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SENSO DI COLPA E GIOIA DEL PERDONO <br />
<br />
Il senso di colpa, se cammina nella direzione giusta, si trasforma in coscienza di peccato,<br />
coscienza pasquale, del ladrone graziato e del figlio riabbracciato dal Padre, coscienza<br />
che scopre il peccato e contempla il mistero di Dio. <br />
<br />
di Amedeo Cencini <br />
<br />
Non è una novità segnalare la faticosa relazione dell’uomo con il male, col suo proprio<br />
male. Tutta la storia umana racconta i vari aspetti di questa difficile convivenza o forzata<br />
coabitazione nel condominio del cuore umano. Ciò che è cambiato, nel tempo, sono forse<br />
i modi attraverso i quali l’essere umano, di volta in volta, ha cercato di render meno<br />
conflittuale il rapporto, non sempre riuscendoci, per la verità, spesso anzi esasperandone<br />
toni e accenti, o illudendosi semplicemente d’aver risolto il problema o aggirato l’ostacolo. <br />
Ci han provato subito i nostri progenitori, entrambi campioni nello scrollarsi di dosso le<br />
rispettive responsabilità per poi ritrovarsi “nudi”, privati di quella dignità che l’Eterno aveva<br />
loro donato, orfani di quella verità che è racchiusa nel riconoscere il proprio male. Ma da<br />
allora sono stati ininterrotti i vari tentativi di negare il male o ignorarlo, di minimizzarlo o<br />
addirittura irriderlo…; c’è stato chi, degno figlio di Adamo ed Eva, ha cercato di<br />
scaricarselo di dosso e proiettarlo sugli altri, sulla struttura o sulla società, o chi –<br />
giustificandosi – l’ha messo sul conto di Colui che così ci ha fatti o di quello spirito maligno<br />
che non cessa di tentarci per renderci malvagi come lui…; ma c’è stato e c’è anche chi lo<br />
vede dappertutto e finisce per subirlo, ne è come ossessionato e schiacciato, e cerca di<br />
fuggirlo, ma ne è braccato e perseguitato…; molti vorrebbero eliminarlo completamente<br />
dalla loro vita e presumono di riuscirvi, ma oggi sono sempre più quelli che non conoscono<br />
più alcun senso di colpa e predicano che “trasgredire è bello”, salvo poi scoprire che stufa<br />
pure…; e infine c’è chi si pente del proprio male e ne chiede perdono (anche se non<br />
sempre è creduto), chi perdona il malfattore o impara a integrare il male ricevuto,<br />
addirittura chi giunge a benedirlo per i vari effetti positivi…. <br />
Crediamo valga la pena cercare di chiarire, perché vivere una relazione corretta con il<br />
proprio male è parte integrante della autentica esperienza religiosa. E se c’è stato chi ha<br />
detto che la confessione è in crisi nei conventi, forse conviene anche a noi ripensare il<br />
nostro personale rapporto con quel male che ci abita dentro e la proposta della grazia che<br />
ci salva. Senza tale rapporto non c’è Pasqua né coscienza pasquale. <br />
<br />
Alla radice del senso di colpa <br />
<br />
Filosofo, psicologo e teologo moralista non hanno dubbi al riguardo: oggi sembra sparito il<br />
senso di colpa. Anzi, i più lo affermano come una conquista, come una liberazione<br />
psicologica. Io andrei più cauto, non solo sul piano della valutazione del fenomeno, ma<br />
sulla sua stessa realtà. Intendo dire, sul piano squisitamente psicologico, che la cosa non<br />
è poi così scontata come sembra, dato che in realtà un certo nesso fra trasgressione e<br />
colpa è naturale. <br />
<br />
Trasgressione e colpa: un nesso costitutivo <br />
<br />
Ovvero, ogni uomo è libero d’avere un proprio codice di comportamento morale, e di fatto<br />
ce l’ha, anche chi non sa o addirittura nega d’averlo, pure chi sembra voler sovvertire ogni<br />
ordine morale e s’oppone con violenza efferata agli stili comportamentali della<br />
maggioranza (come certi malavitosi di oggi e di ieri); ma quando questo essere umano<br />
smentisce nei fatti quel codice, qualunque esso sia, è inevitabile che percepisca una<br />
reazione interiore negativa, perché è come avesse tradito le proprie scelte e convinzioni, o
come avesse interrotto e invertito un certo cammino prima impresso all’io, rinnegando la<br />
propria identità, quasi autodistruggendosi. <br />
Questo è un dato della natura umana, un dato universale. «Di fatto, i tipi di trasgressione e<br />
di colpa sono molteplici, come varie sono le possibilità di sperimentare o non sperimentare<br />
il nesso tra l’uno e l’altra (anzi, spesso i nessi più profondi sono i meno avvertiti). Ma il<br />
nesso fra trasgressione e senso di colpa è inevitabile perché è un dato costitutivo della<br />
psiche registrare un contraccolpo quando si realizza uno scarto nella linearità del suo<br />
movimento».1 <br />
Non si tratta, dunque, d’un atteggiamento necessariamente religioso o indotto da un<br />
superiore particolarmente autoritario. È la psiche umana che è regolata da questo nesso<br />
essenziale. Tale correlazione, come altre relazioni invarianti che collegano tra loro diversi<br />
fatti psichici, è data in natura e non frutto della cultura, anche se dagl’influssi culturali o<br />
dalle tendenze ideologiche del momento riceve forma espressiva o… il suo contrario,<br />
ovvero viene ridotta al silenzio e praticamente inibita o deviata in atteggiamenti e<br />
comportamenti apparentemente contrari. <br />
<br />
Il tentativo di negare il nesso <br />
<br />
L’uomo, infatti, potrà anche tentare di negare questa reazione interiore e – in ultima analisi<br />
– la propria responsabilità. Da un lato non viene spontaneo a nessuno ammettere d’avere<br />
sbagliato, dall’altro la società di oggi non promuove certo una cultura della responsabilità e<br />
sembra, al contrario, voler a ogni costo tranquillizzare la coscienza di tutti, interpretando il<br />
senso di colpa come un residuo di ancestrali paure, irridendolo e annullandolo in analisi<br />
rassicurative che scaricano altrove le proprie responsabilità (sul passato difficile, sulla<br />
mamma ansiosa o sul padre autoritario…). Sono tanti i modi attraverso i quali condurre in<br />
porto questa operazione, sostanzialmente sono gli stessi con cui l’essere umano si<br />
difende dalla percezione del suo proprio male, come abbiamo esemplificato all’inizio: dalla<br />
proiezione alla razionalizzazione, dalla rimozione alla sublimazione, da certe forme di<br />
perfezionismo ad alcune manie di scrupolismo ossessivo, dal tentativo d’irridere la<br />
trasgressione alla pretesa di non sentir più alcun senso di colpa, dalla trave nell’occhio alla<br />
sindrome del fariseo che si sente sempre migliore degli altri… <br />
Sono i vari meccanismi di difesa, la cui funzione è, per l’appunto, quella di proteggere la<br />
stima dell’io da quanto la potrebbe incrinare o indebolire, o da quanto l’uomo stesso pensa<br />
che renda negativa la propria immagine. Ma come spesso accade con questi meccanismi,<br />
più o meno inconsci, l’operazione difensiva riesce solo a metà: quella certa sensazione<br />
negativa troverà il modo di venire a galla, e non potrà non farlo perché quel nesso è<br />
costitutivo, proprio perché esprime una connessione, fra trasgressione e colpa, che è<br />
naturale e ineliminabile. Negata, così, a livello conscio, la reazione negativa riemergerà<br />
sotto mentite spoglie; esplicitamente rimossa si procurerà essa stessa una via d’uscita<br />
lungo la quale potrà anche disturbare la vita conscia del soggetto. <br />
<br />
Quella certa frustrazione esistenziale… <br />
<br />
Ad esempio, una certa depressione può essere una delle molte forme espressive d’un<br />
senso di colpa in qualche modo represso e inibito, una delle molte, non l’unica né<br />
inevitabile; né parlo della depressione clinico-patologica (che ha ben altre cause e va<br />
curata con altri rimedi), ma di quel senso d’inadeguatezza e tristezza diffusa, di perdita<br />
della capacità di godere della vita e delle piccole-grandi cose che riempiono ogni giornata,<br />
di quella poca voglia d’aprirsi alla relazione con gli altri che porta all’abbassamento della<br />
stima di sé e alla chiusura in se stessi, di quel disagio e insoddisfazione costante che<br />
producono noia e tedium vitae, o di quel calo generale di tonalità esistenziale, di senso<br />
poetico ed estetico del vivere, sempre più evidente e deprimente oggi. Come dire: quel
che l’uomo ha voluto eliminare dalla sua coscienza torna per altra strada complicandogli la<br />
vita, ovvero, i soliti sotterfugi dell’energia rimossa. <br />
Certo, con questo non si vuole assolutamente stabilire alcun automatismo semplicistico tra<br />
peccato e depressione, ma semplicemente dire che una certa malinconia esistenziale<br />
odierna potrebbe costituire un esito possibile della rimozione d’ogni senso di colpa e<br />
responsabilità morale. <br />
E tuttavia non solo questo: se la correlazione fra trasgressione e colpa è inevitabile e<br />
costitutiva, allora il senso di colpa è in qualche modo collegato col mistero dell’uomo, svela<br />
l’uomo a se stesso, e non solo nel suo aspetto più negativo e detestabile… <br />
<br />
Senso di colpa e mistero dell’io <br />
<br />
C’è un altro nesso, allora, e del tutto inedito e paradossale, tra senso di colpa e dignità<br />
umana: quando l’uomo riconosce il proprio errore, e resiste alla tentazione di negarlo, in<br />
quel momento fa una serie di affermazioni importanti per cogliere il senso della propria<br />
identità e del suo mistero. <br />
<br />
Nostalgia di verità <br />
<br />
Anzitutto il senso di colpa sta a dire un bisogno fondamentale dell’uomo: il bisogno di<br />
conoscersi, di sapere chi è e chi è chiamato a essere. Quando l’uomo commette un errore<br />
o compie il male, infatti, constata quel che è, ha la percezione e la verifica della sua<br />
umanità, coi limiti e le debolezze ch’essa si porta dietro. Ed è già un dato importante, che<br />
spesso rischia di sfuggire alla percezione che l’uomo ha di sé o di rimaner velato. La<br />
consapevolezza d’avere sbagliato è indispensabile per la conoscenza dell’io, perché il<br />
limite fa parte dell’uomo, lo de-finisce, gli ricorda quella ferita che da sempre si porta<br />
dentro o quella dialettica che lo divide nel cuore. Per questo i Padri del deserto<br />
affermavano che nessuno è più grande di colui che riconosce il suo errore. <br />
Ma il senso di colpa fa qualcosa di più, non è semplice accettazione del proprio male<br />
