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TOMBEAU DI CORRADO GOVONI

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<strong>TOMBEAU</strong> <strong>DI</strong> <strong>CORRADO</strong> <strong>GOVONI</strong><br />

20 dicembre 2009<br />

Non si sa bene dove mettere quella macchina-a-versi chiamata<br />

Corrado Govoni (Tamara, Ferrara 1884 – Lido dei Pini,<br />

Roma 1965). In genere nelle storie letterarie il poeta viene sistemato<br />

in una cameretta singola tra gli affollati stanzoni dei Crepuscolari<br />

e le camerate dei Futuristi, con qualche avvertenza<br />

segnaletica sulla sua superficialità e incapacità a comprendere le<br />

tensioni del secolo. Un Giacomo Debenedetti abbigliato en professeur<br />

vedeva la sua poesia come “un estemporaneo balenare di<br />

illuminazioni, prive tuttavia del dramma, della tragica iniziazione<br />

che questa parola – illuminazione – implica nella storia<br />

della poesia”(La poesia italiana del novecento, Milano 1974, p. 13).<br />

Parole diminutive ma in qualche modo autorizzate dalla carriera<br />

del poeta ferrarese. Basta pensare che la Grande Guerra,<br />

l’evento più assurdo e decisivo del secolo, non lascia tracce nella<br />

sua poesia. Si intuisce un’opera gigantesca di rimozione. Eppure<br />

nella sua opera si sente la vita novecentesca come in pochi altri<br />

lirici del secolo. Una veloce ricognizione del suo itinerario può<br />

offrire qualche spunto di riflessione.<br />

Govoni si rivela sulla scena delle lettere nel 1903 con i librini<br />

poetici delle Fiale e di Armonia in grigio et in silenzio. L’imitazione<br />

di D’Annunzio, Pascoli e dei simbolisti francesi è palese, così<br />

come l’intermittente originalità della sua voce. La quartina che<br />

apre Il pendolo di biscotto evoca l’immaginazione onnivora di un<br />

bambino che scopre a tentoni il mondo adulto:“Il pendolo de la<br />

Restaurazione / che è appeso alla parete del salotto, / è un prezioso<br />

gioiello di biscotto / variopinto di malva e d’arancione”.<br />

I doni visivi del poeta ferrarese rifulgono in sparsi grumi<br />

anche nel libro del 1905 intitolato ai Fuochi d’artifizio:“Altissimi,<br />

per l’aria, dai bastioni, /capriolano fantastici aquiloni”; oppure,<br />

da visivo a visionario:“Dentro lo specchio, tra giallastre spume /


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ritorna a galla il polipo del lume”. Persino nella sua peggiore<br />

raccolta poetica, Gli aborti del 1907, si riconoscono alcune innovazioni.<br />

Il gusto dell’elencazione bizzarra, inaugurato nei Fuochi,<br />

evoca quella“enumerazione caotica”che il critico Leo Spitzer riconobbe<br />

come carattere permanente della poesia contemporanea<br />

e che in Govoni – al contrario di un Lautreamont – sembra<br />

un gioco un po’ facile, nato come necessità di definire il proprio<br />

repertorio. La stessa foga enumerativa si ritroverà nelle spavalde<br />

Poesie elettriche (oltre che nelle Rarefazioni del ’15) di cui la raccolta<br />

del 1907 anticipa alcune movenze moderniste, come nella<br />

chiusa delle Città di provincia:“E solo per rompere / tutte queste<br />

monotonie, / nelle oscure officine / rombano saettando barbagli<br />

/ l’incudini incandescenti / sotto il pugno dei magli.”Nessuno in<br />

Italia aveva ancora cantato in versi, con voce sicura, gli stridori<br />

della macchina moderna, se non forse il Carducci barbaro dell’ode<br />

Alla stazione in un mattino d’inverno:“Già il mostro, conscio<br />

di sua metallica / anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei / occhi<br />

