Harry Bernstein Il sogno infinito - Edizioni Piemme
Harry Bernstein Il sogno infinito - Edizioni Piemme
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<strong>Harry</strong> <strong>Bernstein</strong><br />
<strong>Il</strong> <strong>sogno</strong><br />
<strong>infinito</strong><br />
Traduzione di<br />
Silvia Bogliolo
Titolo originale dell’opera: The Dream<br />
Copyright © <strong>Harry</strong> <strong>Bernstein</strong>, 2008<br />
First published by Arrow Books in 2008<br />
I Edizione <strong>Piemme</strong> Bestseller, novembre 2010<br />
© 2008 - EDIZIONI PIEMME Spa<br />
20145 Milano - Via Tiziano, 32<br />
info@edizpiemme.it - www.edizpiemme.it<br />
Anno 2010-2011-2012 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9<br />
Stampa: Mondadori Printing Spa - Stabilimento NSM - Cles (TN)
1<br />
I sogni avevano un ruolo importante nelle nostre vite, in quei<br />
primi anni inglesi. Nostra madre li inventava per noi, per<br />
consolarci di tutto ciò che non avevamo e infonderci speranza<br />
nel futuro. Ma forse lo faceva anche per sé, per sfuggire<br />
alle miserie che l’affliggevano, soprattutto a causa di mio padre,<br />
che di noi si curava molto poco.<br />
Quei sogni erano sempre là a rischiararci un poco l’esistenza,<br />
solo che andavano e venivano: splendidi finché duravano<br />
ma fragili ed evanescenti. Erano come le bolle di sapone<br />
che soffiavamo dalla pipa di terracotta; le facevamo<br />
volteggiare nell’aria in una sfilata di colori allegri, magnifiche<br />
ma sfuggenti. Allungavamo la mano per afferrarne una,<br />
ma quella, appena la toccavamo, scoppiava e svaniva. Così<br />
erano i nostri sogni.<br />
<strong>Il</strong> salotto, per esempio. Per anni e anni, fintanto che vivemmo<br />
in quella casa, la stanza all’ingresso che avrebbe dovuto<br />
essere il salotto rimase vuota: non c’era neppure un mobile,<br />
per la semplice ragione che non potevamo permetterci di<br />
comprarne. <strong>Il</strong> caminetto non era mai stato acceso, se ne stava<br />
lì gelido e grigio, ma non era così che si presentava nel <strong>sogno</strong><br />
che la mamma aveva ideato per noi. Ci prometteva che<br />
sarebbe diventato caldo e accogliente, con mobili elegantissi-<br />
7
mi, foderati di velluto rosso, un lussuoso divano e poltrone<br />
grandi e soffici. Ci sarebbe stato anche un bel tappeto, rosso<br />
e folto, e soprattutto un pianoforte. Sì, un piano, con i tasti<br />
bianchi e neri che tutti noi avremmo potuto suonare.<br />
Oh, era un <strong>sogno</strong> fantastico e noi facevamo finta che fosse<br />
già tutto vero e stavamo stravaccati sulle poltrone mentre<br />
mia sorella Rose si sdraiava sul divano. Lei, più di tutti, si abbandonava<br />
all’immaginazione, giocava a fare la duchessa che<br />
impartiva gli ordini alla servitù, con un tono imperioso e un<br />
occhialino immaginario che reggeva davanti al viso.<br />
E poi cosa accadde? Mia madre certo dovette rifletterci a<br />
lungo e chissà quante notti insonni le costò arrivare a prendere<br />
quella decisione che Rose in seguito, dando sfogo a tutto<br />
il suo rancore, definì “il tradimento”.<br />
Ma cos’altro avrebbe potuto fare, povera mamma? Faceva<br />
i salti mortali per farci sopravvivere con i pochi soldi che<br />
nostro padre le allungava ogni settimana dal suo salario di<br />
operaio tessile, mentre tratteneva per sé la parte più consistente<br />
per andare a bere e a giocare. Doveva inventarsi qualcosa<br />
per non farci morire di fame e alla fine trasformò il salotto<br />
in un negozietto, dove vendeva frutta avvizzita e<br />
verdura raccolta da terra, caduta dai banchi del mercato.<br />
Una semplice bottega, niente di straordinario, che infranse<br />
