Un'accusa di plagio nelle arti figurative
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ALMAMARIA TANTILLO<br />
Un’accusa <strong>di</strong> <strong>plagio</strong> <strong>nelle</strong> <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong><br />
A Ignazio, che<br />
stu<strong>di</strong>a la retorica antica<br />
L’originalità buona [...] non è quella che<br />
non somiglia a alcuno: è ciò che resta<br />
irriducibile alla somiglianza ed è da essa<br />
garantito e con<strong>di</strong>zionato<br />
(E. MONTALE)*<br />
Nella recente mostra de<strong>di</strong>cata al Domenichino a Palazzo Venezia 1 è stato<br />
possibile vedere per la prima volta l’uno accanto all’altro due <strong>di</strong>pinti che sono<br />
stati al centro <strong>di</strong> una secolare controversia — senza precedenti, nel campo delle<br />
<strong>arti</strong> <strong>figurative</strong> — sul tema dell’imitazione e del <strong>plagio</strong>.<br />
Si tratta della Comunione <strong>di</strong> S. Girolamo <strong>di</strong> Agostino Carracci e del <strong>di</strong>pinto<br />
dello stesso soggetto che il Domenichino eseguì circa quin<strong>di</strong>ci anni dopo per la<br />
Chiesa romana <strong>di</strong> S. Girolamo della Carità.<br />
L’opera del Domenichino era stata scoperta al pubblico il 30 settembre del<br />
1614 alla presenza del car<strong>di</strong>nale Aldobran<strong>di</strong>ni, ed aveva ricevuto gran<strong>di</strong> elogi 2 .<br />
Il Domenichino era in quel momento l’interprete più promettente della scuola<br />
dei Carracci fra quanti erano rimasti a Roma dopo la morte <strong>di</strong> Annibale.<br />
Qualche anno dopo però il collega e rivale Lanfranco avrebbe accusato il pittore<br />
<strong>di</strong> aver “rubato” la composizione da quella del quadro del loro comune<br />
maestro Agostino Carracci. Per <strong>di</strong>mostrare la verità della sua affermazione, poiché<br />
l’opera <strong>di</strong> Agostino si trovava a Bologna, il Lanfranco ne fece circolare<br />
un’incisione all’acquaforte, fatta appositamente eseguire al suo allievo Perrier 3 .<br />
*Trovo questo passo del Montale citato a mo’ <strong>di</strong> epigrafe da P. V. MENGALDO in «Quaderni<br />
del Circolo filologico-linguistico padovano», I, 1966; esso è ripreso da G. B. CONTE,<br />
Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino, 1974, p. 20, nota 13.<br />
1 Domenichino, Roma, Palazzo Venezia ottobre 1996-gennaio 1997; Catalogo Electa,<br />
Milano 1996.<br />
2 R. SPEAR, Domenichino, New Haven, 1982, p. 176.<br />
3 L’episo<strong>di</strong>o è riportato da tutti i biografi: cfr. PASSERI, Vite de’ pittori, scultori e architetti,<br />
Roma ca 1673, ed. Roma, 1772, pp. 16-17; BELLORI, Le vite de’ pittori, scultori et architetti,<br />
Roma 1672, ed.a cura <strong>di</strong> E. Borea, Torino, 1973, p. 324; MALVASIA, Felsina pittrice. Vite<br />
de’ pittori bolognesi, Bologna 1673, ed. a cura <strong>di</strong> E. Zanotti, 1841, II, pp. 224-240.<br />
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Domenichino, Comunione <strong>di</strong> S. Girolamo
A. Carracci, Comunione <strong>di</strong> S. Girolamo<br />
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Almamaria Tantillo<br />
Il “caso” era destinato ad avere una lunga eco nella storiografia <strong>arti</strong>stica successiva.<br />
Esso è stato anche recentemente ripreso nell’ambito <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi stu<strong>di</strong> 4 .<br />
Per potere meglio intendere il suo significato e il suo impatto è però necessario<br />
<strong>di</strong>stinguere l’accusa del Lanfranco e le sue motivazioni dalle implicazioni<br />
successive che avrebbero amplificato il senso dell’episo<strong>di</strong>o.<br />
Un’accusa del genere era del tutto inconsueta. L’imitazione era infatti accettata,<br />
nel campo delle <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong>, come processo interno e prassi costitutiva<br />
inelu<strong>di</strong>bile dell’operare <strong>arti</strong>stico. Essa suonava tanto più sorprendente all’interno<br />
<strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione culturale comune ai due pittori, quella della scuola dei<br />
Carracci, che aveva fatto dell’imitazione e dello stu<strong>di</strong>o dei maggiori maestri —<br />
unita allo stu<strong>di</strong>o del vero <strong>di</strong> natura — uno strumento essenziale per il rinnovamento<br />
dell’arte, <strong>di</strong> contro all’astrazione formale dei manieristi.<br />
Agli inizi del secondo decennio del ’600 per altro la Comunione <strong>di</strong> S. Girolamo<br />
del Domenichino era apparsa un’opera nuova e eccezionale per la ricchezza<br />
espressiva; e il recente confronto in mostra ha consentito <strong>di</strong> valutare appieno<br />
la qualità dell’operazione fatta dal Domenichino.<br />
Accanto al ben calibrato <strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> Agostino, vero saggio <strong>di</strong> armonica combinazione<br />
tra <strong>di</strong>segno romano e colore veneziano, in accordo con l’obiettivo perseguito<br />
dai Carracci dalla fine del Cinquecento, la Comunione del Domenichino<br />
appare sconvolgente per l’illusionismo della rappresentazione 5 e per il pathos<br />
che la pervade, pur all’interno del solenne impianto compositivo.<br />
Nel fare del momento dell’eucarestia l’apice drammatico del racconto —<br />
concentrando intorno ad esso l’attesa dei presenti — e nel <strong>di</strong>latare il campo <strong>di</strong><br />
questo fino a coinvolgere, oltre l’altissima arcata, il respiro del paesaggio neoveneto<br />
sullo sfondo, il Domenichino ha trasformato completamente lo schema del<br />
<strong>di</strong>pinto <strong>di</strong> Agostino, alla luce <strong>di</strong> quella poetica degli “affetti”, che è il risultato<br />
insieme del realismo romano (sorto dall’inevitabile <strong>di</strong>alettica col Caravaggio) e<br />
della nuova sensibilità seicentesca per l’espressione.<br />
Da un volontario omaggio alla tra<strong>di</strong>zione è sortita un’opera innovativa, il cui<br />
