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per il ciclo<br />

Le sfide del presente<br />

“Raccogliere oggi la sfida della realtà”<br />

in occasione della pubblicazione del libro<br />

“Una ragione inquieta”<br />

di Costantino Esposito (Ed. Di Pagina)<br />

incontro con<br />

Costantino Esposito, ordinario di Storia della filosofia<br />

nell’Università degli Studi Aldo Moro, Bari<br />

Salvatore Natoli, ordinario di Filosofia della politica<br />

nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca<br />

coordina<br />

Giancorrado Peluso, docente di Letteratura italiana<br />

Sala Verri di via Zebedia 2, Milano<br />

Mercoledì 30 novembre 2011<br />

©<br />

Via Zebedia, 2 20123 Milano<br />

tel. 0286455162-68 fax 0286455169<br />

www.cmc.milano


Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

GIANCORRADO PELUSO: Buonasera a tutti, vi ringrazio per la partecipazione alla presentazione<br />

del libro di Costantino Esposito: Una ragione inquieta. Il tema per cui ci siamo riuniti raccoglie<br />

oggi la sfida della realtà e, secondo noi, il testo di Esposito, come anche la presenza del dottor<br />

Salvatore Natoli, è indicativa del livello a cui si pone questa presentazione e del tema che si tocca.<br />

Se da una parte l’aggettivo tipicamente agostiniano “inquieto” dice di tutta la ricerca dell’uomo e<br />

quindi della coscienza di un’intelligenza dell’uomo davanti al reale per scoprirne il significato e la<br />

corrispondenza a sé, dall’altra parte la parola “inquieta” apre come una finestra sul mondo della<br />

modernità, in cui ci si muove riducendo a volte questa ricerca a un soggettivismo.<br />

Mi sembra molto interessante che su questo libro, e ancora di più sulla relazione che Costantino<br />

Esposito ha presentato al Meeting di Rimini del 2011 sul tema della certezza, si sia svolto in questi<br />

mesi un dibattito molto aperto e autorevole, con la partecipazione anche di Ferraris, dello stesso<br />

Natoli, di Formica, di Bari, di Mazzarella, sul tema proprio della certezza.<br />

Davanti alla crisi di oggi – lo vedo insegnando a scuola, sono un povero professore di lettere -<br />

davanti alla crisi economica, sociale e politica, dove è in crisi l’immagine, anche per molti ragazzi,<br />

di se stessi, che cosa vuol dire invece, parafrasando il nostro primo ministro, poter affermare con<br />

una coscienza limpida e trasparente, con certezza, che esiste un senso nella realtà, un significato<br />

ultimo?<br />

È quindi questo il primo grande tema su cui ci interroghiamo. Costantino Esposito è stato spesso<br />

nostro ospite: professore di Filosofia e Storia della filosofia dell’Università di Bari, ha a suo carico<br />

pubblicazioni che partono dallo studio di Kant, Heidegger e della Metafisica di Suarez; quindi il<br />

nodo della modernità dopo Cartesio; ha fatto una rilettura e riscrittura di Heidegger ed ha anche<br />

pubblicato con Laterza un testo di storia della filosofia per i licei, oltre ad una serie di pubblicazioni<br />

molto interessanti proprio su temi che spero si toccheranno stasera, come il tema della verità, della<br />

bellezza, del desiderio, ecc. L’incontro di oggi è su questa ultima pubblicazione che raccoglie una<br />

serie di interventi sulla ragione inquieta.<br />

Ci accompagna il dott. Salvatore Natoli, anch’egli da Bari, laureato in realtà a Milano, assistente e<br />

ricercatore insieme a Severino, quando vi era ancora Bontadini. Ha a suo carico una serie di studi su<br />

Sartre – su cui ha fatto la tesi di laurea - e sull’etica aristotelica, per puntare poi su tutta la<br />

modernità: Heidegger, Nietzsche soprattutto, di cui oggi è stato pubblicato e recensito un testo tra i<br />

più recenti, una raccolta sul teatro e la filosofia, insieme ad altri testi (io ho in mente una conferenza<br />

bellissima a Bergamo su Leopardi, ma per interessi personali). Quindi il dottor Natoli ci<br />

accompagnerà in questo dialogo proprio sul tema della ragione inquieta.<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

La prima domanda con cui apro e che pongo al dottor Costantino Esposito è la seguente: che cosa<br />

vuol dire questa inquietudine della ragione, cosa vuol dire che la certezza è di un uomo, di un io<br />

cosciente di sé?<br />

COSTANTINO ESPOSITO: Io vorrei semplicemente, in questi brevissimi minuti, dire alcune cose<br />

che ho imparato “montando” questo libro. È un libro “montato” perché nasce dalla raccolta di<br />

alcuni saggi, ma proprio nel lavorarci e nel raccoglierli io stesso, in qualche modo, ho dovuto fare i<br />

conti con quello che, nel lavoro di questi anni, mi si era fatto chiaro.<br />

Comincio segnalando tre punti. Il primo punto è questo: l’epoca in cui noi viviamo, normalmente,<br />

tra le diverse possibilità di definizione, viene chiamata ‘l’epoca del nichilismo’. Prendiamo con le<br />

pinze questo sostantivo perché la società nichilista può significare molte cose: la società<br />

dell’assuefazione, dell’insoddisfazione, del grido come della dimenticanza; diversi sono i modi di<br />

avere coscienza di questa condizione spirituale. Vorrei tagliare il nodo e dire che cosa ho ricapito<br />

attraverso il lavoro di questi saggi. Il nichilismo contemporaneo è innanzitutto una chance, è una<br />

possibilità. Non è innanzitutto una perdita, è anche una perdita; non è innanzitutto una<br />

dimenticanza, è anche una dimenticanza; non è soltanto il venir meno di certe evidenze, è anche<br />

questo.<br />

Al fondo di questa situazione di perdita e dimenticanza c’è la possibilità che riemerga con evidenza<br />

una domanda e che, proprio dove gli uomini del nostro tempo sembrerebbero incapaci di cogliere<br />

quella che si suole chiamare “realtà oggettiva” o un senso vero, un perché ultimo delle cose, proprio<br />

in questa situazione, c’è la possibilità di riavviare la domanda e il desiderio del significato.<br />

È proprio il tema del desiderio che mi interessa, perché intanto il nichilismo può essere una chance,<br />

perché attraverso il deserto, che è questa condizione spirituale (vale a dire la teorizzata impossibilità<br />

di cogliere un significato oggettivamente condiviso delle cose), il problema del vero e del reale può<br />

rinascere sotto la forma del desiderio. In qualche misura è come se la condizione del nichilismo ci<br />

costringesse a ripensare il problema del vero, dell’essere, del reale sotto la forma del desiderio, è<br />

come se ci costringesse a capire che quello che ci sembrava di aver perso, perché consunto in alcune<br />

formule senza evidenza per l’uomo contemporaneo, chiedesse di essere riaffrontato come desiderio<br />

e come domanda. Questo è il primo punto che per me è stato un acquisto di lavoro. Il problema non<br />

