e Lipari, per<br />

conto della Commissione giustizia del Senato, all’Aula, spec. il § 6.2.<br />

(2) Per quel che concerne i dd.ll. nn. 238/95, 347/95 e 432/95, molte delle opinioni che esporrò nel<br />

prosieguo di questa relazione sono più ampiamente argomentate nello scritto Ancora “interventi<br />

urgenti” sulla riforma del processo civile, in corso di pubbl. in Giur. it., 1995, IV. Per un primo<br />

commento del d.l. n. 238/95 v. altresì COSTANTINO, La lunga agonia del processo civile, in Foro<br />

it., 1995, V, c. 321 ss.; LUISO, Il d.l. n. 238/1995 sul processo civile, in Giur. it., 1995, IV, c. 31 ss.;<br />

CONSOLO, La girandola della riforma del codice di procedura civile, in Corriere giur., 1995, p.<br />

867 ss.; CAPPONI, “L’ultimo” decreto-legge sulla riforma del rito civile, ibidem, p. 771 ss.;<br />

CALIFANO, Prima lettura del d.l. 21 giugno 1995, n. 238: i nuovi artt. 180 e 183 c.p.c., in Giust.<br />

civ., 1995, II, p. 363 ss.


Molto più copiosa, naturalmente, è la letteratura relativa alla l. n. 353/90 e agli altri numerosi<br />

provvedimenti legislativi, ad essa successivi, che, nel differirne la piena e definitiva entrata in<br />

vigore, ne hanno pure ritoccato qualche profilo non estraneo all’oggetto della presente relazione (v.<br />

soprattutto i dd.ll. nn. 521/93, 105/94, 235/94, 380/94 e 493/94, non convertiti, e il d.l. 571/94,<br />

convertito dalla l. n. 673/94, che hanno inciso sugli artt. 166 e 168-bis c.p.c., nonché sull’art. 76<br />

delle disp. att.). In questa sede mi limito a menzionare i manuali e commentari ai quali farò più<br />

frequentemente riferimento nel prosieguo: ATTAR<strong>DI</strong>, Le nuove disposizioni sul processo civile,<br />

Padova, 1991, spec. p. 66 ss.; PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Napoli,<br />

1991, spec. p. 130 ss.; ID., Lezioni di dir. proc. civ., Napoli, 1994, spec. p. 101 ss.; TARZIA,<br />

Lineamenti del nuovo processo di cognizione, Milano, 1991, spec. p. 78 ss.; VERDE e <strong>DI</strong> NANNI,<br />

Codice di proc. civ. Legge 26 novembre 1990, n. 353, Torino, 1991, spec. p. 72 ss.; CONSOLO,<br />

LUISO e SASSANI, La riforma del processo civile, I, Milano, 1991, spec. p. 82 ss.; AA.VV.,<br />

Provvedimenti urgenti per il processo civile (commentario a cura di Cipriani e Tarzia), in Nuove<br />

leggi civ. comm., 1992, spec. p. 71 ss.; VACCARELLA, CAPPONI e CECCHELLA, Il processo<br />

civile dopo le riforme, Torino, 1992, spec. p. 86 ss.; AA.VV., Le riforme del processo civile<br />

(commentario a cura di Chiarloni), Bologna, 1992, spec. p. 161 ss.; TARUFFO, in AA.VV, Le<br />

riforme della giustizia civile, (a cura di Taruffo), Torino, 1993, spec. p. 242 ss.; SATTA e PUNZI,<br />

Dir. proc. civ.11, Padova, rist. 1994, spec. p. 326 ss.; MONTESANO e ARIETA, Dir. proc. civ., II,<br />

Torino, 1994, spec. p. 47 ss.; CARPI e TARUFFO, Commentario breve al c.p.c.3, Padova, 1994,<br />

spec. p. 409 ss.; MANDRIOLI, Corso di dir. proc. civ.10, Torino, 1995, II, spec. capp. II e III;<br />

COMOGLIO, FERRI e TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1995, spec. capp. XVII e<br />

XVIII.<br />

Sullo specifico tema delle preclusioni v. poi, tra i contributi più recenti, CAPPONI, Atti introduttivi,<br />

prima udienza e preclusioni nel nuovo processo civile, in Documenti giust., 1995, c. 351 ss.;<br />

