Intervista con Fabrizio Danna, il guru dello ... - Torino Magazine
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cover story torino magazine <br />
<strong>Fabrizio</strong> <strong>Danna</strong>,<br />
lo sportwear nasce<br />
a <strong>Torino</strong><br />
Modi franchi e diretti, st<strong>il</strong>e<br />
in<strong>con</strong>fondib<strong>il</strong>e, una passione<br />
per <strong>il</strong> proprio lavoro<br />
che gli ha <strong>con</strong>sentito di<br />
percorrere, restando sempre<br />
all’avanguardia, i territori<br />
della moda informale,<br />
quello sportwear al quale<br />
ha saputo attribuire<br />
canoni, st<strong>il</strong>e, indiscutib<strong>il</strong>e<br />
appeal di mercato. <strong>Fabrizio</strong> <strong>Danna</strong> si rac<strong>con</strong>ta per <strong>Torino</strong><br />
<strong>Magazine</strong> partendo dal principio, quando – prima di<br />
creare i jeans – doveva pensare a proteggerli, restando<br />
di guardia fuori dai negozi nei quali <strong>il</strong> mito faceva capolino.<br />
Eravamo in pieno centro alla fine degli anni Settanta…<br />
«Quando andavo al liceo dovevo trovarmi un’attività che<br />
mi permettesse di guadagnare qualche cosa. In quel<br />
periodo, a <strong>Torino</strong>, avevano aperto le prime jeanserie italiane<br />
– Rivendita 12 e Panthouse – ed <strong>il</strong> mio lavoro <strong>con</strong>sisteva<br />
nel prevenire <strong>il</strong> taccheggio: al sabato pomeriggio<br />
mi mettevano fuori dalla porta per <strong>con</strong>trollare che non<br />
rubassero jeans e magliette. Poi sono stato notato dai<br />
proprietari di questa catena, assolutamente innovativa<br />
nel mondo del denim, che mi hanno ‘portato dentro’. Da<br />
quel momento è iniziata la mia escalation: prima guardaporte,<br />
poi commesso e magazziniere, fino ad arrivare<br />
agli uffici dove seguivo gli acquisti. Nel 1980 venni scelto<br />
come assistente da Daniele Audisio, un grande personaggio<br />
purtroppo mancato qualche anno fa, che si mise<br />
in proprio. In corso Massimo D’Azeglio cominciammo a<br />
fare <strong>con</strong>sulenze, nacque <strong>il</strong> marchio Brooksfield e lavorammo<br />
per altre grandi aziende come Henry Cotton e Cotton<br />
Belt. Daniele mi mandava negli Stati Uniti a cercare<br />
nuove idee e tendenze. Per me fu un’esperienza non solo<br />
bella ma addirittura entusiasmante, che mi trasmise<br />
una passione enorme, anche se, purtroppo, i numerosi<br />
impegni mi impedirono di <strong>con</strong>cludere gli studi universitari.<br />
In pochissimo tempo ero passato dalla gavetta a<br />
mansioni di grande r<strong>il</strong>ievo. Potete immaginare che cosa<br />
voleva dire per un ragazzo torinese di 18 anni essere catapultato<br />
a New York, Los Angeles, Londra, Parigi,Tokio<br />
dove – nei mercatini dell’usato – mi trovavo fianco a fianco<br />
<strong>con</strong> Fiorucci, Massimo Osti e Benetton».<br />
Si cercavano idee o prodotti?<br />
«Si andavano a cercare entrambi, ma io cercavo soprattutto<br />
idee. Nei mercati dell’usato si trovava <strong>il</strong> vintage, che<br />
allora era <strong>il</strong> vero vintage, e si scovava sempre qualcosa<br />
da importare e da vendere. Abbiamo importato le t shirt<br />
della Fruit of The Loom, i giubbotti di pelle Avirex, i Levi’s<br />
ma anche oggettistica, come i primi skateboard. Io ho<br />
avuto la fortuna di entrare in quel mondo dalla porta principale<br />
ed oggi non c’è più nulla di paragonab<strong>il</strong>e, nè come<br />
stimoli ne come occasioni. Anche lo scenario italiano è<br />
cambiato, allora tutto si produceva da noi, dal tessuto<br />
alla <strong>con</strong>fezione, perché i prezzi erano in linea col mercadi<br />