sbarra; immane pe‘l buio / gitta il fischio che sfida lo spazio”.<br />

Appare perciò scontato che questo autore si sia trovato a un<br />

certo punto nei pressi del movimento futurista, che però saprà<br />

esprimersi solo nelle arti visive, oltre che in brevi prose letterarie<br />

o teppistiche. E se nelle Rarefazioni del ’15 darà un esempio di<br />

poesia visiva in senso proprio – con parole e frasi accompagnate<br />

da disegni infantili – già nelle Poesie elettriche del 1911 poteva<br />

essere mostrato come il miglior poeta del futurismo, insieme al<br />

capriccioso Palazzeschi dell’Incendiario. Di fatto negli anni dell’anteguerra<br />

Govoni va considerato come uno dei maggiori<br />

poeti europei; più vicino ai grandi anarchici e funamboli (l’Apollinaire<br />

alcolico e il Jarry patafisico) che ai petits maitres simbolisti,<br />

da cui tanto aveva imparato. E se i surrealisti l’avessero letto,<br />

l’avrebbero riconosciuto come un precursore, al pari di un Saint-<br />

Pol-Roux.<br />

Tutta la società di quel tempo sembra ritrovarsi nelle sue<br />

poesie, i toni crepuscolari, le avanguardie pittoriche, i rumori futuristi,<br />

la nascita del cinema, l’affermazione incipiente dell’indu-


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266 Lettere dalla casbah<br />

stria. Si avverte anche lo stridore dello “scontro tra città e campagna”<br />

in cui secondo Marx si può riassumere la storia del capitalismo.<br />

Il poeta provò anche a trasferirsi nella città che, più di<br />

Torino, sembrava offrire la promessa della modernità: Milano.<br />

Vendette il suo amato podere e partì. Non durò molto. Dopo un<br />

paio d’anni la città imbrogliona si era rivelata per quello che era<br />

e il poeta se ne tornava a Ferrara. Si sentì respinto da quel luogo<br />

di colori artificiali (“Non più cieli d’un blu gendarme! / Non più<br />

prati di un verde bandiera!”) e di stupido dinamismo, rispetto a<br />

cui sarà sempre preferibile il ritmo d’altri tempi, “quando non<br />

c’era questa smania / di correre d’adesso, / che ci affatica e ci dilania,<br />

/ e s’arrivava pur lo stesso”(L’albergo del pellegrino).<br />

Negli anni che passano tra le raccolte delle Poesie elettriche<br />

(1911), l’Inaugurazione della primavera (1915), Il quaderno dei<br />

sogni e delle stelle (1924) e Brindisi alla notte (1924), Govoni ha<br />

ormai definito quella che potrebbe chiamarsi la sua prima maturità,<br />

rispetto a cui il periodo successivo non offre molti cambiamenti,<br />

semmai variazioni nell’eccezione musicale del termine.<br />

Registrò nuovi innesti culturali e prosaici, scrutò la comparsa di<br />

lirici giovani e scaltriti (come Ungaretti e Montale), ne imitò le<br />

ansie metafisiche, ma continuò a voler scansare l’atmosfera cupa<br />

del periodo. Nel ’32, a un giornalista che gli chiedeva“Che cosa<br />

farebbe sapendo che entro un’ora c’è la fine del mondo?”, Govoni<br />

rispose: “Canterei allegramente a squarciagola, fino a perdere<br />

la voce; e mi fregherei le mani fino a spellarmele, dalla<br />

contentezza” (citato nell’Almanacco Letterario Bompiani 1959, a<br />

cura di V. Bompiani e C. Zavattini, p. 19).<br />

In generale dinanzi alle sue opere degli anni trenta si ha<br />

l’impressione definitiva di trovarsi dinanzi a un poeta non naif<br />

ma pacioccone, al tempo stesso colto e inconsapevole. Non meraviglia<br />

di trovare nell’enorme corpus dei suoi versi un paio di<br />

poesie dedicate a Mussolini. Non è il caso di accollargli troppe<br />

responsabilità, anche perché nel ’45 i nazifascisti massacrarono<br />

suo figlio Aladino alle Fosse Ardeatine. Quasi a riprova del fatto<br />

che le colpe dei padri ricadono sui figli.


