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CACCIATORI DI STELLE CADENTI - Edizioni Piemme

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GIN PHILLIPS<strong>CACCIATORI</strong><strong>DI</strong> <strong>STELLE</strong> <strong>CADENTI</strong>Traduzione diELEONORA CADELLI


Titolo originale: Come In and Cover MeCopyright © 2012 by Gin PhillipsThis edition published by arrangement with Riverhead Books, a memberof Penguin Group (USA) Inc. All rights reserved.Traduzione di Eleonora Cadelli / Studio Editoriale LitteraQuesto libro è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzionidell’autrice e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione.Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, èassolutamente casuale.Il verso di Canto di me stesso citato a pag. 74 è tratto da:Walt Whitman, Foglie d’erba, trad. it. di Ariodante Marianni, BUR,Milano 1993.ISBN 978-88-566-2499-1I Edizione 2012© 2012 - E<strong>DI</strong>ZIONI PIEMME Spa, Milanowww.edizpiemme.itAnno 2012-2013-2014 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10


Prologo2006Crow CreekNew MexicoRen rimase perfettamente immobile al buio, inascolto. Non era sicura di essere sola. Si era allontanatadal campo procedendo con cautela; scorgeva ancorale forme tondeggianti delle tende e il bagliore dellebraci a un centinaio di metri di distanza. Sapeva che glialtri – gli studenti universitari, Ed, l’ingegnere venutoda Santa Fe e persino i cani – stavano dormendo. Mac’erano altre cose che a volte la seguivano di nascosto.Ecco cosa vedeva: il fascio di luce della torcia elettricaritagliava un cerchio preciso di terreno roccioso.C’erano schiere di stelle, troppo brillanti. Alla sua destrae alla sua sinistra pini e ginepri si ergevano nel cieloblu scuro. A sud, le pareti del canyon formavano unamuraglia inconsistente. La luna era sparita.«C’è nessuno?» sussurrò. Si sforzò di cogliere qualcosanel silenzio. «Marco?»Fece altri due passi verso il punto che le aveva indicatola ragazza, proprio sull’orlo del precipizio. Avevail naso gelato: lo seppellì nella manica del giubbotto.9


«Marco» ripeté, incerta, attraverso il tessuto. Nonc’era bisogno di parlare a voce alta. Se lui era lì, l’avrebbesentita.Udì la risposta dietro l’orecchio destro, cantilenantecome un tempo, quando in piscina cercava di afferrarloa occhi chiusi e lui le sfuggiva dalle braccia: «Polo».«Immaginavo che potessi essere qui» disse senzavoltarsi. Lui non rispose. Si voltò di scatto, sperandodi coglierlo di sorpresa, ma era già svanito nell’oscurità.Le parve di sentirlo tamburellare una mano sullagamba, un rumore ripetitivo che la faceva sempreimpazzire, ma forse erano solo i rami degli alberi chestormivano nel vento.La vera domanda, pensò, era se lì con lei ci fosse soloScott. La ragazza era ancora nei paraggi? Ren era già sulpunto di scoppiare: il troppo caffè, la bocca secca perla trepidazione, lo sforzo di non fare rumore nel casola sua uscita si rivelasse il frutto di un’assurda fantasiaimpossibile da giustificare. Non voleva che qualche presenzasconosciuta la sorprendesse e la facesse strillarecosì forte da svegliare gli altri. Gli archeologi rispettabilinon strillano. E gli archeologi rispettabili, in genere,non vanno nemmeno a scavare nel cuore della notte.Continuò a scrutare nell’oscurità e puntò la torcia tradue rocce; la luce si rifletté sul punto che qualche oraprima aveva delimitato con tre paletti. La terra era durae fredda. Ren non aveva portato con sé i guanti. Sollevòil piccone e spaccò alcune zolle alte una decina di centimetri.Non voleva spingersi più a fondo alla cieca. Nonpoteva sapere a quale profondità giacessero i reperti ela visibilità era troppo scarsa. Un animale ululò pocodistante. Prese la cazzuola e scavò una trentina di centimetri,sentendosi in colpa per tutto il terreno che nonstava analizzando. Passò lo scopino solo per assicurarsi10