la nostra bolla incantata. Mia sorella Rose non glielo perdonò<br />
mai; l’amarezza e la rabbia le durarono per tutta la vita<br />
e parlava con mia madre il meno possibile.<br />
Così andavano i nostri sogni, e non sembrava dovesse essere<br />
diverso per quello che nostra madre vagheggiava di più.<br />
Sognava di partire per l’America e non ci avrebbe rinunciato<br />
per niente al mondo. Era come la panacea di tutti i guai,<br />
l’ultima speranza di una vita migliore.<br />
Avevamo parenti, in America. Non da parte della mamma,<br />
lei non ne aveva. Da piccola, in Polonia, era rimasta orfana<br />
ed era stata sballottata da una famiglia spesso ostile e talvol-<br />
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ta perfino malevola all’altra fino a quando, compiuti i sedici<br />
anni, era potuta partire per l’Inghilterra. In America c’erano<br />
i parenti di mio padre: i suoi genitori più una decina tra fratelli<br />
e sorelle, una bella nidiata di cui lui era il primogenito.<br />
Un tempo anche loro vivevano in Inghilterra, proprio lì<br />
dove abitavamo noi allora, quell’enorme famiglia stipata in<br />
una casa che era sufficiente a malapena per noi, che di figli<br />
eravamo solo sei. Non c’è da stupirsi che bisticciassero tanto.<br />
Probabilmente litigavano per lo spazio, anche se a dir la<br />
verità litigavano pure con i vicini. Si diceva che erano chiassosi<br />
e attaccabrighe e quando si trattava di fare a botte mio<br />
padre era il peggiore di tutti. Incuteva terrore a chiunque,<br />
sempre pronto a urlare e a menare le mani, e perfino mia<br />
nonna lo temeva, anche se era un osso duro pure lei.<br />
Mio nonno non si immischiava. Lasciava che fosse la nonna<br />
a dettare le regole in casa e lei governava con il pugno di<br />
ferro, tranne quando si trattava di mio padre. Se poteva, mio<br />
nonno se ne restava in disparte; faceva il conciatetti e spesso<br />
era via, a sostituire lastre rotte sui tetti di città lontane, spassandosela<br />
un mondo. Lavorava cantando e intonava canzoni<br />
di tutte le nazionalità: ebree, irlandesi, inglesi, polacche e<br />
spesso la gente si fermava giù in strada ad ascoltarlo.<br />
In una vecchia scatola di cartone dove mia madre raccoglieva<br />
le foto di famiglia, una volta vidi una fotografia color<br />
seppia della famiglia di mio padre, tutti in posa su tre file,<br />
sorridenti e vestiti con gli abiti buoni, l’immagine di ragazzi<br />
bravi e rispettabili e non di quella marmaglia di prepotenti<br />
che erano in realtà. Al centro sedevano i genitori: mia nonna,<br />
un donnone grande e pesante, con il doppio mento, un<br />
petto imponente e quell’espressione arcigna che non l’abbandonava<br />
mai, e accanto a lei il nonno, un signore dall’aspetto<br />
distinto e con la barba, un bastone da passeggio con<br />
il pomolo d’argento stretto tra le gambe e indosso una redingote.<br />
9
Non si vedeva mio padre in quella fotografia e per un ottimo<br />
motivo: non era lì, era ancora in Polonia.<br />
Ho sempre avuto la sensazione che quella storia non fosse<br />
del tutto autentica, ma i più anziani della famiglia giurano che<br />
sia vera. All’età di sette anni mio padre fu messo a lavorare in<br />
un mattatoio, che doveva ripulire dai resti degli animali macellati.<br />
Lavorava dodici ore al giorno, a volte anche di più. A<br />
nove anni cominciò a bere. A dieci sfidava sua madre e divenne<br />
il terrore della famiglia. Non riuscivano a tenergli testa e<br />
così un giorno, mentre lui era al lavoro, mia nonna radunò gli<br />
altri figli e insieme al nonno scappò in Inghilterra, lasciando<br />
mio padre a sbrigarsela da solo. Quando tornò a casa e si accorse<br />
