SOMM ARIO - La Tribuna
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010-043<br />
Appello<br />
<strong>SOMM</strong><strong>ARIO</strong><br />
010 - <strong>La</strong> natura giuridica dell’appello; 011 - Le tipologie di sentenze appellabili;<br />
013 - <strong>La</strong> legittimazione soggettiva ad appellare; 019 - L’appello incidentale; 021 - Il<br />
giudice competente; 022 - L’effetto devolutivo ed il divieto di reformatio in peius;<br />
027 - Le norme di giudizio applicabili al processo di secondo grado; 028 - Il procedimento<br />
in camera di consiglio; 033 - L’art. 600 c.p.p.; 035 - Gli atti preliminari al<br />
giudizio; 036 - <strong>La</strong> partecipazione delle parti eventuali al dibattimento di appello; 037<br />
- <strong>La</strong> rinnovazione dell’istruzione dibattimentale; 041 - Questioni di nullità; 042 - <strong>La</strong><br />
sentenza di appello.<br />
Riferimenti normativi: artt. 593-605.<br />
<strong>La</strong> natura giuridica dell’appello. L’appello è un mezzo di impugnazione ordinario,<br />
mediante il quale le parti chiedono al giudice di secondo grado di controllare<br />
una decisione di primo grado che ritengono viziata per motivi di fatto o di diritto<br />
(Ba r g i s, Impugnazioni, in AA.VV., Compendio di procedura penale, Padova 2008,<br />
pag. 852 e segg. Per una completa e recente analisi della fisionomia del giudizio di<br />
secondo grado, si veda, Ch i n n ic i, Giudizio penale di seconda istanza e giusto processo,<br />
Torino 2009). Si tratta, quindi, di un gravame parzialmente devolutivo ( 022),<br />
nel senso che la cognizione del giudice di appello è limitata dai motivi della impugnazione;<br />
a critica libera, potendo le censure essere di fatto o di diritto e investire<br />
errori in iudicando o in procedendo (v. To n i n i, Manuale di procedura penale, Milano<br />
2008, p. 751); di controllo della decisione impugnata in quanto il giudice utilizza,<br />
in genere, le risultanze probatorie acquisite in primo grado essendo la rinnovazione<br />
dell’istruttoria consentita solo in via eccezionale (Ba r g i s, Impugnazioni, in Conso-<br />
Grevi, Compendio di procedura penale, pag. 820).<br />
010<br />
L’art. 593 c.p.p. non riporta alcuna definizione dell’istituto in esame, esso, infatti, si<br />
limita a prevedere la facoltà per i soggetti legittimati – di cui si dirà infra ( 013)<br />
– ad interporre appello avverso determinate tipologie di sentenze. Trattandosi di un<br />
mezzo di impugnazione a critica libera non sono indicati in forma tassativa, né esemplificativa<br />
i motivi per i quali si può appellare la sentenza. In estrema sintesi, l’appello<br />
è identificabile come una vera e propria revisio prioris istantiae.<br />
Le tipologie di sentenze appellabili. In base alle norme generali in tema di<br />
impugnazioni ( 1850 ss.) (v. in particolare l’art. 568 c.p.p.) sussiste, in materia<br />
di impugnazioni, il c.d. principio di tassatività dei mezzi e dei rimedi impugnativi<br />
avverso questa o quella determinata tipologia di decisione giudiziale. In<br />
via residuale, ed in ottemperanza a quanto previsto dall’art. 111, comma 7, c.p.p.,<br />
si prevede che i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale<br />
e le sentenze, quando non sono altrimenti impugnabili, sono sempre suscettibili di<br />
ricorso per cassazione. Unica eccezione è quella delle sentenze sulla competenza<br />
che possono dare luogo ad un conflitto di giurisdizione o di competenza a norma<br />
dell’art. 28 c.p.p.<br />
011
011-012 Appello 20<br />
In linea di principio, sul piano oggettivo, il pubblico ministero ( 4870 ss.) e l’imputato<br />
( 2130 ss.) possono appellare le sentenze di condanna. In taluni casi, però, la legge<br />
pone dei limiti. Si tratta, anzitutto, delle sentenze di condanna a seguito di giudizio<br />
abbreviato ( 1659) che possono essere sempre appellate dall’imputato, mentre il<br />
pubblico ministero è legittimato nei soli casi in cui la sentenza di condanna modifichi il<br />
titolo di reato contestato (art. 443, comma 3, c.p.p.); le sentenze di applicazione della<br />
pena su richiesta delle parti ( 070 ss.) sono inappellabili per entrambi i protagonisti<br />
principali del processo; tuttavia, qualora il giudice applichi la pena ritenendo ingiustificato<br />
il dissenso del pubblico ministero, questi, ai sensi dell’art. 448, comma 2, c.p.p.,<br />
può appellare. Infine, per le sentenze che applicano misure di sicurezza il combinato<br />
disposto degli artt. 579 comma 2 e 680, comma 2, c.p.p. permette di appellare avanti<br />
al tribunale di sorveglianza contro le sole disposizioni che riguardano dette misure. Ai<br />
sensi del comma 3 dell’art. 593 c.p.p, rimangono inappellabili le sentenze di condanna<br />
per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda. Si sottraggono a questa<br />
regola sia le sentenze di condanna che contengono l’erronea applicazione della sola<br />
pena pecuniaria per una contravvenzione punita anche con pena detentiva (Cass., VI,<br />
2 dicembre 2002, n. 1644), sia le sentenze che nel caso della ritenuta continuazione tra<br />
una contravvenzione e un delitto, hanno assunto come più grave la pena dell’ammenda<br />
prevista per la contravvenzione, in quanto la condanna è intervenuta anche per un delitto<br />
(Cass., sez. V, 17 marzo 1994, Caputo, n. 5607) sia, per effetto di un orientamento delle<br />
Sezioni Unite che ha sanato un precedente contrasto giurisprudenziale, le sentenze di<br />
condanna ad un’ammenda applicata in tutto od in parte come sanzione sostitutiva di una<br />
pena detentiva (Cass., sez. I, 9 maggio 2006, n. 19086; Cass., sez. un., 3 febbraio 1995,<br />
n. 7902).<br />
012<br />
Con riguardo alle sentenze di proscioglimento occorre però tenere presente che la<br />
L. 20 febbraio 2006, n. 46, aveva eliminato la facoltà sia per il pubblico ministero,<br />
sia per l’imputato di appellare la sentenza di proscioglimento, che tuttavia poteva<br />
essere sottoposta a gravame soltanto quando questo fosse supportato dalla richiesta di<br />
assunzione di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, sempre<br />
che queste apparissero decisive. <strong>La</strong> Corte costituzionale, tuttavia, con due distinte<br />
decisioni di illegittimità costituzionale (C. Cost., 6 febbraio 2007, sent. n. 26, in Cass.<br />
pen. 2007, 1883, e C. Cost., 20 luglio 2007, sent. n. 320, in Cass. pen. 2007, 4419)<br />
ha ripristinato la facoltà del pubblico ministero di impugnare le sentenze di proscioglimento<br />
emesse in primo grado: quest’ultimo può quindi appellare tutte le sentenze<br />
di proscioglimento emesse in primo grado dai giudici professionali (non anche quelle<br />
del giudice di pace).<br />
<strong>La</strong> declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 593, comma 2, c.p.p. aveva<br />
lasciato inalterato il divieto, in capo all’imputato, di proporre appello contro la sentenza<br />
di proscioglimento salvo che una nuova prova decisiva fosse sopravvenuta o fosse stata<br />
scoperta dopo il giudizio di primo grado e, comunque, entro i termini per impugnare.<br />
L’impugnazione diveniva inammissibile se il giudice di appello, in via preliminare, non<br />
disponeva la rinnovazione della istruzione dibattimentale. Entro quarantacinque giorni<br />
dall’ordinanza che dichiarava l’inammissibilità, l’imputato poteva proporre ricorso per<br />
cassazione. (v., sul punto, la ricostruzione di Ba r g i s, Impugnazioni, in Conso - Grevi,<br />
Compendio cit. , pag. 853).<br />
Tuttavia, la Consulta (C. Cost., 4 aprile 2008, sent. n. 85, in Cass. pen. 2008, 3579) ha<br />
dichiarato l’illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 comma 2
21<br />
Appello<br />
013-015<br />
Cost. dell’art. 1 della L. n. 46 del 2006 “nella parte in cui, sostituendo l’art. 593, esclude<br />
che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati<br />
diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta<br />
eccezione delle ipotesi previste dall’art. 603 comma 2, se la nuova prova è decisiva”. <strong>La</strong><br />
Corte ha sottratto dalla declaratoria di incostituzionalità le sentenze di proscioglimento<br />
relative a contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa: queste<br />
ultime possono essere appellate soltanto dal pubblico ministero.<br />
Sono invece inappellabili per il solo imputato le sentenze di proscioglimento pronunciate<br />
nel giudizio abbreviato ( 1659): l’art. 443, comma 1, c.p.p. come modificato<br />
dall’art. 2 della l. n. 46 del 2006, è stato dichiarato incostituzionale nella parte in cui<br />
esclude che il p.m. possa appellare siffatte sentenze (C. Cost., 20 luglio 2007, sent. n.<br />
320, in Cass. pen. 2007, 4419); l’art. 469 c.p.p. dichiara non appellabile la sentenza<br />
predibattimentale di proscioglimento ( 5736) pronunciata in mancanza di una opposizione<br />
del pubblico ministero e dell’imputato; sono, inoltre, inappellabili sia per il p.m.<br />
sia per l’imputato le sentenze di non luogo a procedere ( 6177) stante il disposto di<br />
cui all’art. 428 c.p.p. come sostituito dall’art. 4 della L. n. 46 del 2006.<br />
<strong>La</strong> legittimazione soggettiva ad appellare. Il principio di tassatività ( 1854)<br />
contenuto nella disciplina generale delle impugnazioni non si ferma ad individuare le<br />
tipologie di sentenze appellabili, poiché esso si estende anche sul versante della legittimazione<br />
soggettiva ad impugnare la decisione giudiziale. Ed invero, l’art. 568 comma<br />
3 c.p.p. stabilisce che il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge<br />
espressamente lo conferisce. Se la legge non distingue tra le diverse parti, tale diritto<br />
spetta a ciascuna di esse.<br />
013<br />
Sotto questo profilo, secondo un indirizzo dottrinale, l’art. 593 c.p.p. svolge “il ruolo di<br />
norma-base che fissa, anche in termini ricognitivi, le regole della legittimazione ad appellare”<br />
(Tr a n c h i n a – Di Ch i a r a, voce Appello (dir. proc. pen.), in Enc. Dir., III Agg., Milano 1999,<br />
pag. 204). In linea del tutto generale, la facoltà di appellare spetta nella maniera più ampia<br />
al pubblico ministero ed all’imputato mentre, in via più ristretta, alle parti eventuali e ad<br />
altri soggetti (Bonetto, L’appello, in AA.VV., Le impugnazioni, coord. da Aimonetto, Torino<br />
2005, pag. 235).<br />
Con riferimento alla legittimazione ad appellare del pubblico ministero ( 4870<br />
ss.), è stato osservato in giurisprudenza che la legge attribuisce alla Corte di appello la<br />
cognizione generale sui gravami interposti avverso le sentenze di primo grado, sicché il<br />
rappresentante della Procura generale della Repubblica presso la Corte di appello ha una<br />
legittimazione ad appellare analoga a quella riservata al pubblico ministero presso il giudice<br />
di primo grado: le scelte del procuratore generale non sono affatto legate o dipendenti<br />
o condizionate da quelle eventualmente assunte dal p.m. di primo grado (Cass., sez. un.,<br />
28 aprile 2000).<br />
Appare invece contrastata in giurisprudenza la possibilità di interporre appello da parte<br />
del vice procuratore onorario. Secondo un primo indirizzo egli sarebbe legittimato<br />
(Cass., sez. III, 2 febbraio 1995, n. 2352); mentre, secondo un opposto orientamento,<br />
facente leva sul fatto che tra le attribuzioni del magistrato onorario non vi sarebbe<br />
ricompresa quella di presentare impugnazioni, questi non avrebbe alcuna legittimazione<br />
ad appellare (Cass., sez. III, 15 aprile 1997, n. 5146; Cass., sez. V, 8 febbraio 2005, n.<br />
11962).<br />
014<br />
015
016-019 Appello 22<br />
016<br />
017<br />
L’imputato ( 2130 ss.) può appellare la sentenza di primo grado personalmente<br />
ovvero per mezzo del suo difensore, di fiducia o d’ufficio (art. 571, comma 3, c.p.p.). In<br />
ordine alla legittimazione del difensore, la giurisprudenza ha precisato che questa deve<br />
sussistere sin dal momento nel quale il gravame viene proposto, non essendo possibile<br />