è neanche quello di dire se siamo nichilisti o siamo fuori dal nichilismo -giacché da un certo punto<br />

di vista il nichilismo è la condizione in cui anche gli anti-nichilisti oggi sono chiamati a vivere-, ma<br />

capire qual è la posta in gioco, cioè che cosa è effettivamente e come ci provoca.<br />

La seconda questione che presento brevemente è che questo desiderio, proprio in quanto è un<br />

desiderio che rinasce come un fiore dalle pietre del nichilismo, non ha più il tono dell’emozione o<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

del sentimento ma ha il metodo della domanda. Se è vero che nella condizione spirituale del<br />

nichilismo il problema del vero e del reale rinasce come oggetto di un desiderio, come una<br />

questione che muove nuovamente l’energia razionale ed affettiva del soggetto, allora questo ha una<br />

conseguenza di tutto rilievo: il desiderio è al cuore della ragione e della libertà. Non è<br />

immediatamente concepibile nei termini dell’emotività o del sentimento ma nei termini di<br />

un’interrogazione. La cosa che mi è balzata nuovamente agli occhi è uno dei fenomeni secondo me<br />

più interessanti della soggettività umana, cioè che si può cominciare a interrogare sé e il mondo solo<br />

se si è cominciato a ricevere risposta; la risposta -cioè almeno un’ipotesi di un senso presente alla<br />

nostra ricerca- non va pensata innanzitutto come la fine del nostro procedimento interrogativo, non<br />

va pensata come il momento conclusivo in cui, in qualche modo, si fa il bilancio e si raggiunge la<br />

stazione che si aveva in mente di conquistare: è esattamente il contrario, cioè soltanto quando la<br />

ragione umana si imbatte in un’ipotesi di risposta può cominciare veramente a domandare. Da un<br />

certo punto di vista questa è una presa di posizione nei confronti di una certa vulgata della filosofia<br />

post-heideggeriana, diciamo, perché, se ci si imbattesse con una risposta al nostro desiderio di verità<br />

e di realtà, questa risposta sarebbe apprezzabile, ricercata, ma pagata ad un prezzo molto alto e cioè<br />

si cesserebbe di domandare. Al contrario, la domanda può mantenersi aperta e quindi la filosofia<br />

può essere praticata solo a patto di ammettere -quasi fosse una condizione a priori- l’impossibilità<br />

che a questa domanda possa essere data una risposta perché essa coinciderebbe con la cessazione<br />

del domandare.<br />

Quello che ho voluto sottolineare con questo libro, attraverso esperienze di pensiero diverse, sia<br />

filosofiche che letterarie e religiose, è che il genio del domandare è dipendente dalla possibilità di<br />

un ritrovamento e che il domandare, in realtà, non è mai un punto zero della nostra ragione, ma è<br />

già a suo modo un accogliere una risposta. Infine, un terzo punto: se le cose stanno così, allora<br />

questo significa che nell’epoca del postmoderno in cui viviamo - l’epoca in cui sembra che tutte le<br />

grandi aspettative della filosofia moderna siano destinate alla sconfitta (in fondo è la filosofia<br />

moderna quella che pensava di poter cogliere il fondamento della verità, della giustizia, della bontà,<br />

dell’essere) e che queste grandi narrazioni siano divenute impossibili - la pratica della filosofia<br />

debba partire da una realistica o disincantata rinuncia a queste pretese e dal moderno bisogno di<br />

passare necessariamente al postmoderno, cioè di gestire l’irreversibile perdita di questo logos di sé e<br />

del mondo. Invece, probabilmente, il punto è quello di riaprire il problema del moderno. Il punto,<br />

quindi, è di non dare per acquisita una traiettoria riguardo all’io, al reale, alla verità che ritenga<br />

impossibile, dopo la sconfitta dei grandi progetti razionalisti, riproporre in una maniera adeguata<br />

all’uomo contemporaneo queste questioni; bisogna riaprire il dossier, tentare quello che altrove ho<br />

chiamato un “pensiero metamoderno” che riattraversi la grande questione dell’io e della<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

soggettività, che è ciò che di grande ci ha lasciato la filosofia moderna, riaprire questi dossier<br />

verificando fino a che punto le soluzioni che la filosofia moderna ha portato a questi problemi sono<br />

state all’altezza delle domande dell’uomo moderno. Occorre riproporre queste domande senza<br />

demonizzarle, ritenendo esaurita l’esperienza del moderno, ma riattraversare quest’ultimo capendo<br />

che il mondo moderno è ancora, in qualche maniera, una domanda che è in attesa della nostra<br />

risposta. Di qui l’idea della ragione inquieta; giustamente il professor Peluso richiamava il grande<br />

autore dell’inquietudine che è Agostino. Io credo che tante volte noi intendiamo l’inquietudine<br />

come uno stato più o meno patologico della nostra interiorità, e non è un caso che, purtroppo,<br />

Agostino sia spesso letto come un autore di psicologia religiosa che descrive i drammi<br />

dell’interiorità. La scoperta è stata che l’inquietudine non è innanzitutto nell’ordine dell’interiorità<br />

ma nell’ordine ontologico; l’inquietudine è la stoffa della ragione, non è semplicemente il<br />

contraccolpo che noi abbiamo ad alcune incapacità della nostra mente o il segno di una defiance o il<br />

sintomo di un’insoddisfazione, ma è già il segno di una relazione. L’inquietudine è tale perché in<br />

qualche modo siamo già dentro il gioco dell’infinito e quindi è il segno più acuto, anche se il più<br />

enigmatico, della certezza che sta all’origine della nostra esperienza, cioè quella di essere in<br />

rapporto con Qualcuno che ci sta facendo in questo momento. Sembra una struttura un po’ arida.<br />

Ho tentato di rivedere questo nel libro rileggendo dei testi e quindi confrontandomi,<br />

paragonandomi, giudicando alcune esperienze di pensiero in cui questo è all’opera, da Pavese a<br />