che erano andati via tutti, mio padre per poco non impazzì<br />
dalla rabbia. Comunque li seguì e, dopo un viaggio di<br />
svariate settimane ricco di peripezie, finalmente approdò in<br />
Inghilterra. Raggiunse la nostra strada nel cuore della notte;<br />
aveva saputo da altri ebrei dove abitavano e si mise a bussare<br />
alla porta come un forsennato, urlando che gli aprissero.<br />
Mia nonna, svegliata insieme al resto della famiglia, sbirciò<br />
giù dalla finestra della camera e vedendo chi era andò sul<br />
pianerottolo a prendere il secchio che di notte veniva usato<br />
per i bisogni di tutta la famiglia. Era pieno fino all’orlo. Lo<br />
portò alla finestra aperta e ne rovesciò il contenuto sulla testa<br />
del figlio. Lui urlò di rabbia, ma non si arrese e continuò<br />
a battere sulla porta finché la nonna fu obbligata ad aprirgli.<br />
Così tutto ricominciò da capo, solo che adesso mio padre<br />
era diventato vendicativo e ancora più pericoloso di prima e<br />
mia nonna si spremeva le meningi alla ricerca di un altro modo<br />
per sbarazzarsi di lui. Fu allora, così almeno raccontano,<br />
che mia madre arrivò in Inghilterra dritta tra le braccia della<br />
nonna, che in un lampo scorse in quell’orfanella innocente<br />
e dolce, che non aveva né un amico né un parente al mondo<br />
a cui rivolgersi, la soluzione di tutti i suoi problemi. Non<br />
fu difficile convincerla a fidanzarsi e così mia madre, che di<br />
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mio padre non sapeva niente, si ritrovò accalappiata in un<br />
matrimonio che non le avrebbe portato altro che sofferenze.<br />
La storia non finì così. Non appena si furono sposati, mia<br />
nonna si affrettò a mettere la maggiore distanza possibile fra<br />
lei e il suo primogenito. Ancora una volta impacchettò tutto,<br />
radunò i figli e partì con loro per l’America, e per generosità<br />
si accordò con il padrone perché la casa passasse ai nuovi<br />
sposini.<br />
Alla luce di queste vicende, sembrava completamente inutile<br />
che mia madre si rivolgesse in particolare a mia nonna e<br />
ad altri di quella famiglia perché ci aiutassero ad andare in<br />
America. Erano fuggiti due volte da nostro padre: quali possibilità<br />
c’erano che spendessero dei soldi per noi e ci comprassero<br />
i biglietti della nave, come la mamma domandava<br />
sempre, per riportarlo a far parte della loro vita?<br />
Pur conoscendo la tragica vicenda di come lo avevano abbandonato<br />
in Polonia, e con il sospetto che i fatti si fossero<br />
ripetuti quando erano emigrati negli Stati Uniti, mia madre<br />
scriveva ugualmente a tutti loro. Ormai i ragazzi erano cresciuti,<br />
erano quasi tutti sposati ed erano usciti dalla casa della<br />
nonna, quindi le lettere da scrivere erano tante.<br />
La mamma non sapeva scrivere, non era mai andata a<br />
scuola, e le dettava a noi figli. Negli anni l’incarico passò da<br />
uno all’altro, man mano che crescevamo, finché toccò anche<br />
a me, ed ero io a sedermi di fronte a lei al tavolo della cucina,<br />
a intingere la penna nel calamaio e ad aspettare, mentre<br />
lei pensava alle parole da dire.<br />
Infine cominciava, chiunque fosse il destinatario: «Mio caro...<br />
solo qualche riga per farti sapere che stiamo tutti bene. Lo<br />
stesso ci auguriamo di voi».<br />
Le sue lettere erano tutte uguali, iniziavano così e poi, dopo<br />
qualche pettegolezzo sui vecchi vicini, sull’ultimo nato<br />
della signora Cohen, sulla malattia che si era beccato quello<br />
di fronte, su un’altra cosa ancora, finalmente si lanciavano<br />
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nell’accorata richiesta dei biglietti. Mia madre non faceva<br />
