Leda e il cigno - Fondazione Gerardino Romano
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LEDA E IL CIGNO<br />
Marco Cipolloni<br />
Un fremito nei lombi vi genera<br />
la muraglia abbattuta, la torre e <strong>il</strong> tetto in fiamme,<br />
e Agamennone morto.<br />
W. B. Yeats<br />
Splendida un giorno andava di Tindaro la sposa LA RACCOLTA DI FIORI<br />
con sette ancelle munite di ceste capaci<br />
lungo l’Eurota, dove la sponda era sabbiosa,<br />
viva di pioppi, vetrici, pascoli feraci.<br />
Andavano a cogliere gigli, rose, narcisi,<br />
giaggioli bianchi e violacei, ed anemoni e crochi,<br />
ma <strong>il</strong> colchico no, velenoso; sì gli elicrisi,<br />
sì l’asfodelo, a Persefone caro e a non pochi<br />
poveri a cui era di cibo, e <strong>il</strong> gladiolo vermiglio;<br />
l’elleboro no, spandente follia nel bestiame,<br />
no la mandragora, no lo stramonio che al piglio<br />
già tossico era… <strong>Leda</strong> così tra l’erbame<br />
quei fiori additava da farne colme le ceste,<br />
e tra camom<strong>il</strong>la e papaveri e pratoline<br />
grida d’infanzia lanciavan le ancelle, le teste<br />
chinando nel precedere a gara le vicine.<br />
Lungo la riva assolata avanzavano sparse<br />
lasciando <strong>il</strong> verde calpesto, muto di colori,<br />
e le api, mungendo nettare a greggi ora scarse,<br />
sui vimini ronzavano prodighi di odori,<br />
non garrule però quanto le donne alla preda,<br />
ché assai ne occorreva sia a far ghirlande e diademi<br />
per lo stimato re e la guardatissima <strong>Leda</strong>,<br />
sia ad aspergere petali, iridescenti emblemi,<br />
sui giovani insanguati, che drizzano la cresta<br />
davanti alle vergini dagli occhi luminosi<br />
quando spavaldi sopportan le sferze alla festa<br />
di Artemide e cantano le belle inni gloriosi.<br />
E giunsero, caldo <strong>il</strong> mattino di primavera,<br />
a un’ansa ove la roca correntia si slargava<br />
tranqu<strong>il</strong>lamente argentea, che la riflessa spera<br />
del Sole di aureoleosi barbagli ammaliava.
C’erano canne e di giunchi e di tife alti steli<br />
dipinti sull’acqua confusi a nuvole bianche<br />
come se cielo e terra sorridessero in veli<br />
nuziali, al vento ondulanti. Sostarono, stanche.<br />
Madida, la regina più all’ondeggiare lento SENSAZIONI AMBIGUE<br />
del seno aprì lo scollo del peplo. Una zelante<br />
ancella lesta agitò una frasca a farle vento,<br />
altre un telo le stesero all’ombra delle piante.<br />
Giacendo, attraverso un raggio la spalla discinta<br />
cantò come perla… Le lunghe ciglia socchiuse<br />
in un languore amab<strong>il</strong>e… Sognò che sospinta<br />
da non so che era nel fiume, le chiome profuse<br />
sim<strong>il</strong>i si spandevano a una cròcea corolla…<br />
Ma un piccolo str<strong>il</strong>lo la punse, irritata: a riva<br />
tra lor si schizzavano, fradice ogni midolla,<br />
due ancor fanciulle e con voce ridevano viva.<br />
Mal desta dal sogno sdrucito, <strong>Leda</strong> rivolse<br />
a tutte la sua stizza: “serve insolenti e stolte!<br />
Créusa, punisci la cagna che <strong>il</strong> sonno mi tolse!”<br />
Le due si sogguardarono, le membra disciolte.<br />
L’anziana un ramo sciancò lì dal salice e prese<br />
su un dorso e sull’altro a vibrarlo; zitta <strong>il</strong> tormento<br />
subiva ognuna: a Sparta chiunque geme alle offese<br />
corporee, da sé <strong>il</strong> castigo più rende violento.<br />
<strong>Leda</strong>, a nob<strong>il</strong>i nozze sempre <strong>il</strong>lesa la pelle,<br />
fu allora turbata da Pan, che domina <strong>il</strong> giorno,<br />
e come un oscuro miele assaggiò a veder quelle,<br />
un’invidia sì dolce che da cieco frastorno<br />
presa, indulse nella pena. La decana intanto<br />
colpiva più rada, in attesa; finché, striate<br />
di rosso le vergini, a cui tremolava <strong>il</strong> pianto,<br />
la regina da quelle sensazioni maculate<br />
si riscosse, stranita, “basta così” dicendo,<br />
e a scacciare ogni estro voglia di un bagno ebbe,<br />
così assecondando <strong>il</strong> suo sogno: <strong>il</strong> peplo stupendo<br />
scivolò al suolo e fu nuda. Di lei non sarebbe<br />
stata più bella una ninfa che corre sui monti,<br />
né la stessa Afrodite se fosse ancor dall’onda<br />
di Cipro fulgida sorta, allorché gli orizzonti<br />
tacquero e l’ampia <strong>il</strong> vento chioma le sciolse bionda.
