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Editorialeph 3<br />
racconti<br />
A memoria, di Roberto Mandracchia 4<br />
Le sindacali otto ore lavorative, di Sem Galliani 6<br />
A Christmas tale, di Gero Micciché 12<br />
Il muro, di Andrea Coccia 20<br />
Intervista a Michele Mari, di Andrea Coccia 23<br />
recensioni<br />
La vita oscena di Aldo Nove, di Gero Micciché 35<br />
La cucina vista dallo scannatoio di Dario Lo Scalzo, di Renato Chiaro 39<br />
This is where we live di Janette Brown, di Giorgia Camilleri 41<br />
D’altro e d’altrove: il libro come invito alla tolleranza, di Giorgia Camilleri 43<br />
francotirature<br />
2
2<br />
Rivista di cultura e letteratura contemporanea<br />
e-<strong>Aleph</strong> numero 2, suppl. a <strong>El</strong> <strong>Aleph</strong>, numero 12, dicembre 2010<br />
Registrazione n.827 del 31 ottobre 2005<br />
presso il Tribunale di Milano.<br />
Testata calligrafica di Greta Bizzotto<br />
Heartfelt Graphic Design Studio - www.heartfelt.it
Editorialeph<br />
Cara Lettrice, caro Lettore<br />
è il quinto Natale che si passa ormai insieme, e chi l’avrebbe mai detto che ci saremmo<br />
arrivati. Invece siamo qui, a propugnar parole, maledire questi tempi avvelenati,<br />
berci sopra della grappa, o dello scotch, o dell’amaro, per non pensarci più o solo<br />
per smaltire pranzi sempre più pantagruelici ad onta della crisi. Ma sì, caro Lettore,<br />
non pensiamoci, è Natale. E questo e-<strong>Aleph</strong> è giusto qui per dispensarti dalla fatica:<br />
ci hanno pensato i nostri autori a ricordarti che viviamo in un paese fastidioso. I matti<br />
pre-Basaglia di Mandracchia, il magazziniere-artista di Galliani, il precario scrittore<br />
natalizio di Miccichè, l’incazzato cittadino di Coccia. E poi, sempre a cinque anni di<br />
distanza, abbiamo fatto un’altra chiacchierata con Mari. E, tanto per continuare il discorso<br />
aperto nell’<strong>Aleph</strong> cartaceo, il numero 12, ancora considerazioni sul raffronto<br />
con “l’altro”, “il diverso” tramite quel portale che sono i libri, di cui ci parla Giorgia<br />
Camilleri. E, last but not least, le recensioni delle ultime uscite in libreria. Ma l’avete<br />
visto poi che è tornato Baldarella in copertina? Proprio come cinque anni fa, quando<br />
tutto è cominciato. Ai vecchi e ai nuovi auguriamo buone feste e, ovviamente, buona<br />
lettura.<br />
La Redazione<br />
3
4<br />
A memoria<br />
di Roberto Mandracchia<br />
Ho ucciso mia madre, dice Mavi che indossa una maglietta con sopra Yukio<br />
Mishima che esegue il suo seppuku, ho ucciso mia madre e dopo ho triturato i<br />
suoi resti. Mavi dice sempre questa cosa e Teresa - la cui obiezione di coscienza<br />
l’ha condotta fin lì, alla clinica dei ‘fuori di testa’ - la sa. A memoria.<br />
Ho ucciso mia madre, dice Mavi.<br />
Sì lo so e dopo hai triturato i suoi resti, continua Teresa accarezzando la testa<br />
rasata e brufolosa di quell’omone da centodue chili per due metri d’altezza. Un<br />
metro e novantanove, per la precisione, come sta scritto sulla sua cartella clinica.<br />
A Teresa, questa cosa dei novantanove centimetri, estorce sempre un sorriso.<br />
Ho ucciso mia madre, dice Mavi mentre fa lo sgambetto al Professore che<br />
come sempre misura coi propri passi il salone della clinica da destra a sinistra,<br />
da sinistra a destra. Il Professore casca per terra e resta sulle mattonelle bianche<br />
per qualche minuto - a Teresa ricorda una tartaruga rovesciata sul proprio guscio<br />
- poi si rimette in piedi, spazza la patta dei calzoni e sistema gli occhiali da vista.<br />
Il Professore soffre di DOC, disturbo ossessivo compulsivo, e prova qualcosa nei<br />
confronti di Teresa e anche stavolta le sussurra quei numeri - 4; 8; 15; 16; 23;<br />
42 - che per lui sono una dichiarazione d’amore. Il Professore sussurra sempre<br />
quei numeri e Teresa li sa. A memoria.<br />
Il Professore spazza di nuovo la patta dei calzoni, sistema di nuovo gli occhiali<br />
da vista e riprende a misurare il salone. Mavi, intanto, gesticola in direzione di<br />
Carmen che sta con la schiena contro un muro e piange a dirotto. Come sempre<br />
le fanno male la schiena e il collo. Carmen soffre di disturbo algico: i dolori di<br />
cui soffre sono causati soltanto dalla sua psiche; non vi è nessun altro riscontro.<br />
Oggi vi giuro muoio, grida Carmen e grida sempre questa cosa, ogni giorno,<br />
e Teresa la sa. A memoria.
Carmen si stacca dal muro e, continuando a piangere, inizia a togliersi i vestiti,<br />
singhiozzando, fino a quando un inserviente nota la scena e l’aiuta a indossarli<br />
di nuovo. A Teresa non sfugge l’indugiare delle mani dell’inserviente sul reggiseno;<br />
del resto Carmen è una bella donna, ancora, nonostante tutto: solo una rosa<br />
appassita da un dolore che non avrebbe ragione di esistere.<br />
Altri due mesi e Teresa esaurirà la sua obiezione di coscienza e proverà a cercare<br />
un lavoro e conoscerà qualcuno che le proporrà delle cose bellissime che lei<br />
non potrà rifiutare di ricevere e che ricambierà fino a quando da qualche parte<br />
negli anni a venire chiuderà gli occhi, per sempre. Anche tutto questo Teresa lo<br />
sa. A memoria.<br />
Ho ucciso mia madre, dice Mavi.<br />
Oggi vi giuro muoio, grida Carmen.<br />
4 8 15 16 23 42, sussurra il Professore.<br />
Qualcuno quella mattina, sfruttando la condensa, aveva tracciato sul vetro di<br />
una delle finestre, col dito, qualcosa che somigliava alla sagoma stilizzata di un<br />
albero di natale. Poi il salone si è riempito, i riscaldamenti sono stati accesi, e<br />
quel qualcosa era scomparso.<br />
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6<br />
Le sindacali otto ore lavorative<br />
di Sem Galliani<br />
Gesualdo Mastropiccolo era piuttosto stanco dopo la giornata di lavoro in<br />
magazzino. Le otto ore sindacali. Le insindacabili otto ore sindacali.<br />
In verità si era trattenuto più del dovuto, essendo arrivato ben quarantadue<br />
minuti in ritardo. Ma si era trattenuto ben più di quarantadue minuti. Per parlare<br />
col suo superiore, che trovava simpatico.<br />
Gesualdo faceva il magazziniere ma non era un magazziniere, non era nemmeno<br />
un operaio. Lui era un artista. Non sapeva perché ma era un artista.<br />
Fare il magazziniere gli permetteva di restare un artista: se avesse fatto l’artista<br />
avrebbe finito per fare l’operaio, e lui non voleva fare l’operaio: lui era un<br />
artista. Era stanco dopo le otto ore sindacali – o meglio dopo le nove e mezzo,<br />
poiché si era trattenuto più del dovuto: senza pertanto percepire alcun straordinario,<br />
sia chiaro: si era trattenuto per sua volontà, poiché trovava simpatico il<br />
suo superiore.<br />
Ma una volta tornato a casa, dopo i tre minuscoli panini con provola affumicata<br />
mangiati in piedi al freddo e con la fretta di tornare al lavoro si disse: «Cazzo<br />
che fame!»<br />
Allora decise di mangiare – l’indomani alle sei la sveglia sarebbe suonata,<br />
doveva mangiare qualcosa nella più totale solitudine prima di addormentarsi<br />
nella più totale solitudine e Deo gratia senza neppure un tubo catodico dinanzi<br />
al quale rimbecillirsi un poco.<br />
Si fece ordunque allor due belle bistecche di maiale, la sola cosa che avesse –<br />
aveva fatto una economica spesa pocanzi, e da tempo poi non manducava porco.<br />
E guardandole, pur pregustandone il sapore si disse: «Ecco, se io fossi vegetariano<br />
quale orrendo crimine starei per commettere! Divorare così impunemente<br />
un povero suino, tanto ingiustamente beffato dall’abitudinario pensiero<br />
collettivo: mentre in verità si sa, il porco è alquanto morigerato, almeno per
quanto riguarda le abitudini sessuali. Certo, il porco mangia di tutto, e del porco<br />
non si butta via niente, e per amore del lardo si bacia il culo al porco. Non<br />
importa che l’uomo sfrutti e distrugga l’uomo, non importano i diritti umani:<br />
l’importante è assicurare i diritti al porco, che in quanto creatura innocente<br />
NON DEVE essere mangiata. Già ma l’uomo non è una creatura? Ma oh che<br />
bello non sono vegetariano né tantomeno animalista! Posso quindi dirmi felice<br />
di divorare queste bistecche di porco senso di colpa alcuno!»<br />
Ma poi, masticando soavemente la preziosa suina carne, tornò a pensare:<br />
«Ecco, se io fossi musulmano quale orrendo peccato starei per commettere! Il<br />
nostro profeta Mohammad avrebbe detto chiaramente che chi mangia carne di<br />
porco all’inferno finirà! Si può fare di tutto: spacciare droga, tagliare la gola a<br />
chi veste all’occidentale e massacrare chi non adora Allah, imbottirsi di tritolo<br />
per punire gli infedeli, comprare e vendere armi, arricchire l’uranio per preparare<br />
la guerra nucleare che distruggerà il mondo – ma: guai a mangiare carne di<br />
porco! Altrimenti dritti all’inferno si finirà. Invece se non mangi carne di porco<br />
in paradiso finirai – in paradiso: dove ci saranno settanta vergini per ogni devoto<br />
di Allah. In effetti – come dice il saggio Tango - di vergini sulla terra non ce n’è,<br />
debbono giocoforza trovarsi tutte nell’islamico paradiso. Ma la domanda sorge<br />
spontanea: se io, essendo vergine, mi trovassi a mestierare con ben settanta vergini,<br />
come andrebbe a finire? Nessuno può dirlo ma forse: un fiasco totale! Ci<br />
saranno manuali di istruzioni sul sesso in paradiso? Ma il sesso non è peccato? E<br />
deflorare una vergine non è anche peggio? E settanta? E poi chi mi assicura che<br />
questa storia sia vera? E ancora e soprattutto: ma a me che cazzo me ne frega?<br />
Io sono un artista. No, l’islam non fa per me. Ah, che buona la carne di porco!<br />
E non sto nemmeno peccando!».<br />
Ma il porco chiama il vino, e come poi gustar un buon o due buoni bicchieri<br />
di vino senza manecare suina carne? E allora Gesualdo versò un bicchiere di<br />
vino, lo gustò alternandolo alla masticatura di maiala carnazza ma al secondo<br />
bicchiere un dubbio lo colse e si fermò a pensare: «Ecco che bevo vino. E mangiando<br />
porco pergiunta! Ma se fosse vero quel che dicono i muslìms? Mi starei<br />
scavando la fossa… Vino e porco: un mix micidiale! No, devo, devo ravvedermi!<br />
Ma… che buono questo vinello… e non costa neppure tanto… e che buono<br />
accoppiato al dolce suino… Ma che dico! Questo è peccato, peccato mortale!<br />
E io tranquillamente mangio porco e vino bevo anzi allegramente sbevazzo e<br />
carnazza divoro! Però… buono questo vinello… e il porcello, wow! e poi…<br />
e poi… e poi.. Ma sì! Ma tanto morirò lo stesso, sia chiaro, anche se mangiassi<br />
insalata tutta la vita! Già, l’insalata: e perché mai la verdura non dovrebbe essere<br />
considerata creatura? Fa anche rima: verdura creatura creatura verdura creatura<br />
verdura. La verdura… che buona la verdura! Ho un po’ di insalata e di broccoli<br />
lessi, sì sono in frigo da sabato e oggi è lunedì, ma secondo me sono ancora<br />
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8<br />
buoni. Gnam gnam! Che mangiando verdura col porco si digerisce meglio la<br />
proteica suinità! Chi vuol esser lieto sia ma soprattutto: buon appetito Gesualdo!<br />
Ah che sollievo, non debbo punto preoccuparmi di cosa mangio o bevo – e<br />
bada bene Gesualdo: ho dimostrato il tutto con la sola logica, ah la logica!» e<br />
addentò la seconda bistecca suina altalenandosi di tra un sorso di rosso vino e<br />
una spudorata masticata. Si sentiva spudorato.<br />
Ma «Il pudore è negli occhi» - si disse: e in effetti, lui era lì solo, non stava<br />
violando lo sguardo di alcuna presunta femmina, stava solo masticando con soddisfazione<br />
carne di porco e vino rosso.<br />
Sul finale della sua lautamente parca cena si disse: «Ohibò! Qui ci vuole una<br />
sigarettina!» e prese il suo tabacco senza conservati né additivi, le sue cartine e i<br />
suoi filtrini, e rollò una sigarettina per sfrugolarsi un pochetto il palato deliziato<br />
da tanto vegetarislamico peccato.<br />
Ma tosto ch’ebbe appiccato il sigarino si disse: «Gesualdo, non rimembri il<br />
proverbio! Bacco tabacco e venere riducono l’uomo in cenere! Certo qui ora<br />
venere non c’è, se non sotto le assai mentite spoglie di una suina bistecca – à<br />
propos: ma bistecca verrà forse dall’anglosassone beef steak? Stecco di manzo?<br />
Mah. Come direbbe Piero e Alberto Angela: non lo sapremo mai. Piero e Alberto<br />
Angela sono una persona sola: Angela. Piero e Alberto sono due epìteti.<br />
Certo qui ora venere non c’è, se non sotto le molto mentite spoglie di una deliziosa,<br />
insuperabile, superba, titillante e dileticante, provocante suina bistecca!<br />
Ma pur ingerisco bacco e tra poco stabaccherò tabacco: mi ridurrò in cenere?<br />
Ma a conti fatti e a ben vedere, mi ridurrò in cenere igualemente! E allor perché<br />
non stabaccare una pagliuzza? Eh, se fossi protestante, chessò, evangelico: come<br />
quella ragazza di cui mi ero innamorato tanti anni fa, e bada bene Gesualdo!<br />
L’amasti follemente per quasi due giorni! Lei era evangelica, ma tu ignoravi<br />
totalmente che significasse e non ti interessava punto: ti faceva impazzire la sua<br />
bellezza, il suo sorriso puro o presunto tale – pareva venire da Dio in persona –<br />
bellezza, che forse oggi non ti risveglierebbe più nulla – ma allora, oh allora: le<br />
dedicasti una poesia! Una, addirittura una poesia! Tu, illetterato d’un Gesualdo,<br />
più ignorante di un bufalo che altra pena non si dia che masticar strame e defecar<br />