Cartesio, da Agostino a Svevo, da Habermas ad Heidegger, da Eliot a Schroedinger a Cezanne;<br />

questi aspetti andrebbero raccontati - cosa che naturalmente non posso fare - attraversando i<br />

tentativi, le scoperte, i passi che, in questa direzione, ho potuto fare con i miei autori. Io, in fondo,<br />

sono soltanto uno storico della filosofia, cioè ho cercato di capire cos’è successo a questi autori, non<br />

ho la presunzione di decidere che cosa sia in assoluto la legge dell’essere, ho cercato di ascoltare<br />

quello che alcuni grandi compagni di cammino mi hanno suggerito. Mi sembra che possa essere,<br />

almeno per quanto mi riguarda, una mappa delle scoperte per me più interessanti del lavoro che mi<br />

è capitata la fortuna di fare.<br />

G. PELUSO: Vorrei chiedere al dottor Natoli se ci sono già delle ulteriori domande o delle<br />

questioni che vuole aprire su questa presentazione del professor Costantino, dal momento che lei<br />

oltretutto, in un bellissimo articolo su “Il Sussidiario”, ha scritto in merito a questo dialogo già<br />

iniziato.<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

SALVATORE NATOLI: Io parto proprio dalle cose che Costantino ha detto e cercherò di<br />

sviluppare un ragionamento dai tratti dialogici e quindi con dei riferimenti al libro a seconda delle<br />

emergenze della tessitura argomentativa.<br />

Intanto, parto dal nichilismo facendo una distinzione - già ragionare su questo porterebbe via tutta la<br />

serata e altro ancora - una distinzione tra due tempi del nichilismo. Un tempo del nichilismo, che<br />

storicamente possiamo collocare nel corso dell’Ottocento e soprattutto primo Novecento, che è il<br />

pathos del nulla, cioè il sentimento della mancanza. Si chiama “morte di Dio”, cioè la perdita di<br />

qualcosa di sicuro che è singolare, e mi allaccio alla seconda domanda. È la perdita che è<br />

conseguenza di un abbattimento, perché questa cosa sicura a cui ci si attaccava era anche una pietra<br />

tombale che limitava. L’operazione della modernità come emancipazione sente la mancanza di ciò<br />

che ha abbattuto e quindi è contrastata perché, se sente la mancanza di ciò che ha abbattuto, per un<br />

verso ha la nostalgia, per l’altro vuole surrogare questa mancanza sostituendolo, diventando essa<br />

stessa una potenza che rassicura. Se vedete la letteratura dell’Ottocento e soprattutto del primo<br />

Novecento voi notate la decadenza cioè il sentimento della perdita e nello stesso tempo l’apologia<br />

del progresso. Sono due atteggiamenti di fondo che si intersecano l’uno con l’altro: da un lato<br />

l’ideologia del progresso - la sicurezza ce l’abbiamo noi, ci siamo liberati da una eternità mortifera<br />

che era un peso - dall’altro abbiamo perso il riferimento. E quindi abbiamo il pathos del nulla.<br />

Poi abbiamo un secondo tempo del nichilismo - si può dire post moderno, anche se l’espressione<br />

non mi convince - un nichilismo che già Nietzsche aveva intuito quando parlava di nichilismo attivo<br />

e nichilismo passivo, ed è un nichilismo che noi vediamo camminando per le strade del nostro<br />

Occidente, cioè non l’esperienza di una mancanza e quindi una nostalgia ma un nichilismo come<br />

annichilimento, come distruzione. Se il nichilismo si sviluppa come distruzione non ha la<br />

percezione di essere nichilismo perché si sente attivo. Noi ci troviamo davanti a un nichilismo che<br />

non ha più nostalgia e che possiamo esprimere nelle espressioni “questa cosa non vale nulla”, “non<br />

ne vale la pena” oppure “la prendo, la consumo e poi la butto via”, “non c’è motivo di conservarla,<br />

c’è solo ragione di consumarla”. Questo si lega molto al desiderio. Adesso la crisi mette in difficoltà<br />

il nichilismo perché fa riemergere le domande, ma l’atteggiamento di fondo è “consumare” che è<br />

l’attività più regolare, normale del distruggere. Da una dimensione di pathos dell’eternità si passa<br />

ad una dimensione di dimenticanza dell’eternità, non c’è più il pathos del nulla ma l’annichilimento<br />

continuo e, poiché esso è attivo, non si ha la percezione del nulla.<br />

La grande caratteristica della modernità è che non si ha più nostalgia di Dio, diventa irrilevante<br />

anche il suo nome. Da qui passo al secondo punto: il desiderio. Il desiderio è di potenza e quindi<br />

nella dimensione attiva, cioè quella del consumo, si tende ad appagare questa propria potenza. Dico<br />

ora solo di passaggio, ma avremo modo di discuterne stasera, il desiderio è due cose insieme, è<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

potenza ed è mancanza (rinvio al Simposio di Platone). È quindi una potenza che tende<br />

naturalmente a colmare la mancanza; questa è la dinamica del desiderio: noi desideriamo qualcosa e<br />

ci attiviamo per colmarla. Allora nella dimensione del desiderio a un certo punto emerge una<br />

patologia ed è data da questo: per un verso ciò che noi vorremmo non è nella nostra disposizione e<br />

quindi abbiamo una dimensione di frustrazione, dall'altro quello che otteniamo ci delude, perché<br />

vorremmo qualcosa di più o di diverso. Si tratta di capire, e qui probabilmente ci sono molte<br />

assonanze tra me e Costantino, perché ci delude. In ogni caso a questa fase della discussione il<br />

desiderio contiene dentro di sé elementi forti di delusione, o perché non riusciamo ad attingere ciò<br />

che desideriamo o perché, una volta attinto, ci rendiamo conto che non ci soddisfa. È troppo poco,<br />

vorremmo qualcosa di diverso e quindi questa potenza è stroncata nella sua ambizione.<br />

Allora si tratta di capire come dare al desiderio un'adeguata soddisfazione, che cosa al desiderio<br />

deve corrispondere perché esso attinga in qualche modo al compimento. Qui uso una parola che è il<br />

punto di massima coincidenza con Costantino ma di grande divisione: il desiderio per compiersi<br />

deve incontrare l'altro. Molte volte questo desiderio è suscitato dall'altro; non c'è soltanto un modo<br />

soggettivo, perché questa potenza soggettiva può essere in qualche modo delusa e allora c'è un altro<br />

che viene incontro e la riaccende. Massimo punto di coincidenza, massimo punto di distanza che io<br />

esprimo con una semplice espressione grafica: “l'altro” uguale “gli altri”, “l'Altro” che è uno solo.<br />

