SEMESTRALE DI INFORMAZIONE STORICA, CULTURALE E ...
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SALTERNUM<br />
<strong>SEMESTRALE</strong> <strong>DI</strong> <strong>INFORMAZIONE</strong> <strong>STORICA</strong>, <strong>CULTURALE</strong> E ARCHEOLOGICA<br />
A CURA DEL GRUPPO ARCHEOLOGICO SALERNITANO
REG. TRIB. <strong>DI</strong> SALERNO<br />
N. 998 DEL 31/10/1997<br />
ANNO XIII - NUMERO 22-23<br />
GENNAIO/<strong>DI</strong>CEMBRE 2009
Cento anni fa, il 9 maggio 1909, con<br />
Regio Decreto n. 373 venne fondata la<br />
Scuola Archeologica Italiana di Atene<br />
(ora chiamata, secondo la discutibile moda delle<br />
sigle, SAIA); il decreto venne pubblicato sulla<br />
Gazzetta Ufficiale del 30 giugno dello stesso<br />
anno. E la Scuola venne inaugurata l’anno<br />
seguente, il 7 aprile 1910. Si era a qualche<br />
decennio dall’Unità d’Italia e dalla nascita dello<br />
Stato italiano; fino a quel momento, nonostante<br />
l’attiva presenza di alcuni archeologi di valore,<br />
la cultura antichistica italiana era dominata dagli<br />
studiosi tedeschi, di stampo prevalentemente<br />
positivista.<br />
Per la prima volta un’Istituzione culturale italiana<br />
si affiancava a storiche Istituzioni dei maggiori<br />
Paesi, europei e non, che avevano nella<br />
Grecia classica il loro punto di riferimento ed il<br />
loro centro di ricerca.<br />
Già precedentemente un grande archeologo<br />
italiano, il trentino Halbherr, aveva lavorato<br />
nelle isole greche. Ma il primo direttore della<br />
Scuola fu Luigi Pernier, che rimase ad Atene<br />
diversi decenni: i suoi interessi di studioso si<br />
concentrarono a Creta e Lemno; oltre a Rodi,<br />
che in quegli anni era soggetta all’occupazione<br />
italiana. Per un breve tempo fu poi direttore lo<br />
storico dell’arte antica Alessandro Della Seta.<br />
Nel marzo 1948, dopo le vicissitudini del<br />
conflitto mondiale, la Scuola venne ufficialmente<br />
riaperta, sotto la direzione del triestino Doro<br />
Levi, che, prima delle leggi razziali di cui fu vittima,<br />
aveva già lavorato a lungo in Grecia,<br />
GABRIELLA d’HENRY<br />
E<strong>DI</strong>TORIALE<br />
- 3 -<br />
soprattutto a Creta (si ricordano in proposito gli<br />
scavi di Festòs e di Aghia Triada). Ma uno dei<br />
grandi meriti di Doro Levi fu quello di estendere<br />
gli interessi degli studiosi italiani verso la<br />
Turchia, la Siria, l’Albania, l’Egitto e Cipro, oltre<br />
alla Libia che era già stata interessata da missioni<br />
di scavo italiane.<br />
Dopo la lunga esperienza di Levi, che si<br />
interruppe nel 1975, furono direttori della<br />
Scuola d’Atene Antonino Di Vita ed il nostro<br />
quasi-concittadino Emanuele Greco, che ha dato<br />
un nuovo impulso a scavi e ricerche in terra<br />
greca, coinvolgendo nella sua organizzazione<br />
diverse università italiane.<br />
Qualche anno fa la Scuola corse il pericolo di<br />
chiusura, essendo entrata, erroneamente ed<br />
incredibilmente, nell’elenco dei cosiddetti “Enti<br />
inutili”: per fortuna si accorsero in tempo dell’errore<br />
e la cosa non ebbe seguito; ora combatte,<br />
come tutte le istituzioni culturali, con il problema<br />
dei fondi, ed ha dovuto, a malincuore, ridurre<br />
il suo personale.<br />
Nell’occasione del Centenario la Scuola ha<br />
pubblicato un simpatico ‘amarcord’, nel quale<br />
alcuni ex allievi della Scuola, ora docenti universitari<br />
o funzionari del Ministero per i Beni<br />
Culturali, parlano della loro prima esperienza in<br />
Grecia, con nostalgia e tenerezza; e tutti, senza<br />
eccezione, legano la loro formazione culturale<br />
all’esperienza ateniese.<br />
Ritengo che sia necessario riflettere su tutto<br />
questo, e non scordarsi mai che l’Italia è fatta<br />
anche di queste eccellenze.<br />
Gabriella d’Henry
GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
Le popolazioni indigene dell’entroterra<br />
Nell’incontro di oggi scenderemo di<br />
molto nel tempo rispetto alle cose di<br />
cui abbiamo discusso insieme l’ultima<br />
volta, in cui - se vi ricordate - eravamo rimasti,<br />
a seconda delle cronologie, tra i 3000 e i 2000<br />
a.C., dunque in un tempo molto remoto. Adesso<br />
saltiamo tutto un lungo periodo, che è quello<br />
dell’età del Bronzo, e ci spostiamo invece alle<br />
soglie dell’epoca storica, in quella che gli<br />
archeologi chiamano tradizionalmente prima Età<br />
del Ferro: siamo quindi, in termini di cronologia<br />
assoluta - per le cose più antiche che vedremo -<br />
già nel corso del IX secolo a.C.<br />
Faremo poi una veloce carrellata di quattrocinque<br />
secoli per cercare di vedere lo sviluppo di<br />
questa cultura indigena detta di ‘Oliveto-Cairano’<br />
nelle tappe più significative dei suoi mutamenti e<br />
per capire appunto come si evolve questa cultura<br />
indigena di fronte alle sollecitazioni della storia e<br />
ai suoi stessi sviluppi.<br />
La prima Età del Ferro è un momento essenziale<br />
per l’assetto più generale della penisola italiana.<br />
Sono trascorsi gli anni cruciali intorno al 1000 a.C.,<br />
che sono quelli durante i quali si verificano tutta<br />
una serie di fenomeni di cui non parlerò in questa<br />
sede, e che soprattutto si concludono con il<br />
formarsi di vere e proprie unità nazionali, quelle<br />
che, praticamente, ci hanno accompagnato fino<br />
quasi ai nostri giorni. Sto parlando delle unità<br />
nazionali in senso regionalistico, per cui già negli<br />
assetti delle popolazioni protostoriche che vivevano<br />
in quel periodo si vedeva una partizione<br />
dell’Italia che corrisponde grosso modo a quella<br />
che sarà poi delle regiones augustee - naturalmente<br />
con qualche piccola variante - e, tutto sommato,<br />
anche alla nostra divisione regionale odierna.<br />
Fa eccezione proprio la Campania, i cui confini<br />
- 5 -<br />
Bisaccia, 12.03.1997<br />
odierni, come sapete, sono poco più che<br />
un’espressione geografica, mentre al suo interno<br />
essa è un crogiolo di culture campane e di altre<br />
culture - come quelle di cui parleremo - che guardano<br />
a volte più verso il versante pugliese o verso<br />
il versante lucano.<br />
La Campania nell’Età del Ferro è percorsa<br />
essenzialmente da due grandi filoni culturali:<br />
quello degli incineratori villanoviani, che sono in<br />
pratica i Protoetruschi, e poi gli indigeni cosiddetti<br />
della ‘Cultura delle tombe a fossa’. E’ una distinzione<br />
che, soprattutto nella definizione, rivela già<br />
un’opposizione del rituale funerario tra popolazioni<br />
che incineravano, e cioè bruciavano i propri<br />
morti e li deponevano in un’urna costituita generalmente<br />
da un vaso o da una forma fittile di<br />
capannna, e popolazioni che invece, come facciamo<br />
noi, inumavano in semplici fosse terragne i<br />
resti dei propri antenati. I centri più importanti del<br />
gruppo villanoviano sono, a Nord, Capua e, nelle<br />
nostre zone, Pontecaganano; vi sono poi delle<br />
piccole appendici a Capodifiume, già in territorio<br />
pestano, e l’ultimo avamposto di Sala Consilina,<br />
nel Vallo di Diano, che probabilmente nell’Età del<br />
Ferro è una sorta di enclave degli Etruschi di<br />
Pontecagnano.<br />
Sala Consilina poi, per la sua stessa vocazione<br />
a metà tra Campania, Lucania e area enotria, deciderà<br />
molto presto, già nelle fasi finali dell’Età del<br />
Ferro, per la vocazione enotria e se ne andrà nel<br />
corso del suo sviluppo in tutt’altra direzione<br />
rispetto a Pontecagnano e a Capua.<br />
La ‘Cultura delle tombe a fossa’ si divide a sua<br />
volta in due sotto-filoni, uno costiero, detto di<br />
Cuma-Torre Galli perché raggiunge anche le<br />
coste calabresi, che ha i suoi centri nelle zone<br />
vicine a noi, come ad esempio S.Valentino Torio,
S. Marzano e numerosi altri centri. Vi è poi, derivata<br />
probabilmente da questa dopo l’impatto con<br />
i Greci, una cultura dell’interno che se na va però<br />
verso Caudium-Montesarchio passando per<br />
Avella, e che corrisponde a una sorta di ristrutturazione<br />
del mondo campano in un momento successivo<br />
alla destrutturazione avvenuta per<br />
l’incontro con i Greci che, almeno per alcuni indigeni<br />
e in particolare per quelli di Cuma, dovette<br />
essere particolarmente violento.<br />
Ma il secondo sotto-filone, quello che a noi<br />
interessa, è invece rappresentato dal gruppo detto<br />
di Oliveto-Cairano, che ha i suoi centri principali<br />
nell’alta valle del Sele a Oliveto Citra, probabilmente<br />
a Montecorvino Rovella e a S. Maria a Vico<br />
- dove sono attualmente in corso alcuni scavi -, e<br />
lungo il versante ofantino, appena superato il<br />
varco appenninico e la Sella di Conza, a Cairano,<br />
Calitri, Bisaccia, Conza della Campania e in tutta<br />
un’altra serie di centri, tra i quali i più esplorati<br />
sono quelli alto-irpini di Cairano e di Bisaccia.<br />
Si tratta probabilmente, da quelli che sono i<br />
dati archeologici, di una popolazione venuta un<br />
giorno dall’altra parte del mare, dall’altra sponda<br />
della costa adriatica e cioè dall’area cosiddetta illirica.<br />
I confronti più stretti si hanno ad esempio<br />
con materiali dalla Macedonia. Probabilmente<br />
attraversarono il mare, risalirono il corso<br />
dell’Ofanto, arrivarono nei dintorni del varco<br />
appenninico e si collocarono un po’ su tutte le<br />
alture strategicamente importanti a dominare il<br />
corso dell’Ofanto e del Sele. La via di comunicazione<br />
naturale Ofanto-Sele, attraverso la Sella di<br />
Conza e il varco appenninico, è nell’antichità una<br />
delle vie più importanti proprio per creare un passaggio,<br />
senza andare per mare, tra la costa tirrenica<br />
e quella adriatica ed è quindi una via di fondamentale<br />
importanza strategica, il cui controllo -<br />
come vedremo - era ricco di conseguenze.<br />
Le popolazioni di Oliveto-Cairano non raggiungono<br />
mai un livello urbano, vivono sempre<br />
sparse in villaggi - ma in villaggi uniti da un rapporto<br />
di solidarietà -, creando un sistema che permetteva<br />
di controllare tutto il territorio circostante.<br />
Come si presenta questa cultura al momento<br />
della sua comparsa nelle nostre zone? L’evidenza<br />
che abbiamo è ancora una volta soprattutto funeraria:<br />
non abbiamo gli abitati nemmeno per<br />
SALTERNUM<br />
- 6 -<br />
l’epoca più antica, che è la prima Età del Ferro. Le<br />
tombe sono - come dicevamo - tombe a fossa terragna<br />
che quasi sempre hanno una copertura in<br />
pietre e ciottoli di fiume. Tolta la copertura, nelle<br />
tombe appaiono i morti, con lo scheletro deposto<br />
supino nella fossa e, accanto a questo, degli<br />
oggetti che lo accompagnavano come corredo<br />
personale.<br />
Proprio dall’esame di ciò che compare in queste<br />
tombe cercheremo ora di ricavare dei dati per<br />
quello che riguarda l’assetto di queste comunità.<br />
Nella prima Età del Ferro i corredi sono generalmente<br />
abbastanza poveri e non particolarmente<br />
esuberanti; rarissimi sono gli oggetti di ornamento:<br />
si trovano infatti solo ornamenti funzionali,<br />
come la spilla che serviva a chiudere il vestito<br />
sul petto. Le donne, oltre alla spilla, raramente<br />
hanno qualche anellino o qualche bottoncino di<br />
bronzo, ma si tratta nel complesso di corredi<br />
molto sobrî. C’è poi il corredo ceramico, che<br />
generalmente è costituito dalla grande brocca<br />
biconica, all’interno della quale spesso c’è un piccolo<br />
attingitoio - una tazza o un’anforetta -, mentre,<br />
nei corredi più esuberanti, a questi due vasi si<br />
aggiunge una tazza più grande che noi chiamiamo<br />
ciotola-attingitoio, perché rappresenta una via<br />
intermedia tra una forma aperta e una forma chiusa.<br />
Il servizio ceramico era costantemente deposto<br />
ai piedi del defunto sia nelle tombe maschili sia<br />
nelle tombe femminili e il dato interessante, che a<br />
volte non si ritrova in altre popolazioni indigene<br />
contemporanee, è che si tratta sempre dello stesso<br />
servizio sia per l’uomo che per la donna.<br />
L’elemento che cambia, però, e che distingue i<br />
due sessi già a livello dell’esame degli oggetti nel<br />
momento della deposizione finale, è invece rappresentato<br />
dagli oggetti di ornamento, perché gli<br />
uomini hanno sempre spille del tipo ad arco serpeggiante,<br />
mentre le donne hanno la caratteristica<br />
fibula ‘ad occhiali’ (o a doppia spirale), che è uno<br />
degli elementi di tradizione adriatica che rimanda<br />
all’area illirica e che non compare a Pontecagnano<br />
o nella Valle del Sarno.<br />
Se il servizio ceramico ai piedi del defunto è lo<br />
stesso per uomini e per donne, l’uomo però è a<br />
volte connotato con oggetti tipicamente maschili<br />
come le armi - la punta di lancia ad esempio - o<br />
con strumenti a lui funzionali, come il rasoio. La
donna invece, quando vuole connotare il proprio<br />
sesso, presenta la fusaiola, che è un oggetto connesso<br />
con l’arte del filare e, quindi, con attività<br />
tipicamente femminili.<br />
Questo quadro già ci offre dati interessanti,<br />
perché bisogna pensare che una tomba a fossa,<br />
anche una tomba semplice come queste, deve<br />
essere interpretata quasi alla stregua di una<br />
fonte scritta o di un messaggio, ossia come un<br />
insieme di segni che gli antichi hanno lasciato<br />
non casualmente, ma volutamente, e che noi ora<br />
dobbiamo cercare di interpretare. Non è casuale,<br />
ad esempio, la forma stessa di una tomba, o<br />
se in una tomba è presente un oggetto piuttosto<br />
che un altro, o, ancora, se un particolare oggetto<br />
si trova in un punto preciso della tomba piuttosto<br />
che in un altro. Tutto questo insieme di<br />
segni costituisce un sistema dietro il quale c’è<br />
un’elaborazione e una volontà cosciente ed è<br />
proprio questa che noi dobbiamo cercare di leggere<br />
e interpretare, senza lavorare troppo con la<br />
fantasia.<br />
Che immagine ci restituisce, dunque, una<br />
necropoli fatta di tombe di questo tipo? Ci restituisce<br />
l’immagine di una comunità non particolarmente<br />
ricca, che non aveva quindi un grande<br />
surplus del quale poteva privarsi per donarlo, ad<br />
esempio, come corredo funebre ai morti, e una<br />
società tutto sommato abbastanza egualitaria. In<br />
realtà, come l’antropologia moderna ci insegna,<br />
una società veramente egualitaria probabilmente<br />
non è esistita mai; diciamo però che era egualitaria<br />
dal punto di vista delle nostre categorie<br />
moderne, le categorie economiche attraverso cui<br />
noi oggi misuriamo uguaglianze e disuguaglianze.<br />
Probabilmente, poi, va considerato che ci<br />
sono segni che non sono rimasti all’archeologo<br />
- si ricordi che spesso non si trovano neanche<br />
tutti gli oggetti della cultura materiale che eventualmente<br />
erano stati deposti in una tomba -,<br />
oppure segni, non della cultura materiale, che<br />
nella tomba a livello funerario non venivano<br />
indicati e che segnalavano però, all’interno di<br />
quella comunità, una differenza tra individui (si<br />
pensi ad esempio all’ipotesi che i cadaveri avessero<br />
tatuaggi, che noi non abbiamo più ma che<br />
magari rappresentavano un elemento di prestigio<br />
all’interno della comunità).<br />
GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
- 7 -<br />
Fig. 1 - Bisaccia (AV). Fibula ‘ad occhiali’ (o a doppia spirale).<br />
Possiamo comunque dire che ricaviamo<br />
l’immagine di una comunità che, almeno dal<br />
punto di vista economico, non aveva al suo interno<br />
grandi differenze e in cui probabilmente esistevano<br />
ancora forme di gestione comune delle<br />
risorse, che dovevano essere quelle agricole con<br />
integrazioni di allevamento e di attività pastorali.<br />
Soprattutto, il dato che colpisce e che risulta<br />
insolito rispetto alle altre popolazioni contemporanee,<br />
è questa equivalenza sociale dell’uomo e<br />
della donna: l’uomo e la donna si connotano, sì,<br />
per la loro differenza sessuale, ma il servizio che<br />
rappresenta l’individuo adulto ai piedi del morto<br />
è assolutamente identico e vi è dunque una<br />
sostanziale equivalenza dell’uomo e della donna<br />
all’interno del gruppo; vi è, cioè, una divisione di<br />
ruoli, ma un’uguale dignità e un uguale peso<br />
all’interno della comunità.<br />
La differenza passa invece, come spesso accade<br />
per queste popolazioni primitive, per le classi<br />
d’età. Se andiamo ad analizzare le tombe degli<br />
individui non ancora adulti, quindi non ancora<br />
iniziati alla comunità, vediamo che anche quando<br />
hanno un corredo particolarmente esuberante di<br />
ceramica, hanno, sì, la tazza e lo scodellone, ma<br />
non hanno mai il servizio tipico che comprende<br />
la grande brocca e l’attingitoio. Hanno poi
anch’essi le spille, che connotano, quando sono<br />
bambini avanti nell’età, il sesso maschile e femminile.<br />
Ma a loro è negato il servizio che identifica<br />
l’individuo adulto. Talvolta addirittura sono privi<br />
del corredo ceramico e hanno solo ornamenti.<br />
Dopo questo secondo livello di classi d’età, a<br />
un livello ancora più basso si collocano i neonati<br />
o i bambini nella prima infanzia, che di solito<br />
sono deposti in piccole fosse sul terreno nelle<br />
quali lo scheletro spesso non è rimasto se non<br />
sotto forma di piccoli frustuli di ossa.<br />
Le tombe di neonato si mostrano particolarmente<br />
interessanti perché al loro interno hanno<br />
sempre e soltanto la grande spilla maschile dei<br />
vari tipi ad arco serpeggiante, presente con<br />
esemplari di dimensioni normali - quindi non<br />
miniaturizzate per un bambino - se non, a volte,<br />
addirittura di dimensioni considerevoli. Vi è poi<br />
un esempio di tomba di infante in cui il neonato<br />
non era deposto nella fossa, ma vi era un<br />
buco nel terreno con un grande vaso che conteneva<br />
all’interno le spoglie del bimbo. Insieme<br />
alle spoglie del bambino si rinvennero un coltello<br />
di ferro, assolutamente improbabile come<br />
oggetto d’ornamento personale del neonato,<br />
un’enorme spilla ad arco serpeggiante e una<br />
punta di lancia di bronzo, identica a quella degli<br />
adulti maschi.<br />
In un’altra tomba di infante, invece, non c’era<br />
alcun oggetto di corredo, ma soltanto una punta<br />
di lancia in bronzo, deposta a metà della piccola<br />
fossa.<br />
L’immagine che suggerisce questo modo di<br />
deporre il neonato risulta abbastanza anomala: il<br />
neonato, in pratica, non ha un corredo personale<br />
e anche la spilla che chiude il vestito sul petto non<br />
appartiene al corredo dell’infante, anche perché in<br />
qualche caso, come in quello dell’enchytrismos (la<br />
sepoltura entro vasi), la spilla serviva piuttosto per<br />
chiudere il panno in cui i resti del neonato erano<br />
inseriti. L’infante non ha dunque diritto al servizio<br />
ceramico e neanche agli oggetti personali; quando<br />
poi si rinvengono elementi di tipo personale<br />
come la spilla, si tratta sempre della spilla maschile<br />
di grandi dimensioni. A volte, addirittura, a ribadire<br />
questa connotazione maschile di individuo<br />
adulto, sono presenti la punta di lancia e il coltello<br />
di ferro. Il neonato, dunque, in qualche modo<br />
SALTERNUM<br />
- 8 -<br />
non esiste di per sé e non ha ancora una sua individualità,<br />
ma esiste in quanto collegato con la<br />
figura paterna, perché è il padre che è garante del<br />
neonato e nelle tombe di neonato dà la sua<br />
impronta.<br />
Anche questo è un dato che non trova confronto<br />
nelle culture indigene contemporanee, in<br />
cui fin dalla primissima età i maschietti e le femminucce<br />
vengono connotati in maniera autonoma,<br />
anche se mai con tutte le prerogative proprie<br />
del maschio o della donna adulti.<br />
Questo è il quadro che dagli inizi della cultura,<br />
quindi dal pieno IX secolo a.C., prosegue fino<br />
circa a tutta la metà l’VIII secolo a.C. Poi improvvisamente,<br />
in modo anche abbastanza repentino e<br />
senza passaggi intermedi, le tombe più recenti,<br />
che vanno dalla seconda metà dell’VIII agli inizi<br />
del VII secolo a.C., si mostrano completamente<br />
diverse. Sono tombe generalmente molto più ricche<br />
di materiali e soprattutto si osserva che si è<br />
spezzata quella antica equivalenza tra il servizio<br />
dell’uomo e il servizio della donna ai piedi del<br />
morto. L’uomo, infatti, ha costantemente ai piedi<br />
una grande olla che non è più l’olla biconica del<br />
passato ma è la grande olla da derrate, quella che<br />
costituisce il simbolo della ricchezza agricola e il<br />
bene sostanziale del gruppo; al suo interno si<br />
trova ancora spesso l’attingitoio, costituito da<br />
un’anforetta o da una tazza. Per l’uomo, poi, si<br />
può individuare tra il resto della suppellettile un<br />
secondo servizio ceramico, che è deposto generalmente<br />
sulle gambe, sotto il bacino, e comprende<br />
un grande scodellone con, al suo interno, un<br />
ulteriore vaso. Il corredo maschile presenta la<br />
punta di lancia ormai realizzata in ferro e non più<br />
in bronzo ed è anch’esso caratterizzato da specifici<br />
oggetti di ornamento: continua infatti anche<br />
nelle spille la distinzione tra maschio e femmina,<br />
con la spilla ad arco serpeggiante per gli uomini<br />
e la spilla ‘ad occhiali’ per le donne, anche se vi<br />
sono alcuni tipi di fibule -come quelle a navicella<br />
o a sanguisuga - che condividono sia gli uomini<br />
che le donne.<br />
Come avevamo già visto comparire nelle<br />
sepolture femminili dell’età precedente, nelle<br />
tombe delle donne c’è adesso costantemente<br />
quello che è il fossile-guida della cultura, ossia il<br />
bracciale ad arco inflesso, che diventa in questo
momento molto più diffuso e canonico. Il bracciale<br />
ad arco inflesso, infatti, è presente in tutte le<br />
tombe femminili e quando si trova in una sepoltura,<br />
anche al di fuori dai centri della cultura di<br />
Oliveto-Cairano, si può essere certi di essere in<br />
presenza di una donna di Oliveto-Cairano, perché<br />
evidentemente questi bracciali erano qualcosa<br />
che, nell’immaginario di quelle genti, ribadiva<br />
l’identità culturale e l’appartenenza delle donne a<br />
quel gruppo ben definito.<br />
Le tombe femminili, a differenza di quelle<br />
maschili, non hanno la grande olla da derrata ai<br />
piedi, ma ai piedi hanno soltanto lo scodellone, a<br />
volte accompagnato da un altro vaso: in sostanza,<br />
le donne hanno ai piedi quello che nell’uomo<br />
costituisce il servizio secondario e complementare,<br />
che è posto sulle gambe o vicino al bacino. E<br />
questa è una differenza fondamentale rispetto alla<br />
fase precedente.<br />
Che immagine ci restituiscono già questi pochi<br />
dati? Per quanto riguarda la società in generale,<br />
che senza dubbio ha fatto un salto di crescita, i<br />
corredi sono tutti sensibilmente più ricchi e, nonostante<br />
questo, cominciano ad avvertirsi al loro<br />
interno le prime differenze di ricchezza.<br />
All’interno dei corredi funebri si comincia a rinvenire<br />
anche suppellettile ceramica che non è prodotta<br />
in loco ma che è prodotta dalle culture indigene<br />
vicine, in particolare della Daunia. E questo<br />
ci dice che si tratta ormai di una comunità che<br />
produce anche più di quanto le basti per la sua<br />
stessa sussistenza e che ha qualche cosa che può<br />
scambiare. Mentre l’immagine della comunità<br />
precedente era quella di una comunità tesa alla<br />
sopravvivenza e chiusa al suo interno, questa è<br />
l’immagine di una comunità invece in fase di sviluppo,<br />
che si apre all’esterno e che è in un<br />
momento di profonda crescita.<br />
Quello che cambia è, come si diceva,<br />
l’equivalenza tra uomo e donna: improvvisamente<br />
l’uomo rivendica nella tomba i simboli propri e<br />
sostanziali che ricordano la ricchezza del gruppo<br />
e che vengono rappresentati dall’olla da derrate.<br />
Ma non è soltanto questo. Tranne qualche rarissima<br />
eccezione, gli oggetti di ferro, che costituisce<br />
il metallo di valore sostanziale e di valore tecnologico<br />
all’interno del gruppo, sono prerogativa<br />
dell’elemento maschile.<br />
GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
- 9 -<br />
Fig. 2 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Askos dauno dalla T.<br />
110 - Prima metà VII sec. a.C.<br />
Fig. 3 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Goliera di bronzo<br />
dalla T. 110 - Prima metà del VII sec. a.C.<br />
Fig. 4 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Anforetta<br />
d’impasto decorata a lamelle metalliche dalla T. 11 - VII sec. a.C.