mai menzione dei soldi. Non poteva sopportare l’idea di accettare<br />
denaro da qualcuno, ma i biglietti, i biglietti del piroscafo<br />
sembravano un’altra faccenda e ogni volta li rassicurava<br />
che sarebbero stati rimborsati una volta che fossimo<br />
arrivati in America e avessimo cominciato a lavorare.<br />
Non sempre rispondevano. A volte passavano settimane<br />
senza che arrivasse un rigo dall’America. <strong>Il</strong> postino sapeva<br />
tutto di noi e di ciò che aspettavamo. Be’, lo sapeva tutta la<br />
strada, ma il postino ancora più degli altri. Era anziano, con<br />
i capelli bianchi che gli uscivano da sotto il berretto a visiera<br />
e zoppicava per una ferita alla gamba che risaliva alla<br />
guerra boera. Mi vedeva in attesa sulla porta mentre arrancava<br />
lungo la strada con il suo borsone a tracolla e scuoteva<br />
la testa ancora prima di avvicinarsi per dirmi: «Per oggi<br />
niente, ragazzo! Andrà meglio domani».<br />
Una volta ricevemmo una lettera da zio Abe. Una lettera<br />
allegra e piena di gioia; ci raccontava di quanto gli stessero<br />
andando bene le cose; aveva tre completi nuovi appesi nell’armadio<br />
e, nella foga di raccontarci le sue fortune, ci aveva<br />
scritto: «Ho una bellissima casa e una moglie con la luce elettrica<br />
e la vasca da bagno».<br />
Ci facemmo una bella risata, ma che ne era dei biglietti<br />
che gli avevamo chiesto? Neppure gli altri li nominarono<br />
mai. L’unica lettera che ci mandò la nonna in vari anni aveva<br />
un tono caustico: «Cosa credete che sia? La Banca d’Inghilterra?<br />
Oppure pensate che mi sia portata via i gioielli della corona<br />
quando sono partita?».<br />
Tutto questo farebbe supporre che mia madre si scoraggiasse<br />
e rinunciasse a spedire lettere. E invece no: non so<br />
quante altre ne scrissi dall’epoca in cui cominciò a dettare a<br />
me, quando avevo nove o dieci anni, fino a che ne compii<br />
dodici. E poi una mattina, quando eravamo tutti seduti a tavola<br />
per colazione, qualcuno bussò alla porta.<br />
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«Vai a vedere chi è» fece mia madre senza rivolgersi a nessuno<br />
in particolare. Era troppo presa a servire la colazione e<br />
nello stesso tempo a imboccare il piccolino, issato su un rudimentale<br />
seggiolone fatto con una sedia, una cassa di legno<br />
e una cinghia.<br />
Per un po’ sembrava che nessuno l’avesse sentita. Probabilmente<br />
era una qualche festa ebraica, perché eravamo tutti<br />
a casa e nostro padre stava ancora dormendo al piano di<br />
sopra. Eravamo intenti non solo a mangiare ma anche a leggere,<br />
con i libri e i giornali aperti e appoggiati alla zuccheriera,<br />
al bricco del latte o perfino allo sfilatino di pane, qualsiasi<br />
sostegno andava bene. Ormai era un’abitudine, a tavola.<br />
Ma poteva esserci un altro motivo per cui nessuno avesse risposto<br />
alla richiesta della mamma. Nonostante fossimo assorti<br />
nella lettura avevamo pensato alla possibilità che fosse<br />
un cliente, ipotesi più che sufficiente per ignorarlo. Odiavamo<br />
i clienti quanto tutto il negozio, non essendoci ancora resi<br />
conto che era quello che ci dava da mangiare.<br />
Poi per un attimo sollevai gli occhi dall’Isola del tesoro,<br />
mia madre incrociò il mio sguardo e ripeté: «<strong>Harry</strong>, vai a vedere<br />
chi è».<br />
Mi alzai di malavoglia e andai ad aprire la porta.<br />
13
2<br />
Non era un cliente, era il postino. Era lì, con la borsa a tracolla<br />
e sul volto un largo sorriso. Mi porse una busta gonfia<br />
e voluminosa. «Tutta per te, ragazzo» mi fece. «Mi dispiace,<br />