(“accettazione” è diventato termine strategico per tanta psicologia, ma spesso è inteso<br />
solo come rassegnazione inerte e indolore, che mortifica ogni tensione ideale), bensì<br />
contestazione d’esso, almeno implicita, riconoscimento della sua carica negativa, e<br />
dunque amarezza e risentimento personale di fronte a esso. Perché è vero che il limite è<br />
un elemento costitutivo della natura umana, ma l’uomo che sbaglia, e non nega né<br />
rimuove il proprio errore, intuisce e avverte pure, sia pur confusamente, di poter fare di<br />
più, riconosce in sé aspirazioni che lo attirano oltre il livello attuale di vita. E può avvertire<br />
tutto ciò grazie al senso di colpa, e al disappunto e delusione per quanto ha fatto o per<br />
quel che è. È la funzione preziosa e indispensabile del senso di colpa: da un lato consente<br />
all’uomo di riconoscere la sua verità attuale (l’io attuale), dall’altra gli accende in cuore la<br />
nostalgia per la sua verità ideale (l’io ideale). Diversamente detto: impedendo a colui che<br />
sbaglia di accontentarsi di vivere nella mediocrità o nell’incoerenza con se stesso, risveglia<br />
in lui una sete mai sopita di qualcosa di più, il bisogno di sapere chi è chiamato a essere,<br />
l’esigenza di realizzarsi nella verità. <br />
In sintesi, se il male consiste nel non vivere la verità di sé, il senso di colpa è nostalgia di<br />
questa verità, o del mistero umano. <br />
<br />
Segno e sfida di libertà <br />
<br />
Dietro al senso di colpa c’è la natura dell’uomo, abbiamo detto. Solo l’essere umano può<br />
provare rimorso per quel che ha fatto, manifestando in quel rammarico la fondamentale<br />
ambivalenza della sua natura, attratta dal male e assieme dal bene, capace di decidere<br />
ciò che è giusto e poi di compiere ciò che è ingiusto, sedotto dalle lusinghe della
trasgressione e poi …abbandonato, cioè incapace di godere appieno d’essa, a volte tanto<br />
deluso di sé (e tradito dalle attese) quanto testardo nel ripetere certi errori. L’uomo è in<br />
effetti tutto questo, ma finché prova rimorso vuol dire che si mantiene aperta una<br />
possibilità ulteriore di realizzazione di sé, almeno come possibilità. Vuol dire che,<br />
nonostante l’incoerenza, resta viva in lui l’attrazione per ciò che è vero, bello e buono;<br />
significa che il cuore è ancora in grado di amare ciò che è degno d’esser amato, non è<br />
schiavo del male che l’ha ingannato per un attimo; e se il senso di colpa è profondo e<br />
amaro vuol dire che la sua vita interiore è intensa e sofferta, come s’addice all’uomo che<br />
ha preso sul serio il proprio cammino esistenziale. In fondo i santi sono stati coloro che<br />
hanno sofferto più di tutti la percezione del loro male (e, ancor prima, quelli in cui la<br />
grandezza delle aspirazioni s’accompagnava regolarmente con l’asprezza delle<br />
tentazioni).2 <br />
L’uomo dove la gioca, infatti, la sua libertà? Non semplicemente di fronte al dilemma della<br />
scelta tra due possibilità contrarie che si pongono allo stesso livello o con la stessa forza,<br />
ma nell’attrazione verso ciò che è intrinsecamente vero, bello e buono e può appagare<br />
pienamente la tensione umana di felicità e verità. L’uomo è libero, insomma, non solo<br />
perché può scegliere tra due alternative ugualmente attraenti (libero “di”), ma nella misura<br />
in cui avverte maggiormente l’attrazione per ciò che meglio esprime lo splendor veritatis,<br />
perché solo questo immette la sua vita in quegli spazi illimitati che esaltano la sua libertà<br />
(libero “per”). Il resto, ovvero l’altra alternativa, sarebbe solo finzione di libertà. Ebbene, il<br />
senso di colpa, paradossalmente, è il segnale che questa libertà, o almeno la nostalgia<br />
d’essa, è ancora presente; è stata attaccata e messa in difficoltà, ma non è sparita; è<br />
debole, ma ancora viva; è monito e richiamo all’uomo limitato e fallibile che è fatto per<br />
qualcosa che è illimitato; è memoria, per chi è tentato di giocarsi la libertà in spazi angusti<br />
e ridicoli, di quella libertà che non conosce confini perché costruita sulla verità. <br />
C’è una libertà che ci consente di sentirci in colpa, e c’è una libertà che è frutto del senso<br />
di colpa. In ogni caso, finché l’essere umano prova sensi di colpa, è libero e può giocarsi<br />
ancora la sua propria libertà. Quando, malauguratamente, non dovesse più provare alcun<br />
senso di colpa, sarebbe il segno che ha già smarrito o sta smarrendo anche il bene della<br />
sua libertà… Ovvero, sta smarrendo se stesso.3 <br />
<br />
Assunzione di responsabilità <br />
<br />
Infine il senso di colpa, e proprio per quanto abbiamo visto finora, è una coraggiosa<br />
affermazione di responsabilità da parte dell’individuo. Chi prova questo tipo di sensazione<br />
non fugge da se stesso, non cerca sciocchi alibi o furbe scusanti, non addebita ad altri<br />
quanto è parte di sé o lui stesso ha commesso, non si nasconde dietro patetiche<br />
operazioni autodifensive, né si racconta la solita infantile storia che è tutta colpa del<br />
passato o dell’inconscio o dell’ambiente o …della mamma (in questi casi più<br />
impersonalmente chiamata “figura materna”), ma ha l’onestà di riconoscere che quanto è<br />
successo è farina del suo sacco;4 potrà anche trovare delle attenuanti, ma lui c’è<br />
comunque implicato, non si addosserà forse tutte le colpe, ma neppur si tirerà indietro<br />
dinanzi all’ammissione della propria responsabilità. E non per un gesto di coraggio, quanto<br />
di lealtà di fronte a se stesso e alla propria verità. In tal caso il senso di colpa è segno<br />
esattamente di verità con se stessi, indica una certa familiarità con il proprio mondo<br />
interiore e i suoi fantasmi, consci e inconsci, significa aver varcato le mura del proprio<br />
cuore ed essersi inoltrati nei suoi sotterranei… <br />
È un cammino faticoso, come una sorta di descensus ad inferos, sgradito ai più,<br />
normalmente bisognoso d’una guida e pericoloso per chi ci si avventura subito da solo.<br />
Eppure è condizione d’autenticità e sincerità personale.5 È accesso al mistero dell’uomo,<br />
grande nella dignità nella misura in cui ammette la propria responsabilità. Tanto più se<br />
intendiamo il concetto di responsabilità nel suo significato etimologico, come respons-
abilità, capacità di risposta dinanzi a un altro, dinanzi alla vita. E allora il senso di colpa<br />
non si riduce, o non dovrebbe ridursi, a una sensazione autospeculare e riflessiva, d’un io<br />
tutto chiuso nella propria individualità e magari in un perfezionismo un po’ ossessivo, ma<br />
dovrebbe sempre più diventare relazione, alterità, espansione dell’io, accoglienza<br />
dell’altro, propria responsabilità nei suoi confronti...6 <br />
Proprio in tal senso parliamo di “assunzione di responsabilità”. C’è infatti una differente<br />
sfumatura di significato tra “ammissione” e “assunzione” di responsabilità: la prima indica<br />
un fatto soprattutto intellettuale, quasi la conclusione inevitabile d’un ragionamento o la<br />
resa un po’ passiva, quasi a malincuore, dinanzi all’evidenza; il secondo, invece, indica<br />
molto di più, vuol dire farsi carico, lasciarsi metter in gioco, interpretare in modo molto più<br />
attivo e intraprendente il proprio coinvolgimento e decidere, in ultima analisi, di prender<br />
posizione dinanzi al mistero della vita e del proprio ruolo in essa. <br />
Per questo, se un tempo non lontanissimo il senso di colpa era subito guardato con<br />
diffidenza (o irrisione) se non dichiarato patologico, oggi – al contrario – una certa<br />
psicologia sta sempre più scoprendo la patologia dell’assenza del senso di colpa. <br />
<br />
A conclusione di tutto ciò potremmo proprio dire così: se uno non ha il senso di colpa, sarà<br />
meglio che se lo faccia venire, invece di vantarsene come fosse conquista di libertà e<br />
segno di coscienza adulta. <br />
Tuttavia il discorso, specie per un credente, non si ferma qui. Anche il senso di colpa può<br />
e deve esser superato: dal senso di colpa alla coscienza di peccato, dal mistero dell’uomo<br />
al mistero di Dio. Grazie a questo passaggio è possibile trasformare l’evento che allontana<br />
l’uomo da Dio (il male personale) in ciò che invece lo avvicina o lo può avvicinare a lui. <br />
<br />
Coscienza di peccato e mistero di Dio <br />
<br />
La nostra tesi è infatti questa: la coscienza di peccato è da un lato segno di maturità<br />
umana e spirituale, dall’altro è qualcosa che ci avvicina a Dio in modo del tutto particolare,<br />
è come ce lo facesse conoscere in aspetti che diversamente ci resterebbero sconosciuti. <br />
Alla base della nostra riflessione vi sono due distinzioni. La prima, che conosciamo bene,<br />
tra peccato e coscienza di peccato. Il peccato è realtà umana, in sé negativa e<br />
deprecabile, anche se chi lo compie non l’avverte come tale; la coscienza di peccato,<br />
invece, è atteggiamento credente e religioso, indica consapevolezza e rielaborazione del<br />
peccato che può giungere a trasformarlo, come vedremo più avanti. <br />
Ed è una tesi prettamente evangelica: come non riconoscere, infatti, nel vangelo la<br />
spiccata preferenza di Gesù per i peccatori e, d’altro canto, l’altrettanto evidente<br />
insofferenza per i giusti o per i presunti tali, ai quali il Messia e Salvatore non ha nulla da<br />
dare e da dire. Anzi, sarà Gesù stesso, come abbiamo ricordato altre volte, a sottolineare<br />
che anche il Padre ha le stesse preferenze o gusti del Figlio, visto che fa più festa in cielo<br />
per un solo peccatore convertito (=che ha coscienza di peccato) che non per 99 giusti che<br />
non hanno bisogno, o credono di non aver bisogno, di conversione e perdono (e forse<br />
hanno solo un senso di colpa). <br />
Sembra echeggiare questa affermazione di Gesù la seguente espressione di un autore<br />
moderno non proprio sintonizzato con la mentalità evangelica, ma conoscitore dell’animo<br />
umano quanto basta per esprimersi così: “Il peccato… Ne conosciamo la parola e la<br />
pratica, ma ne abbiamo perso il senso e la nozione. Forse questa è già la dannazione,<br />
l’abbandono da parte di Dio, l’insensatezza”. Notiamo bene, secondo Kafka non è il<br />
peccato in se stesso a esprimere l’abbandono da parte di Dio, quanto l’assenza della<br />
coscienza di peccato! <br />