potenziale drammatico, ottenuto con mezzi pittorici <strong>di</strong> eccezionale ricchezza —<br />
paragonabili, in questo momento, solo a quelli <strong>di</strong> Rubens — e con un ine<strong>di</strong>to<br />
uso della luce, si lascia in<strong>di</strong>etro il modello, dando luogo a una <strong>di</strong>versa intensificata<br />
apertura sulla realtà dei sentimenti.<br />
Nell’assumere a modello l’opera del suo maestro — esempio <strong>di</strong> rappresenta-<br />
4 A. BLUNT, Poussin’s Notes on Painting, in «Journal of the Warbury Institute», 1937-38,<br />
pp. 344-351; 348; R. SPEAR, op. cit., pp. 35-36; R. SPEAR, Plagiary or Reinterpretation, in<br />
«Art News», LXXXII, 1983, 121-23; E. CROPPER, The Ideal of Painting Pietro Testa’s<br />
Dusseldorf Notebook, Princeton University Press, 1984, pp. 122-28.<br />
5 Il Bellori (op. cit. p. 234) mette in luce quest’aspetto dell’illusionismo nella sua celebrata<br />
ecfrasis del <strong>di</strong>pinto: «Nella universale armonia e combinazione <strong>di</strong> luci et ombre [...] li<br />
corpi penetrano dentro et escono fuori dalla superficie...».<br />
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Un’accusa <strong>di</strong> <strong>plagio</strong> <strong>nelle</strong> <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong><br />
zione <strong>di</strong> un soggetto assai raro — Domenichino si inseriva all’interno <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione<br />
che legittimava la sua versione del fatto; e nello stesso tempo mirava ad<br />
attualizzarla accentuandone la funzione comunicativa; così che in ultima analisi<br />
la forza del suo “<strong>di</strong>scorso” poetico appare tale da non lasciare niente <strong>di</strong>etro <strong>di</strong><br />
sé, mostrando solo se stesso.<br />
Il proce<strong>di</strong>mento <strong>di</strong> imitazione-emulazione messo in atto dal Domenichino<br />
altro non era che la trasposizione in pittura <strong>di</strong> principi ben noti della tra<strong>di</strong>zione<br />
retorica antica 6 e nel contempo era l’applicazione dell’insegnamento ricevuto<br />
prima a Bologna, poi a Roma dallo stesso Agostino e da Annibale Carracci, che<br />
considerando lo stu<strong>di</strong>o delle «perfettissime opere» del passato il mezzo migliore<br />
per stimolare la fantasia creativa, avevano in<strong>di</strong>cato nell’imitazione, se guidata<br />
dal giu<strong>di</strong>zio, il fondamento dell’invenzione <strong>arti</strong>stica 7 .<br />
Il senso dell’operazione, come si <strong>di</strong>rà, non sarebbe sfuggito agli estimatori<br />
del Domenichino, come il Poussin, né alla maggior parte degli “inten<strong>di</strong>tori” tra i<br />
quali uno storiografo non p<strong>arti</strong>colarmente benevolo verso il Domenichino come<br />
il Malvasia.<br />
L’interrogativo, più volte sollevato anche dagli stu<strong>di</strong> recenti, è dunque su<br />
quali basi il Lanfranco poté muovere la sua accusa, e quali furono le reazioni del<br />
pubblico e dei committenti; e ancora, quali furono le ragioni che indussero più<br />
tar<strong>di</strong> a ritornare sulla questione e a farne un caso esemplare nel <strong>di</strong>battito su ciò<br />
che debba considerarsi novità nell’arte.<br />
Per dare una risposta alla prima <strong>di</strong> queste domande è necessario ripercorrere<br />
le <strong>di</strong>verse tappe della vicenda.<br />
L’accusa del Lanfranco infatti non venne sollevata appena scoperta la grande<br />
pala d’altare del Domenichino, ma alcuni anni dopo, quando tutti e due i pittori<br />
erano concorrenti nel tentativo <strong>di</strong> farsi assegnare la maggiore impresa pittorica<br />
del tempo, la decorazione della tribuna e della cupola <strong>di</strong> S. Andrea della Valle.<br />
Davanti a una commissione <strong>di</strong> tanta mole, il Lanfranco, già famoso per la<br />
“facilità” e la “risolutezza” delle sue invenzioni, poteva avere ogni interesse ad<br />
accusare il suo rivale, assai più <strong>di</strong> lui portato a un’accurata <strong>di</strong>sciplina formale, <strong>di</strong><br />
povertà inventiva e <strong>di</strong> incapacità a costruire complessi organismi decorativi<br />
senza il ricorso a schemi già elaborati da altri.<br />
Nella bottega <strong>di</strong> Annibale, che entrambi avevano frequentato, l’imitazione<br />
6 Lo Spear cita a questo proposito a mo’ <strong>di</strong> esempio l’Institutio oratoria <strong>di</strong> Quintiliano<br />
(X, ii,1-2).<br />
7 Si cita la bibliografia essenziale più recente sull’Accademia dei Carracci e la loro teoria<br />
<strong>arti</strong>stica: D. MAHON, Stu<strong>di</strong>es on Seicento Art and Theory, London 1947; C. DEMPSEY, Annibale<br />
Carracci and the beginnings of Baroque Style, Glückstadt, 1977; Gli esor<strong>di</strong> dei Carracci<br />
e gli affreschi <strong>di</strong> Palazzo Fava, in cat. Mostra, Bologna, 1984, pp. 293-326; C. DEMPSEY, The<br />
Carracci Academy, Academies of art between Renaissance und Romanticism, in «Leidshistorisch<br />
Jaàrboek», V-VI, 1087-88, pp. 33-43.<br />
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Almamaria Tantillo<br />
della maniera dei maestri era stata in<strong>di</strong>cata come lo strumento critico attraverso<br />
il quale ogni <strong>arti</strong>sta poteva giungere a formarsi una propria “maniera”, o un proprio<br />
stile. Era questo il senso della lezione del grande bolognese, rispecchiato<br />
dalla teoria dell’amico e letterato Giovan Battista Agucchi 8 .<br />
Sotto la guida del maestro questi <strong>di</strong>versi stili avrebbero dovuto confluire,<br />
come era già accaduto nella bottega <strong>di</strong> Raffaello, in un linguaggio unitario, in<br />
una lingua comune, quale era stata, a Roma, la lingua universale delle opere del<br />
grande urbinate 9 .<br />
Ma con la malattia e la morte <strong>di</strong> Annibale nel 1609, la compagine dei suoi<br />
giovani collaboratori si era sciolta e <strong>di</strong>spersa, le <strong>di</strong>fferenze si erano approfon<strong>di</strong>te<br />