Evidentemente la mia posizione è che la soddisfazione si può ottenere incontrando gli altri senza la<br />

necessità di un Altro. Massimo punto di prossimità ma anche massimo punto di divaricazione,<br />

questo è un tema di discussione.<br />

Allora a questo punto affronto il discorso sull'inquietudine, in un'accezione positiva. In un mio<br />

vecchio libro, il Dizionario dei vizi e delle virtù, avevo analizzato tre figure, dalla positiva alla<br />

negativa. Una era Inquietudine, l'altra era Malinconia – rispetto a cui il mio atteggiamento è<br />

positivo – e l'altra è Disperazione. C'è un passo di Leibniz che parla della «oscillazione del<br />

pendoliere inquieto»; il riferimento è proprio al pendolo. Cos'è l'inquietudine? L'inquietudine è una<br />

condizione ontologica dell'uomo, perché l'uomo è per definizione incompleto e quindi, rispetto alla<br />

improbabilità del mondo, deve costantemente riassestarsi. Allora la dimensione inquieta è una<br />

dimensione intelligente perché percepisce le variazioni e cerca, rispetto ad esse, di riposizionarsi.<br />

Quindi non solo è ontologica, ma non è sentimentale ed è fortemente razionale, non la razionalità<br />

astratta del calcolo, ma la razionalità alta della phronesis aristotelica, per cui Aristotele dice:<br />

«l'uomo sceglie dentro la contingenza» (libro sesto dell'Etica). Quindi l'improbabilità del mondo è<br />

quella condizione ontologica: noi siamo in questa improbabilità, in cui di volta in volta dobbiamo<br />

trovare una posizione e che non sarà mai definitiva perché circa l'accadere non abbiamo la<br />

possibilità di dire l'ultima parola, anzi, per usare qualcosa che secondo me a Costantino piace,<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

«l'accadere è sempre un incontro». Solo che non è uno solo, anche in questo caso. Ecco questo<br />

posizionamento continuo.<br />

In noi c'è un'aspirazione alla soddisfazione e, venendo qui stamattina, ho ripreso una cosa che<br />

personalmente sostengo da sempre, ma quel cuore inquieto che cerca requie -lui dice<br />

"soddisfazione", il che sembra diverso ma non lo è perché la requie è la "pacificazione", la<br />

soddisfazione è l’"adimpletur". Ma sulla scia di Aristotele, Tommaso, prima di indicare le cinque<br />

vie per la prova dell'esistenza di Dio, parla della "notitia Dei": se Dio sia per sé noto, se ci sia una<br />

notizia di Dio. «Videtur quod Deum esse, sit per se notum», che Dio esiste, sia per sé noto. La cosa<br />

importante è come risponde: «Ad primum dicendum quod cognoscere Deum sub quandam<br />

confusionem est nobis naturaliter insertum in quantum scilicet Deus est hominis beatitudo»: «con<br />

una certa confusione in tutti gli uomini è inserito Dio in quanto Dio equivale alla beatitudine<br />

dell'uomo». «Homo enim naturaliter desiderat beatitudinem et quod naturaliter desideratur ab<br />

homine, naturaliter cognoscitur ab eodem»: «l'uomo infatti desidera naturalmente la beatitudine e<br />

ciò che dall'uomo è desiderato naturalmente, naturalmente da lui stesso è conosciuto».<br />

Cos'è Dio? è l'aspirazione alla pienezza. Si tratta di vedere come questa aspirazione trovi<br />

compimento, e allora qui mi distinguo anche da Tommaso. Il desiderio è infinito, ma in che senso è<br />

infinito? Nel senso che l'uomo, essendo costitutivamente incompiuto, non lo può mai completare.<br />

Non è infinito nel senso che l'uomo è una potenza infinita, anzi. Se per ipotesi fosse una potenza<br />

infinita sarebbe nello stesso tempo soddisfatto di sé; sarebbe la "causa sui" di Spinoza. Non è<br />

potenza infinita, però è una potenza che cerca costantemente l'oltre, cerca l'incontro soddisfacente.<br />

Allora possiamo parlare di infinità del desiderio e del desiderio di infinito; sono due cose<br />

completamente diverse.<br />

L'infinità del desiderio vuol dire che il desiderio va sempre oltre se stesso, cioè ritorna, non in<br />

quanto inappagato ma perché – e questa è la mia posizione aristotelica e stoica – sempre appagabile<br />

in ogni momento; noi non perdiamo nulla del bene che abbiamo vissuto, resta in noi. Non è vero<br />

che il desiderio è in perdita; noi perdiamo ciò che non abbiamo veramente vissuto, l'occasione che<br />

abbiamo sprecato, l'incontro che abbiamo mancato; ma un amore, se è vissuto intensamente, anche<br />

se finisce, per quel tanto che è stato vissuto ha già guadagnato eternità. Non è mai perso, non lo<br />

dimenticheremo mai, quei giorni non saranno mai dimenticati; questo è un potenziamento di noi<br />

stessi per la tessitura dell'anima. Ecco perché dal mio punto di vista non è necessario un altro Altro.<br />

Torna e può essere sempre appagato, però la vita continua e allora è chiaro che c'è l'infinità del<br />

desiderio e, fin quando l'uomo vive, desidera perché la caratteristica del vivere è desiderare. Se<br />

muore non desidera più. Stranamente è compiuto se muore; se vive l'uomo è incompiuto, è<br />

compiuto se muore, ma non si accorge neanche di essere compiuto perché non c'è.<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

Altro è invece il desiderio di infinito. Riesco a dirlo con difficoltà perché non è il mio punto di<br />

vista, cerco di immaginare il punto di vista di colui che vuole un qualcosa che lo colmi. Mi viene<br />

difficile questo perché sento un certo delirio antropologico, un innalzamento del desiderio a una<br />

sfera che non è quella della natura umana. Quel desiderio nasce nell'uomo perché, ha ragione<br />

Costantino, è la risposta ad una proposta di qualcuno che viene incontro e dice «guarda tu puoi<br />

soddisfare pienamente te». Come? Qui c'è una cosa che mi pare interessante: io non posso essere il<br />

riempimento del tuo desiderio, perché se così fosse anche un credente non potrebbe accettarlo<br />

perché sarebbe quanto di più idolatrico, significherebbe portare Dio alla direzione del proprio<br />

desiderio. Questo rischio c'è, è molto diffuso, è la forma più terribile di idolatria. Cos'è Dio? è<br />

l'oggetto che soddisfa il mio desiderio. Se io sento uno così non mi convertirò mai. Il desiderio si<br />

placa invece perché si scioglie in Dio. E quindi il compimento, come avevano capito i mistici, è<br />

nella «diminutio sui», cioè, stranamente, in una forma di annullamento nel tutto. Non è la mia<br />

esperienza, ma ritengo che possa essere creduto. E se qualcuno ci crede non sarò io a sollevare<br />

obiezioni.<br />

G. PELUSO: Ringrazio per il punto toccato, di una evidente pertinenza alla nostra natura di uomini<br />

e mi viene in mente Leopardi, soprattutto per quest'ultima parte. Vorrei riporre la domanda su<br />

questo tema ultimo al dottor Costantino, per eventualmente una controreplica.<br />