La seconda distinzione è un po’ meno scontata, e riguarda proprio la differenza tra senso<br />
di colpa e coscienza di peccato. Vediamola. <br />
Senso di colpa e coscienza di peccato <br />
<br />
Il senso di colpa ha una sua precisa identità, abbiamo visto, e indica un orientamento<br />
altrettanto mirato impresso alla propria identità, nel senso della verità, della libertà e della<br />
responsabilità. È possibile andare oltre, in certo senso continuando nella direzione<br />
medesima, in altro senso superandola. Vediamo ora soprattutto come avviene il<br />
superamento, o la relazione di discontinuità. Che, tra l’altro, consente di evitare alcuni<br />
rischi cui il senso di colpa espone. <br />
<br />
Dal senso alla coscienza <br />
<br />
Anzitutto si tratta di passare, sul piano dell’operazione psichica, dal senso alla coscienza,<br />
ovvero da una sensazione tutto sommato naturale e inevitabile a qualcosa di riflesso e<br />
acquisito: se il senso di colpa è una reazione istintiva e costitutiva dell’esperienza umana<br />
del limite, la coscienza di peccato indica e implica una interpretazione particolare di questa<br />
reazione, è come un senso di colpa “educato” in una certa direzione, quella religiosa o<br />
teologica. Dunque esige un certo cammino di maturazione. Il senso di colpa, infatti, è<br />
ineliminabile e universale (ancorché a volte smentito e non sempre colto nelle sue<br />
aperture), mentre non tutti raggiungono la coscienza di peccato. Il problema è che oggi, in<br />
generale, il “senso” in quanto tale (ovvero, la semplice sensazione, la percezione<br />
immediata di sé e, in definitiva, il vivere a livelli superficiali) sembra prevalere sulla<br />
coscienza o sulla percezione più profonda di sé. <br />
<br />
Dallo psicologico al teologico <br />
<br />
Il senso di colpa, più precisamente, è psicologico, come la colpa, la coscienza di peccato è<br />
invece realtà teologica, come il peccato, per altro: fa riferimento a Dio, alla sua verità e al<br />
suo giudizio, alla sua misericordia e al suo perdono. È una distinzione molto importante,<br />
poiché nel primo caso il discorso s’esaurisce entro una logica puramente umana e decisa<br />
tutto sommato dal soggetto, e dunque anche esposta alle sue contraddizioni, ai suoi<br />
giudizi troppo allegri e permissivi o – al contrario – inflessibili e radicali, fissazioni e<br />
scrupoli, pretese e paure (non c’è peggior giudice dell’io nei confronti di se stessi); nel<br />
secondo invece s’apre la possibilità preziosa d’una esperienza di Dio e del suo amore. <br />
Quante volte proprio la conoscenza della propria fragilità ha determinato una conoscenza<br />
nuova e inedita di Dio, o quante volte il peccato ha aperto strade che han portato a una<br />
vera esperienza del divino! Ecco perché Gesù non nasconde la sua simpatia per il<br />
peccatore che riconosce il suo peccato, mentre rimprovera aspramente il giusto<br />
presuntuoso. <br />
<br />
Dall’autoreferenzialità alla relazione <br />
<br />
Sempre in tale linea il senso di colpa nasce e si sviluppa fondamentalmente dinanzi a se<br />
stessi e alla considerazione del proprio limite (è autoreferenziale, per quanto implichi<br />
anche un riferimento ai valori), spesso determinando delusione e sconcerto per i propri<br />
fallimenti, come una ferita narcisistica che provoca rabbia e rancore contro se stessi (la<br />
rabbia narcisistica) e una certa idea un po’ presuntuosa di sé. <br />
La coscienza di peccato, invece, nasce dalla scoperta dell’amore di Dio (è relazionale), è<br />
tanto più forte quanto più ci si sente amati dall’Eterno, e genera dispiacere sincero per<br />
aver offeso chi ci ha voluto bene d’un amore grande. Chi prova solo senso di colpa, di<br />
conseguenza, finisce a volte in un circolo vizioso che è poi alla radice di tante forme<br />
distorte (rabbiose e autocolpevolizzanti) o addirittura nevrotiche del senso della propria<br />
fallibilità, e che ricade sempre sull’io (per questo può esser nevrotico, la nevrosi nasce di
solito dall’eliminazione della relazione); chi impara la coscienza di peccato avverte dentro<br />
di sé il dolore, il dolore che è il dispiacere sincero d’aver offeso l’amore di Dio, e dunque è<br />
qualcosa di relazionale e soprannaturale. <br />
<br />
Dalla sincerità alla verità <br />
<br />
Proprio perché nasce in modo autospeculare il senso di colpa normalmente è o rischia<br />
d’esser superficiale, non va in profondità soprattutto perché ha paura di scoprire chissà<br />
cosa, chissà quali mostri o cattiverie dentro al cuore, e giunge tutt’al più alla sincerità,<br />
ovvero alla scoperta delle proprie sensazioni e stati d’animo, ma non ha il coraggio di<br />
scoprire le motivazioni profonde dell’agire. <br />
La coscienza di peccato, che nasce dalla contemplazione dell’amore di Dio, non teme<br />
invece di scoprire la verità, cioè la radice di comportamenti ed emozioni, non si ferma a ciò<br />
che si può vedere e riconoscere abbastanza facilmente, ma va a cogliere le motivazioni<br />
profonde, perché sa che in ogni caso può contare sulla tenerezza misericordiosa<br />
dell’Eterno. Per questo spesso il senso di colpa è contraddittorio, ti fa sentire in colpa per<br />
cose da niente, per trasgressioni comportamentali, oppure scatta solo in presenza di<br />
prescrizioni legali, fissate da qualche regola o codice, mentre poi non fa avvertire la gravità<br />
di certi egoismi più sottili e di velate mancanze d’amore verso l’altro. Per questo a volte il<br />
senso di colpa è infantile, mentre la coscienza di peccato indica sempre coscienza adulta. <br />
<br />
Dalla lotta psicologia alla lotta spirituale <br />
<br />
Ancora, il senso di colpa, quando non è subito neutralizzato e inibito, può innescare<br />
conflittualità interna, come una sorta di lotta psicologica, lotta intestina, dell’io contro una<br />
parte di sé, e dunque lotta ossessiva e vana. Chi accede alla coscienza di peccato vive lo<br />
stesso una certa conflittualità dentro di sé, ma che lo porta fuori dell’io, è la lotta spirituale<br />
e religiosa, dell’uomo credente che combatte la vera lotta dell’uomo su questa terra, lotta<br />
con Dio, l’Eterno amante, lotta contro l’idea, subito percepita come umiliante, d’esser<br />
amato da Dio nella propria non amabilità,7 lotta con questo amore, prima di arrendersi a<br />
esso. <br />
Questa è la vera lotta, dell’uomo biblico; potrà sembrarci strano, ma di fatto noi tutti<br />
vogliamo esser amati, ci mancherebbe!, ma poi di fatto non ci viene facile lasciarci<br />
benvolere senza aver fatto nulla per meritare l’amore. Così anche nei rapporti<br />
interpersonali: nulla è così attraente come la conquista dell’amore altrui, come la<br />
sensazione d’averlo vinto magari in competizione con altri per i nostri meriti e<br />
prestazioni…, tanto più con Dio. Noi vogliamo meritare la benevolenza altrui, figuriamoci<br />
quanto ci disturba l’idea d’esser amati addirittura nella nostra fragilità, nel nostro limite,<br />
come ci ama Dio! Questa è la lotta classica dell’uomo credente. <br />
<br />
Dal passato al futuro <br />
<br />
Di qui un’altra considerazione rilevante: il senso di colpa è rivolto indietro, a qualcosa che<br />
è accaduto e non può esser cancellato, a volte finisce lì, a un passato che rischia di<br />
segnare indelebilmente il futuro e l’identità del soggetto, entro una concezione fatalista e<br />
tutto sommato deresponsabilizzante. <br />
La coscienza di peccato riconosce il passato, lo assume responsabilmente, ma proprio<br />
perché riconoscimento e assunzione di responsabilità non avvengono solo di fronte a se<br />
stessi e alla propria coscienza, ma di fronte a Dio, questo passato colpevole è aperto alla<br />
speranza d’un futuro diverso, è sciolto da ogni determinismo e come riscattato dalla sua<br />
negatività, per essere addirittura trasformato in esperienza positiva, in esperienza del<br />
divino. Solo dentro la logica della coscienza di peccato si può intendere correttamente
quell’importante principio psicologico secondo il quale l’uomo può non esser<br />
completamente responsabile dei suoi errori passati, ma è in ogni caso responsabile<br />
dell’atteggiamento che assume al presente di fronte a essi. <br />
<br />
Dall’autoassoluzione alla “nuova creazione” <br />
<br />
Il senso di colpa, a questo punto, di per sé può creare un rapporto ambivalente e riduttivo<br />
col sacramento della confessione. Da un lato, infatti, chi si sente oppresso dal senso di<br />
colpa può ricorrere alla confessione come a uno strumento di sollievo psicologico, senza<br />
per altro trovarlo o trovandolo solo momentaneamente, esattamente perché il sacramento<br />
non è una tecnica o cura psicoterapeutica; oppure, chi prova solo senso di colpa non<br />
sente poi così necessario ricorrere al sacramento, fa “tuttoincasa”, s’aggiusta, s’arrangia,<br />
s’autoassolve…, o all’opposto si manda a quel paese, si disprezza, si autocestina…, o va<br />
a confessarsi giusto quand’è colma la misura o quando “tocca”, per togliersi il peso o il<br />
pensiero e non andare “fuori tempo massimo”. <br />
Chi impara la coscienza di peccato sente, al contrario, una necessità inderogabile della<br />
confessione, ma non la vive come semplice liberazione dal peso dei propri peccati e tanto<br />
meno dalla paura della pena o del giudizio, bensì come nuova creazione, come grazia ricreativa,<br />
come affidamento-consegna della vita e della persona nelle mani del Padrecreatore,<br />
perché ripeta le parole della creazione: “Facciamo quest’uomo a nostra<br />
immagine e somiglianza”. La confessione è la creazione nel tempo; riprende e rinnova il<br />
progetto delle origini; non cancella semplicemente, ma dà vita; non toglie, ma crea; non<br />
dimentica (i peccati), anzitutto, ma rinnova la memoria degl’inizi, perché quel piano del<br />
Padre si compia, nonostante le debolezze della creatura. È proprio questa energia<br />
creativa che viene da Dio e dunque è più forte del peccato che lentamente plasma nella<br />
persona l’uomo nuovo. <br />
<br />
Dal dolore alla gioia del perdono <br />
<br />
Per questo il senso di colpa, nella misura in cui è soggettivo e superficiale, e anche un po’<br />
timoroso e incerto, non giunge a sperimentare la gioia del perdono: così come prima non<br />