e le <strong>di</strong>verse inclinazioni si erano definite più chiaramente, in una varietà <strong>di</strong> scelte<br />
stilistiche; e, come è naturale, ciascuno aveva cercato una propria strada,<br />
entrando talvolta in concorrenza e in conflitto con gli altri.<br />
Mentre il Domenichino, sostenuto dall’Agucchi, si qualificava come l’erede<br />
del “metodo” appreso dalle opere romane <strong>di</strong> Annibale, approfondendo la propria<br />
ricerca espressiva e traducendola, atttraverso un lungo processo <strong>di</strong> perfezionamento<br />
dell’immagine, in forme che risentivano dell’ideale plastico statuario del<br />
maestro, il parmense e correggesco Lanfranco elaborava un suo stile fortemente<br />
pittorico e contrastato, animato da un vigoroso <strong>di</strong>namismo, che si ispirava al<br />
Correggio e alla lezione <strong>di</strong> Ludovico Carracci.<br />
All’inizio del terzo decennio i tempi erano ormai maturi perché queste <strong>di</strong>vergenze<br />
e tensioni si trasformassero in una opposizione.<br />
Voci che denunciavano la irresolutezza e lo «stento» nell’opera del Domenichino<br />
del resto avevano già cominciato a circolare intorno al pittore, quando nel<br />
1618 era tornato a Bologna, dove le sue immense pale d’altare, per due chiese<br />
bolognesi la Madonna del Rosario e il M<strong>arti</strong>rio <strong>di</strong> S. Agnese, non avevano incontrato<br />
il favore dei compatrioti.<br />
Osservando i lunghi processi selettivi attraverso i quali il Domenichino arrivava<br />
alla stesura definitiva, i colleghi bolognesi, già prevenuti contro il fuoruscito,<br />
erano stati molto critici. Paragonavano sfavorevolmente l’aspetto statuario e<br />
“crudo” delle sue figure (che sarebbero poi piaciute a David e a Ingres) con la<br />
maniera “fusa” e pittorica dell’altro bolognese romanizzato, Guido Reni, ai loro<br />
occhi assai più “nobile”, e stimavano faticosa la sua elaborata ricerca formale,<br />
8 Per il testo dell’ Agucchi, cfr. MAHON, op. cit. e in p<strong>arti</strong>colare v. pag. 242: «E si vede<br />
ancor hoggi, che più allievi <strong>di</strong> un solo maestro, se ben tutti cercano d’imitar lui, e si conosce<br />
dalle opere loro, che sono <strong>di</strong> quella scuola: non<strong>di</strong>meno ciascuno vi pone certa qualità p<strong>arti</strong>colare,<br />
e propria a sé, che dagli altri lo <strong>di</strong>stingue».<br />
9 Cfr. S. GINZBURG, Domenichino e G. B. Agucchi, in Domenichino, cat. Mostra, Milano<br />
1996, pp. 125-126.<br />
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Un’accusa <strong>di</strong> <strong>plagio</strong> <strong>nelle</strong> <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong><br />
giu<strong>di</strong>candola come una prova <strong>di</strong> assenza <strong>di</strong> talento.<br />
«Pittore non nato, ma fatto a forza <strong>di</strong> stenti», lo avrebbe definito uno dei suoi<br />
più aspri detrattori, Alessandro Tiarini 10 .<br />
E la fortuna <strong>di</strong> cui il Domenichino avrebbe goduto rientrando a Roma, nel<br />
1621, sotto la protezione <strong>di</strong> un pontefice bolognese, Gregorio XV Ludovisi, non<br />
poteva che acuire il malanimo dei suoi rivali.<br />
A Roma, la Comunione <strong>di</strong> S. Girolamo, <strong>di</strong>pinta alcuni anni prima, non aveva<br />
perduto il suo fascino <strong>di</strong> opera <strong>di</strong>rompente per ricchezza e intensità, pur all’interno<br />
<strong>di</strong> uno schema classico, al punto da costituire ancora una temibile pietra <strong>di</strong><br />
paragone; se così non fosse stato, il Lanfranco non avrebbe tentato <strong>di</strong> scre<strong>di</strong>tarla<br />
come una copia. Vi erano anche le Storie <strong>di</strong> S. Cecilia in S. Luigi dei Francesi,<br />
<strong>di</strong>pinte dal Domenichino tra il 1614 e il 1615, che si apprestavano a <strong>di</strong>ventare<br />
un testo canonico per la spazialità raffaellesca e la sorvegliata naturalezza dei<br />
gesti e delle espressioni.<br />
Era con queste elette qualità che il Lanfranco doveva misurarsi nel momento<br />
in cui entrava in competizione con l’antico compagno, per l’aggiu<strong>di</strong>cazione del<br />
lavoro <strong>di</strong> S. Andrea della Valle.<br />
Il Lanfranco poteva contare anche su un argomento a proprio favore. Poiché<br />
la Comunione <strong>di</strong> S. Girolamo del Carracci non era a Roma, ma in una chiesa <strong>di</strong><br />
Bologna, egli poteva aver buon gioco nell’attribuire al Domenichino l’intenzione<br />
<strong>di</strong> aver voluto nascondere il suo modello, traendo in inganno il suo pubblico:<br />
faceva leva così sul <strong>di</strong>sappunto <strong>di</strong> quanti avevano creduto interamente originale<br />
l’opera del suo rivale.<br />
In questo senso, la polemica sorta proprio in quegli anni nell’ambiente dei<br />
letterati su che cosa sia furto <strong>arti</strong>stico e che cosa debba essere considerato novità<br />
nell’arte, si prestava ad offrirgli degli appigli, come ha suggerito E. Cropper 11 , e<br />
può aver contribuito a ispirare la sua accusa: tanto più in quanto il celebre personaggio<br />
che era al centro <strong>di</strong> tale clamore, il poeta G. B. Marino era ben noto<br />
anche per i suoi stretti legami con i pittori, a cominciare dai Carracci, e per i<br />
suoi rapporti col mondo delle <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong>, i cui legami con la poesia aveva<br />
sempre sottolineato 12 .<br />
In un vortice <strong>di</strong> reciproche mal<strong>di</strong>cenze e rappresaglie, il Marino aveva rimpro-<br />
10 V. MALVASIA, op. cit. II, p. 240; per la <strong>di</strong>chiarazione del Tiarini, ibidem, p. 234.<br />
11 E. CROPPER, op. cit., p. 123.<br />
12 Per Marino e le <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong> v. G. B. MARINO, Lettere, ed. a cura <strong>di</strong> M. GUGLIELMI-<br />
NETTI, Torino 1966; A. BORZELLI, Il Cavalier Marino con gli <strong>arti</strong>sti e la Galeria, Napoli<br />
1891; G. ACKERMANN, G.B.Marino’s contribution to Seicento Art Theory, in «Art Bulletin»,<br />
