14 Raffaella Bertazzoli (Mito-dAnnunzio).pdf - BOLbusiness
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RAFFAELLA BERTAZZOLI*<br />
IL RIUSO DEL MITO:<br />
L’“ERCOLE” DI D’ANNUNZIO**<br />
1. Mettendo mano, dieci anno dopo, alla raccolta di poesie<br />
Intermezzo di rime, uscita da Sommaruga nel 1884 (ma, con<br />
data autografa: “luglio 1883”), D’Annunzio non intendeva<br />
compiere un semplice lavoro di bulino e di cesello.<br />
L’elegante volumetto di 26 componimenti, presto arricchito<br />
di tre testi per la seconda edizione (luglio ’84), portava in calce<br />
un verso di Alfred Tennyson “The sad mechanic exercise”.<br />
Esergo che definiva, giusta la lezione del testo inglese, l’affaticarsi<br />
della parola, inadeguata ad esprimere la passione estrema,<br />
cui tuttavia non pare aliena l’allusione alla costante erotica<br />
dominante del tema 1 .<br />
* Prof. Ordinario di Critica letteraria e Letteratura comparata nell’Università<br />
di Verona.<br />
** Relazione presentata al pomeriggio di studio sul tema: “Il <strong>Mito</strong> nella<br />
letteratura italiana” tenuto presso l’Ateneo di Brescia il 21 settembre 2007.<br />
1 In memoriam to H.H., V: “I sometimes hold it half a sin / To put in<br />
words the grief I fell; / For words, like Nature, half reveal / And half conceal<br />
the Soul within. // But, for the unquiet heart and brain, / A use in measured<br />
language lies; / The sad mechanic exercise, / Like dull narcotics, numbing<br />
pain. // In word, like weeds, I’ll wrap me o’er, / Like coarsest clothes against
348 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[2<br />
Il titolo originario, che si richiamava all’esercizio su rime<br />
tradizionali, condotto in opposizione alla seduzione barbara<br />
di stampo carducciano, sperimentata in precedenza, si riduceva<br />
tout court a Intermezzo, allentando il rapporto con l’elaborazione<br />
metrica. L’aggiunta di 35 componimenti (databili tra il<br />
’92 e il ’94) ne disegnava un percorso più compiuto e definito,<br />
con la presenza di un Preludio e di un Commiato a delinearne<br />
una configurazione di libro, copiosamente rimpinguato e ricomposto.<br />
Infine, lo stile si arricchiva e si impreziosiva sulle<br />
letture dei grandi autori parnassiani e decadenti.<br />
Scriveva D’Annunzio all’editore Bideri ai primi di luglio<br />
del 1893: “Sarà un volume non indegno, per severità di fattura,<br />
del Paradisiaco e dell’Isaotta”. E qualche giorno dopo<br />
allo stesso editore: “Domani fra le tre e le quattro verrò a<br />
portarvi il manoscritto completo dell’Intermezzo, che contiene<br />
39 poesie nuove di pianta, oltre i rifacimenti laboriosi2 ”.<br />
L’operazione, dato non trascurabile, veniva condotta negli<br />
stessi anni in cui si chiudeva una prima fase importante della<br />
poetica dannunziana con il licenziamento definitivo delle<br />
Elegie romane, dell’Isotteo, della Chimera e del Poema paradisiaco.<br />
Tempo in cui si stavano delineando, con l’incrociarsi<br />
del verbo nietzschiano, le nuove tendenze superomistiche<br />
di romanzi come Il trionfo della morte, Le vergini delle<br />
rocce, Il fuoco.<br />
La preoccupazione di D’Annunzio di accreditare una nuova<br />
immagine al suo libro, nasceva dalla storia stessa del volume<br />
che, all’uscita dell’edizione sommarughiana, era stato accolto<br />
da critiche numerose per il suo scoperto messaggio erotico e<br />
per la debolezza d’ispirazione. Ne era seguito un opuscolo<br />
the cold: / But that large grief which these enfold / Is given in outline and<br />
no more.” in A. TENNISON, Poetical Works, Oxford University Press,<br />
New-York-Toronto 1959, p. 230.<br />
2 Traggo le citazioni da G. D’ANNUNZIO, Versi d’amore e di gloria, I,<br />
a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1985.
3] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
349<br />
Alla ricerca della verecondia che vide impegnati in una querelle<br />
letteraria i più noti nomi della critica e lo stesso D’Annunzio,<br />
votato a giustificare la sua opera come “documento<br />
umano”, ma non indispettito dal sovrappiù di pubblicità data<br />
al volume3 .<br />
Avrebbe scritto fuor di metafora a George Hérelle, suo traduttore<br />
francese, nel novembre 1892, ripercorrendo la vicenda<br />
del libro: “Une sorte de démence aphrodisiaque me possédait.<br />
Je publiai un petit livre de vers intitulé Intermezzo di<br />
rime où étaient chantées, en une prosodie impeccable, toutes<br />
les voluptés de la chair avec une impudicité qui n’avait de<br />
précédent que chez les poètes lascifs du XVI° et du XVII°<br />
siècles” 4 .<br />
L’Intermezzo del ’94, dunque, era cosa diversa. Abraso l’esergo<br />
tennysoniamo, D’Annunzio si era rivolto ai libri sacri.<br />
Con un passo dall’Ecclesiasticus (IX, 9-11): “Propter speciem<br />
mulieris multi perierunt, / et ex hoc concupiscentia quasi<br />
ignis exardescit”, per quel rimando al fuoco della passione<br />
che brucia, cui si ritornerà spesso nel libro. Epigrafe con la<br />
quale si definiva la parabola del volume che, nella sua veste<br />
definitiva, si colorava dei toni mesti di un eros legato a un<br />
senso di morte5 . Ma anche con un passo dall’Apocalisse: “Et<br />
in fronte eius nomen scriptum: Mysterium”, con diretto riferimento<br />
alla condizione del meretricio di Babilonia6 , che<br />
3 Nell’opuscolo, pubblicato dall’editore Sommaruga nel 1884, si trovano<br />
interventi di Chiarini, Nencioni, Panzacchi, Lodi.<br />
4 D’Annunzio a Gerge Hérelle, Correspondance, présentée par G. Tosi,<br />
Paris 1946, p. 129.<br />
5 Nell’edizione Treves 1896 verranno sostituiti da un’epigrafe latina (Letifera<br />
experiens guadia), tratta dall’epigramma di Ausonio che parla di Ila<br />
rapito dalle Naiadi durante la spedizione degli Argonauti: “Aspice quam<br />
blandae necis ambitione fruatur – Letifera experiens gaudia pulcher Hylas”.<br />
Su questo argomento si veda il sonetto Hyla! Hyla! nella Chimera.<br />
6 Apocalisse, XVII,5 “Babylon, magna mater fornicationum et abominationum<br />
terrae”.