non arriva dall’America. Magari la prossima volta.»<br />
La presi e chiusi la porta, curioso di sapere che cosa fosse.<br />
Era un peccato che non venisse dall’America, una busta grossa<br />
come quella avrebbe potuto benissimo contenere i biglietti<br />
e appena l’avevo vista il cuore mi era saltato in gola. Ma il timbro<br />
era di Manchester e al posto del mittente c’era il nome di<br />
un’agenzia di viaggi. Era indirizzata ai <strong>Bernstein</strong>, senza nomi<br />
propri, solo “I <strong>Bernstein</strong>”, e fui tentato di aprirla lì seduta<br />
stante. Tuttavia rientrai in fretta per consegnarla alla mamma.<br />
Alzò gli occhi dal cucchiaio di porridge che stava infilando<br />
in bocca all’ultimogenito e mi accorsi che anche lei sobbalzò<br />
nel vederla; forse aveva avuto la mia stessa idea. Ma<br />
appena le dissi che veniva da Manchester la scintilla che l’aveva<br />
illuminata si spense e disse solo: «Sarà una pubblicità.<br />
Mettila lì, la guardo dopo».<br />
«Magari è importante. Non vuoi aprirla adesso?»<br />
«No, dopo.» E continuò a imboccare il piccolo.<br />
Ma ero troppo curioso per desistere. «Posso aprirla io?»<br />
le chiesi.<br />
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Spazientita mi rispose: «D’accordo, aprila se vuoi».<br />
Lo feci. Aprii la busta, e un istante dopo strillavo: «I biglietti!».<br />
Al tavolo tutti e tre i miei fratelli alzarono gli occhi dai libri.<br />
Mia madre mi fissò, il cucchiaio immobile a mezz’aria.<br />
Penso che non mi credesse, e non mi credevano neppure gli<br />
altri, ma stavo tirando fuori i biglietti dalla busta. Erano rosa<br />
e ognuno riportava un nome. Ce n’era uno per ciascuno<br />
di noi. C’era il nome della nave su cui avremmo viaggiato, la<br />
SS Regina. C’era la data, il 22 giugno 1922. La città di partenza,<br />
Liverpool. La destinazione, Québec, nel Canada.<br />
Continuavo a estrarli senza smettere di urlare e allora tutti<br />
corsero verso di me per vederli e strapparmeli di mano e<br />
anche loro iniziarono a gridare mentre nostra madre rimase<br />
paralizzata, ancora non riusciva a credere a quello che sentiva<br />
e vedeva. Infine anche lei prese un biglietto, lo fissò ma<br />
restò senza parole.<br />
Come ci si sente quando si avvera un <strong>sogno</strong>? Quando la<br />
bolla che cerchi di afferrare non scoppia, ma ti resta in mano<br />
intatta, splendida e rosea come quando galleggiava nell’aria?<br />
Che parole si usano? Mia madre all’inizio non disse<br />
niente e pensai che sarebbe scoppiata a piangere tanta era<br />
l’emozione che aveva dentro.<br />
Nella busta c’era dell’altro: una lettera dell’agenzia di<br />
viaggi con un’enorme quantità di istruzioni per i bagagli, i<br />
passaporti, le fotografie che occorreva portare, le vaccinazioni,<br />
ma tutto questo poteva aspettare finché ci fossimo ripresi<br />
dalla sbornia iniziale. In casa regnava una baraonda infernale:<br />
ai nostri strilli e alle urla di gioia si sommava il pianto<br />
del bambino spaventato.<br />
Poi all’improvviso tuonò una voce: «Che diavolo sta succedendo?».<br />
Era nostro padre. Era sceso in cucina senza che ce ne fossimo<br />
accorti e subito calò il silenzio, tranne per il pianto del<br />
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piccolo. Nessuno osava muoversi né parlare, eravamo tutti<br />
consapevoli di aver infranto la regola del silenzio assoluto in<br />
casa fino a quando lui dormiva al piano di sopra. Aveva un’espressione<br />
inferocita, come era normale che fosse per essere<br />
stato svegliato da un simile baccano.<br />
Mia madre aveva preso in braccio il bambino e lo cullava<br />