di non tralasciare nulla. Più procedeva, più si convincevadi essere una stupida a credere che lì potesse esserciqualcosa.Ma la ragazza le aveva indicato di cercare in quelpunto. Sempre che esistesse, quella ragazza.Smosse la terra, una zolla per volta. Ora era a circatrenta centimetri di profondità. Il fruscio dello scopinorivelò una, due, tre pietre, tutte più piccole della suamano. Da un lato della fossa quadrata che aveva ricavatospuntava una radice. Per ora lo scavo notturno avevaprodotto tre sassi e una radice. Ecco un’altra pietra.Scorgeva solo la superficie liscia, ancora semisepolta.Gettò da parte lo scopino e proseguì con le mani, mauna fitta di dolore le fece ritrarre di scatto un dito. Se losucchiò: sapeva di sangue e terra. Tenne gli occhi fissisulla pietra. La luce della torcia illuminava la superficienera e lucente. Ossidiana. La ripulì con l’altra mano eosservò il bordo sottile, affilato come un coltello: nonera opera della natura, era un manufatto umano.Il suo respiro accelerò. Puntò la torcia ai marginidella fossa appena scavata, questa volta con più calma,esaminando con attenzione ogni centimetro. Tolse unamanciata di terra in un angolo e scoprì i contorni dialtre pietre. Erano allineate e molto vicine. La parte superioredi un muro.Si accovacciò e posò la torcia. Sulle labbra le affioròun sorriso che pian piano le illuminò il volto. Chiusela mano a pugno e se la batté sulla gamba, in silenzio,trionfante. Sì. Sì. Sì.Quel sì le riecheggiò in testa, le fluì in corpo comelinfa e le scaldò le dita. Sotto i suoi piedi doveva esserciun’altra stanza, una stanza di cui nessuno avrebbe potutosospettare l’esistenza. E all’interno c’era qualcosache lei era destinata a trovare.11


«Sì» mormorò.Appena oltre il fascio di luce, le parve di scorgereuna forma sottile che passava veloce. Una folata di ventole portò alle narici un odore dolce di legno bruciato,come un fuoco di ginepro. La sagoma sottile dellaragazza sfiorò i margini del fascio di luce, danzandobeffarda. Era un movimento troppo allegro per essereconsiderato furtivo.Ren afferrò la torcia e cercò di illuminare la figura.Troppo tardi. Non c’era nessuna ragazza, solo un volteggiaredi foglie gialle che cadevano riflettendo la lucecome occhi di lupo. Ed era strano, perché gli unici alberinelle vicinanze erano sempreverdi.Ren tornò a occuparsi dello scavo. Avrebbe ricopertol’ossidiana e sarebbe tornata sul posto il mattino seguentedi buon’ora; poi sarebbe corsa a svegliare glialtri come se avesse scoperto tutto per caso. Nessunoavrebbe saputo la verità, eccetto suo fratello Scott. Malui non avrebbe detto niente.12


1L’abbandono di insediamenti, vallate e intere regioniè da sempre un tema di grande interesse pergli archeologi. Innumerevoli esposizioni musealipongono la medesima domanda: «Perché se neandarono?». [...] A parte gli eventi straordinari,probabilmente le migrazioni di massa sono dovutea una combinazione tra fattori che spingono le popolazioniad allontanarsi, influendo negativamentesulle loro condizioni di vita, e fattori che le attraggonoverso altri luoghi, lasciando intravedere opportunitàmigliori.Abandonment and Reorganization in the MimbresRegion of the American Southwest, di MichelleHegmon, Margaret C. Nelson e Susan M. Ruth,«American Anthropologist», marzo 1998.2009Ren lasciò Albuquerque diretta a sud. Sentiva un oggettometallico rotolare sul sedile posteriore. Probabilmenteun paletto. Forse un picchetto della tenda. Avevadimenticato di pulire gli scarponi prima di infilarli sottoil sedile del passeggero e il tappetino si stava riempiendodi pezzi di fango secco. Ma erano dettagli insignificanti,poteva tranquillamente ignorarli.Lui l’aveva contattata poche ore prima sul cellulare,e lei era stata quasi tentata di non rispondere; del resto,le chiamate di lavoro arrivavano sempre al numero delmuseo. Ren aveva afferrato il telefono e l’aveva apertosenza staccare gli occhi dallo schermo del computer: leserviva un altro paio di pinze da maniscalco del XVII secolo.Il Museo civico Valle de las Sombras vantava una13