immaginare una “sanatoria” della carenza di potere inizialmente sussistente per effetto<br />
di una nomina intervenuta in un momento successivo al deposito del mezzo di impugnazione<br />
(Cass., 3 ottobre 1994).<br />
<strong>La</strong> parte civile ( 4210 ss.), può impugnare, agli effetti della responsabilità civile, la<br />
sentenza di condanna e quella di proscioglimento.<br />
<strong>La</strong> Suprema Corte a Sezioni unite (Cass., sez. un., 29 marzo 2007, n. 27614) ha affermato<br />
che: “la parte civile, anche dopo l’intervento sull’art. 576 c.p.p., ad opera dell’art.<br />
6 della legge n. 46 del 2006, può proporre appello, agli effetti della responsabilità civile,<br />
contro la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado”.<br />
018<br />
019<br />
Il querelante, ai sensi dell’art. 576, comma 2, c.p.p., può proporre impugnazione contro<br />
la sentenza di proscioglimento che lo ha condannato al pagamento delle spese del procedimento<br />
anticipate dallo Stato, nonché alle spese e al risarcimento del danno in favore<br />
dell’imputato e del responsabile civile. Il mezzo di impugnazione è quello previsto per<br />
la parte civile; l’impugnazione è limitata agli interessi civili.<br />
L’appello incidentale. L’istituto dell’appello incidentale, escluso dal codice del 1930<br />
in forza di una sentenza della Corte costituzionale (C. Cost., 17 novembre 1971, sent.<br />
n. 177, in Mass. Giur. It. 1971, 81), è stato reintrodotto nel vigente codice di rito al<br />
fine di scongiurare il ricorso all’impugnazione come espediente meramente dilatorio<br />
con una formulazione volta a superare le censure che ne avevano decretato la scomparsa<br />
(De l l’a n n o, sub Art. 595 c.p.p., in <strong>La</strong>ttanzi - Lupo, Codice di Procedura penale,<br />
Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Milano 2003, pag. 628). Sotto il profilo della<br />
denominazione dell’appello incidentale, in giurisprudenza – da lungo tempo - si è affermato<br />
il principio secondo cui, pur non essendo specificamente previsto che esso debba<br />
essere così qualificato, occorre tuttavia che la sua formulazione sia idonea a rendere<br />
evidente, anche implicitamente, che l’atto impugnativo possegga la caratteristica<br />
dell’incidentalità. Ciò poiché è necessario mettere la parte che ne viene a conoscenza<br />
in condizione di poter scegliere se insistere o meno nel proprio atto di gravame (Cass.,<br />
sez. I, 13 luglio 1993, n. 9403).<br />
Sotto il profilo della legittimazione, essa si è estesa a tutte le parti non impugnanti<br />
in via principale e si è codificata la perdita di efficacia dell’appello incidentale in<br />
caso di inammissibilità dell’appello principale o di rinuncia allo stesso. L’espresso<br />
rinvio dell’art. 595, comma 1, c.p.p. ai destinatari della notificazione o comunicazione<br />
di cui all’art. 584 c.p.p. induce a ritenere che legittimate a proporre appello incidentale<br />
siano tutte le parti nei cui confronti la legge prescrive che l’appello principale sia<br />
comunicato (pubblico ministero 4870 ss.) o notificato (imputato 2130 ss.,<br />
parte civile 4210 ss., responsabile civile 5120, persona civilmente obbligata per<br />
la pena pecuniaria 5136). In giurisprudenza si è consolidato il principio secondo<br />
cui, se la parte civile propone appello incidentale avverso la sentenza di proscioglimento,<br />
chiedendo la declaratoria di responsabilità dell’imputato agli effetti civili, con<br />
condanna al risarcimento dei danni ed alla rifusione delle spese, diviene ammissibile
23<br />
Appello<br />
019<br />
anche l’appello incidentale dello stesso imputato con il quale si chieda la condanna<br />
della parte civile al pagamento delle spese giudiziali di primo grado, in ordine alle<br />
quali il relativo giudice aveva omesso di provvedere. Ciò poiché si ritiene che tale<br />
richiesta riguardi un punto – e cioè quello relativo ai rapporti tra le parti in ordine<br />
alle spese – ricompreso nell’oggetto dell’impugnazione principale (Cass., sez. V, 16<br />
giugno 2004, n. 33885).<br />
L’appello incidentale si può proporre soltanto quando è consentito l’appello come<br />
mezzo di impugnazione. Ciò in forza del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione<br />
( 1854) di cui all’art. 568, comma 1, c.p.p. e del principio di accessorietà<br />
dell’appello incidentale a quello principale, di cui all’art. 595, comma 4, c.p.p. (Cass.<br />
sez. IV, 16 dicembre 1992, n. 1507). In base a tali principi si è affermato, relativamente<br />
al giudizio abbreviato, che il pubblico ministero non può proporre appello incidentale<br />
quando quello principale gli sia precluso (Cass., sez. un., 18 giugno 1993, n. 7247).<br />
Il rimedio deve essere attivato entro quindici giorni da quello in cui la parte ha<br />
ricevuto la comunicazione o la notificazione dell’appello principale: la cancelleria<br />
ha l’obbligo di notificare l’atto d’appello del p.m. non solo all’imputato, ma anche al<br />
difensore e il termine per proporre appello incidentale decorre solo dalla presenza di<br />
entrambe le notificazioni (Cass., sez. III, 8 ottobre 2004, n. 44903). L’inosservanza<br />
dell’obbligo di comunicare o notificare l’atto non cagiona l’inammissibilità dell’appello<br />
incidentale, che non è contemplata dall’art. 591 c.p.p. Unica conseguenza della<br />
violazione dell’art. 584 c.p.p. è di non fare decorrere per la parte privata il termine<br />
dell’impugnazione, ove la stessa sia consentita (Cass., sez. III, 11 novembre 1999).<br />
L’omessa notificazione dell’appello incidentale del pubblico ministero, oltre a non<br />
rendere quest’ultimo inammissibile, non determina nemmeno la nullità della sentenza<br />
di appello poiché non incide in alcun modo sulle prerogative difensive dell’imputato.<br />
Esso ha infatti piena conoscenza del contenuto dell’atto proveniente dal pubblico<br />
ministero durante il contraddittorio del giudizio di secondo grado (Cass., sez. VI, 25<br />
marzo 2003, n. 24184).<br />
Quanto alle modalità di presentazione l’art. 595 c.p.p. rinvia alle regole dettate per<br />
l’impugnazione principale sia per la forma, presentazione, spedizione, notificazione.<br />
L’appello incidentale deve necessariamente trovare i suoi limiti nei punti e nei capi<br />
della sentenza investita dall’appello principale; detto principio pur non essendo<br />
espressamente affermato in una specifica norma si desume dal sistema processuale nel<br />
suo complesso nonché da alcune disposizioni previste dal vigente codice di rito, prima<br />
fra tutte l’art. 595 c.p.p., per il quale l’appello incidentale perde efficacia in caso di<br />
inammissibilità dell’appello principale (v. Cass., sez. un., 17 ottobre 2006, n. 33). <strong>La</strong><br />
disposizione de qua, infatti, non avrebbe senso se l’appello incidentale potesse avere un<br />
contenuto devolutivo più ampio e comunque autonomo rispetto all’appello principale;<br />
inoltre, ove l’appello incidentale fosse autonomo rispetto a quello incidentale sarebbero<br />
vanificati i termini per proporre impugnazione tassativamente stabiliti a pena di decadenza.<br />
Alla luce di questo ordine sistematico appare, altresì, chiaro che, nel vigente<br />
codice di rito, è cambiata la ratio dell’appello principale, che non ha più una funzione<br />
deterrente dell’appello principale dell’imputato, ma più semplicemente una funzione<br />
antagonista dell’appello proposto dalle altre parti (Cass., sez. IV, 22 aprile 2004, n.<br />
31331). Il contrario orientamento, ad avviso del quale l’appello incidentale non incontra<br />
alcun limite derivante dal contenuto di quello principale (Cass., sez. II, 19 marzo 1992,<br />
n. 5521), appare oggi decisamente superato.
020-022 Appello 24<br />
020<br />
021<br />
022<br />
Quanto agli effetti dell’appello incidentale, qualora l’appello sia stato proposto dal<br />
pubblico ministero, si verifica una neutralizzazione del divieto di reformatio in peius<br />
come si ricava dal comma 3 dell’art. 595 c.p.p. secondo il quale l’appello del pubblico<br />
ministero produce gli effetti previsti dall’art. 597, comma 2, c.p.p. e nell’estensione<br />
dell’appello anche ai coimputati, la quale, come afferma la norma in esame, non può<br />
riguardare la posizione del coimputato non appellante che non partecipi al giudizio di<br />
appello. L’art. 595, comma 4, c.p.p. riconosce la dipendenza dell’appello incidentale<br />
da quello principale, prevedendo che la rinuncia dell’appellante principale e l’inammissibilità<br />
dell’impugnazione proposta in via principale fanno perdere efficacia<br />
all’ appello incidentale (Cass., sez. VI, 24 ottobre 2002, n.5337), mentre non sembra<br />
ammissibile una rinuncia preventiva (Cass., sez. I, 21 giugno 1995). Sebbene non<br />
previsto, anche l’appellante incidentale va condannato al pagamento delle spese se la<br />
sua impugnazione viene rigettata o dichiarata inammissibile, ciò poiché la parte che<br />
appella in via incidentale è appellante a tutti gli effetti (Cass., sez. VI, 3 maggio 2005,<br />
n. 22425).<br />
Il giudice competente. In ossequio al principio della concentrazione, l’art. 596 c.p.p.<br />
individua in un unico organo il giudice competente a decidere sulle impugnazioni<br />
avverso le sentenze di primo grado. L’individuazione del giudice competente avviene<br />
in relazione all’organo che ha deciso in primo grado e, quindi, nella corte di appello<br />
per le sentenze emesse dal tribunale sia in composizione monocratica sia in composizione<br />
collegiale, oltre che per le sentenze emesse dal g.i.p. per i reati di competenza del<br />
tribunale; nella corte di assise di appello per le sentenze emanate dalla corte di assise e<br />
per quelle emanate dal g.i.p. per i reati di competenza della corte di assise. Le sentenze<br />
emesse dal giudice per le indagini preliminari, appellabili davanti alla corte di appello o<br />
alla corte di assise di appello, sono solo quelle rese a seguito di giudizio abbreviato (<br />
1620 ss.) nei limiti in cui sono appellabili ex art. 443 c.p.p.. Secondo l’art. 58 ord. giud.<br />
le impugnazioni dei provvedimenti adottati dal <strong>Tribuna</strong>le per i minorenni sono trattate<br />
da una apposita sezione istituita presso le Corti di appello; mentre per le sentenze<br />
del giudice di pace ( 1581) la competenza è attribuita al tribunale in composizione<br />
monocratica (art. 39, comma 1, D.L.vo 28 agosto 2000, n. 274).<br />
L’effetto devolutivo ed il divieto di reformatio in peius. L’art. 597 c.p.p. conferma<br />
la natura dell’appello quale mezzo di impugnazione parzialmente devolutivo; la<br />
domanda della parte serve da un lato a sostanziare la richiesta di controllo e dall’altro<br />
a circoscrivere i poteri di cognizione e quelli di decisione del giudice (v., per tutti,<br />
in dottrina, Tra n c h i n a – Di Ch i a r a, voce Appello (dir. proc. pen.) in Enc. Dir., III<br />
aggiorn., Milano 1999, pag. 200 e segg.). I punti della decisione sono tutte quelle<br />
statuizioni contenute all’interno di ciascun capo di sentenza, suscettibili di autonoma<br />
considerazione (v. Cass., sez. I, 14 gennaio 1998, n. 2768). Il punto si articola in una<br />
o più questioni, su ognuna delle quali il giudice è legittimato a decidere: il giudice<br />
d’appello dovrà decidere su tutte le questioni astrattamente ipotizzabili in ordine<br />
al punto impugnato, proprio perché oggetto del giudizio di appello sono i punti della<br />
decisione a cui i motivi si riferiscono. L’effetto preclusivo derivante dal limite della<br />
devoluzione riguarda esclusivamente i punti della sentenza che, non essendo stati<br />
oggetto dei motivi di gravame, siano passati in giudicato. Esso non riguarda invece le<br />
argomentazioni e le questioni di diritto non svolte o erroneamente prospettate (v. in<br />
questo senso Cass., sez. I, 25 giugno 1999, n. 10795; Cass., sez. IV, 14 gennaio 2004,<br />
n. 15461).