350 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[4<br />
ben si attagliava alla sezione delle Adultere. Scrivendo al Michetti,<br />
amico e pittore, nel dicembre 1893, D’Annunzio chiedeva<br />
per quel suo libro ricomposto un disegno che fungesse<br />
da suggello a una fase poetica del tutto compiuta e identificava<br />
nello sguardo terribile e pietrificante della gòrgone il<br />
modello da seguire:<br />
Ho preparato la edizione definitiva dell’Intermezzo. C’è<br />
ora in questo libro un significato di tristezza quasi biblica. Non<br />
so se tu abbia veduto l’Antico preludio pubblicato, alcuni giorni<br />
fa, nel “Mattino”. [...] Io vorrei che su quello tu mi facessi<br />
un disegno da premettere al libro. Tu hai compresa come nessun<br />
altro la terribilità distruttiva della donna, ed hai formato una<br />
creatura spaventosamente bella: Cornadoro. Io vorrei che in<br />
un disegno tu mi rappresentassi quel volto gorgòneo sopra un<br />
fondo simbolico. Sarebbe una gemma preziosissima pel mio libro,<br />
una specie di suggello funebre. [...] Tu hai compreso, credo,<br />
lo spirito del libro. E la geremiade del giovine su cui pesa la fatalità<br />
dell’amore distruttivo, – è l’imprecazione della vittima<br />
che si dibatte invano sul rogo della concupiscenza. Propter<br />
speciem mulieris multi perierunt 7 .<br />
L’accostamento tra la situazione di un giovane D’Annunzio,<br />
che sperimenta gli estenuanti giochi erotici dell’Intermezzo e<br />
l’abbozzo del Michetti si giustifica non solo in funzione del<br />
nuovo volume rielaborato, ma soprattutto in prospettiva di<br />
scritture a venire. Il disegno, infatti, era stato steso, con molti<br />
altri, per la preparazione di uno dei quadri più noti del pittore:<br />
La figlia di Jorio. Quadro che vedrà la luce, nella sua versione<br />
definitiva, nel 1895 per la Mostra di Venezia, ma che, parimenti<br />
all’omonima tragedia dannunziana, avrebbe avuto una gestazione<br />
lunghissima e quasi parallela al testo tragico, affondando<br />
le radici in una lontanissima guache del 1881, per l’Esposizione<br />
7 Lettera al Michetti, in F. DI TIZIO, D’Annunzio e Michetti, Chieti, Ianieri,<br />
2002, pp. 213-2<strong>14</strong>.
5] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
351<br />
di Milano 8 . La ‘geremiade’, cui allude D’Annunzio, è dunque<br />
quella che rimanda all’esperienza autobiografica, narrata nell’Intermezzo,<br />
ma anche quella dei giovani che avevano seguito<br />
il solco lascivo, tracciato dalla donna ammaliatrice, descritta<br />
dal Michetti nel suo quadro.<br />
Proprio in quel tempo, in cui coglieva la potenza distruttrice<br />
dell’amore e ne scriveva al pittore, D’Annunzio stava pensando<br />
alla sua tragedia, stendendo alcuni appunti preparatori, con un<br />
nucleo incentrato proprio sulla figura della “sortiera”. La tragedia,<br />
scritta molti anni dopo, nell’estate del 1903, a stretto contatto<br />
con la sezione finale di Alcyone, sarebbe diventata altra<br />
cosa. A Mila sarebbe spettato il ruolo, ben più complesso, di<br />
maga redentrice. Assumendo su di sé la colpa del parricidio<br />
compiuto da Aligi, da lei amato in castità, Mila salva il giovane<br />
e il suo ruolo all’interno di una società governata da mores intoccabili.<br />
Al tempo della tragedia, i tempi erano cambiati e il<br />
rogo su cui Mila si immola, rogo reale e non più il simbolico<br />
fuoco della concupiscenza, segnerà anche la fine della fase mitica<br />
della poesia dannunziana, metaforizzata nel ‘folle volo’ di<br />
Icaro e nella sua caduta. Ma ora il nostro discorso parte proprio<br />
da un rogo.<br />
2. Un testo inserito nell’edizione napoletana del ’94 si intitola<br />
La tredicesima fatica. È un poemetto in versi martelliani,<br />
ricavato per la più parte da un testo pubblicato sulla<br />
“Cronaca Bizantina” il 16 ottobre 1883, sotto il titolo Poemi<br />
eroici – La tredicesima fatica. Il testo è di poco posteriore all’edizione<br />
del Canto Novo del 1882 e segue a stretto giro l’edizione<br />
dell’Intermezzo di rime (giusta la data autografa del<br />
luglio 1883). Non stupisce, dunque, che il componimento sia<br />
tutto intriso del sensualismo libero e vitalistico della prima<br />
raccolta e delle coeve novelle di Terra vergine, ma con alcuni<br />
8 Per la storia parallela della tela e della tragedia vedi: R. BERTAZZOLI,<br />
Il mito raggiunto. Preistoria testuale e elaborazione critica della “Figlia di<br />
Iorio”, Milano, Franco Angeli, 1989.
352 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[6<br />
elementi – ci pare – che giustificano una sua lettura secondo<br />
i parametri di un latente superomismo. Spunti, peraltro, che<br />
già si potevano cogliere tra le pieghe del metamorfismo equoreo<br />
delle liriche di Canto novo, secondo una chiave interpretativa<br />
che veniva suggerita dallo stesso D’Annunzio a Vincenzo<br />
Morello nel 1895, durante la fase del rifacimento del<br />
volume “primigenio”, anche quello interamente ricomposto<br />
e ristampato nel 1896:<br />
Se tu ti ricordi di certe odi del Canto Novo convieni con<br />
me che là sono i germi di potenza e di predominio i quali si<br />
svilupperanno in Cantelmo 9 .<br />
Condizione ancor meglio chiarita in un passo della Beata<br />
riva di Angelo Conti, a commento della filosofia di Nietzsche:<br />
Sì, è certissimo che tutta la così detta teoria nietzschiana è<br />
contenuta nelle dottrine dei sofisti greci, ma le affermazioni<br />
mie, concordanti con quelle del filosofo tedesco, le ho attinte<br />
dal fondo della mia stessa natura. Tu le troverai in germe nel<br />
mio primo libro di poesia, nel libro della mia adolescenza 10 .<br />
Le affermazioni dannunziane, che rinviano gli elementi del<br />
vitalismo e del superomismo, che precede le Laudi a una ispirazione<br />
endogena, affrancando la sua poesia da una condizione<br />
di sudditanza totale al verbo nietzschiano (ma D’Annunzio<br />
non sarà nuovo a ritrattazioni del genere), chiariscono<br />
a posteriori le ragioni di un testo come La tredicesima fatica,<br />
componimento dedicato a Ercole, mitica figura che non<br />
tornerà mai più nell’opera dannunziana se non per cenni del<br />
tutto marginali. Un testo che doveva essere sembrato fun-<br />
9 G. D’ANNUNZIO, Versi d’amore e di gloria, I, cit., p. 829.<br />
10 La beata riva esce nel 1900. La cit. ora in A. CONTI, La beata riva,<br />
a cura di P. Gibellini, Venezia, Marsilio, 2000, p. 60.
7] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
353<br />
zionale per la definitiva edizione dell’Intermezzo, se D’Annunzio<br />
lo recupera per il tardivo rifacimento, collocandolo<br />
in una posizione, potremmo dire, strategica nella raccolta.<br />
Posto nella sezione delle Eleganze, il componimento è contiguo<br />
a Venere d’acqua dolce, suo contraltare al femminile<br />
per l’esaltazione di una bellezza e di una sensualità di tipo<br />
naturalistico-panico, con precisi riferimenti alla Vénus rustique<br />
di Maupassant. Mentre è preceduto da due sonetti dal titolo<br />
significativo di Herotica-Heroica con un décalage dall’eros<br />
al gesto eroico, che sintetizza la storia (così nell’intenzione<br />
dell’autore) dell’io autobiografico, narrato nella raccolta11<br />
. Ed è un’analisi di questo componimento sul mito di<br />
Ercole, che tenga conto delle spore del superomismo, sviluppate<br />
nei romanzi dell’ultimo decennio del secolo, nonché la<br />
sua voluta e consapevole funzione mitopoietica, che interessa<br />
al nostro discorso.<br />
La tredicesima fatica si definisce per la ripresa di elementi<br />
classici in una scrittura dai contorni decadentistico-parnassiani,<br />
secondo la tendenza delle letture dannunziane del tempo.<br />
Assumendo e combinando elementi diversi, in una sorta di<br />
sperimentalismo sincretico, vengono riproposti alcuni aspetti<br />
del complesso e vasto mito eraclèo, che D’Annunzio piega a<br />
esigenze proprie, con una disinvoltura intellettuale che è marca<br />
di sicura genialità. Il titolo, secondo una tradizione tarda, che<br />
ha nel Roman de la rose un suo luogo codificato, identifica<br />
nella tredicesima, la fatica non superata, quella cioè combattuta<br />
con la donna. Così il testo di Jean de Meun:<br />
Ercole ha superato numerose avventure: ha trionfato su dodici<br />
terribili mostri, ma una volta che ha vinto il dodicesimo,<br />
11 Anche I. CIANI (Esercizi dannunziani, a cura di G. Papponetti e M.M.<br />
Cappellini, Pescara, EDIARS, 2001, pp. 353-408) scrive che D’Annunzio a<br />
quest’altezza accantona la vecchia poetica e corregge e sviluppa nuove tematiche<br />
dando corpo a qualche motivo che appartiene già al superuomo.
354 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[8<br />
non è riuscito a venirne a capo del tredicesimo; è stata Deianira,<br />
la sua donna, a lacerargli le carni, ricoperte dalla camicia imbevuta<br />
di veleno 12 .<br />
Appare, dunque, subito chiara la ripresa tardiva del poemetto<br />
in funzione mimetica, nel tentativo di identificare (l’iperbole,<br />
se così si può dire, ha del paradossale) l’esperienza<br />
di Ercole con la condizione di un giovane D’Annunzio, psichicamente<br />
e fisicamente annientato dall’esperienza amorosa,<br />
ma per nulla spaventato dalla misura o dismisura ontologica<br />
del modello.<br />
Tralasciati riferimenti precisi sulla nascita divina di Ercole,<br />
operazione funzionale a calare il protagonista in un contesto<br />
extra-mitico, D’Annunzio inventa, nei contorni di una favola<br />
agreste, la vicenda dell’infante abbandonato e ritrovato da un<br />
vecchio contadino, attingendo, peraltro, a una tradizione illustre<br />
e consolidata, che va da Mosè a Edipo e oltre.<br />
Sul preziosismo linguistico, che caratterizza il testo, si innestano<br />
citazioni dai classici, come le Metamorfosi di Ovidio,<br />
per le ritualità legate alle proprietà delle erbe: i “suci herbarum”<br />
(“Una zingara muta co’ i succhi de le piante / gli infuse<br />
la fortuna un dì ne l’ombelico”). Infatti ‘sucos’ usa Medea per<br />
i suoi filtri e ‘herba’ è qui trascrizione diretta di , affidando<br />
alla figura della zingara la funzione di operare sulla<br />
potenza sessuale dell’infante (“ombelico” si intende come forma<br />
eufemistica). Interessante mediazione tra la figura della maga<br />
e della strega, che secondo una lettura della Sorcière del Michelet<br />
(già abbondantemente diffuso in Italia negli anni ’60) in<br />
12 G. DE LORRIS- J. DE MEUN, Roman de la rose, Paris, Librairie Générale<br />
Française, 1992, p. 548: “Cist ercules ot mout d’encontres: / Il vainqui<br />
.xij orribles montres / Et quant ot vaincu le douzieme, / Ce fu de dejanira<br />
/ S’amie, qui li descira / Sa char de venim toute esprise / Par la venimeuse<br />
chemise”. La camicia donata a Ercole dalla moglie Deianira era imbevuta del<br />
sangue e dello sperma del centauro Nesso.
9] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
355<br />
queste figure vedeva l’incarnazione del principio femminile,<br />
operatrice di ritualità pagano cristiane13 .<br />
Corre velocemente la descrizione dell’infanzia e della fanciullezza<br />
di questo “caduto figlio di un nume antico”, attorniato<br />
dall’amore dei rustici abitanti del luogo e si sofferma sul<br />
fiorire della sua pubertà, in un contatto diretto con la natura.<br />
L’immagine di Ercole è quella di un dio (“era la forma pura /<br />
che la grande Arte antica eternava nel pario”), che si muove<br />
sullo sfondo di un Abruzzo rivisitato con gli occhi del décadent,<br />
come era stato già per i protagonisti delle novelle di Terra<br />
vergine. Condizione che si definisce nella rielaborazione del<br />
’94 per quell’indulgere sull’enumerazione di gusto parnassiano,<br />
che scalza spesso la citazione domestica e meno precisa in<br />
una: «immediatezza coperta da un perenne schermo culturale<br />
e intellettuale». Sono le parole di Contini, lettore attento alle<br />
innovazioni stilistiche della poesia dannunziana di quegli anni.<br />
Basti l’esempio tratto dalla princeps:<br />
Passar quel caldo fiato che sapeva di nardo, di salvia, d’altri<br />
aromi succosi di foresta,<br />
che diventa nell’edizione definitiva:<br />
passar quel caldo fiato che sapeva di nardo, di timo, di cennàmo,<br />
di citiso, d’isapo,<br />
puntando a un significante ricco e prezioso, con un’assunzione<br />
vocabolaristica certamente meno scontata.<br />
13 J. MICHELET, La strega, Milano, G. Daelli, 1863. Nella Vita Antoni,<br />
redatta dal discepolo sant’Atanasio (357-365), si dice delle tentazioni del diavolo<br />
cui fu sottoposto il santo: “Destava [il demone] in lui anche l’amore<br />
per il denaro, il desiderio di gloria, il piacere di un cibo svariato e ogni altro<br />
godimento della vita [...] Confidò poi, in quelle armi che sono nell’ombelico<br />
del ventre [...] L’uno infatti suggeriva pensieri osceni, l’altro li scacciava”.