FRASCA, Il giudizio civile di primo grado: la prima udienza e le preclusioni, ivi, 1994, c. 973 ss.; e<br />

LAPERTOSA, Le preclusioni istruttorie nel giudizio di primo grado secondo la legge 353/90, in<br />

Riv. dir. proc., 1994, p. 1086 ss.<br />

Per ulteriori indicazioni bibliografiche mi sia consentito rinviare a BALENA, La riforma del<br />

processo di cognizione, Napoli, 1994, spec. capp. III, IV e V.<br />

(3) V. più diffusamente Ancora «interventi urgenti’’, cit., § 3.2.2.<br />

(4) Per le opportune citazioni rinvio a La riforma del processo di cognizione, cit., pp. 130-132, testo<br />

e note 85 e 86.<br />

(5) In realtà si tratta di un punto tutt’altro che pacifico, sul quale non posso che rinviare ancora alla<br />

mia op. ult. cit., p. 103 ss.<br />

(6) Naturalmente sul presupposto che il convenuto non si sia costituito; ché, altrimenti, la nullità<br />

resterebbe sanata senza residuo alcuno, al di fuori delle ipotesi cui sto per far cenno nel testo.<br />

(7) Purché – è il caso di ribadirlo – la nullità venga rilevata, d’ufficio o dallo stesso convenuto, entro<br />

la prima udienza.<br />

(8) E dunque non oltre la precisazione delle conclusioni (cfr. Cass. 8 agosto 1990, n. 8038, in Foro<br />

it., Rep. 1990, voce Procedimento civ., n. 160, che si riferisce genericamente alle nuove eccezioni; e<br />

Cass. 9 giugno 1994, n. 5611, in Giust. civ., 1994, I, 3123, che invece prende in considerazione le<br />

sole eccezioni non rilevabili d’ufficio.<br />

(9) V. soprattutto, anche per ulteriori indicazioni, ORIANI, L’eccezione di merito nei<br />

Provvedimenti urgenti per il processo civile, in Foro it., 1991, V, c. 5 ss., e la voce Eccezione, in<br />

Dig disc. priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, spec. 266 ss.; e v. altresì, da ultimo, MANDRIOLI,<br />

Corso, cit., I, p. 126 s., e ATTAR<strong>DI</strong>, Dir. proc. civ., I, Padova, 1994, p. 62 s.<br />

(10) Ampie e significative indicazioni in ORIANI, L’eccezione di merito, cit., spec. c. 17 ss.


(11) Cfr. ad es., Cass. 14 giugno 1994, n. 5766, in Foro it., Rep. 1994, voce Lavoro (rapporto), n.<br />

1617, con riferimento alla deduzione del c.d. aliunde perceptum nel giudizio di risarcimento del<br />

danno derivante da illegittimo licenziamento; Cass. 20 maggio 1994, n. 4938, ibidem, voce cit., n.<br />

1618, relativa all’irrisarcibilità dei danni di cui all’art. 1227, 2° comma, c.c.; Cass. 24 maggio 1993,<br />

n. 5819, ivi, Rep. 1993, voce Contratto in genere, n. 479, circa l’operatività della clausola<br />

contrattuale del solve et repete; Cass. 10 agosto 1990, n. 8155, ivi, Rep. 1990, voce Procedimento<br />

civ., n. 112, in relazione alla rilevabilità della rinuncia al credito dedotto in giudizio.<br />

(12) TARUFFO, Le preclusioni nella riforma del processo civile, in Riv. dir. proc., 1992, 296 ss.,<br />

spec. 298 s.<br />

(13) Per maggiori ragguagli, nonché per le relative indicazioni bibliografiche, v., se vuoi, BALENA,<br />

Il processo davanti al giudice di pace, in Scritti in onore di Elio Fazzalari, II, Milano, 1993, spec. P.<br />

711 ss. E cfr. da ultimo, in una prospettiva esegetica assai prossima a quella criticata nel testo, G. F.<br />

RICCI, in BONSIGNORI, LEVONI e RICCI, Il giudice di pace, Torino, 1995, p. 174 ss.<br />