25<br />
Appello<br />
022-023<br />
Sulla base del principio della connessione essenziale, enunciato all’art. 624, comma 1,<br />
c.p.p. per il giudizio di cassazione ( 5323), la parziale devoluzione non esclude il<br />
potere del giudice di esaminare anche quei punti diversi anche se non impugnati,<br />
che non sono completamente autonomi dai motivi dedotti, in quanto si trovano in un<br />
rapporto di pregiudizialità, dipendenza, inscindibilità o connessione essenziale con i<br />
punti della decisione oggetto di specifica doglianza (in dottrina, v. De l l’An n o, sub<br />
Art. 595 c.p.p., op. cit., pag. 646; Cass., sez. V, 27 ottobre 1999, n. 13281). Il giudice<br />
di appello, fermo restando il divieto di reformatio in peius, non è vincolato da quanto<br />
prospettato dall’appellante ma, relativamente ai punti della decisione cui si riferiscono<br />
i motivi di gravame, può affrontare tutte le questioni enucleabili all’interno dei punti<br />
medesimi (Cass., sez. IV, 14 gennaio 2003, n. 15461) ivi comprese quelle non sollevate<br />
nel giudizio di primo grado e ritualmente proposte con i motivi di appello (Cass., sez. I,<br />
14 gennaio 1999, n. 4111). <strong>La</strong> violazione del principio devolutivo, se non dedotta con<br />
i motivi di impugnazione, non è rilevabile d’ufficio in sede di legittimità (Cass., sez. II,<br />
3 ottobre 2000, n. 4897).<br />
Il principio devolutivo incontra alcune eccezioni. Vi sono, infatti, delle questioni che,<br />
indipendentemente dai punti devoluti, possono essere valutate e decise d’ufficio dal<br />
giudice in quanto la legge ne impone l’accertamento in ogni stato e grado del processo:<br />
il difetto di giurisdizione (art. 20 c.p.p.), l’incompetenza per materia (art. 21 c.p.p.<br />
711), l’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità (art. 129<br />
c.p.p. 5596), la preclusione nascente dal divieto del bis in idem (art. 649 c.p.p. <br />
1388), la declaratoria di inutilizzabilità di prove acquisite in violazione di un divieto di<br />
legge (art. 191 c.p.p. 2643), la questione di legittimità costituzionale della norma<br />
da applicare (art. 23, comma 3, L. 11 marzo 1953, n. 87), la declaratoria delle nullità<br />
assolute (art. 179 c.p.p. 2534), nonché di quelle a regime intermedio nei limiti della<br />
loro rilevabilità (art. 180 c.p.p. 2540). <strong>La</strong> giurisprudenza, al riguardo, ha affermato<br />
il principio secondo cui se l’impugnante ha rinunciato ad uno o più motivi di gravame,<br />
automaticamente il perimetro della cognizione del giudice di secondo grado si restringe<br />
ai motivi superstiti anche se, fino a quando il rapporto processuale non si sia esaurito<br />
con la formazione del giudicato, il giudice deve procedere ex officio a quelle verifiche<br />
che la legge impone di operare in ogni stato e grado del processo (Cass., sez. III, 28<br />
ottobre 1999, n. 13484).<br />
023<br />
Ci si è chiesti se possa essere applicata la prescrizione qualora i motivi di appello investano<br />
solo la pena e vi sia stata acquiescenza sulla responsabilità.<br />
Sul punto le Sezioni unite (Cass., sez. un., 19 gennaio 2000, n. 1) hanno affermato<br />
che: “poiché la cosa giudicata si forma sui capi della sentenza ..e non sui punti di essa<br />
che possono essere oggetto unicamente della preclusione correlata all’effetto devolutivo<br />
del gravame in caso di condanna, la mancata impugnazione della ritenuta responsabilità<br />
dell’imputato fa sorgere la preclusione su tale punto, ma non basta a far acquistare alla<br />
relativa statuizione l’autorità di cosa giudicata, quando per quello stesso capo l’impugnante<br />
abbia devoluto al giudice l’indagine riguardante la sussistenza di circostanze o la<br />
quantificazione della pena. Ne consegue che l’eventuale causa di estinzione del reato deve<br />
essere rilevata finché il giudizio non sia esaurito integralmente”.<br />
Una ulteriore deroga è fissata dall’art. 597, comma 5, c.p.p. ove si stabilisce che possono<br />
essere applicate, senza richiesta di parte, la sospensione condizionale della pena,<br />
la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale ( 609)<br />
e una o più circostanze attenuanti e può, altresì procedersi, ove occorra, al giudizio
023-024 Appello 26<br />
di comparazione ex art. 69 c.p. Il potere di effettuare il giudizio di comparazione tra<br />
circostanze di segno opposto deve essere subordinato al riconoscimento, da parte del<br />
giudice di appello, di una o più circostanze non applicate in primo grado, non potendo,<br />
questi, in assenza di uno specifico motivo di doglianza, procedere tout court ad una mera<br />
riformulazione del giudizio di bilanciamento effettuato dal primo giudice (Cass., sez. IV,<br />
6 ottobre 2004). Muovendo dalla natura eccezionale del comma 5 si è precisato che il<br />
giudice di appello, ove non ritualmente investito sul punto, non può concedere d’ufficio<br />
la pena sostitutiva, pur se la parte ne abbia fatto richiesta all’udienza dibattimentale di<br />
secondo grado (Cass., sez. V, 10 ottobre 2005). Invece, ove l’appello sia proposto dal<br />
pubblico ministero il giudice non trova limiti.<br />
Si assiste ad un ridimensionamento del potere di decisione del giudice di secondo grado<br />
nell’ipotesi in cui l’appello sia stato interposto soltanto dall’imputato ovvero da altri<br />
soggetti legittimati ad appellare nell’interesse dell’imputato. In questo caso il giudice<br />
non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, né applicare una misura di<br />
sicurezza nuova o più grave, né revocare i benefici, così come non può prosciogliere<br />
l’imputato con una formula meno favorevole. Detto limite riguarda le sole statuizioni<br />
penali, per cui va riferito solo al dispositivo e non anche alla motivazione della sentenza<br />
che può risultare meno favorevole all’imputato (Cass., sez. un., 19 gennaio 1994, n.<br />
4460); inoltre non opera per le pene accessorie, quando le stesse siano predeterminate<br />
normativamente in ogni loro aspetto, ossia applicabilità, specie e durata (Cass., sez. un.,<br />
27 maggio 1998, n. 8411).<br />
L’art. 597, comma 4, c.p.p.: le Sezioni unite (Cass., sez. un., 27 settembre 2005, n.<br />
40910) hanno affermato che, se l’accoglimento del gravame proposto dal solo imputato,<br />
si traduce nel riconoscimento di circostanze attenuanti o nel disconoscimento di aggravanti<br />
o aumenti per la continuazione, al giudice d’appello non è consentito compensare<br />
la riduzione della pena con un uguale aumento di una delle altre componenti del trattamento<br />
sanzionatorio.<br />
Quanto al divieto di applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, la giurisprudenza<br />
ne ha escluso l’operatività per quelle misure che conseguono ex lege ad<br />
una determinata pronuncia (Cass., sez. I, 19 febbraio 1992). In relazione al divieto di<br />
revocare i benefici si è sostenuto che esso non opererebbe nelle ipotesi in cui i benefici<br />
siano incompatibili con la nuova situazione venutasi a creare; quindi, ove si accerti il<br />
venir meno delle preesistenti condizioni di legittimazione, si potranno revocare la non<br />
menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e la sospensione della<br />
condizionale della pena (Cass., sez. I, 12 febbraio 2003, n. 21872).<br />
024<br />
In forza del principio devolutivo il giudice d’appello può modificare in senso peggiorativo<br />
l’entità della pena irrogata con la sentenza di primo grado solo quando i motivi<br />
dell’impugnazione riguardano specificamente il relativo punto della decisione e non<br />
per il solo fatto che l’appello sia stato presentato dal pubblico ministero (Cass., sez. IV,<br />
29 gennaio 2008, n. 8605). Tale orientamento si iscrive in un filone giurisprudenziale<br />
secondo cui l’art. 597, comma 2, lett. a), nella parte in cui stabilisce che se l’appello<br />
del p.m. riguarda una sentenza di condanna, “il giudice può aumentare la quantità della<br />
pena”, deve essere inteso nel senso che, al fine di rispettare il principio devolutivo,<br />
è sempre necessario che l’appello proposto dal pubblico ministero abbia riguardato<br />
l’entità della pena, mentre non è sufficiente che vi sia stato l’appello del rappresentante<br />
della pubblica accusa, indipendentemente cioè dalle specifiche richieste da quest’ultimo
27<br />
Appello<br />
025-027<br />
avanzate (Cass., sez. I, 19 gennaio 1998, n. 2003). Il divieto di reformatio in peius<br />
non riguarda soltanto l’entità complessiva della pena, ma si intende riferito a tutti gli<br />
elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, di tal che il giudice<br />
di appello, anche quando esclude una circostanza aggravante e irroga una sanzione<br />
inferiore a quella comminata precedentemente, non può fissare la pena base in misura<br />
superiore a quella determinata in primo grado (Cass., sez. un., 27 settembre 2005, n.<br />
40910). Ad avviso di un contrario orientamento, invece, non costituirebbe violazione<br />
del citato divieto di reformatio in peius la esclusione, in seguito all’appello del solo<br />
imputato, di una circostanza aggravante da cui non derivi alcuna variazione della pena<br />
inflitta in primo grado, qualora alla detta esclusione non consegua un’automatica riduzione<br />
della pena ma la mera necessità di compiere nuovamente il giudizio comparativo<br />
tra le residue aggravanti e le circostanze attenuanti. Ciò poiché il giudice di appello<br />
conserva la piena facoltà di confermare il precedente giudizio di valenza (Cass., sez. I,<br />
28 gennaio 2003, n. 5697).<br />
In tema di reato continuato il divieto della reformatio in peius attiene ad ogni singola<br />
componente che concorre alla determinazione della pena complessiva (Cass., sez. II, 29<br />
novembre 2001, n. 13928). Di contro, sussiste la violazione del predetto divieto qualora,<br />
nonostante l’entità della pena irrogata in secondo grado rimanga complessivamente identica<br />
a quella inflitta in esito al primo grado di giudizio, il giudice di appello affermi la responsabilità<br />
dell’imputato in ordine ad un delitto sul quale il giudice di primo grado aveva omesso<br />
di decidere, individuando la pena base ai fini dell’applicazione della continuazione in quella<br />
relativa a detto reato, ritenuto di maggiore gravità, ed ometta altresì il richiesto computo<br />
delle attenuanti generiche già riconosciute dal primo giudice ma erroneamente pretermesse<br />
nel concreto calcolo della pena (Cass., sez. I, 21 settembre 2004, n. 41096).<br />
Non si considera invece violato il divieto di reformatio in peius nel caso in cui, pur in<br />
assenza di impugnazione del pubblico ministero, il giudice di secondo grado, derubricato<br />
il reato, ritenga equivalenti le attenuanti generiche già valutate prevalenti dal giudice<br />
di primo grado con riferimento alla più grave fattispecie criminosa poi sostituita (Cass.,<br />
sez. II, 28 maggio 2008, n. 23669).<br />
Relativamente, invece, alla concessione ex officio delle circostanze attenuanti, di cui<br />
all’art. 597, comma 5, c.p.p., si deve rilevare che il codice vigente, pur non conferendo<br />
tale potere al giudice di appello, non lo obbliga, però, a specificare nella motivazione le<br />
ragioni del mancato esercizio di tale potere quando le circostanze in oggetto non abbiano<br />
formato oggetto di apposita richiesta (Cass., sez. V, 17 novembre 1998, n. 496).<br />
Le norme di giudizio applicabili al processo di secondo grado. Il giudizio di<br />
appello è regolato, salvo quanto espressamente previsto dagli artt. 600-605 e dall’art.<br />
599 c.p.p. per il giudizio camerale, dalle norme relative al giudizio di primo grado. In<br />
giurisprudenza si è precisato che, davanti al giudice di appello, non si applica l’art. 468<br />
c.p.p., essendo l’assunzione della prova, nel corso del giudizio di secondo grado, del<br />
tutto eccezionale ed autonomamente regolata dall’art. 603 (Cass., sez. VI, 21 gennaio<br />
1996, n. 2727). Il giudice di appello non può pronunciare sentenza predibattimentale<br />
di proscioglimento ( 5736) giacché il rinvio operato dall’art. 598 c.p.p. non comprende<br />
la procedura, di natura eccezionale, di cui all’art. 469 c.p.p. (Cass., sez. IIII, 27<br />
giugno 2007, n. 35577; Cass., sez. IV, 28 febbraio 2007, n. 12001, Cass., sez. IV, 20<br />
settembre 2006, n. 34497). Esiste tuttavia un orientamento contrario secondo il quale<br />
l’art. 469 c.p.p. sarebbe applicabile anche al giudizio di appello (Cass., sez. I, 20 novembre<br />