356 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[10<br />
Promana dal giovane Ercole sensualità assoluta, in un “incontenibile<br />
inno di un traboccare”, mentre “l’anima diventa<br />
natura”, per usare le parole del Gargiulo a commento della<br />
coeva poesia di Canto Novo <strong>14</strong> . È l’apoteosi dell’eros vissuto<br />
nella sua naturalità. Condizione sentita, a quel tempo, dallo<br />
stesso D’Annunzio che ne scrive all’amata, in un processo di<br />
rimandi tra testo e autobiografia, che sarà cifra caratterizzante<br />
dell’opera dannunziana. Così a Lalla nel marzo 1882:<br />
E davvero la vita in questi giorni è in fermento; la primavera<br />
mi riscalda le arterie e il sangue mi bolle meravigliosamente flottando<br />
e incalzando dal cuore al cervello, dal cervello al cuore 15 .<br />
Ercole, dunque, è l’eroe totalmente immerso in questa nuova<br />
scrittura metamorfico-panica, dove è Darwin (il Darwin<br />
di Michele Lessona letto nel 1883 nell’edizione Sommaruga)<br />
a segnarne i processi vitali; e il positivismo di Jakob Moleschott<br />
a definirne i comportamenti, secondo l’interpretazione<br />
che ne dà D’Annunzio in un articolo sulla “Tribuna”: “i fenomeni<br />
psichici [sono] funzioni dell’organismo” 16 . La “somma<br />
di cose-parole”, di cui parla la Noferi per Canto Novo, si<br />
offre come trascrizione diretta, immediata e sovrapposta di<br />
stimoli sensoriali fonici e visivi, mentre tra tutte le percezioni<br />
sensoriali domina l’olfatto come senso sviluppato nella fase<br />
primigenia dell’umanità, condizione del suo stato quasi ferino.<br />
Siamo ben lontani dall’estetica dell’olfatto che investe con<br />
i suoi effluvii le pagine del Piacere. E per questo testo in particolare<br />
sembrano pesare le suggestioni dell’antropologia il-<br />
<strong>14</strong> A. GARGIULO, Gabriele d’Annunzio, Firenze, Sansoni, 1941.<br />
15 G. D’ANNUNZIO, Lettere a Giselda Zucconi, a cura di I. Ciani, Pescara,<br />
Centro Studi Dannunziani, 1985, p. 354.<br />
16 In A. CASTELLI, Pagine disperse. Cronache mondane, letteratura, arte<br />
di Gabriele d’Annunzio, Roma, Lux, 1913, p. 391, e ora in G. D’ANNUNZIO,<br />
Le cronache de La Tribuna, Bologna, Boni, 1992, 2 voll.
11] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
357<br />
luministico-sensista di Johann Withof che parla di un’aura seminalis<br />
che ‘nutre’ gli organi maschili e stimola le fibre 17 :<br />
Ed era maggio. Eretto su ’l dorso insofferente<br />
di un poledro, a traverso la prateria, con l’erbe<br />
a i fianchi, galoppava, come un centauro imberbe<br />
senza faretra ed arco, meravigliosamente,<br />
sollevando al passaggio foochi di cupidigia.<br />
E con maggiore insistenza nella prima stesura del 1883:<br />
Ed Ei spandea l’amore<br />
Abbondante e sereno; Ei fornia, con vigore<br />
Inesausto, quell’opera carnale ne ’l cospetto<br />
De le cose, da un fato naturale sospinto.<br />
Era il tipo assoluto de la razza, era il forte,<br />
Era il bello. Le femmine per un tenace istinto<br />
De ’l sesso a lui tendeano, bramendo a le sue porte,<br />
dove sono presenti metafore zoologiche per esprimere il manifestarsi<br />
del desiderio femminile, secondo forme di un primitivismo<br />
naturale:<br />
Quando ne ’l luminoso<br />
Vespero Egli a le case giunse, a lui ne ’l profondo<br />
Sguardo un bagliore nuovo scorsero luccicare<br />
Le femmine, aspettanti come pantere in caccia;<br />
e si mise la mandra selvatica a tremare<br />
quando a ’l fine da lungi volse il maschio la faccia.<br />
17 Ne accenna L. MUROLO, L’esperienza del “selvaggio”. Codici sensoriali<br />
nel giovane d’Annunzio, in D’Annunzio. Per una grammatica dei sensi,<br />
Chieti, Solfanelli, 1992, pp. 81-120. Si veda anche A. CORBIN, Storia sociale<br />
degli odori, Milano, Mondadori, 1983.
358 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[12<br />
Questo di Ercole “centauro imberbe” è il primo imbestiamento<br />
narrato dalla poesia dannunziana, topos caro al futuro<br />
poeta delle Laudi, con indiretto riferimento forse alla perizia<br />
di Ercole, educato a montare a cavallo da Anfitrione, e qui riconosciuto<br />
secondo un “prevalente registro della sensibilità<br />
muscolare”. Ma anche funzionale all’immagine del D’Annunzio<br />
equestre, costruita con instancabile perizia. È questa anche<br />
la prima citazione del centauro, altra fortunata figura mitica,<br />
già legata a quella connotazione erotica e agonistica che emergerà,<br />
con tutta la forza espressionistica dei paragoni, nel testo<br />
compiuto della Morte del cervo in Alcyone:<br />
Il centauro afferrato avea pei palchi<br />
delle corna il gran cervo nella zuffa,<br />
come l’uom pe’ capei di retro acciuffa<br />
il nemico e lo trae, finché lo calchi<br />
a terra per dirompergli la schiena<br />
e la cervice sotto il suo tallone,<br />
o come nella foia lo stallone<br />
la sua giumenta assal per farla piena 18 .<br />
Rapporto tra agone e potere già riconosciuto come statuto<br />
portante della cultura ellenistica dal Giorgio Aurispa del<br />
Trionfo della morte:<br />
Il sentimento religioso della Natura madre eternamente<br />
creatrice ed eternamente lieta della sovrabbondanza di sue forze;<br />
la venerazione e l’entusiasmo per tutte le energie fecondanti,<br />
18 La tradizione vuole il centauro di per sé ricco di libido. E sull’imbestiamento<br />
si vedano i versi del XIX segmento della Laus vitae: “E la mia coscia<br />
nervosa / aderì così forte / al fianco del mio caval sauro / ch’io divenni<br />
il mostro biforme, / lo snello centauro / d’ugne senza ferro, / di levità senza<br />
orme” (Versi d’amore e di gloria, II, Milano, Mondadori, 1984, p. 231, vv.<br />
64-70).
13] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
359<br />
generative e distruttive; l’affermazione violenta e tenace dell’istinto<br />
agonistico, dell’istinto di lotta, di predominio, di sovranità,<br />
di potenza egemonica: non erano questi i cardini incrollabili<br />
su cui si reggeva l’antico mondo ellenico 19 .<br />
3. Simile alla violenza di un incendio, il desiderio femminile<br />
si abbandona al richiamo di un eros commisto a ferinità, finché<br />
anche il giovane giunge a una comprensione matura della sessualità.<br />
Ercole scopre il manifestarsi dell’eros nel turbamento<br />
dell’ossimoro misterioso: “sorse allora il Mistero / a rivelarsi:<br />
dolce, terribile e divino”. Ribadendo quella condizione sublime<br />
che accompagna il manifestarsi dell’amore e che viene richiamata<br />
nella nuova epigrafe del Preludio con la citazione del baruv"<br />
qeov" di Teocrito “Ora conosco l’Amore, è un dio terribile” 20 .<br />
Ercole diviene il dio dell’amore, che spande gioiosamente il<br />
suo seme per la creazione di una nuova progenie, secondo una<br />
linea precisa del mito che D’Annunzio qui pare tener presente:<br />
quella che lo vuole procreatore di soli maschi e dalla virilità<br />
inesausta, riducendo, forse con operazione involontaria, l’Ercole<br />
dell’arété a quello comico della scena aristofanesca e dell’eccesso.<br />
Si ricordi la performance di un Ercole appena diciottenne,<br />
che alla corte del re Tespio, in una notte, feconda le sue<br />
cinquanta figlie vergini (meno una). Così D’Annunzio:<br />
Potenza oscura,<br />
con tranquillo vigore in tutte le matrici<br />
Ei gittava il buon seme de la specie futura.<br />
Supermaschio forse più che superuomo che scatena la passione<br />
delle fanciulle “offerenti il vermiglio / fior de la giovinezza”<br />
e delle mogli, che lasciano il “letto maritale”. Ma è a<br />
19 G. D’ANNUNZIO, Trionfo della morte, in prose di romanzi, I, Milano,<br />
Mondadori, 1941, pp. 950-951.<br />
20 TEOCRITO, III, 15.
360 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[<strong>14</strong><br />
questo punto che il mythos agreste si complica. D’Annunzio<br />
costruisce attorno all’eroe un progetto di società poligamica<br />
nella totale supremazia del maschio dominante, per dirla in<br />
termini antropologici, e in una totale acquiescenza delle donne,<br />
che venivano a costituire una nuova forma di comunità:<br />
Ora, lungi prosperava crescente<br />
la colonia feminea, ne la selva; e una pace<br />
grande tenea la selva già, poi che lentamente<br />
ne le femmine accolte si spense ogni pugnace<br />
impeto di possesso.<br />
Pur calata in uno sfondo arcaico e metastorico, questa nuova<br />
società tiene in nuce gli elementi forti del progetto politico ed<br />
estetico che sarà di Claudio Cantelmo nelle Vergini delle rocce:<br />
progetto elitario del superuomo la cui stirpe dovrà dominare<br />
sulla società borghese dell’Italietta tardo-risorgimentale e sul<br />
popolo, ‘bestia’ che esige una guida forte. Pensiero che sul piano<br />
politico riverbera una sorta di ossessione, mossa dal desiderio<br />
di confutare tutto il fondamento egualitario della rivoluzione<br />
liberal-democratica che domina l’Ottocento e che riduce<br />
il popolo a massa, dove il disprezzo e l’avversione si manifestano<br />
nei toni di un lessico tribunizio:<br />
Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia,<br />
voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un<br />
nuovo regno della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a<br />
riprendere le redini per domare le moltitudini a vostro profitto.<br />
Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all’obedienza<br />
21 .<br />
La società comunitaria e femminilmente non agonistica, in<br />
cui D’Annunzio pone il supermaschio, confligge inevitabil-<br />
21 G. D’ANNUNZIO, Le vergini delle rocce, in Prose di romanzi, II, Milano,<br />
Mondadori, 1942, p. 401.
15] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
361<br />
mente con l’“agricola stirpe de i Feresi”, che non accetta il sovvertimento<br />
dei mores e dell’ethos, tramando vendetta. Lo scontro<br />
tra un mondo naturale o meglio naturalistico, regolato solo<br />
dall’istinto, e quello governato da leggi è inevitabile. La citazione<br />
onomastica dei Feresi, rimanda al mito, ai sudditi di Admeto,<br />
re di Fere in Tracia, che aveva ospitato Ercole. Ma potrebbe<br />
anche essere un riferimento alla condizione bestiale di<br />
questa società e alla lotta ingaggiata da Ercole con i Centauri<br />
(detti anche Fères, cioè ‘fiere’, per la loro natura in parte animale),<br />
ebbri e scatenati durante la sua permanenza nella grotta<br />
del centauro Folo, in Arcadia.<br />
Certo i Feresi del poemetto dannunziano non hanno connotazioni<br />
mitiche, vestono i panni di contadini dai tratti di una<br />
fisiognomica di maniera. Sono “biechi in cerchia”, “aspetto<br />
volpino, e l’occhio scaltro”. Nella prima edizione erano chiamati<br />
“minotauri”. Nella revisione del testo, D’Annunzio ritocca<br />
accortamente alcune caratterizzazioni troppo scoperte,<br />
come quelle che qualificavano un contadino: “da i rossi capelli,<br />
che aveva li occhi de ’l gatto / pieni di vampe”. Il riferimento,<br />
fin troppo ovvio, va al Rosso Malpelo verghiano “coi capelli<br />
rossi e gli occhiacci grigi”, “quegli occhiacci di gatto”, testo<br />
che D’Annunzio aveva ben presente.<br />
Accanto alla “zingara muta” D’Annunzio introduce un’altra<br />
figura ambigua, quella del nano, che con furbizia, instilla<br />
negli stolidi contadini l’idea che il loro onore può essere vendicato,<br />
sollecitando la vendetta. Il nano ha qui la funzione di<br />
dar voce al pensiero collettivo e inespresso che porta all’azione:<br />
“A loro un turpe nano dicea meravigliose / favole de l’eroe.<br />
Ascoltavan, con occhi / dilatati, i bifolchi”.<br />
Passo che subito ci rinvia a un testo pascoliano, Gog e Magog,<br />
che inaugurerà di lì a qualche mese (gennaio 1895) la raccolta<br />