tentando di calmarlo. «Ci siamo dimenticati che dormivi» disse.<br />
«Ma non potevamo trattenerci. Sono arrivati i biglietti!»<br />
Se si aspettava che la felice notizia lo blandisse, si sbagliava.<br />
«Biglietti?» domandò, senza che la rabbia diminuisse.<br />
«Di che biglietti parli?»<br />
«Per andare in America.»<br />
«E chi cavolo vuole andare in America?»<br />
Non era la prima volta che lo diceva. Sull’argomento era<br />
sempre stato assolutamente esplicito e non aveva la minima<br />
intenzione di partire. Non aveva mai condiviso quel <strong>sogno</strong><br />
né tantomeno sentiva una qualche nostalgia per i parenti in<br />
America, suo padre e sua madre, i fratelli e le sorelle. E non<br />
c’era da stupirsene. Lo avevano abbandonato una volta in<br />
Polonia, poi avevano fatto lo stesso qui in Inghilterra. Ne era<br />
sicuro e ne era ancora amareggiato, si vedeva dalle cose che<br />
diceva e che ridisse ora.<br />
C’era un’evidente amarezza nel suo tono: «Perché diamine<br />
dovrei volermene andare in America? Per vedere quella<br />
manica di maledetti? Per caso loro hanno voglia di vedere<br />
me? Col cavolo che ce l’hanno! Per me possono tutti bruciare<br />
all’inferno. Vacci te, se vuoi! Portati tutti i bastardi mocciosi<br />
e andatevene! Fa’ come loro: scappa. Vattene!».<br />
«Non devi parlare così,» mormorò mia madre con un filo<br />
di voce «sono sicura che tutti loro vogliono vederti. <strong>Il</strong> passato<br />
è passato, devi cercare di non pensarci. Questa è la nostra<br />
grande occasione. Se fossero così egoisti come dici tu, non ci<br />
avrebbero mandato i biglietti. Vuol dire che hanno voglia di<br />
vederti.»<br />
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«Col cavolo!» le urlò per tutta risposta. «Anzi, ci scommetto<br />
che non c’è il biglietto per me! Ci scommetto quello<br />
che vuoi!»<br />
«Sì che c’è» replicò la mamma, adesso la voce era più forte<br />
e decisa. «L’ho visto. Ecco, guarda tu stesso.»<br />
Mi prese i biglietti dalle mani e glieli porse. Ma invece di<br />
guardarli lui li scagliò per terra e riprese a bestemmiare: «Te<br />
li puoi ficcare dove dico io, i biglietti! Ecco a cosa ci servono.<br />
Per quanto me ne frega te ne puoi andare all’inferno, tu<br />
e i tuoi bastardi!».<br />
Quando mio padre li aveva buttati a terra, mia madre per<br />
lo spavento aveva gridato inorridita e io mi ero gettato a raccoglierli,<br />
ma appena mi chinai mio padre mi sferrò un calcio<br />
nel sedere che mi fece cadere con la faccia sul pavimento.<br />
Poi a grandi passi uscì dalla stanza e tornò di sopra.<br />
La mamma mi aiutò ad alzarmi e gli altri, che erano rimasti<br />
per tutto il tempo immobili e in silenzio, recuperarono i<br />
biglietti rosa. Con il di dietro dolorante e il cuore gonfio di<br />
odio, uscii di casa e di sicuro camminai per chilometri cercando<br />
di far sbollire la rabbia, certo che un giorno o l’altro<br />
l’avrei ammazzato.<br />
Una cosa positiva però c’era: il pensiero che se mio padre<br />
non veniva ci saremmo finalmente liberati di lui per sempre<br />
e così sarebbero scomparsi anche la paura e l’odio che ci accompagnavano<br />
sin da quando ne avevo memoria. L’idea mi<br />
rese immensamente felice e visto che la scena di quella mattina<br />
aveva gettato un’ombra sulla gioia della mamma gliene<br />
parlai più tardi quella sera.<br />
Aveva stabilito che la prima cosa da fare era scrivere una<br />
lettera di ringraziamento per i biglietti, perciò mi sedetti al<br />
mio solito posto al tavolo in cucina, di fronte a lei, con il foglio<br />
e l’inchiostro pronti e la penna in mano, e affrontai l’argomento<br />
prima che cominciasse: «Devi dirgli che lui non<br />