2003, n. 48914).<br />
025<br />
026<br />
027
028-029 Appello 28<br />
Appaiono invece non applicabili gli artt. 516 ss. c.p.p. ( 3050 ss.) non solo per<br />
non privare l’imputato di un grado di giurisdizione rispetto ad un addebito specifico,<br />
ma anche per non disconoscere all’appello il suo carattere di mezzo di impugnazione,<br />
come invece avverrebbe se, in seconde cure, si potesse conoscere e decidere su<br />
materia diversa o ulteriore rispetto a quella trattata in primo grado (Ra fa r a c i, Le<br />
nuove contestazioni nel processo penale, Milano 1996, pag. 455). Secondo la giurisprudenza<br />
il giudice di appello, anche nell’ipotesi in cui il giudizio si sia svolto<br />
con il rito abbreviato ( 1666), qualora emerga una diversità tra i fatti contestati e<br />
quelli accertati e non vi abbia provveduto quello di primo grado, avrebbe l’obbligo di<br />
annullare la sentenza e di rimettere gli atti al pubblico ministero, ai sensi degli artt.<br />
521, comma 2 e 598 c.p.p. (Cass., sez. VI, 10 ottobre 2007, n. 47549; Cass., sez. I, 28<br />
febbraio 2006, n. 8831).<br />
028<br />
Il procedimento in camera di consiglio. L’utilizzo del modulo camerale qualora si<br />
tratti di appello avente ad oggetto la specie o la misura della pena, anche in relazione<br />
al giudizio di comparazione tra circostanze, l’applicabilità delle attenuanti generiche, le<br />
sanzioni sostitutive o i benefici della sospensione condizionale della pena o della non<br />
menzione, risponde ad una scelta di semplificazione operata dalla stessa legge delega,<br />
la cui direttiva n. 93 è stata pressocchè trasfusa nell’art. 599 c.p.p. Il procedimento<br />
camerale si applica, inoltre, ove la sentenza di primo grado sia stata pronunciata all’esito<br />
del rito abbreviato ( 1620 ss.) in forza del richiamo alle forme previste dall’art. 599<br />
c.p.p. ad opera dell’art. 443 comma 4 c.p.p. L’art. 600 c.p.p. ( 033) stabilisce, poi, che<br />
il giudice provveda con ordinanza in camera di consiglio in ordine alla impugnazione<br />
della parte civile, che ne faccia espressa richiesta, relativamente alle statuizioni della<br />
sentenza impugnata che abbiano omesso di pronunciarsi o abbiano rigettato la domanda<br />
di esecuzione provvisoria delle statuizioni civili.<br />
A differenza del modello generale di cui all’art. 127 c.p.p. ( 4541) l’atto introduttivo<br />
del procedimento in camera di consiglio è costituito dal decreto di citazione a giudizio<br />
nel quale deve essere fatta menzione che si procederà nelle forme camerali ma non<br />
anche l’avvertimento che in caso di mancata comparizione l’imputato sarà giudicato in<br />
contumacia (Cass., sez. II, 3 marzo 2005, n. 13134). Il termine a comparire non deve<br />
essere quello di dieci giorni di cui all’art. 127 c.p.p., ma quello di venti giorni fissato<br />
dall’art. 601, comma 3, c.p.p. ( 035) (Cass., sez. III, 20 gennaio 2005, n. 5483).<br />
029<br />
L’udienza deve essere rinviata non solo quando sussiste un legittimo impedimento<br />
dell’imputato che ha chiesto di essere sentito personalmente e non sia detenuto in<br />
luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice, ma più in generale, ai sensi dell’art.<br />
599, comma 2, c.p.p. quando sussiste un legittimo impedimento dell’imputato che ha<br />
manifestato la volontà di comparire, purché risulti che è stato regolarmente avvisato<br />
e purché siano allegate la relativa richiesta di volere comparire e la causale attestante il<br />
legittimo impedimento (Cass., sez. I, 25 novembre 1999, n. 388). Non è necessario che<br />
l’imputato, per manifestare la volontà di comparire, si avvalga di una formale richiesta<br />
di audizione, essendo sufficiente che la volontà si estrinsechi in qualunque modo,<br />
anche per facta concludentia (Cass., sez. VI, 11 ottobre 2004, n. 43201). <strong>La</strong> richiesta di<br />
comparire deve essere comunque tempestiva e deve essere esternata prima dell’inizio<br />
dell’udienza di cui si chiede il rinvio. Tale dichiarazione, una volta effettuata anche per<br />
mezzo del difensore per una determinata udienza, conserva i suoi effetti anche per quella<br />
in cui il procedimento sia eventualmente rinviato a nuovo ruolo, con la conseguenza
29<br />
Appello<br />
030-032<br />
che, se quest’ultima venga celebrata senza la presenza dell’imputato, deve ritenersi la<br />
nullità di tutti gli atti e della sentenza ai sensi dell’art. 178 lett. c) c.p.p. (Cass., sez. II,<br />
9 gennaio 2003, n. 11756).<br />
<strong>La</strong> disciplina in tema di impedimento a comparire del difensore, pur trovando applicazione<br />
nel giudizio abbreviato di primo grado – in virtù del richiamo contenuto nell’art.<br />
441, comma 1, c.p.p. – non si estende al procedimento camerale, senza che ciò dia<br />
luogo ad alcuna disparità di trattamento suscettibile di costituire violazione dell’art.<br />
3 Cost.. (Cass., sez. I, 2 ottobre 2001, n. 41687, che ha dichiarato manifestamente<br />
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 420 ter c.p.p., sollevata in<br />
riferimento all’art. 3 Cost., trattandosi di norma che si applica al dibattimento, ma non<br />
anche ai procedimenti camerali, senza che tale diversità di regolamentazione crei alcuna<br />
disparità di trattamento, essendo bene diverse le situazioni dell’udienza preliminare, del<br />
dibattimento e del rito camerale).<br />
030<br />
In precedenza, le Sezioni unite (Cass., sez. un., 8 aprile 1998, n. 7551), avevano dichiarato<br />
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 486, comma 5,<br />
c.p.p., nella parte in cui non si applicava ai procedimenti in camera di consiglio che si svolgono<br />
a norma dell’art. 127 c.p.p., in quanto il diritto di difesa, garantito dal contraddittorio,<br />
risulta regolato secondo le speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti,<br />
senza che le modalità stesse ne menomino l’esistenza, allorché di esso vengano assicurati lo<br />
scopo e la funzione; e la sua disciplina, in relazione alle varie fasi processuali e alle caratteristiche<br />
dei singoli procedimenti, è espressione della discrezionalità legislativa.<br />
Più di recente, la giurisprudenza ha affermato che l’impedimento del difensore non<br />
rileva nel giudizio abbreviato d’appello ( 1666), Cass., sez. V, 23 marzo 2004, n.<br />
22308 e, in generale, nel giudizio camerale d’appello, Cass., sez. IV, 28 ottobre 2004,<br />
n. 47961.<br />
031<br />
Sicché, il procedimento potrà essere rinviato solo se sussiste un legittimo impedimento<br />
dell’imputato che abbia chiesto di essere sentito personalmente o abbia manifestato<br />
la volontà di comparire, giusta quanto previsto, rispettivamente, dall’art. 127, comma<br />
4, e dall’art. 599, comma 2, c.p.p., a meno che non debba procedersi a «rinnovazione<br />
dell’istruttoria dibattimentale» (Cass., sez. I, 5 novembre 2002, n. 37121; sostengono,<br />
invece, che il legittimo impedimento del difensore in appello dovrebbe sempre e comunque<br />
soggiacere alla regola di trattamento di cui all’art. 420 ter c.p.p., Cass. sez. II, 11<br />
ottobre 2000, n.13033; Cass., sez. I, 10 ottobre 2000, n. 3345).<br />
L’udienza camerale si discosta dal modello di cui all’art. 127 c.p.p. anche nell’ipotesi<br />
in cui si debba procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ( 037). Il<br />
comma 3 dell’art. 599 c.p.p. prevede, infatti, che, nel caso in cui venga disposta la rinnovazione<br />
dell’istruzione dibattimentale, il giudice assume le prove con la partecipazione<br />
necessaria del pubblico ministero o dei difensori: ove questi ultimi non siano presenti il<br />
giudice deve fissare una nuova udienza dandone avviso alle parti e ai difensori.<br />
Il provvedimento conclusivo del giudizio deve assumere la forma della sentenza, sia<br />
perché si tratta di una decisione di merito, sia perché l’art. 605 c.p.p. non distingue tra<br />
le decisioni in camera di consiglio e le decisioni dibattimentali.<br />
Pertanto, la pubblicazione della decisione non avviene mediante lettura del dispositivo in<br />
udienza, ma con il deposito del provvedimento in cancelleria, al quale segue la notificazione<br />
alle parti del relativo avviso di deposito. Sul punto la giurisprudenza ha affermato il<br />
032
033-034 Appello 30<br />
principio secondo cui non è causa di nullità né, tanto meno, di giuridica inesistenza della<br />
sentenza di appello pronunciata all’esito del giudizio camerale ai sensi dell’art. 599 c.p.p.,<br />
il fatto che il dispositivo della medesima non sia stato letto in udienza (Cass., sez. II, 12<br />
dicembre 2003, n. 847). Altre decisioni hanno altresì affermato che, se il processo di appello<br />
viene celebrato nelle forme camerali, si deve ritenere irrituale la lettura del dispositivo<br />
in udienza. Poiché tale irritualità non dà luogo a nullità che è sanzione tassativamente<br />
prevista dalla legge, si deve escludere che la lettura detta possa considerarsi tamquam non<br />
esset. Essa, infatti, equivale alla notifica del provvedimento con conseguenze relative al<br />
decorso dei termini di impugnazione (Cass., sez. IV, 26 gennaio 1996, n. 241).<br />
033<br />
034<br />
L’art. 600 c.p.p. <strong>La</strong> norma disciplina un incidente cautelare del giudice d’appello in<br />
ordine all’esecuzione delle azioni civili e deve essere posta in correlazione con l’art.<br />
540 c.p.p. ( 856) che delinea due ipotesi di decisioni provvisoriamente esecutive: il<br />
comma 1 afferma che la condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno viene<br />
dichiarata provvisoriamente esecutiva, su istanza della parte civile, quando ricorrono<br />
giustificati motivi; il comma 2 dispone, a sua volta, che la condanna al pagamento di<br />
una provvisionale è immediatamente esecutiva ope legis.<br />
I commi 1 e 2 dell’art. 600 c.p.p. regolano l’appello nei confronti delle statuizioni civili<br />
relative al comma 1 dell’art. 540 e consentono l’appello della parte civile nell’ipotesi in<br />
cui il giudice di primo grado abbia rigettato o omesso di pronunciarsi sull’istanza di provvisoria<br />
esecuzione; e, simmetricamente, l’appello del responsabile civile e dell’imputato<br />
contro la sentenza di primo grado che ha dichiarato provvisoriamente esecutiva la condanna<br />
alle restituzioni e al risarcimento del danno, con il quale essi tendono ad ottenere<br />
la revoca o la sospensione della provvisoria esecuzione. <strong>La</strong> giurisprudenza ha affermato<br />
il principio secondo cui l’ordinanza camerale assunta ex art. 600, comma 2, c.p.p. e la<br />
sentenza di appello che decide sulle questioni civili sono atti radicalmente diversi per<br />
natura giuridica, per la funzione che svolgono, per il momento in cui sono adottati, per il<br />
tipo di cognizione che presuppongono e di decisione che adottano. Da ciò discende che<br />
non è consentito sollecitare in sede di legittimità un controllo della motivazione della<br />
sentenza di appello basato, non sulla sua coerenza interna, ma in rapporto alla precedente<br />
ordinanza relativa alle statuizioni civili (Cass., sez. I, 8 febbraio 2005, n. 10081).<br />
Il comma 3 consente al responsabile civile e all’imputato di chiedere al giudice d’appello<br />
di sospendere l’esecuzione al pagamento di una provvisionale quando ricorrono gravi<br />
motivi ( 857). L’istanza per richiedere i provvedimenti in ordine all’esecuzione delle<br />
condanne civili deve essere formulata, a pena di inammissibilità, con l’atto di gravame<br />
(Cass., sez. II, 1 aprile 1999, n. 1581). Il termine per proporre tale impugnazione decorre<br />
dal deposito della sentenza, in quanto l’esecutorietà non può essere fissata antecedentemente<br />
al deposito della stessa (Cass., sez. V, 4 maggio 2005, n. 38956).<br />
Il procedimento si svolge in camera di consiglio, ma tale forma è subordinata ad<br />
un’istanza di parte, sicché in mancanza di un’espressa richiesta in tal senso, si proceda<br />
in udienza pubblica. I motivi che legittimano ai sensi del comma 3 dell’art. 600 c.p.p.<br />
la sospensione della condanna al pagamento della provvisionale debbono essere gravi<br />
ossia tali da far presumere la fondatezza dell’appello proposto. Il provvedimento viene<br />
adottato con le forme dell’art. 127 c.p.p. e si conclude con ordinanza non autonomamente<br />
impugnabile. Le decisioni del giudice d’appello sull’azione civile sono immediatamente<br />
esecutive, ancorché siano impugnate per cassazione.