SALTERNUM<br />
Fig. 5 - Bisaccia (AV). La tomba della ‘Principessa’ in corso di scavo (foto G. Bailo).<br />
Si delinea dunque un quadro in cui ci sono<br />
corredi di donne che non possono definirsi povere,<br />
ma i simboli più importanti del potere reale<br />
all’interno del gruppo sono appannaggio dell’elemento<br />
maschile.<br />
Rimane da chiedersi che cosa ha fatto fare questo<br />
salto di qualità alla cultura. Fondamentale a<br />
questo proposito è il rinvenimento di una tomba<br />
che fu messa in un luce un giorno imprecisato<br />
della fine degli anni ’70 sulla collina di Bisaccia.<br />
Sulla collina si rinvenne una sepoltura che<br />
immediatamente si differenziava dalle altre.<br />
Innanzi tutto si trattava di una tomba a fossa,<br />
di grandi dimensioni, che aveva la normale copertura<br />
in pietre e ciottoli; da questo punto di vista,<br />
dunque, l’immagine era identica a quella delle<br />
altre tombe della collina, si differenziava però<br />
già dal grande lastrone di pietra bianca che si<br />
rinvenne reclinato e piegato tra le pietre della<br />
copertura, ma che in origine, probabilmente,<br />
doveva essere innalzato a formare una sorta di<br />
sema, ossia di segnacolo della tomba e che già<br />
- 10 -<br />
si poneva come elemento di distinzione rispetto<br />
alle altre tombe. Ma, soprattutto, il dato più<br />
curioso era rappresentato dal fatto che questa<br />
tomba era circondata, almeno per tutta la sua<br />
metà inferiore, da un recinto di pietre che le<br />
altre tombe non avevano. Vi era un primo recinto,<br />
quello probabilmente originale e più ampio,<br />
che venne poi ribadito da un ulteriore recinto,<br />
aggiunto forse quando il primo si era in parte<br />
interrato o era stato risistemato. Prima ancora di<br />
sapere che cosa ci fosse dentro la tomba, dunque,<br />
si osservava che questa sepoltura voleva<br />
presentarsi già dall’immagine esterna come<br />
diversa dalle altre tombe della collina.<br />
L’aspetto più importante di questa diversità<br />
è senz’altro rappresentata dal recinto, perché il<br />
recinto presso tutte le popolazioni antiche, e<br />
soprattutto quelle vicine a noi, ha uno spiccato<br />
valore di limite ed è capace di creare un<br />
limite, oltre il quale non si può andare, tra lo<br />
spazio interno e lo spazio esterno al recinto<br />
stesso. Il recinto, quindi, isola un elemento di
una certa importanza e rappresenta un limite<br />
che distingue ciò che è all’interno del limite<br />
stesso - che è sacro e di notevole importanza -<br />
da ciò che è all’esterno (si pensi ad esempio al<br />
solco che Romolo traccia quando deve disegnare<br />
il perimetro di Roma e si pensi al fatto<br />
che quando Remo, suo fratello, supera il solco,<br />
Romolo non esita ad ucciderlo, proprio perché<br />
era stato in qualche modo commesso un sacrilegio<br />
che soltanto la morte e il sacrificio potevano<br />
intervenire a sanare). Questi limiti dunque,<br />
anche se non fisicamente invalicabili,<br />
sono simbolici, e in quanto tali invalicabili<br />
sostanzialmente.<br />
Il messaggio che se ne può ricavare è dunque<br />
che all’interno di questo limite era posto qualcosa<br />
di importante e che il recinto costituiva un limite<br />
oltre il quale non si doveva andare.<br />
Sotto le pietre uscì il corredo particolarmente<br />
ricco dell’individuo che vi era deposto, che era<br />
sicuramente una donna per la presenza dei<br />
numerosi bracciali ad arco inflesso. Colpiva<br />
l’esuberanza del corredo non solo per la quantità<br />
dei vasi, ma anche per la qualità di alcuni di<br />
essi: vi erano infatti dei vasi di bronzo e i vasi di<br />
bronzo nell’antichità, in questo orizzonte cronologico,<br />
hanno anche un valore economicamente<br />
molto più rilevante rispetto ai vasi di ceramica.<br />
Soprattutto, questi oggetti erano degli status<br />
symbol, degli oggetti di prestigio. Molti di essi,<br />
come la phiale baccellata, sono quelli che si<br />
ritrovano costantemente in tutte le tombe dell’élite<br />
di Età orientalizzante, per esempio,<br />
dell’Etruria, nelle grandi tombe come la<br />
‘Bernardini’, la ‘Barberini’ o la ‘Regolini Galassi’.<br />
Ma al di là della preziosità di alcuni oggetti che<br />
uniformano il corredo di questa donna, che era<br />
databile agli inizi del VII secolo a.C., a quello dei<br />
principi di Età orientalizzante di Pontecagnano -<br />
per il confronto di due bacini di bronzo con prese<br />
lunate, che si trovano soltanto nelle tombe principesche<br />
di Pontecagnano -, al di là di ciò, questa<br />
tomba femminile conteneva degli elementi anomali,<br />
rispetto all’assetto della comunità, anche<br />
all’interno della fossa. Aveva ai piedi, ad esempio,<br />
la grande olla da derrate. Il suo corredo ceramico<br />
comprendeva vasi d’argilla e, oltre alla phiale baccellata<br />
e ai due bacini bronzei di cui abbiamo<br />
GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
- 11 -<br />
Fig. 6 - Bisaccia (AV). La ‘Principessa’ sulle colline.<br />
Fig. 7 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Phiale baccellata di<br />
bronzo dalla T. 66 - VII sec. a.C.<br />
appena parlato, un grande calderone anch’esso di<br />
bronzo.<br />
Tolto il corredo che più o meno rivestiva la<br />
defunta, uscì il vestito di quella che a questo<br />
punto possiamo chiamare ‘principessa’. La donna<br />
era interamente rivestita di bronzo. Tutte le donne<br />
sepolte sulla collina hanno in quest’epoca un corredo<br />
particolarmente abbondante nei bronzi – è<br />
tipico appunto delle comunità che hanno un riferimento<br />
con la sponda illirica dell’Adriatico - e<br />
tutte hanno oggetti di bronzo distribuiti dalla testa<br />
ai piedi; anche quando ve ne sono solo due o tre,<br />
infatti, si cerca di fare in modo che l’intero corpo<br />
sia toccato dal bronzo.<br />
La nostra principessa aveva migliaia di piccoli<br />
bottoncini di bronzo disseminati fino al bacino,<br />
che andavano disegnando una sorta di scialle;
Fig. 8 - Bisaccia (AV), La<br />
Principessa.<br />
bottoni più grandi erano<br />
verosimilmente applicati<br />
sulla gonna, che era poi<br />
ulteriormente appesantita<br />
da grandi dischi di bronzo,<br />
in qualche caso decorati.<br />
Aveva 51 bracciali ad<br />
arco inflesso, 25 al polso<br />
sinistro e 26 al polso<br />
destro: in questo caso il<br />
numero era singolare,<br />
poiché ci sono donne con<br />
più bracciali, ma questo<br />
numero è rimasto finora<br />
senza confronti. Va osservato,<br />
a questo punto, che<br />
le donne di Oliveto-<br />
Cairano avevano costantemente<br />
un bracciale in<br />
più al braccio destro e<br />
che i bracciali non sono<br />
mai in numero pari, sia<br />
quando sono in numero<br />
minore, sia fino al numero<br />
maggiore, che è<br />
appunto 51. Ad oggi non<br />
è possibile spiegare il<br />
significato di questo dato. Negli unici casi in cui i<br />
bracciali sono pari - perché, come sempre ci sono<br />
delle eccezioni -, si tratta o di bambini, oppure,<br />
come nella T. 4 di Cairano, della sepoltura di una<br />
donna che aveva un solo bracciale al polso sinistro<br />
e uno al polso destro, che per il resto era<br />
priva di corredo e che era una donna zoppa, con<br />
un difetto di articolazione agli arti inferiori. Una<br />
delle ipotesi che si potrebbero suggerire potrebbe<br />
essere che le donne che presentano un numero<br />
dispari di bracciali sono le donne adulte, maritate,<br />
quindi le donne che a pieno titolo hanno avuto il<br />
ruolo di elemento femminile della comunità.<br />
La nostra principessa aveva un numero notevole<br />
di spille di bronzo, tra cui alcune enormi,<br />
ricoperte di ambra e di avorio. Aveva poi anche le<br />
fusaiole, ma mentre le altre donne della cultura<br />
avevano spesso esemplari in impasto deposti ai<br />
piedi della fossa, la principessa le aveva in ambra<br />
e addirittura in metallo, quindi abbastanza improbabili<br />
come oggetti d’uso allusivi al duro lavoro<br />
SALTERNUM<br />
- 12 -<br />
quotidiano, ma da interpretare piuttosto come<br />
oggetti d’ornamento, appartenenti forse ad una<br />
lunga e complessa serie di elementi ornamentali<br />
che probabilmente adornavano i capelli o una<br />
treccia che correva lungo le spalle.<br />
Si trattava, dunque, di una donna che risultava<br />
trasgressiva rispetto all’elemento maschile<br />
della comunità e che rivendicava atteggiamenti<br />
impensabili per le altre donne; una donna che<br />
rivendicava in qualche modo anche la propria<br />
femminilità perché aveva poi tutti gli elementi<br />
che connotano le figure femminili, come la fibula<br />
‘ad occhiali’, la fusaiola e tutta una serie di<br />
elementi che caratterizzano anche le altre donne<br />
del gruppo.<br />
La principessa non era però l’unica ad avere<br />
una tomba dotata di recinto: di fianco a lei, infatti,<br />
c’era una tomba maschile che aveva anch’essa<br />
un accenno di recinto e che era dotata di un corredo<br />
particolarmente ricco, anche se poi non<br />
aveva al suo interno tutti quei simboli così significanti<br />
che aveva la principessa, ma questo perché<br />
si trattava di un uomo e l’uomo non doveva esibire<br />
nulla.<br />
Ai piedi di queste due tombe maggiori<br />
c’erano, disposte perpendicolarmente e quindi<br />
con un orientamento diverso da tutte le tombe<br />
del resto della collina, due tombe di giovani<br />
guerrieri, una ai piedi della principessa, una ai<br />
piedi dell’uomo che le era a fianco. Non avevano<br />
un corredo particolarmente esuberante: uno<br />
solo aveva un piccolo accenno di recinto, quindi<br />
uno di quegli elementi forti che avevano le<br />
tombe maggiori, ma che chiaramente gli derivava<br />
di riflesso dall’essere legato in qualche modo<br />
da un rapporto – non sappiamo quale, ma possiamo<br />
presumere un rapporto quasi di sudditanza<br />
o di complementarità e difesa - agli individui<br />
della parte superiore della collina.<br />
C’erano infine due tombe di bambino, con<br />
corredi dai bronzi molto belli, che, anche se non<br />
di particolare ricchezza, risultavano comunque<br />
sicuramente più ricche delle altre tombe di bambino<br />
coeve.<br />
Tutto questo insieme di sepolture, in una collina<br />
in cui le tombe sono disposte abbastanza<br />
fittamente una vicino all’altra, era distribuito<br />
invece su uno spazio che lasciava molta libertà.
Oltre tutto, ai piedi della principessa c’erano i<br />
resti di un vaso rituale che non si ritrova nei corredi<br />
funerari e che probabilmente è testimonianza,<br />
insieme alla reduplicazione del recinto, che<br />
la persona che vi era stata deposta, non solo era<br />
stata molto importante in vita, ma probabilmente<br />
aveva lasciato una memoria che era stata coltivata<br />
e in qualche modo anche acuita nel corso<br />
del tempo.<br />
E’ probabile, quindi, per arrivare alle conclusioni<br />
di questi segni, che siamo in presenza del<br />
gruppo di vertice della comunità che ha ormai<br />
abbandonato la prima Età del Ferro ed è entrata<br />
nell’Età orientalizzante e che rappresenta pertanto<br />
la comunità di seconda Età del Ferro di<br />
Oliveto-Cairano. Un gruppo di vertice sensibilmente<br />
staccato dal resto della comunità, dotato<br />
sicuramente di un potere incredibilmente forte<br />
rispetto ai propri simili e quindi, si può dire, di<br />
un potere di tipo più o meno assoluto.<br />
Riguardo alla ‘Principessa’ vi è, però, un’altra<br />
sorpresa. Al momento dello scavo, sotto il vestito<br />
si trovarono pochissime ossa e in un primo<br />
momento si pensò che il motivo andasse cercato<br />
nel bronzo stesso, che aveva corroso le ossa,<br />
o nell’acidità del terreno. In realtà, le analisi<br />
degli antropologi hanno dimostrato che si trattava<br />
dei resti di una bambina di pochi anni di età,<br />
sepolta con il vestito di una adulta.<br />
A questo punto, viene giustamente da chiedersi<br />
se non vacilli l’intero discorso. In realtà io<br />
penso che il discorso si rafforzi: proprio perché<br />
c’era un gruppo familiare dotato di un potere<br />
così forte, questa bimba è stata probabilmente<br />
deposta in questo modo in quanto predestinata:<br />
è stata cioè deposta secondo l’immagine che<br />
avrebbe assunto se avesse continuato a vivere<br />
all’interno del gruppo di vertice. E questo è<br />
ancora più significativo del nucleo sociale a cui<br />
la ‘principessina’ apparteneva.<br />
Adesso bisogna cercare di capire che cosa ha<br />
creato questa accelerazione improvvisa all’interno<br />
della comunità, questa ricchezza maggiore e questa<br />
frammentazione, disarticolazione e ricomposizione<br />
ad altri equilibri della compagine sociale.<br />
Sicuramente motivi interni, ma anche un elemento<br />
esterno che inevitabilmente deve avere<br />
accelerato il processo.<br />
GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
- 13 -<br />
A questo punto, se si va alla ricerca di spie<br />
che possano offrire una chiave di lettura, per me<br />
si tratta dei vasi dauni, i bei vasi di ceramica<br />
geometrica dipinta che cominciano a comparire<br />
improvvisamente a Bisaccia, e non negli altri<br />
centri della cultura di Oliveto-Cairano, nella<br />
seconda metà dell’VIII secolo a.C. e che compaiono,<br />
non in tutti i corredi, ma con una certa<br />
frequenza, soprattutto nei corredi femminili fino<br />
alla prima metà del VII secolo a.C.<br />
Che cosa sta succedendo in questo volgere di<br />
tempo? Poco prima della metà dell’VIII secolo a.C.<br />
è stato fondato nell’isola di Ischia l’emporio greco<br />
di Pithekoussai. Non è probabilmente la prima<br />
colonia greca d’Occidente - infatti gli antichi stessi<br />
a partire da Strabone parlano di Cuma come<br />
prima colonia greca d’Occidente -, ma è l’ultimo<br />
esito del processo precoloniale e delle frequentazioni<br />
delle coste campane da parte dei Greci risalenti<br />
ancora all’epoca micenea, quando i navigatori<br />
greci facevano rotta verso il litorale tirrenico<br />
per approvvigionarsi dei metalli e in particolare<br />
dei metalli dell’isola d’Elba.<br />
Pithekoussai è un momento di strutturazione<br />
forte di questo processo: si crea fisicamente e per<br />
la prima volta un avamposto stabile e residente a<br />
fare da testa di ponte proprio verso le coste tirreniche.<br />
Sappiamo, poi, che Pithekoussai era il polo<br />
occidentale di un sistema che il mondo euboico<br />
completava con l’emporio orientale di Al-Mina,<br />
alle foci dell’Oronte, e attraverso questi due poli si<br />
giocava la loro leadership sul Mediterraneo e<br />
quindi, più in generale, la leadership del commercio<br />
nel mondo allora conosciuto.<br />
Subito dopo, dopo la metà dell’VIII secolo<br />
a.C., viene fondata Cuma che è invece la prima<br />
vera e propria colonia greca d’Occidente, nel<br />
senso che è un insediamento nato per essere<br />
stabile, per sfruttare anche il territorio agricolo e<br />
non solo per istanze commerciali o di alto artigianato.<br />
Cuma nasce in base a un progetto politico<br />
di conquista per sempre, un progetto politico<br />
di ampio respiro.<br />
Noi sappiamo che questo porta al contatto con<br />
alcune delle popolazioni indigene: con alcuni, gli<br />
abitanti di Cuma per esempio, tale contatto fu<br />
sicuramente violento e gli indigeni scomparvero o<br />
furono massacrati, anche se le fonti lo adombrano
soltanto; le popolazioni dell’Etruria con cui i Greci<br />
entrarono in contatto fecero invece un notevole<br />
salto di qualità, anche perché erano depositarie<br />
dei metalli che i Greci andavano a cercare. Ma<br />
essendo i Greci finalmente qui e dovendo fare i<br />
conti per sempre con il retroterra indigeno, anche<br />
le nostre popolazioni indigene, quali più e quali<br />
meno, vennero in rapporto con i nuovi venuti. E<br />
reagiscono diversamente: quelli più saldamente<br />
strutturati, come i Protoetruschi di Pontecagnano,<br />
parlano con i Greci in condizioni quasi di pari<br />
dignità, mentre le popolazioni della ‘Cultura delle<br />
tombe a fossa’ in un modo un po’ più subalterno.<br />
Quello che prima del ritrovamento della tomba<br />
della ‘Principessa’ pensavamo è che questi fenomeni<br />
non avessero lasciato traccia sulle popolazioni<br />
indigene dell’interno, come quelle di<br />
Bisaccia, poiché nell’alta Irpinia non appariva<br />
materiale d’importazione greca.<br />
Invece, proprio la presenza di questi vasi dauni<br />
ha messo in sospetto. La Daunia nell’antichità, da<br />
Aristotele in poi fino alla tarda antichità, era famosa<br />
- soprattutto il centro di Canosa - per la qualità<br />
della sua lana. I centri greci, nel momento del loro<br />
primo insediamento, avevano da costruire tutto il<br />
loro assetto e approvvigionarsi di tutte le materie<br />
prime. E’ il momento in cui, in attesa di strutturarsi,<br />
i Greci hanno bisogno dagli indigeni di materie<br />
prime di qualunque tipo. Ed è probabile che la<br />
lana dauna in questa direzione giochi un ruolo<br />
fondamentale: è solo in questo momento infatti<br />
che noi troviamo i vasi dauni qui a Bisaccia, ma<br />
anche a Pithekoussai nell’isola di Ischia e poi in<br />
altri centri campani del retroterra più vicino, e vasi<br />
dauni giungono anche a Pontecagnano.<br />
Successivamente, invece, dopo il periodo collegato<br />
a questi avvenimenti, la presenza di tali oggetti<br />
scomparirà.<br />
A Pithekoussai i grandi archeologi Buchner e<br />
Ridgway scavarono negli anni Ottanta la tomba di<br />
una donna con un’associazione insolita di oggetti:<br />
si trattava dell’orecchino tipico di Oliveto-<br />
Cairano, della spilla di Oliveto-Cairano e di un<br />
tutulus, un copricapo come quello che aveva<br />
anche la principessa di Bisaccia. Questa era sicuramente<br />
la tomba di una donna della cultura di<br />
Oliveto-Cairano, probabilmente originaria di<br />
Bisaccia stessa, deposta a Pithekoussai.<br />
SALTERNUM<br />
- 14 -<br />
E anche a Pontecagnano c’è, ad esempio, il<br />
corredo di una donna che, sia dalla suppellettile<br />
ceramica sia dalla presenza dei bracciali ad arco<br />
inflesso e da altri elementi, rivela di essere una<br />
donna di Oliveto-Cairano, contraddistinta peraltro<br />
da un notevole status sociale.<br />
Tra gli oggetti di corredo che aveva questa<br />
donna ci sono due strani uncini che si sono trovati<br />
anche in altre tombe di donne indigene e che<br />
generalmente venivano interpretati come strumenti<br />
per cardare la lana anche se, per la verità,<br />
gli oggetti funzionali alla cardatura della lana non<br />
sono così, ma presentano più punte. Io ho cercato<br />
altri confronti, pensando sempre che fossero<br />
collegati all’attività della lana, e per ora ho trovato<br />
solo un confronto in un orizzonte lontano, con<br />
uno strumento del Kashmere che viene utilizzato<br />
vicino ad un telaio dove si fabbricano i famosi<br />
tappeti di quelle zone.<br />
Per farla breve, io credo che a un dato punto<br />
si avvertano queste esigenze di materie prime da<br />
parte del mondo greco, che non le richiedeva soltanto<br />
per sé, ma anche in vista di una redistribuzione<br />
sul mercato, visto anche il complesso sistema<br />
di commerci a cui abbiamo accennato poco fa.<br />
A quel punto, vengono coinvolte le popolazioni<br />
dei dintorni: uno degli elementi forti che interessano<br />
ai Greci per qualche motivo è la lana<br />
della Daunia. La Daunia e i centri dauni sono a<br />
breve distanza da Bisaccia e Bisaccia si trova sugli<br />
antichi tratturi di tradizione pastorale che già<br />
dall’Età preistorica funzionavano proprio in riferimento<br />
al fenomeno della transumanza.<br />
Le popolazioni di Oliveto-Cairano sono collocate,<br />
come abbiamo detto all’inizio, in punti strategici,<br />
controllano tutti i nodi viari fondamentali,<br />
non solo il sistema Ofanto-Sele, ma - Bisaccia in<br />
particolare - anche i corsi fluviali del Calaggio, del<br />
Carapelle e le varie direttrici che portano poi<br />
verso la costa campana e verso la Daunia.<br />
Penso che i Dauni fossero i produttori della<br />
lana e che, poiché erano legati anche per la<br />
comune origine illirica da una sorta di somiglianza<br />
culturale con le genti di Oliveto-Cairano, venga<br />
loro spontanea la collaborazione con queste<br />
popolazioni. Le genti di Oliveto-Cairano approfittano<br />
della loro collocazione strategica per fare poi<br />
da mediatori nei riguardi della costa, probabil
mente non direttamente con i Greci, ma con i centri<br />
indigeni forti, come Pontecagnano. Ma non è<br />
solo il commercio della lana che mettono in<br />
campo le genti di Oliveto-Cairano, bensì anche<br />
l’alta capacità tecnologica e artigianale delle proprie<br />
donne, di cui è un esempio la defunta che<br />
abbiamo vista sepolta a Pontecagnano con gli<br />
strumenti del mestiere. Addirittura, in un determinato<br />
momento, queste donne creano, come succede<br />
a Pontecagnano, dei veri e propri ateliers,<br />
delle piccole comunità di immigrati nei centri più<br />
vicini ai luoghi di mercato, dando così vita ad un<br />
sistema complesso.<br />
Questo, oltre probabilmente ad altri fatti, fa<br />
fare un salto di qualità enorme alla cultura di<br />
Oliveto-Cairano e alla sua gente. La figura femminile<br />
è quella che di fatto contribuisce, nella misura<br />
che abbiamo detto, a questi fenomeni; succede<br />
tuttavia, per apparente paradosso, che nel<br />
momento in cui la donna diventa ancora più<br />
importante per lo sviluppo del gruppo, improvvisamente<br />
è poi l’elemento maschile che detiene il<br />
controllo dei mezzi di produzione. Soltanto in una<br />
fase viene recuperata la grande dignità della<br />
donna, almeno nel livello del gruppo di vertice: si<br />
tratta della ‘principessa’, che in qualche modo<br />
raduna in sé, con i suoi elementi trasgressivi e<br />
tutto quanto abbiamo detto, l’immagine nuova e<br />
forte della donna all’interno della comunità.<br />
C’è poi un’altra tappa - ed è l’ultima - nella storia<br />
di Oliveto-Cairano.<br />
Dopo questo momento, databile entro la metà<br />
del VII secolo a.C., la vita di Oliveto-Cairano dura<br />
abbastanza simile per alcuni decenni. Dobbiamo<br />
arrivare al VI secolo a.C. per vedere un altro<br />
momento di rottura, questa volta non più a<br />
Bisaccia ma a Cairano.<br />
A Cairano era stata trovata in anni precedenti<br />
una necropoli simile a quella di Bisaccia e<br />
della stessa epoca; poi, improvvisamente, sulla<br />
collina del Calvario che dominava strategicamente<br />
tutta la zona, è uscito un nucleo abitato e<br />
una necropoli limitata, circondata da un ampio<br />
fossato. L’abitato si presenta come una sorta di<br />
grande palazzotto, non certo il villaggio di<br />
capanne della gente normale di quell’epoca. Le<br />
tombe della necropoli a volte hanno dimensioni<br />
notevoli - anche se ve ne sono alcune di dimen-<br />
GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
- 15 -<br />
sioni e di corredo normali -, sono incavate nel<br />
banco di roccia e hanno un aspetto quasi architettonico,<br />
assomigliando sempre più alle tombe<br />
a camera.<br />
Nelle tombe ricche, in questo orizzonte cronologico,<br />
finalmente compare anche il materiale<br />
importato dall’area etrusca e dall’area greca,<br />
come le coppe ioniche, il bucchero etrusco, i<br />
vasi di bronzo, le oinochoai di tipo rodio, e un<br />
elmo corinzio.<br />
L’abitato ha un grande magazzino con decine<br />
di olle da derrate, che si configura come un vero<br />
e proprio palazzotto dei signori locali dell’età<br />
arcaica e tardo-arcaica. I corredi delle sepolture<br />
sono poi particolarmente ricchi. Che cosa è successo?<br />
Siamo in un momento particolare: nel<br />
corso del VI secolo a.C. avviene lungo la costa<br />
quello scambio di leadership sulle rotte marittime<br />
tra Etruschi e Greci che segna gli eventi storici di<br />
quegli anni. Alla fine prevalgono i Greci, e gli<br />
Etruschi, che erano gli antichi re del mare, vengono<br />
definitivamente sconfitti. É il momento in<br />
cui nasce il centro di Fratte, perché proprio mentre<br />
Pontecagnano ha una vocazione costiera che<br />
segue il destino degli Etruschi, Fratte è rivolta<br />
verso la valle dell’Irno e verso l’interno, ed è il<br />
momento in cui i riferimenti per l’interno non<br />
sono più centri come Pontecagnano, ma altri<br />
come Capua. É il momento in cui rispetto all’elemento<br />
etrusco marittimo prevale l’elemento etrusco<br />
costiero, che però, ricacciato dalle coste,<br />
tende a spostare la sua produzione verso<br />
l’interno: non potendo infatti più farlo liberamente<br />
sul mare, se non a pena di gravi rischi, gli<br />
Etruschi cercano le vie dell’interno per portare<br />
gli oggetti con cui fare mercato dalla costa tirrenica<br />
a quella ionica e a quella adriatica.<br />
In questo frangente una via come quella<br />
dell’Ofanto-Sele - questa volta percorsa al contrario,<br />
non nel senso della lana che scendeva dalle<br />
colline, ma nel senso della merce che dai centri<br />
etruschi della costa andava verso l’interno - diventa<br />
fondamentale. Il controllo di quelle vie fa fare<br />
alla gente - forse in particolare più alla gente di<br />
Cairano e di Calitri, che si trovano più vicini<br />
all’Ofanto - un salto di qualità ulteriore. Il modello<br />
è probabilmente quello del prelievo in presenza<br />
di un passaggio obbligato, ma anche quello del
dono e di rapporti di reciprocità che si creano tra<br />
lo straniero che deve passare per quelle zone e gli<br />
indigeni. E’ probabile che all’interno delle comunità<br />
di Oliveto-Cairano i gruppi già emergenti<br />
traggano da questo movimento un elemento per<br />
fare un ulteriore salto di qualità. E a questo punto<br />
non solo distinguono la loro tomba all’interno<br />
delle altre, ma, come ad esempio a Cairano, addirittura<br />
spostano il loro abitato, non il villaggio di<br />
capanne dove stanno gli altri, sulla collina del<br />
Calvario. Anche la loro necropoli risulta separata<br />
da quella degli altri: è la necropoli ai piedi del<br />
palazzotto, circondata da un ampio fossato, in cui<br />
si trovano tombe ricche e meno ricche, il che fa<br />
pensare alla presenza, all’interno di un clan gentilizio,<br />
di signori e di loro clientes, secondo il<br />
modello che avremo poi in età romana.<br />
Concettualmente, anche se non si può pensare<br />
a una filiazione diretta di uno dall’altro, il fossato<br />
che circonda le tombe della collina del<br />
Calvario è l’estensione del recinto della<br />
‘Principessa’. Il fatto appunto che il recinto, nel<br />
caso della principessa e dell’uomo sepolto di fianco<br />
a lei, isolasse una sola tomba per volta ha un<br />
significato; il fatto che un intero nucleo sociale sia<br />
circondato da un fossato significa che gli equilibri<br />
sono mutati e che anche l’aspetto culturale cerca<br />
di ricalcare nell’immaginario funerario questa realtà<br />
diversa. È un po’ tutto il gruppo di vertice che<br />
si è ormai distaccato anche fisicamente dal resto<br />
della comunità e si colloca sulla collina.<br />
Questo quadro dura per tutta la seconda metà<br />
del VI secolo a.C. e per buona parte del V secolo<br />
a.C. Improvvisamente poi arriviamo alla fine della<br />
storia: proprio nel suo momento di massimo sviluppo<br />
la cultura di Oliveto-Cairano finisce e scompare<br />
in tutti i centri. Le necropoli non hanno<br />
seguito e non ci sono centri abitati contemporanei<br />
che si sviluppano.<br />
SALTERNUM<br />
- 16 -<br />
Cosa è successo? Dalla metà del V secolo a.C.<br />
in poi sono anni cruciali per le nostre zone e per<br />
la Campania in generale, perché comincia quel<br />
fenomeno che è stato chiamato di sannitizzazione,<br />
che riconduce tutta la regione a un forte grado di<br />
omogeneità politica, culturale e militare. Le nostre<br />
genti peraltro sono quelle sospette nelle fonti antiche<br />
per aver sostenuto l’elemento sannitico dell’interno:<br />
sappiamo infatti che la sannitizzazione è<br />
anche una presa del potere delle città greche da<br />
parte dell’elemento sannitico, ma è probabile -<br />
come ci testimoniano le fonti - che per fare questo<br />
abbiano chiamato a raccolta anche le tribù dell’interno<br />
con cui avevano rapporti di solidarietà.<br />
Due sono quindi le eventualità. Visto che<br />
sono mutati gli equilibri sulla costa e che tutto<br />
quel sistema di commerci di cui abbiamo parlato<br />
entra in crisi e cambia radicalmente, come<br />
l’antropologia moderna ci dimostra, è probabile<br />
che una cultura che ha fatto dei passi in avanti<br />
rispetto al proprio trend normale, se vengono<br />
improvvisamente a cadere i motivi che le hanno<br />
fatto fare questo salto di qualità, non solo torni<br />
ai livelli precedenti, ma addirittura, a volte, si<br />
estingua. Oppure, come io credo più probabile,<br />
finisce la cultura di Oliveto-Cairano, ma l’éthnos<br />
di Oliveto-Cairano si scioglie in questo momento<br />
più vasto di sannitizzazione della Campania.<br />
Noi non lo riconosciamo più perché è chiaro<br />
che esso assume, anche nella vita materiale, dei<br />
modelli e degli atteggiamenti consoni alla nuova<br />
realtà e alle nuove esigenze. Alla fine non sappiamo<br />
che fine hanno fatto le genti di Oliveto-<br />
Cairano, ma sappiamo che si è aperto un capitolo<br />
completamente diverso un po’ in tutta la<br />
Campania e molte pagine all’interno di esso<br />
vanno verso un nuovo destino.
GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
CURRICULUM DELL’ATTIVITÀ SCIENTIFICA E <strong>DI</strong>DATTICA<br />
di GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
- Il 21 giugno 1972 consegue, presso l’Università degli Studi di Milano, la laurea in Lettere e Filosofia con<br />
tesi in Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana (110 e lode).<br />
- Nell’anno accademico 1972/73 è ammesso alla Scuola Nazionale di Archeologia di Roma e frequenta il<br />
primo anno, superando le prove d’esame previste (Preistoria del Vicino e Medio Oriente, 30 e lode;<br />
Protostoria Europea, 30 e lode; Topografia di Roma e dell’Italia antica, 30 e lode; Paletnologia, 30 e lode).<br />
- Risulta vincitore di un assegno biennale di formazione scientifica e didattica presso la Facoltà di Lettere<br />
e Filosofia dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, a decorrere dall’1/11/1974 e rinnovato per i bienni<br />
successivi.<br />
- È immesso in ruolo come Ricercatore universitario confermato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia<br />
dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, con decorrenza giuridica dall’1/8/1980.<br />
- a partire dall’a.a. 1997/98 gli viene affidato l’insegnamento di Preistoria e Protostoria presso l’Università<br />
degli di Studi di Napoli – L’Orientale.<br />
ATTIVITA’ SCIENTIFICA<br />
A) Ricerca sul terreno<br />
Ha condotto numerose campagne di esplorazione archeologica su incarico della Soprintendenza<br />
Archeologica di Salerno, Avellino, Benevento e della Soprintendenza Archeologica della Basilicata.<br />
Nel 1970, 1971 e 1976 ha la direzione scientifica degli scavi nelle necropoli e nell’abitato di Cairano (AV).<br />
Sempre nell’alta valle dell’Ofanto dirige l’esplorazione dell’insediamento preistorico, della necropoli protostorica<br />
e dell’abitato d’età sannitica di Bisaccia (AV), (1975, 1976, 1989, 1990, 1991) e quello dell’insediamento<br />
arcaico di Calitri (AV), (1976).<br />
Nel corso degli anni ’70 effettua anche interventi di scavo e recupero nei centri della valle del Sarno<br />
(S. Marzano; S. Valentino Torio) e della piana del Sele (Eboli; Serra d’Arce; Oliveto Citra).<br />
Dal 1974 al 1979 dirige gli scavi effettuati nelle necropoli e nell’abitato del centro etrusco-campano di<br />
Pontecagnano (SA). Nello stesso sito, dal 1981 al 1987, ha la direzione scientifica delle annuali campagne<br />
di scavo condotte nell’area della città antica dalla cattedra di Etruscologia ed Antichità Italiche<br />
dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, su apposita concessione del Ministero per i Beni Culturali<br />
ed Ambientali.<br />
Nel 1989 conduce l’indagine archeologica nella necropoli d’età orientalizzante e nell’abitato di IV-III sec.<br />
a.C. di Noepoli (PZ).<br />
Dal 1992 al 1996 conduce numerose campagne di scavo nelle necropoli di Pontecagnano, riportando tra<br />
l’altro alla luce la necropoli d’età eneolitica riferibile alla facies del Gaudo.<br />
Nel 2001, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Salerno e la Soprintendenza Speciale<br />
al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma, conduce una campagna di scavo a<br />
Paestum, all’interno del programma di ricerca sulle testimonianze pre-greche del territorio pestano, di cui<br />
è coordinatore.<br />
Nel 2002 ha la direzione scientifica dell’esplorazione archeologica preventiva del tratto di Pontecagnano<br />
in occasione dei lavori per l’ampliamento dell’Autostrada SA-RC, in base all’apposita convenzione stipulata<br />
tra la Soprintendenza Archeologica di Salerno, AV, BN e l’Università degli di Studi di Napoli –<br />
L’Orientale.<br />
- 17 -
SALTERNUM<br />
B) Convegni, Mostre, Musei<br />
Collabora alla promozione e organizzazione delle seguenti iniziative:<br />
- Seconda Mostra della Preistoria e Protostoria nel Salernitano, curata dalla Soprintendenza alle Antichità<br />
di Salerno e dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (Salerno-Pontecagnano, 1974).<br />
- Convegno Temi e problemi dell’istruzione storico-artistica preuniversitaria, promosso dalla Facoltà di<br />
Lettere e Filosofia dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Napoli, 1976).<br />
- Primo Convegno Internazionale sull’Ideologia Funeraria nel Mondo Antico a cura dell’Istituto<br />
Universitario Orientale di Napoli, del Centre des Recherches Comparées sur les Societés Anciennes e della<br />
Maison des Sciences de l’Homme di Parigi (Napoli-Ischia, 1977).<br />
- Colloquio Cronologia e diffusione della ceramica geometrica dipinta della Daunia, a cura del Seminario<br />
di Studi del Mondo Classico dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Napoli, 1978).<br />
- Riordino dei depositi, allestimento ed apertura al pubblico del Museo Nazionale dell’Agro Picentino<br />
(Pontecagnano 1978).<br />
- Convegno Internazionale Metodi e Tecniche dell’Archeologia, promosso dall’Istituto Universitario<br />
Orientale di Napoli (Napoli, 1979).<br />
- Tavola rotonda L’iscrizione di Amina (...) e le altre testimonianze epigrafiche dalla ricerca archeologica<br />
nell’abitato di Pontecagnano, a cura del Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo<br />
Antico dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Pontecagnano, 1984).<br />
- Progetto per la fruizione del patrimonio archeologico di Pontecagnano (AA.VV., Parco archeologico di<br />
Pontecagnano - recupero di un ambiente urbano, Ercolano 1993).<br />
- Mostra L’Ultima Pietra, il Primo Metallo - sentieri della Preistoria, a cura della Soprintendenza<br />
Archeologica di Salerno, dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli e del Comune di Pontecagnano,<br />
Pontecagnano (SA), 1993).<br />
- Congresso L’Antica età del Bronzo, Viareggio 1995.<br />
- Mostra e Convegno La Pietà degli Dei - santuari e culto a Pontecagnano (Pontecagnano, 19 dicembre<br />
1996).<br />
- Convegno Criteri di nomenclatura e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del<br />
Neolitico/Eneolitico e del Bronzo/Ferro, Lido di Camaiore 1998.<br />
- Mostra e Convegno Prima di Pithecusa – i più antichi materiali greci del golfo di Salerno, Pontecagnano<br />
(SA), 1999.<br />
- Riordino dei materiali preistorici e protostorici del Museo Archeologico Nazionale della Valle del Sele<br />
di Eboli in occasione della sua apertura al pubblico.<br />
- Partecipazione al coordinamento scientifico dei lavori per l’allestimento del nuovo Museo Archeologico<br />
Nazionale di Pontecagnano (SA), in base all’apposita convenzione stipulata tra la Soprintendenza Archeologica<br />
di Salerno, AV, BN e l’Università degli di Studi di Napoli – L’Orientale.<br />
- Riordino dei materiali preistorici e protostorici del Museo Archeologico Nazionale di Paestum in vista<br />
del riallestimento dell’esposizione.<br />
É intervenuto con propri contributi a:<br />
- XV, XVI e XVIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1975, 1976, 1978).<br />
- XX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria in Basilicata (Melfi 1976).<br />
- Colloquio Cronologia e diffusione della ceramica geometrica della Daunia (Napoli 1978).<br />
- Tavola rotonda L’iscrizione di Amina (...) e le altre testimonianze epigrafiche dalla ricerca archeologica<br />
nell’abitato di Pontecagnano (Pontecagnano 1984).<br />
- IV Convegno di Acquasparta, L’emergenza del politico tra le popolazioni osco-lucane (Acquasparta 1986).<br />
- Congresso Internazionale L’età del Rame in Europa (Viareggio 1987).<br />
- 18 -
GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
- Congresso L’antica età del bronzo in Italia (Viareggio 1995).<br />
- Congresso Criteri di nomenclatura e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del<br />
Neolitico/Eneolitico e del Bronzo/Ferro (Lido di Camaiore, 26-29 marzo 1998).<br />
- Convegno di Studi in onore di L. Bernabò Brea, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Lipari 2000.<br />
- Convegno Depositi votivi e culti dell’Italia Antica – dall’età arcaica a quella tardo-repubblicana, Perugia<br />
2000.<br />
- Convegno Lo spazio del rito. Santuari e culti in Italia meridionale tra Indigeni e Greci, Matera 2002.<br />
- Incontro di Studi di Preistoria e Protostoria in Etruria Miti simboli decorazioni, Pitigliano (GR) -<br />
Valentano (VT), 2002.<br />
È stato responsabile scientifico di due programmi di ricerca CNR sui seguenti temi:<br />
- Sistemazione dei beni culturali ed ambientali: l’evidenza archeologica dei Campi Flegrei nella prospettiva<br />
d’uno sviluppo alternativo.<br />
- Culture indigene dell’Italia meridionale tra VIII e IV sec. a.C.<br />
C) Pubblicazioni<br />
Ha prodotto una monografia sulle popolazioni indigene della Campania interna in età arcaica, una<br />
sull’Età del Rame in Campania; contributi vari e schede negli Atti di diversi Convegni scientifici e contributi<br />
su Riviste specialistiche.<br />
Ha collaborato anche alla realizzazione di opere di divulgazione scientifica ed ha partecipato alla stesura<br />
di progetti finalizzati alla valorizzazione dei Beni Culturali e del territorio.<br />
ELENCO DELLE PUBBLICAZIONI<br />
Contributi scientifici:<br />
1- G. BAILO MODESTI, Eboli, necropoli eneolitica, in Seconda mostra della Preistoria e della Protostoria<br />
nel Salernitano, Salerno 1974, pp. 25-42.<br />
2- G. BAILO MODESTI, Cairano, in Seconda mostra della Preistoria e della Protostoria nel Salernitano,<br />
Salerno 1974, pp. 113-121.<br />
3- G. BAILO MODESTI, Bisaccia: campagna di scavo 1975, in Atti del XV Convegno di Studi sulla Magna<br />
Grecia, Taranto 1975, Napoli 1976, pp. 511-514.<br />
4- G. BAILO MODESTI, L’alta valle dell’Ofanto, in Atti del XVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia,<br />
Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 805-811.<br />
5- G. BAILO MODESTI, Aspetti della cultura di Oliveto-Cairano, in Atti della XX Riunione Scientifica<br />
dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria in Basilicata, 16-20 ottobre 1976, Firenze 1978, pp. 321-<br />
325.<br />
6- G. BAILO MODESTI et Alii, Pontecagnano, in Atti del XVIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia,<br />
Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 298-301.<br />
7- G. BAILO MODESTI, Cairano nell’Età arcaica - l’abitato e la necropoli, in “AION ArchStAnt”,<br />
Quaderno 1, Napoli 1980.<br />
8- G. BAILO MODESTI, Il Periodo arcaico, in Storia del Vallo di Diano, I, Salerno 1981, pp. 85-122.<br />
9- G. BAILO MODESTI, Oliveto-Cairano: l’emergere di un potere politico, in G. GNOLI, J. P. VERNANT<br />
(edd.): La Mort, les Morts dans les sociétes anciennes, Cambridge 1982, pp. 241-256.<br />
10- G. BAILO MODESTI, Lo scavo nell’abitato antico di Pontecagnano e la coppa con l’iscrizione<br />
AMINA(...), in “AION ArchStAnt.”, VI, 1984, pp. 215-245.<br />
11- G. BAILO MODESTI, Cairano, in Bibliografia Topografica della Colonizzazione greca in Italia e nelle<br />
isole tirreniche, IV, 1985, pp. 244-246.<br />
- 19 -
SALTERNUM<br />
12- G. BAILO MODESTI, L’Eneolitico in Campania e la facies del Gaudo, in Atti del Congresso<br />
Internazionale L’età del Rame in Europa, Viareggio 15-18 ottobre 1987, in “Rassegna di Archeologia”, 7,<br />
1988, pp. 319-328.<br />
13- G. BAILO MODESTI, Oliveto Citra, in Bibliografia Topografica della Colonizzazione greca in Italia e<br />
nelle isole tirreniche, XII, 1993, pp. 457-460.<br />
14- G. BAILO MODESTI et Alii, L’ultima Pietra il primo Metallo - sentieri della Preistoria, Salerno 1993.<br />
15- G. BAILO MODESTI, A. SALERNO, Il Gaudo di Eboli, in “Origini”, XIX, 1995, pp. 327-393.<br />
16- G. BAILO MODESTI, M. CRISTOFANI, Pontecagnano, in Rivista di Epigrafia “Studi Etruschi”, Etrusca,<br />
LXII, 1996, n. 11.<br />
17- G. BAILO MODESTI, A. SALERNO, La Campania tra culture eneolitiche ed età del bronzo antico in<br />
D. COCCHI GENICK (ed.): L’antica età del bronzo in Italia, Firenze 1996, pp. 119-122.<br />
18- G. BAILO MODESTI, A. SALERNO, Pontecagnano II. 5. La necropoli eneolitica - L’età del Rame in<br />
Campania nei villaggi dei morti, in “AION ArchStAnt”, Quad. 11, Napoli 1998.<br />
19- G. BAILO MODESTI, Coppe a semicerchi penduli dalla necropoli di Pontecagnano, in M. BATS, B.<br />
d’AGOSTINO, Euboica - l’Eubea e la presenza euboica in Calcidica e in Occidente, Napoli 1998, pp. 369-375.<br />
20- G. BAILO MODESTI, A. SALERNO, P. TALAMO, L’Eneolitico in Campania: criteri per una definizione<br />
tipologica e terminologica del repertorio vascolare, in D. COCCHI GENIK (a cura di), Criteri di nomenclatura<br />
e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del Neolitico/Eneolitico e del<br />
Bronzo/Ferro, Atti del Congresso - Lido di Camaiore, 26-29 marzo 1998, Firenze 1999, pp. 207-215.<br />
21- G. BAILO MODESTI et Alii, Strutture morfologiche e funzionali delle classi vascolari del Bronzo Finale<br />
e della prima Età del Ferro in Italia meridionale, in D. COCCHI GENIK (a cura di), Criteri di nomenclatura<br />
e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del Neolitico/Eneolitico e del<br />
Bronzo/Ferro, Atti del Congresso - Lido di Camaiore, 26-29 marzo 1998, Firenze 1999, pp. 441- 467.<br />
22- G. BAILO MODESTI, P. GASTAL<strong>DI</strong> (a cura di), Prima di Pithecusa - i più antichi materiali greci del<br />
golfo di Salerno, Catalogo della Mostra - 29 aprile 1999, Pontecagnano Faiano, Museo Nazionale dell’Agro<br />
Picentino, Napoli 1999.<br />
23- G. BAILO MODESTI, Pontecagnano (Salerno), in E. PELLEGRINI, R. MACELLARI (a cura di), I lingotti<br />
con il segno del ramo secco – considerazioni su alcuni aspetti socio-economici nell’area etrusco-italica<br />
durante il periodo tardo arcaico, in “Biblioteca di Studi Etruschi”, 37, Pisa-Roma 2001, pp. 102-105.<br />
24- G. BAILO MODESTI, Rituali funerari eneolitici nell’Italia peninsulare: l’Italia meridionale in Atti del<br />
Convegno di Studi in onore di L. Bernabò Brea, Lipari 2000, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria,<br />
Firenze 2003, pp. 283-297.<br />
25- G. BAILO MODESTI et Alii, I santuari di Pontecagnano in Atti del Convegno Depositi votivi e culti<br />
dell’Italia Antica – dall’età arcaica a quella tardo-repubblicana, Perugia 1-4 giugno 2000.<br />
26- G. BAILO MODESTI et Alii, I santuari di Pontecagnano: paesaggio, azioni rituali e offerte in Atti del<br />
Convegno Lo spazio del rito. Santuari e culti in Italia meridionale tra indigeni e greci, Matera 27-29 giugno<br />
2002.<br />
27- G. BAILO MODESTI, P. AURINO, L’enigma della semplicità: schemi decorativi nella ceramica della<br />
cultura del Gaudo in Atti del Sesto Incontro di Studi di Preistoria e Protostoria in Etruria, Pitigliano (GR)<br />
13 settembre 2002, Valentano (VT) 14-15 settembre 2002, Milano 2004, pp. 67-81.<br />
28- G. BAILO MODESTI, Le tombe e la morte nell’Età del Rame in Campania, in F. MARTINI (a cura di):<br />
La cultura del morire nelle società preistoriche e protostoriche italiane, Firenze 2006, pp. 187-192.<br />
29- G. BAILO MODESTI 2006, Interpretare il Gaudo, Atti del Settimo Incontro di Studi di Preistorie e<br />
Protostoria in Etruria, Pitigliano (GR) 13 settembre 2004, Valentano (VT) 14-15 settembre 2004, Milano<br />
2006, pp. 447-453.<br />
30- G. BAILO MODESTI, Preistoria e Protostoria nel territorio di Paestum, 2008, in cds.<br />
- 20 -
GIANCARLO BAILO MODESTI<br />
31- G. BAILO MODESTI, A. GOBBI, Le genti delle dune e del mare, le tribù delle colline: egemonia dei<br />
centri etruschi e ristrutturazione del mondo indigeno in Campania nella seconda metà dell’VIII sec. a.C.,<br />
Atti del Nono Incontro di Studi di Preistoria e Protostoria in Etruria, Pitigliano (GR) 12 settembre 2008,<br />
Valentano (VT) 13-14 settembre 2008, in cds.<br />
32- G. BAILO MODESTI, P. AURINO, Pontecagnano (SA) - between the city and the sanctuary: the excavations<br />
along the motorway’s SA/RC extension, in “Newsletter Archeologia (CISA)”, 2009, pp. 6-21.<br />
Schede<br />
33- Schede nn. 5.9; 5.10; 5.11, in M. CRISTOFANI (a cura di), Civiltà degli Etruschi, Milano 1985, p. 131.<br />
34- Schede PC 23; PC 24-25, in G. COLONNA, L’Etruscità della Campania meridionale alla luce delle<br />
iscrizioni in AA.VV., La presenza etrusca nella Campania meridionale, Firenze 1994, pp. 376-377.<br />
35- Scheda n. 34, in M. CIPRIANI, F. LONGO (a cura di), I Greci in Occidente - Poseidonia e i Lucani,<br />
Napoli 1996, pp. 46-47.<br />
Attività di divulgazione scientifica<br />
36- G. BAILO MODESTI et Alii, La Preistoria, in Storia, Arte e Cultura della Campania, Milano 1976, pp.<br />
7-12.<br />
37- G. BAILO MODESTI et Alii, L’area tra il Sarno e il Sele, in Storia, Arte e Cultura della Campania,<br />
Milano 1976, pp. 18-22.<br />
38- G. BAILO MODESTI et Alii, Preistoria e Protostoria, in Storia della Campania, I, 1978, pp. 27-46.<br />
39- G. BAILO MODESTI et Alii, Museo Nazionale dell’Agro Picentino, Salerno 1978.<br />
40 - G. BAILO MODESTI, Le genti delle alte valli del Sele e dell’Ofanto, in Cultura materiale, Arti e<br />
Territorio in Campania, Salerno 1978, pp. 35-38.<br />
41- G. BAILO MODESTI et Alii, Pontecagnano: un centro etrusco-italico - storia ed immagini, Salerno<br />
1989.<br />
42- G. BAILO MODESTI, L’età del Ferro, in Storia Illustrata di Avellino e dell’Irpinia, I, Salerno 1996, pp.<br />
33-48.<br />
Saggi ed altri contributi<br />
43- G. BAILO MODESTI, B. d’AGOSTINO, Archeologia e Arte Classica nei manuali di Storia dell’Arte, in<br />
C. DE SETA (a cura di), Quale Storia dell’Arte, Napoli 1977, pp. 35-45.<br />
44- G. BAILO MODESTI et Alii, Parco archeologico di Pontecagnano - recupero di un ambiente urbano,<br />
Ercolano 1993.<br />
- 21 -
LUIGI PICCAR<strong>DI</strong><br />
Geomitologia ed origini geologiche del culto<br />
dell’Arcangelo Michele<br />
Relazione tenuta dall’Autore a Paestum - Venerdì 14 Novembre 2008<br />
nell’ambito del Convegno Geologia…Mito,<br />
organizzato dai Gruppi Archeologici d’Italia e dall’Associazione Italiana di Geologia e Turismo,<br />
tenutosi durante l’XI Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico.<br />
Nell’ambito della XI Borsa Mediterranea<br />
del Turismo Archeologico (Paestum,<br />
Novembre 2008), si è tenuto per il<br />
secondo anno un Convegno in collaborazione<br />
fra l’Associazione Italiana di Geologia e Turismo<br />
ed i Gruppi Archeologici d’Italia, per promuovere<br />
l’interazione fra geologia e archeologia. Tale<br />
interazione fornisce un valore aggiunto sia per<br />
un sito archeologico, dove spesso gli aspetti geologici<br />
sono poco rappresentati, che per un sito di<br />
interesse geologico, dove le implicazioni storiche<br />
consentono di ampliarne l’interesse ad un più<br />
vasto pubblico.<br />
Nel Convegno è stato affrontato in particolare<br />
lo studio delle relazioni fra geologia e mito, un<br />
campo estremamente interdisciplinare noto<br />
come ‘geomitologia’ 1 che può costituire un ulteriore<br />
contributo innovativo e rilevante, non solo<br />
per la possibilità di valorizzazione turistica e culturale<br />
del territorio, ma anche per le implicazioni<br />
ai fini della prevenzione dei rischi naturali 2 .<br />
Nello studio delle fonti storiche si arriva inevitabilmente<br />
a chiedersi dove sia il limite fra storia<br />
e leggenda. Per questo leggende e miti vengono<br />
setacciati alla ricerca di informazioni anche<br />
dai geologi, soprattutto per aree o per periodi<br />
con scarsità di notizie storiche in senso stretto.<br />
D’altro canto vi è anche un costante interesse<br />
per la compren sione del significato e delle origini<br />
dei miti, radici della nostra cultura. Finora lo<br />
studio della mitologia è rimasto appannaggio<br />
esclusivo di discipline umanistiche, quali storia,<br />
antropologia o psicologia, senz’altro le più atte<br />
a studiare il fenomeno nel suo complesso. Le<br />
fondamenta naturalistiche di gran parte della<br />
mitologia, fatto ben noto, sono state però considerate<br />
principalmente solo in termini generali,<br />
- 23 -<br />
senza tener conto del singolo caso specifico.<br />
Alle discipline umanistiche è finora mancato<br />
infatti un elemento fondamentale per poter<br />
interpretare il contenuto di quei particolari miti<br />
nei quali la base naturalistica ha un ruolo determinante,<br />
cioè la conoscenza scientifica del fenomeno<br />
naturale implicato.<br />
Quello che possiamo defïnire come lo studio<br />
geologico della mitologia è un campo emergente,<br />
di carattere fortemente interdisciplinare. E’<br />
infatti necessario avere una conoscenza sufficiente<br />
del quadro storico e culturale dell’epoca,<br />
del contesto religioso e della complessità del<br />
mito, dell’archeologia locale, del fenomeno<br />
naturale in questione e della geologia dei luoghi<br />
di ambientazione. In questi studi non si può disporre<br />