GUIDO BAROSIO<br />
foto FRANCO BORRELLI<br />
e ARCHIVIO BATRAX<br />
Una parabola professionale che ripercorre la grande avventura della moda<br />
giovane e informale, ma anche una storia ‘nata e cresciuta’ a <strong>Torino</strong> «dove<br />
si lavora senza pressioni e dove è possib<strong>il</strong>e far crescere giovani talenti».<br />
<strong>Fabrizio</strong> <strong>Danna</strong> crea per sé <strong>con</strong> Jaggy ma, quotidianamente, lancia prodotti<br />
ed idee per le principali aziende del settore. Il suo sogno? «Creare un denim<br />
italiano al cento per cento», riportando <strong>il</strong> jeans nella sua terra d’origine…<br />
to. I marchi di riferimento erano Bell Bottom, Spitfire, Rifle,<br />
Roy Rogers, Wrangler. Il Roy Rogers, ad esempio, era <strong>il</strong><br />
vero jeans da lavoro che si comprava sul mercato.<br />
Adesso, invece, ci <strong>con</strong>frontiamo <strong>con</strong> un made in Italy ‘falso’,<br />
dove <strong>il</strong> prodotto viene costruito all’estero e viene solo<br />
finito in Italia»<br />
Dopo la parabola come prosegue?<br />
«Mi innamoro moltissimo di questa attività e decido di fare<br />
<strong>il</strong> grande passo. Succede nell’85 quando creo gli FD Studios,<br />
prendendo subito clienti importanti, come <strong>il</strong> Gft, che<br />
mi affida diverse linee. A quel tempo feci la <strong>con</strong>oscenza<br />
di Maurizio Vitale, che mi chiese di andare da lui a lavorare<br />
come art director, facendomi una proposta e<strong>con</strong>omica<br />
addirittura s<strong>con</strong>certante. Quando gli risposi che non<br />
me la sentivo perchè avevo appena intrapreso un’attività<br />
in proprio scrisse la cifra su un bigliettino che attaccò<br />
ad un quadro dietro la scrivania, a distanza di molto<br />
tempo era ancora lì… Questo era <strong>il</strong> grande Maurizio!» La<br />
società si trasformò nell’86 in Proges Design (Professional<br />
Group Service) <strong>con</strong> l’idea di offrire <strong>con</strong>sulenza globale.<br />
Avevamo ufficio grafico interno, produttori, terzisti,<br />
un vero servizio totale. Fummo i primi e l’idea si rivelò premiante.<br />
Da allora abbiamo creato e lanciato marchi fortissimi<br />
– come Nautica e Brooksfield Peuterey, North Sa<strong>il</strong>,<br />
Pirelli P Zero, Henry Lloyd – realizzando prodotti per oltre<br />
300 aziende, tutti importanti. Sempre e comunque nel<br />
mondo sportwear.<br />
Un mondo professionale nato e cresciuto a <strong>Torino</strong>.<br />
Più i vantaggi o gli svantaggi?<br />
«Direi entrambi. Per me <strong>Torino</strong> è una delle città più belle<br />
d’Europa, non solo d’Italia. Qui non avevamo la pressione<br />
e lo stress che potevi sentire a M<strong>il</strong>ano, inoltre abbiamo<br />
sempre puntato su ragazzi creativi e propositivi,<br />
modellandoli sulle nostre esigenze e sul nostro st<strong>il</strong>e. Certo,<br />
non riuscivamo a trovarne tanti, perché sovente non<br />
venivano da noi ma andavano direttamente verso altre<br />
Con Robert Kennedy III<br />
«<strong>Torino</strong> è cambiata<br />
molto quando<br />
ha creduto<br />
nelle proprie creatività<br />
e padronanza<br />
di trasferire<br />
le idee agli altri»<br />
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cover story torino magazine<br />
cover story torino magazine <br />
«Quando venni mandato<br />
negli Stati Uniti rimasi<br />
affascinato dalla loro<br />
capacità di valorizzare<br />
le tradizioni: lo st<strong>il</strong>e<br />
di vita americana,<br />
l’uso della bandiera,<br />
<strong>il</strong> blazer blu,<br />
<strong>il</strong> pantalone kaky,<br />
la camicia<br />
botton down in Oxford<br />
bianco»<br />