31<br />
Appello<br />
035<br />
Gli atti preliminari al giudizio. L’art. 601 c.p.p. concernente gli atti preliminari<br />
al giudizio di appello è una disposizione di carattere generale, la sua collocazione è<br />
tra le disposizioni concernenti la disciplina, in generale, dell’appello ed il contenuto<br />
della norma è diretto a preordinare lo svolgimento del gravame tanto per il dibattimento<br />
che per le forme camerali. Ne consegue che il termine dilatorio di venti<br />
giorni stabilito dal comma 3 dell’art. 601 c.p.p. per la comparizione in giudizio<br />
si applica anche al procedimento camerale regolato dall’art. 599 c.p.p. (Cass., sez.<br />
IV, 12 luglio, n. 9536). L’inosservanza del termine minimo di venti giorni per la<br />
notifica dell’avviso al difensore, non integra una nullità assoluta ed insanabile, ma<br />
una nullità relativa che deve essere dedotta nel termine di cui all’art. 491 c.p.p., con<br />
la conseguenza che la relativa eccezione non può essere proposta per la prima volta<br />
in sede di legittimità (Cass., sez. V, 17 luglio 2009, n. 35883; Cass., sez. VI, 10 marzo<br />
2009, n. 24253; Cass., sez. V, 18 febbraio 2009, n. 17694; contra, nel senso che si<br />
configura una nullità assoluta rilevabile in ogni stato e grado del giudizio Cass., sez.<br />
I, 12 ottobre 1995, n. 11864).<br />
035<br />
Il termine di venti giorni tra la notifica dell’avviso al difensore e il giudizio di appello<br />
deve essere osservato solo con riguardo alla prima udienza e non per quelle successive,<br />
alle quali il processo sia stato differito per impedimento dell’imputato o del<br />
difensore (Cass., sez. VI, 8 maggio 2003, n. 26118). <strong>La</strong> nullità del giudizio dovuta alla<br />
nullità della notificazione del decreto di citazione all’imputato non può essere sanata<br />
dalla successiva presenza di quest’ultimo al dibattimento determinata dall’esecuzione<br />
di accompagnamento coattivo disposto nei suoi confronti (Cass., sez. VI, 22 giugno<br />
2001, n. 29821).<br />
L’omessa notificazione dell’avviso del dibattimento per il giudizio di appello al difensore<br />
di fiducia dell’imputato determina una nullità di ordine generale insanabile, a nulla<br />
rilevando che la notifica sia stata fatta al difensore di ufficio, non potendo l’imputato<br />
essere privato del diritto di affidare la propria difesa alla persona che riscuote la sua<br />
fiducia (Cass., sez. III, 14 gennaio 2009, n. 6240).<br />
Qualora i difensori di fiducia dell’imputato siano due, l’omessa notificazione dell’avviso<br />
della data fissata per l’udienza dibattimentale ad uno dei due difensori dà luogo ad<br />
una nullità di ordine generale a regime intermedio la quale è sanata se non è dedotta<br />
tempestivamente, presente all’udienza anche l’imputato, dall’altro difensore (Cass., sez.<br />
IV, 4 novembre 2008, n. 11772; Cass., sez. VI, 20 dicembre 2006, n. 12342; Cass., sez.<br />
un., 25 giugno 1997, n. 6). <strong>La</strong> giurisprudenza ha ritenuto, invece, che sia viziata da nullità<br />
assoluta la notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello eseguita<br />
presso lo studio del difensore di fiducia, in assenza di una elezione di domicilio effettuata<br />
dall’imputato in tal senso. Ne deriva la nullità di tutti gli atti processuali consecutivi<br />
alla invalida costituzione del rapporto processuale, ivi compresa la sentenza conclusiva<br />
del giudizio di secondo grado (Cass., sez. V, 1 dicembre 2004, n. 14229).<br />
Sotto il profilo del contenuto del decreto di citazione, si deve rilevare che la giurisprudenza<br />
ha elaborato il principio secondo cui la enunciazione imprecisa e non chiara dei<br />
fatti o delle norme violate non determina la nullità del decreto di citazione per il giudizio<br />
di appello. Ciò perché l’art. 601 c.p.p., con riferimento ai requisiti dell’atto, effettua un<br />
rinvio alle disposizioni di cui all’art. 429, comma 1, lett. a), f) e g) c.p.p. (Cass., sez. IV,<br />
18 marzo 2004, n. 24950).
036-038 Appello 32<br />
036<br />
037<br />
<strong>La</strong> partecipazione delle parti eventuali al dibattimento di appello. In ordine<br />
al dibattimento di secondo grado, la giurisprudenza – in relazione alla problematica<br />
concernente la partecipazione delle parti eventuali – ha stabilito il principio secondo<br />
cui la mancata partecipazione della parte civile ( 4120 ss.) al giudizio di appello<br />
non può essere interpretata come una revoca tacita o presunta della costituzione di quest’ultima,<br />
alla luce del principio dell’immanenza della costituzione (Cass., sez. VI, 6<br />
maggio 2003, n. 25723). Ancora, un orientamento di legittimità ha affermato che la parte<br />
civile, nonostante la mancata impugnazione da parte sua, può interloquire (Cass., sez.<br />
IV, 18 settembre 2003, n. 43355).<br />
<strong>La</strong> rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. <strong>La</strong> rinnovazione dell’istruzione<br />
dibattimentale (in dottrina, v. Ch i n n i c i, Giudizio penale di seconda istanza e giusto processo,<br />
Torino 2009, pag. 102 e segg.) costituisce una eccezione, dovendosi presumere<br />
la completezza dell’istruzione dibattimentale di primo grado (Cass., sez. un., 24 gennaio<br />
1996, n. 2780).<br />
<strong>La</strong> norma è stata oggetto di alcune questioni di legittimità costituzionale. In particolare,<br />
è stata dichiarata manifestamente infondata quella sollevata in riferimento all’art. 603,<br />
comma 5, c.p.p. in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost. nella parte in cui non si prevede la<br />
nullità assoluta nell’ipotesi di omessa pronuncia dell’ordinanza di rinnovazione dell’istruzione<br />
dibattimentale (Cass., sez. V, 20 gennaio 2005, n. 12443).<br />
In relazione alle prove preesistenti o già note alla parte che chiede la rinnovazione<br />
dell’istruzione dibattimentale, è stato affermato che quest’ultima può avvenire a condizione<br />
che il giudice d’appello ritenga, secondo la sua valutazione discrezionale, di non<br />
essere in grado di decidere allo stato degli atti, situazione che può sussistere quando i<br />
dati probatori sono incerti o quando la prova di cui si chiede la riassunzione sia decisiva<br />
(Cass., sez. III, 13 novembre 2003, n. 3348).<br />
In tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, mentre, come si è appena notato,<br />
nell’ipotesi di cui all’art. 603, comma 1, la rinnovazione è subordinata alla condizione<br />
che il giudice ritenga, nell’ambito della propria discrezionalità, che i dati probatori già<br />
acquisiti siano incerti e che l’incombente processuale richiesto rivesta carattere di decisività,<br />
nell’ipotesi di cui al comma 2 della stessa norma, il giudice è tenuto a disporre la<br />
rinnovazione delle nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo<br />
grado, ma con il limite costituito dalle ipotesi di richieste concernenti prove vietate<br />
dalla legge o manifestamente superflue o irrilevanti (Cass., sez. III, 22 gennaio 2008, n.<br />
8382).<br />
038<br />
Il giudice d’appello può disporre d’ufficio la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale<br />
qualora ritenga assolutamente necessario l’esame dei testimoni le cui dichiarazioni,<br />
rese nel dibattimento di primo grado, siano state dichiarate inutilizzabili dallo stesso<br />
giudice di appello per tardivo deposito della lista prevista dall’art. 468 c.p.p. (Cass., sez.<br />
I, 22 gennaio 2008, n. 5636).<br />
Il comma 3 dell’art. 603 c.p.p., riprendendo l’art. 507 c.p.p., non concerne solo le prove<br />
nuove o sopravvenute, ma riguarda anche le prove già acquisite in primo grado. <strong>La</strong><br />
rinnovazione officiosa può essere utilizzata rispetto a prova dichiarata inutilizzabile dal<br />
giudice d’appello, allorché l’inutilizzabilità non derivi dalla violazione di un divieto<br />
probatorio ex art. 191 c.p.p. ( 2643) ma dalla violazione delle regole attinenti all’assunzione<br />
della prova (Cass., sez. V, 13 dicembre 2005, n. 202).
33<br />
Appello<br />
039-041<br />
L’art. 603, comma 4, c.p.p. disciplina una ipotesi c.d. obbligatoria di rinnovazione<br />
dell’istruzione dibattimentale, basata sul presupposto che l’imputato, contumace in<br />
primo grado, provi in appello la riconducibilità della sua mancata comparizione a caso<br />
fortuito o forza maggiore o alla mancata incolpevole conoscenza del decreto di citazione.<br />
Grava sull’interessato l’onere di provare tale circostanza (Cass., sez. V, 9 gennaio<br />
1998, n. 2427), il cui apprezzamento rientra nella discrezionalità del giudice e, risulta,<br />
se adeguatamente motivato, incensurabile in Cassazione (Cass., sez. V, 3 ottobre 2000,<br />
n. 11507). Essa non trova ingresso qualora l’imputato abbia indicato la propria residenza<br />
anagrafica nell’atto di nomina del difensore, ma abbia, poi, omesso di comunicarne la<br />
variazione in concomitanza della notifica dell’atto presso la suddetta residenza (Cass.,<br />
sez. II, 25 ottobre 2005, n. 46230).<br />
Sull’appellante grava l’onere di specificare quali sono quei mezzi di prova dei quali<br />
chiede l’ammissione: essi potranno essere finalizzati ad acquisire sia prove nuove, sia<br />
quelle già assunte nel giudizio di primo grado, sia, in ultimo, prove eventualmente<br />
sopravvenute alla sentenza di primo grado. Sotto il profilo della decisione giudiziale<br />
in tema di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è stato invece precisato che il<br />
giudice, se ritiene nella sua discrezionalità di non accogliere l’istanza di parte, deve<br />
motivare in modo congruo e logicamente corretto il rigetto della stessa (Cass., sez. IV, 5<br />
dicembre 2003, n. 4981). Riguardo la modalità di assunzione delle prove, appare contrastata<br />
in giurisprudenza la soluzione al quesito se, in relazione a quelle dichiarative,<br />
debba farsi luogo all’applicazione delle regole in tema di esame e controesame delle<br />
parti, di cui all’art. 498 c.p.p. ( 1147) Secondo un primo indirizzo, tali norme non<br />
sarebbero applicabili (Cass., sez. I, 29 maggio 1992, n. 7620), in considerazione dell’incompatibilità<br />
della struttura del giudizio di appello con detta modalità di assunzione<br />
della prova dichiarativa. Secondo un altro orientamento, invece, l’assunzione della<br />
prova orale nel dibattimento di secondo grado deve avvenire con le medesime modalità<br />
previste per il primo grado di giudizio, anche se l’inosservanza di ciò non comporta<br />
alcuna nullità (Cass., sez. II, 21 settembre 1992, n. 11730).<br />
Questioni di nullità. Il potere di annullamento previsto per il giudice di appello,<br />
riservato in via generale alla giurisdizione di legittimità, è esercitabile solamente nei<br />
casi tassativi di cui all’art. 604 c.p.p., tra i quali non sono ricompresi i vizi di motivazione<br />
della sentenza appellata (Cass., sez. V, 9 febbraio 2000, n. 727).<br />
039<br />
040<br />
041<br />
Sussiste invece un contrasto giurisprudenziale in tema di ricorribilità per cassazione<br />
della sentenza di annullamento per diversità del fatto accertato rispetto a quello<br />
contestato. Ad avviso di alcune decisioni, qualora il giudice di appello dovesse avvedersi<br />
di una tale difformità, non potendo decidere in merito allo stesso – in ragione dell’impossibilità<br />
di sottrarre all’imputato un grado di giudizio – non può fare altro se non<br />
annullare la decisione di primo grado e, contemporaneamente, trasmettere gli atti al pubblico<br />
ministero perché si proceda ad un nuovo giudizio. Tale sentenza di annullamento<br />
non è ricorribile per cassazione dall’imputato per carenza di interesse in quanto l’unico<br />
effetto che si determina è quello dell’avvio di un nuovo accertamento processuale. Non<br />
verrebbe a crearsi alcun pregiudizio, dovendo quest’ultimo risiedere e rinvenirsi non già<br />
in una mera eventualità, ma unicamente nell’attualità degli effetti direttamente prodotti<br />