c’era il dolore nella denuncia delle proprie responsabilità così ora non ci sarà la gioiosa<br />
sensazione della liberazione e del perdono ritrovato: gioia e dolore sono sentimenti che<br />
suppongono una relazione (come tutti i sentimenti sani). <br />
Relazione che invece è vissuta pienamente nella coscienza di peccato (ne è all’origine):<br />
colui che si sente profondamente peccatore dinanzi a Dio, sperimenterà poi anche la gioia<br />
della misericordia che s’effonde su lui. Detto diversamente: i due abissi o le due profondità<br />
si richiamano, come la storia dei santi sta a testimoniare. Per questo potremmo dire che il<br />
vero nemico della vita spirituale o addirittura della fede oggi non è il secolarismo o quanto<br />
si oppone frontalmente all’ipotesi-Dio, quanto semmai la superficialità, la mediocrità,<br />
l’analfabetismo emotivo e spirituale che c’impedisce d’approfondire alcunché e ci fa<br />
restare sempre alla superficie della vita, dei sentimenti, degl’interrogativi, della propria<br />
umanità…, è quel debolismo di pensiero che c’impedisce di giungere alla verità di noi<br />
stessi, del nostro esser peccatori e del nostro esser figli. <br />
<br />
Dal peccatore al figlio (e viceversa) <br />
<br />
Il senso di colpa, in ultima analisi, è o rischia d’essere come un itinerario interrotto nel<br />
viaggio-pellegrinaggio dell’uomo verso la verità di sé, cammino che deve necessariamente<br />
passare per certe tappe, e conoscere anche una certa disperazione per decidere poi il<br />
“santo viaggio” della conversione. <br />
La coscienza di peccato, invece, consente di fare questo viaggio, o di mettere insieme, in
qualche modo, la sensazione d’una certa disperazione e poi la speranza, per lasciarsi<br />
infine afferrare da quella mano che ci fa uscire da noi e ci apre davanti un nuovo orizzonte.<br />
La confessione è proprio ciò che celebra e tiene insieme queste due sensazioni, posta<br />
com’è sul crinale tra miseria e liberazione, tra disperazione e speranza. Pascal l’aveva<br />
illustrato in modo folgorante quando aveva opposto alla disperazione dell’anima che<br />
vedeva il suo male profondo queste parole divine: “I tuoi peccati ti saranno rivelati nel<br />
momento stesso in cui ti saranno perdonati”. È solo nel momento del perdono<br />
(=dell’amore intenso e gratuito, che va al di là dei suoi meriti e demeriti) che uno prende<br />
coscienza del proprio peccato e della sua gravità, perché solo l’amore può suscitare il<br />
dolore. È il misterioso intreccio tra pentimento e perdono, tra peccato e salvezza, tra colpa<br />
e grazia, soprattutto tra coscienza d’esser figlio e coscienza d’esser peccatore. <br />
<br />
Dal complesso di colpa alla coscienza pasquale <br />
<br />
E allora, per concludere, il senso di colpa segnala solo il primo gradino nella formazione<br />
della coscienza penitenziale. Se non c’è senso di colpa vi sarà l’indifferenza e l’assenza di<br />
ogni consapevolezza (più o meno sofferta) della propria vulnerabilità morale. Ma se il<br />
senso di colpa è presente non sempre apre alla coscienza di peccato, ma potrebbe<br />
chiudersi in se stesso, trasformandosi in complesso di colpa, ovvero in un continuo ritorno<br />
della sensazione colpevolizzante su di sé, con accenti più o meno ossessivi e depressivi,<br />
e la costante sensazione d’esser condannati da un (super)io rigido e perfezionista o da un<br />
dio che non ha nulla in comune col Padre di Gesù Cristo descritto nei vangeli. <br />
Se invece il senso di colpa cammina nella direzione giusta (aprendo al mistero dell’io) si<br />
trasforma in coscienza di peccato, coscienza pasquale, del ladrone graziato e del figlio<br />
riabbracciato dal Padre, coscienza che non solo scopre il peccato, ma che contempla il<br />
mistero di Dio! <br />
( Da Testimoni Marzo 2008) <br />
1. ‐A.Manenti, Il pensare psicologico. Aspetti e prospettive, Bologna 1996, 75. <br />
2. ‐L. Boff, Francesco d’Assisi. Una alternativa umana e cristiana, Assisi 1982, p.189. <br />
3. ‐Cf. G. Sovernigo, Senso di colpa, peccato e confessione. Aspetti psicopedagogici,<br />
Bologna 2000. <br />
4. ‐Sul problema della responsabilità in azioni con componente motivazionale inconscia:<br />
cf. A. Cencini – A. Manenti, Psicologia e formazione. Strutture e dinamismi, Bologna 2000,<br />
183-203. <br />
5. ‐Cf A.Cencini, I sentimenti del Figlio. Il cammino formativo nella vita consacrata,<br />
Bologna 1999, 170-176. <br />
6. ‐È in sostanza l’interpretazione di Lévinas. Cf E. Lévinas, Quattro lettere talmudiche,<br />
Genova 1982, 67-97. <br />
7. ‐Circa la differenza tra lotta psicologica e religiosa cf. F. Imoda, Sviluppo umano.<br />
Psicologia e mistero, Casale M. 1993, 127-130. 371-372.#<br />
#<br />
Dal modello della perfezione al modello dell’integrazione#<br />
#<br />
Un chiarimento importante per definire l'obiettivo della formazione ci viene da un confronto<br />
con il passato, e con quello che un tempo era considerato senz'alcuna incertezza<br />
l'obiectivus ad quem d'un programma formativo e della vita consacrata e sacerdotale in<br />
genere: la perfezione.#<br />
Tale modello è giunto fino ai giorni nostri, se ancora la vita consacrata - in particolare - si<br />
chiama vita di perfezione e le congregazioni religiose sono considerate «Istituti di<br />
perfezione», ma attraverso rivisitazioni anche sostanziali del concetto e della logica a esso<br />
sottesa.#
Vedi infatti quei modelli che si sono succeduti nell'evoluzione informale di questi ultimi<br />
decenni, in maniera più o meno informale, e che hanno lentamente modificato una certa<br />
idea di perfezione come fine del progetto formativo: il modello dell'osservanza comune,<br />
dell'autorealizzazione, dell'accettazione, e quello più attuale dell'integrazione.#<br />
1. Modello della perfezione#<br />
Il modello operativo del santo perfetto e di una formazione che tende alla perfezione è<br />
quello che potremmo definire della «canalizzazione», raffigurabile come una freccia che<br />
prende una direzione precisa verso un punto preciso, la perfezione, appunto, escludendo<br />
tutto il resto.#<br />
1.1.Pretesa (irrealistica) e rischio (reale)#<br />
La strategia della canalizzazione prevede che le energie istintuali dell'uomo, ambigue<br />
come sono, vengano assunte solo nella misura in cui assecondino un progetto elaborato<br />
dalla ragione.#<br />
Di conseguenza c'è il rischio, anche se non fatale, che alcune dimensioni che non rientrino<br />
subito negli schemi di ciò che chiamiamo (o che il singolo chiama) perfezione, vengano<br />
represse, negate e cancellate, almeno intenzionalmente. Ma la pretesa che l'energia<br />
pulsionale sia immediatamente conforme ai valori, pena la sua eliminazione, sembra<br />
irrealistica e finisce poi per impoverire la vita psichica dell'aspirante santo. Anche se, di<br />
fatto, le forze negate non scompaiono né cessano di esistere, semmai restano presenti<br />
come negate e non accettate. Detto in altro modo: la loro energia non è più una forza che<br />
l'individuo sfrutta e di cui si serve per vivere i suoi ideali, bensì è come una forza bruta che<br />
l'individuo combatte ma che vuoi emergere continuamente e imporsi a modo suo,<br />
rendendo drammatica la vita cosciente e mettendo sempre più in pericolo il<br />
conseguimento dello stesso ideale della perfezione. La vita così si complica<br />
pericolosamente e il modello originale rischia di trasformarsi in modello della lotta a<br />
oltranza e della tensione insopportabile a lungo andare. Col risultato, frequente nella<br />
nostra storia, che molti aspiranti verso questo tipo di perfezione a un certo punto non<br />
resistono più alla tensione e a volte passano addirittura all'estremo opposto o preferiscono<br />
lasciarsi andare a una vita mediocre.#<br />
1.2.Controllore perfetto (ed esausto)#<br />
Altra conseguenza o componente quasi inevitabile. Quanto maggiore è la forza soggettiva<br />
di controllo, tanto maggiore sarà la minaccia che l'eros e il pathos (i simboli dell'energia<br />
istintiva) fanno alla coscienza e che il soggetto stesso avvertirà con certa angoscia. Alle<br />
tentazioni, allora, l'individuo opporrà una resistenza frontale che pretende buttar via tutto,<br />
acqua sporca e bambino dentro ... Ha, infatti, diritto di esistere nella sua vita solo la<br />
dimensione di luce e di bontà, di purezza e di positività. Le altre dimensioni di ombra, che<br />
pure appartengono alla realtà umana, sono messe continuamente sotto accusa e sotto<br />
controllo. Il modello di questa idea di perfezione cristiana è il controllore perfetto di tutti i<br />
suoi istinti; è uno che persegue inflessibile un ideale massimale; castiga e reprime la<br />
passionalità che si oppone alla virtù, ma deve sempre ricorrere a un impegno gravoso<br />
della volontà, con dispendio notevole di energia psichica, quel dispendio che rende la<br />
persona «affaticata e oppressa»1. Quello che fa, il suo stesso ideale di perfezione con<br />
tutte le rinunce e penitenze che comporta, è più un obbligo che si è imposto o che si sente<br />
imposto come un giogo, che non esigenza e conseguenza d'un rapporto d'amore. Lo vuole<br />
con tutta la sua volontà, non importa se non lo ama; ciò che conta è che si decida a<br />
convertirsi, cioè a cambiare comportamenti, non che ci trovi gusto a lasciarsi attrarre dallo<br />
Spirito o che sperimenti la libertà dell'amore. In tutto questo c'è tantissima buona volontà e<br />
un'intenzione sincera di cui a nessuno è lecito dubitare, ma probabilmente c'è poca libertà<br />
interiore e ancor meno vera e propria trascendenza di sé (nonostante la tensione verso il<br />
superamento dell'io).#<br />
1.3.Senza passioni e senza passione#
Vediamo alcune implicanze sul piano formativo di questo equivoco. Il giovane viene<br />
orientato lungo un percorso che si rivela impossibile: lo si spinge, infatti, a cancellare una<br />
parte del proprio io, quella considerata meno nobile o più umiliante, al punto d'illuderlo di<br />
poter riuscire nell'intento, eliminandola ed estirpandola alla radice col risultato che non si<br />
elimina un bel niente, se mai si relega tutto nell'inconscio, da dove l'istinto negato continua<br />
a disturbare - indisturbato - la vita cosciente del soggetto, infiltrandosi sottile come<br />
motivazione profonda di gesti apparentemente corretti ed evangelici, o come ragione<br />