collezione di vasellame e tessuti di tutto rispetto, ma lavera attrazione per il pubblico pagante era la ricostruzionedi un’antica fucina.Ren Taylor, rispose. Silas Cooper, dichiarò la voceal l’altro capo del filo. Il nome non le diceva niente.Spiegò che lavorava a contratto nel sud dello stato. Rensenti va in sottofondo le folate di vento. Doveva esseresul campo. Immaginò un uomo più o meno dell’età cheavrebbe avuto suo padre, gli occhi socchiusi per proteggersidalla polvere sollevata dal vento, vestito conla classica uniforme dell’archeologo: pantaloni colorcachi e sahariana a maniche lunghe, forse un berretto.Cooper disse di conoscere il suo lavoro a Crow Creek,e lei avvertì in quelle parole un entusiasmo trattenuto.“Ha scoperto qualcosa” pensò, e smise di immaginarecome fosse vestito. Chiuse il portatile e ruotò la sediaverso la finestra.Ha scoperto qualcosa. Il pensiero le frullava in testa.Un passero si staccò dal ramo davanti alla finestra e leilo guardò scomparire verso il sole.Vorrei che venisse al sito in cui stiamo lavorando,qui a Cañada Rosa, disse lui. Venga a vedere cos’abbiamotrovato. Di che si tratta? chiese lei, sperando diconoscere già la risposta. Replicò che sarebbe stata leia stabilirlo. Era convinto di aver trovato del vasellameinteressante.Ren provò una stretta di gioia allo stomaco.Erano quasi le due quando riattaccò. Calcolò cheavrebbe fatto in tempo a tornare a casa, preparare la valigiae raggiungere il sito prima che facesse buio. Presele chiavi e uscendo dall’ufficio passò accanto al responsabilee al direttore delle pubbliche relazioni. Senza distoglieregli occhi dalla porta disse, rivolta a entrambi:«Credo che abbiano trovato di nuovo la mia artista. Vi14


chiamerò lungo la strada». La porta sbatté dietro di leiprima che potesse sentire se avevano risposto qualcosa.Girò per casa come un turbine, afferrando alla rinfusaabiti e shampoo, stivali e calzini e il beauty case,sempre pronto per ogni evenienza. Nel giro di dieciminuti era di nuovo in macchina. Adorava la frenesiadei preparativi, chiudere a chiave la porta, mettere inmoto il fuoristrada e uscire a marcia indietro dal vialetto.L’idea di partire, di dirigersi verso spazi aperti, larendeva euforica.Le prime due ore sulla I-25 trascorsero piatte e monotone;riuscì a rilassarsi, anche se aveva bevuto uncaffè alla stazione di servizio. Si sforzò di tenere a frenol’entusiasmo e di non illudersi troppo. Non volevarimanere delusa ancora una volta.Osservò le montagne. Sembravano spine dorsali distegosauri, alligatori, iguane. C’era una collina vasta epiatta come il guscio di un’ostrica. Si guardò le manistrette sul volante. La cicatrice sul polso era dovuta auna scivolata lungo un pendio fangoso nei dintorni diTempe. Era andata a sbattere contro una lastra di ardesiaaffilata. Se lo ricordava bene. Il dito medio aveva unsegno sottile sulla nocca: si era tagliata con i fogli di unraccoglitore.Non appena lasciò l’autostrada, l’asfalto si fece polverosoe sconnesso. L’uscita era indicata da una frecciasu un cartello verde ammaccato: Montpelier a destra.Sembrava piuttosto chiaro. Non le restò che svoltaree sobbalzare per diverse miglia. Lungo la strada incrociòpiccole cittadine deserte o sul punto di diventarlo.Dopo l’ennesima curva si trovò all’imbocco del canyon,tra scure pareti di roccia che si innalzavano intornoa lei. L’auto sussultò violentemente. Procedevaa meno di venti chilometri orari, ma in certi punti la15