XLIII, 1961, 326-336; G. G. VIOLA, Il sogno <strong>di</strong> una Galeria: nuovi documenti, in «Antologia<br />
<strong>di</strong> Belle Arti», III, 1979, 9-12, pp. 84-99; M. FUMAROLI, Muta Eloquentia: la représentation<br />
de l’éloquence dans l’oeuvre de N.Poussin, in «Bulletin de la Société de l’ Histoire de l’Art<br />
français», 1982, 108, pp. 29-48; S. SCHÜTZE, Pittura parlante e poesia taciturna; il ritorno <strong>di</strong><br />
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Almamaria Tantillo<br />
verato alcuni suoi imitatori, come il bolognese Girolamo Preti, <strong>di</strong> aver attinto a<br />
piene mani dalle sue opere: ed era stato definito a sua volta «pubblico ladro <strong>di</strong><br />
tutto il meglio dei migliori, male da lui applicato e peggio usato» da un altro letterato,<br />
Ferrante Carlo 13 ; e qui le possibilità che il Lanfranco fosse al corrente <strong>di</strong> tali<br />
<strong>di</strong>spute si avvicina alla certezza, poiché Ferrante Carlo, come lui parmense, se<br />
sarebbe <strong>di</strong>mostrato <strong>di</strong> lì a poco suo sostenitore ed esegeta, in qualità <strong>di</strong> autore<br />
della «Descrittione» dei suoi affreschi nella cupola <strong>di</strong> S. Andrea della Valle 14 . Le<br />
maggiori polemiche tuttavia, seguirono la pubblicazione dell’Adone del Marino.<br />
Lo stesso Marino, prendendo la penna per rispondere a Tomaso Stigliani,<br />
(che nel suo poema Il mondo nuovo aveva ironicamente rappresentato uno strano<br />
animale acquatico, un «cavalier marino» che in forma <strong>di</strong> «pesciuom» o<br />
«scimmia <strong>di</strong> mar» nuotava lungo le coste dell’ America), aveva abilmente combinato<br />
insieme a propria auto<strong>di</strong>fesa tutti i topoi della retorica a proposito dell’imitazione,<br />
secondo una concezione <strong>arti</strong>stica non <strong>di</strong>ssimile da quelle dei<br />
Carracci.<br />
Il testo del Marino, una lettera all’Achillini 15 inclusa a prefazione della sua<br />
opera La Zampogna del 1620, è del massimo interesse per l’ampiezza dell’argomento<br />
e per la sua interpretazione polemica a proposito dell’assoluta libertà<br />
della compilazione e dell’uso delle fonti.<br />
Dopo una premessa in cui afferma che «l’incontrarsi con altri scrittori [...]<br />
può ad<strong>di</strong>venire [...] o per caso o per arte» e che può avvenire facilmente <strong>di</strong> imbattersi<br />
per caso negli stessi luoghi comuni, in quanto le cose belle sono poche,<br />
il Marino <strong>di</strong>stingue, a proposito dell’imitazione «fatta per arte o a bello stu<strong>di</strong>o»,<br />
tra traduzione, imitazione e furto: specificando che nel primo caso, quello della<br />
traduzione, non si può parlare <strong>di</strong> ruberia, in quanto si riprende da autori a tutti<br />
noti e riconoscibili. Nel secondo caso, poiché tutti naturalmente desiderano imitare<br />
(riferendosi, come egli preciserà, non alla imitazione della natura ma a<br />
quella dei maggiori capolavori dell’arte) non può essere giu<strong>di</strong>cato ladro chi<br />
accoglie in sé, come la terra i semi, le fantasie dei maestri più celebri e concepisce<br />
e crea a sua volta fantasie simili ma più belle, tanto che la fonte non è più<br />
G. B. Marino a Napoli. Il suo concetto <strong>di</strong> imitazione, in Documentary Culture, Florence and<br />
Rome from Grand Duke Fer<strong>di</strong>nand I to pope Alexander VII. Papers from a colloquium held at<br />
the L. Spelman, Florence 1990, (Bologna 1992) pp. 209-226.<br />
13 Cfr. C. DEL CORNO, Un avversario del Marino: Ferrante Carlo, in «Stu<strong>di</strong> Seicenteschi»,<br />
XV, 1975, pp. 69-150.<br />
14 Cfr. N. TURNER, Ferrante Carlo’s Descrittione della Cupola <strong>di</strong> S.Andrea della Valle<br />
depinta dal Cavalier Gio. Lanfranchi ..., in «Storia dell’Arte», 1971, pp. 297-325.<br />
15 CROPPER, op. cit. p. 121-28. Per la lettera all’ Achillini v. MARINO, Lettere, cit., n. 137,<br />
pp. 238-256; per la sua interpretazione v. GUGLIELMINETTI, Tecnica e invenzione nell’arte <strong>di</strong><br />
G. B. Marino, Firenze 1964; E. RAIMONDI, Alla ricerca del classicismo, in Anatomie seicentesche,<br />
Pisa 1966, pp. 27-41; S. SCHÜTZE, op. cit. p. 217-8.<br />
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Un’accusa <strong>di</strong> <strong>plagio</strong> <strong>nelle</strong> <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong><br />
riconoscibile. Qui il Marino <strong>di</strong>stingue tra imitazione negli «universali», cioè<br />
«nella invenzione e <strong>nelle</strong> cose» che è più agevole nascondere, e imitazione nel<br />
p<strong>arti</strong>colare che è imitazione «<strong>nelle</strong> sentenze e <strong>nelle</strong> parole»; e porta ad esempio<br />
l’Ariosto che, imitando l’universale, ha superato il Tasso, imitatore soprattutto<br />
del p<strong>arti</strong>colare, nel <strong>di</strong>ssimulare le sue fonti. Per quanto riguarda il furto, che il<br />
Marino sottolinea quanto sia <strong>di</strong>fficile <strong>di</strong>stinguere dalla «imitazione <strong>di</strong>ssimulata»,<br />
egli ammette <strong>di</strong> aver potuto rubare qua e là in quanto è uso, fin dalla giovinezza,<br />
tenere uno zibaldone in cui ha annotato, dai libri letti, tutte le cose a lui utili,<br />
come fanno del resto tutti gli scrittori: ma sfida i «ladroncelli» suoi detrattori a<br />
saper nuotare nel mare profondo come fa lui (con evidente riferimento alla metafora<br />
del pesceuom) e a ritrovargli addosso la preda, se egli stesso non la rivela,<br />
perché ciò che conta è la scelta <strong>di</strong> quanto entra nello Zibaldone e tale scelta è<br />
affidata al giu<strong>di</strong>zio o al «capriccio» <strong>di</strong> ciascuno, e ogni intelletto è <strong>di</strong>verso dall’altro.<br />
Da questa scelta delle fonti e della loro combinazione, affidata al giu<strong>di</strong>zio<br />
(e tanto più rara e abile, quanto più raro è l’intelletto) scaturisce, paradossalmente,<br />
la novità dell’invenzione. «E se non hanno spirito atto a saper inventare<br />