piazze. Il fatto di essere geograficamente ‘decentrati’<br />
ancora oggi crea qualche sorpresa e i clienti ci domandano<br />
‘Ma come non avete la sede a M<strong>il</strong>ano? Non avete<br />
la sede a Bologna? Non siete giapponesi?’. Noi invece<br />
siamo qui e ci stiamo benissimo».<br />
I suoi creativi sono ancora oggi torinesi?<br />
«Tendenzialmente si. Poi naturalmente – <strong>con</strong> la crescita<br />
dell’azienda – è passato di tutto: americani, inglesi, spagnoli,<br />
giapponesi…».<br />
Per creare e lavorare, <strong>Torino</strong> rappresenta una piazza<br />
stimolante?<br />
«<strong>Torino</strong> è cambiata molto quando ha creduto nelle proprie<br />
creatività e padronanza di trasferire le idee agli altri.<br />
Le Olimpiadi sono state un termine temporale per tutto<br />
questo, ma la svolta era già iniziata prima. Oggi questa<br />
città ha superato molti altri centri. La stessa M<strong>il</strong>ano si è<br />
addormentata sugli allori mentre <strong>Torino</strong> ha voglia di<br />
venir fuori. Basta guardarsi in giro per scoprire gallerie<br />
d’arte, musei all’avanguardia, centri di <strong>con</strong>versazione e<br />
di cultura. E poi, esteticamente, questa è davvero una<br />
piccola Parigi».<br />
Nel 2002 arriva Jaggy, un’altra svolta…<br />
«Tutto nasce da una riflessione <strong>con</strong> Flavio B<strong>il</strong>leri, uno dei<br />
due partners nell’impresa: ‘Ma perché dobbiamo sempre<br />
andare da tutti questi clienti che ci di<strong>con</strong>o che cosa<br />
fare? Che ci richiedono una collezione come questa o<br />
come quella….Per poi mediare <strong>con</strong> l’amministratore delegato,<br />
col direttore commerciale, <strong>con</strong> m<strong>il</strong>le soggetti diversi<br />
da <strong>con</strong>vincere ed entusiasmare’. Da questo stimolo<br />
è nata l’idea: fare una collezione per noi, dove uno si<br />
sarebbe occupato di st<strong>il</strong>e e della parte commerciale, gli<br />
altri due della produzione. La stessa sera, tornato a casa,<br />
guardo in televisione una serie intitolata ‘Jag, avvocati<br />
in divisa’. Mi piace <strong>il</strong> nome e provo a registrarlo, ma era<br />
già di proprietà della Jaguar; così mi invento ‘Jaggy’, che<br />
non vuol dire nulla ma suona bene. Fu un successo immediato<br />
e gratificate, anche perché provammo a fare quello<br />
che gli altri clienti non ci avevano mai permesso di realizzare.<br />
Ci inventammo 7 o 8 storie ed un pantalone per<br />
ogni storia: <strong>il</strong> pantalone di James Dean, quello che<br />
avrebbe potuto disegnare Ph<strong>il</strong>ip Stark, pulitissimo e<br />
lineare, <strong>il</strong> pantalone di Kennedy... Ogni pantalone era ispirato<br />
da un’idea, ma erano differenti anche le etichette.<br />
Non c’era una cosa che li univa, si trattava sempre di storie<br />
a se. In parallelo abbiamo pensato alle scatole di legno.<br />
In quel caso l’idea mi è venuta guardando le <strong>con</strong>fezioni<br />
regalo per <strong>il</strong> vino. Ho pensato: se ci mettono le bottiglie<br />
perché non metterci anche i pantaloni? Così nacque la<br />
scatola di legno rossa: un elemento pubblicitario a<br />
costo zero, perché entrava nel prezzo del pantalone. Il<br />
risultato fu di grande effetto: dieci scatole rosse in una<br />
vetrina o in un negozio si notavano e colpivano l’attenzione<br />
del cliente. Era <strong>il</strong> 2003. Nel 2005 aggiungemmo la<br />
donna, <strong>il</strong> bambino e anche articoli diversi dal pantalone.<br />
Nel 2006 avvenne la svolta e fatturammo <strong>il</strong> 250% in più<br />
rispetto all’anno precedente».<br />
I suoi partner <strong>con</strong>tinuano ad essere gli stessi di allora?<br />