strada era stata cancellata dalle inondazioni improvvise.Lanciò qualche occhiata veloce alle rocce frastagliatedelle gole, cercando istintivamente tracce di insediamentiantichi. Su una parete piatta individuò una piccola incisionerupestre, cosa non comune nella zona. Rallentò eabbassò il finestrino a metà. Da quello che poté vedere,si trattava di un motivo stilizzato, un disegno astrattocomposto da linee rette e curve. Affascinante. Nei pressidi quel canyon avevano vissuto gli Apache, ma la loroarte rupestre si caratterizzava per l’uso dell’ocra rossa eper la scelta di zone riparate. Non avrebbero mai utilizzatopareti di roccia così esposte. Le vennero in mentegli indios Pueblo, del XII o XIII secolo.Proseguì. Il canyon si allargava e la terra tornava avivere, punteggiata da salici e pioppi neri, cactus e fichid’india in fiore lungo il corso di un ruscello. Silas Cooperle aveva detto che l’acqua sgorgava da una sorgentecalda all’imboccatura del canyon. Era stata un’estatelunga e secca e ora, in agosto, il New Mexico avevaassunto tutte le sfumature del bruno. Lì, invece, agliocchi di Ren si offriva una tavolozza del tutto diversa: ilviola brillante e il rosa acceso dei fiori di cactus, il verdeintenso e vigoroso delle macchie di pioppi. Il ruscelloscorreva come un serpente avvinghiato alla strada eRen perse il conto di quante volte l’aveva attraversato.I finestrini erano coperti da schizzi d’acqua.Tutto quel verde la disorientava.Stando alle indicazioni di Cooper, la baracca era ilprimo edificio che si incontrava dopo aver oltrepassatoil cancello con la scritta MONTPELIER BOX RANCH. Superòil cancello di ferro aperto e la individuò quasi subito:un piccolo rettangolo addossato a una ripida pareterocciosa. Tetto in lamiera, veranda di legno. La catena16


del Black Range incombeva a ovest. A est, i monti SanMateo.Andò sul retro dell’edificio, passò accanto a una jeepparcheggiata proprio davanti al dirupo e si fermò dietrouna Dodge nera, all’ombra di un noce selvatico. Era ilfuoristrada di Ed Ripley, ne era certa, e vederlo alleviòleggermente la tensione che sentiva sulle spalle. Eranopassati almeno due mesi dall’ultima volta che avevaincontrato Ed. Il fuoristrada era lo stesso di quindicianni prima, quando l’aveva conosciuto durante il suoprimo scavo. Lei era confusa in una massa di studentiuniversitari con gli immancabili vestiti color cachi e luiera un uomo elegante dai capelli brizzolati. Indossavaogni giorno una camicia di lino bianco immacolata, immunealle macchie di sporco e sudore. Sembrava quasiun personaggio da romanzo, pronto a partire alla ricercadella tomba di Tutankhamon. Solo che tecnicamentenon era un archeologo: si era trasferito nel New Mexicoe si era dato all’archeologia dopo essere andato in pensione,al termine di una non meglio specificata carrieraa Washington. Girava voce che avesse lavorato per l’FBIo la CIA.Ren saltò giù dal fuoristrada e sentì all’istante la polveree la sabbia infilarlesi nei sandali. Dalla porta schermatada una zanzariera arrivavano delle voci. Un cane amacchie bianche e nere, per metà dalmata e per metà diqualche razza da caccia, sbucò da sotto uno dei fuoristradae trotterellò verso di lei. Cominciò ad annusarlela mano mentre qualcuno apriva la zanzariera.«Ti presento Zorro» disse Ed uscendo nel sole. I suoicapelli erano diventati completamente bianchi. Li portavamolto corti e indossava abiti stirati in modo impeccabile.Accanto a lui c’era un uomo giovane, poco piùche ventenne, troppo giovane per essere Silas Cooper.17