novità» conclude, rivolto ai rivali, «né dottrina da poter scrivere con fondamento,<br />
riveriscano e ammirino coloro che l’hanno [...]».<br />
L’abile auto<strong>di</strong>fesa del Marino è in realtà una <strong>di</strong>fesa dell’imitazione giu<strong>di</strong>ziosa,<br />
accompagnata dal talento. Il Marino infatti escludendo dal linguaggio poetico<br />
l’imitazione della natura, si riferisce unicamente a «quella che c’insegna a<br />
seguire le orme dei maestri più celebri», che è inevitabile in quanto le cose belle<br />
sono state tutte già dette.<br />
La tra<strong>di</strong>zione non ci ha riportato l’eco <strong>di</strong> voci favorevoli all’accusa del Lanfranco:<br />
ma è lecito pensare che seppure ve ne furono, il suo autore non trovò<br />
tutto il cre<strong>di</strong>to che si aspettava, perché il Domenichino ottenne egualmente l’incarico<br />
<strong>di</strong> affrescare la tribuna e i pennacchi <strong>di</strong> S. Andrea, mentre a lui veniva affidato<br />
l’affresco della cupola. Evidentemente i contemporanei e i committenti<br />
avevano interpretato la questione come conseguenza <strong>di</strong> una <strong>di</strong>sputa tra <strong>arti</strong>sti<br />
rivali.<br />
Il caso tuttavia, sollevato alla vigilia <strong>di</strong> un confronto che avrebbe messo in<br />
luce, proprio nella decorazione <strong>di</strong> S. Andrea, insieme a due <strong>di</strong>versi esiti <strong>di</strong> un<br />
metodo comune, anche un cambiamento in atto nella visione <strong>arti</strong>stica e l’affermarsi<br />
<strong>di</strong> una nuova tendenza (<strong>di</strong> cui il Lanfranco sarebbe stato il protagonista),<br />
assai più rispondente alle istanze <strong>di</strong> coinvolgimento e <strong>di</strong> novità che erano maturate<br />
nel frattempo, avrebbe acquistato retrospettivamente, il carattere <strong>di</strong> un episo<strong>di</strong>o<br />
premonitore.<br />
La duplice commissione <strong>di</strong> S. Andrea segna infatti visibilmente la linea <strong>di</strong><br />
demarcazione e il punto <strong>di</strong> massima <strong>di</strong>vergenza — all’interno <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione<br />
culturale comune — tra un’arte ancorata ai principi della verosimiglianza e dell’or<strong>di</strong>ne<br />
e quin<strong>di</strong> ad una rappresentazione dello spazio pittorico secondo le rego-<br />
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Almamaria Tantillo<br />
le della prospettiva tra<strong>di</strong>zionale, (anche se con una straor<strong>di</strong>naria <strong>di</strong>latazione e<br />
tensione della forma) riconoscibili nei pennacchi e nella tribuna <strong>di</strong>pinti dal<br />
Domenichino, e una nuova tendenza figurativa che sovverte le norme della prospettiva<br />
e della verosimiglianza, e, al fine <strong>di</strong> coinvolgere l’intelletto e l’immaginazione<br />
dello spettatore nella visione dello spazio ultraterreno, toglie consistenza<br />
alla forma e la <strong>di</strong>ssolve in un vortice luminoso, giungendo per la prima volta<br />
nella cupola del Lanfranco — come <strong>di</strong>rà il Passeri — «a <strong>di</strong>lucidare l’apertura <strong>di</strong><br />
una gloria celeste con la viva espressione <strong>di</strong> un immenso luminoso splendore» 16 .<br />
Ancora una volta il pubblico si <strong>di</strong>vise in fazioni a sostegno dell’uno o dell’altro<br />
maestro 17 . Erano in gioco anche due <strong>di</strong>verse concezioni della pittura <strong>di</strong><br />
storia: una legata alla tra<strong>di</strong>zione classica, basata sulla <strong>di</strong>stribuzione e la composizione<br />
delle p<strong>arti</strong>, l’altra orientata a fondere i <strong>di</strong>versi momenti e ruoli della rappresentazione<br />
in virtù <strong>di</strong> quella «licenza» che è consentita all’arte. Tempi brevi<br />
avrebbero <strong>di</strong>mostrato quale dei due sarebbe risultato vincente.<br />
E così che, visto a posteriori, alla luce dei risultati raggiunti a S. Andrea, l’episo<strong>di</strong>o<br />
dell’accusa sarebbe stato letto come prefigurazione della tensione tra<br />
due <strong>di</strong>verse visioni <strong>figurative</strong>, assumendo il carattere <strong>di</strong> un’opposizione tra tra<strong>di</strong>zione<br />
e innovazione, tra “classicismo barocco” e “pieno barocco” 18 .<br />
Si tratta naturalmente <strong>di</strong> una proiezione che supera i termini temporali e i<br />
moventi reali; nel momento in cui nacque, l’accusa del Lanfranco non era giustificata<br />
da <strong>di</strong>vergenze teoriche <strong>di</strong> fondo circa l’uso, da parte del Domenichino,<br />
<strong>di</strong> convenzioni per lui superate.<br />
Essa tendeva a mettere in luce, insieme probabilmente all’inganno or<strong>di</strong>to<br />
contro il pubblico, la presunta povertà inventiva del Domenichino, in quanto il<br />
Lanfranco non capì o volutamente ignorò 19 il contenuto umano e religioso che<br />
innovava, nell’opera del suo antico compagno <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>, la stessa pittura <strong>di</strong> storia<br />
intesa quale «rappresentazione <strong>di</strong> azioni umane». Così facendo non c’è dubbio<br />
che il Lanfranco opponesse implicitamente alla solenne retorica <strong>di</strong> quella concentrata<br />
rappresentazione degli affetti, la sua visione più <strong>di</strong>namica e aperta, e<br />
l’eccezionale capacità <strong>di</strong> realizzare un’unità visiva e emozionale della «historia»<br />
(come egli stesso, attraverso il suo esegeta Ferrante Carlo, definì la sua Assunzione<br />
della Vergine nella cupola <strong>di</strong> S. Andrea), attraverso una molteplicità <strong>di</strong> elementi<br />
e <strong>di</strong> forme in movimento.<br />
Ma non metteva certo in <strong>di</strong>scussione la vali<strong>di</strong>tà del principio dell’imitazione.<br />
Infatti nello stesso modo in cui il Domenichino aveva ripreso nel suo quadro il<br />
tracciato della Comunione <strong>di</strong> Agostino Carracci, così il Lanfranco, nella cupola<br />