dei Conviviali sul debosisiano “Convito”. Collaborazione<br />
che porterà a una più stretta amicizia tra i due poeti. Anche<br />
qui il nano fa cadere il velo del mito, instillando il dubbio nelle<br />
popolazioni barbariche sulla reale presenza di Alessandro Magno<br />
a difesa della gran porta d’oriente. Allusione, dice Pascoli,<br />
al triste presentimento sull’avvenire dell’umanità:
362 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[16<br />
Gog e Magog tremava... Uno dei nani<br />
Cauto trovò gli stolidi giganti.<br />
Noi moriamo, o giganti, ed Egli no.<br />
Io che muovo gli orecchi come i cani,<br />
intesi cose. Non c’è sempre avanti<br />
Zul-Karnein. A volte a Rum andò 22 .<br />
E proprio nel Poemio al “Convito” D’Annunzio parlerà dei<br />
nuovi ‘barbares’ dell’oggi, stigmatizzandoli con grande enfasi:<br />
Non è più il tempo del sogno solitario all’ombra del lauro<br />
e del mirto. Gli intellettuali raccogliendo tutte le loro energie<br />
debbono sostenere militarmente la causa dell’intelligenza contro<br />
i Barbari, se in loro non è addormentato pur l’istinto più<br />
profondo della vita 23 .<br />
Dissoltosi lo stupore inebetito dei Feresi davanti ai racconti<br />
del nano, si perfeziona la vendetta. La foresta che ospitava Ercole<br />
e le sue concubine viene incendiata. Le donne si uniscono<br />
un’ultima volta con il loro eroe in una rappresentazione plastica<br />
dalla forte simbologia erotica, formando la pira su cui Ercole<br />
morirà:<br />
Allora il gruppo di quei corpi, vermiglio<br />
nel rossor de l’incendio, si aderse come un mobile<br />
cumulo su l’altura de la selva; ed augusto,<br />
quale un dio saliente sorse di tutto il busto<br />
l’Ercole su quel cumulo, non mai piegando il nobile<br />
capo.<br />
22 G. PASCOLI, Gog e Magog, sezione IX, vv. 1-6, in Poemi Conviviali,<br />
a cura di G. Leonelli, Milano, Mondadori, 1996. Le parti in cui è inserita la<br />
figura del nano sono posteriori.<br />
23 Proemio al “Convito”, 1 gennaio 1895.
17] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
363<br />
Di questo esito tragico, che potrebbe ricordare il sacrificio<br />
muliebre nei riti funebri dell’India e dei Traci, D’Annunzio si<br />
ricorderà nella Fedra quando narrerà con una chiara simbologia<br />
erotica il rogo di Capaneo e di Evadne, uniti nell’ultimo<br />
amplesso sulla pira:<br />
Ed ella,<br />
avvolta di faville innumerabili,<br />
gridò: Salute, o Luce!<br />
Immensa face nuziale è accesa<br />
A novissime nozze.<br />
Una cenere sola<br />
Innanzi l’alba Evadne<br />
Sia con l’eroe ch’Evadne<br />
Ama, alle Porte del Buio una sola<br />
Ombra, per l’Ellade una sola gloria 24 !<br />
Ma come non ricordare anche le parole di Massimilla, una<br />
delle tre sorelle delle Vergini delle rocce, che anela, anche se<br />
metaforicamente, al gesto delle concubine di Ercole:<br />
Un bisogno sfrenato di schiavitù mi fa soffrire. Mi divora<br />
un desiderio inestinguibile di donarmi tutta quanta, di appartenere<br />
ad un essere più alto e più forte, di dissolvermi nella<br />
sua volontà, di ardere come un olocausto nel fuoco della sua<br />
anima immensa 25 .<br />
Del mito di Ercole, D’Annunzio recupera la fine per fuoco.<br />
Ma ben altro è il senso di questa morte: qui l’estinzione non<br />
24 G. D’ANNUNZIO, Fedra, a cura di P. Gibellini, Milano, Mondadori,<br />
2001, vv. 527-536. Ma si veda anche Elegia campestre di Primo Vere: “Tu<br />
piangerai; e a me steso in funebre rogo / misti a tristi lagrime darai gli estremi<br />
baci”, vv. 61-62. E quindi l’Anniversario orfico di Alcyone: “Non odi i boschi<br />
patrii / offrirgli il rogo? / Mira funebre letto che s’appresta, / estrutto rogo”,<br />
vv. 55-58. Il modello è Seneca delle Troades che descrive la morte di Polissena<br />
nei termini di un rito nuziale.<br />
25 G. D’ANNUNZIO, Le verigini delle rocce, cit., p. 401.
364 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[18<br />
porta all’assunzione in Olimpo, al passaggio verso un pieno<br />
statuto di immortalità, all’apoteosi, ma a una resurrezione nella<br />
carne, un ritorno sulla terra tra quella stirpe d’eroi di cui parlava<br />
il poeta nel suo prologo e che addita ai vari Aurispa, Cantelmo,<br />
Stelio Èffrena. I versi introduttivi del poemetto, infatti,<br />
hanno la funzione di riportare il racconto a una contemporaneità<br />
che riconosca al protagonista del libro, lui per tutti, una<br />
sua assoluta centralità: “Ancor vivono errando fra l’attonita<br />
plebe gli umani ultimi eroi del buon sangue d’Alcide”, scrive<br />
D’Annunzio, usando per la prima volta un grande mito classico<br />
in funzione mitopoietica26 .<br />
D’Annunzio ci invita a leggere il testo come sovrapposizione<br />
del mito di Ercole con il proprio mito, secondo modelli che<br />
saranno propri di fasi seriori, in una rappresentazione autobiografica<br />
che tenti di eliminare l’errore del tempo. Il Preludio<br />
e il Commiato del libro ci convincono in questa lettura. In<br />
apertura D’Annunzio percorre la storia della propria poesia e<br />
nel testo finale, con un impeto di nietzschianesimo, saluta una<br />
nuova stagione poetica:<br />
Resti dietro di me la mia vergogna<br />
con le delizie morte<br />
e co’ fiori e co’ frutti di menzogna<br />
in su l’àrbori morte.<br />
Una più larga vita il cuor mio sogna<br />
e una più fiera morte.<br />
Nel Commiato dunque si saluta l’adolescente che, attraverso<br />
l’iniziazione, ha superato lo scacco femminile e si è inverato<br />
nella morte gloriosa di Ercole: ‘herotica-herioca’.<br />
26 Quasi un calco dei versi proemiali della Vénus rustique di G. DE MAU-<br />
PASSANT: “Les Dieux sont éternels. Il en naît parmi nous / Autant qu’il en<br />
naissait dans l’antique Italie, / Mais on ne reste plus des siècles à genoux, /<br />
Et, sitôt qu’ils sont morts, le peuple les oublie. / Il en naîtra toujours, et les<br />
derniers venus / Régneront malgré tout sur la foule incrédule: / Tous les héros<br />
sont faits de la race d’Hercule, / La vieille terre enfante encore des Vénus”.
19] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
365<br />
4. Abbiamo detto all’inizio del nostro discorso che D’Annunzio<br />
non tornerà più sul mito di Ercole, se non per cenni<br />
fugaci. L’assunzione della linea virile rimane condizionata a<br />
quella stagione della poesia, dove Ercole incarna, sì, l’eroe che<br />
passa il limite, ma solo quello della performance sessuale, eroe<br />
muscolare senza dimensione tragica. Gli eredi di Alcide “eroi<br />
della giovinezza” (ricordiamo il matrimonio di Ercole con<br />
Ebe), superando la fase vitalistica, si riconosceranno nel mito<br />
superomistico di stampo nietzschiano.<br />
Il commento al poemetto, di per sé inerte, ci autorizza a<br />
compiere un velocissimo percorso sul riuso del mito nell’opera<br />
dannunziana. Chiusa la prima stagione poetica, cui La tredicesima<br />
fatica si lega, il rapporto con il mito muta radicalmente,<br />
mutamento dovuto soprattutto al viaggio in Grecia del 1895 27 .<br />
Tendenza subito affermata nel rifacimento del Canto novo del<br />
’96, dove la vicenda amorosa stagionale, divisa con Lalla, della<br />
prima edizione del 1882, si traduce in una vera e propria esperienza<br />
mitica, in cui l’io poetico, il ‘Giovine’ si identifica nel<br />
‘Dio’ grecizzato.<br />
La Grecia diviene la sede dei grandi modelli tragici e mitici,<br />
dove il mito è rivissuto e totalmente risolto nell’identificazio-<br />
27 Da Primo vere fino, grosso modo, al Poema Paradisiaco D’Annunzio<br />
usa il mito in chiave carducciana o estetico-preraffaelita. Narra la nostalgia<br />
e il culto dell’antico, come nei versi di Suavia in Primo vere (1878): “Emergon<br />
trepide da’ flutti vitrei / l’ude Nereidi ne ’l vel di porpora, / e canti armoniosi<br />
/ giù pe’ declivi mescono”, vv. 33-36. Oppure ne assume la caratterizzazione<br />
estetizzante, di decor, come cesellatura dell’artifex. <strong>Mito</strong> come arabesco e favola,<br />
secondo una lettura della classicità filtrata dal Parnasse, il cui modello<br />
esemplare sono i Poèmes antiques di Leconte de Lisle. In questo senso si<br />
leggano i versi di un mito caro a D’Annunzio, quello dell’ermafrodito, narrato<br />
nell’Andrògine della Chimera: “Ermafrodìto, il semidio procace, / sta<br />
ne la fonte immerso / come in un letto d’oro; ed il ben terso / corpo dona<br />
a l’abbraccio di Salmace”, vv. 1-4. O quelli della Diana inerme (Chimera)<br />
che si anima in un paesaggio tutto sotto il segno numinoso delle teofanie:<br />
“Oh de le antiche iddie presente spirito! / Non quivi un giorno, in libero /<br />
D’erbe e di fior profondo letto, giacquero / Donne possenti e amarono? /<br />
[...] È Diana: così dorme da secoli. / Ma pur, quando a le tiepide / Lunazioni<br />
estive i boschi odorano, / si sveglia ella”, vv. 21-24 2 vv. 29-32.