Ed tese le braccia. Ren fece un ampio sorriso e glicorse incontro, abbracciandolo forte, a lungo.«Che gioia rivederti, Ed!» Quella barba ruvida controla guancia era rassicurante.«Aspettavamo con ansia il tuo arrivo» le rispose luicon la sua voce da mezzobusto televisivo. Tutte le frasidi Ed sembravano uscire dal notiziario della sera.«Questo è Paul, il nipote del proprietario del ranch.Ci sta dando una mano. Da grande vuol fare l’archeologo.»Il ragazzo le tese la mano. A ben guardare poteva avereanche meno di vent’anni, pensò Ren. Aveva le guancee il naso arrossati e i capelli schiariti dal sole, la pellemolto abbronzata.«Piacere di conoscerti» le disse.La zanzariera si aprì di nuovo. Il cane, raggomitolatoai piedi di Ren, saltò su e corse incontro all’uomo cheveniva verso di loro. Indossava una t-shirt verde fuoridai pantaloni e aveva i capelli scuri e bagnati. Era diversicentimetri più alto di lei e doveva avere qualcheanno in più.«Ren?»Lei annuì e gli strinse la mano. Riconobbe subito altatto i calli del mestiere. «E tu devi essere Silas. Moltopiacere.»«Scusa se ci ho messo un po’. Stavo facendo la doccia.»Si chinò e accarezzò la testa al cane. «Hai avutoproblemi con la strada?»«No. Le indicazioni erano perfette.»«Mi fa piacere.» Ren notò che non si tagliava i capellida diverso tempo e che aveva un’ombra di barba.Aveva un ginocchio sbucciato, con la crosta indurita,polpacci muscolosi e cosce da corridore. «Sono contentoche tu sia riuscita a venire nonostante un preavvi-18


so così breve. Braxton, il proprietario del ranch, volevaessere qui per accoglierti, ma non è ancora tornato. Hacomprato la tenuta un paio d’anni fa, quando si è resoconto di cosa conteneva.»«E cosa contiene, di preciso?» chiese Ren.«Non pensare che te lo dica così su due piedi, senzanemmeno un rullo di tamburi. Devo fare un annuncioin piena regola. Zorro, stupida bestia.» Il cane gli si eraaccoccolato su un piede e Silas si chinò a grattargli leorecchie. «Ma più tardi ti mostrerò una cosa che ti faràvenire la pelle d’oca.»Mentre era concentrato sul cane, Ren gli osservò attentamentela fronte e i capelli lisci e spettinati. Lui alzògli occhi e incrociò di nuovo il suo sguardo. Un rapidosorriso.«Professionalmente parlando» precisò. «Stavamo giustoper andare a mangiare un boccone. Ti spiegheròtutto a cena. Sono contento che tu sia arrivata primadel tramonto.»«È troppo tardi per vedere il sito?»«Sì. Mi dispiace, ma c’è il rischio di rimanere bloccatinell’oscurità, e non è consigliabile. Ti ci porteròdomattina presto.» Fece un passo verso il Land Cruiserdi Ren. «Ti do una mano a scaricare i bagagli?»Lei rispose che non ce n’era bisogno e si diresserotutti verso la baracca, con il cane che scodinzolava ailoro piedi. Silas le tenne aperta la porta sul retro mentreentrava seguita da Ed e Paul. Le finestre erano ampie,l’interno luminoso. I ventilatori al soffitto ronzavano suun soggiorno spazioso, con due divani logori e piastrellescreziate di bianco. Ren andò in cucina. I banconid’acciaio erano ingombri di filoni di pane e sacchetti dicibo confezionato.«Durante l’estate abbiamo ospitato i volontari del col-19