366<br />
16 PASSERI, op. cit. p. 137.<br />
17 PASSERI, op. cit. p. 139.<br />
18 BLUNT, op. cit. p. 348.<br />
19 R. SPEAR, op. cit., pp. 35-36.
Un’accusa <strong>di</strong> <strong>plagio</strong> <strong>nelle</strong> <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong><br />
<strong>di</strong> S.Andrea, prese a modello lo schema generale dell’affresco del Correggio<br />
nella cupola del Duomo <strong>di</strong> Parma.<br />
È significativo che il suo esegeta Ferrante Carlo tenga a farlo notare 20 , fiero<br />
<strong>di</strong> quest’omaggio al nume <strong>arti</strong>stico <strong>di</strong> Parma; egli infatti sottolinea come il suo<br />
protetto, che «per longo corso d’anni posti <strong>nelle</strong> famosa scola dei Carracci»<br />
aveva sviluppato «una cotal sua propria maniera, che lo <strong>di</strong>stingue da quanti altri<br />
hanno sin’hora <strong>di</strong>pinto», non senza aver tuttavia <strong>di</strong>mostrato <strong>di</strong> essere in grado <strong>di</strong><br />
rappresentare «nei suoi componimenti et opere, qualsivoglia delle più celebrate<br />
maniere <strong>di</strong> Italia», ha qui imitato «meravigliosamente» il Correggio. In<strong>di</strong>cando<br />
la somiglianza tra l’opera del Correggio e quelle del Lanfranco nella composizione,<br />
nell’uso della luce e nella grazia e facilità delle figure, Ferrante Carlo aggiunge:<br />
«Questa è la dolcezza e la soavità della maniera del Correggio, che già<br />
poco fu conosciuta, e perciò meno imitata <strong>nelle</strong> romane accademie da i pittori <strong>di</strong><br />
queste scuole, perché vedendo la <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> porla in opera, hanno potuto più<br />
facilmente ammirarla che ottenerla» 21 .<br />
Il grande merito del Lanfranco consiste dunque nell’avere scelto un modello<br />
eccezionale e tuttavia ben noto, quello del maggior pittore della sua città natale;<br />
e <strong>di</strong>mostrando un singolare giu<strong>di</strong>zio nella scelta e ottenendo <strong>di</strong> emulare un testo<br />
<strong>di</strong>fficile, ha creato, rispetto alle «romane accademie» un’opera ine<strong>di</strong>ta e <strong>di</strong>versa.<br />
Il Carlo sente il bisogno <strong>di</strong> <strong>di</strong>fendere il Lanfranco in un punto che poteva<br />
essere oggetto <strong>di</strong> <strong>di</strong>scussione sulla base del principio dell’unità aristotelica <strong>di</strong><br />
tempo e <strong>di</strong> luogo: l’aver rappresentato simultaneamente nella cupola intorno<br />
all’Assunta gerarchie celesti, santi, religiosi e fedeli; è ciò che egli definisce<br />
«anacronismo» e che <strong>di</strong>fende invocando quella licenza poetica che è giustificata<br />
nel poema epico 22 . La pittura, come la poesia, attiene alla «virtù fantastica» <strong>di</strong>rà<br />
il Carlo. E come tale, a somiglianza dell’epica, può porre insieme cose che secondo<br />
la verosimiglianza non potrebbero essere congiunte. Grazie a questo processo<br />
Lanfranco ha trasformato l’attuale evento storico dell’Assunzione della<br />
Vergine in una visione che la celebra in tutti i tempi 23 .<br />
Anche se Ferrante Carlo non menziona gli affreschi del Domenichino (che<br />
oggi 24 sappiamo essere stati eseguiti nel tempo stesso in cui Lanfranco <strong>di</strong>pingeva<br />
l’Assunta nella cupola) l’accorta <strong>di</strong>sposizione dei suoi argomenti e il riferimento<br />
all’«anacronismo», fanno supporre che egli desiderasse prevenire ogni<br />
20 TURNER, op. cit. appen<strong>di</strong>ce, p. 322.<br />
21 Cfr. TURNER, op. cit., p. 323.<br />
22 TURNER, op. cit., p. 305: «il poeta epico colloca i suoi caratteri in scene <strong>di</strong> un superiore<br />
or<strong>di</strong>ne temporale non ristretto al momento reale» (trad.dell’autrice).<br />
23 TURNER, op. cit., p. 324; l’autore in<strong>di</strong>ca l’opera <strong>di</strong> I. MAZZONI, Della <strong>di</strong>fesa della comme<strong>di</strong>a<br />
<strong>di</strong> Dante, Cesena, 1587, come possibile fonte d’ispirazione del Carlo a proposito della<br />
<strong>di</strong>fferenza tra scrittori <strong>di</strong> storia e poeti ; tra «imitazione icastica» e «imitazione fantastica».<br />
24 V. SPEAR, op. cit., I, pp. 242-245.<br />
367
Almamaria Tantillo<br />
commento negativo <strong>di</strong> parte classicista, soprattutto nel confronto con le Storie <strong>di</strong><br />
S. Andrea che il Domenichino aveva rappresentato in corretta sequenza, e quin<strong>di</strong><br />
nel rispetto dell’unità temporale, nella volta della tribuna.<br />
Nonostante l’ammirazione che venne tributata alla pittura del Domenichino<br />
il confronto <strong>di</strong> S.Andrea segnò <strong>di</strong> fatto il declino della fortuna del pittore, <strong>di</strong><br />
fronte all’affermarsi delle nuove tendenze. Ne sarà la prova, nel 1629, l’opposizione<br />
del Car<strong>di</strong>nale Francesco Barberini alla sua elezione a principe dell’Accademia<br />
<strong>di</strong> S. Luca. Significativamente il potente car<strong>di</strong>nal nipote, imporrà agli<br />
accademici che avevano votato per il Domenichino, <strong>di</strong> accettare invece come<br />
principe il cavalier Bernini 25 .<br />
Comunque si voglia leggere questo episo<strong>di</strong>o è certo che il Bernini appariva<br />
ai Barberini molto più adatto alla <strong>di</strong>ffusione della loro politica culturale. Domenichino<br />
così veniva ufficialmente bruciato. La questione del confronto tra la<br />
Comunione <strong>di</strong> S. Girolamo e quella <strong>di</strong> Agostino sarebbe però riemersa allo<br />
scadere del quarto decennio del secolo, riproposta criticamente tra interlocutori<br />
ora ben consapevoli <strong>di</strong> rappresentare posizioni teoriche <strong>di</strong>stinte.<br />
Alla metà degli anni ’30 del ’600 la questione se un soggetto storico debba<br />
essere rappresentato con molte o poche figure aveva <strong>di</strong>viso i pittori. Nell’ambito<br />