letame! Una poesia! Non due, ma ben UNA poesia! E dopo il primo incontro,<br />
ahi che dolzore, dolcezza e dolore, passeggiando per la piazza del milanense<br />
Duomo (lei neppure un istante ti guardò in volto, voglio dire occhi negli occhi,<br />
ma pur tu ne eri rapito), dopo il primo incontro ella ti invitò a una sottospecie di<br />
messa evangelica, dove senza fallo apprendesti che: chi fuma una sigaretta finirà<br />
all’inferno, chi beve alcolici verrà escluso dalla evangelica comunità dopodiché<br />
finirà all’inferno, chi fa sesso attirerà l’ira di Dio fino alla distruzione totale<br />
dell’infingardo essere che tanto abbia osato – e tu, Gesualdo, ti sentisti una<br />
nullità, una merda, e chiedesti perdono alla merda per esserti paragonato a lei,
infinitamente più buona e certo molto più profumata (in settimana chi lo trova<br />
il tempo per lavarsi? Ah le sacrosante otto ore sindacali che talvolta divengono<br />
nove, nove e mezzo…). E grazie dico, grazie! Grazie poiché non sono protestevangelico!<br />
Certo lei non mi amerà mai, ma chissenefotte! E comunque non<br />
debbo temere di essere escluso dalla comunità, poiché non ne faccio comunque<br />
parte! Quindi posso pur bere un bicchier di vino e fumar un sigarino senza pensare<br />
al castigo eterno sanza fino!».<br />
Ma proprio in quella, un pensiero stravolse la mente di Gesualdo: «Il castigo…<br />
Ma che sarà mai questo castigo? Ma che sarà mai questo inferno? Ma esiste<br />
davvero? E io sono votato a questo, questo è il mio destino? Ma cos’è l’inferno,<br />
cos’è il castigo?» - ma proprio in quella il suo pensierare venne interrotto dal<br />
becero suono del citofono, veloce voce, improvvisa. E Gesualdo si rimase a dir<br />
poco un poco interdetto: erano ormai le ventidue e sedici di lunedì, entro breve<br />
egli si sarebbe coricato per gustar le sia pur poche ore di sonno permesse dalle<br />
infinitamente giuste otto ore sindacali, chi mai poteva essere, perché mai qualcuno<br />
si sarebbe poi permesso di disturbarlo quando si accingeva al riposo del<br />
giusto? Pure, rispose, e disse:<br />
«Chi è?»<br />
«Gesualdo, apri, sono Gesù!»<br />
«Ge… chi?»<br />
«Gesù! Gesualdo, apri, sono Gesù! Sono venuto per mangiare con te! Apri!»<br />
«Ma io ho già mangiato! Non vorrei fare indigestione! E poi è tardi! E chi sei<br />
tu? Strano nome: Gesù!»<br />
«Ma del cibo che io ti darò non ne hai mai mangiato prima d’ora e vedrai: lo<br />
digerirai benissimo. Su Gesualdo, apri che fa freddo!»<br />
Gesualdo era perplesso e pensò all’infinito di codesto verbo dicendosi: perplimere?<br />
Mah forse che sì. Nondimeno aprì allo sconosciuto avventore che lo<br />
chiamava per nome quasi che presagendo qualcosa di sconvolgente e pur tanto<br />
abbracciante.<br />
Girò la chiave nella toppa e dopo pochi minuti vide apparire sulla soglia un<br />
tizio vestito da mendìco, che si levò la cappa di capo e pudìco lo mirò con raggiante<br />
sguardo:<br />
«Gesualdo! Ce ne ho messo di tempo per trovarti! Nessuno pare conoscerti,<br />
mi son dovuto affidare all’istinto, come direbbe Al Pacino in Carlito’s Way: e<br />
infine ti ho trovato!»<br />
Gesualdo rimase impressionato dalla luminaria del volto dello sconosciuto,<br />
pareva che il sole fosse aggiunto di un altro sole e anche più, ma non seppe dire<br />
altro più che:<br />
«Gesù?»<br />
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«Gesualdo, I suppose?» - rispose il luminoso mendìco.<br />
E aggiunse: «Ho fame Gesualdo, dammi qualcosa da mangiare! L’inverno di<br />
Milano è troppo freddo, e da dove arrivo io fa un caldo che neppure il solarium<br />
Akehnaton potrebbe riprodurre con le sue artificiali lampade!»<br />
Ma Gesualdo disse: «Mi perdoni signor Gesù, purtroppo ho mangiato tutto,<br />
o quasi: mi resta qualche avanzo di porco – ossa e un po’ di grasso – e un poco di<br />
vino: di pane, solo qualche briciola ma rafferma, risale a sabato scorso, quando<br />
Fiammetta e Cecilia sono venute a trovarmi!».<br />
E Gesù disse: «Lo so bene Gesualdo, conosco bene Fiammetta e Cecilia: una<br />
parla tanto, l’altra pochissimo, e tu le ami entrambi se pur in maniera diversa ma<br />
igualmente con la tua gesualdica demenza, e so bene: sono due esseri incantevoli:<br />
su in Paradiso le ammiriamo tutti e ci commuoviamo al loro eneadico e pur<br />
goffo incedere ridendo come pazzi!» - ma Gesualdo lo interruppe: «Ma Gesù,<br />
or io mi accorgo che tu sai tutto, almeno di me, e siccome io sono la sola persona<br />
che veracemente conosco, tu sai tutto di tutti, ma dimmi ordunque: allora<br />
il paradiso esiste? E tu chi sei? E se il Paradiso esiste, io ne sono già escluso?».<br />
«Dàmmi qualcosa da mangiare Gesualdo, ho poco tempo e troppa fame, e<br />
che freddo fa qui a Milano!».<br />
Ma Gesualdo ripeté: «Non ho che qualche briciola di pane raffermo, qualche<br />
avanzo di porco, e neppure possiedo un granché di vino or che risguardo bene:<br />
l’ho bevuto pressoché tutto!» - e si vergognò profondamente.<br />
Gesù disse: «Dàmmi quelle briciole di pane raffermo e quegli scarti di maiale<br />
e quel poco di vino e dimmi: credi in me?»<br />
Gesualdo: «Signore, non so neppure chi tu sia, e tu mi chiedi: credi in me?<br />
Ebbene sì se devo essere sincero, ti credo: se avessi sospettato qualcosa non ti<br />
avrei mai fatto salire alle ventidue e sedici, e domani devo andare a lavorare! Sì<br />
Signore, credo in te, qualcosa mi dice che posso e debbo fidarmi di te: l’istinto,<br />
l’animale istinto…».<br />
Gesù cominciò a parlare in una lingua stranissima, e Gesualdo ascoltò ma<br />
senza comprendere nulla, e pur vide accadere sotto i suoi occhi la cosa più incredibile<br />
che mai avesse visto: le briciole di pane raffermo divennero filoni di<br />
fantastico pane ai cinque cereali, il suo preferito! e la fragranza era tale che neppure<br />
i prodotti da forno scongelati esselunga avrebbero potuto far di meglio, e<br />
gli scarti di porco divennero un grande fumante arrosto di maiale con patate che<br />
deliziò il palato di Gesualdo al solo profumante piacere, e il poco vino rimasto:<br />
si trasformò magicamente in due fiaschi di amarone vendemmia duemilasette,<br />
e Gesualdo esclamò: «Ohibò! Signor Gesù, ma come hai fatto! Se sei un mago<br />
di questo livello saprai certamente dirmi: cos’è mai questo inferno di cui tutti<br />
parlano e di cui ho tanta paura, pur non sapendolo narrare con personale parola?<br />
Cosa mai significa?».
Gesù disse: «Mangiamo adesso, Gesualdo, ho fame e freddo – la cosa più importante<br />
è la vita, e la vita è il bene, con la B maiuscola, tu lo sai bene: l’inferno<br />
esiste solo per chi ne ha paura. Tu non preoccuparti troppo, a ogni giorno basta<br />
la sua pena. Vieni, mangiamo questo delizioso porco che il Padre ha provveduto<br />
per noi e innaffiamo l’ugola col buon vino che sempre il Padre ci ha provveduto,<br />
poi mi offrirai un sigarino di quel ottimo tabacco che ancor possiedi – vero?<br />
E poi dopo il sigaretto, andremo innanzi a trangugiare amarone per lucidare<br />
l’ugola, e tu tirerai fuori la chitarra e canteremo assieme i salmi di De André,<br />
che piacciono tanto a tutti in Paradiso: vedesti come ne va matto san Bernardo!<br />
Ma insieme a lui Zappa e Tognazzi, e non ultimo Marco Ferreri, insieme a Franco<br />
Basaglia e Jerry Garcia – ma quanti, oh quanti altri amano il buon vecchio<br />
De André! Tantissimi, invero – te lo giuro! Oddìo sto giurando, avevo detto pur<br />
di non giurare! E ho detto Oddìo e io non impreco solitamente, mah… questo<br />
amarone… non male davvero! Maria, mia madre, ama tantissimo quel disco che<br />
anche tu ami tanto: La Buona Novella – e non solo: non al denaro non all’amore<br />
né al cielo, ma mia Mamma ama tutte le canzoni di Fabrizio! Orsù amico mio,<br />
andiamo, Gesualdo, cantiamo, lasciamo che il vino ci inebrii il cuore di quella<br />
dolcezza che solo l’amore sa immaginare e fingere nel pensiero - a ogni giorno<br />
basta la sua pena – cantiamo, che poi domani dovrai tornare alle tue più che<br />
giuste sindacali otto ore lavorative».<br />
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12<br />
A Christmas tale - Basta un albero di pino per scrivere<br />
un racconto di Natale<br />
di Gero Micciché<br />
«...un racconto di Natale!» chiosò il direttore quando gli domandai spaesato<br />
cosa dovessi scrivere per il prossimo numero della <strong>rivista</strong> che sarebbe sorto dalle<br />
oscurità topografiche in occasione delle festività natalizie. «Qualcosa che piaccia<br />
alla gente, che dia da riflettere alle menti limitate dei nostri lettori – ma non<br />
troppo, eh!, mica possiamo rompergli i coglioni sotto l’albero – e che soprattutto<br />
incarni lo spirito del Natale...»<br />
… e blablabla sui buoni sentimenti ma attenti a non trascurare che ci sono<br />
anche problemi sociali, che oggi siamo tutti in mezzo a una strada e il Natale<br />
solo ghirlande e strenne colorate non funziona più quando sei precario e non sai<br />
con che soldi comprarli, i regali, continuò accompagnandomi alla porta mentre<br />
le braccia gli sguisciavano rapide nel cappotto, ‘ché era tardi e doveva andare<br />
a prendere pandori e cotechini e spumante che l’editore gli aveva commissionato<br />
e non sapeva ancora nemmeno in quale discount comprarli («è che costa<br />
tutto un occhio della testa, caro mio, possiamo mica spendere tre euro per un<br />
pandoro di marca anche se c’ha lo zucchero vanigliato? Moltiplicalo per ogni<br />
redattore, e i segretari, i lavacessi, gli uscieri e gli informatici... ah, far quadrare<br />
i bilanci, caro mio, con i budget che abbiamo! I bilanci, con questi sussidi, che<br />
sulla carta stampata si muore di fame! Vendere più copie e più marketing, quello<br />
è il segreto, più marketing!»).<br />
Rimasi fermo e un po’ intirizzito appena fuori dall’uscio, col palmo della<br />
mano spalancato e gli occhi intontiti in direzione del direttore che s’allontanava<br />
ancora cianciando di spazi pubblicitari e partite doppie e, man mano che quel<br />
trottolame di parole frettolose andava dissipandosi, capivo di non aver ancora<br />
compreso cosa diavolo volesse trovare sulla sua scrivania: cosa voleva dire che<br />
avrei dovuto scrivere un “racconto di Natale”? Come si scrive un racconto di Na-
tale? Parlando dei complessi d’adulterio delle renne di Santa Claus? Dell’afflato<br />
di bontà che pervade anche pedofili e netturbini davanti alle innevate vetrine<br />
luccicanti prima di tornare a inculare i ragazzini non appena passato Santo Stefano?<br />
Per placare quel marasma di sillabe confuse che ancora mi rimbalzavano<br />
come biglie di gomma fra le pareti della calotta cranica, cominciai ad alimentare<br />
i passi; che poi eravamo 8 gradi sotto lo zero e il freddo mi entrava pure nei pantaloni,<br />
e pensai che non sarebbe stato male avere un paio di quei mutandoni di<br />
lana che una tizia di Bormio mi aveva detto una volta che suo nonno continuava<br />
ad usare e d’inverno non li lavava mai, che la lana di pecora poi si infeltriva e<br />
gli faceva male alle zone inguinali, e sua madre (la madre della tizia, che però<br />
era anche la figlia del nonno) ogni volta si lamentava e diceva che era sporco e<br />
puzzava peggio di una capra impastata di bitto, e che quando si arriva a una certa<br />
età si è peggio dei bambini.<br />
Ma io dovevo elaborare un racconto di Natale che mi avrebbe comunque fruttato<br />
qualche soldo per le sizze e uno spumante un po’ migliore della sottomarca<br />
che andava cercando il direttore e, privo di mutande lanuginose a schermarmi<br />
dal freddo, continuavo a rimuginare zigzagando per i porticati come facevo da<br />
bambino con la bicicletta, quando finivo sempre a sbattere contro le buste della<br />
spesa delle signore, spesso così forte che gli scappavano di mano e per terra era<br />
un campo minato di galbanino e tegolini, a volte pure uova di quaglia e latte<br />
Stella in vetro, e io dovevo esser rapido a fuggire da quegli striduli lamenti manco<br />
fossi uno scippatore a cui tagliar la mano, ma adesso non ero sulla bici, ero<br />
sulle mie converse nero slavato che non so chi cazzo me lo faccia fare a infilarle<br />
ogni volta con impremeditato automatismo, e sono così distratto che praticamente<br />
questo accade ogni volta che metto il naso fuori casa, le ho tanto logorate<br />
che sono ormai una schiumarole da passeggio, buchi qua e là ai lati, sul dorso<br />
del piede, e già che a dicembre c’entrano poco le scarpe in tela sui sanpietrini<br />
sdrucciolevoli di brina, fatto sta che i piedi li sentivo un blocco tiglioso, un’unica<br />
rocca di sale.<br />
E ancora non avevo idea di cosa scrivere: forse un racconto con protagonisti<br />
barboni o mendicanti, i poveri a Natale suscitano compassione e tenerezza, e<br />
poi è simpatica la loro fiatella avvinazzata, il ghigno sdentato, la barba sporca di<br />
residui di cacio, sono tanto natalizi messi lì a scaldarsi le mani avvolte in guanti<br />
a mezzodito sulla fiamma che ondeggia nei bidoni al cherosene, pensavo, e azzardavo<br />
una trama, la storia di un barbone monco che ogni notte rutta, beve e<br />
sevizia i topi. Una sera, barcollando verso il suo loculo di cartone e terze pagine<br />
di corrieredellasera, tra le imprecazioni dei colleghi barboni già accucciati a cui<br />
molla qualche calcio involontario, gli appare un vecchio grasso, barbuto dalla<br />
giacca rossa. Si presenta come Santo Nicola. Il barbone gli risponde levando al<br />
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14<br />