lege» disse Silas, prendendo una tazza di plastica rossadal bancone. C’era scritto SC con un pennarello indelebilenero. «L’ultimo gruppo è partito una settimana fa e daallora viviamo di avanzi.»Aprì una delle due porte sulla parete più vicina.«Qui c’è un bagno, tra le stanze da letto. Questa è latua, io dormo nell’altra.»Ren spostò lo sguardo da Paul a Ed. «Solo due stanze?Ho buttato fuori qualcuno?»«No» rispose Ed. «Ho una tenda con una branda,mi piace la vista che si gode là fuori. Io e Paul abbiamotrascorso tutta l’estate all’aperto.»«In realtà a me non hanno nemmeno offerto un letto»borbottò il ragazzo.«Stai scherzando?» ribatté Silas. «Il letto te lo deviguadagnare.»Ren si rivolse a Paul. «Non puoi dormire da tuo nonno?Non deve abitare lontano.»«In fondo alla strada» confermò lui. «Ma sai comefunziona. Il letto me lo devo guadagnare.»«Siamo i suoi idoli» fece Ed compiaciuto.Ren notò una veranda chiusa occupata da una fila ditavoli. Silas seguì il suo sguardo. «È il nostro laboratorio»spiegò.Lei osservò attentamente i borsoni scuri ammucchiatinegli angoli e le scatole di cartone impilate. «È lìdentro?» chiese.«Te l’avevo detto che non sarebbe riuscita ad aspettare»commentò Ed.Silas guardò verso la veranda, poi si rivolse di nuovoa Ren. «Non vuoi almeno posare i bagagli? Mangiareun hot dog?»«Pensa di essere divertente» disse Ed.«Fammi vedere» replicò lei.20


Qualcosa percorse lo sguardo di Silas. Ren vi riconobbelo stesso entusiasmo che aveva percepito al telefono.Si annidava lì, nascosto sotto le presentazioni e iconvenevoli.«Fammi vedere» ripeté.Silas si diresse verso la veranda più in fretta di quantoRen si aspettasse. Lei lasciò cadere a terra il borsonee lo seguì. Nel laboratorio, la brezza soffiava attraversole finestre aperte. Silas si diresse verso una scatoladi cartone appoggiata sopra uno schedario. Sollevò ilcoperchio e tirò fuori un frammento convesso di unaciotola in ceramica. Di colore grigiastro, aveva unaforma vagamente trapezoidale e comprendeva buonaparte del bordo. Nel punto più ampio doveva esserelargo circa venti centimetri. Sotto il bordo correvanotre spesse linee scure e nello spazio bianco convergevanodue figure. Una di esse, riempita da tratti diagonali,poteva essere un’ala. Ma fu un altro triangolo ricurvoa togliere il fiato a Ren. Per un attimo riuscì a pensaresolo: Sì sì sì sì.Quando recuperò l’uso della parola, indicòla figura. «È un becco. Parte di una testa di pappagalloe un becco.»«Già.»«È la sua mano.»«Lo penso anch’io. Siamo riusciti a datare un’altrastanza del sito e il periodo corrisponde.»Restituì il frammento. «Quando ti sei reso conto cheera un becco, hai capito di dover chiamare me?» chiese.«Hai riconosciuto lo stile?»«Ti ho detto che conosco bene il tuo lavoro.» Silasrimise la scatola sopra lo schedario.Per circa un anno Ren aveva tenuto conferenze ovunque,tanto che alla fine non sapeva più davanti a qualemicrofono stava parlando e il pubblico si confondeva in21


un’unica massa indistinta. In realtà le vere protagonisteerano le ciotole che aveva scoperto, ma, dal momentoche non potevano parlare, il loro fascino era ricaduto sudi lei. Lo scavo di Crow Creek era finito su tutti i quotidiani,non solo sulle riviste specializzate. Tre ciotoleMimbres del XII secolo, senza dubbio il più importanteritrovamento di ceramiche effettuato nel Sud-ovest negliultimi cinquant’anni. E lei era stata in grado di sostenerein modo convincente che quelle ciotole erano operadi un’unica artista, una figura misteriosa capace di aggiungereun tocco personale a una questione scientifica.La prestigiosa rivista «Smithsonian» le aveva dedicato unlungo reportage; «Time» e il «National Geographic» avevanopubblicato un articolo intero sull’argomento. Rensulle prime ne fu lusingata, quindi sopraffatta e, quandotutto fu finito, tirò un sospiro di sollievo. Le eccessive attenzioninon facevano che distrarla dall’artista.La sua artista. Era stata lì, in quel canyon. Silas insistetteper andare a preparare la cena prima che Renpotesse chiedergli altro e lei, per quanto fosse impazientedi sapere, capì che le serviva qualche minuto perriflettere da sola. Un unico frammento. Non dovevaavere troppe aspettative. Doveva concentrarsi, porre ledomande giuste e soppesare le risposte. E poi il giornodopo avrebbe potuto sporcarsi le mani e ascoltare ciòche la terra aveva da dirle.Disfece i bagagli con metodo: sistemò le camicie,i calzini e la biancheria intima nella cassettiera. Sentìpassi all’esterno, passi pesanti, e rami che frusciavano.Si spazzolò finché i capelli non furono morbidi e lisci ele mani smisero di tremarle.Quando uscì sulla veranda, Ed e Paul stavano appuntendoalcuni rami acerbi. Silas si trovava a qualchemetro di distanza e stava aggiungendo un ceppo al pic-22