Ella marmorea in acque s’immerse trasparenti, IL BAGNO DELLA REGINA<br />
e cangiarono opàlee, sul carneo stelo <strong>il</strong> volto<br />
sbocciava come un giglio. D’intorno le assistenti<br />
i larghi sipariarono pepli, se tra <strong>il</strong> folto<br />
spiasse un irsuto pastore… Saltò spaventato<br />
giù da un sasso un ranocchio. Solo, fra le ampie sponde,<br />
di lei <strong>il</strong> tenue sciacquio. Nel vasto vuoto assolato<br />
due tortore, remote. Sì e no un frusciar di fronde.<br />
Ma al cielo era specchio <strong>il</strong> liquido vetro del fiume,<br />
e Zeus di femmina umana intravide la carne<br />
pallida come sott<strong>il</strong>e alabastro che a un lume<br />
fa schermo, e <strong>il</strong> dio godimento per sé volle trarne.<br />
Così dalle olimpiche nubi discese in forma<br />
di <strong>cigno</strong> e d’Eurota volò alla tersa corrente.<br />
Lassù <strong>il</strong> punto bianco una scòrse, gridò la torma<br />
alla candida in cielo rapidità crescente.<br />
Lei alzò lo sguardo cerulo e l’ombra su trasvolante<br />
(fu un soffio) lo velò di un presagire lontano,<br />
seguì l’alata creatura, che calò distante<br />
un tiro di sasso, come sul trono un sovrano<br />
si posò sulle placide acque balaustrate<br />
di canne mormoranti lusinghe di Sirene,<br />
le ali soavemente ancor movendo spiegate<br />
parevano invitarla (sbigottì) a un sacro imene.<br />
Perduto le urtò <strong>il</strong> cuore in seno, di una regina<br />
non altro aveva che di aurei pendenti <strong>il</strong> decoro,<br />
e sonnambula uscendo dall’onda cristallina,<br />
diafana la vestiva profluvie acquosa d’oro.<br />
Balbettò, cenno fece di andarsene alle ancelle,<br />
di lasciarla soletta con quell’innocuo alato<br />
per non intimorirlo, di ritrarsi oltre quelle<br />
tife, in s<strong>il</strong>enzio, e sferzate a chi avesse parlato.<br />
Via scivolaron, quali foglie sulla corrente,<br />
immerse a mezza vita, dei colpi timorose,<br />
e si strinsero dove, ma zitte, cautamente,<br />
si facevan le sbarre meno folte e fogliose.<br />
L’una l’altra spingeva per occhieggiare un poco LE NOZZE DIVINE<br />
tra stelo e stelo un palpito di biondo o di bianco,<br />
né Créusa burbera le tratteneva né <strong>il</strong> fuoco<br />
delle fresche ferite sulla schiena e sul fianco;
da dietro, le altre tendevano <strong>il</strong> lobo inadorno<br />
a lambir qualche sprazzo di riso, o scuotimento<br />
di ali in fuga, o str<strong>il</strong>lar bocca di carne o di corno,<br />
e che godio tornasse la padrona in lamento!<br />
Intanto ella in s<strong>il</strong>enzio nuotando sinuosa a<br />
l’angelica bestia, <strong>il</strong> cui innaturale candore<br />
i suoi occhi succhiavano, tal che luminosa<br />
più si fa una candela più la strugge l’ardore, e<br />
come all’amato atteso di desio donna langue,<br />
con densi di dolcezza occhi lo cerca, lei <strong>il</strong> <strong>cigno</strong><br />
rimirava, sì che un’oscura febbre nel sangue<br />
le infuse, un caldo mosto nel suo purpureo scrigno.<br />
Ampie in candida gloria spalancò a lei che emerse<br />