cielo una bestemmia, ora doveva tornare alla taverna e dirgliene quattro, che al<br />
proprietario gliel’aveva detto, basta con il barbera delle bustine che poi mi sento<br />
male e finisce come l’ultima volta che ho parlato per mezzora della semifinale<br />
di coppa Italia con un ratto gigante a mezzo baffo e il giorno dopo gli altri barboni<br />
mi hanno detto che invece era l’Alcide, il mendicante che puzza di vongole<br />
crude e cimici spiaccicate sulla lamiera, quello di cui tutti hanno paura per cosa<br />
possa uscirgli dal profondo della gola quando parla e mai nessuno gli si vuole<br />
avvicinare. Ma Santo Nicola dice che invece è proprio lui, e non l’Alcide, che lo<br />
segue da molto tempo e che sa che è stato molto cattivo; ma siccome è Natale<br />
ha deciso di dargli una possibilità, e lo renderà ricco come mai lo è stato se comincerà<br />
a fare il bravo, e già immaginavo la faccia del barbone sporco e allampanato<br />
illuminarsi, le pupille strabuzzate allargarsi e mi sentivo entrar dentro i<br />
suoi dubbi, nelle sue valutazioni, diffidenze, aspettative, dritto nel cuore della<br />
storia, e lì stavo immergendomi a braccia piene come un sub nella gioia della<br />
barriera corallina, se le urla di masse di studenti contro il governo e la riforma<br />
scolastica non mi avessero tirato fuori di botto dal mood narrativo mentre attraversavo<br />
la piazza che era tutto un vociare, un crepitare di slogan e cori da stadio,<br />
un mercato di richieste di diritti e difesa del pubblico avverso al privato usurpatore.<br />
E pensai che non era proprio possibile per uno scrittore vivere in città,<br />
così molesta di grida e rumori urbani, come facevo a impegnarmi a creare cose<br />
utili per allietare tanta gente sotto l’albero se tutti quegli idioti seguitavano a far<br />
baccano. E neanche ci potevano tutti quei poliziotti incascati, quelli tentavano di<br />
portare un po’ di calma con i loro manganelli ma gli studenti erano troppi, sembrava<br />
l’orda di Balduvia, e per giunta avrebbero lamentato un comportamento<br />
eccessivo da parte dell’autorità, e tutti lì a dargli ragione, ma loro, gli sbirri,<br />
alla fine erano come professori, e una volta non si bacchettavano gli studenti per<br />
mantenere l’ordine in nell’aula? E tutti ‘sti problemi per il manganello al posto<br />
della bacchetta! Ma ognuno è pur sempre figlio del proprio tempo, no?<br />
Ma non avevo tempo per pensare alle problematiche dell’educazione dei giovani<br />
in Italia, bastava già quel professore mezzo comunista e napoletano, dovevo<br />
trovare un racconto di Natale da proporre al direttore e avevo lasciato il mio<br />
barbone a metà. Pensai che Santo Nicola potesse fargli firmare un contratto<br />
dove il bonario clochard si prendeva l’impegno di sostituirlo definitivamente nei<br />
suoi impegni di Babbo Natale, ‘chè lui ormai era troppo vecchio per star tutta la<br />
notte sveglio in giro su una slitta con quel freddo, scivolar per i camini in giro<br />
per il mondo, che poi alcuni erano davvero troppo stretti e lui non era mai riuscito<br />
a seguire una dieta regolare; troppi sforzi, e l’artrite e la sciatalgia non gli<br />
davano più pace, troppo dura, davvero troppo dura la vita da Babbo Natale, caro<br />
il mio ubriacone, gli diceva. Perciò aveva deciso di dar via tutto: vestito, renne,<br />
barba, stivali, vischio, perfino il laboratorio. Così il barbone firmava il contratto
tutto contento di diventare un Santa Claus e, dato che il santo diceva che avrebbe<br />
dovuto cominciare da subito e non c’era tempo da perdere, che la Vigilia era<br />
alle porte, prendeva la sua roba – un cucchiaio ondulato con il quale ravanava fra<br />
i cassonetti, una crosta di tumazzo salato trovata un mese prima nel retro di un<br />
ristorante siciliano e un paio di giornali che fa freddo, e non si sa mai – e seguiva<br />
Santo Nicola “fino alla slitta”, pensava, e invece no, c’ha la macchina, Nicola,<br />
che te l’ho detto che ho l’artrite e la slitta è decappottata e tutta l’umidità si<br />
butta sulle ossa, quindi ho preso questa panda in leasing, che con la crisi che c’è<br />
non è più possibile fare follie, non siamo più nella prima repubblica con la lira,<br />
quest’auto ho potuto comprare, ed è pure parcheggiata in doppia fila e bisogna<br />
sbrigarsi che i pinguini non risparmiano nessuno, soprattutto a Natale. Così arrivavano<br />
a una panda rossa, a dir il vero un poco scalcagnata, e il barbone saliva<br />
senza troppi complimenti e gli chiedeva, si va a prendere l’aereo?, ma quale aereo,<br />
rispondeva Santo Nicola, e come ci arriviamo in Groenlandia o a Rovaniemi<br />
con ‘sta specie macinino?, osservava con piglio raziocinante il buon clochard, ma<br />
quale Groenlandia, Lapponia e Ciociaria, io c’ho sedi in tutto il mondo e tu puoi<br />
lavorare comodo a due passi da casa, ma io non c’ho una casa, ribatteva il barbone,<br />
e allora vivrai in ufficio, sulla slitta, dormirai sul divano o al caldo nel culo<br />
della renna ma adesso basta con ‘ste domande del cazzo! Così arrivavano davanti<br />
a un capannone a Quarto Oggiaro dove Santo Nicola avrebbe fatto scendere il<br />
barbone dicendogli che dentro il suo assistente, il classico folletto, gli avrebbe<br />
spiegato tutto, che lui doveva andare via subito per riconsegnare il tesserino da<br />
Santa Claus e chiudere le ultime pratiche burocratiche. Il barbone pensava allora<br />
che quel Santo Nicola era proprio un tipo strano ma chissenefregava, ora aveva<br />
un lavoro e una casa e i suoi problemi dopo tanti anni di patimenti e scarafaggi<br />
erano finiti, che ora si sarebbe comprato bottiglie di Chianti e Marzemino, altro<br />
che vino in polverina, e il Passito coi biscotti alla mandorla, e guanti in camoscio<br />
e uno scaldasonno per la schiena, che Santo Nicola si lamentava ma pure a lui le<br />
ossa non cantavano di gioia, e quindi apriva la porta di lamiera, percorreva un<br />
breve buio corridoio e arrivava infine in una stanza dove dietro a una scrivania<br />
stava un signore in camicia, bretelle, rughe, occhiali e ascelle pezzate di sudore.<br />
Guardandolo gli avrebbe detto Salve, sono il nuovo proprietario, e il tipo avrebbe<br />
alzato il capo un po’ spaesato ma subito una punta di luce avrebbe baluginato<br />
dietro le lenti arabescate di graffietti, e si sarebbe presentato, che lui era il ragionier<br />
Folletto e menomale che era arrivato il nuovo proprietario perché non<br />
se ne poteva proprio più del signor Nicola, che Santo faceva solo di nome ma di<br />
fatto, eh sapesse, altro che santo!, guardi che cosa ha fatto, guardi i conti. Allora<br />
il barbone scopriva di aver acquisito a titolo gratuito dal sedicente sig. Santo Nicola,<br />
imprenditore con precedenti per truffa e falso in bilancio nato a Molfetta<br />
nel ‘42, l’azienda Babbo Natale s.r.l., impresa produttrice di oggettistica nata-<br />
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lizia sottoposta a fallimento dopo aver dovuto stoccare migliaia di penne stilo<br />
eco-friendly prodotte per sbaglio con ortica al posto del vischio e altrettante<br />
zucche di Natale rimaste invendute perché fuori stagione. Il ragionier Folletto<br />
era il curatore della procedura concorsuale e cominciava a spiegare al barbone<br />
dei creditori insolventi da soddisfare, dei collaboratori da liquidare, degli altri<br />
debiti a cui far fronte; e che nei giorni successivi ci sarebbe stata l’istruttoria<br />
fallimentare, bisognava presentarsi in udienza davanti al giudice, adempire mille<br />
doveri per essere rispettabili, e non farsi interdire, che la posizione del fallito<br />
non è mica facile oggi davanti alla legge.<br />
Il barbone allora avrebbe realizzato che, sì, la vita è una tempesta, ma prenderla<br />
nel culo è davvero un lampo, e sarebbe fuggito via, lasciando il ragionier Folletto<br />
tra i conti e le carte macchiate di caffè d’orzo, e sarebbe corso indietro, sino al suo<br />
vicoletto, dove un altro accattone aveva già occupato il suo angolino. Lui si sarebbe<br />
limitato a calciarlo via a pedate e non lo avrebbe buttato dentro al bidone di cherosene,<br />
perché a Natale si è tutti più buoni e non si dà fuoco a nessuno, e il racconto<br />
si sarebbe potuto chiudere con una edificante morale, che bisogna accontentarsi<br />
di quel che si ha ma soprattutto di quel che non si ha, e che bere il barbera delle<br />
bustine non è poi così male anche se al fegato a lungo andare non fa poi tanto bene.<br />
Ero raggiante ed entusiasta della mia idea, mi sentivo già un Nobel dei racconti<br />
natalizi, l’Enzensberger delle storie di Natale, tanto che pensai di chiamare<br />
il direttore e comunicargliela subito, quella favolosa trama. Il direttore rispose<br />
subito al cellulare, ma mi disse di sbrigarmi che stava trattando con dei cinesi<br />
per lo spumante e aveva già le palle girate perché non capiva un’acca di quel<br />
che dicevano. Cominciai pomposamente a spiegargli del racconto ma subito mi<br />
bloccò, dicendomi che i barboni facevano soltanto deprimere la gente che al<br />
giorno d’oggi era quasi tutta sul lastrico, e di non permettermi più di pensare<br />
scemenze simili, di ideare piuttosto una storia fresca e divertente, magari anche<br />
un poco commovente e adatta alle famiglie, e che io ero un cretino.<br />
Riattaccò e rimasi solo, a testa bassa, sentivo i miei testicoli afflosciati. Ero rattristato,<br />
e ovviamente l’ambiente della grande città attorno non mi aiutava, con<br />
tutte quelle lucine timide ed educate, le decorazioni ad attorniare le vetrine dei<br />
negozi, i compìti Santa Claus sorridenti per le vie. Il giorno prima avevo sentito<br />
che a Napoli e Palermo per le strade era tutta una festa, la gente sparava, ballava e<br />
bruciava pure i cassonetti, quello sì che era vivere lo spirito del Natale, al sud sì che<br />
sanno come festeggiare. Quasi quasi stavo per rimpiangere i facinorosi studenti<br />
delle piazze, ma in realtà mi mancavano i cannoli e i panini con la mèusa, e la mia<br />
mamma che stava giù in Sicilia, avrei avuto voglia di telefonarle ma la chiamata al<br />
direttore mi aveva tolto alcuni dei pochi centesimi di ricarica restanti, il messaggio<br />
del credito residuo parlava chiaro, e a me non andava di rimanere a zero.<br />
Non mi persi d’animo e, arrestatomi davanti a un cinema, presi una sigaretta,
trassi lo zippo dal pacchetto e portai la mano all’altezza della bocca. Tenevo gli<br />
occhi fissi sulla fiamma mentre ascoltavo lo sfrigolare del tabacco e aspiravo la<br />
boccata d’accensione e, quando abbassai il braccio per far scivolare l’accendino<br />
dalle dita sino alla tasca, il mio sguardo rimase ancora dritto in quella direzione,<br />
catturando la locandina del film in programmazione: ero di fronte al fotomontaggio<br />
del classico cinepanettone, su cui si stagliavano, in primo piano, la coppia<br />
di attori di punta, la bella e scosciata di turno con décolleté in rilievo e qualche<br />
comico da zelig a far da riempitivo. Parevano tutti felici nei loro sorrisi furbeschi,<br />
inebetiti, seducenti, ogni anno andavano in una nazione diversa dove gliene<br />
capitavano di tutti i colori e tra rutti, equivoci, scorregge, qui pro quo, scambi<br />
d’oggetti e di persona, riuscivano sempre nell’intento di far divertire il pubblico<br />
di famiglie in sala, e soprattutto a sbancare al botteghino.<br />
Mi illuminai e, fermentando nuovamente di esaltante slancio creativo, mi<br />
lanciai nell’elaborazione di una nuova trama: i due protagonisti principali sarebbero<br />
stati Aristide, manager milanese di un’agenzia di rating, e un giovane<br />
cameriere napoletano detto Gianco. Il primo si fa il culo tutto il giorno appresso<br />
a matrici, indicatori e investment grades, ha tanti soldi ed è sensibilmente<br />
stressato ma, in prossimità del Natale, stanco della grande città e del freddo da<br />
cani, decide di staccar la spina e di far un bel viaggio in Thailandia. Il secondo<br />
lavora in un bar del centro e, stanco di servire Veuve Cliquot a signore in chiffon<br />
e uomini con Rolex Daytona scintillanti ai polsi mentre lui arriva a malapena a<br />
fine mese, decide di andare via e di farlo in grande stile annaffiando di spritz la<br />
capoccia dell’ennesimo business man meneghino che gli si lamenta della scarsa<br />
qualità dello spumante, rovesciando un Martini sulla scollatura della signora che<br />
lo accompagna, e causando così la tipica gag del maître che tenta di recuperare<br />
l’oliva per porre rimedio causando invece scandalo e riprovazione nella cliente.<br />
Lieto della libertà ritrovata, ma al contempo un po’ incazzato e, a dirla tutta,<br />
notevolmente preoccupato per la propria sussistenza, entra in un bar, e per caso<br />
sente un tizio dire a un altro cameriere che lo ha raccomandato per lavorare in<br />
un hotel di lusso in Thailandia nel periodo di Natale. Lui ghigna, e ricorda quello<br />
che diceva suo zio, che la Thailandia è piena di massaggiatrici e donne voluttuose<br />
e dalla figa stretta e piccolina. Decide allora di aspettar fuori l’altro cameriere,<br />
con l’inganno lo chiude in un camion-frigo che trasporta pesci spada in Uruguay,<br />
gli ruba la lettera di raccomandazione e parte, intenzionato a far qualche<br />
soldo e restare in Asia in cerca di fortuna.<br />
Partono separatamente, e nessuno sa nulla dell’altro. Capitano casualmente<br />
nello stesso albergo e si stanno subito sul cazzo, perché il tizio dell’agenzia di<br />