colo fuoco. Nella veranda e sul cortile in terra battutac’erano poltrone di legno e sedie pieghevoli dai coloriaccesi. Ed distolse per un attimo gli occhi dal ragazzoper rivolgerle un sorriso.«Era alta così, davvero» dichiarò Paul, con un piedeappoggiato alla veranda. «Hai mai visto una lepre cosìgrossa?»«Ne ho viste alcune alte quanto un uomo. Ti guardavanodritto negli occhi.» Ed aveva un volto serio eposato da giornalista televisivo, in perfetto accordo conla sua voce. «Ci sono casi documentati di scheletri dilepre alti fino a un metro e venti.»«Se l’è inventato» intervenne Ren. «Si capisce quandosta mentendo perché piega leggermente l’angolo sinistrodella bocca.»«Casi documentati» ripeté Ed. Fece scattare il coltellinoe un lungo truciolo di legno cadde a terra.«La micidiale lepre cornuta» scherzò Silas avvicinandosicon una montagna di hot dog. Li aveva tagliatisu un lato, un liquido chiaro gocciolava sul terreno.«Gli spiedi sono pronti?»«Quasi» disse Ed.«Sapete come si chiama una lepre con il clergyman?»saltò su Paul.Silenzio.«Le-prete.»«L’hai inventata tu, per caso?» chiese Ed. Passò unospiedo a Ren e uno a Silas.«Sì» annuì Paul orgoglioso. «Niente male, vero? Neho un sacco. Ad esempio, sapete come si sente una lepredopo che il suo compagno l’ha lasciata?»«Lepressa» sogghignò Silas. «Sei decisamente prontoper il dottorato, ragazzo. Ora, prendete un hot dogciascuno e cucinatevelo. Il pane e le salse sono laggiù.23


Abbiamo anche vere salsicce italiane. E würstel. Se voleteil dessert, il congelatore è pieno di ghiaccioli.»«Tutto molto fallico» commentò Ren.Silas indicò i rami appuntiti con un cenno. «Prenditiuno spiedo.»Cucinarono gli hot dog in piedi, poi disposero le sediepieghevoli in un ampio cerchio attorno al fuoco.Appoggiarono i bicchieri nei punti in cui il terreno erapiano e tennero i piatti in equilibrio sulle gambe. Silassi sfilò le scarpe e ci appoggiò sopra i talloni, e Ren osservòla forma dei suoi piedi.Poi rivolse lo sguardo verso la linea verde scuro deipioppi lungo il ruscello, che si stagliavano contro il cielotinto di rosa dal sole.«Me n’è venuta una» annunciò Silas. «Come si chiamauna lepre che fa razzia nel deserto?»Ren masticò. La pelle abbrustolita crepitava delicatamentesotto i denti.«Lepredone» scandì dopo un attimo. Deglutì. «E dovevengono ricoverate le lepri con gravi malattie dellapelle?»«Al leprosario» rispose Silas.«Ehi, ragazzi, siete grandi» esclamò Paul.Il vento continuava a cambiare direzione, soffiandoil fumo sui loro visi. Ren sentì gli occhi lacrimare, mac’era qualcosa di rassicurante in quell’odore e nellasua consistenza. Mangiarono in fretta, leccandosi ledita.«Ora raccontami tutto» disse Ren quando l’urgenzadi sapere prevalse sul piacere del fuoco e del silenzio.«Di questo posto. Del punto in cui hai trovato il frammento.»Di come hai fatto a trovarne uno nuovo, mentreio non ci sono riuscita, voleva dire. Aveva sempre datoper scontato che se la sua artista si fosse rivelata un’al-24