dal provvedimento impugnato (Cass., sez. VI, 14 aprile 2003, n. 33063). Secondo un<br />
orientamento opposto, invece, la sentenza di annullamento è pronunciata anche al fine<br />
di evitare il passaggio in giudicato di quella di primo grado: essa sarebbe pertanto una<br />
decisione meramente processuale ed è soggetta a ricorso per cassazione (Cass., sez. II,<br />
19 novembre 2004, n. 47976). Altre pronunce, affermando la natura processuale della<br />
sentenza di annullamento, hanno altresì aggiunto che essa è ricorribile per cassazione da
042-043 Appello 34<br />
parte di tutti gli interessati, ex art. 568 comma 2 c.p.p. (Cass., sez. V, 18 dicembre 2002,<br />
n. 2027). Un orientamento contrapposto, invece, ha ritenuto che questa sentenza<br />
non sarebbe ricorribile per cassazione, sia perché non ricompresa nell’elenco tassativo dei<br />
provvedimenti impugnabili, sia perché difetterebbe in ogni caso l’interesse ad impugnare<br />
una sentenza che contiene solamente un mero atto di impulso alla ripetizione di un nuovo<br />
giudizio di primo grado: in quanto tale essa non lederebbe il diritto di difesa dell’imputato<br />
che, nel nuovo giudizio di primo grado, non incontrerà alcuna preclusione (Cass., sez. VI,<br />
21 gennaio 2004, n. 9744).<br />
In ordine invece alla deduzione in appello di nullità assolute o a regime intermedio<br />
che non si estendano al provvedimento che dispone il giudizio o alla sentenza di<br />
primo grado, il giudice di appello ha il potere di dichiarare, in ogni caso, le nullità che<br />
non sono state sanate, ma non è tenuto a disporre la rinnovazione degli atti invalidi se<br />
ritiene che essi non forniscono elementi necessari al giudizio (Cass., sez. V, 15 aprile<br />
2004, n. 22770).<br />
In ordine agli effetti che la decisione di annullamento del giudizio di primo grado produce<br />
per il giudice al quale sono rimessi gli atti, la giurisprudenza ha affermato il principio<br />
secondo cui tale decisione ha effetto vincolante: egli non potrà ricusare la cognizione<br />
del procedimento, né sollevare conflitto, essendo il ricorso in cassazione l’unico rimedio<br />
possibile avverso di essa. In assenza del ricorso dinanzi al giudice di legittimità, si forma<br />
il giudicato sulla decisione di secondo grado, con il conseguente vincolo per il giudice di<br />
primo grado di ripetere il relativo giudizio (Cass., sez. I, 1 luglio 2004, n. 31641).<br />
042<br />
<strong>La</strong> sentenza di appello. Fatte salve le ipotesi in cui il giudice di appello debba affrontare<br />
un questione di nullità ai sensi dell’art. 604 c.p.p. ( 041) , il giudizio di appello si<br />
chiude con una pronuncia di conferma o riforma della sentenza impugnata. Il giudice<br />
può anche emettere pronunce di natura processuale: come quelle che dichiarano<br />
il difetto di giurisdizione (art. 20, comma 2, c.p.p.) o l’incompetenza (art. 24 c.p.p.)<br />
ovvero l’annullamento (33 octies , comma 1, c.p.p.) per inosservanza delle norme sulla<br />
composizione collegiale o monocratica del tribunale, dichiarata in appello. Esula pure<br />
dall’alternativa conferma-riforma la sentenza con la quale il giudice d’appello dichiari<br />
l’inammissibilità dell’impugnazione, a norma dell’art. 591, comma 4, c.p.p, non rilevata<br />
in limine.<br />
Con la decisione di conferma il giudice ritiene non fondati i motivi di appello,<br />
con quella di riforma accoglie tutti o alcuni dei motivi proposti, salvo il<br />
divieto di reformatio in peius se appellante è il solo imputato.<br />
Si è affermato (Tr a n c h i n a-Di Ch i a r a, voce Appello (dir. proc. pen.), in Enc. Dir., III Agg.,<br />
Milano 1999, pag. 215) che conferma o riforma sarebbero “predicati riferibili al dispositivo<br />
della sentenza, e non alla motivazione” che risponderebbe alle regole generali dettate per<br />
la sentenza di primo grado dall’art. 546 c.p.p.<br />
043<br />
Le pronunce del giudice di appello sull’azione civile sono immediatamente esecutive,<br />
ancorché impugnate per cassazione. Si è tenuto conto dell’esigenza di attribuire sollecita<br />
soddisfazione alle pretese della parte civile, con l’opportuno limite costituito dal rischio<br />
di danno grave e irreparabile, per cui l’imputato o il responsabile civile possono chiedere<br />
alla Corte di cassazione di sospendere l’esecuzione della condanna ai sensi dell’art.<br />
612 c.p.p. ( 5299). Se la sentenza di appello non sia impugnata per cassazione l’art.<br />
605 c.p.p. stabilisce che copia di essa , con gli atti del procedimento, sia trasmessa senza<br />
ritardo a cura della cancelleria, al giudice di primo grado allorquando quest’ultimo si
35<br />
Appello<br />
043<br />
competente per l’esecuzione. In giurisprudenza si è affermato, invece, che il giudice di<br />
appello che su gravame del solo pubblico ministero, condanni l’imputato assolto nel<br />
giudizio di primo grado, deve provvedere anche sulla domanda della parte civile che non<br />
abbia impugnato la decisione assolutoria (Cass., sez. V, 7 luglio 2005, n. 835).<br />
Sotto il profilo motivazionale, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione<br />
di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio ragionamento probatorio<br />
e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della<br />
prima sentenza (Cass., sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748). Tale obbligo di motivazione<br />
costituisce un dovere del giudice di secondo grado specialmente quando, nel riformare<br />
la prima decisione, egli valuti diversamente il materiale istruttorio rimasto inalterato non<br />
potendosi limitare alla citazione formale delle fonti di prova (Cass., sez. II, 11 novembre<br />
2005, n. 746). Al giudice di secondo grado, invece, è consentito motivare per<br />
relationem al provvedimento gravato purché egli si attenga al rispetto di criteri specifici.<br />
Il riferimento, infatti, deve risultare ad un atto legittimo del procedimento la cui motivazione<br />
sia congrua per rapporto alla propria “giustificazione” verso il provvedimento<br />
finale, il giudice deve risultare a conoscenza delle ragioni del provvedimento cui si<br />
riferisce, delle quali egli deve condividere la decisione. Infine, è necessario che l’atto di<br />
riferimento sia conosciuto dall’interessato o deve essere a lui ostensibile (Cass., sez. IV,<br />
20 gennaio 2004, n. 16886). <strong>La</strong>ddove, invece, la decisione di secondo grado si limiti a<br />
riprodurre la decisione confermata dichiarando di aderire alla motivazione ivi espressa,<br />
essa sarà viziata per carenza di motivazione (Cass., sez. IV, 20 aprile 2005, n. 6221).
070-152<br />
Applicazione della pena<br />
su richiesta delle parti<br />
<strong>SOMM</strong><strong>ARIO</strong><br />
070 - <strong>La</strong> nozione di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento);<br />
071 - <strong>La</strong> natura e il contenuto dell’accordo; 072 - I soggetti legittimati a<br />
richiedere l’applicazione della pena: l’indagato (o l’imputato) e il p.m. Le persone giuridiche<br />
e la richiesta di applicazione della sanzione amministrativa; 077 - Il contenuto<br />
dell’accordo; 082 - Il patteggiamento “allargato”. Le cause di esclusione oggettiva;<br />
085 - Le cause di esclusione soggettiva; 088 - Richiesta di applicazione della pena,<br />
concorso formale e continuazione ex art. 81 c.p.; 092 - <strong>La</strong> richiesta di applicazione<br />
della pena; 093 - <strong>La</strong> presentazione della richiesta; 097 - Richiesta di applicazione della<br />
pena nel corso delle indagini preliminari; 105 - Richiesta di applicazione della pena<br />
in caso di giudizio immediato; 106 - Richiesta di applicazione della pena e giudizio<br />
direttissimo; 107 - <strong>La</strong> sentenza che applica la pena su accordo delle parti; 108 - <strong>La</strong><br />
sentenza e i poteri del giudice; 117 - Sentenza di patteggiamento e sospensione condizionale<br />
della pena; 120 - Sentenza di applicazione della pena su richiesta e parte<br />
civile; 121 - <strong>La</strong> motivazione della sentenza che applica la pena; 123 - <strong>La</strong> natura della<br />
sentenza di patteggiamento; 125 - <strong>La</strong> rinnovazione della richiesta di applicazione<br />
della pena ex art. 448 comma 1; 130 - Effetti dell’applicazione della pena su richiesta;<br />
131 - Effetti che si estendono a tutte le sentenze di patteggiamento; 134 - Benefici<br />
riconosciuti dall’art. 445 comma 1 solo nel caso di sentenza che applichi una pena<br />
non superiore ai due anni; 139 - Le impugnazioni della sentenza che applica la pena:<br />
appello e ricorso per cassazione; 150 - Revisione.<br />
Riferimenti normativi: artt. 444-448.<br />
<strong>La</strong> nozione di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento).<br />
L’applicazione della pena su richiesta delle parti, generalmente conosciuta<br />
nella prassi come “patteggiamento”, è un procedimento speciale regolato<br />
nel vigente codice di rito nel Titolo II del Libro VI agli artt. 444 - 448. Il legislatore,<br />
pur consapevole del fatto che il procedimento ordinario assicura a tutte le<br />
parti la possibilità di approfondire e sostenere la propria posizione processuale nel<br />
modo più completo e con le maggiori garanzie per la difesa dell’imputato, tuttavia,<br />
con giusto realismo, ha preso atto della necessità di accelerare lo svolgimento<br />
dei processi – notoriamente assai lento nel nostro sistema processuale penale - ed<br />
ha quindi previsto i procedimenti c.d. speciali ( 1620 ss., 1760 ss., 1700 ss.,<br />
4580 ss.), che hanno il preciso scopo di abbreviare la durata dei processi, così<br />
da permettere che un numero cospicuo di essi venga portato a termine in tempi<br />
più rapidi, in modo da produrre un effetto deflattivo sul considerevole numero di<br />
procedimenti pendenti (Sc a pa r o n e, Procedura penale, II, Torino 2008, pag. 153)<br />
ed evitare la prescrizione dei reati contestati.<br />
In tale ottica l’applicazione della pena su richiesta delle parti ha un ruolo particolarmente<br />
rilevante: con il c.d. patteggiamento, infatti, si perviene alla sentenza<br />
conclusiva del primo grado di giurisdizione senza che si debbano celebrare<br />
la fase dibattimentale ( 1000 ss.) o l’udienza preliminare ( 6150 ss.).<br />
In sostanza col patteggiamento, per motivazioni di mera economia processuale<br />
fortemente perseguite dal legislatore del 1988, si perviene alla pronuncia da parte<br />
del giudice ( 1460 ss.) di una sentenza che infligge all’imputato ( 2130 ss.)<br />
la pena richiesta e concordata dallo stesso imputato con il pubblico ministero (<br />
4870 ss.).<br />
070
071-073 Applicazione della pena su richiesta delle parti 38<br />
Naturalmente la normativa vigente, per invogliare l’imputato - che accetta di non<br />
difendersi, rinunciando all’accertamento dei fatti nella fase dibattimentale - a scegliere<br />
la via del patteggiamento, ha previsto una serie di incentivi: in primo luogo - ed è il<br />
motivo principale per cui nella prassi l’imputato si decide di aderire al patteggiamento -<br />
la pena di cui si chiede l’applicazione è quella che si ipotizza verrebbe inflitta all’esito<br />
del dibattimento, ma “diminuita fino a un terzo” (art. 444 c.p.p.). L’imputato, poi, in<br />
linea generale e salvo quanto si dirà in seguito riguardo al patteggiamento c.d. allargato,<br />
non può essere condannato a pene accessorie, a spese processuali, né gli possono essere<br />
applicate misure di sicurezza. <strong>La</strong> sentenza di patteggiamento, inoltre, non può pronunciarsi<br />
sulla richiesta di restituzioni e di risarcimento del danno avanzata dalla costituita<br />
parte civile ( 4210); non ha, inoltre, efficacia nei giudizi civili e amministrativi; non<br />
è, infine, menzionata nel certificato generale, né nel certificato penale; da ultimo, il reato<br />