«Si. C’è Flavio B<strong>il</strong>leri, <strong>il</strong> sarto, celebre per la sua frase ‘quando<br />
taglio un pantalone me lo immagino che cammina’:<br />
un’immagine che trovo bellissima. Il team è completato<br />
da Modi Bovicelli, <strong>il</strong> proprietario di una grande azienda che<br />
produce per <strong>con</strong>to terzi. Lui si occupa della produzione».<br />
La produzione avviene parte in Italia e parte all’estero?<br />
«In Italia è localizzata principalmente a Montone, splendido<br />
v<strong>il</strong>laggio arroccato vicino a Perugia, proprio dove<br />
c’era la casa di Fortebraccio. Lì abbiamo una sede Batrax<br />
dove si taglia, si produce, si fanno i campionari e le piccole<br />
quantità. Per le grosse partite andiamo all’estero in<br />
strutture nostre, ma spesso i capi vengono tinti in Italia.<br />
Lavoriamo <strong>con</strong> la più grossa tintoria nazionale, dove nasce<br />
<strong>il</strong> vintage e vengono effettuati i r<strong>il</strong>avaggi, procedura nella<br />
quale siamo all’avanguardia».<br />
La sua ultima intuizione è legata alle suggestioni<br />
kennediane…<br />
«Quando venni mandato negli Stati Uniti rimasi affascinato<br />
dalla loro capacità di valorizzare le tradizioni: lo st<strong>il</strong>e<br />
di vita americano, l’uso della bandiera, <strong>il</strong> blazer blu, <strong>il</strong><br />
pantalone kaki, la camicia botton down in Oxford bianca.<br />
Col tempo fam<strong>il</strong>iarizzai <strong>con</strong> <strong>il</strong> <strong>con</strong>cetto di ‘Preppy’: <strong>il</strong><br />
mood della costa est bostoniana, che possiamo anche<br />
chiamare anglo-americano. Lavorare su un <strong>con</strong>cetto storico<br />
e tradizionale permette di trasmettere quello che si<br />
è perso, di valorizzare la cultura di un’epoca e di far ‘indossare<br />
la cultura’. Tutto si <strong>con</strong>cretizza in uno st<strong>il</strong>e in<strong>con</strong>fondib<strong>il</strong>e,<br />
assai lontano dal semplice prodotto ‘di marca’ o<br />
dal ‘coprire per coprirsi’. Nel Preppy <strong>il</strong> comodo non è mai<br />
sciatto, lo chic non è mai snob e lo sportwear diventa<br />
elegante, ri<strong>con</strong>oscib<strong>il</strong>e. È una f<strong>il</strong>osofia democratica nella<br />
quale la famiglia riveste un ruolo fondamentale. Un <strong>con</strong>cetto<br />
che noi proponiamo anche nelle nostre campagne<br />
d’immagine, dove compaiono sempre lui, lei, <strong>il</strong> cane ed<br />
i bambini; gruppi colti quotidianamente in scenari rasserenanti<br />
e de<strong>con</strong>tratti. In questo percorso umano e professionale<br />
abbiamo avuto la fortuna di <strong>con</strong>oscere Robert<br />
F. Kennedy III, <strong>il</strong> nipote di Bob: un ragazzo fantastico che<br />
<strong>con</strong>osce bene l’italiano, ha frequentato l’università a Bologna<br />
e viene spesso nel nostro paese. Con lui vorremmo<br />
anche lavorare al suo f<strong>il</strong>m ‘AmeriQua’, dove ci interesserebbe<br />
seguire tutta la parte <strong>dello</strong> st<strong>il</strong>e e dei costumi.<br />
La storia, un road movie, rac<strong>con</strong>ta le peripezie di un ragazzo<br />
statunitense che, partendo da New York, arriva nel<br />
nostro paese attraversandolo da Napoli a Bologna».<br />
Nella costa est degli Stati Uniti lo spirito è rimasto<br />
quello di un tempo?<br />
«Loro sono rimasti molto fedeli alla propria storia. Nantucket<br />
è ancora quella di tanti anni fa, lo stesso si può<br />
dire sostanzialmente per Newport, Cap Cod e Martha’s<br />
Vineyard. Mentre la costa ovest è cambiata molto, ad est<br />
attualizzano, procedono, ma non sforzano».<br />
Quali sono i vostri progetti rivolti all’estero?<br />