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(Questa legge storica non ha funzionato nel caso della famiglia<br />

Mussolini, che ha continuato a prosperare e ingrassare nell’Italia<br />

repubblicana.)<br />

Insomma la sua poesia, dopo aver ignorato la prima, stava<br />

per saltare anche la seconda guerra mondiale. Solo quando la<br />

Storia entrò nella sua biografia, l’egoista Govoni si decise a<br />

prenderne atto. La tragedia, che finora si intuiva in immagini<br />

slegate – intercambiabili però col gioco – è l’ultima novità della<br />

sua poesia, a partire dalla rancorosa e a tratti potente raccolta<br />

del ’46 intitolata al figlio Aladino.<br />

E lì, a suo modo, capì: “Io ti ringrazio, o figlio, di quel pianto /<br />

che mi ha riaperto gli occhi; se ora vedo / che c’è più fuoco nella<br />

luce nera / della tua notte eterna ed infinita / che in tutto il<br />

verde della primavera”(Nel giuoco delle bocce, a Piazza Acilia).<br />

Scrittore di prodigiosa energia, il poeta ferrarese scrisse<br />

molto fino alla fine dei suoi giorni, tra ripetizioni e manierismi,<br />

inevitabili in tanta abbondanza e in tanto spreco. Non per questo<br />

la sua ultima poesia si può considerare minore. La malinconia<br />

crepuscolare si è fatta più seria, senza indebolire il suo<br />

spirito visivo e musicale. Govoni è ancora il giovane poeta di<br />

quell’inizio secolo che fu scambiato per una primavera. I ricordi<br />

di quel tempo formano lo sfondo permanente della sua poesia.<br />

E, simile a uno Charles Trenet, ama rievocarne gli oggetti, le presenze,<br />

le figure dominanti. Come nella tarda poesia Charlot, disegnata<br />

con bulino infallibile: “con le tue scalcagnate scarpe /<br />

buone da far bollire nella pentola / nei giorni della carestia; / pagliaccio<br />

schiaffeggiato dai milioni: / girerai sempre l’ironico<br />

disco / della luna dei poveri / col tuo tacco di eterno vagabondo,<br />

/ usignolo fischiato dal silenzio, / sull’ipocrita cuore del mondo”.<br />

Ma per capire la sua intatta vocazione, il suo stato d’animo e<br />

quella che con leggero arbitrio si può definire la sua “visione<br />

della società”, si deve leggere una poesia di poco precedente,<br />

scritta intorno al ’50, che in apparenza non offre alcun appiglio<br />

storico, Il picchio rosso:


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268 Lettere dalla casbah<br />