di tecniche standard che possano essere<br />
applicate indiscriminatamente. Ogni caso va<br />
valutato a sé, e in genere si ottengono risultati<br />
utili solo per alcuni casi specifici, dove le relazioni<br />
con la geologia sono chiaramente espresse<br />
e vi siano chiari ancoraggi con il territorio e<br />
con l’archeologia locale riscontrabili ancora<br />
oggi. E’ necessario risalire quanto più possibile<br />
alle fonti originarie, valutandole criticamente, ed<br />
integrando le informazioni contenute nelle<br />
diverse versioni del mito con i vari dati geologici.<br />
Infine, essendo impossibile la verifica sperimentale<br />
della fondatezza delle deduzioni fatte,<br />
si deve ricorrere ad evidenze di analisi comparativa.<br />
Mentre l’interpretazione di alcuni miti rimane<br />
ancora nel campo speculativo, in mancanza di<br />
una evidenza conclusiva, come nel caso di<br />
Atlantide o del Diluvio Universale, l’origine geologica<br />
di altri miti famosi è palese. Il titano<br />
Tifone, schiacciato da Zeus al di sotto del vulca-
no Etna, continua a scuotersi e a vomitare fiamme.<br />
La lingua di fuoco della indistruttibile<br />
Chimera, unico resto del famoso drago a tre<br />
teste, dardeggia ancora oggi sulle coste della<br />
Turchia, dove delle emissioni gassose naturali<br />
bruciano ininterrottamente da millenni. La natura<br />
eziologica di miti come questi è evidente, ma<br />
questi racconti contengono al loro interno anche<br />
memorie della evoluzione della religione locale:<br />
dall’essere orientata verso le potenze ctonie<br />
della Terra all’essere rivolta alle potenze celesti<br />
dell’Olimpo.<br />
La religione pre-olimpica era infatti dominata<br />
dalla figura della Dea Madre, la multiforme dea<br />
dai molti nomi la cui rappresentazione più sentita<br />
era quella di Gea, la Madre Terra. I culti allora<br />
non erano diretti verso l’alto, agli dei del<br />
cielo, ma verso il basso, verso la Terra, verso<br />
quegli inferi fecondi dai quali sgorgava incessantemente<br />
la vita e ai quali l’uomo ritornava<br />
dopo la morte. Non sorprende quindi che tanta<br />
attenzione sia stata data dalla mitologia primitiva<br />
proprio ai fenomeni geologici, e fra questi in<br />
particolare a quelli più impressionanti e più<br />
diret tamente in relazione col sottosuolo, come<br />
vulcani e terremoti. Tali fenomeni, che incutevano<br />
terrore e meraviglia al tempo stesso (ingredienti<br />
base della sacralità), interessavano proprio<br />
l’elemento che rappresentava il nucleo stesso<br />
di tutta l’esistenza umana: il grembo di Madre<br />
Terra, alfa e omega di ogni creatura.<br />
Alcuni miti che mantengono ancora oggi un<br />
forte aggancio con il territorio, essendo riferiti a<br />
determinati luoghi sacri ed a particolari eventi<br />
geologici, come ad esempio i terremoti, risultano<br />
più facilmente interpretabili nelle loro specifiche<br />
origini geologiche. Anche le relazioni più<br />
propriamente storiche sui terremoti non sono<br />
mai del tutto libere da un certo senso soprannaturale<br />
dell’evento. L’attribuzione di fenomeni<br />
naturali a cause soprannaturali a volte risulta<br />
essere stata operata anche coscientemente ed in<br />
maniera deliberata. Ad esempio, nella relazione<br />
sugli effetti del terremoto del 1456 l’Abate del<br />
Monastero di Santo Spirito, ubicato presso la<br />
faglia attiva di Sulmona, ammette esplicitamente<br />
la volontaria codificazione in termini religiosi di<br />
fenomeni da lui ritenuti naturali 3 . Descrivendo<br />
SALTERNUM<br />
- 24 -<br />
alcuni suoni insoliti uditi da due monaci «Di<br />
sera, circa la prima ora della notte di quel sabato<br />
che precedette il terremoto, mentre ogni cosa<br />
era immersa nel più profondo silenzio», l’Abate<br />
racconta infatti come «La mattina, avendo essi<br />
raccontato il miracolo pieni di stupore, non<br />
demmo importanza alla cosa. Ma dopo il terremoto,<br />
sebbene non ignorassi che spesso un<br />
vento sotterraneo, passando attraverso le fenditure<br />
della terra come attraverso una canna emette<br />
voci inarticolate ma melodiose, tuttavia non<br />
esitai a riferire pubblicamente che questo prodigio<br />
era stato compiuto dai santi angeli».<br />
E’ proprio dallo studio dei terremoti, in particolare<br />
dalla ricerca di testimonianze di passati<br />
eventi di fagliazione superficiale, che sono<br />
emersi risultati particolarmente interessanti per<br />
l’interpretazione geologica di alcuni miti famosi.<br />
E’ la convergenza di due principali concause<br />
che fa sì che solo oggi si possa giungere ad<br />
interpretazioni attendibili. In primo luogo il fatto<br />
che la nozione stessa di faglia sismica e di fagliazione<br />
superficiale sono concetti solo recentemente<br />
acquisiti dalla geologia. In secondo<br />
luogo, solo nell’ultimo secolo sono stati condotti<br />
diffusamente accurati scavi archeologici che<br />
hanno riportato alla luce i luoghi dell’ambientazione<br />
mitologica.<br />
In questo testo, l’esame di una serie di casi<br />
esemplari che nel loro insieme presentano una<br />
notevole coerenza 4 , mostra come le influenze<br />
geomitologiche non siano limitate a singole<br />
curiosità naturali locali, ma abbiano anche<br />
segnato profondamente la nostra cultura. Lo studio<br />
di questi casi ci permette di vedere come<br />
esista da sempre una sostanziale coincidenza fra<br />
alcuni luoghi sacri e geomiti. I principali santuari<br />
esaminati infatti spiccavano in primo luogo<br />
proprio per la singolarità dei fenomeni geologici<br />
che ospitavano, la cui interpretazione soprannaturale<br />
faceva sì che questi luoghi venissero<br />
protetti, preservati e visitati dai pellegrini, non<br />
molto diversamente dai nostri geositi o musei<br />
geologici moderni.<br />
Il caso più eclatante di questo tipo, dove è<br />
più direttamente espressa e comprensibile la<br />
relazione fra mito, geologia e archeologia, è<br />
quello del millenario Oracolo di Apollo a Delfi,
il più famoso santuario dell’antichità 5 . Delfi,<br />
ombelico del mondo, doveva la sua fama alla<br />
radicata convinzione dei contemporanei che il<br />
luogo ospitasse una voragine nella terra dalla<br />
quale esalavano vapori che invasavano la profetessa<br />
con lo spirito della divinità: della Terra<br />
all’inizio e di Apollo in seguito. Questa voragine<br />
era messa in stretta relazione con i terremoti. Era<br />
infatti assieme a Poseidone - lo scuotiterra - che<br />
Gea regnava sulla sua voragine oracolare. Ed è<br />
in seguito al terremoto scatenato dai sussulti<br />
agonizzanti del drago guardiano della voragine<br />
ed ucciso da Apollo, e dalle esalazioni provenienti<br />
dal cadavere dell’immane serpente, che si<br />
estendeva per miglia ai piedi del Monte Parnaso,<br />
lasciato ad imputridire nella voragine, che Delfi<br />
acquista il suo nome originario: Pito (pytho =<br />
putrefatto, in greco). Alcuni dicevano che il<br />
drago vivesse nella voragine stessa, altri che vi<br />
fosse lasciato da Apollo ad imputridire.<br />
Questo caso illustra anche gli effetti della<br />
scissione fra discipline umanistiche e scientifiche.<br />
L’esistenza di tale voragine è stata da sempre<br />
oggetto di dibattito fra filosofi, religiosi e<br />
storici, e la sua ricerca è stata uno degli obiettivi<br />
primari degli scavi archeologici iniziati nel<br />
1891. Poichè niente di simile fu allora riscontrato,<br />
la famosa voragine oracolare fu bollata<br />
come invenzione mitologica 6 . Dal punto di<br />
vista geologico lo stesso mito assume invece<br />
tutta un’altra prospettiva. Delfi si trova infatti<br />
sulla traccia della faglia attiva che borda le pendici<br />
del Monte Parnaso (2457 m) e la cui scarpata<br />
di faglia conserva chiare tracce di passati<br />
eventi di fagliazione superficiale. Leggende<br />
locali, tramandateci da Pausania (II sec. d.C.),<br />
descrivevano voragini che si sarebbero aperte<br />
nella terra e che avrebbero inghiottito il tempio<br />
dell’Oracolo poco avanti il VII secolo a.C., e<br />
rotture sismiche del terreno lungo la faglia di<br />
Delfi si sono verificate anche nei terremoti del<br />
373 a.C., del 551 d.C. e del 1891. La possibilità<br />
che qui un terremoto crei una voragine nella<br />
terra esalante gas solforosi (H 2 S, l’odore della<br />
putrefazione) e anidride carbonica (CO 2 ,<br />
l’ebbrezza della profetessa) appare quindi del<br />
tutto verosimile in questo scenario sismo-tettonico.<br />
La descrizione in questo luogo di una tale<br />
LUIGI PICCAR<strong>DI</strong><br />
- 25 -<br />
Fig. 1 - Solofra (AV). Statua dell’Arcangelo Michele.<br />
spaccatura sismica esalante gas potrebbe quindi<br />
risultare addirittura scontata e irrilevante, se<br />
non fosse che proprio su questo si è basato<br />
uno dei più importanti miti del passato, un santuario<br />
che ha direttamente influenzato la storia<br />
del Mediterraneo per almeno due millenni.<br />
Anche in Italia esiste un caso importante di<br />
una simile associazione fra un famoso luogo<br />
sacro, paragonabile a Delfi per importanza storica,<br />
e la locale faglia attiva: quello dell’apparizione<br />
dell’Arcangelo Michele sul Gargano, tradizionalmente<br />
datata alla fine del V sec. 7 . Il santuario<br />
di Monte Sant’Angelo, costruito sul luogo<br />
dell’apparizione, ha successivamente svolto un<br />
ruolo cruciale come propulsore della conversione<br />
dell’Europa pagana, divenendo anche la<br />
principale meta di pellegrinaggio nell’Alto<br />
Medioevo 8 . La figura altamente sincretica<br />
dell’Arcangelo guerriero, vincitore del dragone,<br />
ha infatti facilitato la conversione sia dei miti<br />
greco-romani che di quelli nordici longobardi.<br />
Le origini geologiche del santuario sono dichiarate<br />
nella leggenda, che descrive un forte terremoto<br />
associato all’apparizione, ed il successivo<br />
rinvenimento di particolari tracce nella roccia<br />
nella zona epicentrale. La descrizione degli<br />
effetti del terremoto trova chiari riscontri geologici<br />
nelle evidenze di eventi di fagliazione<br />
superficiale in prossimità del santuario lungo la<br />
traccia della faglia di Monte Sant’Angelo che fa<br />
parte del sistema di faglie attive di Mattinata. In
Fig. 2 - Polistena. Chiesa Matrice di Santa Marina Vergine, statua<br />
dell'Arcangelo.<br />
Fig. 3 - Roma,<br />
Chiesa dei<br />
Cappuccini.<br />
San Michele<br />
Arcangelo<br />
(Guido Reni,<br />
1635).<br />
base alle evidenze geologiche, si può stimare<br />
una magnitudo massima possibile di circa 6.7,<br />
superiore cioè alla 5.4 stimata per il terremoto di<br />
Mattinata del 1893, ritenuto la massima intensità<br />
macrosismica risentita in quell’area. Il terremoto<br />
SALTERNUM<br />
- 26 -<br />
riportato nella leggenda sembra quindi essere<br />
l’unica descrizione di un evento ben documentato<br />
dalle evidenze geologiche. Il catalogo sismico<br />
è d’altronde notoriamente incompleto per il<br />
periodo antecedente all’anno Mille. Il riconoscimento<br />
o meno del terremoto riportato nella leggenda<br />
come evento storico, benché con tutti i<br />
limiti connessi ad una informazione estratta<br />
dalla tradizione orale, viene quindi ad avere un<br />
peso decisivo per l’adeguata stima della pericolosità<br />
sismica dell’area, anche in considerazione<br />
del lungo periodo di quiescenza della faglia (><br />
1000 anni) rispetto a simili forti terremoti.<br />
E’ da notare che fu proprio la presenza tangibile<br />
delle tracce fisiche di quell’evento soprannaturale,<br />
cioè le ‘orme dell’Arcangelo’, ossia le<br />
spaccature nella roccia conseguenti al sisma, ad<br />
avvalorare la credibilità di questa leggenda, rendendo<br />
questo uno dei luoghi cardine della fede<br />
in epoca medievale. Pur decaduto come importanza,<br />
il santuario esiste da oltre 1500 anni e<br />
continua ad attrarre oltre un milione di visitatori<br />
all’anno.<br />
I due casi citati sopra risultano fortemente<br />
interconnessi, con un legame molto più diretto<br />
della semplice similarità iconografica fra le figure<br />
di Apollo e l’Arcangelo Michele. Entrambi i<br />
culti provengono infatti da una stessa area geografica<br />
in Asia Minore, la Frigia, ed in particolare<br />
dal bacino di Denizli. Qui, a pochi chilometri<br />
di distanza l’uno dall’altro, si trovano due siti<br />
archeologici e geomitologici di grande importanza<br />
9 . Uno è l’antica Hierapolis di Frigia, la città<br />
sacra ad Apollo, costruita sul plateau delle<br />
cascate bianche di travertino di Pamukkale, uno<br />
dei geositi più famosi del mondo. Poco a Sud di<br />
questo vi sono i resti della città di Colossae, dove<br />
sarebbe originato il culto di Michele, a seguito<br />
della sua prima e più famosa apparizione in era<br />
moderna.<br />
Hierapolis presenta la stessa associazione di<br />
elementi geologici e mitologici di Delfi, cioè la<br />
sovrapposizione di luoghi di culto della Dea<br />
madre e di Apollo in corrispondenza di una<br />
voragine nella terra esalante gas tossici, che corrisponde<br />
ad una faglia sismica. A Colossae invece<br />
il culto di Michele si sarebbe originato a<br />
seguito dei vistosi fenomeni geologici verificati-
si col terremoto che distrusse la città nel 60 d.C.<br />
Questi due siti di rilievo sono uniti fra loro dalla<br />
figura del testimone oculare dell’apparizione<br />
dell’Arcangelo Michele a Colossae: Archippo.<br />
Questi risulta essere stato un religioso proveniente<br />
da Hierapolis, apparentemente iniziato<br />
alla religione presso il tempio di Apollo, e poi<br />
successivamente formatosi a Colossae nella cultura<br />
altamente sincretica del locale culto degli<br />
angeli noto come ‘eresia Colossese’. San Paolo<br />
scrisse la sua lettera ai Colossesi proprio per<br />
combattere questa forma di adorazione degli<br />
angeli. Anche in questo caso, come per Monte<br />
Sant’Angelo, la leggenda dell’apparizione risulta<br />
fondata su precisi fenomeni geologici conseguenti<br />
al terremoto. Al tempo della proclamata<br />
apparizione la fede cristiana era arrivata a<br />
Colossae da meno di cinque anni. La leggenda<br />
mostra infatti più le caratteristiche del culto degli<br />
angeli tipico della ‘eresia Colossese’ che non<br />
della fede cristiana professata da San Paolo. Lo<br />
studio geo-mitologico consente quindi di approfondire<br />
l’esegesi dei testi sacri, non solo della<br />
leggenda paleocristiana, le cui fondamenta naturalistiche<br />
sono state poi riconosciute anche dalla<br />
Chiesa ufficiale 10 , ma anche della lettera di San<br />
Paolo ai Colossesi. La chiusura di questa lettera<br />
(Col. 4.17) contiene infatti il passaggio ritenuto<br />
il più oscuro ed enigmatico dei testi di San<br />
Paolo 11 e si riferisce proprio all’esortazione ad<br />
Archippo: «Dite ad Archippo: Considera il ministero<br />
che hai ricevuto nel Signore e vedi di compierlo<br />
bene».<br />
A Colossae, come a Delfi e Monte Sant’Angelo,<br />
è dunque possibile riconoscere ancora oggi gli<br />
elementi costitutivi della leggenda sia dal punto<br />
di vista archeologico che geologico. Lo studio dei<br />
casi qui esposti riguardanti Apollo e Michele ci<br />
mostra come alcuni dei più importanti culti del<br />
passato, che hanno influenzato la società per<br />
interi millenni, abbiano avuto le loro fondamenta<br />
proprio in eventi geologici, e proprio da questi<br />
traessero la convalidazione di base. La conoscenza<br />
di queste fondamenta geologiche rappresenta<br />
quindi un elemento di cruciale importanza non<br />
solo per la corretta comprensione dell’archeologia<br />
e della storia locale, ma anche dell’evoluzione<br />
culturale e religiosa della nostra società.<br />
LUIGI PICCAR<strong>DI</strong><br />
- 27 -<br />
A Delfi e a Monte Sant’Angelo erano infatti<br />
conservate le evidenze di fagliazione superficiale<br />
cosismica, non diversamente da quanto realizzato<br />
in tempi diversi in vari musei espressamente<br />
creati per preservare proprio parte della rottura<br />
sismica sulla faglia sismica (ad es. il Nojima<br />
Fault Museum in Giappone, a seguito del terremoto<br />
di Kobe del 1995). Hierapolis, col suo<br />
famoso Plutonium dove gli animali venivano<br />
sacrificati per soffocamento da CO2 introducendoli<br />
nella camera sotterranea dove invece i<br />
sacerdoti rimanevano illesi, non era diverso da<br />
quello che veniva mostrato nella famosa Grotta<br />
del Cane dei Campi Flegrei, una delle tappe<br />
obbligate del Grand Tour in Europa fra 1600 e<br />
1800. A Colossae, famosa già prima dell’apparizione<br />
per il lungo corso sotterraneo del fiume<br />
Lycus, era possibile osservare la voragine dovuta<br />
al crollo cosismico della volta del fiume sotterraneo<br />
per circa un chilometro, e in concomitanza<br />
del quale era stato osservato il manifestarsi<br />
di una enorme fiamma scaturita in corrispondenza<br />
della voragine «tamquam columna ignea<br />
pertingens a coelum in terra».<br />
Analoga situazione geo-mitologica si riscontra<br />
per un altro famoso mito, quello del mostro<br />
di Loch Ness. Quello che rende unico questo<br />
mito è da un lato il fatto che possiamo vivere<br />
l’esperienza diretta dell’ultimo dragone mitologico<br />
esistente (gli altri sono stati tutti ‘fatti fuori’ da<br />
schiere di eroi, santi o dei), dall’altro il fatto che<br />
si tratta di un mito paleocristiano che è stato<br />
riesumato solo di recente, negli anni Trenta. Il<br />
Loch Ness, luogo di indiscussa suggestione,<br />
sembrerebbe infatti dovere la sua fama al verificarsi<br />
di particolari fenomeni naturali legati alla<br />
presenza e all’attività della faglia della Great<br />
Glen sulla quale il lago è impostato 12 . Tali fenomeni,<br />
inusuali per gli osservatori comuni, ma del<br />
tutto comprensibili per un geologo, avrebbero<br />
generato e alimentato la credenza criptozoologica.<br />
Risalendo alla fonte originale della leggenda<br />
(Vita di S. Colomba, scritta da Adomnan, VII sec.<br />
d.C.), nella versione in latino troviamo che un<br />
forte tremore (ingenti fremitu) fu associato alla<br />
prima apparizione del mostro (VI sec. d.C.).<br />
Curiosamente anche qui, come a Monte<br />
Sant’Angelo, nessuna delle molte versioni
moderne del testo traduce correttamente il termine,<br />
riportandolo invece come ‘boato’ o ‘ruggito’.<br />
Inutile dire che l’interpretazione geologica<br />
non è stata molto apprezzata dai vari fans di<br />
Nessie.<br />
I santuari qui discussi sono collegati da uno<br />
stesso motivo di fondo, cioè il fatto che questi<br />
miti sono originati su punti particolari relazionati<br />
a faglie sismiche. Il posizionamento di luoghi<br />
sacri al di sopra delle tracce di faglie attive non<br />
sembra d’altronde essere un fenomeno isolato,<br />
NOTE<br />
1 a<br />
Sensu, VITALIANO 1973; PICCAR<strong>DI</strong> 2007.<br />
2<br />
PICCAR<strong>DI</strong> - MASSE 2007.<br />
3<br />
DELL’AQUILA 1456.<br />
4 Per una cui trattazione estesa si rimanda a precedenti<br />
lavori: PICCAR<strong>DI</strong> 1998; 2000a ; 2005: 2007b ; PICCAR<strong>DI</strong> et Alii<br />
2008.<br />
5 a<br />
PICCAR<strong>DI</strong> 2000 ; DE BOER et Alii 2001; ETIOPE et Alii 2006;<br />
PICCAR<strong>DI</strong> et Alii 2008.<br />
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Geological Congress, Rio de Janeiro.<br />
SALTERNUM<br />
- 28 -<br />
limitato a pochi casi fortuiti. Esistono numerosi<br />
casi analoghi, e sembra quindi che questa sia<br />
stata in realtà una modalità di elezione dei luoghi<br />
sacri abbastanza diffusa nell’antichità 13 .<br />
Come abbiamo visto, il loro studio può fornire<br />
contributi utili sia per la conoscenza storica e<br />
culturale dei luoghi, in modo da permettere<br />
anche una loro miglior valorizzazione turistica,<br />
che per un’adeguata stima della pericolosità<br />
sismica locale.<br />
6 PARKE - WORMELL 1956.<br />
7 PICCAR<strong>DI</strong> 1998; 2005.<br />
8 CARLETTI - OTRANTO 1994.<br />
9 PICCAR<strong>DI</strong> 2007 b .<br />
10 CARAFFA 1967.<br />
11 DUNN 1996.<br />
12 PICCAR<strong>DI</strong> 2001 a .<br />
13 PICCAR<strong>DI</strong> 2000 b ; 2001 b .<br />
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Geological Society, London, Special Publications, 273, pp. 95-<br />
105.<br />
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PAPANASTASSIOU K. - PAPANASTASSIOU D. 2008, Scent of a myth:<br />
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VITALIANO D. B. 1973, Legends of the Earth: Their Geologic<br />
Origins, Indiana University Press, Bloomington.