rating ordina uno spritz e si lamenta della scarsa qualità dello spumante. Il cameriere<br />
gli rovescia addosso lo spritz, e rischia di essere licenziato ma si salva<br />
dicendo in lacrime al direttore (per caso anche lui napoletano) di essere inciam-<br />
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pato sul piede del cliente, il quale l’avrebbe fatto apposta infastidito dal suo<br />
accento meridionale. Si odiano a prima vista, ma potrebbe finir lì, se entrambi<br />
non si innamorassero di Suva, procace animatrice thailandese tutta sorrisi<br />
mentadent e poppe al vento, la quale è attratta dalla spontaneità e genuinità<br />
di Gianco, ma non è indifferente al blocchetto d’assegni di Aristide. La storia<br />
prosegue con questi tizi che fanno la corte alla bella ed esplosiva Suva, fra lazzi,<br />
sberleffi, divertenti equivoci e colpi di scena, fra cui l’arrivo in albergo del vero<br />
cameriere scagliato fuori dal camion-frigo dopo l’urto di una scaffa appena passato<br />
lo stretto di Panama e la sorprendete scoperta che Aristide ha una moglie<br />
vacca dalla quale è scappato ma che è venuta a cercarlo fino in Thailandia, e tutti<br />
litigano e si azzuffano finché non si arriva al finale prima del quale mi sono già<br />
rotto i coglioni di sforzarmi a immaginare una storia così terribilmente idiota<br />
pure per me che voglio solo tirar su qualche soldo, figurati per l’instupidito<br />
spettatore medio dei cinepanettoni, e tutto finisce con un bello tsunami che<br />
devasta l’albergo, le palme, la spiaggia, le tette di Suva, le piantagioni di riso, i<br />
venditori ambulanti, gli assegni di Aristide, il mais, lo iuta, le piante di tapioca,<br />
la giacca bianca del genuino Gianco, le chiappone della moglie di Aristide, l’oliva<br />
da Martini, il direttore napoletano, gli spumanti per gli spritz, il cameriere<br />
scongelato, il sepan, il sandalo e tutte le massaggiatrici asiatiche e io così chiudo<br />
il racconto che chiamo Natale a Phuket e non lo mando alla <strong>rivista</strong>, anzi non mi<br />
faccio proprio più vedere in redazione e provo a proporlo alla Filmauro e scappo<br />
prima che anche De Laurentiis mi mandi a fare in culo.<br />
Penso a tutto questo e a questo punto sono incazzato come una biscia alla quale<br />
hanno pestato la coda perché ho perso più di un’ora a inventar robacce perfettamente<br />
inutili e non capisco chi me l’ha fatto fare di intraprendere la carriera dello<br />
scrittore, che mio padre me l’aveva detto che alla San Paolo del mio paese un posto<br />
da bancario me lo trovava e a st’ora c’avevo uno stipendio fisso, lavoravo fino<br />
a metà pomeriggio, un mutuo su una casa in riva al mare e un paio di marmocchi<br />
a cui badare mentre sto ad osservare i fianchi di mia moglie dilatarsi ad ogni parto<br />
come un aerostato in spinta ascensionale, e lei sta ai fornelli a preparare pasta al<br />
forno, caponata e parmigiana e io mi sento un po’ come la melanzana che salta lì<br />
in padella, fritto, tagliato a fette, in trappola tra il caciocavallo quotidiano e il sugo<br />
della routine, e poi infornato nella teglia dei miei giorni sempre uguali.<br />
Ma intanto sono qui, ancora per le vie della città, stanco, spazientito, senza<br />
una storia da vendere e pubblicare, e anche un po’ disidratato, tant’è che entro<br />
al bar e almeno un bicchiere di gasata non lo negheranno a questo povero cristo<br />
d’uno scribacchino. Trangugio l’acqua e faccio per uscire, senonché il tizio alla<br />
cassa mi chiama a gran voce, Ehi signore, e io mi volto e sono un po’ scocciato,<br />
ho lo sguardo del tutto inespressivo: il bicchiere d’acqua, sono 50 centesimi. E<br />
io lo scordo sempre che siamo qui a Milano, che giù dalle mie parti sarebbe dato
in pasto ai lupi il boia che neghi l’acqua o estorca soldi a chi la chieda, che chi ha<br />
visto la fame non speculerebbe sulla sete di un suo simile.<br />
Così massacro nel palmo della mano lo scontrino da 50 cent ed esco ancora<br />
più sfinito, con addosso il completo deliquio delle idee: vuoto come un deodorante<br />
roll-on spalmato sull’ascella della vita, mi sento senza immagini, mi sfugge<br />
lo slancio della fantasia, il senso dell’epos e del dramma. E penso a quel tizio che<br />
qualche anno fa scrisse quell’autobiografia di Babbo Natale facendo un sacco di<br />
soldi, mentre io qui mi arrovello per un pugno di euro, era un giornalista americano,<br />
aveva pure dei parenti napoletani, come il direttore di Natale a Phuket,<br />
successo mancato dei cinepanettoni del terzo millennio, ma il mio di direttore,<br />
quello della <strong>rivista</strong>, non è un partenopeo tutto pizza e mandolini che gli piace<br />
ballar la tarantella mangiando chili di pastiera, quello è milanese con i nonni a<br />
Soresina, padano da cravatta verde, stima Bossi, vota Cota, ride alle battute di<br />
Calderoli e se potesse andrebbe a cena con Maroni (Borghezio no, per non stare<br />
sempre attento alle costine nel suo piatto di cassoeula).<br />
Quindi io continuo a camminare e mi sento ormai privo di forze e completamente<br />
svuotato nella mente, barcollo un poco per quanto sto male, tutto si<br />
unifica nel vortice monocromatico di una visione a spirale che racchiude ogni<br />
cosa, i bambini che giocano a pallone, i pianisti che votano al Senato, studenti,<br />
fuochi, poliziotti, scuole di danza in tv, i denti mancanti dei barboni, De Sica,<br />
Scilipoti, le vallette, le puttane in mezzo ai viali, non sono io a passar per la città<br />
ma è la città che mi attraversa, a 180 km/h, facendomi roteare, il cielo mulina<br />
sopra di me mentre mi fermo con gli occhi traballanti, il capo ondeggia e sono<br />
simile a uno degli zombies di Dawn of the dead, quando al centro commerciale<br />
martellano le mani sulle vetrine dei negozi, senza avvedermene vacillo, senza<br />
forze, e potrei cadere a terra, se non incollassi le dita sulle imposte di una finestra;<br />
una finestra oltre la quale vedo un salone gremito di strana gente – un tizio<br />
occhialuto che percorre il pavimento misurando i passi, una tizia che strepita<br />
ossessiva, un’altra tizia che accarezza un gigante dalla testa glabra e dallo sguardo<br />
bigio – strana gente, potrebbero essere dei matti, o anche gente normale, di<br />
quella che si incontra girando per le strade commerciali, o dal fornaio, all’ippodromo,<br />
all’ufficio postale, matti o gente comune, non capisco neanche qui<br />
dove stia la differenza, capisco che pian piano cambia la focale dei miei occhi,<br />
non distinguo le figure di quell’interno manicomio ma vedo formarsi gradualmente<br />
sul vetro condensato la sagoma di un albero natalizio che si staglia; e poi<br />
man mano l’albero deflagra, la condensa scompare, e allora capisco e sorrido,<br />
mentre osservo l’epilogo di un altrui racconto di Natale svolgersi dietro finestre<br />
finzionali. Sorrido, e ricordo, ad onta delle mie fatiche, che non c’è poi tanto da<br />
arrovellarsi sullo spirito, descrivere la neve e le emozioni, immaginar presepi, i<br />
barboni e le puttane; che basta in fondo un albero di pino, per scrivere un racconto<br />
di Natale.<br />
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Il muro<br />
di Andrea Coccia<br />
Arcimboldo non riesce a riposare, la televisione del suo vicino è accesa,<br />
come tutte le notti. La voce del conduttore del telegiornale attraversa il muro<br />
che lo divide dal quel salotto, un muro spesso una decina di centimetri che<br />
dalla sua parte, dove appoggia il cuscino ogni notte, è dipinto di giallo, mentre<br />
dall’altra non sa. Arcimboldo non sa nemmeno che volto abbia il suo vicino,<br />
non ne conosce la voce, sa soltanto che ha l’abitudine di addormentarsi tutti<br />
i giorni a mezzanotte, in compagnia di quella voce impostata che ogni giorno<br />
blatera di quello che succede fuori da quella stanza, che gli parla dell’attualità.<br />
Oggi l’attualità si chiama 14 dicembre del 2010, mentre la sveglia di Arcimboldo<br />
segna le 23.55 e dalle finestre arrivano spifferi gelidi.<br />
La voce attraversa il muro perdendo un briciolo di forza, ma guadagna alle<br />
orecchie di Arcimboldo un’aria che lo spaventa, come se la ascoltasse da un<br />
altro punto della Storia.<br />
Parte la sigla, poi quella voce: Governo incassa la fiducia. Futuro e Libertà perde<br />
pezzi. Tensione in Aula. Berlusconi da Napolitano: Vittoria politica, con Fini ho chiuso.<br />
Allarghiamo la maggioranza, rifletterò su una crisi pilotata.<br />
Parallela alla voce che attraversa il muro ce n’è un’altra che rimbomba nella<br />
testa di Arcimboldo, quasi come una traduzione simultanea.Hanno vinto loro,<br />
ancora una volta ha vinto l’ignavia, l’ignoranza, la furbizia. Hanno vinto loro,<br />
ma chi è che ha perso?<br />
Guerriglia a Roma, teppisti all’assalto: 90 feriti, devastato centro storico. Sassi contro<br />
forze dell’ordine, auto e blindati distrutti.<br />
Teppisti, assalto, devastazioni, forze dell’ordine, blindati distrutti. Ecco chi<br />
ha perso, peccato che fossero studenti, manifestazioni, cariche della polizia,<br />
botte da orbi.<br />
L’Italia al freddo, nevica da 20 ore sulle coste adriatiche, flagellata tutta Europa e<br />
Stati Uniti.<br />
Chi se ne frega, almeno finché io sono in casa e, grazie ai vecchietti che abitano<br />
nel condominio, sto in mutande in pieno dicembre...
Regali tecnologici per chi può spendere qualche euro in più. Le ultime novità nelle<br />
cure termali. A Milano il presepe meccanico del 1920.<br />
Qualche euro in più? Cure termali? Presepe meccanico? Mi state provocando<br />
eh?<br />
Spero che abbassi, non ne posso più, pensa Arcimboldo, l’attualità ignobile<br />
del suo vicino gli sta stretta come boxer di due taglie più piccoli, gli fa salire il<br />
sangue al cervello. Dietro la testa e il cuscino, dall’altra parte del muro, a una<br />
trentina di centimetri dal suo cervello assediato, inizia e finisce una realtà in<br />
cui Arcimboldo esiste soltanto come teppista, bamboccione, estremista, studente,<br />
anarcoinsurrezionalista, pezzente, fallito.<br />
Non ne posso più. Ho quasi trent’anni, pensa Arcimboldo, che l’unico<br />
gesto violento che abbia mai fatto nella sua vita è stato tirare un manrovescio<br />
in faccia ad un suo compagno del liceo nell’ora di ginnastica. E’ stato a Genova<br />
nel 2001 e gli veniva da piangere, ha partecipato a mille altre manifestazioni,<br />
ma a Roma non c’era. Se ci fosse stato non sa neanche lui cosa avrebbe fatto,<br />
non lo sa proprio. Ma sentire quella voce che descrive le colonne di fumo che<br />
si alzano dalle camionette, sentire che gli onorevoli pezzenti che ci governano<br />
sono stati costretti a rinchiudersi in Parlamento... Beh, in fondo tutto questo<br />
non gli ha dato fastidio, ad Arcimboldo, anzi, gli è piaciuto, lo ha alleggerito.<br />
Il mio vicino vive in una realtà che io non conosco, una realtà che mi esclude,<br />
come un appestato. Ma questa sera non me ne sto sotto le coperte ad<br />
aspettare che quella voce si perda tra i miei sogni, pensa Arcimboldo, questa<br />
volta m’incazzo, questa volta busso, prendo a calci il muro, piuttosto lo sfondo<br />
ma deve capirlo quello stronzo che esisto, non può più fare finta di niente.<br />
E’ inutile, non risponde nessuno, il vicino forse esiste solo nella sua testa,<br />
forse in quella stanza c’è solo quel televisore, forse è lì per farlo impazzire. E<br />
se fossi io che non esisto, pensa Arcimboldo, e se fossi già impazzito?<br />
No, Arcimboldo non è pazzo. Non è pazzo come l’attualità non è quella che<br />
racconta quella insopportabile voce che attraversa il muro. Un muro che non<br />
divide solo lui dal suo fantomatico vicino, ma che divide il suo Paese. Da una<br />
parte la maggioranza variegata, qualunquista o solidale non importa, che si<br />
dica di centrodestra o di centrosinistra, non importa, sempre maggioranza è e<br />
fa quadrato intorno a ciò che ha, e in quel quadrato Arcimboldo non c’è.<br />
Lui è fuori, insieme a una minoranza ancor più variegata, composta essenzialmente<br />
di gente gode del diritto di prendersi delle sbronze di birra ogni<br />
tanto, che ha voglia di cambiare, ma che è soffocata dalla pesantezza, che parla<br />
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spesso due o tre lingue e che ha fatto studi che non gli serviranno mai, che<br />
spesso sa usare tecnologie di cui chi oggi si barrica nei palazzi del potere non<br />
sa nemmeno pronunciare il nome, che tenta di osservare il mondo e capire le<br />
sue debolezze e che, come Arcimboldo stasera, non ne può più di venire ignorata.<br />
Arcimboldo non sa cosa il futuro abbia in serbo per lui, non sa se sarà in<br />
grado di opporsi a questa realtà estranea e che lo emargina. Non sa se sarà in<br />
grado di agire, ma se lo farà, Arcimboldo ne è certo, probabilmente non sarà<br />
in grado di mantenere la lucidità che ci vorrebbe in un mondo ideale dove<br />
Gandhi può sconfiggere l’Impero britannico con un No e dove Martin Luther<br />
King può cambiare l’America con un sogno, un mondo che esiste ormai solo<br />
in qualche film datato o in qualche bel romanzo. Probabilmente quello non lo<br />
saprà fare, ma non è detto che per questo debba mollare il colpo, pensa Arcimboldo.<br />
Ma non dategli del pazzo perché crede di far parte dell’Italia di cui, coloro<br />
che l’Italia l’hanno fatta, non avrebbero nulla di cui vergognarsi. Non dategli<br />
dell’ingenuo, perché del pazzo lo si da solo agli ingenui e ai bambini, e Arcimboldo,<br />
ormai ha quasi trent’anni.