<strong>di</strong> una <strong>di</strong>scussione tra il Sacchi e Pietro da Cortona nell’Accademia <strong>di</strong> S. Luca<br />
26 , il Sacchi e i seguaci della teoria classica dell’arte, sostenevano la necessità<br />
<strong>di</strong> composizioni con poche figure. Secondo la loro teoria, la pittura <strong>di</strong> storia dovrebbe<br />
essere resa attraverso l’espressione, il gesto e il movimento. Solo <strong>nelle</strong><br />
composizioni con poche figure, a ciascuna figura può essere assegnata una parte<br />
<strong>di</strong>stinta in virtù della sua espressione, gestualità e movimento, ed essa può contribuire<br />
con il suo ruolo all’insieme. In una composizione affollata, le singole<br />
figure perdono in<strong>di</strong>vidualità e specifico significato.<br />
La <strong>di</strong>sputa era nata intorno al’interpretazione <strong>di</strong> un passo della Poetica <strong>di</strong><br />
Aristotele. Ricorrendo al paragone ormai canonico tra arte poetica e arte figurativa,<br />
il Sacchi sosteneva che una pittura <strong>di</strong> storia deve essere letta come la trage<strong>di</strong>a,<br />
in cui ogni figura ha il suo ruolo e vige l’unità aristotelica <strong>di</strong> tempo e luogo.<br />
In posizione opposta rispetto ai “classicisti”, Pietro da Cortona, accettando<br />
anch’egli il confronto tra la pittura e la poesia, era invece favorevole alla composizione<br />
con molte figure, paragonando la pittura <strong>di</strong> storia, più che alla trage<strong>di</strong>a,<br />
alla poesia epica. Come questa, un <strong>di</strong>pinto può avere un solo tema e molti<br />
25 Cfr. PERINI, in Domenichino, cat. Mostra, cit., 1996, p. 97, nota 81, per questa notizia<br />
finora ine<strong>di</strong>ta.<br />
26 Per la questione, v. M. MISSIRINI, Memorie per servire alla storia della romana Accademia<br />
<strong>di</strong> S. Luca, Roma 1823, pp. 111-113; R. WITTKOWER, Art and Architecture in Italy,<br />
1600-1750, Harmondsworth, 1965, pp. 171-73; A. SUTHERLAND HARRIS, Andrea Sacchi,<br />
Oxford, 1977, pp. 27-30; 33-37 e 45, nota 17.<br />
368
Un’accusa <strong>di</strong> <strong>plagio</strong> <strong>nelle</strong> <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong><br />
episo<strong>di</strong>, ad esso subor<strong>di</strong>nati; paragonabili, questi ultimi, al coro della trage<strong>di</strong>a.<br />
Ciascuno dei due <strong>arti</strong>sti si riferiva al proprio modo <strong>di</strong> operare, ricollegandosi<br />
implicitamente nel contempo ad esempi precedenti, ben in<strong>di</strong>viduabili nella pittura<br />
del Domenichino da una parte e <strong>di</strong> quella del Lanfranco dall’altra.<br />
Di questo implicito richiamo, e del rinnovato interesse per il confronto, è<br />
prova la stampa <strong>di</strong> Giovan Cesare Testa, riproducente la Comunione <strong>di</strong> S. Girolamo<br />
del Domenichino, pubblicata per l’e<strong>di</strong>tore Collignon, intorno al 1650 27 ,<br />
che reca la <strong>di</strong>dascalia : «Opera in Roma del gran Domenichino, che per la forza<br />
<strong>di</strong> tutti i numeri dell’arte, per l’ammirabile espressione degli affetti, con dono<br />
specialissimo della natura si rende immortale e sforza, non che altri, l’invi<strong>di</strong>a a<br />
meravigliarsi e a tacere».<br />
A quella data Domenichino era morto, ma le sfortunate vicende dei suoi ultimi<br />
anni — il suo trasferimento a Napoli e il conseguente isolamento, nonché le<br />
critiche che accolsero la sua ultima opera nella Cappella del Tesoro in S. Gennaro<br />
a Napoli —, sembravano confermare, secondo alcuni, l’avvenuto superamento<br />
e il definitivo giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> inadeguatezza ai tempi della sua “maniera”.<br />
Secondo altri invece erano la prova della sorte travagliata che talvolta accompagna,<br />
in tempi <strong>di</strong> drammatici rivolgimenti, i gran<strong>di</strong> e sfortunati sostenitori,<br />
<strong>di</strong> principi intramontabili, quali il primato della <strong>di</strong>sciplina sull’improvvisazione,<br />
quello della chiarezza e dell’equilibrio (ispirati alla grandezza universale <strong>di</strong>dascalica<br />
della idea raffaellesca) sulla esuberanza della figuratività barocca, principi<br />
che affermavano la superiorità dell’arte che fa appello alla mente, stimolando<br />
processi intellettuali e <strong>di</strong> comprensione, rispetto a quella che mira a commuovere<br />
ed esaltare i sensi dello spettatore.<br />
Per questa via il Domenichino, dopo morto, trovava sostenitori nei pittori <strong>di</strong><br />
in<strong>di</strong>rizzo classicista.<br />
Il <strong>di</strong>lemma che veniva posto ora non era soltanto se la sua Comunione era<br />
davvero da giu<strong>di</strong>care, come sostenevano il Sacchi e il Poussin, una «delle maggiori<br />
glorie del pennello», inferiore solo alla Trasfigurazione <strong>di</strong> Raffaello, ovvero,<br />
come aveva affermato il Lanfranco, una copia del capolavoro <strong>di</strong> Agostino.<br />
La questione si poneva nei termini <strong>di</strong> cosa fosse novità in pittura, alla luce <strong>di</strong><br />
due <strong>di</strong>versi mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> concepire «l’invenzione». Il Poussin l’avrebbe risolto, con<br />
una riconferma della vali<strong>di</strong>tà del principio dell’imitazione ideale, rovesciando in<br />
termini <strong>di</strong> contenuto, e secondo il proprio concetto <strong>di</strong> «invenzione», il confronto<br />
istituito a suo tempo dal Lanfranco.<br />
«La novità in pittura», egli avrebbe detto in un famoso passo riportato dal<br />
Bellori 28 , «non consiste principalmente nel soggetto non più veduto, ma nella<br />
27 Per l’incisione, v. SUTHERLAND HARRIS, Notes on the chronologie and death of Pietro<br />
Testa, in «Paragone» n.213, 1967, p. 57, n.90; E. CROPPER, op. cit., pp. 123-4.<br />
369
Almamaria Tantillo<br />
buona e nuova <strong>di</strong>sposizione ed espressione, e così il soggetto dall’essere comune<br />