NICOLA FIERRO<br />
Di una iscrizione rinvenuta a Lacedonia (AV)<br />
L’epigrafe, depositata nel Museo<br />
Diocesano di S. Gerardo Maiella a<br />
Lacedonia (AV), era stata reimpiegata in<br />
epoca moderna come stipite di una finestra.<br />
Si tratta dell’iscrizione funeraria di un veterano<br />
che aveva militato nella terza coorte pretoria,<br />
databile alla fine del II o inizi del III sec. d. C.<br />
Il blocco di calcare, spezzato al centro in<br />
senso orizzontale, misura cm 47 x 47,5 x 14.<br />
L’altezza delle lettere è di cm 5. Il centro dello<br />
specchio epigrafico presenta un foro rettangolare,<br />
scalpellato in profondità, di cm 9 x 6, entro<br />
cui forse era inserito un angolo di una grossa<br />
cancellata. Questo foro, praticato nell’epigrafe,<br />
nel secondo rigo, ha tagliato a metà, in senso<br />
orizzontale, le ultime due lettere di VETERA[ni]<br />
e, nel terzo rigo, ha obliterato le ultime due lettere<br />
di MILITAV[it].<br />
Dopo un’accurata pulizia, negli ultimi tre<br />
righi dell’epigrafe sono apparse sigle di difficile<br />
lettura e interpretazione.<br />
Ecco l’iscrizione integrale:<br />
L(uci) DOMITI FORTV[nati]<br />
VETERA(ni) AVGG(ustorum) N[n(ostorum), qui]<br />
MILITAV[it] COH(orte) III [praetoria —- ]<br />
M(unicipium) AQVILONI(ae) E(x) A(uctoritate)<br />
PU(blica)<br />
DOMITI S(enatus) C(onsulto) AE(re) P(ublico)<br />
M(onumentum) D(edicavit))<br />
C(larissimo) V(iro)<br />
«Di Lucio Domizio Fortunato, veterano, il quale<br />
militò nella terza Coorte Pretoria dei nostri Augusti.<br />
Il Municipio di Aquilonia per il prestigio pubblico di<br />
Domizio, in seguito alla decisione del Senato, con<br />
denaro pubblico dedicò il monumento all’uomo<br />
illustrissimo».<br />
- 29 -<br />
Fig. 1 - Epigrafe di Lacedonia.<br />
L’epigrafe (fig. 1) inedita, ci presenta il veterano<br />
Lucio Domizio Fortunato come militante<br />
nella terza Coorte Pretoria dei due Augusti: era,<br />
in altri termini, guardia del corpo imperiale di<br />
due principi. Vediamo chi sono gli Augusti citati<br />
nell’epigrafe. Il veterano Lucio Domizio<br />
Fortunato, vissuto nell’età dei Severi (193-235<br />
d.C.), militò nella Terza Coorte Pretoria al servizio<br />
di Geta e Caracalla (211-217). Erano questi<br />
i due Augusti citati nell’epigrafe di<br />
Lacedonia. La data della morte di Lucio<br />
Domizio Fortunato, perciò, va collocata nel<br />
biennio 211-212, quando il potere era gestito<br />
ancora dai due Augusti, figli dell’imperatore<br />
Settimio Severo.<br />
Nella storia militare di Roma ciò che costituì<br />
un cambiamento radicale fu lo stanziamento<br />
permanente nella stessa città delle coorti pretorie,<br />
comandate da un prefetto agli ordini diretti<br />
dell’imperatore. Le coorti inizialmente erano<br />
nove, alle quali bisognava aggiungere altri seimila<br />
uomini, che avevano funzioni di polizia e<br />
altre sette coorti di mille uomini ciascuna, i<br />
vigiles.
Lo scopo palese degli imperatori romani era<br />
appunto questo: garantire la propria sicurezza<br />
personale e l’esercizio incontrastato del loro<br />
potere sovrano. La vita militare era di per sé un<br />
grave sacrificio. Per chi si voleva arruolare, l’età<br />
base era di venti anni. I pretoriani godevano di<br />
un trattamento economico privilegiato, che era<br />
quasi il doppio di quello dei legionari. Però<br />
l’impegno militare di servizio per i pretoriani era<br />
di sedici anni. La statura minima richiesta era di<br />
m 1,72. A questo bisognava aggiungere il divieto<br />
di matrimonio fino al congedo. La ferrea disciplina<br />
militare fu uno dei pilastri su cui si costruì<br />
e si conservò il più grande impero della storia.<br />
Nell’ambito di questa disciplina militare si svolse<br />
la carriera di Lucio Domizio Fortunato.<br />
Come è noto, Caracalla non volle dividere il<br />
potere con suo fratello: dopo averlo fatto assassinare,<br />
per calmare l’indignazione dei pretoriani<br />
aumentò la loro paga a 750 denari argentei.<br />
Lo storico Elio Spaziano ci informa che<br />
Settimio Severo (193-211), dopo aver lasciato la<br />
prima moglie, venuto a sapere che in Siria vi era<br />
una donna il cui oroscopo prediceva che sarebbe<br />
andata sposa ad un re, la fece cercare per<br />
averla in moglie. Infatti l’ottenne attraverso la<br />
mediazione di amici. Questa donna colta, Giulia<br />
Domna, intelligente e di tempra volitiva e ambiziosa,<br />
non cessò mai di consigliare e spronare il<br />
marito in tutte le sue imprese. Settimio Severo,<br />
da parte sua, non mancò mai di manifestarle una<br />
riconoscente venerazione. L’imperatore ebbe da<br />
lei due figli: Caracalla e Geta.<br />
Un’iscrizione ateniese attesta anche l’esistenza<br />
di un culto ufficiale dedicato a Giulia Domna.<br />
Sotto la sua intelligente guida, la corte imperiale<br />
di Roma pullulava di dotti giureconsulti, poeti ed<br />
eruditi. Nessuno avrebbe potuto mai immaginare<br />
che la corte del rude Severo sarebbe divenuta un<br />
centro di vita mondana e di attività intellettuale 1 .<br />
Grazie all’Imperatrice, la corte fu un centro di<br />
sincretismo culturale e religioso tra Occidente e<br />
Oriente. Infatti ella indusse il marito ad incrementare<br />
i culti orientali a Roma.<br />
In molte iscrizioni e monete è salutata con i<br />
titoli significativi di Augusta, Pia, Felix, mater<br />
patriae. Ufficialmente era denominata mater<br />
Augustorum, madre degli Augusti.<br />
SALTERNUM<br />
- 30 -<br />
Settimio Severo, finché fu in vita, condivise il<br />
potere con i suoi due figli. Il primogenito, Marco<br />
Aurelio Antonino Bassiano, introdusse in Roma<br />
la tunica gallica (caracalla), munita di cappuccio<br />
e maniche, che scendeva come una sottana<br />
fino alle caviglie. Da quest’indumento sarebbe<br />
poi derivato il suo soprannome: Caracalla.<br />
Settimio Severo nell’anno 198 d.C. indicò ufficialmente<br />
al Senato la successione dei due figli<br />
Caracalla e Geta. L’autoritario imperatore, secondo<br />
Erodiano, però era succube del suo prefetto<br />
Plauziano, che esercitava su di lui un’inspiegabile<br />
supremazia psicologica. La sfrontatezza e<br />
l’arroganza di Plauziano giungevano fino al<br />
punto di insultare e maltrattare Giulia Domna. Si<br />
attribuisce a lui anche l’uccisione di Emilio<br />
Saturnino, suo collega nella carica di prefetto, per<br />
assicurarsi l’incontrastato dominio nell’incarico.<br />
Avido, ambizioso, brutale, durante il periodo trascorso<br />
in Oriente al seguito dell’Imperatore egli<br />
avrebbe predato province e città. Rientrato in<br />
patria, assicura Dione Cassio, avrebbe fatto<br />
castrare ben cento cittadini romani di nobile<br />
nascita per poter assicurare la verginità della<br />
figlia Fulvia Plautilla andata in sposa a Caracalla.<br />
Questi, insofferente dell’autoritaria ingerenza del<br />
suocero negli affari del suo governo e della sua<br />
condotta privata, disgustato anche dal comportamento<br />
spudorato della moglie, dopo aver<br />
accusato il suocero Plauziano di un complotto ai<br />
danni di Settimio Severo, dette ordine a uno<br />
schiavo di ucciderlo. Era il 22 gennaio del 204<br />
d.C.. Plautilla, dopo la morte del padre, fu esiliata<br />
insieme al fratello nell’isola di Lipari, dove<br />
morì più tardi per ordine di Caracalla.<br />
Al posto di Plauziano fu nominato il giurista<br />
Papiniano, a cui furono attribuite vaste competenze<br />
giudiziarie. In questo periodo a Roma<br />
c’erano nove coorti pretorie: il veterano Lucio<br />
Domizio Fortunato militava nella terza Coorte,<br />
come attesta l’epigrafe.<br />
È certo, dicono gli storici contemporanei, che<br />
Caracalla attendeva con impazienza la morte del<br />
padre. Il destino non tardò ad assecondare la<br />
sua ambizione. Il vecchio e indomito Settimio<br />
Severo, mentre si accingeva in Bretagna ad<br />
intraprendere una nuova campagna contro i<br />
ribelli Calcedoni, morì improvvisamente il 4 feb-
aio del 211 d.C. Toccò al figlio Caracalla concludere<br />
le condizioni di pace e ricondurre<br />
l’esercito in Italia.<br />
La morte di Settimio Severo alimentò le ostilità,<br />
il crescente antagonismo e il sospetto tra i<br />
suoi due eredi. Il progetto di dividere l’Impero<br />
poteva forse rappresentare un tentativo di risolvere<br />
una situazione di crescente antagonismo, di<br />
continui litigi e intrighi. Davanti al Senato e alla<br />
madre Giulia Domna, Caracalla e Geta espongono<br />
i termini della ripartizione dell’impero: al<br />
primo sarebbero andate l’Europa e l’Africa, al<br />
secondo le province dell’Asia e dell’Egitto. Il<br />
Senato, sia pure a malincuore, diede il suo<br />
assenso, ma Giulia Domna contrastò con veemenza<br />
il piano divisorio.<br />
Il prestigio dell’imperatrice s’impose e la<br />
riunione si concluse con un nulla di fatto. Così<br />
si aggravò l’inconciliabilità dei due eredi di<br />
Settimio Severo. Intanto, scontri violenti accadevano<br />
continuamente fra i due fratelli: Caracalla<br />
era sempre più geloso del fratello Geta perchè<br />
questi godeva notevole stima e crescente popolarità<br />
sia nell’esercito sia nel mondo culturale del<br />
tempo.<br />
Dione Cassio attesta che Caracalla avrebbe<br />
voluto assassinare il fratello il giorno dei<br />
Saturnalia 2 , ma non era in grado di realizzare il<br />
suo piano: troppo manifesto era il suo malvagio<br />
proposito. Diversi soldati ed atleti sorvegliavano<br />
Geta giorno e notte. Caracalla allora indusse la<br />
madre ad invitarli da soli nel suo appartamento<br />
allo scopo di conciliarli. Appena Geta fu entrato,<br />
alcuni centurioni, già istruiti da Caracalla,<br />
irruppero nella stanza e l’uccisero. Eliminato il<br />
fratello, si affrettò a conquistarsi il favore dei soldati<br />
facendo spargere la voce di essere stato lui<br />
la vittima designata del complotto. Il tentativo di<br />
rivolta dei pretoriani e dei soldati della legione<br />
di Albano fu sedato con promesse di forti donativi.<br />
L’Historia Augusta narra i fatti che seguirono<br />
l’assassinio di Geta: notevole era<br />
l’indignazione e il malcontento dei soldati che<br />
avevano promesso fedeltà ai due principi.<br />
Anche Lucio Domizio Fortunato, in qualità di<br />
pretoriano, aveva promesso fedeltà agli imperatori.<br />
Egli forse fu spettatore diretto di questa<br />
vicenda.<br />
NICOLA FIERRO<br />
- 31 -<br />
Fig. 2 - Busto di Geta.<br />
Caracalla per calmare l’ira dei soldati mise in<br />
atto promesse di elargizione e una dura repressione<br />
dei sostenitori del fratello ucciso. Il giorno<br />
dopo il Senato non potè fare altro che prendere<br />
atto della morte di Geta e accettare la versione<br />
dei fatti fornita da Caracalla.<br />
Intanto, alleati e sostenitori veri e presunti di<br />
Geta vennero mandati a morte. La memoria di<br />
Geta venne cancellata e il nome fatto sparire da<br />
tutti monumenti, da luoghi pubblici e religiosi.<br />
Era la damnatio memoriae. Durante quella lotta<br />
fratricida era stato assassinato anche Papiniano,<br />
emerito giurista del tempo, amico di Geta. Un<br />
sicario, inviato da Caracalla, uccise il giurista con<br />
un colpo di scure, ma fu aspramente rimproverato<br />
dallo stesso perchè non aveva usato la<br />
spada.<br />
Ad Orvieto di recente è stato scoperto il<br />
fanum Voltumnae, il santuario federale degli<br />
Etruschi. In quest’area sacra sotto la rupe di<br />
Orvieto, durante gli scavi condotti<br />
dall’Università della stessa città, in località<br />
Campo della Fiera, è stato rinvenuto un busto di<br />
Geta (fig. 2). La ricostruzione storica di questo<br />
rinvenimento è stata fatta dall’archeologo<br />
Filippo Coarelli. Caracalla, com’è noto, aveva<br />
impartito l’ordine di distruggere tutte le immagini<br />
del fratello assassinato. Agli ordini arrivati da<br />
Roma non era consentito opporsi: il busto, ivi<br />
esistente, doveva essere distrutto.<br />
Ma nel fanum Voltumnae, qualcuno, fedele a<br />
Geta, forse un soldato o un sacerdote, seppellì il<br />
busto con molto rispetto senza danneggiarlo:<br />
collocò sotto la nuca una pietra a guisa di cuscino.<br />
Il busto di Geta, salvato da un suo oscuro<br />
partigiano, non fu spezzato o frantumato. Così è
stato trovato integro. Di questo importante rinvenimento<br />
ha dato notizia Giuseppe M. Della<br />
Fina, in un articolo, L’Imperatore cancellato,<br />
pubblicato su La Repubblica, sabato 30 agosto<br />
2008, p. 52 e nel n. 10 di Archeo, ottobre 2008,<br />
p. 12, Il fratello “scomodo” di Caracalla.<br />
L’importanza di questa inedita epigrafe, dedicata<br />
al militare Lucio Domizio Fortunato, sta nel<br />
fatto che per la prima volta nella storia si ha la<br />
testimonianza precisa che l’attuale Lacedonia in<br />
antico si chiamava Aquilonia, un centro sannitico;<br />
non è però confermato che si trattasse<br />
1 BESNIER M. 1901, L’Île tiberine dans l’antiquité, in “Rivista<br />
italiana di numismatica e scienze affini”, Paris, p. 193.<br />
SALTERNUM<br />
- 32 -<br />
dell’Aquilonia menzionata da Tito Livio (X, 38 e<br />
ss.), nota per la battaglia tra Sanniti e Romani<br />
del 293 a.C.<br />
Ad oggi autorevoli storici e studiosi dibattono<br />
sull’esistenza di due o più Aquilonia (G. Grasso)<br />
senza aver trovato la soluzione più convincente.<br />
Infatti vengono ubicate sul monte Vairano<br />
(Gianfranco De Benedittis) o sul monte S. Paolo<br />
nel comune di Colli al Volturno (Stefania<br />
Capini). Quello che risulta è che l’epigrafe inedita<br />
scoperta a Lacedonia menziona esplicitamente<br />
Aquilonia, sede di municipium in età<br />
romana.<br />
2 Festività romana in onore del dio Saturno che si svolgeva<br />
nel mese di dicembre.
L’asservimento d’uomini da parte d’altri<br />
uomini ha rappresentato per secoli e<br />
secoli, fin dagli albori dell’umanità, uno<br />
dei pilastri, forse il più importante, su cui si è<br />
fondata l’economia di tutte le società umane.<br />
Diciamo anche che, a mano a mano che le<br />
condizioni di vita progredivano, aumentando le<br />
esigenze della società e di conseguenza il<br />
fabbisogno di forza lavoro, il ricorso agli schiavi<br />
diveniva sempre più pressante. Osservando le<br />
comunità umane del passato non ne troviamo<br />
nessuna, almeno fra quelle di cui abbiamo una<br />
qualche conoscenza, in cui non ci fosse il lavoro<br />
degli schiavi ad assicurare condizioni di vita più<br />
agiata ai loro padroni.<br />
Sembra che una delle prime distinzioni fra gli<br />
uomini, se non proprio la prima, sia stata quella<br />
tra gli uomini liberi e i non liberi asserviti ai<br />
primi.<br />
Non sappiamo quando e come abbia avuto<br />
origine questa condizione umana. Certamente<br />
l’aggressività, caratteristica della nostra specie,<br />
unitamente allo spirito di affermazione e di<br />
sopraffazione, ha avuto una parte preponderante<br />
nello sviluppo e nel radicamento di questa<br />
realtà sociale, ma si può anche supporre<br />
che si sia affermata in modo quasi spontaneo,<br />
nel senso che, in seguito a scontri fra gruppi di<br />
uomini primitivi, coloro che erano stati fatti prigionieri<br />
si siano sottomessi di buon grado ai<br />
vincitori al fine di evitare più gravi conseguenze.<br />
Possiamo anche pensare che gli individui<br />
divenuti dominanti nel gruppo abbiano preteso<br />
sempre di più da quelli gerarchicamente inferiori<br />
fino a privarli della libertà. Sono tutte queste<br />
delle ipotesi che qui interessano relativamente.<br />
PIETRO CRIVELLI<br />
La schiavitù a Roma<br />
- 33 -<br />
Dalle prime notizie di cui disponiamo in<br />
forma scritta l’istituto della condizione servile di<br />
non liberi appare già da molto tempo bene<br />
affermato e consolidato: ne parlano i testi ittiti,<br />
egizi, sumerici, le tavolette fittili rinvenute a Pilo<br />
e a Cnosso, l’esame delle quali ci mostra con<br />
evidenza che la produzione dei beni era affidata<br />
ad una manodopera servile; è ripetutamente<br />
citato nel codice di Hammurabi, nel quale si<br />
determinava il risarcimento dei danni personali<br />
calcolato in modo differente secondo che il danneggiato<br />
fosse uno schiavo o un uomo libero.<br />
Accettato comunemente, né nella Bibbia né nei<br />
Vangeli troviamo il minimo accenno di riprovazione<br />
per ciò che allora sembrava essere nella<br />
società una condizione assolutamente normale,<br />
ma si avverte al più solo una compassionevole<br />
considerazione. Nella Bibbia sono contenute<br />
alcune norme relative al differente trattamento<br />
degli schiavi di stirpe israelita e di quelli appartenenti<br />
ad altri popoli: «Quando alcuno dei tuoi<br />
fratelli, Ebreo o Ebrea, si sarà venduto a te, sèrvati<br />
sei anni, e al settimo anno mandalo in libertà<br />
d’appresso a te (Dt. 15,12)». Appare evidente<br />
che l’unica limitazione imposta dalla legge<br />
ebraica è quella temporale: dopo sei anni di<br />
sfruttamento lo schiavo deve essere affrancato.<br />
Ma la norma non sembra estendersi agli schiavi<br />
non ebrei. E’ anche possibile che sia limitata a<br />
coloro che si sono venduti spontaneamente e<br />
non agli schiavi acquisiti in altro modo.<br />
Essere ridotti in schiavitù è un accidente<br />
come un altro che può capitare a chiunque. Così<br />
come nascere schiavo è un evento sul quale<br />
l’uomo non ha alcun potere allo stesso modo<br />
d’essere biondo o bruno o nascere in una famiglia<br />
ricca o povera.
La parola ‘schiavo’ evoca in noi, uomini del<br />
XXI secolo, un senso di ripugnanza,<br />
d’oppressione e di sofferenza non facile a<br />
descriversi. In quel concetto si avverte la compressione<br />
della personalità umana al punto da<br />
essere esposti a qualsiasi arbitrio senza alcuna<br />
possibilità di difesa, di essere collocati in una<br />
condizione animalesca pur conservando, e questo<br />
è l’aspetto più tragico, emozioni, sentimenti<br />
e intelletto propri dell’uomo, perché essi prescindono<br />
dall’essere schiavi o padroni.<br />
Per quanto riguarda la posizione degli schiavi<br />
a Roma sono diffuse molte convinzioni inesatte<br />
nelle quali è opportuno tentare di mettere<br />
ordine. Osserviamo per prima cosa che<br />
l’unico paragone che sembra possibile è quello<br />
con la condizione degli schiavi in Grecia per<br />
una certa somiglianza culturale fra le due società<br />
in esame. Possiamo dire subito che le condizioni<br />
in Grecia dei doùloi (schiavi, in contrapposizione<br />
ai liberi eleùteroi) erano in media<br />
meno dure di quelle esistenti a Roma, anche<br />
perché erano diverse le due economie.<br />
L’agricoltura era fatta in appezzamenti di<br />
dimensioni piccole o medie, coltivate prevalentemente<br />
dagli stessi proprietari, magari con<br />
l’aiuto di qualche servo. Lì non esistevano<br />
grandi estensioni di terreni agricoli tali da<br />
richiedere torme di personale per coltivarle.<br />
Anche per questo motivo il numero degli schiavi<br />
di sesso maschile era in Grecia di gran lunga<br />
inferiore a quello delle schiave e ciò inoltre<br />
perché, soprattutto nel periodo miceneo e poi<br />
in quello arcaico, quando una città era conquistata,<br />
gli uomini sopravvissuti al combattimento<br />
erano uccisi, mentre le donne ed i bambini<br />
erano ridotti in schiavitù. Dall’esame delle tavolette<br />
fittili rinvenute a Pilo risulta un totale di<br />
popolazione servile di circa settecentocinquanta<br />
donne oltre ad un numero equivalente di<br />
bambini di entrambi i sessi, ma non vi appare<br />
nessun uomo adulto. Una situazione particolare<br />
era quella degli Iloti a Sparta, schiavi non<br />
tanto di singoli padroni quanto di una classe<br />
cittadina superiore, quella degli Spartiati, che li<br />
aveva confinati in una condizione d’inferiorità<br />
sociale mantenendoli in uno stato continuo di<br />
terrore.<br />
SALTERNUM<br />
- 34 -<br />
Nell’età classica anche in Grecia il fabbisogno<br />
di schiavi aumenta notevolmente ma non raggiunge,<br />
né mai raggiungerà, neanche lontanamente,<br />
quello che si riscontrerà a Roma. E il<br />
numero ridotto è in qualche modo una garanzia<br />
di migliore trattamento. Sia in Grecia sia a Roma<br />
le condizioni peggiori per uno schiavo erano,<br />
come vedremo, quelle di coloro che erano<br />
impiegati nelle miniere.<br />
Un aspetto degno di riflessione è quello che<br />
riguarda gli schiavi statali (demòsioi) che in<br />
Grecia assolvevano compiti di un certo rilievo,<br />
erano utilizzati come uscieri ma anche come<br />
funzionari della pólis di grado non molto elevato,<br />
e talvolta potevano essere addirittura armati<br />
per svolgere compiti di polizia. Qualche cosa di<br />
simile accadeva anche a Roma e nelle altre città<br />
dell’Italia e dell’Impero, ove esisteva una categoria<br />
di servi publici populi Romani che erano adibiti<br />
a varie funzioni, da quelle più modeste<br />
d’inservienti addetti alle terme o alla manutenzione<br />
delle latrine pubbliche a quelle più dignitose<br />
d’assistenza ai magistrati; in questo caso si<br />
trattava ovviamente di persone di cultura piuttosto<br />
elevata o con adeguate cognizioni tecniche<br />
che spesso ricevevano una retribuzione più che<br />
apprezzabile.<br />
Diversa era anche la legislazione fondamentale<br />
dello Stato che a Roma conferiva al pater<br />
familias dei poteri particolarmente estesi: egli<br />
aveva la potestà di vita e di morte sui suoi familiares,<br />
di vendere i figli o di adottare uno schiavo,<br />
il quale diventava per conseguenza un uomo<br />
libero a tutti gli effetti. Questo era sancito dalle<br />
leggi note come delle ‘XII Tavole’, risalenti alla<br />
metà del V sec. a.C.<br />
Nel corso degli anni la posizione dello schiavo<br />
a Roma era divenuta molto più varia ed articolata<br />
di quanto non lo fosse altrove; inoltre qui<br />
egli poteva nutrire la speranza di ottenere la<br />
libertà con maggiore facilità di quanto non la<br />
potesse ragionevolmente nutrire quello greco.<br />
La condizione di ‘liberto’ era molto frequente e<br />
chi la raggiungeva si veniva a trovare in uno<br />
stato non molto dissimile da quello degli altri<br />
uomini liberi, conservando semplicemente alcuni<br />
doveri d’ossequio e l’obbligo di alcune prestazioni<br />
(operae) da fornire all’ex padrone - le
caratteristiche e l’entità delle operae erano stabilite<br />
di volta in volta nell’atto d’affrancazione -;<br />
non solo, ma i figli dei liberti divenivano cittadini<br />
romani senza alcuna limitazione, quasi che il<br />
periodo di vita servile e poi quello nella condizione<br />
di liberto del genitore siano stati una specie<br />
di apprendistato familiare alla cittadinanza<br />
romana; perciò anche il figlio dell’ex schiavo<br />
trace o siriaco o altro ancora poteva affermare<br />
con orgoglio: «civis romanus sum». Ne abbiamo<br />
conferma a Pompei ove un’iscrizione (titulus)<br />
sull’architrave all’ingresso del tempio di Iside ci<br />
informa che «N. Popidius N. f. Celsinus Aedem<br />
Isidis terrae motu conlapsam a fundamento<br />
p(ecunia) s(ua) restituit. Hunc decuriones ob<br />
liberalitatem, cum esset annorum sexs, ordini<br />
suo gratis adlegerunt» («Numerio Popidio<br />
Celsino, figlio di Numerio, ricostruì interamente,<br />
a sue spese, il tempio di Iside abbattuto dal terremoto.<br />
Per questa sua munificenza i decurioni,<br />
benché avesse solo sei anni, lo accolsero gratis<br />
nel loro ordine»). Il padre di questo piccolo<br />
benefattore si chiamava Numerio Popidio<br />
Ampliato, era un liberto, già schiavo della gens<br />
Popidia, eminente famiglia pompeiana, che,<br />
come tale, non poteva aspirare a cariche pubbliche,<br />
ma che per quelle preparava la strada al<br />
figlio. Quest’iscrizione si riferisce ad un tempo<br />
successivo al terremoto che devastò la città nell’anno<br />
63 d.C.: non sappiamo di quanto successivo,<br />
se di mesi o di anni, né se il piccolo<br />
Popidio Celsino abbia fatto in tempo ad occupare<br />
effettivamente la sua carica di decurione<br />
prima dell’eruzione del 79 che distrusse definitivamente<br />
Pompei.<br />
Un certo legame tra l’ex schiavo ed il padrone<br />
permaneva nel fatto che colui che era affrancato<br />
da un cittadino romano accedeva automaticamente<br />
alla cittadinanza, mentre quello che<br />
fosse stato affrancato da un peregrinus, cioè da<br />
un suddito libero, che però non godeva della<br />
cittadinanza, si veniva a trovare nella stessa<br />
posizione dell’ex padrone e diveniva peregrinus<br />
anche lui. Forse anche in questa norma<br />
s’intravede quell’idea di ‘apprendistato’ ipotizzata<br />
in precedenza.<br />
Viceversa, la condizione dello schiavo<br />
liberato in Grecia era più articolata e soprattutto<br />
PIETRO CRIVELLI<br />
- 35 -<br />
più dura: basta rileggere le Leggi di Platone, ove<br />
si prospetta l’idea che si possano rimettere le<br />
catene al liberto che sia venuto meno a<br />
qualcuno dei suoi doveri nei confronti dell’ex<br />
padrone, ma anche che per contrarre<br />
matrimonio dovrà fare quanto quello stabilirà<br />
per lui e perfino che non gli sarà lecito<br />
arricchirsi più di chi l’ha liberato; in tal caso la<br />
differenza sarebbe andata a vantaggio di colui<br />
che era stato, ed in parte continuava ad essere, il<br />
suo padrone. Per di più il liberto non potrà<br />
rimanere nella pólis per più di venti anni. La<br />
conclusione di quelle norme è che se qualcuno<br />
fosse risultato colpevole della violazione di una<br />
di esse doveva essere condannato a morte ed i<br />
suoi beni confiscati a vantaggio dell’erario.<br />
Normalmente il liberto greco aveva ben poche<br />
possibilità di ottenere la cittadinanza, alcune<br />
eccezioni come quelle dei banchieri Formione e<br />
Pasione debbono considerarsi come assolute<br />
rarità. Sembra che, a differenza di quanto<br />
accadeva a Roma, la preoccupazione di evitare<br />
ogni commistione della cittadinanza con<br />
elementi estranei ad essa sia stata prevalente su<br />
ogni altra considerazione. Una legge della<br />
seconda metà del V secolo a.C., forse voluta da<br />
Pericle, stabiliva che potevano essere cittadini<br />
d’Atene solo coloro che fossero stati figli di<br />
genitori entrambi ateniesi. Per questo motivo gli<br />
schiavi, normalmente non ateniesi, non<br />
avrebbero mai potuto aspirare alla cittadinanza.<br />
A Roma la cerimonia di affrancamento (manumissio)<br />
di uno schiavo avveniva sostanzialmente<br />
in due modi: la manumissio vindicta (lett. con la<br />
verga) era la forma solenne: nel corso del rito il<br />
padrone o altra persona da lui designata toccava<br />
con una verga l’uomo da affrancare, proclamandolo<br />
libero; la manumissio per testamentum o per<br />
litteram avveniva allorché la liberazione dello<br />
schiavo faceva parte delle disposizioni testamentarie<br />
lasciate dal padrone o in conseguenza di una<br />
lettera con cui questi manifestava chiaramente la<br />
volontà di affrancare il servo. A partire dal III sec.<br />
d.C. (ma forse già da prima), si trova attestata una<br />
terza pratica, la manumissio per mensam, consistente<br />
nell’invito che il padrone rivolgeva allo<br />
schiavo a prendere posto alla sua mensa rendendolo<br />
perciò suo pari 1 .