(14) V. ad es. Cass. sez. un. 13 luglio 1993, n. 7708, in Arch. civ., 1993, 1145, e, in motivazione,<br />

Cass. 15 gennaio 1986, n. 196, in Riv. dir. proc., 1988, 1185, con nota di GALVAGNO.<br />

(15) Cfr. infatti, ad es., Cass. 16 luglio 1992, n. 8600, in Foro it., Rep. 1992, voce Lavoro e<br />

previdenza (controversie), n. 140, e 4 dicembre 1987, n. 9021, ivi, Rep. 1987, voce cit., n. 197,<br />

relativamente alla prova tardivamente dedotta nel corso del processo di primo grado.<br />

(16) Alle decisioni citt. nella precedente nt. 13 adde, tra le più recenti, Cass. 7 febbraio 1992, n.<br />

1335, in Foro it., Rep. 1992, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 129.<br />

Per la dottrina relativa alla legge n. 353/90 v. soprattutto ATTAR<strong>DI</strong>, Le nuove disposizioni, cit., p.<br />

83; MONTESANO e ARIETA, Dir. proc. civ., cit., II, p. 59; TARZIA, Lineamenti, cit., pp. 90 e<br />

120; CHIARLONI, in AA.VV., Le riforme del processo civile, cit., pp. 205-207; e TAVORMINA,<br />

in Corriere giur., 1991, p. 45.<br />

(17) Citata nella precedente nt. 1.<br />

(18) Nello stesso passo (§ 6.2) si aggiunge che la normativa processuale “non può e non deve<br />

imporre alle parti che non la richiedono e che semmai, pur avendo instaurato il processo, si avviano<br />

ad una definizione stragiudiziale della controversia, una decisione”.<br />

(19) Per una conclusione parzialmente analoga v. ora COMOGLIO, FERRI e TARUFFO, Lezioni,<br />

cit., p. 499 s., i quali, peraltro, propendono per l’inammissibilità, rilevabile d’ufficio, delle nuove<br />

domande ed eccezioni successive all’udienza di trattazione.<br />

(20) Per questa soluzione sembra propendere la giurisprudenza prevalente, la quale ritiene che, per<br />

evitare un’implicita accettazione del contraddittorio, sia necessaria l’immediata eccezione della<br />

parte avversa: v. ad es., tra le più recenti, Cass. 2 dicembre 1994, n. 10351, in Foro it., Rep. 1994,<br />

voce Procedimento civ., n. 166; 21 febbraio 1994, n. 1655, ibidem, voce cit., n. 168; e 20 febbraio<br />

1992, n. 2091, ivi, Rep. 1992, voce cit., n. 142.<br />

(21) Così, implicitamente, Cass. 14 aprile 1994, n. 3475, in Foro it., Rep. 1994, voce Procedimento<br />

civ., n. 145.<br />

(22) Ne La riforma del processo di cognizione, cit., 167, nt. 15, proponevo come raffronto l’istituto<br />

della prescrizione: la circostanza ch’esso abbia alla base indubbie esigenze pubblicistiche (che<br />

spiegano, tra l’altro, l’inderogabilità convenzionale della relativa disciplina: art. 2936 c.c.) non è in<br />

alcun modo contraddetta dal fatto che la concreta rilevanza della prescrizione sia però subordinata<br />

all’eccezione della parte interessata.<br />

(23) Per una più puntuale rassegna, ancorché pur sempre esemplificativa, rinvio a La riforma, cit., p<br />

173 ss.


(24) Mi riferisco, sia chiaro, alle domande ed eccezioni che potrebbero trovar causa in eccezioni<br />

rilevabili d’ufficio o in mere difese del convenuto, che quest’ultimo potrebbe sollevare pure in sede<br />

di costituzione tardiva: si pensi, ad es., al caso in cui, di fronte alla contestazione di un fatto<br />

costitutivo del diritto azionato, l’attore intenda proporre una (nuova) domanda in via subordinata,<br />

oppure una domanda di accertamento incidentale ex art. 34 c.p.c. Lo stesso dicasi, naturalmente, per<br />

il caso in cui le difese del convenuto possono far sorgere l’esigenza di chiamare in causa un terzo, ai<br />