Intervista a Michele Mari<br />
A cura di Andrea Coccia<br />
Nel contesto di una produzione narrativa come la sua, entro la<br />
quale la realtà biografica e la finzione letteraria interagiscono,amalgamandosi<br />
profondamente, la scelta della prima persona narrante è<br />
una scelta dettata dall’istinto o dalla necessità?<br />
Direi che è sempre dipesa dall’istinto, sicuramente nasce da come io immagino<br />
subito una voce, un tono. Quasi tutti i miei racconti e romanzi, seppur in<br />
modo trasfigurato, hanno sempre un riferimento biografico molto profondo,<br />
direi quasi autobiopsicihico, hanno un carattere di visceralità, di continuità con<br />
la mia vita. In qualche modo io li percepisco come dei fiori che crescono sul<br />
campo della mia vita, quindi la prima persona mi sembra la più corretta, la più<br />
naturale. Anche perché poi ho altre vie per creare la distanza, per trasfigurare,<br />
per stilizzare il materiale biografico e trasformarlo in letteratura.<br />
Come la maschera di Céline in Rondini sul filo?<br />
In Rondini sul filo ero talmente consapevole della scabrosità, dell’indecenza,<br />
dell’impudicizia di quello che stavo raccontando, per come lo raccontavo, per il<br />
fatto che mettessi nomi veri, fatti veri – anche se poi mi sono divertito a mescolarli<br />
e a reinventarli, e curiosamente non sempre quello che sembra frutto della<br />
fantasia è inventato e viceversa – che nella mia coscienza lo avvertivo quasi come<br />
un atto di esibizionismo, un atto osceno in luogo pubblico. La maschera della<br />
voce céliniana mi è servita a creare una distanza. Rondini sul filo è un libro che,<br />
avendo io avuto la presunzione di scriverlo empaticamente, omologicamente,<br />
dall’interno di un’ossessione, richiedeva di essere scritto con la lingua franta,<br />
furibonda, dislessica, piena di invettive, sospensioni, ingorghi, in qualche modo<br />
sconnessa, propria di quelli che parlano in continuazione, che borbottano. È una<br />
sorta di ruminio mentale. In un caso come questo la prima persona era assolutamente<br />
obbligata. Se avessi imposto al racconto una voce in terza persona avrei<br />
creato subito l’ingombro di un personaggio in più, un personaggio onnisciente<br />
23
24<br />
la cui presenza pervasiva nella testa del paziente sarebbe risultata artificiosa. In<br />
fondo anche Svevo ha scritto La Coscienza di Zeno in prima persona, anche se<br />
poi ha usato lo stratagemma di aggiungere una voce di cornice, quella dello psichiatra,<br />
che rende la sua una voce narrante di secondo grado.<br />
Un destino simile a quello di Osmoc, narratore di secondo grado<br />
di Di bestia in bestia?<br />
Esattamente, in quel caso c’erano due personaggi e ho fatto coincidere la<br />
voce narrante di primo grado con quella di un professore, però poi i monologhi<br />
di Osmoc hanno preso il sopravvento sulla narrazione, tanto che la seconda<br />
parte del romanzo è praticamente l’autobiografia di Osmoc, il quale, di fatto, è<br />
come se con un colpo di stato togliesse la parola al narratore.<br />
In quel caso la maschera è il linguaggio?<br />
Sì, quel linguaggio accademico, paludato, che in quegli anni sentivo come uno<br />
stigma, un privilegio, un segno di bellezza.<br />
Di distinzione?<br />
Piuttosto che di distinzione direi di titanismo, per tutto quello che aveva<br />
comportato in termini di studi, eroici e solitari. Un linguaggio che però sentivo<br />
anche come morte, come non vita, come tutto ciò che mi aveva tolto dalla vita<br />
dei miei coetanei. Come una corazza che ti rafforza contro il mondo, ma nello<br />
stesso tempo ti soffoca, ti impedisce di essere sciolto, modulato, disinvolto, fa di<br />
te una specie di macchina da guerra.<br />
Un caso particolare di prima persona che appare spesso nei suoi<br />
testi, è un narratore che porta il suo stesso nome e che, proprio a<br />
causa di questa omonimia, genera una forte ambiguità. Qual è il motivo<br />
di questa sua scelta?<br />
Non saprei, questa più che una scelta è una cosa che ho sempre fatto in modo<br />
spontaneo. Quando ho scritto i racconti di Euridice aveva un cane, avevo ancora<br />
lo scrupolo di mascherare, e solo nel racconto che dà il nome alla raccolta, Euridice<br />
aveva un cane, il protagonista si chiama Michele, forse per creare un po’<br />
di confusione, per mischiare le carte. Poi, in alcuni racconti di Tu, sanguinosa<br />
infanzia come ad esempio L’uomo che uccise Liberty Valance, il padre del protagonista<br />
chiama il figlio Michele. In Rondini sul filo ho addirittura usato nome
e cognome, mentre in Verderame, nel quale ho usato anche il nome di Nasca che<br />
è realmente il paese dove è ambientata la storia, per il protagonista ho usato il<br />
diminutivo, Michelino.<br />
Ora mi è venuto quasi una specie di gusto provocatorio, perché in fondo se la<br />
letteratura è un acido così potente da poter sciogliere tutto, allora può fondere<br />
anche i nomi propri. Molti critici per questo fatto mi hanno messo nei loro articoli<br />
in compagnia di autori come Walter Siti, in categorie intitolate all’autofiction,<br />
categorie alle quali io non avevo mai pensato da un punto di vista teorico,<br />
narratologico.<br />
Sarà perché ho sempre sentito la scrittura come un corpo a corpo con la<br />
mia vita che ad un certo punto mi è sembrata la cosa più naturale e più onesta<br />
del mondo usare direttamente il mio nome. Se il lettore vuole entrare nel mio<br />
mondo, io gli spalanco le porte, dopo di ché è lui che ci si deve ritrovare. Come<br />
anche in Cento poesie d’amore a Ladyhawke1, nel quale ho evitato i riferimenti<br />
per non creare problemi all’altra persona, ma se fosse dipeso soltanto da me<br />
avrei messo tutto, gli anni, la classe, la sezione, i nomi e cognomi. In quel caso<br />
non l’ho fatto per una sorta di autocensura.<br />
Quindi, per tornare al principio della questione: scelta istintiva o<br />
necessità?<br />
Alla fine credo che le due cose vadano di pari passo: l’istinto si adegua alla necessità<br />
che il reale impone. Almeno, io ho questa presunzione. Quando un’idea<br />
mi si offre alla coscienza, mi visita, se è forte e non se ne va vuol dire che è<br />
giusta, che la devo seguire. Ho questa sorta di feticismo. La genesi di Verderame<br />
ha seguito questa regola. Era un po’ di tempo che venivo visitato dal ricordo di<br />
Felice, a cui non pensavo da anni, e ho iniziato a chiedermi il perché di questa<br />
visita, traducendola immediatamente in forma di necessità: perché vuole che<br />
io racconti la sua storia, vuole che mi dedichi a lui. Da un certo punto di vista,<br />
il finale del romanzo è la figura di questa sua genesi, un finale esoterico, mostruoso,<br />
per cui Felice si rivela non il personaggio semplice e povero di spirito<br />
che sembrava essere per tutto il romanzo, ma una specie di messaggero delle<br />
Potenze, uno sciamano.<br />
Io ho interpretato il finale diVerderame in chiave metaletteraria:<br />
Michelino alla fine si rende conto, istruito da Felice, di essere un<br />
personaggio di un racconto dal quale non può uscire, e nello stesso<br />
momento, capisce che a svegliarsi la mattina dopo non sarebbe stato<br />
più lui, Michelino, ma lei, Michele Mari, l’autore reale. È stata una<br />
mia sovrainterpretazione?<br />
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26<br />
Non credo sia una completa sovrainterpretazione, anche se in realtà io non<br />
l’ho pensato così. L’ho pensato in termini letterali, come se veramente scoprissi<br />
di essere stato illuso per tutto il romanzo, e che, mentre ero in cerca dei segreti<br />
della vita del Felice, ho ottenuto come risultato di scoprire il segreto della mia<br />
vita, che è quello di essere fondamentalmente un altro, essere stato un altro,<br />
un mio doppio, più potente e più continuo allo spirito del luogo, più dentro ai<br />
misteri della casa. E dunque un altro Michelino, che in quel momento sta ancora<br />
dormendo, sta scalpitando per avere il sopravvento e, quasi per una forma<br />
di pietà verso l’altro Michelino, Felice mi invita a farmi da parte, a scomparire,<br />
perché il mio tempo è scaduto.<br />
Ogni tanto, leggendo Verderame, mi è sembrato che la storia si<br />
costruisse nel suo procedere. È effettivamente questa la sua genesi o<br />
ha dietro qualche operazione preliminare?<br />
No, come per tutti gli altri miei libri, anche per Verderame non ho mai fatto<br />
una scaletta, né una mappa e neppure un riassunto mentale prima di iniziare a<br />
scrivere.<br />
Ad un certo punto del romanzo vengono elencate una serie di<br />
parole chiave che come tarocchi contengono tutti gli elementi del<br />
racconto. In quel momento sembra che lei abbia veramente sulla<br />
scrivania tutto il materiale...<br />
A proposito di questo particolare, posso dirle che mi ricordo molto bene il<br />
giorno in cui mi venne in mente questa immagine. Non è stata una cosa premeditata.<br />
Semplicemente ad un certo punto mi è venuta in mente l’immagine dei<br />
tarocchi e ho iniziato a seguirla, a controllare, elencandoli, se i personaggi che<br />
avevo utilizzato, le entità che avevo nominato – come le lumache, i francesi, l’insalata<br />
etc. – potevano formare un mazzo di tarocchi. Poi ho eliminato qualcosa,<br />
ho aggiunto dell’altro, ma è stata un’invenzione in corso d’opera.<br />
Quindi anche Tutto il ferro della torre Eiffel, probabilmente uno<br />
dei romanzi dalla struttura più complessa, ha avuto una genesi simile,<br />
vale a dire senza una programmazione strutturale?<br />
Sì, anche Tutto il ferro della torre Eiffel in qualche modo si è autoalimentato.<br />
Un giorno, quasi come un capriccio, ho pensato di metterci Pirandello, per<br />
esempio, o l’omino Michelin, poi mi sono detto che in fondo l’omino Michelin
era fatto di gomma e quindi l’ho fatto innamorare della bambola di Alma Malher,<br />
insomma da cosa è nata cosa. In particolare, cercando informazioni sugli<br />
scrittori suicidi, mi sono imbattutto in una serie di coincidenze, l’uccisione di<br />
Renault, la morte di Citroen. Poi ho scoperto che Citroen aveva fatto illuminare<br />
la torre Eiffel per l’arrivo di Lindberg e via dicendo. Alla fine tutti quei dati reagivano<br />
formando cortocircuiti, per cui tutto sembrava tornare, o meglio, tutto<br />
sembrava richiamare tutto il resto. Ma il romanzo in generale l’ho scritto veramente<br />
in modo accumulatorio. Addirittura devo dire che a un certo punto si è<br />
creato un senso di vertigine, dovuto al fatto che alla fine nulla più riconverge,<br />
e quindi tante cose le ho lasciate aperte. Anche perché quasi tutti i personaggi<br />
sono dei doppi, dei golem, dei nani, delle marionette, dei robot, e anche tutti<br />
questi suicidi, quello di Benjamin, ma<br />
anche tutti quelli dei letterati del novecento...<br />
Nei sui testi è sempre presente una forte opposizione tra presente<br />
e passato, sia nella dimensione personale dei protagonisti, sia nella<br />
dimensione storica, e sempre la vittoria spetta al passato, come se<br />
rispetto al presente, alla contemporaneità, all’attualità, provasse in<br />
qualche modo un avversione, un fastidio, come mai questa avversione,<br />
se così si può chiamare?<br />
Questo è vero, verissimo, ho sempre sentito il presente come una dimensione<br />
estranea. In qualche modo mi sono sempre sentito come una specie di<br />
sopravvissuto, un relitto approdato dal passato e ho sempre parteggiato sentimentalmente<br />
con il passato, molto più che col presente. Per quanto riguarda<br />
la mia vita personale poi, come risulta esplicitamente in Rondini sul filo, ma<br />
come è proprio della mia vita prima che della mia letteratura, avendo avuto una<br />
giovinezza non giovinezza, una giovinezza non vissuta, ho maturato una sorta di<br />
sindrome da atto mancato, un senso di rincorsa verso tutto ciò che ho perso e<br />
che cerco di recuperare, per cui vivo in modo molto più giovanile adesso che a<br />
vent’anni. Mi rendo conto che c’è qualcosa di ridicolo, di grottesco in questo,<br />
ma è come se il passato avesse mantenuto questa caratteristica negando la sua<br />
più intima sostanza, il suo nome. Dunque il passato non passa, il passato continua.<br />
Nei miei libri, e anche nei miei saggi, cito molto spesso uno psichiatra<br />
degli anni Trenta che parla proprio di una sorta di reificazione schizofrenica del<br />
passato, un meccanismo che trasforma il tempo in spazio: il passato diventa un<br />
paesaggio, uno spazio in cui muoversi, una specie di ambientazione di tutte le<br />
proprie storie ed effettivamente è così. A me capita ancora adesso di tornare con<br />
la mente ad alcune discussioni, situazioni vissute o non vissute, e dire ecco avrei<br />
potuto dire, avrei potuto fare, come se fossero ancora tutte partite aperte, come<br />
27
28<br />
se tutto fosse ancora giocabile.<br />
Proprio analizzando questa sua strategia di topicizzazione del<br />
passato, ho potuto notare che, al contrario di quello che si potrebbe<br />
credere, questa strategia non ha come esito l’archiviazione di quel<br />
passato o la guarigione dai suoi influssi. Al contrario, invece, conduce<br />
sistematicamente i suoi protagonisti sul baratro, sull’abisso,<br />
come se il vero scopo del percorso fosse quello: provare la vertigine.<br />
Cosa mi può dire a proposito?<br />
Mi sembra che abbia ragione, il problema difatti è che invece di pacificare,<br />
queste reinvenzioni rinfocolano. È come se il trauma si reinneschi, c’è anche<br />
qualcosa di masochistico, come quando fa male un dente e con la lingua si tende<br />
a tormentarselo. Si tende a rivivere il trauma, almeno questo è tipico di come è<br />
strutturata la mia testa, piuttosto ossessiva, compulsiva, ruminativa, ripetitiva,<br />
per cui tendo sempre a tornare al passato.<br />
Percorrendo la sua produzione narrativa ho dovuto usare, soprattutto<br />
a causa della mia formazione universitaria, gli strumenti<br />
della narratologia con i quali, come dei bisturi, ho sezionato i suoi<br />
testi. Come si pone di fronte a questa operazione? Secondo lei il rischio<br />
della sovrainterpretazione è più alto della effettiva possibilità<br />
di una più profonda comprensione del testo?<br />
Questa è una domanda a cui decisamente è difficile rispondere. Per quanto<br />
riguarda la mia esperienza direi che quando la sensibilità, l’istinto e l’empatia<br />
dell’analizzatore sono forti, diventano delle garanzie. In quei casi mi riconosco,<br />
mentre altre volte, quando le analisi sono condotte troppo scolasticamente, no.<br />
Per esempio, è successo recentemente che uno studente abbia fatto una tesi su di<br />
me, sul mondo dell’infanzia, in pratica sui racconti e su Verderame. E devo dire<br />
che sono rimasto sorpreso dalla sua acutezza, dal fatto che abbia capito molte<br />
cose che erano tra le righe, non dette, alluse e lui le ha colte. Altre volte mi sono<br />
sentito, forse non proprio frainteso, ma sovrainterpretato o sottointerpreatato.<br />
Mi è sembrato però paradigmatico dell’operazione in sé. Si trattava senz’altro di<br />
un lettore sensibile e attento, che aveva letto in profondità anche agli altri libri.<br />
Ma alla fine mi sembra che ci sia un tasso di errore fisiologico, come dire che<br />
su dieci tentativi di interpretazione sette sono ragionevoli, mentre gli altri tre<br />
meno. Ma c’è anche un’altra questione da tenere in considerazione: il fatto che<br />
l’autore, in fondo, nel confrontarsi con un’interpretazione delle proprie opere,<br />
non abbia il diritto esclusivo di interpretazione. Anche perché spesso noi sappia-
mo che gli autori sono i peggiori critici di se stessi. Quando un autore pubblica<br />
il proprio libro questo poi diventa tanto del lettore quanto dell’autore. Almeno<br />
per me vale così.<br />
Per esempio, io mi sono accorto che ci sono dei miei libri che mettono d’accordo<br />
quasi tutti, come Tu, sanguinosa infanzia, un libro che di solito quelli che<br />
mi amano mettono quasi sempre ai primi posti. Dall’altra parte invece c’è Rondini<br />
sul filo, un romanzo che divide il pubblico tra chi lo adora, ed è convinto<br />