«Ci stiamo arrivando <strong>con</strong> tranqu<strong>il</strong>lità. Abbiamo iniziato, gradualmente<br />
e bene, dai paesi europei. Oggi siamo presenti<br />
in Francia, Spagna, Germania, Benelux e Ingh<strong>il</strong>terra. A<br />
Londra abbiamo i nostri prodotti da Harrod’s, ed è stata<br />
una grande soddisfazione perché ci hanno cercato loro.<br />
Nei paesi scandinavi, dove si in<strong>con</strong>trano negozi molto belli<br />
e di grande ricerca, siamo particolarmente apprezzati».<br />
E a Newport?<br />
«Sarebbe un sogno! Però <strong>il</strong> mercato americano va affrontato<br />
<strong>con</strong> pazienza e programmazione molto oculata, dato<br />
che non ti permette di sbagliare nulla sui numeri e sulle<br />
<strong>con</strong>segne. Per ora aspettiamo, ma apriremo presto un punto<br />
vendita a Southampton. Sarà la prima tappa».<br />
Qual è <strong>il</strong> futuro <strong>dello</strong> sportwear?<br />
«Questo è un momento decisamente delicato. Ci sono<br />
«Noi abbiamo<br />
un’impronta molto forte<br />
e non dobbiamo<br />
disperderla col fashion<br />
estremo, o <strong>con</strong> <strong>il</strong><br />
formale che ormai<br />
è vecchio, stanco,<br />
noioso»<br />
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«Lo st<strong>il</strong>ista non è solo<br />
quello che ha grande<br />
creatività,<br />
ma colui che riesce<br />
a far indossare<br />
le proprie idee<br />
a più gente possib<strong>il</strong>e»<br />
Durante l’intervista<br />
grandi catene <strong>con</strong> prodotti a costi molto bassi che stanno<br />
drogando <strong>il</strong> <strong>con</strong>sumatore. Si tratta di un’onda anomala<br />
abbastanza lunga. All’inizio <strong>il</strong> cliente paga un terzo<br />
rispetto al prodotto griffato ed è <strong>con</strong>tento, ma alla fine<br />
spenderà di più perché la qualità ed i materiali non sono<br />
certamente all’altezza delle aspettative. Noi rispondiamo<br />
cercando di dare sempre un valore aggiunto: la qualità,<br />
la cura del dettaglio, l’accessorio… Il mio sogno nel cassetto<br />
è di riuscire a dare lavoro al nostro paese producendo<br />
un denim integralmente italiano. Si può, dobbiamo<br />
solo inserire <strong>il</strong> <strong>con</strong>sumatore in una catena virtuosa,<br />
aiutandolo a comprendere che dietro un pantalone, una<br />
giacca, una camicia, c’è tanto valore, tanta cultura, tanto<br />
lavoro ed <strong>il</strong> prezzo – inevitab<strong>il</strong>mente più alto – è giustificato<br />
da queste ragioni».<br />
D’altra parte <strong>il</strong> jeans è nato in Italia…<br />
«Esatto! Lo dice <strong>il</strong> termine stesso: ‘blue jeans’ vuol dire<br />
‘blu Genova’: quella era la tela per i pantaloni da lavoro<br />
dei camalli del porto. Anzi, addirittura le prime pezze furono<br />
prodotte dai telai di Chieri, a pochi passi da <strong>Torino</strong>.<br />
Il ritorno alle origini sarebbe un’operazione culturale e<br />
non solo commerciale».<br />
Quanto pesa nella scelta del prodotto <strong>il</strong> valore<br />
immateriale?<br />
«Se<strong>con</strong>do me tantissimo, perché si sceglie un prodotto<br />
invece di un altro in base alle emozioni che può rappresentare.<br />
Però occorre non essere falsi, <strong>il</strong> valore immateriale<br />
ha bisogno di cultura e non si può improvvisare.<br />
Ma per esplorare fino in fondo questa strada occorrerebbe<br />
un sistema, anche formativo, diverso da quello<br />
attuale. Nelle scuole di st<strong>il</strong>e i ragazzi vengono depistati<br />
perché si parla sempre e solo di creatività pura.<br />
Così gli allievi fanno modelli improponib<strong>il</strong>i, irrealizzab<strong>il</strong>i.<br />