e vecchio <strong>di</strong>viene singolare e nuovo. Qui conviene il <strong>di</strong>re della Comunione <strong>di</strong><br />
S. Girolamo del Domenichino, nella quale <strong>di</strong>versi sono gli affetti e li moti dall’altra<br />
invenzione <strong>di</strong> Agostino». Tale affermazione va integrata con un’altra<br />
dello stesso <strong>arti</strong>sta, riportato <strong>di</strong> seguito dal Bellori 29 su «come si deve supplire al<br />
mancamento <strong>di</strong> soggetto». «Se il pittore vuole svegliare negli animi la meraviglia,<br />
non avendo per le mani soggetto abile a partorirla, non introdurrà cose<br />
nuove e strane e fuor <strong>di</strong> ragione, ma constumi l’ingegno in rendere maravigliosa<br />
la sua opera per l’eccellenza della maniera, onde si possa <strong>di</strong>re: “Materiam superat<br />
opus”».<br />
Un analogo pensiero avrebbe espresso il Passeri 30 , il biografo più sensibile<br />
del Domenichino; egli non nega che il Domenichino abbia preso «qualche lume<br />
o concepito qualche emulazione dall’opera <strong>di</strong> Agostino». Ma fa notare come<br />
realizzando un’opera — che è comunque un gran quadro — dello stesso soggetto<br />
<strong>di</strong> quella del maestro, il Domenichino — e chiunque altro — non avrebbe<br />
potuto fare a meno <strong>di</strong> prendere in considerazione l’esito straor<strong>di</strong>nario già ottenuto<br />
da Agostino.<br />
Quanto al giu<strong>di</strong>zio del Bellori 31 , esso suona molto vicino a quello del Poussin.<br />
Riferendo dell’accusa <strong>di</strong> <strong>plagio</strong> mossa dal Lanfranco, egli così scriverà del<br />
quadro del Domenichino: «Ma tanto sono <strong>di</strong>fferenti li moti, gli affetti, e l’attioni<br />
delle figure, che seppure vi è qualche idea, non merita nome <strong>di</strong> furto, ma <strong>di</strong><br />
lodevole imitazione».<br />
Né si può omettere <strong>di</strong> citare il commento alla questione da parte del bolognese<br />
Malvasia, che spesso finge maliziosamente <strong>di</strong> confutare le accuse da altri<br />
rivolte contro il Domenichino al solo scopo <strong>di</strong> poterle riferire.<br />
In questo caso, tuttavia, utilizzando termini assai vicini a quelli dell’auto<strong>di</strong>fesa<br />
del Marino, egli riba<strong>di</strong>sce il ruolo dell’imitazione nell’invenzione e giustifica<br />
il Domenichino: «Ch’egli fosse un gran ladro, e le invenzioni a questo, o a<br />
quell’altro rubasse, non si può <strong>di</strong>re <strong>di</strong> un si’ grand’uomo che tanto, e sì profondamente,<br />
tutto sapea; onde, quand’anche ciò succeduto fosse, attribuir si deggia<br />
a un suo mero capriccio, non ad una necessità; avvenisse per sua elezione, non<br />
per malizia». D’altronde, egli aggiunge, «Qual pittore in qualche modo non ruba<br />
[...] giu<strong>di</strong>ciosamente ascondendo il furto?». «Gran maestri ancora non han fatto<br />
lo stesso, o tornando lor bene, o così ad essi insomma piacendo [...]?» 32 .<br />
In realtà, il Malvasia aveva già risolto il confronto tra l’opera <strong>di</strong> Agostino e<br />
370<br />
28 BELLORI, op. cit. p. 481.<br />
29 BELLORI, op. cit., p. 481.<br />
30 PASSERI, op. cit., p. 17.<br />
31 BELLORI, op. cit., p. 324.<br />
32 MALVASIA, op. cit., p. 240.
Un’accusa <strong>di</strong> <strong>plagio</strong> <strong>nelle</strong> <strong>arti</strong> <strong>figurative</strong><br />
quella del Domenichino, con un giu<strong>di</strong>zio a favore del primo; ma per ragioni <strong>di</strong><br />
gusto. Egli trova infatti che la Comunione del Domenichino mostra «palesemente<br />
la fatica, così tagliente per tutto, così dura e forzata; ove quella <strong>di</strong> Agostino<br />
[appare] così facile, propria e naturale e armoniosa, che pare fatta d’un soffio»<br />
33 . «La <strong>di</strong>fficoltà» farà <strong>di</strong>re il Malvasia all’Algar<strong>di</strong>, in un altro passo della<br />
biografia del Domenichino, «sta nella risoluzione e nella facilità, che solo è<br />
quella che possono [...] i gran<strong>di</strong> maestri» 34 .<br />
Il suo è un giu<strong>di</strong>zio estetico che non inficia sostanzialmente il principio dell’imitazione,<br />
e il suo ruolo nell’invenzione <strong>arti</strong>stica.<br />
Il cerchio si chiudeva; Domenichino veniva assolto dall’accusa <strong>di</strong> aver copiato<br />
a parere dei più essenzialmente perché aveva <strong>di</strong>pinto «un gran quadro», anche<br />
se non si poteva negare che egli avesse preso a prestito qualche idea dell’opera<br />
del suo maestro.<br />
I pittori filosofi poi, come il Poussin e il Testa, e gli uomini <strong>di</strong> cultura, riconoscevano<br />
nell’operazione da lui compiuta la consapevole adesione al principio<br />
dell’imitazione ideale «vecchia come Aristotele» 35 , ma riproposto nell’opera dei<br />
Carracci, teorizzato dall’Agucchi e riconfermato nella “idea” del Bellori, e pertanto<br />
lo rivalutavano ulteriormente, avendo il Domenichino dato nuovo contenuto<br />
«<strong>di</strong> moti <strong>di</strong> affetti» a uno schema ormai canonico.<br />
Estendendo il confronto alla trage<strong>di</strong>a e all’epica e ribadendo così lo stretto<br />
rapporto tra soggetto e realizzazione pittorica il <strong>di</strong>battito seicentesco intorno alla<br />
«pittura <strong>di</strong> storia» aveva sottolineato la convinzione <strong>di</strong> un’identità tra i processi<br />
creativi <strong>di</strong> pittura e poesia e le loro simili finalità; e coinvolgendo la parallela<br />
<strong>di</strong>scussione letteraria in<strong>di</strong>cava ulteriori argomenti nel processo <strong>di</strong> imitazione e<br />
emulazione legittimando criteri <strong>di</strong> giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong>versi, in merito a ciò che debba<br />
essere considerato novità e originalità nell’arte.<br />
33 MALVASIA, op. cit., p. 224.<br />
34 MALVASIA, op. cit., p. 225.<br />
35 R. LEE RENSSELAER, “Ut pictura poesis”: the humanistic theory of painting, in «Art<br />
Bulletin», XXX,1951, pp. 204-212.<br />
371