ed ogni effetto penale si estinguono, se l’imputato non commette un nuovo reato della<br />
stessa indole entro un determinato termine temporale che decorre dal momento in cui la<br />
sentenza è divenuta irrevocabile.<br />
Il patteggiamento, quindi, è un procedimento applicabile su accordo dell’imputato e del<br />
pubblico ministero (Rel. al progetto preliminare e al testo definitivo del c.p.p., in Suppl.<br />
ord. n. 2, G.U. n. 250 del 24 ottobre 1988, 107), che devono pervenire ad una soluzione<br />
consensuale sul merito dell’imputazione e sulla sanzione di cui chiedere al giudice l’applicazione<br />
(a proposito del patteggiamento in dottrina si è parlato di “giustizia consensuale<br />
e di carattere premiale”, Do l c i n i, Problemi vecchi e nuovi in tema di riti alternativi: patteggiamento,<br />
accertamento di responsabilità, misura della pena, in Riv. it. dir. proc. pen. 2009,<br />
2, pag. 569).<br />
Si è riconosciuto generalmente che il carattere negoziale dell’istituto non contrasta col<br />
dettato costituzionale: se da una parte si è, infatti, definitivamente affermato il principio<br />
per cui l’imputato ha il diritto di difendersi provando, dall’altra si deve riconoscergli<br />
anche la possibilità di accordarsi sull’esito del processo, rinunciando all’accertamento<br />
del fatto (e ciò, pure ammettendo la legittimità costituzionale dell’istituto, fa autorevolmente<br />
concludere che “bisogna quindi riconoscere che la giustizia negoziata da’<br />
vita ad una forma di giurisdizione anomala in quanto intrinsecamente sommaria, anzi<br />
sommarissima”, Am o d i o, Giustizia penale negoziata e ragionevole durata del processo,<br />
in Cass. pen. 2006, pag. 3409) e affidando al giudice solo la verifica della rispondenza<br />
dell’accordo intercorso con il pubblico ministero alla normativa vigente.<br />
071<br />
072<br />
073<br />
<strong>La</strong> natura e il contenuto dell’accordo.<br />
I soggetti legittimati a richiedere l’applicazione della pena: l’indagato (o l’imputato)<br />
e il p.m. Le persone giuridiche e la richiesta di applicazione della sanzione<br />
amministrativa.<br />
a) I soggetti legittimati a richiedere l’applicazione della pena.<br />
L’indagato ( 2130) (o l’imputato) o il pubblico ministero sono i soggetti legittimati a<br />
richiedere al giudice l’applicazione di una pena che deve essere determinata nella specie<br />
(sanzione sostitutiva, pena pecuniaria o pena detentiva) e specificata nella misura; la<br />
richiesta deve indicare una pena pecuniaria diminuita di un terzo o una pena detentiva<br />
che, tenuto conto delle circostanze e diminuita di un terzo, non superi i cinque anni<br />
soli o congiunti con la pena pecuniaria (art. 444 comma 1 c.p.p.).<br />
<strong>La</strong> richiesta può essere avanzata congiuntamente dall’indagato-imputato e dal p.m.,<br />
ma può anche essere formulata da uno solo di tali soggetti: in tale ipotesi, però, è sem-
39<br />
Applicazione della pena su richiesta delle parti<br />
074-076<br />
pre necessario che la richiesta sia completata anche dal consenso della parte che non<br />
l’ha presentata, quale presupposto necessario perché il giudice possa procedere all’applicazione<br />
della pena (art. 444 comma 2).<br />
In caso di dissenso della parte che non ha formulato la richiesta, spetta solo al p.m. l’obbligo<br />
di esplicitare le ragioni della sua mancata adesione alla domanda (art. 446 comma 6):<br />
il p.m. nella propria valutazione deve avere come riferimento quanto stabilito dall’art. 444<br />
e, quindi, può negare il consenso, perché ritiene non corretta la qualificazione giuridica del<br />
fatto contestato, non congrua la pena ipotizzata, non riconoscibili le circostanze attenuanti<br />
o perché valuta che il reato contestato sia tra quelli per cui il patteggiamento allargato è<br />
espressamente escluso o che la richiesta riguardi un imputato che sia stato dichiarato<br />
delinquente abituale, professionale o per tendenza o recidivo ai sensi dell’art. 99 comma 4<br />
c.p. e la pena superi i due anni (art. 444 comma 2 ultima parte c.p.p.).<br />
Si sono ritenuti, invece, non giustificati il dissenso espresso dal p.m., sulla base della<br />
pretesa oggettiva gravità del fatto e dell’intensità del dolo che aveva connotato la<br />
condotta dell’imputato (Cass., sez. VI, 22 ottobre 2002, n. 3383) e quello motivato<br />
esclusivamente con il non avvenuto risarcimento della parte civile (Cass., sez. IV, 22<br />
giugno 2000, n. 10393).<br />
Sull’imputato non grava, invece, nessun obbligo di giustificare le proprie scelte<br />
processuali difensive. Naturalmente nel caso di dissenso dell’imputato la richiesta del<br />
p.m. non avrà seguito, mentre, nell’ipotesi di mancata adesione motivata del p.m., la<br />
richiesta dell’imputato può essere comunque depositata e il giudice – g.i.p. o g.u.p. – si<br />
limiterà a verificare il rispetto dei termini di deposito in modo che la richiesta possa poi<br />
essere esaminata dal giudice del dibattimento.<br />
Nel caso di citazione diretta ( 630 ss.), il giudice verificherà la tempestività della<br />
presentazione della richiesta che deve essere avanzata prima della dichiarazione di<br />
apertura del dibattimento (art. 555 comma 2 c.p.p.) e constatata la mancanza del consenso<br />
del p.m., esaminerà la richiesta dell’imputato solo all’esito del dibattimento.<br />
È pacifico, d’altra parte, che, in caso di dissenso del p.m., il giudice non possa applicare<br />
la pena richiesta dall’imputato, in quanto il parere del p.m. è vincolante per il rito:<br />
il giudice, quindi, non può trascurare il dissenso del p.m. ed applicare egualmente la<br />
pena all’udienza preliminare ( 6150 ss.) o prima dell’inizio del dibattimento, ma può<br />
soltanto pronunziare la sentenza di patteggiamento, in contrasto con il parere espresso<br />
dal p.m., all’esito del dibattimento.<br />
b) Persone giuridiche e richiesta di patteggiamento.<br />
Anche le persone giuridiche e gli enti, compresi quelli privi di personalità giuridica che<br />
non svolgono funzioni di rilievo costituzionale, possono chiedere, ex art. 63 D.L.vo 8<br />
giugno 2001, n. 231, l’applicazione della sanzione amministrativa in relazione agli<br />
illeciti amministrativi dipendenti da reati, previsti dall’art. 1 del medesimo decreto.<br />
L’applicazione della sanzione amministrativa deve essere richiesta nei modi e nei tempi<br />
previsti dalle disposizioni relative all’applicazione della pena su richiesta contemplate<br />
nel codice di rito. <strong>La</strong> richiesta può essere sempre avanzata, se la sanzione prevista è<br />
quella pecuniaria, mentre se se si tratta di una sanzione interdittiva (art. 9 comma 2<br />
D.L.vo n. 231/2001) può essere ammessa solo nel caso in cui il giudizio nei confronti<br />
dell’imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo sia definito o venga<br />
definito col patteggiamento (Cass., sez. II, 30 ottobre 2008, n. 45130).<br />
L’iter per l’applicazione della pena alla persona giuridica è identico a quello previsto per<br />
la applicazione della sanzione penale all’imputato.<br />
074<br />
075<br />
076
077-080 Applicazione della pena su richiesta delle parti 40<br />
077<br />
078<br />
079<br />
Il contenuto dell’accordo. Il contenuto dell’accordo è, dunque, delineato dall’art.<br />
444 commi 1 e 3 c.p.p., in cui sono precisati i limiti, sopra richiamati, entro i quali le<br />
parti possono negoziare l’entità della pena che il giudice deve poi applicare, dopo aver<br />
verificato “sulla base degli atti” la correttezza della qualificazione giuridica del fatto<br />
contestato, l’applicazione e la comparazione tra le circostanze prospettate dalla parti<br />
nella richiesta e la congruità della pena concordata.<br />
L’accordo di patteggiamento deve necessariamente contenere anche il computo<br />
della diminuzione della pena “fino ad un terzo”, perché tale diminuzione, che<br />
costituisce un effetto tipico del rito, è prevista dalla legge come obbligatoria e non<br />
facoltativa: la mancata riduzione premiale per il rito non può, quindi, essere compensata,<br />
applicando nell’estensione massima una diminuente diversa – p.e. attenuante o<br />
tentativo –, ma deve essere applicata per il solo fatto della scelta del rito (Cass., sez. III,<br />
14 gennaio 2009, n. 9888).<br />
Il comma 3 dell’art. 444, in particolare, consente che la parte subordini l’efficacia della<br />
richiesta formulata alla concessione della sospensione condizionale della pena. In tale<br />
ipotesi il giudice è di fronte ad una alternativa: infatti o ritiene di potere aderire alla<br />
richiesta subordinata e quindi di applicare la pena concordata richiesta, concedendone<br />
la sospensione condizionale, oppure, se valuta non concedibile il beneficio della<br />
sospensione, deve necessariamente rigettare la richiesta di patteggiamento. In<br />
sostanza al giudice non è consentito di accogliere parzialmente la richiesta, ma, alla<br />
luce dell’ultima parte del comma 3 dell’art. 444, può soltanto accogliere integralmente il<br />
contenuto dell’accordo comprensivo del beneficio della sospensione condizionale della<br />
pena o respingerlo in toto.<br />
080<br />
In tale ottica interpretativa la Corte di cassazione ha, pertanto, ritenuto illegittima la sentenza<br />
di patteggiamento con la quale il giudice, a fronte di un accordo che subordinava<br />
l’applicazione della pena alla concessione del beneficio della sospensione condizionale,<br />
riteneva, nel ratificare l’accordo tra le parti, di subordinare la concessione del beneficio ex<br />
art. 165 c.p. alla prestazione da parte dell’imputato di una attività non retribuita a favore<br />
della collettività (Cass., sez. VI, 29 ottobre 2009, n. 42635).<br />
<strong>La</strong> giurisprudenza di legittimità, d’altra parte, ritiene per consolidato orientamento, che,<br />
in sede di patteggiamento, la sospensione condizionale della pena non possa essere<br />
concessa d’ufficio, ma possa essere riconosciuta, oltre che nell’ipotesi di subordinazione<br />
dell’efficacia della richiesta alla concessione del beneficio, esclusivamente quando la<br />
relativa domanda abbia formato oggetto della pattuizione intervenuta tra le parti (Cass.,<br />
sez. fer., 23 luglio 2009, n. 31301; Cass., sez. IV, 21 ottobre 2008, n. 40950; Cass., sez.<br />
IV, 28 febbraio 2007, n. 21508).<br />
Si discute in giurisprudenza circa la possibilità di richiedere il patteggiamento soltanto<br />
per alcuni dei reati contestati, in modo che il processo prosegua con le forme<br />
ordinarie per le altre imputazioni. Da una parte si è ritenuto legittimo il provvedimento<br />
con cui il g.i.p. nel pronunciare sentenza ex art. 444, sull’accordo intervenuto tra le<br />
parti nel corso delle indagini preliminari ( 2300 ss.) su alcuni reati, abbia disposto la<br />
trasmissione degli atti al p.m. per l’ulteriore corso per i reati restanti (Cass., sez. VI, 22<br />
aprile 2008, n. 22247); dall’altra si è affermato, in senso contrario, che nell’ipotesi ora in<br />
esame il patteggiamento è inammissibile, perché “la caratteristica del rito alternativo di<br />
essere funzionalmente orientato alla rapida definizione del processo in ordine a tutti i reati<br />
rende incompatibile un’utilizzazione differenziata del rito solo per la decisione di alcune<br />
imputazioni tra quelle contestate, con la prosecuzione del processo per le altre” (Cass.,<br />
sez. I, 12 gennaio 2006, n. 6703; Cass., sez. II, 22 ottobre 2001, n. 45907, che, nel caso<br />
particolare di patteggiamento per alcuni reati accompagnato da sentenza di non punibilità<br />
ex art. 129 per altri, ritiene che l’annullamento della sentenza di proscioglimento comporti<br />
anche l’annullamento di quella applicativa il patteggiamento, da considerarsi pronunciata<br />
in violazione del divieto di definizione parziale del procedimento ed in potenziale elusione<br />
dei requisiti di applicabilità del rito).