C. ESPOSITO: Vorrei partire da Cartesio; è molto interessante quello che tu dici: in che rapporto<br />

sta l'infinità del nostro desiderio – il fatto che se siamo esseri liberi e coscienti non possiamo non<br />

dire che a un certo punto il desiderio finisce, perché la legge del desiderio è quella di riattivarsi –<br />

con il desiderio dell'infinito?<br />

Tu dici che l'unica possibilità di pensare il desiderio dell'infinito in maniera non idolatrica è<br />

«sciogliersi in Dio», e tu dici che non è la tua esperienza; non è neanche la mia. In che senso? Nel<br />

senso che forse c'é un'altra possibilità, opino. E cioè che l'infinito non sia semplicemente pensato<br />

come qualche cosa che debba saturare la mia ansietà, la mia insoddisfazione, e quindi avresti<br />

ragione: in quel punto lì l'infinito è un tappo o un auto convincimento. E se invece ripercorressimo<br />

la grande intuizione di Cartesio quando lui dice che invece in qualche modo l'infinito è all'inizio del<br />

desiderio, è ciò che eccita il desiderio, ciò che lo tira fuori? Ricordo brevemente il celebre passo<br />

della terza meditazione; Cartesio è, nella sua dimostrazione metafisica, in una situazione per cui ha<br />

soltanto una certezza: che io ci sono in quanto sostanza pensante. «Non so se ciò che io penso è un<br />

sogno, è reale o una grande illusione. Ci potrebbe essere un dio ingannatore che mi prende in giro, e<br />

che anche due più tre in realtà non faccia cinque, è soltanto all'interno del mio sistema, ma in realtà<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

sia un grande abbaglio. Allora come poter passare dalla certezza di me solo come pensante alla<br />

certezza e alla verità di ciò che io penso? Solo in una ipotesi, che io possa percepire che vi è un Dio<br />

che non mi inganna, che è verace e che mi ha fatto in maniera tale che la mia ragione naturale,<br />

quando è all'interno di certe regole, di certi controlli, riesca a cogliere veramente il mondo”.<br />

È il modo in cui, come si legge in genere, Cartesio vuole fondare la fisica meccanicista e quindi ha<br />

bisogno di ricorrere a Dio. Ma nel far questo Cartesio produce un pensiero che secondo me gli<br />

sfugge di mano, è più di Cartesio stesso. Accade qualche cosa, perché lui dice «come faccio a<br />

dimostrare che c'è Dio, a rendermi conto che c'è Dio»?. Ci sono diverse modalità, ma ce n'è una in<br />

particolare –e mi perdonino tutti coloro che conoscono bene Cartesio- in cui dice che vedendo le<br />

idee che ha in sé ne scopre una che è l'idea dell'infinito, e si chiede come fa ad avere questa idea<br />

dentro di sé; è un inghippo, è un intralcio? Come si spiega? Io sono finito, eppure riesco a pensare<br />

l'infinito. Allora la prima ipotesi è che sia una mia finzione, una mia costruzione, questa idea; sia<br />

appunto, solo un’idea che io mi fingo, mi faccio dell’infinito, ma che ha la consistenza degli enti di<br />

ragione, delle cose immaginate e costruite da me. Invece Cartesio pone il problema in un’altra<br />

maniera, dicendo cioè che il fatto stesso che io ho in me questa idea è il segno certo ed evidente che<br />

l’infinito mi precede: non posso neanche dire, dice lui, che io, essere finito, mi sono inventato<br />

l’infinito. Sarebbe facile spiegare il trucchetto: penso a me stesso, alla mia sostanza, vedo tutti i<br />

miei limiti e quindi elimino per ipotesi dalla sostanza che sono io i miei limiti e mi costruisco, ma si<br />

tratta di una finzione, l’idea di una sostanza infinita, che sarei io senza i miei limiti. È come<br />

l’ircocervo, cioè una cosa che in realtà non esiste. Cartesio, quasi con un sussulto, dice: “Eh no! È<br />

esattamente il contrario. Intanto io posso percepire la mia finitezza, posso percepire che sono<br />

limitato perché ho già in me l’idea d’infinito”. Posso percepire quello che sono, in quanto finitezza,<br />

perché sono già abitato, preso, mi trovo addosso quella che, tecnicamente, si chiama idea innata,<br />

qualche cosa che non posso aver costruito io, che mi trovo addosso e che è enigmatica, spiegabile<br />

solo con un enigma, tranne nell’ipotesi che io ammetta che sia dio stesso che me l’ha data, come<br />

segno eloquente ed evidente che io sono rapporto con l’infinito. Infatti lui dice: «è così scoprii di<br />

non essere solo nell’universo e che la percezione di Dio è anteriore alla percezione che io ho di me<br />

stesso».<br />

Potrei ricordare anche un’altra straordinaria testimonianza che è quella di Agostino, che non parla<br />

di infinito, ma di felicità, quando, nel decimo libro delle confessioni, dice: com’è che tutti gli<br />

uomini desiderano essere felici? Chiedete a uno se vuole fare il militare e dice: “sì, mi piace” e un<br />

altro risponde di no. Così come qualsiasi altra cosa. Su una sola cosa tutti risponderanno subito di<br />

“sì, lo desidero”, e questa cosa è proprio l’essere felici. Dice inoltre, a proposito della notitia di cui<br />

parlavi prima, come potrebbero gli uomini desiderare ciò di cui non avessero già una qualche<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

cognizione? Per dire “sì, voglio essere felice”, in qualche modo, che sia confuso, diretto o indiretto,<br />

appartiene alla stoffa dell’io il fatto di sapere già - dice certa notitia - con una conoscenza certa, ciò<br />

di cui mi ritengo ancora mancante, ma so di cosa manco, in qualche maniera, lo so. E come lo so?<br />

Dice Agostino: “Ne ho fatto in qualche modo esperienza, non lo so teoricamente, ma ne ho fatto<br />

esperienza in quanto ho sperimentato cosa voglia dire godere, gioire.” Ho sperimentato che è<br />

un’esperienza tale che, una volta avvenuta, non può che eccitare continuamente il desiderio.<br />