Fig. 1 - Osca (Spagna). Iscrizione col decreto di Emilio Paolo a favore<br />
degli schiavi della città.<br />
Quale fosse l’atteggiamento mentale dei<br />
Romani nei confronti dello schiavo affrancato lo<br />
si può arguire da un papiro della collezione di<br />
Ossirinco (Poxy IV, 706) risalente al 115 d.C. Vi<br />
si parla di un contenzioso fra un certo<br />
Heracleides ed un suo ex schiavo Damarion.<br />
Dai nomi si arguisce che doveva trattarsi di elementi<br />
entrambi di origine greca. Il primo accusava<br />
il secondo di avergli negato alcune prestazioni.<br />
Il convenuto non negava il fatto, ma asseriva<br />
che non era tenuto a quanto gli era richiesto<br />
in virtù del documento scritto di affrancazione,<br />
che esibiva al prefetto dell’Egitto M. Rutilius<br />
Lupus incaricato di giudicare il caso. Questi non<br />
tenne conto alcuno della prova, pure così evidente,<br />
apparendogli forse assurdo che un liberto<br />
non avesse più alcun dovere nei confronti<br />
dell’ex padrone, espresse quindi un giudizio di<br />
condanna 2 .<br />
Va anche osservato che molto difficilmente<br />
tanto in Grecia, quanto a Roma gli schiavi erano<br />
della stessa nazionalità dei padroni. Ad Atene<br />
vigeva un’antica legge - risalente a Solone,<br />
arconte in un anno compreso fra il 594 ed il 591<br />
secondo le notizie forniteci da Diogene Laerzio<br />
e da Aristotele – in forza della quale era vietato<br />
ridurre qualcuno in schiavitù per debiti 3 . A<br />
Roma, con la sola eccezione dei condannati per<br />
alcuni reati e dei debitori insolventi, la maggior<br />
parte della popolazione servile proveniva da territori<br />
considerati barbari o comunque non romani.<br />
Tuttavia anche qui con la lex Poetelia Papiria<br />
del 326 a.C. fu di fatto abolita la possibilità di<br />
ridurre in schiavitù il debitore insolvente. Fu una<br />
conquista civile di notevole importanza.<br />
SALTERNUM<br />
- 36 -<br />
Noteremo anche che Platone (La Repubblica)<br />
ed Aristotele (La Politica) erano giunti a teorizzare<br />
che alcune popolazioni erano naturalmente<br />
destinate alla schiavitù. Per Aristotele era tra<br />
l’altro la robustezza fisica dello schiavo a destinarlo<br />
‘geneticamente’ al lavoro servile.<br />
La quasi totalità della forza lavoro a Roma era<br />
costituita da manodopera servile. Questo almeno<br />
a partire dalla fine del III sec. a.C. quando<br />
l’espansione politica della città, prima nella<br />
penisola e poi nel bacino del Mediterraneo,<br />
aveva modificato profondamente l’assetto economico<br />
dell’agricoltura. I piccoli e medi proprietari<br />
furono sottratti al lavoro dei campi e costretti<br />
in armi per periodi sempre più lunghi. La conseguenza<br />
fu il passaggio di mano delle terre<br />
agricole dai coltivatori diretti, che avevano<br />
dovuto abbandonare i poderi, al grande latifondo<br />
dei patrizi, accresciuto spesso anche dall’occupazione<br />
di ager publicus (oggi diremmo di<br />
terreni demaniali) tenuto a coltura o a pascolo<br />
con l’impiego sempre più esteso di schiavi che<br />
affluivano sui mercati in quantità crescenti e<br />
conseguentemente a prezzi più accessibili, come<br />
diretto ‘prodotto’ delle guerre.<br />
A Roma, ma ancora di più in Grecia, era diffusa<br />
l’attività di alcuni imprenditori che possedevano<br />
un certo numero di schiavi da dare in affitto<br />
a chi ne avesse bisogno per periodi di tempo<br />
limitati o per lavori occasionali o stagionali e<br />
trarne quindi un reddito. Sappiamo da<br />
Senofonte (Sulle entrate 4,14) che Nicia, il generale<br />
e politico ateniese morto nel 413 a.C. a<br />
Siracusa durante la disastrosa spedizione avvenuta<br />
nel corso della guerra detta ‘del<br />
Peloponneso’, aveva dato in affitto mille schiavi,<br />
al prezzo di un obolo giornaliero ciascuno, ad<br />
un proprietario di miniere d’argento, con<br />
l’impegno da parte dell’affittuario di rimpiazzare<br />
a sue spese quelli che fossero venuti a mancare.<br />
Una clausola che è di per sé rivelatrice delle<br />
condizioni lavorative cui erano sottoposti quegli<br />
infelici.<br />
Queste considerazioni ci portano ad un primo<br />
interrogativo: come si diventava schiavi. I prigionieri<br />
di guerra rappresentavano certamente un<br />
numero molto rilevante del totale, ma c’erano<br />
anche altri modi. Già nei poemi omerici si parla
di servi come Euriclea, la nutrice di Odysseo, o<br />
Eumeo, il porcaro, entrambi di origine ragguardevole,<br />
rapiti dai pirati quando erano bambini e<br />
venduti come schiavi. Le scorrerie piratesche<br />
erano dunque, per importanza, il secondo canale<br />
di approvvigionamento. A queste due fonti si<br />
debbono aggiungere, in quantità non sappiamo<br />
quanto minore, coloro che erano ridotti in schiavitù<br />
per altre cause, come i debitori insolventi, i<br />
figli venduti, abbandonati o non riconosciuti dai<br />
padri, i condannati a pene che comportavano la<br />
perdita della libertà personale; in qualche caso<br />
accadeva che degli agricoltori che, per debiti,<br />
avevano perduto il podere, di propria iniziativa<br />
vendessero se stessi come schiavi, magari per coltivare<br />
lo stesso terreno che era prima di loro proprietà.<br />
Perdevano la libertà ma si assicuravano la<br />
sopravvivenza. Ma c’erano anche coloro che<br />
nascevano schiavi perché figli di genitori schiavi<br />
essi stessi, non importava se entrambi o solo uno.<br />
A mano a mano che si avanzava nel tempo,<br />
si affinavano i gusti e quelli che una volta erano<br />
considerati dei lussi divenivano esigenze di normale<br />
amministrazione e di conseguenza cresceva<br />
la richiesta di personale servile specializzato:<br />
se prima bastava disporre di braccia da far lavorare,<br />
ora la domanda diventava più differenziata<br />
e i prezzi di mercato aumentavano soprattutto<br />
quando si trattava di elementi con doti particolari,<br />
destinati a servire da coppieri, cuochi,<br />
camerieri, portatori di lettighe (lecticarii), ma<br />
anche come medici, architetti o grammatici.<br />
Questi ultimi erano prevalentemente di origine<br />
o cultura greca. Plinio il Vecchio (Nat. Hist. VII,<br />
128) ci riferisce che un grammatico fu pagato<br />
ben 700 mila sesterzi, una somma sbalorditiva se<br />
si pensa che normalmente a quei tempi il prezzo<br />
di uno schiavo che non avesse doti particolari<br />
si aggirava sui 2500.<br />
Il commercio degli schiavi era sorvegliato<br />
dagli aediles, i magistrati che avevano l’incarico<br />
di prendersi cura dei templi innanzi tutto, ma<br />
anche delle vie cittadine, dell’ordine pubblico,<br />
degli spettacoli, della polizia urbana e della vigilanza<br />
sui mercati. I mercanti, non diversamente<br />
da quelli che trattavano il bestiame, erano abili<br />
a nascondere i difetti della loro merce ed a farla<br />
apparire migliore di quanto fosse realmente.<br />
PIETRO CRIVELLI<br />
- 37 -<br />
Il mercato si teneva in genere nel Foro, ove i<br />
venditori esibivano la mercanzia umana su un<br />
palco in modo che tutti potessero vederla e ne<br />
decantavano i pregi. Ma nella città esistevano<br />
pure altri posti in cui si svolgeva il commercio<br />
degli articoli di lusso e qui si potevano acquistare<br />
servi di maggior pregio dei due sessi, da<br />
destinare a funzioni di rappresentanza o ad<br />
appagare i piaceri dei padroni.<br />
Ma il gran commercio degli schiavi avveniva<br />
in particolare proprio in Grecia, a Delo e, in<br />
misura leggermente minore, ad Atene ove,<br />
Fig. 2 - Aphrodisias (Turchia). Statuetta in marmo nero di giovane<br />
schiavo.
secondo quanto ci riferisce il geografo e storico<br />
Strabone, ai suoi tempi, cioè in età augustea,<br />
giornalmente si acquistavano e si vendevano<br />
migliaia di uomini.<br />
La tecnologia moderna ci fornisce i mezzi per<br />
rendere la vita più facile e soprattutto meno faticosa,<br />
ma duemila anni prima del nostro tempo<br />
la situazione era completamente differente e<br />
coloro che volevano e potevano avere<br />
un’esistenza agiata sottraendosi alle esigenze<br />
quotidiane dei lavori di casa, di quelli agricoli e<br />
di tutte le altre necessità erano costretti a ricorrere<br />
all’opera dei servi. In questo contesto sociale<br />
quanti ne possedevano solo uno o due erano<br />
classificati tra i poveri, mentre il poter ostentare<br />
una numerosa servitù costituiva una rappresentazione<br />
sociale di sé a quella proporzionata. Il<br />
poeta Orazio (Sat. I.6, v. 78) ricordando la cura<br />
che il padre, liberto, aveva messo nella sua educazione,<br />
afferma che se qualcuno avesse posto<br />
attenzione al numero dei servi che lo seguivano<br />
quando andava a scuola lo avrebbe creduto<br />
appartenente ad un ceto sociale notevolmente<br />
superiore a quello di cui faceva parte. La sua<br />
condizione di figlio di un liberto, evidentemente<br />
benestante, non gli aveva impedito di prestare<br />
il servizio militare con il grado di Tribunus<br />
militum nell’esercito di Marco Bruto a Filippi, di<br />
godere dell’amicizia di Mecenate e d’Augusto e<br />
di potersi permettere di opporre un rifiuto a<br />
quest’ultimo quando gli chiese di fargli da segretario<br />
particolare, senza che la cosa gli creasse<br />
alcun problema.<br />
Alcune fonti storiche (quali Ateneo II-III sec.<br />
d.C., l’autore de I Dipnosofisti ovvero I Sofisti a<br />
banchetto, VI, 272) ci riferiscono che molti<br />
Romani possedevano da 10 mila a 20 mila schiavi.<br />
Naturalmente solo in minima parte erano<br />
impiegati nel servizio domestico del padrone e<br />
dei familiari; si trattava di grandi proprietari terrieri<br />
che destinavano quella moltitudine alla coltivazione<br />
delle loro terre in Italia ed in Sicilia ed<br />
a tutte quelle attività accessorie che rendevano le<br />
grandi villae rusticae autosufficienti per quanto<br />
riguardava l’approvvigionamento di attrezzi da<br />
lavoro, di carri, di contenitori fittili e d’altro tipo<br />
o di mattoni; perciò in quelle trovavano impiego,<br />
oltre alla massa dei lavoratori agricoli veri e pro-<br />
SALTERNUM<br />
- 38 -<br />
pri, anche fabbri, falegnami, muratori, calderari,<br />
ceramisti, calzolai, tessitori ed ancora il personale<br />
amministrativo, i sovrintendenti, i sorveglianti,<br />
i guardiani perché la condizione servile non<br />
escludeva una gerarchia. Era anzi proprio questa<br />
gerarchia a creare per coloro che erano ai livelli<br />
inferiori le condizioni di vita più dure, perché i<br />
preposti, per ben figurare di fronte ai padroni,<br />
imponevano ai dipendenti ritmi e carichi di lavoro<br />
sempre più gravosi anche ricorrendo a mezzi<br />
coercitivi particolarmente violenti. Negli ergastula<br />
annessi alle villae rusticae gli schiavi erano<br />
tenuti rinchiusi per evitare possibili fughe, talvolta<br />
incatenati quando vi era ragione di temere che<br />
ciò potesse accadere. Plinio il Vecchio definisce<br />
questa categoria ‘uomini senza speranza’. In<br />
compenso spesso erano ben nutriti, sia perché<br />
fossero nelle condizioni fisiche più idonee per<br />
lavorare proficuamente, sia perché il nutrimento<br />
era a portata di mano. Frequentemente in queste<br />
fattorie esisteva anche una specie d’infermeria<br />
(valetudinarium), ove erano curati gli schiavi<br />
ammalati. Talvolta era presente anche un medico,<br />
spesso schiavo anche lui. Si dava così anche<br />
il giusto peso alla salute e all’igiene personale<br />
dei servi, in qualche caso mettendo a loro disposizione<br />
dei bagni (balnea), ove potessero lavarsi<br />
e anche ritemprarsi dalle fatiche. Il tutto in una<br />
visione dell’ottenimento della massima produttività.<br />
Una situazione molto peggiore era quella<br />
degli schiavi utilizzati nelle miniere: al trattamento<br />
disumano si aggiungeva l’ambiente di<br />
lavoro duro già di per sé. Se solo pensiamo che<br />
allora l’unica fonte di illuminazione artificiale<br />
era fornita da torce e lucerne è facile immaginare<br />
quale aria dovevano respirare coloro che<br />
lavoravano in miniera. Non per nulla era un<br />
lavoro al quale erano destinati, oltre gli schiavi,<br />
i condannati per delitti molto gravi. La damnatio<br />
ad metalla era una pena inferiore, forse, solo<br />
a quella di morte, la damnatio capitis. Diodoro<br />
Siculo (Bibliotheca historica V, 36-8) narra che<br />
in Spagna, nel corso dell’ultimo periodo repubblicano,<br />
gli schiavi lavoravano nelle miniere in<br />
condizioni tremende, fino a morire.<br />
Chiaramente le condizioni degli appartenenti<br />
alla familia urbana erano molto migliori:
l’aspetto dello schiavo contribuiva a dare prestigio<br />
al padrone, pertanto, soprattutto a partire<br />
dalla tarda età repubblicana, erano vestiti non di<br />
vecchi stracci, come suggeriva una volta Catone<br />
al figlio, ma con abiti più dignitosi, talvolta sfarzosi<br />
ed erano nutriti in modo adeguato.<br />
Naturalmente esistevano condizioni molto differenti<br />
in ragione delle possibilità economiche dei<br />
padroni e della loro maggiore o minore generosità<br />
o avarizia.<br />
Nell’insieme quelli che vivevano nella stessa<br />
casa del padrone erano dei privilegiati che potevano<br />
anche sperare in un futuro meno brutto di<br />
quello che avevano avanti a sé gli appartenenti<br />
alle familiae rusticae. Se questi nella migliore<br />
delle ipotesi avevano la speranza di salire solo<br />
qualche gradino nella scala gerarchica servile,<br />
gli altri potevano augurarsi anche la libertà, la<br />
manumissio. Anche per questo il trasferimento<br />
dalla casa cittadina alla campagna era da considerare<br />
un provvedimento fortemente punitivo.<br />
E’ quanto minaccia Orazio ad un suo servo<br />
eccessivamente chiacchierone: «...se non sparisci<br />
subito andrai come nono lavoratore agricolo in<br />
Sabina», («…ocyus hinc te ni rapis, accedes opera<br />
agro nona Sabino», Sat. II, 7, vv. 117-118).<br />
Le commedie di Plauto ci presentano tipi di<br />
servi furbacchioni, imbroglioni, pronti a tutto a<br />
danno del padrone, soprattutto se è un avaro,<br />
spesso in accordo con il figlio di questo.<br />
Facendo salve le esigenze della comicità teatrale,<br />
si deve però pensare che dei comportamenti<br />
piuttosto ‘liberi’ di alcuni elementi della servitù<br />
non dovessero essere del tutto insoliti.<br />
Sono prevalentemente i servi della familia<br />
urbana quelli che vanno ad ingrossare le fila dei<br />
liberti, mentre al contrario le grandi rivolte di<br />
schiavi traggono origine da coloro che erano<br />
impiegati in agricoltura od in altre attività gravose.<br />
Nel 136 a.C., in Sicilia, uno schiavo d’origine<br />
siriaca, Euno, capeggiò una rivolta che in poco<br />
tempo divenne una vera e propria guerra. In<br />
breve gli insorti raggiunsero il numero complessivo<br />
di 200 mila, anche se non tutti combattenti,<br />
e divennero padroni di tutta la Sicilia, massacrarono<br />
le popolazioni di alcune città, sconfissero<br />
un esercito romano e la lotta si protrasse per<br />
circa quattro anni. Alla fine, la ribellione fu sof-<br />
PIETRO CRIVELLI<br />
- 39 -<br />
focata nel sangue, anche se, stranamente, i<br />
Romani non infierirono eccessivamente, limitandosi<br />
per lo più a restituire gli schiavi catturati ai<br />
proprietari, che altrimenti avrebbero subito un<br />
ulteriore danno patrimoniale; anzi Euno morì in<br />
cattività, ma di morte naturale. Ma la rabbia<br />
rimase e un’altra sommossa, anche se di minore<br />
portata, avvenne nuovamente dal 104 al 101 a.C.<br />
Più pericolosa delle precedenti fu la ribellione<br />
guidata da Spartaco, che si spinse a minacciare<br />
la stessa Roma. Iniziò verso la metà del 73<br />
a.C. per opera di uno schiavo originario della<br />
Tracia, un valido guerriero, che aveva militato<br />
nelle legioni ausiliarie romane e che forse in<br />
precedenza era già stato un comandante di truppe<br />
nel suo paese d’origine; passato a servire<br />
nelle truppe ausiliarie romane, era poi finito,<br />
chissà come e perché, in schiavitù. Spartaco,<br />
proprio per la sua abilità nell’uso delle armi, era<br />
stato destinato a fare il gladiatore e condotto<br />
nella scuola di Capua; ribellatosi, fu a capo di<br />
una sollevazione che si estese a buona parte<br />
dell’Italia meridionale. I rivoltosi formarono un<br />
esercito ben armato a spese dei Romani stessi,<br />
che, ripetutamente colti di sorpresa, erano stati<br />
battuti dal Trace, il quale aveva mostrato capacità<br />
tattiche non comuni. I consoli eletti per l’anno<br />
72 a.C. si dimostrarono inferiori alle attese e<br />
assolutamente incapaci di opporsi adeguatamente<br />
ai rivoltosi che ormai avevano raggiunto<br />
il numero di 40 mila combattenti, più o meno<br />
l’equivalente di sette legioni romane, e sicuramente,<br />
a differenza dei rivoltosi di sessanta anni<br />
prima, annoveravano fra di loro un numero considerevole<br />
di soldati che erano stati fatti prigionieri<br />
nel corso delle recenti campagne di Mario,<br />
Silla e Pompeo e perciò addestrati all’uso delle<br />
armi.<br />
Spartaco marciò verso il nord Italia nell’intento<br />
di raggiungere le Alpi e di lì dare la possibilità<br />
ai ribelli di raggiungere i loro paesi d’origine.<br />
Giunse fino a Modena, ma l’odio che i suoi<br />
uomini nutrivano contro Roma era così forte e<br />
ben radicato che pretesero di essere condotti ad<br />
espugnarla. Nella circostanza egli dimostrò le<br />
doti di un vero capo, intuì subito che in quel<br />
modo non si sarebbe ottenuto nulla di buono,<br />
ma, non potendo opporsi del tutto alla volontà
dei suoi, li guidò in Lucania seguendo la costa<br />
adriatica. Il Senato finalmente comprese che il<br />
male era tale da richiedere una cura energica ed<br />
affidò la direzione della guerra, ricordata come<br />
bellum servile, ad un veterano dell’esercito di<br />
Silla: M. Licinio Crasso, il futuro triumviro, che si<br />
era già distinto nella guerra civile. Questi, con<br />
pugno di ferro, ripristinò la disciplina nelle<br />
legioni e quindi avanzò verso il nemico, che<br />
frattanto si era ritirato nel Bruzio (attuale<br />
Calabria) con l’intento di passare in Sicilia e da<br />
lì in Africa, e tentò di bloccarlo costruendo una<br />
fortificazione che dal mar Tirreno raggiungeva<br />
lo Ionio. Ancora una volta il suo avversario<br />
riuscì a sgattaiolare fuori dalla trappola per raggiungere<br />
nuovamente la Lucania e l’Apulia. Ma<br />
ora Crasso gli era addosso ed in due battaglie<br />
consecutive distrusse l’esercito dei ribelli (71<br />
a.C.). Spartaco cadde combattendo, gli schiavi<br />
sopravvissuti furono crocifissi lungo la via Appia<br />
fino alle porte di Roma, come monito per coloro<br />
che fossero stati tentati di ripetere le stesse<br />
gesta.<br />
E’ importante osservare che nella circostanza<br />
la sollevazione prese corpo tra i gladiatori e gli<br />
schiavi delle campagne, mentre fu del tutto insignificante<br />
il numero degli insorti e dei fuggitivi<br />
fra gli schiavi di città: ciò dimostra ancora una<br />
volta quanto fossero differenti le condizioni di<br />
vita tra le due categorie servili.<br />
Dobbiamo considerare indicativo il fatto che<br />
in Grecia non si siano riscontrate rivolte come<br />
quelle citate, che hanno creato non poche<br />
preoccupazioni a Roma; probabilmente ciò<br />
potrebbe confermare quanto già detto: che gli<br />
schiavi di sesso maschile non erano molto<br />
numerosi e che nel complesso le condizioni di<br />
vita a cui erano assoggettati non dovevano essere<br />
particolarmente dure.<br />
Abbiamo fin qui esaminato gli aspetti più<br />
brutti dell’esistenza degli schiavi, ma c’erano<br />
anche aspetti meno negativi, riconducibili ad un<br />
insieme di fattori. Innanzi tutto non bisogna trascurare<br />
il fatto che gli schiavi avevano un costo<br />
che, come abbiamo visto, poteva essere anche<br />
molto elevato e ciò spingeva di per sé i proprietari<br />
ad avere cura di un bene di valore.<br />
Certamente il gramaticus che era costato una<br />
SALTERNUM<br />
- 40 -<br />
cifra rilevante era trattato con ogni cura e sicuramente<br />
aveva a sua volta altri servi a disposizione<br />
per le necessità quotidiane (questi servi<br />
dei servi erano chiamati vicarii): il prezzo pagato<br />
era la migliore assicurazione e senza dubbio<br />
un suo semplice malanno normalmente trascurabile<br />
provocava al padrone una sensazione<br />
dolorosa, se non all’animo certamente alla tasca.<br />
Il valore intrinseco del servo, per funzioni o per<br />
bellezza non importa, costituiva la misura delle<br />
sue migliori o peggiori condizioni di vita. In<br />
fondo un cavallo da corsa, soprattutto se è un<br />
campione, gode di un trattamento ben diverso<br />
da quello che è destinato a tirare il carretto del<br />
fruttivendolo. E la posizione giuridica del servo<br />
è analoga a quella degli animali. Nella legislazione<br />
di molte città greche una stessa legge prende<br />
in considerazione tanto gli animali domestici<br />
quanto gli schiavi. Catone il Censore (234-148<br />
a.C.) nel suo trattato De Agricultura (56-59)<br />
parla delle razioni alimentari destinate ai servi<br />
quasi contestualmente all’alimentazione dei<br />
buoi. L’accostamento non è casuale perché<br />
effettivamente servi e buoi erano considerati<br />
sullo stesso piano: semplice forza lavoro.<br />
Domizio Ulpiano - illustre giurista romano, prefetto<br />
del pretorio sotto Alessandro Severo e<br />
morto assassinato nel 228 d.C. - autore di molte<br />
opere di dottrina giuridica, considera la fuga<br />
degli schiavi equivalente alla perdita di bestiame.<br />
Prima di lui Gaio, altro giurista romano del<br />
II sec. d.C. autore di un’opera giunta a noi molto<br />
lacunosa con il titolo di Institutiones, divide tutti<br />
gli uomini in due categorie fondamentali: liberi<br />
e schiavi ed i primi in ingenui e liberti, a seconda<br />
che fossero nati liberi o fossero stati liberati<br />
dalla schiavitù (1; 9-11).<br />
Anche coloro che erano stati destinati a combattere<br />
come gladiatori potevano sperare di salvare<br />
la pelle, magari con qualche cicatrice.<br />
Sembra che di solito quando un gladiatore avesse<br />
conseguito almeno dieci vittorie in combattimenti<br />
nell’arena venisse liberato, intascando<br />
anche un discreto gruzzolo. D’altra parte non<br />
dovevano passarsela proprio male se anche<br />
molti uomini liberi si arruolavano spontaneamente<br />
per combattere nei giochi del circo, i circenses.