ultima di sensazioni, reazioni, stati d'animo, crisi «inspiegabili».#<br />
Altra conseguenza molto negativa a livello formativo: si trasmette al giovane una idea<br />
contraddittoria di se stesso; vi sarebbe, infatti, nel suo io una zona irrimediabilmente<br />
negativa che va dominata o che è meglio ignorare, misterioso «buco nero». Da un lato,<br />
allora, si favorisce un certo senso di presunzione e di sufficienza (devi dominare e<br />
cancellare tutto il negativo), dall'altro si insinua una concezione negativa del proprio<br />
essere, che non tarderà a emergere come rabbia e senso di colpa quando il soggetto non<br />
riesce a vincere e dominare, o come depressione e smarrimento quando è costretto a<br />
constatare che non ha cancellato un bel niente. La risultante di questa confusione sarà<br />
che il soggetto non è aiutato a conoscersi né ad accettarsi; in una parola, sarà poco libero<br />
con se stesso e con gli altri, sui quali tenderà, difensivamente, a proiettare quanto gli fa<br />
problema e non accetta di sé. Infine, come già accennato, si impoverisce in generale la<br />
vita psichica: ogni passione, per quanto diabolica, contiene energia, e senza energia<br />
l'uomo non può realizzare nulla. Sarà o rischierà di essere un essere senza passioni, ma<br />
anche senza passione. Il vantaggio del modello della perfezione è l'estrema chiarezza del<br />
progetto proposto, dei valori da raggiungere e della disciplina da praticare, della<br />
distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male, dei percorsi metodologici e delle rinunce<br />
inevitabili. E non è poco. In ogni caso tale modello appartiene a un certo passato, anche<br />
se non proprio passato del tutto; qua e là sono ancora riconoscibili in certe odierne<br />
concezioni e prassi educative residui di questa mentalità. In tempi poi d'incertezza e<br />
disorientamento come i nostri, c'è chi ritiene che tutto si potrebbe risolvere tornando<br />
semplicemente a questo modello, con la chiarezza che lo contraddistingue e la disciplina<br />
che ne deriva.#<br />
Ma dobbiamo dire che di fatto tale modello crea seri problemi non solo a livello psicologico<br />
e formativo, come abbiamo visto, ma anche a livello di vita spirituale e d'interpretazione<br />
corretta del messaggio cristiano, offrendo il fianco al rischio del perfezionismo e del<br />
legalismo. Chi interpreta la tensione verso la perfezione in termini eccessivamente realisti<br />
e immediati, privilegiando subito i comportamenti, di fatto rischia di cadere in quella<br />
sindrome dell' osservanza formale, della legge per la legge, che Gesù stesso ha con<br />
particolare veemenza contestato e che Paolo continuerà con altrettanta passione ad<br />
attaccare; la pretesa, infatti, di costruirsi nella perfezione con le proprie mani e i propri<br />
muscoli rende vana la croce di Cristo. Non poteva dunque reggere tale modello al<br />
rinnovamento innescato dal Concilio Vaticano.#<br />
2.Il modello della «osservanza comune»#<br />
Questo modello è l'interpretazione del modello della perfezione ampliata a livello<br />
comunitario. C’è stato un tempo in cui era stata molto enfatizzata questa finalità della vita<br />
consacrata. L'osservanza comune e l'ideale della perfezione, trasferito dal singolo<br />
individuo alla comunità in quanto tale, ma praticamente sempre con la stessa logica.<br />
Ideale di perfezione con un respiro più ampio, non più concentrato e in qualche modo<br />
imposto al singolo, ma trasferito, con una certa forza, nel gruppo. Questo ha provocato<br />
alcune conseguenze abbastanza rilevanti dal punto di vista psicologico perché è chiaro<br />
che tutto ciò ha cambiato un po' il contenuto dell'idea di perfezione. Inevitabilmente, se<br />
l'ideale di perfezione è imposto al gruppo, sul gruppo c'è meno possibilità di intervenire a<br />
livello di motivazioni profonde. È già difficile scoprire la motivazione profonda nel singolo,<br />
figurarsi se si può portare a livello di gruppo, perché ognuno ha le proprie motivazioni. La
conseguenza fatale del modello dell'osservanza comune ha portato a ritenere più<br />
importanti i comportamenti, cioè la condotta esteriore con tutto il rischio e il pericolo del<br />
formalismo, del comportamentismo, del moralismo e di un certo legalismo, per cui tutti<br />
fanno le stesse cose, agiscono nello stesso modo e allo stesso tempo.#<br />
È chiaro che tutto questo ha un suo valore, non intendo assolutamente sminuirlo, però il<br />
rischio è di far consistere la perfezione praticamente in questo ideale gruppale di<br />
comportamento e di ignorare o dare meno importanza a ciò che è proprio l'elemento<br />
strategico di un cammino formativo. Che cos'è l'elemento strategico? L'elemento<br />
strategico è che cambi il cuore, che il cuore sia capace di aprirsi all'amore.#<br />
La salvaguardia non consiste nei comportamenti, è il cuore che deve cambiare. È bello ciò<br />
che scrive Paolo nella lettera ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti del Figlio». Il<br />
documento «Vita Consecrata», adotta questo passaggio biblico per parlare del fine della<br />
vita consacrata. Afferma esplicitamente che l'obiettivo della vita consacrata è avere i<br />
sentimenti del Figlio e per avere questi sentimenti ci vuole un lavoro in profondità, non<br />
basta fare l'esame di coscienza a livello di comportamenti. Il problema non sono i<br />
comportamenti, il problema è il cuore.#<br />
Se si accontenta di guardare i comportamenti, non ci sarà nessun processo formativo.<br />
Occorre il «descensus ad inferos», occorre andare sempre più in fondo a sé stessi fino a<br />
scoprire i propri mostri, i propri fantasmi, i propri démoni. Questo implica un cammino che<br />
va dai comportamenti agli atteggiamenti, cioè dalle attitudini interiori, allo stile di vita. La<br />
coscienza giudica quello che è bene o quello che è male. Poi abbiamo i sentimenti e le<br />
motivazioni. È’ importante non solo interrogarsi su ciò che ho fatto (comportamenti), ma<br />
come l'ho fatto (atteggiamenti e sentimenti) e perché l'ho fatto o per chi l'ho fatto<br />
(motivazioni).#<br />
Questo è un esame di coscienza dignitoso, altrimenti sarebbe un esame di incoscienza.<br />
Molte volte le nostre confessioni, sono semplicemente un andare a raccontare la lista dei<br />
comportamenti, le trasgressioni comportamentali. Confessarsi ha senso se mettiamo<br />
davanti a Dio i démoni che abitano il nostro cuore; allora uno sente la necessità di gridare:<br />
Kyrie elèison, sente il bisogno di confessarsi perché da solo non ce la fa. Uno ha la<br />
coscienza penitenziale solo se ha imparato a fare questo descensos ad inferos e ogni<br />
giorno fa l'esame di coscienza, non quello di incoscienza che si accontenta di restare nei<br />
comportamenti e probabilmente non si sente così peccatore ...#<br />
Credo che in certi ambiti, la psicologia potrebbe essere molto più severa della teologia<br />
morale perché costringe a guardarsi dentro con verità, a porsi queste domande ogni<br />
giorno, e non solo alla fine della giornata. Il religioso intelligente è quello che ha una<br />
coscienza vigile, che in tempo reale dice: in questo momento, con questa persona, con<br />
questo confratello, sento questo sentimento, che è segno di egoismo, di narcisismo, di<br />
egocentrismo. Questa è una coscienza penitenziale, qui c'è una verità di cammino<br />
formativo.#<br />
Il modello dell'osservanza comune, evidentemente, ponendo l'enfasi sul gruppo, non<br />
poteva fare tutti questi discorsi, ma enfatizzava soprattutto, inevitabilmente, la dimensione<br />
esterna della vita del monaco o del consacrato e questo è stato senz'altro un pericolo<br />
molto grave che abbiamo ereditato da questo modello. Ecco allora le comunità<br />
dell'osservanza, comunità tutte belline, compite, dove tutti all'orario stabilito fanno le cose<br />
stabilite. È esteticamente apprezzabile la faccenda, però dà meno rilievo a tutto quel<br />
lavoro che dovrebbe avvenire nelle profondità cardiache della persona.#<br />
La perfezione nei comportamenti è stato senz'altro un limite di cui credo, stiamo ancora<br />
pagando le conseguenze. È’ un altro equivoco che la comunità dell'osservanza ad un<br />
certo punto ha creato come una sorta di confusione, anche se abbiamo detto che c'è<br />
anche un aspetto positivo in questo modello, però attenzione a non far consistere tutto<br />
nella disciplina esteriore.#<br />
2.1. Disciplina e autodisciplina#
È chiaro che la disciplina è importante, però è funzionale alla crescita nella misura in cui<br />
diventa una autodisciplina, ossia la persona scopre un suo limite, il suo equivoco di fondo<br />
che può anche non essere un peccato. Equivoco vuol dire una interpretazione errata di<br />
dove sta il bene. Ecco allora che il giovane ha identificato dove è debole, dove la sua vita<br />
è ancora confusa, dove è ancora dominato da questi equivoci, dove è ancora<br />
particolarmente vulnerabile o sensibile ad un certo tipo di fantasmi e di sirene e dunque si<br />
lavora lì.#<br />
È nella disciplina che il discepolo vuole crescere nella passione per il Maestro e allora si<br />
sceglie lui una disciplina per essere sempre più libero di appassionarsi e di innamorarsi<br />
del Maestro.#<br />
Una disciplina ci vuole, ma come autodisciplina, come conseguenza di un lavoro di<br />
educazione. «Educare», educere, tirar fuori, «educere veritate» tirar fuori la verità.<br />
Lavorarsi lì, proprio lì dove ho scoperto di essere particolarmente debole.#<br />
È’ molto importante la disciplina nella vita comune, però non nel senso del modello<br />
dell'osservanza comune, cioè la disciplina come una sorta di distintivo comunitario: tutti<br />
agiscono in quella maniera e tutti fanno le stesse cose, ma disciplina come autodisciplina,<br />
cioè come una scelta dettata dal desiderio di essere come il Maestro.#<br />
2.2. Senso di identità e senso di appartenenza#<br />
Altro equivoco è il non rispettare l'equilibrio tra senso di identità e senso di appartenenza,<br />
favorendo forme di conformismo e consentendo a persone dall'identità piuttosto debole, di<br />
sentirsi accettate dal gruppo. Nella misura in cui uno si adegua allo stile del gruppo, viene<br />
accettato dal gruppo, viene apprezzato, magari viene anche considerato un «modello»<br />