lattea le ali; ma a farle crollare ogni difesa<br />
fu <strong>il</strong> flessuoso collo che rigido si aderse:<br />
si slanciò, gocciolante oro la chioma, a far presa<br />
con le unghie sul suo petto d<strong>il</strong>atato e piumoso,<br />
raggrinziti i capezzoli dal selvaggio cuore,<br />
le ginocchia snervate da quel voluttuoso<br />
abbraccio, rovesciò inerme <strong>il</strong> capo al molle afrore.<br />
E l’uccello maestoso, cui si aggrappava, a riva<br />
la sospinse, e sull’erba si prostrò resupina<br />
all’orrore gioioso che gli occhi le imbruniva<br />
semichiusi, e dov’era la carne vellutina,<br />
sforzate le sue cosce con le zampe palmate<br />
che di sei lividure sig<strong>il</strong>larono a enigma,<br />
<strong>il</strong> dio fin nelle sue la penetrò abbacinate<br />
avide viscere col folgorante suo stigma.<br />
Tutto femmina <strong>il</strong> corpo, da agonia e godimento<br />
fu avvinta, una vertigine <strong>il</strong> cui apice attinse<br />
come nel suo sacello sgorgò <strong>il</strong> seme violento:<br />
del futuro i suoi occhi sbarrati <strong>il</strong> fato incinse.<br />
Quei globi, nerolustri come infere perle, IL MUTO VATICINIO<br />
fissi lì a dominarla, le apparvero miniati<br />
di disastri che agli anni s’incrunavano per le<br />
sue réni regali… Mortali ancora non nati<br />
vide e una donna bellissima, sposa e regina,<br />
e un principe straniero, con lui a notte fuggire<br />
su una nave, ed accolti da una città in collina,<br />
e uno sciame di occhiute prore là convenire,
e m<strong>il</strong>le nella polvere eroi per lei caduti,<br />
e l’urlo delle madri, delle spose amputate<br />
del caro bene, gli atti più generosi e bruti<br />
tra <strong>il</strong> clangore di bronzi abbaglianti, di esaltate<br />
genealogie, e sulle mura com’Espero apparsa<br />
l’origine dei lutti, la battaglia bloccarsi,<br />
manichini inceppati sulla piana riarsa<br />
gridar tutti <strong>il</strong> suo nome, di nuovo massacrarsi,<br />
e colossale vide sulla spiaggia un cavallo,<br />
in città trascinato poi attraverso una breccia,<br />
fauci di fiamme i tetti, frangenti di metallo,<br />
sfondar l’occhio che vede fino in fondo la freccia,<br />
e la donna in ginocchio spalancare alla spada<br />
di chi amò in primo letto le splendide mammelle,<br />
e ad esse, inobliate, sciogliersi <strong>il</strong> pugno, rada<br />
poi la folla guerriera, solo fav<strong>il</strong>le e stelle,<br />
e l’unica reliquia di gesta insanguinate<br />
un cieco, eco nei secoli, perpetuar cantore…<br />
Tutto in un lampo bevvero le sue ciglia beate<br />
e inorridite, chiuse da un mortale languore.<br />
E fu d’ali e di piume sbattimento accecante,<br />
<strong>il</strong> divino animale fra le nubi disparve.<br />
<strong>Leda</strong>, sola sull’erba, stordita e dolorante,<br />
le immagini fatali svanite come larve.<br />
E tornò la regina con le sue sette ancelle<br />
gravate di canestri, su cui un ronzio era d’api:<br />
li tenevano, stando oblique, tra fianchi e ascelle;<br />
le più ab<strong>il</strong>i, dritte, in equ<strong>il</strong>ibrio sui capi.