sensi dell’art. 183, 4° comma.<br />

(25) Cfr. invece, ad es., PROTO PISANI, Lezioni, cit., p. 114 ss.<br />

(26) Per la soluzione affermativa cfr. ad es., più o meno esplicitamente, ATTAR<strong>DI</strong>, Le nuove<br />

disposizioni, cit., p. 73 s.; LUISO, in La riforma, cit., I, p. 99 ss.; COSTANTINO, in Provvedimenti<br />

urgenti, cit., p. 87 s.; CHIARLONI, in Le riforme, cit., p. 175 ss.; OBERTO, in Giur. it., 1991, IV,<br />

spec. c. 315; PIVETTI, in Questione giustizia, 1991, spec. p. 202 s.; e CAPPONI, in Il processo<br />

civile, cit., p. 99 s.<br />

Per l’inesistenza della suddetta preclusione v. invece soprattutto PROTO PISANI, La nuova<br />

disciplina, cit., p. 221 ss., e BALENA, La riforma, cit., p. 186 ss.; ed inoltre MANDRIOLI, Corso,<br />

cit., II, p. 83 in nota e p. 89, e TARZIA, Lineamenti, cit., p. 123 s., il quale ultimo giustamente<br />

sottolinea come le decadenze non possano essere oggetto di interpretazione estensiva.<br />

(27) Già espressa e più ampiamente motivata in La riforma, cit., p. 186 ss.<br />

(28) V. ancora la menzionata Relazione al Senato, spec. §§ 6 e 6.2.<br />

(29) Cfr. in genere gli aa. citt. nella prima parte della precedente nt. 25.<br />

(30) Così, ad es., MANDRIOLI, Corso, cit., I, p. 147, testo e nt. 7.<br />

(31) Particolarmente dettagliata e significativa mi sembra la Rule 18, order 13, della Corte Suprema<br />

inglese, che qui si riporta nella traduzione tratta da Il processo civile inglese, a cura di Picardi e di<br />

Giuliani, Rimini, 1991, p. 178 s.: “1) Subordinatamente a quanto disposto dal successivo paragrafo<br />

4, ogni circostanza di fatto affermata da una parte nel suo pleading si dà per ammessa dalla<br />

controparte, a meno che non sia da quest’ultima contestata nel suo pleading (…). _ 2) Una<br />

contestazione può essere fatta in forma di risposta negativa, ovvero mediante una dichiarazione di<br />

non ammissione, e ciò sia espressamente che in via di necessaria implicazione. _ 3)<br />

Subordinatamente a quanto disposto dal successivo paragrafo 4, ogni circostanza di fatto allegata<br />

nella domanda o nella domanda riconvenzionale, che la parte alla quale viene notificata non intende<br />

ammettere, deve essere specificamente contestata dalla parte stessa nella sua risposta o nella<br />

risposta alla domanda riconvenzionale, a seconda dei casi; e un diniego generico delle circostanze di<br />

fatto allegate, ovvero una dichiarazione generica di non ammissione di esse, non vale come<br />

contestazione delle medesime. _ 4) Ogni circostanza riguardante il fatto che la parte allegante ha<br />

subìto un danno ed ogni altra circostanza, altresì, riguardante l’ammontare del danno subìto si dà<br />

per contestata, a meno che non sia specificamente ammessa”.<br />

(32) Cfr. soprattutto PROTO PISANI, La nuova disciplina, cit., pp. 116 e 158-160, RAMPAZZI, in<br />

AA.VV., Le riforme, cit., pp. 125-127, e da ultimo l’ampio studio di CARRATTA, Il principio della<br />

non contestazione nel processo civile, Milano, 1995, spec. p. 284 ss., che estende siffatta<br />

preclusione finanche alla parte contumace; ed inoltre RICCI G. F., in CARPI e TARUFFO,<br />

Commentario breve, Appendice di aggiornamento, Padova, 1991, p. 47 s.; PIVETTI, in Questione<br />

giustizia, 1991, spec. p. 197 ss., e FABIANI, L’istruzione probatoria a seguito della legge n. 353 del<br />

1990, in Doc. giustizia, 1992, c. 1239, n. 6 in fine.