perché è obbediente, obbedientissimo, ma l'obbedienza è qualcosa d'altro, non è solo<br />
questo. Evidentemente anche questo è un equivoco che nuoce alla comprensione di<br />
quella che invece dovrebbe essere l'autentica finalità della vita consacrata.#<br />
Abbiamo visto il modello della perfezione e il modello dell'osservanza comune. Questi<br />
modelli li possiamo riconoscere nel passato, però non è per niente detto che siano del<br />
tutto estinti. In tempi di transizione come quelli che viviamo oggi, è molto facile la<br />
tentazione, l'illusione, di risolvere certi problemi di non chiarezza, tornando a questi<br />
modelli che, infatti, erano e sono molto chiari, molto precisi. Indicano con chiarezza ciò<br />
che si deve fare o non si deve fare e per questo credo sia utile parlarne anche perché un<br />
formatore deve rendersi conto che sta usando un modello. Non è positivo che un<br />
formatore adotti un modello senza rendersene conto. Deve capire che sta usando un<br />
modello e dunque ci saranno delle conseguenze anche se lui ora non le prevede e non le<br />
intende.#<br />
3.Modello dell'autorealizzazione#<br />
Tale modello, tipico degli anni immediatamente successivi al Vaticano II, va compreso<br />
contestualizzandolo esattamente nel periodo storico in cui è sorto, in maniera più o meno<br />
informale. Da un lato, infatti, esso è l'inevitabile conseguenza del modello della perfezione<br />
o reazione scontata a esso; dall'altro segna una rottura anche piuttosto accentuata nei<br />
suoi confronti.#<br />
In che consiste? Nel porre, anzitutto, l'identità personale nelle proprie doti e qualità (a<br />
livello fisico, psichico e morale), presumendo d'esser artefici di sé e delle proprie fortune (il<br />
tipo che s'è-fatto-da-sé), e nel perseguire la realizzazione dei propri talenti e capacità<br />
come scopo primario della vita e condizione e garanzia della stima di sé.#<br />
3.1.L'io all'inizio, al centro e al termine#<br />
Porre la propria autorealizzazione come obiettivo d'un percorso formativo religioso o<br />
sacerdotale significa, in realtà, trasferire nell’ambito psicologico quanto prima era riferito e<br />
applicato a quello spirituale. In tal senso e al di là dell'apparenza, autorealizzazione e<br />
tensione autoperfezionista non sono termini tra loro contrapposti, specie per via di<br />
quell'auto, simbolo del ripiegamento su di sé. Il primo, l'autorealizzazione, sottolinea<br />
l'aspetto psichico e del tutto immanente al soggetto; il secondo si muove nell'ambito
trascendente e spirituale, ma spesso con la stessa logica e in vista del medesimo<br />
obiettivo: la logica dell'io-autore-di-sé, delle proprie prestazioni e successi, per giungere a<br />
una stima e realizzazione di sé costruita con le proprie mani e costituita di risultati visibili e<br />
più o meno esibiti. C'è sempre l'io, insomma, all'origine, al centro e pure al termine di tutto.#<br />
Nel caso della perfezione è un io che si nutre di contenuti spirituali e cammina verso<br />
obiettivi nobili; nel caso dell'autorealizzazione è un io molto preoccupato delle sue doti,<br />
qualità, talenti vari e della stima di sé, e che teorizza il primato della realizzazione di tutto<br />
ciò su tutto il resto (formazione spirituale compresa), o quanto meno pone tale<br />
realizzazione come condizione per la stima di sé e il senso d'appagamento personale,<br />
della propria felicità.#<br />
Cambiano i contenuti, dunque, ma resta identico lo stile o il dinamismo intrapsichico, come<br />
spesso stranamente succede quando da un estremo si va all'altro in quel movimento<br />
pendolare che ha sovente caratterizzato questi tempi di cambiamenti incerti e a volte<br />
peregrini.#<br />
3.2. Aspetti positivi#<br />
Nel campo poi della formazione sacerdotale e religiosa questa inversione di rotta, più o<br />
meno apparente, ha comunque determinato cambi anche repentini a livello di concezione<br />
teorica e di prassi operativa della pedagogia formativa. Anche di natura e segno positivo.#<br />
Vedi ad esempio, il recupero della centralità del soggetto a fronte di quella concezione un<br />
po' massivo-passiva e omologante del gruppo, che consentiva - a seconda dei casi -<br />
d'intrupparsi nel collettivo o imboscarsi per evitare certi appelli; oppure vedi il rapporto<br />
maggiormente equilibrato tra Grazia e natura, tra doni dello Spirito e doti individuali, un<br />
rapporto che vada oltre il semplice e ormai scontato «la Grazia suppone la natura»; o,<br />
ancora, l'attenzione a tematiche importanti sul piano psicologico ma con inevitabili riflessi<br />
su quello spirituale, come l'autoidentità, la stima di sé o la stessa realizzazione di sé; o,<br />
infine, la valorizzazione della propria umanità, d'un certo senso di appagamento<br />
personale, di gusto del vivere ... erroneamente ritenuti, da certa concezione della vita<br />
spirituale, come estranei o addirittura contrari a una genuina vita nello Spirito.#<br />
In questo ha indubbiamente giovato l'ingresso delle scienze umane nel contesto dei nostri<br />
ambiti formativi.#<br />
Ma ci sono anche corsi rischi notevoli, rischi di errori di prospettiva, di enfatizzazioni<br />
eccessive, di squilibri valutativi, di unilateralismi esasperanti, con conseguenze anche d'un<br />
certo peso. Vediamone alcune, sempre sul piano formativo sacerdotale e religioso.#<br />
3.3. Aspetti contraddittori: il talento come limite#<br />
Quando la prospettiva è solo o soprattutto quella dell'autorealizzazione il talento personale<br />
viene caricato oltremodo d'importanza e tutto viene visto nella prospettiva di realizzarlo,<br />
come fosse la cosa più importante e l'aspetto più rilevante della propria identità. La scelta<br />
vocazionale, ad esempio, viene fatta a partire dai propri talenti. Il soggetto non potrà<br />
scegliere (e scegliersi) al di fuori di essi, né in seguito fare alcuna scelta o accettare<br />
alcuna proposta se non ha la certezza di poter riuscire perfettamente nella prestazione<br />
richiesta, senza più alcuna libertà di rischiare, di tentare cose nuove, di puntare in alto. E il<br />
talento diventa così, paradossalmente, come un limite alla propria realizzazione, mentre<br />
l'individuo che si voleva autorealizzare si condanna ad autoripetersi in una coazione (o ...<br />
clonazione) a ripetere.#<br />
3.4. Dipendenza dal ruolo e dal risultato#<br />
Ancora, chi fa dell'autorealizzazione il traguardo esistenziale rischia, senza rendersene<br />
conto, di divenire dipendente da un bel po' di cose, situazioni, persone, ambienti. ..<br />
Anzitutto la sua stima dipende dal ruolo che ricopre e dal contesto ove può manifestare le<br />
sue doti. Staccato dall'uno e dall'altro non ritrova più se stesso e si sente una nullità;<br />
diverrà lui stesso sempre più bisognoso, all'eccesso, del risultato positivo e del consenso<br />
sociale, temendo l'insuccesso come un fallimento personale e curando con estrema<br />
attenzione la sua immagine sociale come ciò che gli dà identità, con tutto ciò che significa
(carrierismo, protagonismo, competitività e rivalità nei rapporti, invidia e gelosia ... ).<br />
Ovviamente avrà grossi problemi nel riconoscere il proprio limite morale e nel vivere<br />
un'autentica coscienza di peccato, poiché butterebbe troppo giù la già debole stima di sé,<br />
con la conseguenza di non fare mai l'esperienza della misericordia dell'Eterno e dunque di<br />
divenire, in pratica, un essere antisociale.#<br />
3.5. Dall'autorealizzazione al complesso d'inferiorità#<br />
L'impressione di morire di sete. E così la tensione per la propria autorealizzazione,<br />
produce o rischia di produrre senso e complesso d'inferiorità.#<br />
È sufficiente un po' di sana psicologia per capire perché l'essere umano non si troverà mai<br />
cercandosi troppo, non soddisferà mai il suo bisogno di stima facendone lo scopo<br />
immediato e prioritario del proprio agire, tanto meno illudendosi che dall'esterno, dai<br />
risultati delle sue prestazioni o dalle promozioni ricevute sul campo possa venirgli la<br />
soluzione d'un problema interno, come quello dell'identità e della realizzazione d'essa. E<br />
tanto più se l'essere umano in questione ha scelto di consacrarsi a Dio, a immagine di<br />
colui che non ha cercato se stesso e la sua gloria, ma la salvezza degli uomini e la gloria<br />
del Padre, realizzando entrambe (e realizzandosi) quando fu elevato da terra, in quella<br />
croce che è il vertice misterioso d'ogni autentica realizzazione di sé!#<br />
Diciamo che il modello dell'autorealizzazione non s'è certamente «estinto» col periodo<br />
immediatamente successivo al Vaticano II, ma è tuttora in ... buone condizioni di salute.<br />
Ed è importante sottolineare che possiede un notevole potere d'attrazione seduttiva,<br />
sostenuto e promosso com'è, da una cultura che spinge sempre più nel senso del<br />
soggettivismo solipsista, come una tentazione che non risparmia nessuno e, come tutte le<br />
tentazioni genuine, è infida e ingannevole, e non si lascia riconoscere come tale ... I talenti<br />
personali non sono forse dono di Dio da sfruttare? Di fatto è molto sottile il confine tra uso<br />
dei doni personali per il Regno e appropriazione narcisista d'essi. L'equivoco<br />
dell'autorealizzazione continua ancora dunque a confondere mente e cuore di chi è<br />
chiamato a consacrarsi a Dio, come una strada senza via d'uscita o un sentiero interrotto.<br />
È fondamentale nel tempo della formazione iniziale un chiarimento circa il senso<br />
dell'identità e l'indicazione d'un cammino che conduca alla certezza d'una identità<br />
sostanzialmente e stabilmente positiva2.#<br />
4. Modello dell’autoaccettazione#<br />
Un modo senz'altro più obiettivo e realistico, rispetto ai modelli precedenti, di considerare il<br />
mondo interiore e intrapsichico è quello costituito dal modello che potremmo chiamare<br />
della accettazione. Il termine viene dall'ambito psicologico e psicoterapeutico,<br />
particolarmente dall'area della psicologia umanista, e sta a dire l'importanza di guardarsi<br />
con occhio benevolo, senza le autocondanne del modello della perfezione, che<br />
lentamente conducono a una bassa autostima o addirittura al rifiuto di sé, né le frenesie<br />
narcisiste del modello dell'autorealizzazione, che finiscono per esser devianti rispetto<br />