che sia il mio miglior libro, e chi pensa che avrei potuto fare a meno di scriverlo,<br />
che sia come una macchia nella mia carriera.<br />
Quali sono, dal suo punto di vista, i suoi libri migliori?<br />
A parte il primo, che è il primo e che è in qualche modo il libro della mia<br />
vita. Io ne sceglierei tre: La stiva e l’abisso, Tutto il ferro della torre Eiffel e Tu,<br />
sanguinosa infanzia. Se dovessi affidare a una bottiglia tre libri interi della mia<br />
produzione, senza possibilità di scelte antologiche, senz’altro sarebbero questi.<br />
Leggendo il racconto I palloni del signor Kurz non riesco a non<br />
associare la figura del cinico collezionista che immobilizza i palloni<br />
nelle sue teche trasparenti, catalogandoli e in qualche modo<br />
uccidendoli, ma, nello stesso tempo eternizzandoli, con quella del<br />
narratologo che aspetta che uno scrittore calci al di là del proprio<br />
muro le sue storie per catalogarle e analizzarle. E se alcune volte<br />
sono propenso a vedere in Kurz – come alter ego del critico – prima<br />
di tutto gli aspetti terribili, quelli della museificazione e della<br />
mummificazione, vale a dire della morte, altre volte lo identifico<br />
nei valori opposti, ma in fondo insiti nel suo gesto, quelli della conservazione,<br />
dell’eternizzazione appunto. Lei come si situa a questo<br />
proposito?<br />
Io sono con Bragonzi, quello è il mio punto vista. Quindi inizialmente vedo<br />
nel signor Kurz il nemico, uno che uccide, sottrae, ma che poi invece, come per<br />
un eccesso di amore, salva, conserva e sottrae al tempo, eternizza. Se poi vuole<br />
vederci un parallelo con la figura del critico, dello storico, il paragone mi sembra<br />
fattibile.<br />
C’è dunque una forte ambivalenza nei cattivi?<br />
Sì, certamente, ho sempre avuto questa visione, presente in numerosi racconti.<br />
Forse è perché sono cresciuto a mostri, per cui tendo a vedere nel mostro<br />
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possibilmente un amico, come nel caso di Felice, che tanto più è mostruoso,<br />
tanto più in realtà è buono. È per questo che sono sempre rimasto commosso da<br />
personaggi come King Kong o Frankenstein.<br />
Nella sua narrativa emerge un punto di vista politico ideologico latente, ma<br />
molto profondo ed estremo. Penso in particolare all’avversione al “popolo dei<br />
cazzoni”, o ai vertici ipercritici sul potere che puntellano Rondini sul filo.<br />
In un momento come quello che stiamo vivendo, grottescamente<br />
incline ad un autoritarismo becero e delirante, secondo lei come si<br />
deve comportare uno scrittore? Deve tenere la realtà in un angolo,<br />
o ne deve affrontare i paradossi e le ipocrisie?<br />
Io ho sempre amato da lettore gli scrittori furibondi, come Céline, che maledicono<br />
tutti, quelli dannati, quelli proprio incazzati. Tra l’altro se penso a questo<br />
mondo, a Berlusconi, al nostro governo, ma anche ad altri governi, e penso che<br />
Bin Laden con quattro pastori ha fatto venir giù quelle due torri...<br />
Di cosa avrebbe bisogno l’Italia in questo momento?<br />
Mi sembra che l’Italia abbia bisogno di un angelo sterminatore. Ma in realtà,<br />
anche se Berlusconi domani sparisse, non cambierebbe nulla, ha fatto talmente<br />
tanti danni antropologici che gli italiani, che già non erano granché politicamente<br />
prima, si sono talmente guastati che prima di riprendersi ci vorranno<br />
decenni.<br />
In qualche modo la regressione antropologica berlusconiana ha<br />
innalzato a valori quelli della cazzonaggine di N.N., il suo nemico<br />
numero uno di Rondini sul filo?<br />
Esattamente... Io poi tendo a fare di ogni erba un fascio. Il fastidio per la beceraggine<br />
della Lega, o per i furti e la faccia tosta di Berlusconi sono lo stesso<br />
fastidio che provo quando penso a quelli che vivono solo per il Grande Fratello.<br />
Questo tipo di mondo per me è continuo, quindi il mio furore e disgusto è indifferenziato.<br />
E per quanto riguarda il momento della scrittura?Tende a relegare<br />
in disparte gli elementi grotteschi della società che ci circonda?<br />
In qualche caso prendo la questione di petto direttamente, come in alcuni<br />
pezzi di Rondini sul filo o qualche scheggia di Verderame, ma in generale pre-
ferisco tagliar via, evitare, come per rigenerarmi, perché se la vita, il mondo là<br />
fuori è questo, voglio almeno crearmi una vita alternativa dove poter respirare<br />
aria pura.<br />
Sempre restando alla questione del rapporto tra letteratura e<br />
mondo:Tutto il ferro della torre Eiffel si apre con l’immagine della<br />
madeleine in pvc, che significato da a questa immagine, a questo<br />
feticcio?<br />
Quel feticcio è una specie di ammissione di scacco a priori, la consapevolezza<br />
che pretendere di tradurre plasticamente in oggetti il fascino della letteratura e<br />
del mito conduce ad obbrobri di questo tipo, concede sempre l’ultima parola al<br />
Sistema che riduce tutto ad oggetti massificati, a declinazioni dei baci perugina;<br />
per la maggior parte della gente, infatti, la storia di Romeo e Giulietta si limita<br />
alla sua reificazione, al balcone di Verona sotto cui gli innamorati si baciano.<br />
Però, in qualche modo, un’importanza la madeleine ce l’ha, tant’è<br />
che è proprio da quella madeleine che il misterioso io narrante –<br />
che appare solo in quel punto – inizia a ricordare: [...] guardandola<br />
io ricordo, sì, ricordo una vita non mia; vedo la faccia drammatica<br />
di un uomo che cammina nei passages di Parigi; un uomo che si<br />
chiama una vita non mia, un uomo che si chiamaWalter Benjamin.<br />
È come la volontà di non arrendersi, l’illusione che, se praticata individualmente,<br />
vale a dire non in un contesto massificato, alla Disneyland, l’aura possa<br />
ancora avere un senso, possa ancora esistere. I luoghi possano ancora avere<br />
un senso, come i feticci appartenuti agli scrittori, o i fantasmi di quegli stessi<br />
scrittori, insomma alla fine è tutto legato ad un senso fantasmatico della realtà<br />
e della presenza. Come poi, pur nella ammissione della sconfitta, la pretesa<br />
disperata da parte di Benjamin di continuare a vedere Parigi con la sua vecchia<br />
mappa, quella risalente a prima che Haussmann spianasse tutto e facesse i suoi<br />
boulevard. È per questo che è affascinato dai passages, perché sono come canali<br />
uterini, delle soglie che oltre che andare dentro vanno sotto.<br />
Proseguendo su questo motivo dell’aura, del fascino degli oggetti e del fascino<br />
dei luoghi, dei nomi, mi viene in mente la stessa casa di Céline, che in questo<br />
libro è una specie di genio del male, un Céline molto cattivo, un burattinaio:<br />
ciò nonostante, almeno per come l’ho vissuta io, quella è una casa affascinante,<br />
è come quando vedo i thriller: le parti che mi coinvolgono più profondamente<br />
sono quelle dove vengono esplorate le case dei serial killer, il laboratorio segreto<br />
che ha visto nascere il crimine.<br />
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Quelle con tutte le foto attaccate ai muri?<br />
Sì, le foto, i fogliettini, gli appunti, e se il film è fatto bene è veramente come<br />
entrare nella testa del mostro, dentro la sua ossessione, è il momento in cui si<br />
entra nei segreti di quella testa, sono i momenti più disturbanti, ma nello stesso<br />
tempo i più belli. Ho sempre avuto questa attrazione un po’ morbosa per il lato<br />
mostruoso delle cose, anche nei luoghi che rappresento. Come nella casa di<br />
Nasca, dove la parte più vera è la cantina, il terreno dove sono sepolti i cadaveri<br />
dei francesi, la stessa cosa vale per la cantina di Osac nel castello di Osmoc, in<br />
Di bestia in bestia. Perché sento che è proprio questo brivido un po’ morboso<br />
del proibito, dello sporco, del segreto quello che rende una cosa, in quanto<br />
mostruosa, anche sublime, favolosa. Una conferma viene dalla storia della letteratura.<br />
Pensiamo per esempio agli animali della mitologia, che in fondo sono<br />
tutti mostri: le chimere, i grifoni, i centauri, le sirene, il leviatano, sono figure<br />
immani e spettacolari quindi letterarie, proprio in quanto mostruose.<br />
Mi viene in mente la zoologia fantastica di Jorge Luis Borges…<br />
Anche, infatti. In ogni caso questo senso un po’ infantile, stuporoso del “mostracchione”,<br />
l’ho sempre avuto e devo dire che anche da adulto l’ho sempre<br />
coltivato. Per questo mi hanno sempre coinvolto film come Alien o Lo squalo,<br />
che in me hanno lasciato dei segni profondissimi... In letteratura è la stessa cosa.<br />
Pensiamo a Moby Dick, un personaggio cattivo, mostruoso, forse il più bello dei<br />
personaggi letterari di sempre. Come si fa a non amare Moby Dick, se uno ama<br />
quel romanzo ama quella balena. C’è una fascinazione, anche autodistruttiva,<br />
perché in fondo il capitano Ahab ha un rapporto erotico con la balena, alla fine<br />
muore impigliato nella sua stessa corda in un amplesso di morte, la trafigge e<br />
affondano insieme. È questo in qualche modo il rapporto che per me deve avvolgere<br />
il lettore al testo, quello che cerco di rendere quando scrivo: una lotta<br />
con il mostro fin nei meandri dell’abisso.<br />
Nelle ultime due generazioni di scrittori italiani sembra che il legame<br />
con la tradizione nostrana si sia affievolito, spesso addirittura<br />
troncato di netto, spostandosi verso punti di riferimento stranieri,<br />
americani in primis. Secondo lei esiste questo fenomeno? E come lo<br />
giudica.<br />
Guardi, posso darle una testimonianza, anche se non so se risponde perfettamente<br />
alla domanda. All’inizio degli anni Novanta ci fu a Trento un convegno
intitolato Tra velocità e lentezza, organizzato da Massimo Onofri e altri, a cui<br />
erano invitati una dozzina di scrittori. Mi ricordo che oltre a me c’era Palandri,<br />
Scarpa, Nove, Mozzi, Affinati e altri. Si discuteva di rapporto con la tradizione<br />
del Novecento, dei nostri maestri. C’era chi diceva che non voleva più sentire<br />
parlare di maestri, quelli che si dichiaravano calviniani, altri invece moraviani<br />
(ovviamente tutto il gruppo di Nuovi argomenti era moraviano). Poi c’era chi<br />
parlava di Gadda, e infine tutti i minimalisti che citavano Salinger, o Bukowski<br />
o Carver. Quando passarono la parola a me, che per caso ero rimasto tra gli<br />
ultimi, molto polemicamente dissi che non riuscivo a capire il perché di tutte<br />
queste scelte, non capivo come mai, se proprio dovevamo parlare di maestri,<br />
ci si limitava – a parte il minimalismo, che io non ho mai potuto sopportare<br />
perché essendo una abdicazione alla letteratura non voglio nemmeno prenderlo<br />
in considerazione – a scegliere esempi così recenti e così bassi. Io quindi ho<br />
risposto che se proprio si deve parlare di maestri almeno si abbia il coraggio e<br />
l’orgoglio, l’ambizione, di sceglierseli alti e imponenti, e che quindi non capivo<br />
perché in quel convegno, che stava durando da due giorni, si fosse sempre parlato<br />
del giovane Holden, di Cattedrale di Carver, di Altri libertini di Tondelli, e<br />
così via. Com’era possibile che non si fosse mai parlato del Don Chisciotte di<br />
Cervantes, mai di Omero, mai di Shakespeare, mai di Maupassant, mai di Céline,<br />
mai di Jack London. Io se devo avere un modello visto che tanto non costa<br />
nulla tiro la mia freccia più in alto possibile, poi di sicuro non ci arriverò, ma<br />
siccome sognare non costa nulla, se dovessi scegliere uno scrittore al quale vorrei<br />
assomigliare sarei indeciso tra Stevenson, Melville, London e Conrad, uno<br />
di questi. Non capisco perché dobbiamo limitarci al Novecento, che poi risulta<br />
fatalmente un Novecento particolare, il secondo Novecento, generalmente o<br />
italiano o americano. Né capisco perché fare i conti con il minimalismo sia un<br />
passaggio obbligato. E non lo dico per una forma di disdegno aristocratico. Io<br />
quando da ragazzo ho letto Il giovane Holden, alla fine non mi è rimasto nulla,<br />
non mi ha fatto nessuna impressione. Non riesco a capire come autori come<br />
Baricco o come Veronesi, parlino di questo come del libro fondamentale della<br />
loro vita. Veramente, neanche con la più fervida immaginazione – e ne ho di<br />
immaginazione – riesco a capire come questo libro possa essere il libro preferito<br />
di un uomo.<br />
Lei quale sceglierebbe come libro della vita?<br />
Il richiamo della foresta di Jack London, quello sì che è un libro che quando<br />
lo finisci resti a bocca aperta, e che ti segna la vita, o Il dottor Jekyll e mister<br />
Hyde, quelli sono libri travolgenti.<br />
33
34<br />
E per quanto riguarda letteratura italiana contemporanea?<br />
Tra i contemporanei, mi piace Voltolini, Aurelio Picca, ma l’ultimo italiano<br />
che mi ha entusiasmato è stato Bufalino, o anche Consolo.<br />
Qual è secondo lei lo stato della letteratura italiana contemporanea?<br />
Non mi sembra che la letteratura italiana sia in ottima salute. È una situazione<br />
fisiologica per un paese in cui una casa editrice storica e prestigiosa come la<br />
Feltrinelli è diventata la casa di Moccia. Poi ci si chiede perché Berlusconi vince<br />
le elezioni, ma è tutto talmente legato. Moccia è veramente tremendo, Baricco<br />
in confronto è Flaubert.
La vita oscena, di Aldo Nove<br />
di Gero Micciché<br />
Ci sono libri che segnano uno stacco nella carriera di un autore. Come la<br />
nascita di Cristo nella storia dell’occidente cristiano, quel parto ha segnato un<br />
prima e un dopo nella storiografia moderna. Dopo La vita oscena probabilmente<br />
qualcosa cambierà per Aldo Nove: se già Puerto Plata Market segnava uno<br />
stacco dallo zapping di Woobinda, e Amore mio infinito costituiva un’esplorazione<br />
dell’infanzia e degli stadi dell’amore nelle prime tre decadi dell’esistenza,<br />
e La più grande balena morta della Lombardia un mirabolante, immaginifico<br />
amarcord in salsa viggiutese, La vita oscena è un netto balzo in là. Le precedenti<br />
opere, pur diverse tra loro, hanno in comune un certo disincanto e una prosa<br />
spesso oscillante tra l’infantile e il colloquiale. La vita oscena è un libro diverso:<br />
poetico, trasognato, esistenzialmente devastato.<br />
Le trovate di Aldo Nove, che siano scabrose, pornografiche o tinte d’humor<br />
nero, di solito strappavano al lettore un sorriso divertito o compiaciuto anche<br />
nel dramma. In questo romanzo ciò non accade. Del resto, sorridere è difficile<br />
quando si ha il petto costantemente in fiamme. L’incendio si accende alla lettura<br />
delle prime righe e si mantiene e si vivifica nel succedersi delle pagine, come<br />
su un parquet che brucia, la vampa si propaga di asse in asse nello sfrigolare del<br />
legno, fino a prendere l’intera stanza del cuore. Nulla è fine a se stesso ne La vita<br />
oscena, nessun periodare, nessuna invenzione: neanche gli estremi d’erotismo<br />
sadico e perverso ai quali l’autore ci ha abituati in opere precedenti, e che in<br />
certi casi avevano più il sapore di “iperboli” o provocazioni. Se in Puerto Plata<br />
Market il buco del culo bluastro di un trans poteva costituire un mero schiaffo<br />
al lettore dal quale scaturire un effetto grottesco e straniante rispetto al vivere<br />
ordinario, qui un trans diventa il frammento di uno specchio in cui osservare se<br />
stessi in una delle forme dell’ “altro da sé”.<br />
Nel racconto biografico si inseriscono elementi che caratterizzano e popolano<br />
tutta la produzione di Aldo Nove. È esemplificativo il passo in cui la zia porta<br />
“un’imitazione da discount della coca-cola” al protagonista in ospedale. Egli,<br />
nel guardarla, gradualmente comincia a condividerne il dolore, compatendo il<br />
suo stato di merce di serie B, compenetrandosi nella sua condizione esistenziale<br />
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ed estendendola al gramo stato degli individui ai margini della società: “Quella<br />
bottiglia mi sembrava simile alla vita dei più, di quelli che non ce la fanno, oh<br />