Vissi nel sole come nell’interno<br />

di una dolce fornace,<br />

con ali d’erba smeraldina<br />

e il berretto alla sbarazzina<br />

come una viva brace.<br />

Quanto picchiai i vecchi intarmoliti<br />

olmi e quercie<br />

per pappar grasse larve addormentate<br />

nella feccia del legno, sghignazzando:<br />

‘Trentatre! Trentatre!’<br />

Fu mentre assaporavo<br />

formiconi e cerambici<br />

che per il gran raspio vetrino<br />

delle cicale scoppiò il giorno;<br />

ma forse fu una ghianda esplosa<br />

dal sotto in su che mi colpì nell’ala.<br />

‘Trentatre! Trentatre!’invano strillai,<br />

quando con tutto il peso della notte<br />

un gigantesco tacco d’uomo<br />

mi fu addosso.<br />

Nella paglia di fradicio sole<br />

morii con un sussulto,<br />

per non esser riuscito a trangugiare<br />

il mio berretto di velluto rosso.<br />

Si può tentare una lettura della poesia su tre livelli discorsivi<br />

differenti: lo stile, il contenuto, il simbolo.<br />

Lo stile. Endecasillabi regolari danno il ritmo, intercalati da<br />

pentametri, settenari e novenari, secondo una strategia di accostamento<br />

metrico sperimentata fin dai tempi di Armonia in grigio<br />

et silenzio. È una poesia eseguita per tocchi significativi, con uno<br />

sguardo pittorico che riluce del periodo avanguardista. C’è poi<br />

l’antropomorfismo consueto (che in lui sin dall’inizio si rovescia<br />

in una sorta di allegra alienazione) nel ciuffo immaginato come<br />

“berretto di velluto rosso” (già comparso nella bellissima Dov’è


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Tombeau di Corrado Govoni 269<br />

nell’Inaugurazione della primavera) e nella onomatopea del verso<br />

dell’uccello, consueta nella poesia universale, da Omar Khayyam<br />

a Pascoli; e che in questo caso (“Trentatre!”) sembra voler<br />

evocare una analogia tra il picchio che esplora l’albero e la parola<br />

richiesta dal medico che sonda e ausculta il malato.<br />

Il contenuto. Un giorno Govoni andò a caccia e sparò a un<br />

picchio che cadde a terra e fu finito dallo scarpone di un fattore<br />

sopraggiunto. La visione sconvolse il poeta, che dismise l’attività<br />

venatoria. Il picchio è immaginato come un narratore autobiografico,<br />

fino all’evento tragico che lo ha portato alla morte. Descrive<br />

se stesso: ha ali color di smeraldo e un ciuffo rosso<br />

sbarazzino, vive nel sole e si nutre di tarme e d’altri insetti cercati<br />

e trovati nei vecchi alberi. Un giorno, mentre è intento a<br />

procurarsi come al solito il cibo, viene preso da un proiettile che<br />

interpreta come una esplosione dovuta al canto stridulo delle cicale.<br />

O potrebbe essere lo scoppio di una ghianda (un verso di<br />

Autunno nelle Poesie elettriche già evocava “i piccoli obici delle<br />

ghiande”). Coi sensi ormai annebbiati, vede chiudersi su di sé la<br />

notte, in forma di “gigantesco tacco d’uomo”. Spira sulla paglia<br />

insanguinata di “fradicio sole”, ossia del medesimo sangue che<br />

gli chiude la gola, credendo di morire – ingannato ancora una<br />

volta dal colore – per non essere riuscito a mandar giù il suo<br />

ciuffo rosso.<br />

Il simbolo. Govoni si è più volte identificato poeticamente in<br />

varie specie di volatili, in particolare usignoli, merli e cuculi. Non<br />

è insensato supporre che la stessa cosa accada in questa lirica.Va<br />

ricordato a tal proposito che il simbolismo dei moderni è eminentemente<br />

soggettivo. Non assomiglia a quello del medioevo,<br />

che è convenzionale e si crede universale. Eppure la poesia sembra<br />

voler trasmettere un significato epocale. Per esempio quel<br />

“pappar grosse larve addormentate”, nella gergalità del primo<br />

termine, fa pensare a un pasto soddisfatto di sé, una mangiata<br />

volgare e indifferente al resto del mondo, immagine ribadita<br />

dallo sghignazzo del verso successivo.


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270 Lettere dalla casbah<br />

A questo punto si può interpretare il picchio rosso non tanto<br />

come la raffigurazione del poeta e neanche come una trovata<br />

scenografica. Il picchio rosso è la stessa incoscienza del secolo<br />

ventesimo inaugurato dalla belle époque, che era bella solo per i<br />

privilegiati e che morì senza mai capire come e perché.<br />

Forse questi versi hanno ancora qualcosa da dire a un<br />

tempo, il nostro, che sembra ripetere con cieca esattezza le movenze<br />

e il suicidio della cosiddetta belle époque.

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