all'ideale sacerdotale-religioso. Ma la logica di fondo è ancora e sempre quella dell'io che<br />
resta dentro il suo mondo, dell'«auto».#<br />
4.1.Conoscere la propria realtà e negatività#<br />
Più in particolare secondo tale modello tutta la propria realtà interiore (l'io cosiddetto<br />
attuale) va anzitutto riconosciuta, dunque identificata anche e soprattutto nella sua<br />
componente negativa, quella che non è subito in linea con il corrispettivo io ideale.<br />
Riconoscerla vuol dire darle un nome preciso, capire ove si è particolarmente deboli,<br />
identificare le aree delle proprie schiavitù e vulnerabilità.#<br />
Per tale motivo è evidente l'importanza di questa fase in un cammino autenticamente<br />
educativo, ove la prima cosa da fare è, appunto, conoscere le inconsistenze, le aree della<br />
personalità particolarmente chiuse all'azione dello Spirito, a livello conscio e inconscio, e<br />
ove dunque si deve lavorare, e non limitarsi a ... scomunicare e pretendere di distruggere,<br />
magari con l'illusione d'esserci riusciti. Ovvio che più precisa è l'identificazione delle<br />
proprie debolezze più efficace potrà poi essere il lavoro di purificazione e conversione.#
È a questo punto che dovrebbe scattare la seconda fase, quella della accettazione vera e<br />
propria. Che forse è più chiara per ciò che non è rispetto a ciò che è.#<br />
4.2. Riconoscere la propria creaturalità.#<br />
Accettare e accettarsi vuoi dire anzitutto non pretendere di eliminare la propria<br />
componente negativa, non presumere di eliminarla con le proprie forze, da un punto di<br />
vista credente, e tanto meno ritenere di poter programmare tempi brevi per risolvere ogni<br />
problema, al punto di non avvertire più alcun richiamo o stimolo della propria tendenza<br />
immatura. Sarebbero tutte aspettative irrealistiche, che mai potrebbero avere riscontro<br />
nella realtà.#<br />
Il modello dell'accettazione sottolinea l'esigenza di riconoscere nei propri limiti il segno del<br />
limite esistenziale, della propria creaturalità, qualcosa che è destinato a rimanere per<br />
sempre e che non avrebbe senso combattere con l'intento e la certezza di sradicarlo.#<br />
Sul piano più propriamente credente il limite può addirittura essere visto come ciò che<br />
consente di recuperare la propria identità, come ciò attraverso cui passa il mistero del<br />
proprio io; ma è anche ciò che mi mette in ginocchio e mi «costringe» a supplicare Dio<br />
perché abbia pietà di me peccatore; infine il limite mi abilita a vivere e convivere coi limiti<br />
altrui, senza mai scandalizzarmi, senza ritenermi superiore a nessuno, senza irrigidirmi e<br />
fare il duro di fronte alla debolezza del fratello.#<br />
4.3. Rischi e contraddizioni: immobilità e mediocrità#<br />
#<br />
Ma tale modello nasconde anche un rischio, legato fondamentalmente alla chiusura dell'io<br />
dentro di sé e a una lettura solo immanente della propria realtà: il rischio che<br />
l'accettazione di sé finisca per provocare una sorta di tacito e pratico assenso alla propria<br />
negatività, come un'autoassoluzione sempre più pacifica e tranquilla, o quella che la<br />
psicologia moderna chiama situazione di egosintonia, ovvero di progressiva<br />
autogiustificazione della propria situazione, con parallela perdita della coscienza<br />
penitenziale, o col pericolo di perdere senso di colpa e soprattutto coscienza di peccato<br />
(pur essendo diverso il limite psicologico da quello morale), con tutto ciò che tale<br />
coscienza significa: dolore, amarezza, pentimento, vergogna, proponimento ... D'altronde<br />
nessuno si nasconde che proprio questa è la cultura nella quale viviamo, una cultura<br />
sempre più appiattita sull'indifferenza etica, che irride addirittura chi in qualche modo si<br />
colpevolizza e non crede a chi si pente; (pseudo) cultura che non sa più distinguere il<br />
bene dal male né osa più chiedere rinunce e sacrifici per uscire da certe abitudini e<br />
correggersi.#<br />
Effetto nefasto di tale cultura accomodante e confusionaria sarebbe, infatti, assieme<br />
all'atteggiamento egosintonico nei confronti delle proprie debolezze, la perdita anche della<br />
motivazione a cambiare, a convertirsi, con conseguente situazione di stallo, di immobilità a<br />
livello psichico e spirituale. A che pro cambiare e convertirsi, infatti, se l'obiettivo più o<br />
meno implicitamente inteso è l'autoaccettazione, che è tanto più semplice e facile, se ci si<br />
sente dire e ripetere che il massimo della vita è «essere se stessi»? Anzi, a volte<br />
l'accettazione di sé innesca un processo mentale che va a condizionare persino la<br />
coscienza e i suoi giudizi, facendo ritenere lecito o comunque non così grave un certo<br />
comportamento.#<br />
Conseguenza tanto grave quanto inevitabile, ancorché raramente evidenziata, è la<br />
mediocrità. il modello dell'autoaccettazione rassicura e tranquillizza, non provoca né mette<br />
salutarmene in crisi; e se diventa punto d'arrivo o implicito modello formativo, in pratica<br />
chiude qualsiasi cammino in avanti, mette la persona in condizione d'accontentarsi di quel<br />
che è e del punto cui è arrivata, la illude di. .. esser «se stessa» e la convince che più di<br />
così non può, anzi, le fa intendere che sforzarsi potrebbe anche far male alla salute e<br />
risultare artificioso ...#<br />
È bene ricordare che ancora oggi l'accettazione di sé viene proposta e indicata, da certa<br />
psicologia, come la soluzione di tanti problemi, come punto d'arrivo conclusivo, sembra
chissà quale scoperta innovativa e strategica; mentre a volte, sul versante spirituale, viene<br />
confusa con l'autentica umiltà, con l'abbandono e la consegna di sé nelle mani di Dio.#<br />
È importante saper distinguere nel cammino della formazione iniziale l'autentica<br />
accettazione di sé. È solo una tappa che apre al coraggio di cambiare e alla prosecuzione<br />
del cammino, è in funzione della crescita non della staticità immobile e passiva. E quanto<br />
all'umiltà cristiana non ha nulla a che vedere con l'inerzia e la mancanza d'intraprendenza:<br />
l'umile è creativo e ingegnoso, soprattutto perché sa in chi confida e su cui può contare.#<br />
Se dunque, il modello della perfezione privilegia l'io ideale col rigore dei suoi obiettivi,<br />
mentre il modello dell'autorealizzazione riduce tutto sulla misura delle doti e qualità<br />
personali del soggetto, artefice di se stesso, il modello dell'autoaccettazione sembra<br />
enfatizzare oltremodo (e rassicurare) l'io attuale senz'alcuna tensione di crescita e<br />
conversione, e mostra dunque tutta la sua insufficienza e ambivalenza sul piano formativo.#<br />
5. Modello dell’integrazione#<br />
Un netto superamento del concetto e della prassi dell'autoaccettazione, come pure degli<br />
altri due modelli, è costituito dall'idea dell'integrazione. Da un lato tale concetto esprime<br />
l'ulteriore progresso delle scienze umane e della psicoterapia, in particolare, che scopre<br />
sempre più la funzione solo strumentale e non finale dell'accettazione di sé, dall'altro<br />
manifesta anche la sempre migliore intesa tra queste scienze e le discipline classiche<br />
della formazione spirituale, essendo tale idea teologica e psicologica assieme.#<br />
L'immagine che in qualche modo potrebbe render l'idea dell'integrazione è quella d'un<br />
cerchio o d'un movimento concentrico che ingloba e integra il reale attorno a un punto<br />
centrale. La strategia, dunque, dell'integrazione percorre tutt'altra strada rispetto alla<br />
perfezione, e va al tempo stesso ben oltre l'obiettivo sia dell'autorealizzazione che<br />
dell'autoaccettazione. È la strategia dell'enucleazione, che implica la presenza d'un centro<br />
capace di raccogliere attorno a sé la realtà circostante, attirandola e dandole senso,<br />
purificandola e arricchendola, dandole nuovo orientamento e valorizzandola al massimo.<br />
Integrare è fenomeno complesso che sta a dire una certa varietà di operazioni: completare<br />
e dare compimento, attirare, perfezionare, creare unità attorno a un centro, raccogliere o<br />
metter insieme, correggere e riorientare ... , ma anche illuminare, significare, vitalizzare,<br />
riscaldare, rinforzare, cicatrizzare ...#<br />
Nel caso di una persona in formazione tale nucleo centrale cerca di assumere tutta la<br />
complessità del logos, dell'eros e del pathos. La persona che cammina verso<br />
l'integrazione cerca di enucleare, partendo da un centro vivo, da un'intuizione di base, da<br />
un valore - in ultima analisi - nel quale riconosce il suo io e quel che è chiamata a essere.<br />
Non parte con l'idea di abolire niente della propria umanità, semmai si propone di far<br />
girare tutti gli impulsi della vita attorno a questo centro vivo come satelliti attorno a un<br />
pianeta.#<br />
Il suo sforzo, e di sforzo naturalmente si tratta, con la fatica e la rinuncia che implica, sta<br />
appunto nell'equilibrare tra loro questi impulsi e di orientarli, dosandoli sempre in vista<br />
dell'obiettivo centrale e finale, togliendo progressivamente da essi ciò che non è conforme<br />
a tale obiettivo. Non ha paura preconcetta delle passioni, le affronta, o impara ad<br />
affrontarle, con naturalezza, se possibile, come parte della sua natura. È come se egli<br />
lavorasse su due fronti, al centro e alla periferia: al centro per ritrovare sempre la propria<br />
identità in quel punto vitale che ha il potere di attrarre e dare significato a tutto, alla<br />
periferia per avvicinare sempre più ogni frammento del suo essere e del suo vivere a<br />
questo centro vitale.#<br />
Egli dunque non presume di cancellare nulla né s'illude di poterlo fare; anzi, ha motivo di<br />
sperare che un po' alla volta la negatività, così accolta e provocata, confrontata e filtrata,<br />
perda la sua virulenza e si comporti come una belva addomesticata. D'altro canto sa pure<br />
che non può lasciar le cose come stanno, accontentandosi di prendere atto di quel che è e<br />
dei propri mali. Egli lavora su di essi, in due fasi, una negativa e di purificazione, l'altra<br />
positiva e di scoperta del senso profondo.#
5.1. Le due fasi#<br />
La prima fase, quella negativa, implica la fatica della rinuncia, del saper dire di no a certe<br />