Voglio dire che queste due esperienze di pensiero mi hanno sempre costretto in qualche modo a<br />

pensare che il desiderio dell’infinito non sia semplicemente il desiderio di qualche cosa che non ho,<br />

che mi auguro - una volta raggiunto, per via mistica o noetica o qualsiasi altra via - riesca<br />

finalmente a saturare, a colmare questa mancanza. Avrei difficoltà, perché un infinito che colmi la<br />

misura sarebbe contenuto nella misura, non sarebbe più l’infinito. Ma se vogliamo capire cosa<br />

voglia dire che siamo in rapporto con l’infinito dobbiamo affermare che non si tratta appunto di una<br />

qualsiasi questione filosofica astratta, ma di capire qual è il senso della nostra finitezza. Che cosa<br />

vuol dire desiderare? Questa è la posta in gioco. Che cosa attrae l’energia della nostra ragione e<br />

della nostra affezione? Probabilmente, opino, potrebbe essere quello di considerare l’infinito come<br />

una presenza che sta all’origine del nostro desiderio. Non il termine immaginato che (ultimamente)<br />

se avviene pone fine all’infinito, oppure, come giustamente dici, allora l’unico modo perché il<br />

desiderio si compia restando infinito è che il mio desiderio si produca sempre infinitamente. Invece<br />

un punto c’è che non è nell’indefinitezza del nostro desiderio, ma in un’esperienza precisa e al<br />

tempo stesso che attesta qualcosa che non può essere determinata precisamente.<br />

Noi siamo dati, che la nostra stessa finitezza è data dall’infinito. Questo renderebbe più interessante<br />

la questione perché allora l’infinito non sarebbe il termine conclusivo, ma in questo momento, preso<br />

dall’inizio, l’infinito non è il termine vago di chissà quale conclusione finale del nostro discorso,<br />

della nostra attesa, ma è ciò che ci permette di desiderare, di conoscere e di attendere. Da questo<br />

punto di vista mi sembra che il fatto che l’uomo sia rapporto con l’altro -lasciamo indeterminato se<br />

maiuscolo o minuscolo- implica il fatto che l’altro è in qualche modo ciò che istituisce la<br />

soggettività proprio sotto la forma dell’eccitazione del suo desiderio, poiché è conoscenza di<br />

qualche cosa più grande di me. Cioè che io funzioni solo se sono esposto – direbbe Levinas – se<br />

sono nello spazio dell’incontro con qualcosa o qualcuno che mi precede e che mi dà a me stesso.<br />

Tutto il fascio dell’inquietudine e del desiderio dell’infinito lo vedrei come gesto che istituisce l’io<br />

al posto che come una aspirazione sempre un po’ frustrata dell’io che va verso il tutto.<br />

G. PELUSO: Vista l’ora, vorrei lasciare qualche spazio a una domanda o due del pubblico e poi<br />

lasciare a voi una replica finale.<br />

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S. NATOLI: Volevo dire un’ultima cosa. Anche qui sul tema della infinità così come l’hai posta tu<br />

ci sono elementi di vicinanza ma anche di scarto e, per usare l’esempio che hai usato tu, mi viene<br />

facile dire sì, ma nel senso di Spinoza. Io sono d’accordo nel dire che noi, in quanto potenze finite,<br />

siamo dentro una infinità di potenza. Qual è l’obiezione in fondo che faceva Spinoza a Cartesio?<br />

Che “esse et posse est causa sui” e ci precede. Noi siamo modi di questo essere. E da questo punto<br />

di vista, questo essere si dà originariamente e non c’è più bisogno neanche della mediazione, del<br />

passaggio dall’idea dell’infinito perché “è un punto di vista già troppo soggettivo” dice Spinoza a<br />

Cartesio. È garantista, è giuridico-burocratico, è la normatività della coscienza. Questo viene dopo,<br />

per Spinoza, quando parla di idee adeguate ed inadeguate, ma originariamente tu sei nel tutto.<br />

Perché il tutto è potenza infinita ma nel senso abbastanza semplice, e con una variazione che<br />

dall’antico ci porta al moderno spinoziano, che da nulla viene nulla. Ma se c’è dell’essere non può<br />

che essere onnipotente, perché se fosse un essere parziale ci sarebbe una parte di nulla che lo<br />

affligge. Quindi “esse e posse” coincidono.<br />

Questo è originario e immediato, quindi la mente intelligente e adeguata capisce che è dell’infinito.<br />

Allora, se noi intendiamo l’infinito come una potenza - con i suoi attributi etc – da questo punto di<br />

vista noi siamo nell’infinito, momenti dell’infinito, modi dell’infinito. Però - e concludo - , questo<br />

infinito nel senso spinoziano non è altro. Qui San Tommaso, quando parla della “notitia dei”, dice<br />

una cosa interessante: ha detto che evidentemente l’uomo desidera la felicità e quindi la conosce<br />

anche. “Sed hoc non est simpliciter cognoscere Deum esse”, l’aspirazione alla felicità di per sé non<br />

coincide col conoscere Dio, “sicut cognoscere venientem non est cognoscere Petrum, quamvis si<br />

Petrus veniens ….” Conoscere la propria felicità non è conoscere Dio, come conoscere un vegnente<br />

non è conoscere Pietro anche se è Pietro, ma tu non lo sai. Qui l’infinito può essere pensato, non<br />

come un Pietro, ma come questa totalità di potenza nel senso spinoziano della parola. Allora, si<br />

introduce di nuovo l’alterità, ma nella modalità – questa parola è più che mai pertinente - di<br />

relazione tra modi, cioè di rapporto degli enti tra di loro in questa infinità. Da questo punto di vista<br />

allora noi abbiamo gli altri senza avere l’altro, ecco ancora l’elemento di concordanza. Ma per dirla<br />

in breve e concludere, credo che la differenza fondamentale sottaciuta, ma che varrebbe la pena poi<br />

di mettere in chiaro, non è neanche altro ma è Tu, Padre nostro che sei nei cieli. Pronome che<br />

Spinoza dice di non pronunciare perché diventa insensato. Qui siamo nella paradossia.<br />

DOMANDA: Io non sono un filosofo, mi occupo di consulenza e direzione aziendale. Stamattina<br />

sono andato a un incontro che si chiama “Document Management Forum”, dove un professore<br />

universitario di “neuro-marketing” ha tenuto una lezione. Questo professore si occupa di fare delle<br />

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risonanze magnetiche alle persone davanti a certi stimoli e vedere le reazioni della corteccia<br />

cerebrale, scoprendo che soltanto il 5% delle nostre reazioni ad un prodotto è razionale e il resto è<br />

un impulso precedente che riguarda i livelli alti del cervello. Da questo conclude a un certo punto<br />

con nonchalance facendo la seguente affermazione: «Noi non siamo persone, siamo organismi che<br />

rispondono a degli stimoli; dobbiamo lavorare sugli stimoli, gli stimoli inducono comportamenti.<br />