quanti, mi portava alla commozione e piansi.<br />
Era da tempo che non accadeva. Aveva, quella bottiglia, qualcosa di cristiano,<br />
un’imago Christi da poveracci, inconsapevole. Lei aveva fatto la sua ascesi dalla<br />
fabbrica ai banconi del discount dove aveva atteso di essere scelta in quanto<br />
oggetto di minor valore, in quanto imitazione ma dignitosa, quasi uguale, e si<br />
sarebbe manifestata nel suo splendore quando fosse riuscita ad assurgere alla<br />
stessa grandiosità del modello, e non ci sarebbe riuscita mai, povera bottiglia, e<br />
sarebbe rimasta una merce tra tante. Ma era mia.<br />
Era la mia bottiglia sul comodino dell’ospedale.”<br />
Da qui l’imperativo di cantarne la condizione subalterna, di narrarne i sogni<br />
e le disillusioni, la marginalità e la piccolezza, lei, destinata ad essere la bevanda<br />
di chi non può permettersi il non plus ultra dell’originale. Il reietto e la merce<br />
di sottomarca sono vicini, confratelli di uno stesso destino, e il poeta ne ha compassione.<br />
Come molti anni prima in liriche come “La merce invenduta piange”:<br />
Io conosco il dolore della “gelatina per dolci<br />
Già detta colla di pesce” sommersa<br />
Da bustine di lieviti Bertolini e sacchetti di zucchero in Scaglie per le guarnizioni<br />
Lo conosco e se io fossi lei mi chiederei perché<br />
Sono “gelatina per dolci già detta colla di pesce”<br />
E non, ad esempio, una fulgida appetitosa scatola<br />
Di mezzo chilo di mezze penne Barilla,<br />
di quelle che si vendono a migliaia<br />
nei supermercati di tutto il mondo.<br />
Io penserei questo tutto il giorno e continuerei a piangere<br />
Perché la merce invenduta piange<br />
E il suo dolore è tanto simile al nostro<br />
Biologico stare sul mercato fino a che c’è domanda<br />
Fino a che l’articolo che siamo non deperisce.<br />
Come la sottomarca della coca-cola, anche il protagonista recita la normalità<br />
per mischiarsi alla gente comune, per dimenticare una diversità marchiata<br />
nell’anima che nessun detersivo sbiancante può dilavare. Un modo usuale di<br />
adeguarsi alla maggioranza pur sapendo che “ogni vita ne mima un’altra”.<br />
Proprio sulla scia dello stesso desiderio mimetico, nella consapevolezza di<br />
un’esistenza “così prossima alla morte”, il protagonista tenterà il suicidio calcando<br />
la via precedentemente dettata dal poeta austriaco Georg Trakl, che morì<br />
inalando una massiccia dose di cocaina. Ma, al pari della sottomarca della cocacola,<br />
neanche lui riuscirà ad imitare il modello alla perfezione, e la droga diverrà<br />
un mezzo atto a scaraventarlo in un’irrefrenabile vortice di sesso, perversione e<br />
oscenità che disveleranno gradualmente un Io autodistruttivo, un Io che vedrà
materializzarsi vivendo il porno di se stesso. Gli abitanti dell’ambiente urbano<br />
si faranno maschere sottili, figure prive di spessore, in un universo divenuto ormai<br />
interamente sensazione. E il protagonista si getterà a capofitto in ogni cosa,<br />
senza una finalità precisa, assecondando la prurigine dei sensi e la ricerca autodistruttiva<br />
del piacere più lascivo, solo per abbandonarsi a un mondo di cui avrà<br />
scoperto l’essenziale solitudine e subito dimenticarlo, per scegliere di non sapere,<br />
voler “solo sentire qualcosa che dentro me si prendeva lo spazio della mia<br />
assenza e lo riempiva”. Il senso di vuoto e i modi per colmarlo, dinanzi ai quali<br />
rimane soltanto l’inesorabile sconfitta, il capitombolo finale dopo la caduta.<br />
Ma l’affondare le mani nell’osceno cela in realtà un profondo desiderio di<br />
bellezza. Oscenità è svellere la finzione della vita, un meccanismo di scasso della<br />
scatola dell’ipocrisia borghese, oscenità è sovvertire il perbenismo quotidiano,<br />
lo smascherare la rappresentazione “di un binario su cui scorre il treno della<br />
tua esistenza e in un treno non si è mai soli, si viaggia in molti e c’è la famiglia”.<br />
Oscenità è ribellione contro la bruttura delle cose. Osceno è il sentimento<br />
di estraneità verso un mondo di cui siamo abitanti forestieri, un mondo tanto<br />
moderno e primitivo nel suo barbaro evolversi da apparirci arcano, ancestrale,<br />
“altro”. Osceno è nascondere il caos dell’esistenza sotto una coltre di ordinaria<br />
quiete, negare il filo sottile che lega la vita alla morte, la vita che è morte in<br />
divenire; e dell’artifizio il dolore è il disvelatore, il dolore che “ti inchioda alle<br />
cose”, il dolore che “è l’unico maestro”, il dolore che risveglia quanto “d’altro<br />
vive che non è di noi, mostruoso, in noi”, il dolore che “è legato al piacere”.<br />
L’ineluttabilità del dolore che genera la susseguente spirale d’oscenità pare essere<br />
la traduzione di quel verso che compare nel Canto del dipartito di Georg<br />
Trakl: “nella mia epoca non ho altra scelta se non il dolore”.<br />
“Scrivere è sempre nascondere qualche cosa in modo che poi venga scoperta”<br />
diceva Italo Calvino. Ed è come se Aldo Nove avesse, fino a questo libro, velato<br />
se stesso trattando gli oggetti delle sue storie con ironia, disillusione e una punta<br />
di distacco, e ora scoperchiasse i propri abissi con una lingua poetica, labirintica<br />
e trasognata, una lingua che pare il perfetto connubio fra il suo modo di narrare<br />
e di poetare. Ogni tanto è come se il narratore ci riportasse alla preistoria, alle<br />
origini del tempo in cui il mondo era nudo e oscenamente vero. É una tendenza<br />
che era forse già in nuce una decina d’anni fa ( “Vorrei essere nato quando il sole<br />
/ squarciava le foreste, e tra animali/tremendi l’uomo abitava le gole/Oscure<br />
di caverne, e le abissali/ferite della carne, - non le suole/bucate, il pongo, le<br />
semifinali”, scriveva già in Nelle galassie oggi come oggi, pubblicato insieme agli<br />
amici Scarpa e Montanari) ma che emerge con madida chiarezza nella raccolta<br />
A schemi di costellazioni uscita qualche mese fa.<br />
In questo romanzo Aldo Nove dimostra di sentirsi più a proprio agio con i<br />
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38<br />
toni, i ritmi, il suono della poesia che con la mera descrittività della prosa. E del<br />
resto, lui stesso scrive di quello che è probabilmente il suo primo amore: “Mi<br />
interessava la poesia. Perché potevo leggerla per una pagina e chiudere il libro<br />
senza dovermi chiedere come sarebbe andata a finire. Perché era a frammenti,<br />
come la mia vita. Perché sapeva raccontarmela in modo aspro, senza la compassione<br />
che si dà a chi non sta bene. Aprendone squarci improvvisi. Perché cercava<br />
la verità e non il successo. Perché la vera poesia è crudele. Perché la vera poesia<br />
fa male.”<br />
E così è questo libro: artaudianamente crudele e doloroso nel repentino<br />
squarciarsi in frammenti d’esistenza.<br />
Nello scrivere questo romanzo Aldo Nove ha attraversato le fiamme del suo<br />
inferno personale. Questo è il suo redde rationem col passato, con ciò che aveva<br />
in parte lambito nella produzione precedente (anche in Amore Mio Infinito il<br />
protagonista perde la madre da ragazzo e ha un rapporto conflittuale col padre)<br />
ma che aveva lasciato in sospeso. E questa, pur essendo una storia di distruzione,<br />
è soprattutto una storia di palingenesi, ci mostra come “dietro ogni perdita ci sia<br />
una rinascita”. Rinascita mancando la quale questo romanzo non sarebbe stato<br />
possibile.
La cucina vista dallo scannatoio, di Dario Lo Scalzo<br />
di Renato Chiaro<br />
Spesso si discute riguardo la funzione che debba assolvere oggi la letteratura.<br />
Personalmente, sono sempre stato convinto che le opere letterarie debbano<br />
connotarsi di un forte valore civile, trattare dei seri problemi sociali nella cui<br />
melma il mondo odierno va sempre più invischiandosi ed essere sincera espressione<br />
dell'esigenza intellettuale dell'autore. In questo romanzo sembra che queste<br />
tre caratteristiche siano presenti. E ciò dimostra che queste da sole non<br />
bastano.<br />
È scontato a dirsi, ma il valore di un'opera non si sostanzia mai nell'oggetto<br />
trattato, quanto nel modo di trattarlo. È il taglio prospettico a dare valore a<br />
uno scritto, lo svisceramento delle tematiche e il risultato. Per un narratore è<br />
molto più importante l'occhio sul particolare piuttosto che il vasto sguardo sul<br />
generale. Certo non è di poca importanza che vi sia un'ampiezza visuale nella<br />
trattazione finzionale ma, se lo sguardo dell'autore non riesce a penetrare le<br />
profondità del terreno nel quale va a innestarsi, si resterà a lungo a passeggiare<br />
placidi sulla pianeggiante prateria del banale. Dario Lo Scalzo imbastisce qui<br />
un'opera narrativa priva di narrazione: il topic del testo va svolgendosi interamente<br />
nelle pagine del diario di Oceano, il quale, confinato fra quattro mura<br />
su una sedia a rotelle, scrive lì, nero su bianco, la sua riguardo i problemi del<br />
mondo, della società, dell'umanità. Fin dall'inizio del libro veniamo a sapere<br />
che Oceano è morto e sarà la sua migliore amica, Axelle, vero io narrante del<br />
romanzo, a guidarci nella storia, andando a rinchiudersi nella stanza del defunto<br />
amico e leggendo avidamente tutte le sue carte.<br />
Da lì, veniamo a sapere cosa Oceano pensi delle storture dell'oggi in cui viviamo.<br />
Mi preme dirlo, posizioni condivisibili, giuste, ineccepibili. Ma, francamente,<br />
troppo poco argomentate per formare un substrato di pensiero davvero<br />
solido e originale, a tratti troppo stantie e banali per non stancare i lettori un<br />
po' più scafati, assolutamente astratte per risultare incisive. In proposito, anche<br />
il basamento di letture alle spalle dell'autore dà l'impressione di essere poco solido.<br />
Non ne faccio una questione di riferimenti letterari insiti all'opera: piutto-<br />
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40<br />
sto sono le soluzioni stilistiche e formali a insinuare il dubbio, la pochezza degli<br />
espedienti narrativi, la piattezza dei personaggi (Oceano si atteggia a personaggio<br />
concettuale, ma in realtà non ha una vera problematicità, offre solo risposte<br />
generiche a problemi più complessi). Evitando, dunque, troppi giri di parole,<br />
leggendo il libro di Lo Scalzo mi è sembrato di leggere le parole che chiunque<br />
pensi qualcosa su ciò che lo circonda potrebbe scrivere sulla propria moleskine,<br />
o per l'appunto su un diario personale. Non si assiste a uno sviluppo narrativo:<br />
la storia è tutta, di pagina in pagina, affidata ai pensieri di Oceano, aruspice bonario<br />
di questi nostri tempi malandati.<br />
Riporto qui un pezzo di Mistery and Manners di Flannery 'O Connor che secondo<br />
me compendia esaustivamente quel che intendo:<br />
“Un racconto implica sempre, in forma drammatica, il mistero della personalità.<br />
[…] molti tra quelli convinti di voler scrivere racconti non sono disposti<br />
a cominciare da lì. Vogliono parlare di problemi, non di persone, di questioni<br />
astratte, non di situazioni concrete. Hanno un'idea, un sentimento, un io strabocchevole,<br />
o vogliono Essere Scrittori, oppure elargire saggezza in forme abbastanza<br />
semplici perché il mondo sia in grado di assorbirle. In ogni caso, non<br />
hanno una storia in testa, e se anche l'avessero non sarebbero disposti a scriverla;<br />
in assenza di storia, partono alla scoperta di una teoria, di una formula o di una<br />
tecnica.”<br />
Qui manca anche la scoperta, e dunque anche il “senso del mistero” che dovrebbe<br />
animare uno scrittore. Tante buone intenzioni per un nulla di fatto.
This is where we live, di Janelle Brown<br />
di Giorgia Camilleri<br />
Dopo “Una fragile perfezione” la Garzanti pubblica in Italia anche il secondo<br />
romanzo di questa giovane scrittrice americana, giornalista attenta che dimostra<br />
la sua avveduta analisi della realtà in ogni suo dettaglio.<br />
La definiscono “astro nascente” della letteratura americana. E, a poche settimane<br />
dall’uscita negli U.S.A., questo nuovo romanzo scatena l’ammirazione<br />
della critica, dei blog e dei numerosi lettori, per l’attualità dei temi trattati. È<br />
consigliato dallo stesso Los Angeles Times come “una storia che tratteggia con<br />
stupefacente occhio clinico le luci e le ombre di ogni relazione”.<br />
Giovane, scaltra, attenta a ogni particolare, la Brown si destreggia benissimo<br />
tra le fila della quotidianità di questo nostro secolo. “Una bugia di poco conto” è<br />
lo specchio del 2010. È la versione integrale di ciò che sta accadendo intorno a<br />
tutti noi: l’abbandono dei propri ideali per patteggiare col diavolo, pur di avere<br />
un lavoro, i compromessi ai quali non si riesce a venir meno pur di andare avanti<br />
e portare due soldi a casa, il mutuo per pagare la casa che ti sovrasta fino a non<br />
farti più respirare, un matrimonio che credevi diverso, migliore degli altri, ma<br />
che in realtà si mostra per quello che è, in tutti i suoi aspetti deboli e spietati.<br />
È impressionante la carica emotiva che emerge da questo romanzo, mentre<br />
lo si legge si viene divorati dall’attualità delle sue pagine. Il lettore è partecipe<br />
di ogni angoscia che vivono i protagonisti, Claudia e Jeremy. Non c’è il buono e<br />
il cattivo, il nero e il bianco, ma è la realtà di fatto con le sue angolazioni grigie<br />
che costringono inevitabilmente a prendere decisioni che non avresti mai voluto<br />
prendere. La scelta del compromesso che scardina gli ideali nei quali tutti noi<br />
avevamo sempre creduto, ma che specchia quello che è la nostra realtà dei tempi<br />
e, forse, non si può far altro che abbassare la testa e arrendersi agli eventi.<br />
Una straordinaria donna che si vede crollare il mondo addosso. Tutto ciò per<br />
cui aveva lottato, in cui aveva creduto, scompare divorato dalle voragini di questa<br />
nostra società.<br />
Il matrimonio tra Claudia e Jeremy, due artisti che rincorrono le loro passioni<br />
e vanno incontro ai loro destini, l’unione di due anime ancora utopiche che<br />
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credevano di potercela fare da soli, la scoperta dei loro veri amori. Lei giovane<br />
regista, lui promesso cantante di una band in decadenza. Credono e vogliono<br />
poter inseguire le loro ambizioni. Non intendono mollare la presa, e lottano<br />
entrambi perché avvenga il “miracolo”, come, magari, un ricco produttore che<br />
possa puntare, non sulle vendite, non sul commercio di oggi, ma sulle abilità e<br />
maestrie di artisti che scrivono e lavorano perché ci credono davvero.<br />
E si manifesta una realtà invece schiettamente crudele e cinica. Perché nessun<br />
produttore è disposto a perdere denaro per investirlo in un progetto che,<br />
seppur bello, non venderà molto al botteghino e non riempirà di certo le sale<br />
di tutto il mondo. E allora il lavoro diventa più una scelta di mercato, che tipo<br />
di film potrà vendere di più al botteghino? Non si sceglierà il miglior film, ma il<br />
più commerciale. E di questa realtà, acquisita nel tempo trascorso attraverso le<br />
pagine di questo romanzo, Claudia prenderà pian piano coscienza, e si renderà<br />
conto che se vuol lavorare deve per forza scendere a patti col diavolo. Un’utopia<br />
che le crolla addosso e si rivela tale, ma lei non mollerà mai, e il lettore la seguirà<br />
giorno dopo giorno nelle sue indecisioni per poi veder nascere e crescere in<br />
lei una forza incredibile che la riscatterà affrancandola dai torti subìti.<br />
Un romanzo incredibile per la sua forza attuale di colpire nei punti cardine<br />
di questo nostro mondo che va un po’ alla rovina. Matrimoni allo sfacelo, mutui<br />
che ci sommergono, utopie che svaniscono, e quando credevi di avere tutto ti<br />
ritrovi con in mano un pugno di mosche!<br />
“This is where we live”, è proprio questo il mondo dove viviamo. E la fotografia<br />
che ne fa l’attenta cronista Janelle Brown è un perfetto fermo immagine,<br />
bellissimo e disarmante, proprio perché reale sotto ogni suo aspetto!