pretese istintuali. Il soggetto deve imparare a contrastarle, perché le sente in rotta con la<br />
propria identità e verità interiore, con quello che vuole realizzare e diventare (le sente<br />
egoaliene non egosintoniche), le soffre e fa di tutto per mantenerle sotto controllo e non<br />
esserne dipendente. Non si riconosce in esse.#<br />
Al tempo stesso, o in una seconda fase positiva, coglie in questo contrasto un senso<br />
fondamentale della vita e del suo cammino formativo. Ovvero, se ne serve per riconoscere<br />
la propria povertà dinanzi a Dio e agli altri, per sperimentare quella misericordia che è<br />
all'origine della vita e d'ogni relazione, per non pensarsi migliore di nessuno e saper<br />
compatire le altrui infermità, per non prendersi troppo sul serio e liberarsi delle manie<br />
narcisiste.#<br />
E se nonostante i suoi sforzi ritrova e riconosce ancora dentro di sé la radice del suo male,<br />
non solo accetta la sua impotenza, ma vi coglie addirittura una misteriosa presenza della<br />
potenza della Grazia. La sua infatti, non è l'accettazione passiva e comoda di chi non<br />
conosce alcuna tensione interiore ed è tranquillo nella sua mediocrità, né la rabbia<br />
narcisista di chi - ahimé - s'è scoperto debole e povero, ma è l'esperienza grata e intensa<br />
di chi ha lottato soprattutto col suo egocentrismo e s'è progressivamente liberato dai suoi<br />
sogni (auto) perfezionisti, divenendo sempre più spazio libero per Dio, il tre volte santo<br />
finalmente abitabile da Colui che può far grandi cose in chi s'è svuotato del proprio io, il<br />
Dio che è onnipotente in chi ha sperimentato la propria impotenza!#<br />
A questo punto quella povertà sofferta e combattuta, ora abitata viene integrata, o viene<br />
scoperta ricca di senso, da non buttar via assolutamente. Anzi, essa diventa sempre più<br />
funzionale a un progetto formativo, ha un'enorme valenza liberante, diviene confronto<br />
ineludibile e prova attendibile dell'autenticità del cammino, è come una presenza costante<br />
che sta a ricordare qualcosa che non può mai in nessun modo esser dimenticato o messo<br />
tra parentesi. Quando quel giovane ora in formazione un domani sarà apostolo,<br />
annuncerà il vangelo della misericordia non come un dottore della legge, o un superman<br />
dello spirito che ha solo da insegnare agli altri, ma come un «guaritore ferito», con la<br />
consapevolezza piena e sofferta della sua debolezza, con la forza convincente di chi ha<br />
sperimentato su di sé la grandezza e abbondanza del perdono, segno d'un amore che lo<br />
ha preceduto e prediletto, e per fortuna non commisurato ai suoi meriti. Sarà come<br />
un'integrazione continua, in un processo di formazione permanente, il cui punto d'arrivo è<br />
l'atteggiamento di Paolo che si vanta delle proprie debolezze (cf. 2 Cor 12,10).#<br />
5.2. I due dinamismi#<br />
Ma non solo: l'energia accettata e progressivamente liberata rinforza il polo positivo,<br />
oggetto dell'intenzionalità conscia. È un movimento duplice: dal centro alla periferia e dalla<br />
periferia al centro. Grazie a questo reciproco dinamismo, l'ancoraggio al valore terminale e<br />
trascendente rende il soggetto libero di accogliere le altre dimensioni del suo essere, la<br />
vitalità che ne riceve diventa mezzo e strumento per vivere più intensamente la passione<br />
centrale della sua vita.#<br />
Il risultato è il profilo d'un santo, uomo integrato, padrone delle sue energie perché ha<br />
faticosamente imparato a tenerle in qualche modo tutte per le redini; capace di tenerezza<br />
e di gesti profondamente umani perché non è stato irrigidito dalla razionalità e dal<br />
controllo, né è stato deviato da sottili narcisismi e da quelle presunzioni di sufficienza<br />
perfezionistica che irridono tutto ciò che è emotivo; capace di desiderare il bene e di<br />
lasciarsi attrarre da esso perché non ha ucciso i suoi desideri e la sua capacità di voler<br />
bene, magari per la paura di non saper più abbastanza controllare la parte "inferiore" di sé;<br />
libero di dare e di ricevere, di amare e di essere amato, di scegliere e rinunciare; di mistica<br />
e di ascetica.#<br />
Per arrivare a questa integrazione, che non è data in dono a nessuno, né è frutto di una<br />
sintesi semplicemente teorica, bisogna saper riconoscere e esperimentare gli angeli e i
demoni che convivono nella nostra vita. L'integrazione è il frutto di avanzate e ritirate, di<br />
ascese e di cadute, di rinunce e di recuperi, fino al punto di cristallizzarsi in un centro forte<br />
che tutto attrae e armonizza. Quando il santo si ritiene peccatore molto vile, indegno della<br />
salvezza e di Dio, dice la verità, perché parla della dimensione delle ombre, di quei<br />
meandri sinistri nei quali abitano incatenati i nostri demoni.#<br />
In un progetto di santità che tiene conto realisticamente di un certo modello antropologico,<br />
in cui l'uomo non è santo né peccatore (ma entrambe le cose), essi sono incatenati, ma<br />
non morti e bisogna continuamente integrarli perché la loro forza non sconvolga l'equilibrio<br />
di chi è in formazione, ma l'aiuti a crescere in direzione della terra promessa, e cioè della<br />
sua propria identità, come Dio lo vuole3.#<br />
5.3. La centralità polare della croce#<br />
L'elemento decisivo, in un progetto formativo che s'ispira al modello dell'integrazione, è<br />
costituito evidentemente dal polo centrale, da quel valore, idea, esperienza, convinzione<br />
che il soggetto ha interiorizzato e sta facendo sempre più suo e al quale, al tempo stesso,<br />
ispira la sua condotta e le sue aspirazioni, come fosse perno e fulcro della sua vita.#<br />
Da un lato è ciò che la sostiene e la fortifica, ma dall'altro è anche ciò che lo provoca come<br />
un costante punto di riferimento, un permanente criterio di discernimento, un<br />
denominatore comune che in qualche modo contiene ed esprime le varie dimensioni del<br />
vivere da presbitero o consacrato, ma che ha anche bisogno di ogni dimensione del vivere<br />
umano.#<br />
In concreto è la persona del Figlio, il suo mistero di morte e resurrezione, la sua pasqua, i<br />
suoi sentimenti, come abbiamo già indicato, il suo cuore di Servo e di Buon Pastore.<br />
Questo riferimento teologico-spirituale è anche il polo nevralgico che funziona da<br />
elemento integratore, e che dovrebbe essere il cuore stesso della vita sacerdotale e<br />
consacrata, il suo centro vitale, ciò che l'anima è ne costituisce l'identità e che è<br />
indispensabile non solo riscoprire e proporre con chiarezza nella formazione iniziale, ma<br />
anche articolare pedagogicamente come polo di attrazione e trazione psichica.#<br />
In altre parole, il processo d'integrazione psichica può realizzarsi solo attorno a quanto è<br />
già stato posto, almeno teoricamente, al centro della vita cristiana e dell'identità della vita<br />
consacrata e sacerdotale, che è appunto il Cristo, perché così è piaciuto al Padre-Dio, fare<br />
di Cristo «il cuore del mondo, il centro non solo del cosmo, ma della vita d'ogni vivente,<br />
perché in lui ci ha scelti, benedetti, predestinati, redenti, ricapitolando in lui tutte le cose,<br />
rappacificando ogni realtà col sangue della sua croce» (cf. Ef 1,3-10; Col 1 ,15-20); poiché<br />
il Verbo s'è incarnato non «per abolire, ma per dare compimento ... », perché «tutto sia<br />
compiuto» (Mt 5,17-18).#<br />
A questa centralità teologica di Cristo deve corrispondere sempre più una centralità, per<br />
così dire, psicologica o psicopedagogica, che poi non è altro che quel processo di<br />
«ricapitolazione» e «rappacificazione» di cui parla Paolo, operazione complessa, che<br />
parte da lontano e che non può non durare tutta la vita, ma che può e deve<br />
necessariamente cominciare dalla formazione iniziale.#<br />
Si tratterà allora di porre davvero la croce al centro della vita del giovane, quasi di<br />
piantargliela in cuore, perché scopra progressivamente come solo la croce del Figlio,<br />
quale segno dell'amore più grande, innalzato da terra perché possa dare senso a tutto,<br />
davvero a tutto, al passato e al presente, al limite personale e alla debolezza,<br />
all'impotenza e al peccato, alla vita e alla morte, alla sofferenza e all'amore, alla sua scelta<br />
vocazionale e a ogni scelta di vita; poiché solo la pasqua del Signore può trasformare il<br />
male in bene, l'assurdo in sensato, l'offesa ricevuta in purificazione radicale, la malattia in<br />
partecipazione responsabile alla salvezza, la morte in vita.#<br />
Solo l'amore espresso dalla croce può giudicare la storia personale e orientare l'amore,<br />
formare la coscienza e illuminare gli occhi della mente, portare a galla ciò che è inconscio<br />
e inconfessato, ferire e sanare, scoprire l'autentico mistero della sessualità e darli ordine,<br />
dirne natura e ricchezza, svelare illusioni e trucchi, difese e reticenze dell'egoismo umano,
ivelare che l'amore ha le stigmate e se non ce l'ha non è vero amore ... La croce è la<br />
verità della vita4.#<br />
Per questo attira («Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me», Gv 12,32, tutti e<br />
tutto), per questo ricompone e ricongiunge ciò che era diviso, arido e disperso e ogni<br />
frammento di vita e d'umanità (cf. Ez 37,1-15); «nulla si sottrae al suo calore» (Sal 18),<br />
poiché la croce è quel centro vivo e caldo attorno al quale il giovane deve<br />
progressivamente imparare a far girare la sua vita, impulsi, limiti, sentimenti, istinti,<br />
desideri, progetti, passioni, sogni, relazioni, ecc ..#<br />
Essa è quell'icona che lo sguardo del giovane in formazione deve continuare a fissare<br />
lungo il cammino formativo (cf. Gv 19,37), come gli Ebrei nel deserto.#<br />
#<br />
#<br />
* Docente dell'Università Pontificia Salesiana.#<br />
(da Vita Nostra)#<br />
#<br />
Note#<br />
Cf. L. BOFF, Francesco d'Assisi. Una alternativa umana e cristiana, Cittadella, Assisi<br />
1982, p. 192 [ ... ].#<br />
Cf. L. BOFF, Francesco d'Assisi. Una alternativa umana e cristiana, Cittadella, Assisi<br />
1982, p. 192 [ ... l.#<br />
Cf. Ibidem, 192-193. Il modello integrativo è sostanzialmente l'idea di fondo del volume di<br />
F. Imoda, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato 1993.#<br />
Cf. A. CENCINI, La croce, verità della vita, Milano 2001.