41<br />
Applicazione della pena su richiesta delle parti<br />
081-084<br />
<strong>La</strong> richiesta di patteggiamento o il rilascio del consenso non costituiscono una qualche<br />
forma di ammissione di responsabilità (Cass., sez. un., 26 febbraio 1997, n. 3600), ma<br />
semplicemente una rinuncia sia a far valere le proprie ragioni ed eccezioni (Cass., sez. IV,<br />
11 aprile 2008, n. 16832) sia al diritto del contraddittorio, per cui ciò che rileva è la scelta<br />
del rito che non perde, quindi, la propria validità neppure di fronte ad una dichiarazione<br />
di innocenza dell’imputato che ha formulato la richiesta di applicazione della pena (Cass.,<br />
sez. III, 18 marzo 1997, n. 13199).<br />
081<br />
Il patteggiamento “allargato”. Le cause di esclusione oggettiva. Per estendere l’utilizzabilità<br />
del patteggiamento ad un numero di casi superiore a quello originariamente<br />
previsto dal codice di rito e per indurre, quindi, una più vasta quantità di soggetti ad<br />
utilizzare l’istituto, la L. 12 giugno 2003, n. 134 ne ha ampliato l’ambito di operatività.<br />
L’applicazione della pena è ora utilizzabile se la pena detentiva concordata, ridotta<br />
fino ad un terzo per il rito, non superi i cinque anni soli o in unione alla pena pecuniaria<br />
(art. 444 comma 1). A fronte della possibilità di richiedere l’applicazione di una<br />
pena detentiva più grave rispetto alle ipotesi originarie, la novella ha, però, introdotto<br />
una serie di limitazioni di carattere oggettivo e soggettivo all’operatività dell’istituto,<br />
successivamente ampliata (art. 444 comma 1 bis).<br />
In primo luogo, ex art. 444 comma 1 bis, non può accedere al patteggiamento allargato<br />
l’imputato di uno dei delitti richiamati analiticamente dall’art. 51 commi 3 bis e 3<br />
quater c.p.p. (la giurisprudenza di legittimità ha, peraltro, ritenuto che tale divieto sia<br />
inapplicabile alla fattispecie di associazione finalizzata alla commissione di fatti di “lieve<br />
entità” in materia di traffico illecito di sostanze stupefacenti, di cui all’art. 74 comma 6<br />
D.P.R. 309/1990, pur ricompresa tra le ipotesi delittuose elencate nell’art. 51 comma 3<br />
bis, perché l’associazione per la commissione di fatti di lieve entità costituisce una vera<br />
e propria figura autonoma di reato, che segue piuttosto il regime giuridico previsto per<br />
il reato di cui all’art. 416 per il quale non è prevista alcuna limitazione all’accesso al<br />
patteggiamento allargato, cfr.: Cass., sez. III, 5 marzo 2009, n. 11938; Cass., sez. VI, 20<br />
settembre 2007, n. 42639). Non si può, inoltre, invocare l’applicazione della pena nell’ipotesi<br />
di contestazione dei delitti di cui agli artt. 600 bis commi 1 e 3, 600 ter commi<br />
1, 2, 3 e 5, 600 quater comma 2, 600 quater comma 1 relativamente alla condotta di<br />
produzione o commercio di materiale pornografico, 600 quinquies, 609 bis, 609 ter, 609<br />
quater e 609 octies c.p. (art. 444 commi 1 e 1 bis). Non può, poi, richiedere tale forma<br />
di patteggiamento più ampio l’imputato che sia già stato dichiarato delinquente<br />
abituale, professionale o per tendenza o recidivo a norma dell’art. 99 comma 4 c.p.<br />
In sostanza, il legislatore, introducendo la nuova normativa, ha inteso dilatare l’ambito<br />
applicativo dell’istituto per incentivarne un più frequente utilizzo così da rafforzare le<br />
capacità deflattive del procedimento, ma, per controbilanciare tale ampliamento, ha<br />
previsto che l’accesso al patteggiamento allargato non sia consentito in situazioni<br />
oggettive (reati di particolare gravità quali quelli relativi alla criminalità organizzata<br />
o al terrorismo) o ad imputati (ritenuti notevolmente pericolosi) che non sono stati<br />
giudicati meritevoli di trattamenti sostanziali vantaggiosi.<br />
082<br />
083<br />
084<br />
Tali preclusioni oggettive e soggettive hanno suscitato qualche perplessità ed alcuni rilievi<br />
critici (Am o d i o, op. cit., pag. 3410), in quanto la scelta legislativa parrebbe avere esclusivamente<br />
intenti punitivi e sembrerebbe risponde soltanto ad esigenze di rassicurazione<br />
dell’opinione pubblica (Br i c c h et t i-Pistorelli, Restano gli incentivi solo sull’accordo a due anni,<br />
in Guid. dir. 2003, n. 25, pag. 24) e, d’altra parte, l’individuazione dei reati per i quali non<br />
si può richiedere la pena negoziata non avrebbe caratteri di omogeneità (Russo, sub Art.<br />
444, in Commento al codice di procedura penale a cura di Corso, II ed., Piacenza 2008,<br />
pag. 2083).
085-086 Applicazione della pena su richiesta delle parti 42<br />
Si è ritenuto, però, in senso contrario, che la limitazione all’accesso al patteggiamento<br />
per le ipotesi delittuose richiamate dall’art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p. sia pienamente<br />
legittima in quanto rispondente ad esigenze di carattere processuale: “le fattispecie<br />
considerate – rientranti nella categoria generale dei reati di c.d. ‘criminalità organizzata’<br />
– pongono, infatti, specifiche esigenze dal punto di vista dell’accertamento e<br />
della relativa dimostrazione probatoria” e, quindi, appare ragionevole l’opzione legislativa<br />
che esclude tali reati dal patteggiamento in quanto “dettata non già da un intento<br />
punitivo nei confronti degli autori di quei reati, bensì dalla consapevolezza di non poter<br />
non tener conto del sentire dei consociati, irrimediabilmente restii ad ammettere per<br />
tipologie delittuose particolarmente odiose sconti di pena analoghi a quelli conseguenti<br />
al patteggiamento” (Ge r a c i, Chiaroscuri della disciplina in tema di patteggiamento<br />
allargato, in Cass. pen. 2007, pag. 2454).<br />
In particolare, sul tema, la Consulta (C. Cost., 28 dicembre 2006, ord., n. 455, in Cass. pen.<br />
2007, 1056) ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale<br />
sollevate in riferimento all’art. 3 Cost. dell’art. 444 comma 1 bis, nella parte in<br />
cui esclude dal patteggiamento allargato gli imputati di alcuni reati, la cui pena edittale<br />
non sarebbe di per sé ostativa all’accesso al rito speciale (nel caso concreto il Giudice<br />
delle leggi aveva preso in esame l’art. 416 bis c.p.) nonché i recidivi reiterati, in quanto<br />
le preclusioni al patteggiamento allargato costituiscono il frutto di una scelta legislativa<br />
discrezionale, ma non arbitraria. <strong>La</strong> Corte, ribadendo peraltro la propria giurisprudenza, ha<br />
infatti affermato che è consentito al legislatore prevedere ipotesi di esclusione soggettiva<br />
ed oggettiva dal patteggiamento allargato, riequilibrando in tal modo, nell’ambito di<br />
una scelta discrezionale non censurabile, la scelta di dilatare il perimetro della giustizia<br />
negoziata in relazione alla gravità dei reati ed ai casi di pericolosità qualificata.<br />
085<br />
086<br />
Le cause di esclusione soggettiva. L’art. 444 comma 1 bis c.p.p. esclude dall’applicazione<br />
della pena su richiesta, solo quando l’accordo sulla pena superi i due anni di<br />
reclusione, i procedimenti contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali,<br />
professionali e per tendenza o recidivi ai sensi dell’art. 99 comma 4 c.p.: con tale<br />
limitazione si è voluto evitare che soggetti particolarmente inclini a delinquere possano<br />
usufruire delle diminuzioni di pena proprie del patteggiamento.<br />
<strong>La</strong> dichiarazione di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere deve sussistere<br />
al momento della richiesta di applicazione della pena, mentre, in caso di recidiva,<br />
si fa luogo direttamente all’aumento di pena per chi si trovi nelle condizioni richieste<br />
dalla norma e non è, quindi, necessario che il soggetto sia già stato dichiarato recidivo,<br />
ma è sufficiente che si trovi nelle condizioni per esserlo, anche con la sentenza che<br />
sarà pronunziata nel procedimento in cui è proposto il patteggiamento (Cass., sez.<br />
II, 27 ottobre 2005, n. 44604). In altre parole è sufficiente che la recidiva, per essere<br />
qualificata come causa di esclusione del patteggiamento, sia stata contestata ed in tal<br />
senso si deve intendere il concetto di “dichiarazione” al quale fa riferimento l’art. 444<br />
comma 1 bis, anche in relazione alle altre situazioni soggettive di esclusione alle quali<br />
più propriamente si attaglia (Cass., sez. II, 4 dicembre 2006, n. 1097). <strong>La</strong> necessità dell’esplicita<br />
contestazione fa, pertanto, escludere che per precludere il patteggiamento<br />
sia sufficiente che dal certificato penale emerga una situazione riportabile alla<br />
recidiva (Cass., sez. I, 13 novembre 2008, n. 1007; Cass., sez. III, 13 gennaio 2006, n.<br />
17052; Cass., sez. VI, 16 settembre 2004, n. 39238).<br />
Il giudice, quindi, nella motivazione della sentenza applicativa della pena, non deve<br />
esporre in modo specifico le ragioni dell’esclusione dell’operatività della recidiva
43<br />
Applicazione della pena su richiesta delle parti<br />
088-089<br />
reiterata e del conseguente aumento di pena, in quanto la ratifica dell’accordo tra le<br />
parti presuppone che egli abbia effettuato il controllo sulla correttezza dell’applicazione<br />
e comparazione delle circostanze, così come prospettate nella richiesta, ed è sufficiente,<br />
dunque, che nella motivazione si dia atto di tale avvenuta verifica (Cass., sez. VI, 17<br />
aprile 2009, n. 20953; Cass., sez. VI, 24 gennaio 2008, n. 16187; ma Cass., sez. VI, 5<br />
maggio 2009, n. 20959 precisa che il giudice, pur nella peculiarità del rito e in maniera<br />
concisa, deve indicare sinteticamente le ragioni per le quali intende, o no, escludere la<br />
recidiva).<br />
Per quanto riguarda, in particolare, la dichiarazione di delinquenza abituale, si deve<br />
osservare che non pare possa essere pronunciata con la sentenza che applica la pena su<br />
richiesta in quanto tale dichiarazione richiede una valutazione sulla stessa indole dei<br />
reati e, inoltre, può comportare da parte del magistrato di sorveglianza l’applicazione di<br />
una misura di sicurezza cui osta la pronuncia ex art. 445 (Cass., sez. V, 1 aprile 2008,<br />
n. 19623; Cass., sez. V, 20 maggio 2004, n. 27994), anche se si è sostenuto, in senso<br />
contrario, che la dichiarazione di delinquenza abituale concernerebbe una condizione<br />
personale del reo e, quindi, nell’ambito del rito di patteggiamento non sarebbe vietata<br />
dall’art. 445 c.p.p., che fa divieto al giudice di applicare pene accessorie e misure di<br />
sicurezza (Cass., sez. IV, 6 luglio 1994, n. 1015).<br />
Il riferimento a figure quali il delinquente professionale, abituale o per tendenza scomparse<br />
nella prassi e l’inclusione della recidiva, la cui contestazione è demandata al p.m., dalla cui<br />
valutazione discrezionale dipende, quindi, l’accesso al rito allargato, tra le condizioni che<br />
precludono soggettivamente l’accesso al patteggiamento, sono stati peraltro criticati in dottrina<br />
(Ri s i c at o, I riflessi sostanziali del c.d. patteggiamento ‘allargato’: l’irriducibile attrito tra<br />
giustizia penale negoziale, funzioni della pena e tutela della vittima, in Legisl. pen. 2004,<br />
pag. 857).<br />
Richiesta di applicazione della pena, concorso formale e continuazione ex art. 81 c.p.<br />
Come è facilmente intuibile accade sovente nella pratica che la richiesta di applicazione<br />
della pena venga formulata in relazione a più reati contestati, legati dal vincolo della<br />
continuazione ex art. 81 c.p. In tali ipotesi, pertanto, l’accordo tra le parti sulla pena da<br />
applicare si riferisce a più reati in continuazione, per cui, se il giudice accoglie la richiesta<br />
della pena concordata, non sussiste più alcun interesse o diritto delle parti stesse a<br />
lamentarsi della mancata specificazione in sentenza degli aumenti imputabili a ciascuna<br />
delle violazioni satelliti e, pertanto, l’eventuale ricorso per cassazione per tale profilo<br />
è inammissibile perché manifestamente infondato (Cass., sez. IV, 15 gennaio 2007, n.<br />
12245): il giudice non può che respingere o accogliere la richiesta di patteggiamento<br />
in tutta l’articolazione del calcolo della sanzione, senza facoltà di operare interventi che<br />
modifichino il tema pattiziamente devoluto e deve limitarsi a verificare che la pena complessivamente<br />
richiesta non ecceda, in difetto o in eccesso, dai limiti legali.<br />
In caso di reati legati dal vincolo della continuazione, quindi, quando la richiesta<br />
contenga la misura della pena base e l’aumento risultante dalla continuazione, il giudice<br />
è tenuto solamente a verificare che il reato da lui ritenuto più grave sia compatibile con<br />
l’applicazione della pena base indicata dal richiedente, tenuto conto del concorso di<br />
possibili circostanze, e che l’aumento per la continuazione sia contenuto nel triplo della<br />
pena base proposta (Cass., sez. VI, 5 maggio 2008, n. 35797).<br />
Nel caso in cui il risultato di tali verifiche conduca a ritenere legittima la pena<br />
complessivamente richiesta, l’autorità giudiziaria non è tenuta ad alcuna specifica<br />
088<br />
089