366 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[20<br />
ne di D’Annunzio con altri eroi: nella Laus vitae D’Annunzio<br />
diventa l’alter ego di Ulisse, che si manifesta nel “rogo audace”,<br />
di Ermete, di Dioniso. Sono questi i modelli proteiformi<br />
cui D’Annunzio guarda: all’Ulisse che osa, e che cerca la<br />
“morte nell’Atto”. Il vedere, nella sua accezione diretta di sapere<br />
e conoscere, porta il poeta a fondare sullo sguardo la sola<br />
gnosi. L’Ulisse, incontrato, negli spazi d’inventio, durante il<br />
viaggio verso la Grecia, guardando, riconosce l’eletto, colui<br />
che saprà osare:<br />
“O Laertiade” gridammo,<br />
[...]<br />
“Prendici nella tua nave<br />
Tuoi fedeli insino alla morte!”<br />
Non pur degnò volgere il capo.<br />
[...]<br />
“odimi” io gridai<br />
sul clamor dei cari compagni<br />
“odimi, o Re di tempeste!<br />
Tra costoro io sono il più forte”.<br />
[...]<br />
e il fòlgore degli occhi suoi<br />
mi ferì per mezzo alla fronte.<br />
Nel viaggio iniziatico l’eroe, il nuovo ulissìde, tiene lo sguardo<br />
diritto, il “suo dèmone”, come per Alcibiade, è il rischio<br />
dagli “occhi irretirti” 28 . Mentre temporalità ed eternità si fondono<br />
nell’ambivalenza del puer-senex, rappresentata da Ermete.<br />
E nella rinascita, incarnata da Dioniso 29 . In Alcyone quindi<br />
D’Annunzio è il Fanciullo, il luogo è l’Ellade, la stagione è l’estate,<br />
il tempo non è quello lineare, teleologico, ma quello ciclico<br />
del mito: “Torna con me nell’Ellade scolpita / ove la pietra<br />
28 G. LONARDI, Alcibiade e il suo demone. Parabole del moderno tra<br />
D’Annunzio e Pirandello, Verona, Essedue, 1988.<br />
29 J. HILLMAN, Puer senex, Venezia, Marsilio, 1990.
21] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
367<br />
è figlia della luce / e sostanza dell’aere è il pensiere”. Il “soffio<br />
igneo” nietzschiano che lo sostiene: “Io son l’ultimo figlio degli<br />
Elleni: / m’abbeverai alla mammella antica; / ma d’un igneo<br />
dèmone son ebro”, riverbererà nella Vittoria navale.<br />
Ma la storia di Alcyone secondo un disegno poematico, assunto<br />
a posteriori, fa della raccolta anche il diario di un’estate<br />
con un suo percorso che si chiude nel volo impossibile sulle<br />
ali di Icaro. L’ultimo polo del diagramma mitografico di Alcyone,<br />
il Ditirambo IV, si presenta come celebrazione dell’illusione<br />
mitica che aveva presieduto a tutta l’ultima sezione del libro.<br />
Testimoniando con la vicenda di Icaro, eroe che s’innalza nel<br />
suo ‘folle volo’ e poi cade, l’impossibilità dannunziana a perpetuare,<br />
sullo stesso registro emozionale l’esaltante stagione<br />
della poesia, intrapresa nella felice estate di Romena. Con l’inclinarsi<br />
dei raggi solari, scema la tensione eroica-erotica del<br />
poeta, che si abbandona, nelle ultime liriche, alla malinconia<br />
dei Sogni di terre lontane.<br />
Si apre a questo punto una fase di passaggio, legata all’esilio<br />
francese, obbligato dalle pendenze economiche insolute.<br />
D’Annunzio ritornerà alla poesia pubblicando in pochi mesi<br />
Merope, nel 1912, per sostenere l’impresa libica e tra il 1915 e<br />
il 1918 comporrà per il primo conflitto mondiale i Canti della<br />
guerra latina.<br />
Ora l’eroico sogno dannunziano si riconosce nella forza dell’impresa<br />
vissuta e celebrata. Nella digressione da Laus vitae<br />
a Laus mei, contenuta in una carta preparatoria di Merope, si<br />
sostanza questa nuova volontà, tracciando la trascrizione finale<br />
del percorso mitopoietico iniziato da D’Annunzio con il<br />
primo libro di Maia. Il lessico muta e si fa religioso e biblico:<br />
l’identificazione non è più con i miti dell’Ellade, ma con il Cristo<br />
evangelico. Lo sguardo, allora fisso e ‘irretorto’ verso l’elusione<br />
dell’errore del tempo, ora si sposta sul “Galileo dalle<br />
rosse chiome”, il “Dio senza muscoli”, quel Dio irriso nella<br />
Laus vitae con il quale aveva da tempo ingaggiato un agone<br />
silenzioso. Se vedere è sapere, il nuovo alter ego è ora riconosciuto<br />
nella Contemplazione della morte, testo scritto nel 1912<br />
per l’agonia e la morte di Pascoli:
368 RAFFAELLA BERTAZZOLI<br />
[22<br />
Gran tempo io diffidai del Galileo come d’un nemico, per<br />
una provvidenza che nel nemico pone la salute del forte. Pur<br />
non temendo il “dio senza muscoli”, non m’avvenne di guardarlo<br />
negli occhi [...] Così, dopo aver cantato tutti gli iddii, canterò<br />
il mio dio verace [...] E ora so che il dio verace è quello a<br />
cui non si può disobbedire, quello contro cui non si può commettere<br />
peccato. E quello io debbo trovare e conoscere 30 .<br />
La liturgia cristiana ora offre i simboli di questa nuova ritualità<br />
della parola, attraverso cui passa anche l’autocelebrazione<br />
del cantore. Per D’Annunzio era giunto il momento di<br />
ritrovarsi attraverso una nuova fase, quella mistico-eroica del<br />
poeta armato31 . E l’appello va al Cristo patiens che conforta<br />
nella terribile esperienza della guerra.<br />
Questo è il percorso che D’Annunzio compie alla scoperta<br />
di quel “dio verace” di cui aveva parlato nella Contemplazione<br />
30 La Contemplazione della morte è scandita in quattro sezioni che presentano<br />
una struttura diaristica; accompagnano l’agonia e la morte di Giovanni<br />
Pascoli (avvenuta il 6 aprile 1912) e di Adolphe Bermond, amico e proprietario<br />
ad Arcachon dello Châlet Saint-Dominique (sull’Atlantico), dove<br />
D’Annunzio aveva preso dimora durante il suo forzato soggiorno francese.<br />
L’opera apparve con il titolo Per la morte di due amici e in quattro puntate<br />
(19 aprile, 28 aprile, 2 maggio, 12 maggio 1912) sul “Corriere della Sera”. La<br />
pubblicazione con il titolo definitivo vide la luce nel giugno del 1912 per i<br />
tipi dei Treves. Nell’edizione in volume compare il messaggio-dedica a “Mario<br />
da Pisa” dal quale è tratta la cit. (Cfr. La contemplazione della morte, in<br />
Prose di ricerca, III, Milano, Mondadori, 1964, pp. 203 e sgg.). La prefazione,<br />
che doveva inizialmente occupare solo “due o tre paginette, in corsivo, senza<br />
importanza”, avrebbe successivamente assunto un’autonoma configurazione<br />
nella struttura del testo. D’Annunzio lo precisa al suo editore con una lettera<br />
del 23 maggio 1912, a pochi giorni dalla pubblicazione del volume.<br />
31 E con gli stessi parametri può essere letto un dato interessante, raccolto<br />
dall’iconografia dannunziana. Nel 1921, pubblicando a Pescia il messaggio<br />
Vogliamo vivere indirizzato al legionario fiumano Alceste De Ambris,<br />
D’Annunzio chiedeva all’amico pittore Lorenzo Viani di decorare il testo<br />
con delle xilografie. Una di queste rappresenta un soldato con un elmetto<br />
sovrastato da un tralcio di alloro e da una corona di spine. Viani aveva fermato,<br />
con il tratto incisivo dell’arte, il senso ultimo di quella importante fase<br />
creativa che aveva accompagnato il poeta-soldato, riconoscendone l’atto simbolico<br />
del martirio e la forza eternizzante dell’arte.
23] Il riuso del mito: l’“Ercole” di D’Annunzio<br />
369<br />
della Morte. Imparare a conoscere il proprio dio era in fondo<br />
riconoscere se stesso come “verbo fatto carne”. Di quest’idea<br />
mitopoietica che investe, D’Annunzio soldato nei panni del<br />
Cristo, darà conto anche quel testo del Vangelo secondo l’Avversario,<br />
che verrà composto molto più tardi, nel 1924 32 e che<br />
ci riporta alle parole della Contemplazione della Morte. Ora,<br />
definitivamente, la legittimazione di sé non sta più nel guardare<br />
avanti, ma passa attraverso il guardarsi dentro, nel segno autoriflessivo<br />
del riconoscersi:<br />
Bisogna che alfine io lo guardi a dentro. Bisogna che il nemico<br />
lo interpreti e lo riveli. [...] Bisogna che il Vangelo secondo<br />
l’Avversario mi convinca infine ad amarlo [il Cristo]<br />
in me e ad amarmi in lui. Non lo vedrò grandeggiare se non<br />
lascerò grandeggiare il mio stesso dèmone 33 .<br />
Rifugiato nel suo eremo gardonese, contornato dai simboli<br />
di un “vivere inimitabile”, D’Annunzio si preparava a scrivere<br />
l’ultimo capitolo della sua vita. Nel Libro segreto, libro della<br />
memoria, costruito su un labile disegno e incentrato sui temi<br />
notturni della vecchiaia e della morte, la gioventù, quel primo<br />
mito ritrascritto su Ercole “centauro imberbe” e gli eroi della<br />
Grecia erano ormai lontani.<br />
32 Per la datazione dell’opera si veda il saggio di P. GIBELLINI, D’Annunzio<br />
dal gesto al testo, Milano, Mursia, 1995, pp. 63 sgg.<br />
33 G. D’ANNUNZIO, Il Vangelo secondo l’Avversario, in Prose di Ricerca,<br />
II, Milano, Mondadori, 1968, pp. 1-71.
«Commentari dell’Ateneo di Brescia» per l’anno 2007, Brescia 2012.