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Senso di colpa e coscienza di peccato
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Il senso di colpa ha una sua precisa identità, abbiamo visto, e indica un orientamento<br />

altrettanto mirato impresso alla propria identità, nel senso della verità, della libertà e della<br />

responsabilità. È possibile andare oltre, in certo senso continuando nella direzione<br />

medesima, in altro senso superandola. Vediamo ora soprattutto come avviene il<br />

superamento, o la relazione di discontinuità. Che, tra l’altro, consente di evitare alcuni<br />

rischi cui il senso di colpa espone.
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Dal senso alla coscienza
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Anzitutto si tratta di passare, sul piano dell’operazione psichica, dal senso alla coscienza,<br />

ovvero da una sensazione tutto sommato naturale e inevitabile a qualcosa di riflesso e<br />

acquisito: se il senso di colpa è una reazione istintiva e costitutiva dell’esperienza umana<br />

del limite, la coscienza di peccato indica e implica una interpretazione particolare di questa<br />

reazione, è come un senso di colpa “educato” in una certa direzione, quella religiosa o<br />

teologica. Dunque esige un certo cammino di maturazione. Il senso di colpa, infatti, è<br />

ineliminabile e universale (ancorché a volte smentito e non sempre colto nelle sue<br />

aperture), mentre non tutti raggiungono la coscienza di peccato. Il problema è che oggi, in<br />

generale, il “senso” in quanto tale (ovvero, la semplice sensazione, la percezione<br />

immediata di sé e, in definitiva, il vivere a livelli superficiali) sembra prevalere sulla<br />

coscienza o sulla percezione più profonda di sé.
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Dallo psicologico al teologico
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Il senso di colpa, più precisamente, è psicologico, come la colpa, la coscienza di peccato è<br />

invece realtà teologica, come il peccato, per altro: fa riferimento a Dio, alla sua verità e al<br />

suo giudizio, alla sua misericordia e al suo perdono. È una distinzione molto importante,<br />

poiché nel primo caso il discorso s’esaurisce entro una logica puramente umana e decisa<br />

tutto sommato dal soggetto, e dunque anche esposta alle sue contraddizioni, ai suoi<br />

giudizi troppo allegri e permissivi o – al contrario – inflessibili e radicali, fissazioni e<br />

scrupoli, pretese e paure (non c’è peggior giudice dell’io nei confronti di se stessi); nel<br />

secondo invece s’apre la possibilità preziosa d’una esperienza di Dio e del suo amore. 
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Quante volte proprio la conoscenza della propria fragilità ha determinato una conoscenza<br />

nuova e inedita di Dio, o quante volte il peccato ha aperto strade che han portato a una<br />

vera esperienza del divino! Ecco perché Gesù non nasconde la sua simpatia per il<br />

peccatore che riconosce il suo peccato, mentre rimprovera aspramente il giusto<br />

presuntuoso.
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Dall’autoreferenzialità alla relazione
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Sempre in tale linea il senso di colpa nasce e si sviluppa fondamentalmente dinanzi a se<br />

stessi e alla considerazione del proprio limite (è autoreferenziale, per quanto implichi<br />

anche un riferimento ai valori), spesso determinando delusione e sconcerto per i propri<br />

fallimenti, come una ferita narcisistica che provoca rabbia e rancore contro se stessi (la<br />

rabbia narcisistica) e una certa idea un po’ presuntuosa di sé. 
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La coscienza di peccato, invece, nasce dalla scoperta dell’amore di Dio (è relazionale), è<br />

tanto più forte quanto più ci si sente amati dall’Eterno, e genera dispiacere sincero per<br />

aver offeso chi ci ha voluto bene d’un amore grande. Chi prova solo senso di colpa, di<br />

conseguenza, finisce a volte in un circolo vizioso che è poi alla radice di tante forme<br />

distorte (rabbiose e autocolpevolizzanti) o addirittura nevrotiche del senso della propria<br />

fallibilità, e che ricade sempre sull’io (per questo può esser nevrotico, la nevrosi nasce di

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