D’altro e d’altrove: il libro come invito alla tolleranza<br />
di Giorgia Camilleri<br />
Quando ho letto per la prima volta Murakami ho finalmente incontrato quel<br />
mondo così lontano da noi che tanto amo: entravo nelle case giapponesi, mangiavo<br />
un “takikomi gohan” o un “suimono”, mi toglievo le scarpe prima di oltrepassare<br />
la soglia delle loro case e dormivo nei loro futon.<br />
Forse in Murakami più di chiunque altro, ma in realtà sono proprio questi il<br />
potere e la bellezza intrinseci nella lettura.<br />
Ogni libro porta con sé i racconti di un Paese, gli usi e i costumi di un popolo.<br />
Uno dei libri che ho letto recentemente è “Censura” di Shahriar Mandanipour.<br />
Dal titolo si evince subito il tema del racconto che però, in realtà, è solo<br />
il sottofondo della storia. “Censura” è un meta-racconto. C’è la storia personale<br />
di lui come scrittore e della sua impossibilità di scrivere, raccontare, pubblicare<br />
storie d’amore in Iran; e poi c’è la sua storia d’amore, quella che Mandanipour,<br />
sin dalla prima pagina, decide a tutti i costi di raccontare. Nascono dalla<br />
sua penna straordinari personaggi, abitanti di un Iran contemporaneo. Studenti<br />
che manifestano in piazza, rischiando la galera o, peggio ancora, l’esclusione<br />
dall’università con la conseguente cancellazione della loro storia studentesca.<br />
Da una parte uno scrittore che lotta per la propria libertà di scrivere una storia<br />
d’amore e pubblicarla nel proprio Paese, e dall’altra una storia d’amore che<br />
nasce attraverso le singole lettere dei romanzi. Ogni lettera all’interno di un romanzo<br />
segnata da un puntino d’inchiostro blu rappresenta per i due amanti quel<br />
che saranno poi le loro lettere d’amore. In un Paese dove una donna e un uomo<br />
non possono sfiorarsi, guardarsi, toccarsi e, men che meno, parlare in pubblico,<br />
il genio della penna di Mandanipour fa incontrare, conoscere, innamorare due<br />
giovani studenti attraverso lettere d’amore nascoste tra le righe dei loro romanzi<br />
preferiti.<br />
Ora, la questione è semplice: cosa resta a noi lettori dopo aver chiuso l’ultima<br />
pagina di un romanzo?<br />
Un libro non finisce quando lo si chiude. Il suo messaggio intrinseco va ben<br />
oltre.<br />
Quando ho letto l’ultima pagina di “Censura” ho incominciato a riflettere.<br />
43
44<br />
Avevo scoperto che in Iran le donne e gli uomini sono separati le une dagli altri<br />
in tutti gli ambienti non domestici. Avevo scoperto che, nella mattinata, fino<br />
a mezzogiorno, i marciapiedi di destra possono essere attraversati dagli uomini<br />
e quelli di sinistra dalle donne. Dopo mezzogiorno il ciclo si inverte permettendo,<br />
così, sia agli uomini che alle donne di guardare le vetrine dei negozi in entrambi<br />
i lati delle strade. Avevo scoperto che nelle biblioteche di Teheran ci sono<br />
sale riservate agli uomini e sale riservate alle donne, entrambe separate da un<br />
lungo telo, con lo scopo di non far intravedere neanche le caviglie delle donne.<br />
Avevo scoperto che nei loro cinema i film stranieri sono considerati tutti “filoamericani”<br />
e perciò visti come portatori di male, sezionati, sventrati e ricostruiti.<br />
Sottoposti a una rigidissima censura che li sviscera dall’interno, “pulendoli”,<br />
eliminando tutto ciò che, secondo i loro parametri, può essere osceno o, come<br />
direbbe Mandanipour, «portatore di principi sbagliati che potrebbero far pensare<br />
alle donne e agli uomini cose peccaminose». Vengono tagliate tutte le scene di<br />
sesso, di baci, di effusioni o anche di sguardi. E il rigido censore cinematografico<br />
è cieco. Un uomo severissimo che, accompagnato da due baldi giovani costretti<br />
a raccontargli passo dopo passo ogni scena, in una sala cinematografica vuota,<br />
seleziona ed effettua macabre operazioni di ricostruzione sulla magnificenza di<br />
opere cinematografiche.<br />
Ora, detto questo, sembrerà chiaramente che abbia quasi disprezzato questo<br />
Paese, avendolo conosciuto attraverso le parole e i racconti di uno scrittore iraniano.<br />
E invece no! Anche se grazie a Mandanipour ho acquisito tante nozioni<br />
nuove su un Paese di cui davvero poco, concretamente, sapevo, è anche vero che<br />
non intendo giudicare ciò che comunque non vivo.<br />
Tutto ciò che è riconosciuto quale nemico pubblico da questo popolo è individuato,<br />
etichettato, come “filoamericanismo”; quando, noi sappiamo bene,<br />
essere frutto solo di libertà di espressione.<br />
Io, che credo e lotterò sempre per una totale libertà di espressione dell’essere<br />
umano, non voglio trovarmi a sputare sentenze. Se tutto ciò che loro vedono<br />
come “velenoso” è individuato in un “filoamericanismo”, vuol dire che forse<br />
proprio noi, (perché tra le fila dei filoamericani ci siamo anche noi, europei,<br />
italiani), siamo il vero problema.<br />
Che cosa sta succedendo oggi nel nostro “occidentale” mondo?<br />
Perché ci troviamo a giudicare ciò che è diverso da noi come “l’altro”? “L’altro”<br />
da istruire, da plasmare secondo i nostri punti di riferimento.<br />
Molti anni fa mi è capitato di leggere “Il crollo” di Chinua Achebe, scrittore<br />
nigeriano che raccontava la sua storia dalla parte delle vittime del colonialismo<br />
inglese. E si chiedeva: «Perché questi inglesi vengono nelle nostre terre e ci<br />
dicono che ci devono “educare”? Perché questa gente non riesce a capire che<br />
semplicemente le nostre usanze sono diverse?»
Il problema del razzismo forse sta proprio in questo attaccamento a una precisa<br />
idea da parte di un popolo dominatore, il quale ritiene il suo modo di pensare<br />
e di operare quello giusto e perciò si pone quale “salvatore” nel generalizzare<br />
a tutti gli altri popoli lo stile di vita e di pensiero propri.<br />
Com’è accaduto in epoche poi non così lontane, c’è sempre stato un popolo<br />
dominatore e un altro dominato.<br />
Perché? Noi siamo davvero convinti di esser migliori?<br />
Nell’arco di questi ultimi due anni ho sentito tante di quelle brutte parole al<br />
vento, (per non dire stronzate!), che prendono vita dalle bocche avide di potere<br />
e denaro dei nostri politici, da perdere davvero la speranza di una vera DEMO-<br />
CRAZIA.<br />
Detto ciò, fra le svariate assurdità pronunciate, appunto, dai nostri rappresentanti,<br />
non molto tempo fa, mi colpì parecchio l’audacia forza femminista di<br />
Daniela Santanchè, attuale Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio sotto<br />
il governo Berlusconi. Mi colpì molto perché io, eterna femminista, ascoltavo<br />
lei, esponente di un partito di “centro” destra, che rilegherei – se potessi – nel<br />
sottosuolo dell’Inferno dantesco, e allibita pensavo: “Brava, cazzo. Ha ragione!”<br />
Ora, ero chiaramente parecchio turbata, vista la mia eterna fedeltà a Bertinotti,<br />
ma lei esprimeva principi a me molto cari a difesa delle donne, in generale,<br />
e della loro libertà di esprimersi al pari degli uomini. In particolare, difendeva<br />
le donne musulmane entrate nel nostro Paese e “costrette” a mantenere il<br />
burqa anche in territorio non musulmano.<br />
Solo che, sarà stato il mio disappunto nell’aver pensato esattamente come la<br />
Santanchè, sta di fatto che cercai di informarmi, approfondendo, con ricerche,<br />
le mie conoscenze sull’argomento, quando finalmente trovai l’inghippo, l’errore,<br />
l’inganno. Durante la trasmissione di Santoro, “Annozero”, qualche giorno<br />
dopo, intervenne sull’argomento “burqa” una ragazza musulmana. E anche lei<br />
dichiarava: «Ma perché pensate a una costrizione sol perché è un’usanza lontanissima<br />
dalla vostra concezione di vita? Perché pensate che per noi, donne<br />
musulmane, il burqa sia qualcosa di antiumano che ci costringe a nascondere il<br />
volto?»<br />
Anche qui c’era stato un errore di giudizio. La ragazza, in Italia da molti anni,<br />
con un italiano perfetto spiegò che, per moltissime donne musulmane, coprire<br />
il loro volto con un velo era una credenza ormai così tanto radicata nel loro costume<br />
che non aveva senso farne a meno. «Noi non siamo costrette», continuò<br />
la ragazza, «per noi è assolutamente normale coprire il volto. Anche se è chiaro<br />
che chi vede in questo gesto una forzatura della propria libertà non deve farlo».<br />
Perciò, è la base di partenza sbagliata. Se una donna musulmana, che vive in<br />
Italia, si ribella al burqa è giustissimo, in nome della libertà umana, che abbia la<br />
possibilità di fare a meno del velo. Ma, non per questo, tutte le donne musul-<br />
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46<br />
mane vivono, come sostiene la Santanchè, in una perenne condizione di sfruttamento<br />
e schiacciamento della propria personalità.<br />
La Santanchè si è posta come paladina delle donne musulmane in Italia e del<br />
loro diritto a ribellarsi nei confronti di sevizie psicologiche subìte negli anni. Ma<br />
quelle donne non sono TUTTE costrette; esse rispettano semplicemente usanze<br />
religiose che non appartengono a noi, e che quindi ci viene difficile comprendere.<br />
Le nostre nonne si prodigavano nel ruolo di casalinghe e mamme e, molte di<br />
loro, non hanno mai neanche lavorato. Erano altri tempi, va bene. E oggi per<br />
noi donne potrebbe essere espressione di una “costrizione” per donne che invece<br />
hanno pari capacità di lavorare rispetto agli uomini. Perciò, se estraessimo dal<br />
suo contesto storico tale funzione della donna la vedremmo come segregata a<br />
un ruolo inferiore rispetto all’uomo. E infatti dopo, abbiamo avuto le donne che<br />
hanno urlato “l’utero è mio e lo gestisco io!”, in nome della libertà d’aborto,<br />
donne che sono scese nelle nostre piazze per pretendere pari diritti nei confronti<br />
degli uomini.<br />
Eppure, visto che comunque quell’evento è radicato nel nostro patrimonio<br />
consuetudinario, se oggi incontriamo una nonna che ha vissuto quel ruolo di casalinga<br />
e madre, oltre il quale lei non andava, beh, questa nonna probabilmente<br />
gestirà ancora la casa e la cucina e tutte le faccende domestiche pensando che<br />
sia suo dovere far tutto ciò mentre l’uomo è seduto sulla sua poltrona a leggere.<br />
Ci sono ancora oggi donne che affermano: «In cucina ci sto io. Sono io che<br />
stiro, rammendo, cucino e sistemo». Ma in questo caso, a noi basta pensare che<br />
è lei che vuole così. È lei che ha deciso.<br />
La libertà e parità di una donna è concretamente l’affermazione della sua volontà,<br />
qualunque essa sia. È la costrizione da condannare, non certo un’usanza<br />
lontanissima, e per noi inconcepibile, come il dovere di una donna musulmana<br />
di non far intravedere all’uomo altro all’infuori dei proprio occhi.<br />
E allora, forse, vale la pena ricordare ciò che affermava Seneca: «Aliena vitia<br />
in oculis habemus, a tergo nostra sunt» (“ Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli<br />
altri, mentre i nostri ci stanno dietro”).<br />
Amartya Kumar Sen, un economista indiano Premio Nobel nel 1998, ha pubblicato<br />
in Italia nel 2006 con Editori Laterza il saggio “Identità e Violenza”, contro<br />
gli abusi in nome dell’identità. Un capitolo, in particolare, ha attirato la mia<br />
attenzione, “Occidente e Antioccidente”: «La resistenza all’occidentalizzazione<br />
[…] è un fenomeno che può assumere la forma del rifiuto di idee considerate<br />
“occidentali”. […] Non c’è niente di specificamente “occidentale” nel giudicare<br />
la libertà un bene prezioso o nel difendere la libertà di espressione e discussione<br />
in pubblico. Ma il fatto di etichettare queste teorie come idee “occidentali” può<br />
generare un atteggiamento ostile verso di esse in altre società. È un fenomeno<br />
osservabile in diverse forme di retorica antioccidentale, dalla […] tesi che
l’espressione “ideali islamici” debba significare profonda ostilità a qualsiasi cosa<br />
sostenga l’Occidente».<br />
Questo affermarsi della giustezza e dell’onnipotenza dell’Occidente crea, inevitabilmente,<br />
come ci spiega Sen, un’opposizione tra Occidente e Antioccidente,<br />
un limite tra due modi di pensare e di vivere differenti. Questa centralità dell’Occidente<br />
ha anche, nelle sue forme più estreme, dato vita al “fondamentalismo”, in<br />
generale, e a quello islamico, in particolare. Sen trova le radici di questo comportamento<br />
onnipotente dell’occidentale verso il non-occidentale, proprio nell’evento<br />
della colonizzazione. Evento sotto il quale sono passate intere epoche di popoli<br />
sottomessi. E si sofferma, maggiormente, sull’umiliazione che hanno subìto i colonizzati<br />
e, non dimenticando di certo i gravi abusi che sono stati commessi nei<br />
confronti delle vittime della colonizzazione, Sen parla di «dialettica della mentalità<br />
del colonizzato», come nel caso del continente africano, quel «continente nero<br />
che ha dato origini alla razza umana ed è responsabile di molti dei progressi più<br />
rivoluzionari nella crescita della civiltà mondiale», che ha subìto la trasformazione<br />
in un continente dominato dagli europei.<br />
«Gli effetti devastanti dell’umiliazione – continua Sen – sulla vita degli esseri<br />
umani sono un fatto oggettivo».<br />
Da qui nasce quindi, probabilmente, quel sentimento di estraneità dei popoli<br />
colonizzati nei confronti degli artefici dell’evento colonizzatore. I vinti da una<br />
parte, i vincitori dall’altra. «Considerare se stessi come “l’altro” in contrapposizione<br />
con qualche struttura di potere esterna, in questo caso coloniale, fa parte del<br />
bagaglio ideologico di base di alcuni movimenti fondamentalisti più marcatamente<br />
antioccidentali, tra i quali figurano le versioni più accese del fondamentalismo<br />
islamico.»<br />
Nel periodo d’oro dei musulmani, quando essi controllavano il nucleo centrale<br />
del Vecchio Mondo, tra il VII e il XVII secolo, non sentirono mai la necessità di definire<br />
se stessi come “l’altro”. Ciò fin quando al centro della scena politica non è stato<br />
posto l’Occidente. L’Occidente come ossessione al di sopra di qualsiasi altro valore.<br />
Questo, conclude Sen, «è uno dei casi in cui la dialettica della mentalità del<br />
colonizzato può avere la maggiore efficacia istigatoria».<br />
Concludendo, allarghiamo i nostri orizzonti, cerchiamo di ingrandire i nostri<br />
bagagli culturali, arricchiamo le nostre letture, ringraziando sempre chi, da<br />
scrittore, ci permette di conoscere nuovi mondi e nuove usanze, non dimenticando<br />
MAI che la diversità è insita nei popoli e nell’essere umano.<br />
Laicamente parlando, insomma, se vogliamo davvero un mondo migliore<br />
guardiamo ciò che è diverso, sconosciuto per noi, come qualcuno o qualcosa da<br />
cui possiamo imparare nuove esperienze di vita. Proprio perché, come diceva<br />
Cicerone, «Nihil inimicus quam sibi ipse», (“ Nessuno è più nemico di se stesso”).<br />
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Direttore responsabile<br />
Federico Viganò<br />
Redazione<br />
Michele Bertinotti, Andrea Coccia,<br />
Alessio Cupardo, Gero Micciché<br />
Consulente di Redazione<br />
Barbara Gizzi<br />
Collaboratori<br />
Giorgia Camilleri, Renato Chiaro,<br />
Sem Galliani, Roberto Mandracchia<br />
Disegno in copertina di: Baldak<br />
Testata Calligrafica: Greta Bizzotto<br />
Heartfelt Graphic Design Studio - www.heartfelt.it<br />
Impaginazione: Andrea Coccia<br />
Soci sostenitori:<br />
Paolo Coccia, Giorgio Fumagalli,<br />
Daniele Magni, Marco Curto,<br />
Amedeo Bruccoleri (Libreria Capalunga),<br />
Lia Pennelli, Vincenzo Cuffaro<br />
Contatti:<br />
francotirature@gmail.com<br />
francotirature.blogspot.com<br />
finito di impaginare nel mese di dicembre 2010<br />
disegno in copertina di Baldak<br />
impaginazione di Andrea Coccia<br />
Salvo diverse indicazioni, il contenuto di <strong>El</strong> <strong>Aleph</strong> (immagini e testi)<br />
è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons - creativecommons.org
“basta in fondo un albero di pino,<br />
per scrivere un racconto di Natale.”<br />
Charles Dickens