Non c’è nessun istituto dove si insegna che cosa vuol<br />
dire fare veramente lo st<strong>il</strong>ista. Lo st<strong>il</strong>ista non è solo quel-<br />
lo che ha grande creatività, ma colui che riesce a far<br />
indossare le proprie idee a più gente possib<strong>il</strong>e. Il nocciolo<br />
duro del nostro mestiere sono personaggi come<br />
Diego della Valle e Aspesi, che hanno creato un prodotto<br />
indossab<strong>il</strong>e da tutti. Pensare una camicia col botton<br />
down da mettere sotto la giacca, ma farla ‘nuova’, questa<br />
è la vera difficoltà <strong>con</strong> la quale ci si dovrebbe <strong>con</strong>frontare.<br />
Quando qualcuno viene da me per cercare<br />
lavoro gli chiedo, innanzitutto, di disegnarmi una polo<br />
di piquet. Perché occorre giocare sui dettagli o rac<strong>con</strong>tare<br />
una storia talmente emozionante, talmente piena<br />
di curiosità, che <strong>il</strong> cliente non può fare a meno di quella<br />
semplice polo di piquet. Questo, purtroppo, le scuole<br />
non lo insegnano. Tutti fanno l’abito da sposa, tutti<br />
fanno dei vestiti <strong>con</strong> i dettagli esagerati. Ma quanta gente<br />
vestita così si vede passeggiare per <strong>il</strong> centro al sabato<br />
pomeriggio?».<br />
Quale può essere la prossima suggestione? Che<br />
cosa arriverà dopo <strong>il</strong> Preppy?<br />
«Arriverà <strong>il</strong> Preppy italiano, quello che in realtà all’estero<br />
ci invidiano. Partiamo da un paradosso: in giro per <strong>il</strong><br />
mondo si sente dire ‘quando vedi un uomo coi pantaloni<br />
gialli e la giacca verde è un italiano’. Può sembrare<br />
una battuta, ma <strong>il</strong> significato è più profondo: noi abbiamo<br />
un’impronta molto forte e non dobbiamo disperderla<br />
col fashion estremo, o <strong>con</strong> <strong>il</strong> formale che ormai è vecchio,<br />
stanco, noioso. Nel momento in cui riusciremo a<br />
creare un’i<strong>con</strong>a del nostro mondo questo potrebbe essere<br />
<strong>il</strong> post Preppy, e potrebbe essere un trend mondiale.<br />
Come Ralph Lauren ha ridisegnato <strong>il</strong> passato americano<br />
tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, noi dobbiamo<br />
recuperare le nostre radici: l’abito del <strong>con</strong>tadino<br />
nei giorni di festa, quello della domenica in Sic<strong>il</strong>ia, quello<br />
della media borghesia degli anni sessanta…».<br />
Ma l’occhio deve sempre essere rivolto al<br />
passato?<br />
«Il passato rappresenta la storia del nostro prodotto e<br />
non va mai trascurato. Alla stesso tempo va attualizzato,<br />
ed è sempre importante creare qualcosa di modernissimo<br />
partendo proprio dal passato. Noi, ad esempio,<br />
abbiamo ricreato dei capi di abbigliamento m<strong>il</strong>itare<br />
americano anni quaranta rifacendoli <strong>con</strong> materiali ed<br />
accessori totalmente innovativi».<br />
Come passa <strong>il</strong> suo tempo libero e quali sono i suoi<br />
locali preferiti?<br />
«Quando posso vado a sciare o gioco a golf. Se resto<br />
a <strong>Torino</strong> mi piace molto passeggiare per <strong>il</strong> centro e frequentare<br />
i mercatini, dal Balôn a quello di piazza Gran<br />
Madre. Dal punto di vista gastronomico sono un tradizionalista:<br />
aperitivo da Sergio Maggiora in zona Crimea<br />
e poi una puntata alle ‘Cantine Risso’ in corso Casale,<br />
dove ci sono le torte salate più buone di <strong>Torino</strong>. Fuori<br />
porta frequento ‘Da Maria’ a Pavarolo e ‘Il Cardinal Mazzarino’<br />
a Cherasco. Ma, tra le passioni, <strong>il</strong> calcio ha da<br />
sempre un posto di r<strong>il</strong>ievo: tifo Toro e sono granata al<br />
cento per cento». I