viene» le ricordai. Fra noi lo chiamavamo sempre “lui”; nes-<br />
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suno diceva mai “padre” o “papà” né tantomeno quei vezzeggiativi<br />
affettuosi che i bambini a volte usano con i loro genitori.<br />
Mia madre, concentrata sulle parole che stava per dettarmi,<br />
alzò gli occhi e mi fissò stupita. «Perché dici che non viene?»<br />
mi chiese alla fine.<br />
Ero un po’ sorpreso. «Stamani ce l’ha detto chiaro e tondo»<br />
feci, strofinandomi il fondoschiena con aria afflitta. Mi<br />
faceva ancora male.<br />
Guardandomi capì, e disse: «È tuo padre».<br />
«Sì, ma questo non gli dà il diritto di prendermi a calci nel<br />
sedere.»<br />
«Non riesce a controllarsi» mi spiegò. «È stato maltrattato<br />
anche lui fin da quando era un bambino, ancora più piccolo<br />
di te. È l’unica cosa che conosce.»<br />
«Non m’importa» risposi. «Non ha il diritto di prendermi<br />
a calci. E sono felice che non venga in America con noi.»<br />
«Di questo non sarei così sicura.»<br />
La guardai sorpreso e con una certa delusione che cominciava<br />
a farsi strada. «Ma ha detto che non veniva.»<br />
«Dice tante cose, ma non sempre le pensa.»<br />
La delusione si ingigantì: «Allora viene?».<br />
«Vedremo.»<br />
Non mi avrebbe detto nient’altro sulla faccenda, così ritornammo<br />
alla lettera e intinsi di nuovo il pennino nell’inchiostro.<br />
Cominciò con «Caro...» ma subito si interruppe.<br />
«A chi scriviamo?» chiesi.<br />
Era perplessa. «Chi ci ha mandato i biglietti?»<br />
«Arrivano da un’agenzia di viaggi di Manchester» le ricordai.<br />
«Sì, ma i soldi, chi li ha mandati? Guarda nella busta, c’era<br />
una lettera dell’agenzia, magari c’è scritto.»<br />
Presi la lettera, i biglietti e tutti gli altri opuscoli che ci<br />
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aveva spedito l’agenzia, ma non c’era niente su chi avesse<br />
mandato i soldi.<br />
Cominciammo a fare congetture. Non certo la nonna, non<br />
era la Banca d’Inghilterra, né si era portata via i gioielli della<br />
corona, e con le sue parole ancora in mente fu depennata<br />
per prima dalla lista. E se non era stata la nonna, tantomeno<br />
il nonno, che certo era l’ultimo a occuparsi di queste cose. E<br />
allora chi? Lo zio Abe, che aveva tre completi appesi nell’armadio<br />
e una bella moglie con la luce elettrica e la vasca da<br />
bagno? Ma se fosse stato lui, che si vantava tanto, certamente<br />
ci avrebbe fatto sapere che ci pagava i biglietti. E lo zio<br />
Morris, che era tanto carino e ci scriveva delle lettere così<br />
belle, quando rispondeva, con sua moglie Leah che a volte<br />
scriveva al posto suo e ci raccontava scenette allegre della loro<br />
vita in America, senza però aver mai fatto parola dei biglietti?<br />
Forse la zia Sophie, anche lei così gentile e sposata da<br />
poco con un barbiere di nome Sam, e che forse era abbastanza<br />
ricco? Non aveva detto una volta che le sarebbe tanto<br />
piaciuto rivederci? E lo zio Barney, il buffone di famiglia,<br />
che scriveva lettere divertentissime e una volta ci suggerì di<br />
prendere lezioni di nuoto e attraversare l’oceano Atlantico a<br />
furia di bracciate?<br />
Ci venivano in mente tutti: lo zio Joe, lo zio <strong>Harry</strong>, la zia<br />
questa, la zia quella, finché eliminammo virtualmente tutti e<br />
dieci i membri della famiglia e i loro mariti o mogli, senza<br />
trovarne uno che con certezza fosse davvero il nostro benefattore.<br />
Era un mistero totale e la lettera andava rimandata a<br />
quando l’avessimo scoperto, perciò misi via tutto nel cassetto<br />
della credenza e mia madre tornò a fare il bucato dietro la<br />
cucina.<br />
19