I proprietari delle colonie di gladiatori investivano<br />
cifre molto alte per addestrare e mantenere<br />
convenientemente i loro combattenti ed<br />
erano restii a perderli con facilità; per questo<br />
motivo, con molta frequenza, intercorrevano<br />
degli accordi con gli organizzatori dei giochi<br />
perché le perdite umane fossero ridotte al minimo.<br />
Sappiamo che nell’anno 59 d.C., nel corso<br />
di uno spettacolo gladiatorio offerto dal senatore<br />
Livineio Regolo, scoppiò a Pompei una colossale<br />
zuffa tra Nocerini e Pompeiani, a causa<br />
della quale ci furono anche dei morti. Per conseguenza<br />
Nerone decise la ‘squalifica’ dell’anfiteatro<br />
cittadino per dieci anni. Sembra che i disordini<br />
siano stati causati da motivi politici, ignoriamo<br />
però se all’origine delle violenze popolari<br />
e come causa scatenante delle stesse non ci<br />
sia stato anche qualche accordo del tipo citato<br />
che abbia fatto inferocire gli spettatori e provocato<br />
la loro reazione.<br />
Molti gladiatori, come avviene oggi per i calciatori,<br />
quando giungevano al termine dell’attività<br />
nel circo, diventavano istruttori (lanistae)<br />
delle nuove leve destinate a sostituirli nell’arena.<br />
Questi erano considerati persone che esercitavano<br />
un mestiere spregevole, alla stessa stregua<br />
dei lenoni e anche degli attori, ma la riprovazione<br />
non si estendeva agli impresari. Tutte queste<br />
attività erano perciò affidate a schiavi od a liberti.<br />
Forse la maggioranza di coloro che morivano<br />
nei circhi era, in realtà, rappresentata dai condannati<br />
a morte mandati a combattere senza<br />
alcun addestramento preliminare e perciò destinati<br />
a soccombere di fronte ad avversari più<br />
agguerriti.<br />
Aumentando il numero degli schiavi cresceva<br />
di conseguenza quello degli affrancati, cioè dei<br />
liberti. Il passaggio dalla categoria servile a quella<br />
dei liberti poteva avvenire in vari modi. Per<br />
benevolenza del padrone, è il caso per esempio<br />
di Tirone, segretario di Cicerone, inventore di<br />
un sistema di scrittura abbreviata, una specie di<br />
stenografia, le notae tironianae. Fra i due si era<br />
stabilito un rapporto d’amicizia ed affetto e<br />
Tirone che, pur di salute cagionevole, sopravvisse<br />
di molti anni al suo ex padrone, curò anche<br />
la pubblicazione di molte opere ciceroniane, tra<br />
cui l’orazione In Verrem.<br />
PIETRO CRIVELLI<br />
- 41 -<br />
Ma lo schiavo aveva anche la possibilità di<br />
raggranellare un po’ di denaro, il cosiddetto<br />
peculium, con cui acquistare la propria libertà.<br />
Naturalmente anche in questo caso occorreva<br />
che vi fosse un atteggiamento non negativo da<br />
parte del padrone, il quale, volendo, avrebbe<br />
potuto semplicemente appropriarsi della<br />
somma, in quanto il servo, soprattutto ai tempi<br />
della Repubblica, non aveva diritti. C’era però<br />
un aspetto particolare che riguardava gli schiavi<br />
che esercitavano un’attività artigianale o professionale:<br />
il peculium con la prospettiva della<br />
libertà rappresentava un potente stimolo a lavorare<br />
di più e meglio e ciò andava a vantaggio<br />
anche del padrone, che partecipava agli utili del<br />
lavoro del suo servo. Un’altra spinta verso la<br />
concessione della libertà agli schiavi era data dal<br />
fatto che ai patrizi era fatto divieto di svolgere<br />
attività commerciali. La legge romana prevedeva<br />
che a questa categoria superiore di cittadini<br />
fosse consentito solo il reddito derivante dal<br />
possesso della terra. Forse era un modo di vincolare<br />
al territorio le persone e renderle perciò<br />
più sollecite verso la patria comune; d’altra parte<br />
non si deve dimenticare che in origine il popolo<br />
romano era un popolo di agricoltori che,<br />
anche successivamente e soprattutto nelle classi<br />
più elevate, ha conservato un legame profondo<br />
con il mondo agricolo: nomi come Agricola,<br />
Cornelio, Asinio, Porcio sono una prova di questa<br />
connessione. Fatto sta che si trovò il modo<br />
di aggirare la legge affidando la gestione degli<br />
affari commerciali ad uomini liberi, ma che conservavano<br />
pur sempre un legame con gli antichi<br />
padroni, e che, a differenza dei servi, erano abilitati<br />
ad agire a proprio nome. Molti liberti così<br />
raggiunsero condizioni economiche invidiabili e<br />
il loro stato giuridico li collocò in una posizione<br />
analoga a quella degli altri cittadini già a partire<br />
dal periodo delle guerre sannitiche: infatti nel<br />
306 a.C. la legge voluta da Fabio Rulliano li integrò<br />
come cittadini, disponendo la loro iscrizione<br />
nelle quattro tribù urbane. Con il passare del<br />
tempo la loro importanza nella città andò progressivamente<br />
accrescendosi, per raggiungere<br />
sotto l’impero un rilievo sempre maggiore.<br />
L’imperatore Claudio fece di alcuni suoi liberti<br />
(ricordiamo Narciso e Pallante) una specie di
ministri imperiali e allo stesso modo si regolarono<br />
altri imperatori; vero è che la loro fortuna era<br />
strettamente legata a quella del loro patrono ed<br />
in quei tempi non era facile che gli imperatori<br />
finissero di morte naturale. I due liberti di<br />
Claudio ora citati fecero una brutta fine per<br />
mano di Nerone. Si salvò invece un altro liberto<br />
di Claudio, Elio, che anzi fu nelle grazie di<br />
Nerone al punto che durante il viaggio di questi<br />
in Grecia ebbe l’incarico di reggere l’impero in<br />
sua vece.<br />
Con la seconda guerra punica si assistette ad<br />
un fenomeno che deve far pensare che in fondo<br />
la condizione servile in quel periodo non doveva<br />
essere particolarmente dura, perché, lungi<br />
dall’approfittare della circostanza che vedeva<br />
Roma in condizioni di gravi difficoltà, schiavi e<br />
liberti si mantennero fedeli come se fossero tutti<br />
Romani a pieno titolo, meritando di essere premiati<br />
con una legge plebiscitaria del 189 a.C.<br />
che stabilì che i figli dei liberti godessero di tutti<br />
i diritti civili al pari degli altri cittadini. Tito Livio<br />
(Hist. XXII 57) riferisce che dopo la sconfitta di<br />
Canne furono riscattati a spese dell’erario ottomila<br />
schiavi che si dichiararono disposti ad<br />
arruolarsi nell’esercito. A Roma, così come in<br />
Grecia, i non liberi erano esclusi dalla milizia.<br />
Continuando nell’esame delle condizioni di<br />
vita e giuridiche degli schiavi, è interessante<br />
osservare un caso in cui Cicerone fu avvocato di<br />
un tale Quinto Roscio. Questi era una specie<br />
d’impresario teatrale, forse un liberto, che aveva<br />
curato la preparazione all’attività scenica di uno<br />
schiavo di proprietà di un certo Fannio. Tra<br />
Roscio e Fannio si era creata una società per lo<br />
sfruttamento delle capacità teatrali dell’uomo,<br />
con una ripartizione degli utili. Un brutto giorno<br />
però lo schiavo fu ucciso. Ne seguì un contenzioso,<br />
prima con l’uccisore e poi fra i due ex<br />
soci, per la divisione del risarcimento. In tutto il<br />
dibattimento si parla di soldi, di danni subiti dall’uno<br />
o dall’altro contendente, ma del povero<br />
schiavo se ne parla come ora si parlerebbe di un<br />
veicolo coinvolto in un sinistro stradale.<br />
Con l’andare dei tempi si venne attenuando il<br />
potere assoluto del pater familias nei confronti<br />
di tutti gli appartenenti alla sua casa, la familia<br />
appunto, che comprendeva anche la servitù. La<br />
SALTERNUM<br />
- 42 -<br />
politica di Augusto introdusse gradatamente una<br />
maggiore liberalità nei rapporti fra padroni e<br />
schiavi ed un più incisivo intervento dello stato.<br />
In proposito si deve porre attenzione ad un<br />
senatusconsultum del 9 d.C., noto come<br />
Silanianum dal nome del proponente, che prevedeva<br />
la condanna a morte dello schiavo che si<br />
fosse astenuto dal soccorrere il padrone qualora<br />
questi fosse stato aggredito. La portata giuridica<br />
del provvedimento era rafforzata dal fatto che il<br />
testamento di un dominus, morto per morte violenta,<br />
non doveva essere aperto se prima non<br />
fosse stata conclusa l’inchiesta sul decesso del<br />
testante e non fossero state eseguite le eventuali<br />
sentenze di condanna. Questo nel timore che<br />
gli eredi, da un lato potessero essersi accordati<br />
con gli schiavi per accelerare l’iter successorio e<br />
da un altro potessero essere indotti a salvare i<br />
servi, anche se colpevoli, al fine di non depauperare<br />
il patrimonio. L’attenzione degli imperatori<br />
ebbe anche dei risvolti più umanitari per il<br />
trattamento degli schiavi, come la libertà accordata<br />
ope legis a coloro che fossero stati abbandonati<br />
dai proprietari perché malati o troppo<br />
vecchi per lavorare: questi rappresentavano per<br />
i loro padroni un peso inutile e l’imperatore<br />
Claudio (41-54 d.C.) dovette addirittura emanare<br />
un provvedimento di proibizione di ucciderli.<br />
Ciò significa che in precedenza era una pratica<br />
non insolita. Circa un secolo dopo fu<br />
l’imperatore Adriano (117-138) a vietare, sempre<br />
ed in ogni caso, l’uccisione degli schiavi. Infine<br />
Costantino (312-337) equiparò l’uccisione di uno<br />
schiavo all’omicidio di un libero.<br />
Contemporaneamente a queste misure umanitarie<br />
ne furono adottate anche altre repressive,<br />
per cui se uno schiavo uccideva il suo dominus<br />
dovevano essere messi a morte tutti gli altri servi<br />
della familia presenti nel luogo ove era avvenuto<br />
il delitto (Nerone aveva così riesumato e reso<br />
più dura la legge risalente al periodo augusteo):<br />
evidentemente la norma era intesa a proteggere<br />
i padroni, punendo la corresponsabilità o anche<br />
la sola indifferenza. Tuttavia la norma non<br />
dovette essere sufficiente, perché Traiano (98-<br />
117), che pure era uomo equilibrato, la estese<br />
fino a comprendervi i liberti. Poiché le leggi<br />
nascono, si formano e si sviluppano in relazio
ne a quanto accade nella società, si deve pensare<br />
che il criterio che ispirò Traiano sia nato dal<br />
fatto che anche dei liberti si fossero macchiati o<br />
resi complici di quel delitto o per sottrarsi ai<br />
residui doveri che avevano nei confronti degli<br />
ex padroni oppure per qualche altro motivo. E’<br />
pur vero che molto spesso i liberti erano crudeli<br />
e viziosi tanto più quanto più erano divenuti<br />
ricchi. Ci è giunta memoria di un tale Vedio<br />
Pollione, un liberto, che gettava gli schiavi da<br />
punire nelle vasche ove si allevavano le murene<br />
(Seneca, De Clem. I, 18, 2). Il fatto non doveva<br />
essere nella consuetudine, altrimenti Seneca non<br />
lo avrebbe ricordato, ma sicuramente manifestazioni<br />
di crudeltà si dovevano registrare con una<br />
certa frequenza e che spesso gli autori fossero<br />
degli ex schiavi si può spiegare con il desiderio,<br />
certamente riprovevole, ma in fondo miserevolmente<br />
umano, di rivalersi, non importa come e<br />
su chi, delle mortificazioni precedentemente<br />
subite. Era tuttavia naturale che tra i liberti fossero<br />
abbondantemente presenti anche personaggi<br />
poco gradevoli, ricchi sì di denaro, ma<br />
anche di volgarità e di pessimo gusto. Petronio,<br />
il raffinato arbiter elegantiarum, ci ha lasciato il<br />
divertente ritratto di Trimalcione, uno di questi<br />
buzzurri arricchiti, dal comportamento ridicolmente<br />
disgustoso.<br />
Fortunatamente non sempre le cose erano<br />
così brutte: Tacito (Hist. I, 3 ed Ann. XV, 57) ci<br />
fornisce notizie ed esempi, come quello famoso<br />
di Epicharis, in cui schiavi e liberti sopportarono<br />
le più atroci torture per difendere i padroni<br />
accusati di aver preso parte alla congiura di<br />
Pisone contro Nerone.<br />
Per comprendere meglio la vita degli schiavi<br />
a Roma nel I sec. d.C. è interessante rileggere le<br />
lettere a Lucilio di Seneca, in particolare la 47,<br />
che, mentre consiglia mitezza e tolleranza nei<br />
confronti della servitù, ci illumina anche su un<br />
aspetto particolare del problema, quello dell’inversione<br />
dei ruoli; dice il filosofo: «Quanti di<br />
questi schiavi hanno alle loro dipendenze i<br />
padroni di un tempo! Vidi stare in attesa davanti<br />
alla porta di Callisto il suo antico padrone e lui<br />
che gli aveva fatto appendere al collo il cartello<br />
di vendita e che l’aveva esposto al pubblico fra<br />
i rifiuti degli schiavi ora veniva lasciato fuori<br />
PIETRO CRIVELLI<br />
- 43 -<br />
mentre gli altri entravano». Come era potuto<br />
accadere ciò? Forse il padrone in difficoltà economiche<br />
era stato costretto a vendere gli schiavi<br />
fino a ridursi in miseria, mentre Callisto otteneva<br />
la libertà dal nuovo padrone, che sappiamo<br />
essere stato l’imperatore Caligola. Certo è<br />
che Callisto fu un altro liberto che ebbe poi<br />
importanti incarichi sotto Claudio e ciò gli diede<br />
la possibilità di vendicarsi.<br />
Sembra che Seneca, fino a quando rimase<br />
nelle grazie di Nerone, sia stato il capofila di<br />
quanti sostenevano il diritto dei servi ad un trattamento<br />
umano, in contrasto con un atteggiamento<br />
di chiusura del senato. Non sappiamo poi<br />
come il filosofo si comportasse nel privato:<br />
come si sa, era un personaggio piuttosto contraddittorio.<br />
Un altro aspetto della condizione servile era<br />
quello che consentiva allo schiavo di scegliersi<br />
una compagna tra le schiave di casa, una conserva<br />
e di vivere con lei come se fossero sposati.<br />
Questa convivenza, che si chiamava contubernium,<br />
non era riconosciuta giuridicamente<br />
ma, in fondo, era quasi sempre ben vista dai<br />
proprietari, che con la nascita di figli vedevano<br />
accresciuto il loro patrimonio. Era certamente<br />
questa una grande consolazione per chi fosse<br />
costretto a vivere nella condizione servile.<br />
Una piccola stele funeraria di marmo di età<br />
augustea recita: «NEBULLUS MARTHAE CONSER-<br />
VAE – Fleui, Martha, tuos extremo tempore casus<br />
ossaque composui. Pignus amoris habes».<br />
«NEBULLO A MARTA, COMPAGNA NELLA<br />
SCHIAVITÙ. Piansi o Marta, i dolorosi eventi dei<br />
tuoi ultimi momenti e composi le tue ossa.<br />
Ricevi questo pegno d’amore», poche commoventi<br />
parole che valgono più di un poema.<br />
Nell’età imperiale si ebbe un’ulteriore protezione<br />
per i conviventi, con il divieto di venderli<br />
separatamente.<br />
Uno dei problemi che si poneva a tutti, liberi,<br />
liberti o servi che fossero, era quello di avere<br />
alla morte un funerale decente. A parte i ricchi,<br />
per i quali la questione non esisteva, chi non<br />
poteva assicurarsi esequie dignitose quando era<br />
in vita era destinato a finire gettato in una fossa<br />
comune. Per evitare questa squallida conclusione<br />
della propria esistenza si formarono dei col-
legia funeraticia, cioè delle confraternite che<br />
avevano lo scopo di assicurare delle onoranze<br />
funebri quanto meno passabili ai propri soci, i<br />
quali pagavano al sodalizio una certa somma<br />
mensile o annuale a questo fine. A tali associazioni<br />
di tenuiores, vale a dire di persone piuttosto<br />
povere, molto spesso partecipavano anche<br />
degli schiavi, naturalmente con il consenso dei<br />
loro padroni. Anche in questo caso si deve registrare<br />
una diversità tra coloro che vivevano in<br />
città e quelli delle villae rusticae i quali, oltre ad<br />
avere incontri sporadici con i padroni, difficilmente<br />
potevano venire a contatto con quelle<br />
associazioni che erano prevalentemente cittadine.<br />
In ogni modo ci sono pervenute molte epigrafi<br />
funerarie di schiavi - come quella di cui<br />
sopra - e naturalmente ancora più di liberti.<br />
Tra gli schiavi esisteva una minoranza, esigua<br />
ma non trascurabile, che poteva dirsi benestante.<br />
Erano coloro che per conto dei padroni svolgevano<br />
lavori artigianali o comunque professionali;<br />
lo schiavo architetto, o medico o fabbro<br />
che fosse, metteva certamente la sua professionalità<br />
a disposizione del padrone, ma anche di<br />
altri, dividendo con quello i guadagni, in una<br />
sorta di società in accomandita ed il peculium<br />
così formato poteva accrescersi fino a raggiungere<br />
una cifra di un certo rilievo. Era il primo<br />
SALTERNUM<br />
Fig. 3 - Hadrumentum (Tunisia). Particolare di un mosaico con la messa in scena di una commedia, forse di<br />
Plauto, con uno schiavo incatenato.<br />
- 44 -<br />
passo per raggiungere la<br />
libertà. Non erano perciò<br />
solo i liberti che raggiungevano<br />
posizioni economiche<br />
invidiabili: molti<br />
schiavi utilizzavano il loro<br />
peculium investendolo in<br />
attività che potevano<br />
accrescerlo, anche acquistando<br />
in proprio altri<br />
schiavi. Abbiamo accennato<br />
ai vicarii: il rapporto<br />
giuridico intercorrente fra<br />
questi e lo schiavo-padrone<br />
era identico a quello<br />
esistente fra quello ed il<br />
dominus. Sesto Pomponio,<br />
giurista del II secolo, autore<br />
di un compendio di storia<br />
del diritto romano, cita<br />
il caso di uno schiavo che praticava il lenocinio<br />
facendo prostituire delle schiave acquistate col<br />
suo peculio. Il diritto consolidato dell’epoca prevedeva<br />
che i vicarii fossero proprietà dello<br />
schiavo e non del loro padrone.<br />
Un vecchio studio, basato sull’esame di molte<br />
epigrafi funerarie 4 arrivò a stabilire che gli artigiani<br />
a Roma erano così suddivisi: 27% liberi,<br />
66,75% liberti e 6,25% schiavi. Nel resto<br />
dell’Italia le percentuali diventavano rispettivamente<br />
46,25% – 52% – 1,75%. Come si può<br />
vedere, la presenza dei liberti era preponderante,<br />
ma è lecito pensare che questi svolgessero la<br />
stessa attività anche quando non erano liberi.<br />
D’altra parte la statistica prende in esame complessivamente<br />
le epigrafi che ci sono pervenute<br />
e non quelle – sarebbe stato pressoché impossibile<br />
– relative ad un determinato momento storico,<br />
per cui l’attendibilità e l’utilità del calcolo<br />
divengono praticamente irrilevanti, anche perché<br />
non è possibile sapere quanti non abbiano<br />
avuto una sepoltura corredata da una lapide e<br />
quante epigrafi siano andate perdute.<br />
La condizione servile non escludeva del<br />
tutto dalla vita pubblica; nelle città romane il<br />
quartiere aveva una sua rilevanza politica e<br />
religiosa: quella politica si esplicava nel sostegno<br />
anche robusto che gli abitanti accordavano
ai candidati alle cariche pubbliche, quella religiosa<br />
nel culto dei Lares compitales, le divinità<br />
che proteggevano il quartiere ed i suoi abitanti.<br />
Entrambe queste funzioni si esercitavano<br />
attraverso i Collegia compitalicia (il compitum<br />
era il quadrivio) che erano guidati dai magistri<br />
vici et compiti, detti anche vicomagistri, e questa<br />
funzione era affidata a personaggi che potevano<br />
essere di condizione libertina o anche<br />
servile. Non solo, altri sacerdozi minori erano<br />
aperti agli schiavi: alcune iscrizioni rinvenute a<br />
Pompei (Corpus Inscriptionum Latinarum, X,<br />
888 - 890) testimoniano, ad esempio, l’esistenza<br />
anche in quella città del collegio sacerdotale<br />
detto degli Augustales, che curava il culto del<br />
genius dell’imperatore Augusto, fra i componenti<br />
del quale erano compresi degli schiavi<br />
alla pari degli altri sacerdoti.<br />
E’ chiaro che il commercio d’uomini poteva<br />
produrre un profitto notevole; meno noto, ma<br />
importante, è che da alcune di queste transazioni<br />
commerciali, sia pure fittizie, si potevano trarre<br />
vantaggi d’altro genere. Come ormai tutti<br />
sanno, il capo di un casato, di una familia, era<br />
il paterfamilias, l’autorità del quale non era mai<br />
in discussione: si poteva perdere solo per morte<br />
o per la privazione dei diritti civili. Pure, in certe<br />
circostanze era importante che un figlio potesse<br />
acquisire una piena libertà: in tal caso l’unico<br />
mezzo legale disponibile era l’emancipatio; tuttavia<br />
quest’istituto appare solo in un secondo<br />
tempo, come derivazione laboriosa di una<br />
norma contenuta nella legge delle XII Tavole: «si<br />
pater filium ter venum duit, filius a patre libero<br />
esto». In pratica, se il padre vendeva per tre volte<br />
il figlio, questo otteneva la piena libertà.<br />
Accadeva perciò che chi intendesse emancipare<br />
un figlio lo vendeva in modo simulato ad un<br />
amico accondiscendente, il quale subito dopo lo<br />
liberava, facendolo tornare così nuovamente<br />
sotto l’autorità paterna; la vendita era poi ripetuta<br />
per altre due volte, in modo che il figlio<br />
potesse acquistare la piena libertà e divenire<br />
così il paterfamilias di un nuovo casato che<br />
poteva allearsi a quello originario nella vita pubblica<br />
o in eventuali speculazioni d’altro genere.<br />
Lo studio del fenomeno servile a Roma ci fornisce<br />
dunque molte notizie interessanti sulla vita<br />
PIETRO CRIVELLI<br />
- 45 -<br />
Fig. 4 - Schiavi al lavoro in una cava di marmo. Rilievo scultoreo.<br />
Fig. 5 - Uno schiavo porta un piatto con del cibo. Frammento di rilievo da<br />
un monumento funerario.
Fig. 6 - Statuetta in bronzo di giovane schiavo di colore, copia romana di<br />
un originale di età ellenistica.<br />
dell’epoca, un periodo di oltre mille anni nel<br />
corso del quale, tra progressi e ripensamenti, il<br />
problema posto dalla schiavitù, perché di un<br />
problema si tratta, ha tentato di trovare una<br />
soluzione che tuttavia era impossibile trovare in<br />
nessun altro modo che non fosse la sua semplice<br />
e completa abolizione. Ma l’economia di quei<br />
tempi era quasi del tutto fondata sul lavoro servile:<br />
ne conseguiva che la sua soppressione<br />
avrebbe portato inevitabilmente al collasso le<br />
città e gli stati e ciò anche prescindendo dall’egoismo<br />
delle classi dominanti. La quasi totalità<br />
degli artigiani dell’epoca era di condizione servile,<br />
mentre i liberi delle classi più povere erano<br />
per la maggior parte nullafacenti che campavano<br />
a carico dello Stato, mercé la distribuzione<br />
gratuita di vettovaglie (frumentationes). Liberare<br />
gli schiavi e contemporaneamente ricondurre la<br />
massa oziosa dei cittadini ad un’attività produttiva<br />
era un’impresa superiore alle forze di qualunque<br />
governante, pericolosa per il politico e per<br />
SALTERNUM<br />
- 46 -<br />
Fig. 7 - Collare in bronzo per schiavi.<br />
la stessa res publica: per questo motivo le cose<br />
dovevano necessariamente restare com’erano, in<br />
attesa di tempi migliori. Lo stesso Seneca che,<br />
come abbiamo visto, predicava moderazione e<br />
magnanimità nei confronti degli schiavi, non<br />
sarà neppure sfiorato dall’idea che la schiavitù<br />
potesse essere un abominio di per sé.<br />
Il sistema schiavistico nondimeno diverrà col<br />
tempo una delle cause della decadenza economica<br />
dell’Impero Romano. Arrestandosi<br />
l’espansione su nuovi territori in seguito alla<br />
progressiva diminuzione delle guerre di conquista<br />
e riducendosi l’Impero su posizioni di difesa,<br />
cesserà anche quel flusso di manodopera servile<br />
che in precedenza aveva favorito lo sviluppo<br />
dello Stato. Conseguentemente si registrerà una<br />
contrazione della parte attiva della popolazione,<br />
non compensata da un ceto di lavoratori liberi<br />
che era praticamente inesistente; i liberi disdegnavano<br />
d’impegnarsi in lavori manuali, tanto<br />
più che la loro impreparazione tecnica li avrebbe<br />
costretti facilmente ad operare alle dipendenze<br />
di maestri di condizione servile. Con queste<br />
premesse il declino economico era assolutamente<br />
inevitabile.<br />
Bisognerà attendere il tardo Medioevo perché<br />
si possa affermare che in Europa, ma solo in<br />
Europa, la schiavitù era (quasi) scomparsa.