Nello stesso senso, con espresso riferimento al rito del lavoro, v. gia, diffusamente, FRUS, Note<br />

sull’onere del convenuto di “prendere posizione” nel processo del lavoro, in Riv. trim. dir. proc.<br />

civ., 1991, P. 63 ss., spec. 91 ss.<br />

(33) MICHELI, L’onere della prova, Padova, 1942, p. 98 e nt. 1; ANDRIOLI, voce Prova (dir. proc.<br />

civ.), in Noviss. dig. it., XIV, Torino, 1976, P. 274 s.; VERDE, voce Prova (dir. proc. civ.), in Enc.<br />

dir., XXXVII, Milano, 1988, spec. p. 616; e VALLEBONA, L’onere della prova nel diritto del<br />

lavoro, Padova, 1988, P. 27 ss. Più recentemente v. altresì CIACCIA CAVALLARI, La<br />

contestazione nel processo civile, Milano, 1992/93, spec. I, p. 133 ss., e II, p. 34 ss.<br />

(34) Fra le tante v. ad es. Cass. 1° agosto 1994, n. 7156, in Giust. civ., 1994, I, 2759; 18 dicembre<br />

1993, n. 12553, in Foro it., Rep. 1994, voce Prova civ., n. 16; 5 dicembre 1992, n. 12947, in Giur.<br />

it., 1993, I, 1. 1450; 15 aprile 1988, n. 2979, in Foro it., Rep. 1988, voce Prova civ., n. 16; 26 agosto<br />

1986, n. 5229, ivi, Rep. 1986, voce cit., n. 12; e 7 febbraio 1986, n. 773, ibidem, voce cit., n. 14.<br />

(35) V. ad es. Cass. 2 giugno 1994, n. 5359, in Foro it., Rep. 1994, voce Lavoro e previdenza<br />

(controversie), n. 152; 7 luglio 1987, n. 5933, ivi, Rep. 1987, voce cit., n. 166; 6 marzo 1987, n.<br />

2386, ibidem, voce cit., n. 167; e 16 maggio 1981, n. 3251, ivi, Rep. 1981, voce Prova civ., n. 14.<br />

(36) Nel senso, infatti, che il predetto obbligo non sia sanzionato da alcuna decadenza e che la sua<br />

inottemperanza non esoneri comunque l’attore dal fornire la prova dei fatti costitutivi del proprio<br />

diritto, in base al principio di cui all’art. 2697 c.c., v. ad es. Cass. 19 agosto 1994, n. 7447, in Foro<br />

it., Rep. 1994, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 149; 7 luglio 1994, n. 6417, ibidem, voce<br />

cit., n. 150; 10 novembre 1990, n. 10849, ivi, Rep. 1990, voce cit., n. 172; 18 luglio 1987, n. 6339,<br />

ivi, Rep. 1987, voce cit., n. 165; 7 luglio 1987, n. 5933, ibidem, voce cit., n. 166; 13 dicembre 1986,<br />

n. 7476, ivi, Rep. 1986, voce cit., n. 221; e 4 dicembre 1986, n. 7186, ibidem, voce cit., n. 222.<br />

(37) Sulla scia della giurisprudenza menzionata nella precedente nt. 33.<br />

(38) Può essere interessante osservare, d’altronde, che, a differenza di altre norme (quali ad es. gli<br />

artt. 167 e 345), l’art. 183 è formulato essenzialmente in termini meramente autorizzativi: “l’attore<br />

può proporre le domande e le eccezioni ecc. (…), e “può altresì chiedere di essere autorizzato a<br />

chiamare un terzo (…); “entrambe le parti possono precisare e modificare ecc. (…)”. Il che non<br />

impedisce ad una parte della dottrina di ritenere implicita in tali disposizioni la previsione di un<br />

termine perentorio, riferito di regola alla prima udienza (v. ad es. FRASCA, Il giudizio civile di<br />

primo grado, cit., spec. c. 996 ss.); quasi che il regime di preclusione rappresentasse il principio<br />

fondamentale e lo ius novorum l’eccezione.<br />

(39) Giurisprudenza costante: v. ad es. Cass. 13 giugno 1994, n. 5716, in Foro it., Rep. 1994, voce<br />

Intervento in causa e litisconsorzio, n. 30; 25 ottobre 1988, n. 5780, ivi, Rep. 1988, voce<br />