Dobbiamo dire le cose come stanno». Personalmente ritengo che se l’economia, che è una cosa che<br />

già al momento ci fa tutti quanti tremare, deve ripartire da affermazioni di questo tipo sono<br />

preoccupato. Sono preoccupato anche perché nella sala, delle trecento persone presenti, nessuno ha<br />

reagito. E stava assolutamente annullando il concetto di cliente e anche di consumo, perché se non<br />

c’è un soggetto e un desiderio non vedo come posso fare un prodotto, non vedo un grande futuro<br />

per l’economia né per il consumo, non c’è il desiderio e le cose mi sembrano collegate. Volevo un<br />

commento su questa affermazione, che mi sembra oltretutto metafisica, e vorrei sapere se siete<br />

d’accordo.<br />

DOMANDA: Volevo citare un’esperienza. Oggi sono stata a Messa e oggi è sant’Andrea.<br />

Sant’Andrea ha incontrato Gesù, Gesù l’ha chiamato e Andrea semplicemente l’ha seguito. In<br />

questa esperienza io ho condensato un po’ tutto quello che diceva lei sul fare esperienza di una<br />

corrispondenza, la chiamerei così, perché non è che uno va dietro al primo che passa, ma va dietro a<br />

una persona da cui si sente voluto bene. La domanda che mi interessa fare è sulle caratteristiche<br />

della conoscenza, perché tutto quello che consegue, per Andrea e anche per me che voglio fare la<br />

stessa esperienza, è l’esperienza della conoscenza di Gesù.<br />

DOMANDA: Premetto che torno un po’ alla neurologia del marketing. Noi abbiamo due emisferi,<br />

quello sinistro aristotelico della ragione, quello destro quello platonico e, come mi insegnano gli<br />

scienziati della filosofia, quello platonico è deputato all’irrazionalità, o meglio diciamo all’arte, ai<br />

colori, all’inventiva e alla fantasia. Diceva il professore Esposito che è il gesto che istituisce l’io e<br />

non questa continua ricerca dell’io che porta a frustrazione. Mi ricollegavo, ma non è una condanna<br />

di un ente, come direbbe probabilmente il professor Natoli, o di Dio, come direbbe un cattolico, non<br />

si tratta di una condanna tipo quella di Adamo ed Eva, che Dio condanna alla ricerca continua per<br />

quello che hanno fatto. Per tornare al professore e al marketing, volevo dare una risposta indiretta.<br />

Forse è positivo il fatto che non c’è più desiderio nel mondo in un certo senso non per la<br />

produzione, per la parte economica, ma perché probabilmente il fatto di avere quattro televisioni, tre<br />

macchine porta al calo del mio desiderio e sarebbe forse positivo per il consumismo che dovrebbe<br />

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avere invece una maggiore razionalità. C’è quindi un ritorno positivo all’uomo, alla persona.<br />

Chiedevo a voi se questa ricerca continua dell’io non sia una condanna.<br />

DOMANDA: Rispetto al punto di frizione con la posizione del professor Esposito di cui lei<br />

parlava, professor Natoli, cioè il fatto che il punto di differenza sia l’incontro con l’altro, che è<br />

anche punto di unione, ho notato un altro punto di frizione e cerco ora di esemplificarlo: la<br />

concezione del desiderio. é per forza pacifico che il desiderio sia potenza di mancanza? Perché mi<br />

sembra che questa definizione esprima un’opzione tipica della modernità, cioè che il desiderio sia la<br />

produzione di una scissione originaria dalla totalità che in un certo senso precede l’esperienza;<br />

mentre se noi andiamo a vedere fenomenologicamente come il desiderio si mostra nell’esperienza,<br />

si potrebbe anche vedere la dinamica per cui il desiderio è una risposta ad un incontro originario<br />

con la realtà, cioè uno stupore di fronte alla realtà e non un’esperienza originaria di mancanza in cui<br />

un soggetto isolato metafisicamente poi entra in contatto con la realtà.<br />

S. NATOLI: Parto dalla mancanza per chiarire il senso. Certo, se per mancanza si pensa alla<br />

scissione siamo d’accordo su ciò che hai detto tu. Però nel modello che io ho indicato di passaggio<br />

che è il Simposio platonico, penìa e pòros, tu non hai la scissione, hai un movimento dinamico di<br />

una forza, per venire al discorso dell’infinito, già ricevuta. Valga il passaggio dello stesso Simposio<br />

per introdurre una alterità orizzontale, in cui Platone parla di generazione e usa questa bellissima<br />

espressione “cosa vuol dire generare? Ciò per cui quel che muore dura.” la potenza che noi abbiamo<br />

è ricevuta, c’è una alterità che ci precede nella generazione e che ci segue nella generazione. Poi c’è<br />

un altro tipo di precedenza che se avremo tempo vi accennerò dopo. Non una scissione, non la<br />

separatezza dell’io. Però, e qui bisogna ricordare quel passaggio molto interessante di Levinas che,<br />

in Al di là dell’essere, critica l’interiorità e celebra l’estraneità. Cosa vuol dire l’estraneità? Vuol<br />

dire che tu hai sempre bisogno dell’altro, ma non lo puoi mai esaurire. Allora qui tu sei in un<br />

massimo di intimità, la parola è questa, ma anche in una dimensione non di scissione, ma dico io di<br />

approssimazione infinita. Ma non approssimazione infinita a un ente infinito, ma approssimazione<br />

all’altro. L’altro che ti incontra nella vita e chiunque altro può essere per te Dio. Il discorso non è la<br />

scissione, ma l’estraneità, cioè dire che il soggetto non può mai esaurire l’alterità verso cui si<br />

muove, la può solo approssimare, perché, se l’esaurisse la distruggerebbe. È la logica del consumo.<br />

Quando io dicevo prima che il desiderio si può appagare ogni momento non c’è bisogno della fine,<br />

perché se tu in ogni incontro vivi la potenzialità dell’altro, questa è una ricchezza, ma è una<br />

ricchezza molto bella, dove la soddisfazione nasce dall’accogliere l’altro e non dal divorarlo. E più<br />

lo accogli, più lo valorizzi, più ti valorizzi. Questa è la dinamica. Il mio, da questo punto di vista mi<br />

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sembra un cristianesimo molto terreno, perché ci sono elementi di cristianesimo in questo,<br />

moltissimo, però caratterizzato da tratti fortissimi di immanenza. Questo per darti qualche<br />

indicazione. Per lì, quel poveretto è un poveretto, ma un poveretto dal punto di vista proprio<br />

cognitivo, cioè uno che usa neuro per modo di dire. Tra l’altro, per tornare al nostro grande Baruch<br />