tra volta non l’avrebbe fatto con uno sconosciuto. Sisentiva in un certo senso rifiutata, anche se l’ebbrezzadella scoperta aveva fatto passare in secondo pianoquella sensazione. I morti sono molto volubili.«È un ottimo narratore» disse Ed entusiasta.«Oh, non c’è molto da raccontare.» Silas si strinsenelle spalle. «Chaco sorgeva circa trecento chilometria nord di Cañada Rosa. E la valle del Mimbres è a unasettantina di chilometri a est.»Ren si protese in avanti. Intorno all’anno Mille la cittàdi Chaco era stata il centro del mondo nell’odiernoNew Mexico settentrionale, e anche oltre. Fu la primacittà edificata in muratura, fatta per durare. Le case, lebotteghe e le aree pubbliche erano strutture davveroimpressionanti. A governare era una ristretta oligarchiadi benestanti. Era un importante luogo di potere.I Mimbres, stanziati a sud, erano invece contadinipacifici, privi di classi sociali. Non possedevano edificiimponenti come quelli di Chaco: per costruire utilizzavanofango e ciottoli di fiume, in un intero insediamentosi fatica a trovare anche un solo angolo retto. Ma senon erano rinomati per l’architettura, per il vasellameera tutta un’altra faccenda. Era eccezionale, unico. E digrande valore. Inoltre, aveva la particolarità di veniresepolto insieme ai morti, per i quali non era certo unvantaggio. Ren aveva sulla scrivania una foto ritagliatada un giornale locale che mostrava un saccheggiatorecircondato da cumuli di terreno con un bulldozer sullosfondo. L’uomo stringeva in una mano una ciotola Mimbrese con l’altra si gettava un cranio dietro le spalle.Il ragazzo stappò un’altra birra. Ren si chiese se avessel’età per bere.«Quindi si diffusero due civiltà diverse,» continuò Silas«una meridionale e una settentrionale. Cañada Rosa25


sorge nel punto di contatto tra i due mondi. Ci troviamoalla frontiera. Riteniamo di aver individuato un’operadella tua artista nel sito di Delgado, che è stato occupatoa fasi alterne per circa sei secoli. Ci sono quattrocentottantastanze laggiù, sparse su oltre sessanta acri. Solouna piccola parte è stata violata.»«Avete un enorme sito Mimbres?» domandò Ren,raddrizzandosi sulla sedia. «Intatto?»«È il bello di questo posto» annuì lui. «È un luogodimenticato dal tempo. O che il tempo non ha volutoprendersi il disturbo di trovare. Come avrai notato, èdifficile da raggiungere. Ed è ancora più difficile peri bulldozer. Il canyon è stato risparmiato dalla distruzionegrazie anche alla sua inaccessibilità. E si trovaai margini dell’area nota per la cultura Mimbres. Saccheggiatorie sciacalli non hanno pensato di venire adare un’occhiata qui.Era una zona di frontiera. Lontana dal centro. E l’interrogativoa cui sto cercando di dare risposta è: chefine hanno fatto gli abitanti quando hanno abbandonatola città? Hanno creato una nuova civiltà o sonorimasti aggrappati alle vecchie abitudini?»Silas lasciò cadere le braccia ai lati della sedia, rilassate,e guardò Ren. «Ora tocca a te spiegarmi tutto suCrow Creek.»Ren lanciò un’occhiata a Ed. «Te ne ha già parlatoEd, giusto?»«Mi ha accennato qualcosa. E ho assistito alla tuaconferenza ad Albuquerque l’autunno scorso. Volevofarti una domanda ma non mi hai dato la parola.»«Qual era?»«Raccontami la storia, poi te lo dirò.»26

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