Procedimento civ., n. 106; 26 febbraio 1982, n. 1224, ivi, Rep. 1982, voce Intervento in causa e<br />

litisconsorzio, n. 50; 30 ottobre 1981, n. 5736, ivi, Rep. 1981, voce cit., n. 58; e 6 aprile 1981, n.<br />

1948, ibidem, voce cit., n. 57.<br />

(40) V. tra le più recenti Cass. 18 aprile 1994, n. 3662, in Foro it., Rep. 1994, voce Lavoro e<br />

previdenza (controversie), n. 133; 3 settembre 1993, n. 9291, in Foro it., 1994, I, 400; e 24 aprile<br />

1986, n. 2906, in Foro it., Rep. 1986, voce cit., n. 158.<br />

Ancora in relazione al processo del lavoro, mi sembra interessante la massima di Cass. sez. un. 14<br />

gennaio 1992, n. 363, in Foro it., Rep. 1992, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 136,<br />

secondo cui l’art. 420, ult. comma, che vieta le udienze di mero rinvio, avrebbe “funzione soltanto<br />

sollecitatoria, senza implicare, in caso d’inosservanza, sanzioni, né, in particolare, decadenza dalle<br />

facoltà in relazione al cui esercizio sia stato chiesto ed ottenuto detto rinvio”.<br />

(41) Per una sintetica rassegna delle principali linee di tendenza v. la mia op. ult. cit., p. 203 ss.


(42) Nel senso qui sostenuto v. CHIARLONI, in Le riforme, cit., p. 192, il quale giustamente<br />

osserva: “Il concetto di precisazione appare incompatibile con il concetto di preclusione, il quale<br />

ultimo non può che riguardare il divieto di introdurre materiale nuovo”.<br />

Vale la pena di ricordare, d’altronde, che pure in relazione al rito del lavoro, caratterizzato da<br />

preclusioni innegabilmente più rigide, la giurisprudenza ammette, ad es., che, salva l’esigenza di<br />

una compiuta specificazione dei relativi titoli, la concreta quantificazione di una domanda di<br />

condanna al pagamento di somme possa avvenire nel corso del processo, al di là dei limiti cui è<br />

assoggettata l’emendatio libelli: cfr. ad es. Cass. sez. un. 27 ottobre 1993, n. 10685, in Foro it., Rep.<br />

1993, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 151; Cass. 21 luglio 1992, n. 8767, ivi, Rep.<br />

1992, voce cit., n. 106; e Cass. 20 aprile 1990, n. 3289, ivi, Rep. 1990, voce cit., n. 137.<br />

(43) Penso, ad es., all’ipotesi in cui si indichi un diverso termine iniziale o finale del periodo in cui<br />

si asserisce di aver posseduto continuativamente il bene ai fini dell’usucapione, oppure si modifichi<br />

la data per la quale si chiede il rilascio di un immobile (su quest’ultima ipotesi cfr., con riferimento<br />

al rito delle controversie agrarie, Cass. 23 aprile 1992, n. 4923, in Foro it., 1993, I, 156, con nota di<br />

BELLANTUONO, che ammette la modifica finanche in appello); o al caso in cui si specifichino<br />

talune circostanze di tempo e di luogo in cui ha avuto origine la vicenda obbligatoria dedotta in<br />

giudizio. Ed è chiaro che un limite indiretto a siffatte “precisazioni” sarà spesso rappresentato dalla<br />

necessità di articolare la prova dei relativi fatti entro il momento indicato nell’art. 184.<br />

(44) Nel senso qui sostenuto cfr. ad es., più o meno esplicitamente, MANDRIOLI, Corso, cit., II, p.<br />

89 s.; MONTESANO e ARIETA, Dir. proc. civ., cit., II, p. 63; TARUFFO, in BORRÈ,<br />

CASTELLANO, PROTO PISANI, E. F. RICCI e TARUFFO, La riforma del processo civile. Linee<br />

fondamentali, Milano, 1991, p. 40 s.; LAPERTOSA, Le preclusioni istruttorie, cit., p. 1092 ss.; e<br />