Spinoza, quando definisce la mente la definisce «l’idea del proprio corpo». E che ogni stato della<br />

mente coincida con un determinato stato del corpo è un ovvietà tale che non c’è più bisogno di<br />

scrivere neuro. Noi siamo mente incarnata, per cui ogni stato della mente corrisponde a uno stato<br />

del corpo. Mappa cerebrale ed emozione. Quindi da questo punto di vista è un discorso quasi ovvio.<br />

Qual è il discorso importante da questo punto di vista che accenno. Che noi non siamo dallo stesso<br />

punto di vista neurologico soggetti che reagiamo a stimoli. Perché la teoria dei sistemi ha<br />

chiaramente mostrato che noi siamo sistemi aperti e siamo anche sistemi chiusi, cioè abbiamo una<br />

capacità di codificazione per non essere abbattuti dall’ambiente. Tutti i sistemi hanno un’identità<br />

perché hanno una possibilità di apertura e di chiusura. Tu, per evitare questo, che è poi il luogo<br />

della libertà, devi patologizzare il sistema, come quando ti cade il sistema immunitario. Se tu<br />

patologizzi il sistema lo domini, se il sistema è sano, è capace di dire di sì e di no. È capace di<br />

accettare e di rifiutare. La società dei consumi che cosa ha prodotto, lavorando sul desiderio? Ha<br />

indebolito il soggetto, gli ha tolto l’immunità e lo ha reso servo. Perché stimolando il desiderio<br />

costantemente, questa è diventata la matrice dell’energia di fare business, senza con questo stabilire<br />

quanto il soggetto ci guadagni come individuo e quanto ci perda. Di sicuro guadagna il sistema del<br />

business, ma fino a un certo punto, perché se poi vende per generare consumo, indebitando la gente<br />

che non può pagare, allora addirittura dal punto di vista economico diventa un’impresa fallimentare.<br />

C. ESPOSITO: Sui controstimoli sono d'accordo con quello che diceva Salvatore. Mi interessa dire<br />

che potrebbe sembrare che la discussione con il professor Natoli riguardi come intendere le<br />

motivazioni e la sostanza in Spinoza piuttosto che in Cartesio; tecnicamente è anche questo, ma<br />

queste battute di oggi mi fanno capire che la posta in gioco è di una concezione di sé, del proprio<br />

posto nella società, della possibilità di manipolare le cose che è sempre di fronte ad una possibilità<br />

di bivio.<br />

Per tornare alla questione del rapporto con l'infinito, io ho la preoccupazione che non sia giocato a<br />

livello etico ma rimanga sul problema di un'esperienza di tipo conoscitivo. Noi potremmo chiederci<br />

cosa ha fatto la società dei consumi, se ha enfatizzato i desideri per indurre a consumare; la mia<br />

preoccupazione è che tutto questo sia come un gioco in cui si possa gestire eticamente il desiderio.<br />

Invece l'importanza del desiderio è che è un fattore conoscitivo della realtà; per questo non deve<br />

essere solo il traguardo finale o la curvatura, più o meno istantanea, delle nostre azioni e dei nostri<br />

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rapporti con gli altri, ma è come lo shock iniziale, il punto di partenza in cui - non all'inizio o alla<br />

fine ma ora, tagliando longitudinalmente ogni istante- si produce l'infinito. In ogni istante l'istante si<br />

dilata: ci si rende conto che in ogni istante sta accadendo qualcosa che io non posso ridurre, ma che<br />

al contrario dà a me stesso.<br />

Se le cose stanno così allora io mi chiedo: perché Spinoza? c'è un punto in cui Spinoza, nella<br />

celeberrima appendice della prima parte dell' Etica, dice: «Gli uomini credono che la realtà abbia un<br />

fine, cioè che le cose succedano per una certa motivazione, ma addirittura dicono una cosa<br />

peggiore: che il fine sarebbero loro stessi». È la grande questione infuocata del cristianesimo perché<br />

si può essere cristiani o non cristiani ma la cosa veramente interessante di Cristo è che lui ha detto<br />

che tutta questa grande macchina del mondo ha ultimamente, come ultimo scopo, la felicità del<br />

singolo. Spinoza dice che questo è un ragionamento al quadrato perché è come dire che tutto quello<br />

che succede, che è Dio, che è la necessità, ha come scopo nient'altro che questo modo finito: è<br />

presunzione. Allora gli uomini continuano a stupirsi della realtà, ma essa genera stupore solo per<br />

ignoranza; man mano che la conoscenza delle cause procederà - cioè man mano che noi diremo che<br />

ciò che succede, succede perché ci sono delle cause meccaniche più o meno vere, man mano che<br />

spieghiamo i motivi - tanto meno ci stupiremo; così lo stupore non è semplicemente il contraccolpo<br />

dell'impatto con la realtà o il fatto che adesso mi rendo conto che c'è un infinito che mi costituisce<br />

ma unicamente il fatto che non sono arrivato a ricondurre questa eccedenza dell'infinito alla serie<br />

delle cause. Chi sono io per dire che Spinoza ha torto?<br />

S. NATOLI: Su questo anch'io ho delle riserve su Spinoza.<br />

C. ESPOSITO: A me interessa il fatto che l'infinito sia desiderio ma anche stupore. Noi abbiamo la<br />

possibilità di scoprire che nelle pieghe dell'esistere accadono cose che saranno anche stimoli e<br />

controstimoli ma nel controstimolo noi ci rendiamo conto che c'è qualcosa di irriducibile. La grande<br />

alternativa è se davanti a questa irriducibilità dobbiamo in qualche modo pettinarla, addomesticarla,<br />

curvarla nella gestione del rapporto, o in qualche modo, lasciare spazio perché possa accadere.<br />

Allora anche noi possiamo accadere di più. Da qui cambia tutto il resto.<br />

G. PELUSO: Grazie. Vi ricordo che è uscito il libro che contiene la relazione del dottor Esposito al<br />

Meeting: “E l'esistenza diventa un' immensa certezza” a cura di Savorana e Belloni e raccoglie tutti<br />

gli atti del Meeting di Rimini.<br />

Mi sembra bella l'immagine della madre materna per cui l'esistenza dell'uomo è data da qualcosa<br />

che lo precede. Mi sembra che questo apra la questione ultima della felicità e del desiderio<br />

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Testi-cmc Raccogliere oggi la sfida della realtà<br />

dell'uomo. Citando il Papa nel discorso di venerdì scorso: «la grande questione dell'uomo di oggi è<br />

la questione di Dio, non come Dio ma come senso dell'esistenza dell'uomo perché altrimenti l'uomo<br />

si sente soffocato e senza certezza e speranze», mi sembra di grande auspicio che il dialogo di<br />

stasera apra ad uno sguardo sulla realtà dove a tema c'è proprio la nostra natura come desiderio di<br />

infinito e di infinità.<br />

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