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qui - Giulio Marcon

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del regime di Milosevic. Siamo in un grande salone della Casa della gioventù<br />

di Belgrado, mezza discoteca e mezza sala giochi, mezzo pub e mezzo circolo<br />

culturale. Stascia, delle Donne in nero, dice: “Ci chiamano puttane<br />

quando manifestiamo in piazza, ma noi continuiamo il nostro lavoro. Aiutiamo<br />

tutte le donne, quelle violentate, quelle che soffrono nei campi profughi”.<br />

Continuiamo il dibattito con esponenti del Depos (il cartello delle<br />

forze di opposizione, tra cui ci sono anche forze nazionaliste e monarchiche),<br />

tra i quali un giovane yuppy balcanico dice: “Non potete capire il problema<br />

del Kosovo. Gli albanesi sono arrivati anche da voi, in Puglia, in<br />

Calabria. E lì, cosa hanno fatto? Mica hanno chiesto l’indipendenza o rivendicato<br />

l’unione con l’Albania! Prima della guerra in Kosovo abitava il<br />

50% di serbi e il 50% di albanesi. Poi ci fu lo spopolamento serbo, anche<br />

perché Tito promise il Kosovo all’Albania. Oggi gli albanesi vogliono la secessione,<br />

ma devono capire che questo è impossibile, a prescindere dal fatto<br />

che sono ormai il 90% della popolazione locale. Ma anche a Miami il<br />

60% sono cubani; cosa succederebbe se anche lì rivendicassero la secessione<br />

o l’unione a Cuba?”. Questi deputati del Depos dovrebbero rappresentare<br />

l’opposizione democratica a Milosevic; ma spesso la lotta è tra due<br />

nazionalismi ugualmente pericolosi. Il loro leader – Vuk (che significa “lupo”)<br />

– Draskovic parla e fa il mistico: “Dio e Patria trionferanno. Costruiremo<br />

la grande nazione serba”.<br />

Partiamo per Sarajevo. Facciamo il viaggio di notte. La neve e la nebbia<br />

ci fanno rallentare. Abbiamo macchine poco affidabili: un pulmino Ford regalato<br />

pieno di aiuti, una Renault 4 vecchia di dieci anni, un’Audi poco adatta<br />

a queste strade di montagna. La guida Mario Boccia, il fotografo freelance,<br />

che ci segue dall’inizio della guerra. Alle tre di notte siamo al confine tra la<br />

Serbia e la Repubblica serba di Bosnia. Per passare il confine siamo costretti a<br />

bere grappa e prenderci pacche sulle spalle – non si sa se rassicuranti o minacciose<br />

– dai soldati ubriachi della baracca di confine che ripetono: “Velika Srbi’ja”<br />

(grande Serbia) davanti ai ritratti di Mladic e Karadzic. Arriviamo infine a<br />

Pale (il quartier generale dei serbi) alle otto del mattino. Dobbiamo fare di<br />

nuovo i pass stampa e saliamo fino a un albergo costruito appositamente per<br />

le olimpiadi invernali di dieci anni fa. Per arrivare a Sarajevo bisogna attraversare<br />

tanti posti di blocco, passare rasenti le colline protette da bandoni di latta<br />

e tronchi di legno. Passiamo accanto alle trincee serbe da dove si domina,<br />

dall’alto, la città. Da <strong>qui</strong> si assedia la gente. È un effetto strano vedere questi<br />

soldati, i loro volti, e associarli – una volta in città – agli anonimi spari dei cecchini<br />

e alle notizie delle tv che ci arrivano in Italia. Hanno barbe lunghe e divise<br />

stracciate. Puzzano d’alcool; sono sguaiati e allegri. Sembra il ritratto<br />

fatto dalla propaganda, ma è proprio così. Sono insieme a dei giornalisti (Luca<br />

Del Re di Video Music, Raffaella Menichini e Marco Calabria de “il ma-<br />

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