CAPPONI, in Il processo civile, cit., p. 103; G. F. RICCI, in CARPI e TARUFFO, Commentario<br />

breve, cit., p. 425 s. [che in precedenza si era diversamente espresso nella Appendice di<br />

aggiornamento della medesima opera, (Padova, 1991), p. 67 s.].<br />

Secondo alcuni autori, invece, le deduzioni nuove, rispetto a quelle contenute negli atti introduttivi,<br />

sarebbero consentite solo quando fossero giustificate dall’esito della prima udienza: così, pur con<br />

diverse sfumature, GRASSO, Note sui poteri del giudice nel nuovo processo di cognizione di primo<br />

grado, in Riv. dir. proc., 1992, p. 721 s., e VERDE, in Codice di proc. civ., cit., p. 25.<br />

(45) Cfr. soprattutto PROTO PISANI, Lezioni, cit., p. 118, il quale, tuttavia, muove dal presupposto<br />

che la prima udienza abbia realmente esaurito l’attività di trattazione e sottolinea, giustamente, che<br />

la preclusione in esame rappresenta la “cerniera” tra la fase preparatoria e quella istruttoria.<br />

(46) LAPERTOSA, op. cit., p. 1094 s.<br />

(47) Così lo stesso PROTO PISANI, op. loc., ult. cit..<br />

(48) Alla luce di quanto osservato in ordine al principio di concentrazione, non mi pare, infatti, che<br />

la riserva di pronuncia ex artt. 176 e 186 sia incompatibile col sistema risultante dalla riforma (come<br />

ritengono, invece, PROTO PISANI, Lezioni, cit., p. 117, e RAMPAZZI, in Le riforme, cit., p. 213,<br />

nt. 8.<br />

(49) V. ad es. TARZIA, Lineamenti, cit., p. 111.<br />

La precisazione mi sembra opportuna tenuto conto che, sebbene l’art. 416 c.p.c. non sia meno<br />

perentorio, a mio avviso, del nuovo art. 184, la giurisprudenza prevalente ritiene che, nel rito del<br />

lavoro, la produzione di nuovi documenti sia consentita pure all’udienza di discussione: così, tra le<br />

più recenti, Cass. 7 maggio 1993, n. 5265, in Arch. locazioni, 1993, 738; 4 febbraio 1993, n. 1359,<br />

in Foro it., Rep. 1993, voce Lavoro e previdenza (controversie), n. 214; e 30 maggio 1989, n. 2618,<br />

ivi, Rep. 1989, voce cit., n. 181. Cfr. tuttavia Cass. 10 febbraio 1990, n. 972, ivi, Rep. 1990, voce<br />

cit., n. 311.


(50) Lo stesso art. 184, 3° comma, invero, esclude implicitamente dalla preclusione in esame i<br />

mezzi istruttori disponibili ex officio.<br />

(51) Cfr. infatti, con riguardo al rito del lavoro, Cass. 3 aprile 1992, n. 4129, in Giust. civ., 1993, I,<br />

741.<br />

(52) Nello stesso senso TARZIA, Lineamenti, cit., p. 112, FABIANI, L’istruzione probatoria, cit., c.<br />

1237, e, sia pure dubitativamente, TAVORMINA, in Corriere giur., 1991, p. 47.<br />

(53) Cfr. Cass. 8 febbraio 1986, n. 813, in Foro it., Rep. 1986, voce Lavoro e previdenza<br />

(controversie), n. 429, e 28 aprile 1984, n. 2668, ivi, Rep. 1984, voce cit., n. 178.<br />

(54) Cfr. Cass. 8 settembre 1988, n. 5098, in Foro it., Rep. 1988, voce cit., n. 165, e 29 luglio 1986,<br />

n. 4877, ivi, Rep. 1986, voce cit., n. 213.<br />

(55) La giurisprudenza, forzando la lettera dell’art. 420, 1° comma, c.p.c., ritiene, infatti, che<br />

l’autorizzazione del giudice ivi prevista possa condurre anche alla proposizione di eccezioni del<br />

tutto nuove: v. ad es., Cass. 27 marzo 1985, n. 2164, in Riv. it. dir. lav., 1985, II, 681, con nota di<br />

FORNACIARI.<br />

(56) V. ad es. Cass. 5 novembre 1987, n. 8131, in Foro it., Rep. 1987, voce cit., n. 143.

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!