Resisterà ancora per effetto delle razzie e degli<br />
atti di pirateria compiuti sia da parte cristiana<br />
sia araba in tutto il bacino del Mediterraneo,<br />
nonché sotto l’aspetto dei servi dominici - persone<br />
semilibere che erano nei fatti del tutto<br />
asservite, che operavano nelle corti dei signori,<br />
NOTE<br />
1 Se l’autore del Satyricon è il Petronio arbiter elegantiarum<br />
vissuto al tempo di Nerone (qualcuno ne dubita), si deve<br />
ritenere che già verso la metà del I secolo d.C. la pratica<br />
della manumissio per mensam fosse affermata, dal<br />
momento che si trova descritta nel corso della cena che<br />
Trimalcione offre ai suoi ospiti; ma è anche possibile che<br />
l’Autore abbia voluto solo presentarci un aspetto ridicolo<br />
nel comportamento dell’anfitrione.<br />
2<br />
PIATTELLI D. 1990, Tradizioni giuridiche d’Israele, Torino,<br />
p. 34.<br />
PIETRO CRIVELLI<br />
- 47 -<br />
laici o ecclesiastici che fossero - anche nei paesi<br />
di cultura germanica, donde ci viene la parola<br />
‘schiavo’ (‘sclavus’), indicante in origine (X – XI<br />
sec.) i prigionieri di guerra d’etnia slava assoggettati<br />
e commercializzati dai vincitori.<br />
3 In realtà la legge di Solone interveniva più sulle cause che<br />
sugli effetti, nel senso che vietava che si potessero contrarre<br />
debiti offrendo come garanzia la propria persona fisica<br />
(epì tois sòmasin). In tal modo l’ipotetico creditore poteva<br />
rivalersi solo sui beni del debitore ed in conseguenza era<br />
costretto ad erogare il prestito unicamente sulla valutazione<br />
di quelli. Nello stesso tempo quella legge aboliva o<br />
almeno riduceva una parte dei debiti (chreòn apocopé).<br />
4 BRUNT P. A. 1989, Il lavoro umano, in Il Mondo di Roma<br />
Imperiale, a cura di J. WACHER, vol. III, p. 199.
L’anfiteatro atinate.<br />
Lineamenti storici, epigrafici e topografici<br />
di un monumento sepolto dell’antica Atina<br />
«Fra gli altri monumenti Atinati sta anche<br />
l’Anfiteatro, ammesso dalla maggior parte degli<br />
Archeologi… E di vero, una grandiosa città<br />
come si era la nostra, guerriera sotto gli antichi<br />
dominatori, non poteva essere privata di quel<br />
pubblico luogo, dove si esercitavano gli spettacoli<br />
ed i ludi punici… Noi avremmo desiderato,<br />
e ne feci rimostranza al Municipio, che, per<br />
monumento antico del paese, lo si fosse lasciato<br />
intatto e tal quale trovavasi scavato, ma, la<br />
necessità della strada, ne lo impedì, e si dovè<br />
colmare, però senza guastarne le mura, che<br />
peraltro non arrivavano al suolo» 1 .<br />
Il narratore del passo riportato è Giovan<br />
Battista Curto, storico ed archeologo di<br />
Atena Lucana, che nel 1892 ebbe modo di<br />
osservare direttamente i notevoli resti dell’anfiteatro<br />
romano dell’antica Atina. In un periodo storico in<br />
cui le necessità di pubblico servizio innegabilmente<br />
prevalevano sugli interessi culturali, la<br />
riscoperta dell’anfiteatro di Atina non seguì<br />
l’epilogo sperato dallo storico atenese, che però<br />
ebbe a parlarne estesamente nel suo lavoro sulla<br />
propria città natale dall’età classica al periodo<br />
moderno. In virtù di quest’unica testimonianza<br />
archeologica all’interno della storia antica del<br />
Vallo di Diano, la ricerca si presenta attraente ed<br />
interessante, per via delle derivazioni di carattere<br />
ricognitivo e di riscoperta di un luogo scomparso<br />
ormai da tempo. La ricerca qui presentata 2<br />
si articola su tre punti essenziali e significativi,<br />
intercomunicanti e strettamente connessi:<br />
l’analisi delle fonti storiche, la ricostruzione<br />
metrica ed architettonica dei ruderi osservati dal<br />
Curto ed il posizionamento dell’anfiteatro all’interno<br />
del tessuto antico ed attuale di Atena<br />
Lucana. Pertanto questo studio riguarda la rac-<br />
MARCO AMBROGI<br />
- 49 -<br />
colta dei dati significativi e caratterizzanti dell’antico<br />
monumento, alla luce di un’ipotetica indagine<br />
di rilevamento stratigrafico da aerofoto, che<br />
ne accerterebbe la posizione reale.<br />
Le fonti storiche<br />
L’anfiteatro atinate, oltre a presentarsi come<br />
un’architettura monumentale antica all’interno di<br />
Atena Lucana, nelle memorie storico-archeologiche<br />
viene ricordato da vari studiosi, che a più<br />
riprese si occuparono delle vicende in età classica<br />
di Atina. La prima analisi di questo scritto,<br />
relativa alle note cronologiche sull’anfiteatro, si<br />
rivolge alle fonti bibliografiche che hanno citato<br />
o descritto il monumento. Spesso la non attenta<br />
lettura analitica e storica dell’edificio da parte di<br />
alcuni eruditi ha fatto sì che l’identificazione dell’anfiteatro<br />
non apparisse certa e definita, confondendolo<br />
più volte con il teatro romano, che<br />
pure ha lasciato traccia nel tessuto urbano della<br />
cittadina. Tra le prime fonti autorevoli,<br />
Costantino Gatta ci offre una sintesi descrittiva,<br />
di certo attinta da autori precedenti, ma particolarmente<br />
valida per l’attendibilità storica dello<br />
studioso:<br />
«Il dilei territorio [Sala Consilina], che per miglia<br />
otto s’estende, da occidente confina con Atena,<br />
di cui come celebre luogo ne fa Plinio onorata<br />
memoria, e ben si può credere essere stati ne’<br />
gli antichi tempi prodi e generosi li dilei popoli,<br />
per scernersi ivi, ancora al presente ne’ sobborghi<br />
di detta Terra le reliquie di magnifico<br />
anfiteatro d’opera laterizia, come altresì perchè<br />
vi si veggono scolpite in marmi memorie di<br />
famiglie illustri dell’ordine patrizio, e vi<br />
s’osservano innumerabili vestigie di caduta<br />
grandezza» 3 .
Il Gatta, a cui hanno attinto anche altri studiosi<br />
successivamente, rimane una fonte certa, perché<br />
residente nel paese contiguo di Sala, con<br />
evidente conoscenza diretta della cittadina atenese.<br />
L’osservazione delle vestigia, in questo caso,<br />
denota un riferimento alquanto puntuale per la<br />
localizzazione dell’anfiteatro: i sobborghi della<br />
cittadina, che ai tempi dello storico (come per<br />
SALTERNUM<br />
Fig. 1 - Atena Lucana, veduta da Oriente; sulla sinistra l’area dell’anfiteatro (Borgo).<br />
Fig. 2 - Atena Lucana dall’alto (da Google Earth).<br />
- 50 -<br />
quasi tutto l’Ottocento) coincidevano con gli ultimi<br />
palazzotti e le abitazioni rurali del Borgo.<br />
Sulla scorta dell’erudito salese, il barone<br />
Giuseppe Antonimi, pur non confermando la<br />
presenza della struttura ludica di età romana,<br />
riporta nel suo scritto l’esistenza dell’iscrizione<br />
che fa riferimento all’anfiteatro 4 e di cui meglio si<br />
parla in seguito. Nell’Ottocento la fortuna degli<br />
studi sulle antichità classiche portò numerosi studiosi<br />
ed eruditi più o meno noti a soffermarsi,<br />
anche se brevemente, sull’anfiteatro di Atena;<br />
uno di questi fu il Romanelli 5 , che offrì la seguente<br />
versione:<br />
«Tutto il suo recinto presenta tuttavia gli avanzi<br />
delle mura, da cui veniva circondato, e nel<br />
sito del così detto Borgo restano pur oggi gli<br />
avanzi del suo anfiteatro…» 6<br />
Ed in seguito riprese il Giustiniani:<br />
«Ella [Atena] fu antica città dei Lucani, e di qualche<br />
grandezza, e distinzione, come attestano i<br />
ruderi di molte speciose fabbriche, che vi
erano ne’ vecchi tempi, e specialmente quelli,<br />
che credonsi i fondamenti del suo anfiteatro di<br />
figura ovale» 7 .<br />
L’Albi-Rosa, erudito locale frequentemente<br />
ripreso negli studi riferiti al Vallo di Diano quale<br />
voce attendibile dell’ambito geografico, ampliò<br />
la citazione con i riferimenti epigrafici:<br />
«Tutti i geografi dell’antichità ne han fatto chiara<br />
menzione, parlando pure dei suoi Templi,<br />
dell’anfiteatro, delle feste, dei giuochi, e del<br />
conio numismatico… Divenuto Atena Romano<br />
Municipio essendovi una lapide rinvenuta sui<br />
ruderi dell’anfiteatro vicino alla casa De<br />
Marino, che mostra un segno di devozione al<br />
genio del Municipio Atenate…» 8 .<br />
Il Corcia nel suo studio sul Regno delle Due<br />
Sicilie non mancò di riportare un breve passo<br />
sull’antico monumento:<br />
«…si può supporre nondimeno che fosse allora<br />
[Atina] in qualche splendore, perché senza<br />
attribuirle la palestra, non è dubbio ch’ebbe un<br />
anfiteatro, ed è noto non solo da’ ruderi che ne<br />
rimangono con quelli della città nel piano sotto<br />
l’odierna terra di Atena, nel sinistro lato della<br />
Valle di Diano, ma anche da questa mutila epigrafe…»<br />
9 .<br />
La vicenda della diretta osservazione delle<br />
vestigia dell’anfiteatro non poteva sfuggire allo<br />
storico teggianese Stefano Macchiaroli, pur se<br />
egli nel resoconto su Atena si riferisce espressamente<br />
al teatro, e non all’anfiteatro:<br />
«Ove giace attualmente Atena, vi era probabilmente<br />
un teatro della prisca Atina, la quale, a<br />
quel che pare, era sita nel piano a piè del<br />
monte, dove la tradizione popolare la vuole, e<br />
dove, i ruderi, e gli oggetti antichi che si sono<br />
scavati e si disseppelliscono tuttora, ne rendono<br />
indubitata testimonianza” 10 .<br />
È probabile che il Macchiaroli abbia attinto<br />
all’Eterni, che pure parlò, anche se in modo confuso,<br />
di teatro romano 11 . Incertezza ripresa da un<br />
dizionario storico di fine Ottocento:<br />
“In quei tempi [Atena] ebbe monete proprie e<br />
contava molti pregiati edifizii, fra i quali primeggiavano<br />
un superbo tempio dedicato a<br />
MARCO AMBROGI<br />
- 51 -<br />
Giunone Petilia, come rilevasi dalle lapidi, con<br />
iscrizioni ivi scoperte, ed un teatro od anfiteatro,<br />
i cui ruderi veggonsi ancora oggidì vicino<br />
alla Croce al Borgo.” 12<br />
Ancora sul cadere del secolo 13 e prima dei<br />
rilievi del Curto, un altro erudito lucano, Michele<br />
Lacava, si soffermò sulla storia di Atena in antichità:<br />
«Di edifizii pubblici, le iscrizioni non parlano;<br />
ma naturalmente la città, dovè avere teatri ed<br />
anfiteatri, il foro, le terme, e pubblici condotti<br />
di acqua» 14.<br />
In realtà il Lacava appare ricognitore<br />
d’antichità più intenzionato a smentire le leggendarie<br />
origini dell’antico nome di Atena che a rilevarne<br />
attentamente le vestigia; in questo caso<br />
commette l’errore di confondere ancora una<br />
volta la presenza del teatro con l’anfiteatro.<br />
Infatti in un passo del suo scritto riporta:<br />
Fig. 3 - Atena Lucana con lo sfondo del Vallo di Diano.<br />
Fig. 4 - Atena Lucana, veduta aerea del Largo Borgo-Braida (da Google<br />
Earth).
Fig. 5 - La Braida di Atena Lucana, sulla sin. l’area dell’anfiteatro.<br />
«Vestigia di antichi edifizii – Un edifizio, possibilmente<br />
teatro, dovè esistere nell’area che si<br />
distende dall’angolo orientale della casa<br />
Marino, ad andare verso la cappella di S.<br />
Giuseppe Murano.<br />
Con grande probabilità vi fu un anfiteatro, ove<br />
è l’attuale piazza Vittorio Emmanuele, scoverto<br />
con lo scavo delle fondazioni della casa<br />
Caporale, nel 1866» 15 .<br />
Pur volendo ammettere che le strutture successivamente<br />
osservate dal Curto fossero di un<br />
teatro, anziché di un anfiteatro, resterebbe da<br />
esaminare l’ipotesi di un’ulteriore struttura ludica<br />
(in questo caso dell’anfiteatro) in un’area prossima<br />
(la piazza Vittorio Emanuele) al Largo Borgo-<br />
Braida; però nessun altro studioso ne fa menzione.<br />
Le ipotesi di un ritrovamento archeologico<br />
nel tracciare le fondazioni della casa Caporale<br />
riportano, secondo il Curto, ad un tempio pagano<br />
dedicato a Giove 16 . Si presenta qui una chiara<br />
discordanza tra quanto asserito dai due maggiori<br />
studiosi di Atina: mentre il Lacava annota il<br />
rinvenimento dell’anfiteatro a seguito dello scavo<br />
di fondazione della casa Caporale nel 1866, il<br />
Curto invece narra che nello stesso anno il sito<br />
su cui insisteva la croce su colonna (il Largo<br />
Borgo-Braida) posta sui resti dell’anfiteatro, fu<br />
‘appianato’ dal maggiore Pessolani. La nota discordante<br />
sui due edifici dell’antica Atina riportata<br />
dal Lacava appare ancora più evidente dai<br />
passi stampati nell’ultima parte del suo volume,<br />
che citano le memorie antiche di Atena Lucana,<br />
tra cui l’anfiteatro. Da un antico manoscritto 17 , di<br />
cui l’autore non fornisce dettagli precisi della collocazione<br />
archivistica, si rileva che:<br />
«Ove oggi dicesi il Borgo, eravi un nobile e<br />
sontuoso anfiteatro, che serviva per la celebra-<br />
SALTERNUM<br />
- 52 -<br />
zione di pubblici spettacoli, che si facevano in<br />
quegli antichi tempi: che ciò sia vero, non solo<br />
si rileva da pochi segni, che pur ora, vi si veggono,<br />
ma ancora giova qui riportare una iscrizione<br />
trovata in un marmo, che tra gl’altri molti<br />
va disperso ne’ poderi Atenesi» 18 .<br />
Non vi è dubbio che la memoria a noi più<br />
vicina, e probabilmente la più autentica nella<br />
puntuale descrizione, sia quella del Curto. Egli<br />
nella cronaca sulle scoperte di Atena antica<br />
riserva particolare attenzione all’anfiteatro, segno<br />
che la ricognizione diretta delle strutture<br />
superstiti fu accompagnata da un ipotetico rilievo<br />
metrico e descrittivo:<br />
“Oltre a che, ultimamente, nel 1892, dovette il<br />
Municipio attuare la strada Borgo-Braida, e,<br />
nello scavamento uscì per intero a luce<br />
l’Anfiteatro, consistendo in due paralleli semicircolari<br />
muraglioni, per otto metri l’uno distante<br />
dall’altro, racchiudenti un’area capiente per<br />
migliaia di persone, e della spessezza ognuno<br />
oltre a due metri; il primo alto circa 40 palmi, ed<br />
intorno tutto finestroni alla metà dell’altura di<br />
esso, da cui, mediante grossi gradoni, si discendeva<br />
nell’area; ed il secondo di minore spessezza,<br />
era costruito tutto ad archi fino al suolo,<br />
sotto i quali corrispondevano i gradoni, che partivano<br />
dai finestroni del primo muro. Insomma<br />
l’anfiteatro occupava l’intera piana largura o<br />
piazzale che ora si trova innanzi al palazzo<br />
Marino e tira fino alla Cappella di S. Giuseppe<br />
ed alle case Mango; e la sua area o suolo era<br />
costruita a selciato di ben connesse e regolate<br />
pietre, da sembrare ordinario mosaico.” 19 .<br />
Lo studioso atenese porse le sue rimostranze<br />
al Municipio locale per la conservazione del<br />
monumento, ma la sua richiesta non ebbe seguito;<br />
il Curto annota successivamente dei preziosi<br />
riferimenti di carattere storico, congruenti con<br />
l’attuale toponomastica:<br />
«Forse all’epoca in cui, cioè nel medio Evo,<br />
l’Anfiteatro non agiva più, era stato rovistato,<br />
per cui niente più si vedeva conservato, di fossetti,<br />
colonnato ed altro.<br />
Proprio dove corrispondeva il centro dell’area,<br />
nei primi secoli del cristianesimo, per<br />
un’antichissima Bolla Pontificia, riportata dalla
Storia Ecclesiastica del Corbacher e da noi<br />
riscontrata, l’allora antico Municipio vi eresse<br />
sopra tre circolari e grandi gradoni di pietra,<br />
una colonna a croce di finissimo marmo, bene<br />
architettata e così connessa da sfidare i secoli,<br />
a base della quale grandissima croce, l’effigie<br />
di Atteone con l’iscrizione: Ego sum Acteon<br />
ecc., allora favoloso emblema Municipale.<br />
Imperocchè la Bolla prescriveva che, dovunque<br />
fossero stati anfiteatri, si avesse dovuto<br />
impiantare la Croce; ed in Atena, a cominciare<br />
dall’anno 500 circa dell’Era volgare, vi rimase<br />
fino al 1866, quando venne tolta, e fatto appianare<br />
quel sito, sotto il Sindacato del Maggiore<br />
Giuseppemaria Pessolani, uno dei mille di<br />
Marsala.<br />
Sicchè, a conchiudere, abbiamo la dimostrazione<br />
indubbia, avere avuto anche l’Anfiteatro<br />
l’antica nostra Atina» 20 .<br />
Un punto fermo sul quale si è generato il<br />
dubbio tra gli scrittori antichi se si fosse trattato<br />
di teatro o anfiteatro, si traspone nella reale presenza<br />
degli edifici entrambi collocati all’interno<br />
della forma urbis di Atina in epoca romana. A tal<br />
proposito viene in ausilio all’argomento nuovamente<br />
il Curto:<br />
«Evvi chi vi ammettè il solo Anfiteatro, chi l’uno<br />
e l’altro, cioè Teatro e Anfiteatro; e non poteva<br />
mancare in una tanto grandiosa città come<br />
Atina» 21 .<br />
Circa un decennio dopo la stampa del volume<br />
di Giovan Battista Curto, il Giliberti, attento<br />
descrittore delle antichità del Vallo di Diano,<br />
confermò quanto detto dal primo erudito:<br />
«Fra gli altri monumenti Atena ebbe anche<br />
l’anfiteatro, ammesso da quasi tutti gli archeologi<br />
ed una iscrizione lapidaria, venuta a luce, ne<br />
fa fede. Ed infatti, una città grandiosa e guerriera<br />
non poteva essere priva di un luogo dove si<br />
esercitavano i ludi gladiatorii. Nel 1882 riattando<br />
il Municipio la strada Borgo, che conduce<br />
alla Braida, nello scavare uscirono interamente<br />
a luce i ruderi dell’anfiteatro, consistenti in due<br />
muraglioni semicircolari paralleli, racchiudenti<br />
un’area capiente per migliaia di persone» 22 .<br />
MARCO AMBROGI<br />
- 53 -<br />
Fig. 6 - Atena Lucana, lo stemma di Atteone con il tronco di colonna<br />
marmorea.<br />
Fig. 7 - Atena Lucana, Largo Garibaldi ove è collocato lo stemma di<br />
Atteone, con tronco di colonna marmorea.<br />
In realtà il Giliberti non fa che ripetere testualmente<br />
ed in forma abbreviata quanto asserito dal<br />
Curto, ma pur se di testimonianza secondaria<br />
trattasi, val la pena ricordare che la dovizia di<br />
ricerca del Giliberti porta conferma alle tesi del<br />
Curto, che allo stato attuale risultano le più<br />
accreditate e veritiere. Ciò al fine di dare sostegno<br />
all’ipotesi che di anfiteatro si debba parlare<br />
più che di teatro, ciò stante la confusione dell’esistenza<br />
nel medesimo punto topografico dell’u-
Fig. 8 - Atena Lucana, Largo Borgo-Braida (disegno dell’Autore). A sin. la<br />
cappella del Purgatorio.<br />
na o dell’altra struttura, entrambe di carattere teatrale.<br />
L’eco delle note di Curto, ma certamente<br />
più dello scavo di fine Ottocento effettuato nel<br />
Borgo, contribuì alla diffusione tra gli storici dell’epoca<br />
della ripresa d’interesse attenta ed analitica<br />
sulle antichità atenesi, dopo alcuni decenni<br />
d’abbandono. Il Racioppi nella sua opera sulla<br />
Lucania antica, a proposito dell’anfiteatro, riporta<br />
le seguenti parole:<br />
«Ivi [Atena Lucana] sono ancora le reliquie di<br />
antiche costruzioni, tra cui si riconoscono le<br />
vestigia d’un anfiteatro» 23 .<br />
A conclusione del breve sunto sulle testimonianze<br />
storiche del Sette-Ottocento, possiamo<br />
affermare con certezza che l’anfiteatro ad Atena<br />
ci fosse.<br />
Queste basi di carattere storiografico pongono<br />
ancor di più l’attenzione su un importante<br />
monumento e sulla reale consistenza dei suoi<br />
ruderi.<br />
Fonti epigrafiche false<br />
Lo studio di un’antica architettura non può<br />
prescindere dall’analisi delle fonti epigrafiche,<br />
siano esse attendibili o meno. Nel caso delle<br />
iscrizioni atenesi, si assiste ad un ampio e ricco<br />
repertorio (tra l’altro molto variegato ed assortito<br />
sulla tipologia e sul significato delle stesse) di<br />
epigrafi celebrative, funerarie e dedicatorie, tra<br />
cui due si possono riferire all’anfiteatro. Ma, pur<br />
essendo riportate da più eruditi (antichi e moderni)<br />
ed epigrafisti, le fonti incise su pietra, ad<br />
SALTERNUM<br />
- 54 -<br />
un’analisi approfondita, sono risultate false. Il<br />
Curto nella parte terza del suo studio su Atena<br />
antica 24 , traduce i versi di una dedica ad un gladiatore:<br />
«CAFFIUS BIS CONF<br />
ENSE POMPONII<br />
HIC STAT<br />
ALBA UXOR T.F.F.<br />
(Caffio due volte trafitto/ Dalla spada di<br />
Pomponio/ Qui riposa/ Sua moglie Alba mise<br />
l’urna).<br />
Note storiche.<br />
Questa epigrafe può dirsi storica e mortuaria,<br />
perché ricorda un defunto a causa dei giuochi<br />
gladiatori nell’Anfiteatro Atinate.<br />
Caffio e Pomponio erano due servi della patria,<br />
per cui fatti discendere all’arena nell’Anfiteatro,<br />
a spettacolo d’una principale solennità di<br />
quell’Atinate popolo. Quale sia stata questa festa<br />
solenne non risulta; ma era costume degli antichi<br />
popoli, in festevoli occasioni, il certame nel<br />
circo, fra gli altri barbari divertimenti.<br />
Pomponio fu il vittorioso, e, in premio, n’ebbe<br />
la manomissione. Caffio fu lo sconfitto, e morto<br />
per doppio ferimento di spada, e la moglie Alba<br />
innalzogli l’epigrafe e la tomba, vicino<br />
all’Anfiteatro.<br />
L’epoca dell’avvenimento risale all’incremento<br />
dei Lucani, e precede i primi due secoli di<br />
Roma.<br />
Quest’epigrafe è riportata da Antonini, Albirosa,<br />
Gatta ed altri, sebbene il Mommsen la reputasse<br />
apocrifa, senz’addurne la ragione.<br />
Stava fabbricata nel muro esterno della Taverna<br />
del Principe in sull’abitato, dove noi, insieme<br />
all’archeologo Pecori di Salerno, la leggemmo,<br />
pria che il tremuoto del 1857 facesse cadere la<br />
Taverna, e ridurre la detta epigrafe in frantumi» 25 .<br />
Un’altra iscrizione del seguente tenore:<br />
LVCIVS X . L . MILES R<br />
P . HONORIB . GEN<br />
MVN . SVB<br />
AMPHITEA - - - - -<br />
R . F . P . P
anch’essa falsa, secondo gli studi del Bracco 26 , fu<br />
ascritta al corpus atinate, insieme alla prima, da<br />
altri studiosi dell’antichità, tra i quali l’Antonini<br />
(che osservava a suo tempo entrambe le epigrafi<br />
sui muri delle case dei signori Deliunettis, successivamente<br />
Cicchetti) 27 . L’appartenenza alle<br />
dediche celebrative non attendibili 28 non inficia il<br />
discorso sulla presenza stessa dell’anfiteatro di<br />
Atena Lucana 29 , pur se la probabilità (per rimanere<br />
in ambito di incertezza rispetto alle recenti<br />
acquisizioni di falsità delle epigrafi) che queste<br />
fossero state architettate ad hoc dal primo studioso<br />
che le analizzò, sembra alquanto sostenibile.<br />
In un’epoca in cui il senso di appartenenza alle<br />
proprie radici e il persistente attaccamento al<br />
municipalismo influenzava decisamente gli scritti<br />
degli autori locali, rimarcare la storia e<br />
l’esistenza di monumenti di età classica della<br />
propria cittadina serviva quasi ad offrire vigore<br />
all’amor patrio. Di certo non possiamo affermare<br />
con esattezza che le iscrizioni siano del tutto<br />
false (non essendo visibili e non potendo accertare<br />
l’assoluta fedeltà di chi le ha studiate).<br />
Deduzioni ed ipotesi ricostruttiva<br />
L’anfiteatro di Atena, come gli altri edifici di<br />
questo genere, era destinato a duelli tra gladiatori<br />
e a venationes, cioè alla cattura di animali feroci<br />
con relativo combattimento tra uomini e<br />
bestie. I giochi, ad Atina, con molta probabilità<br />
venivano organizzati in occasione di funerali (i<br />
cosiddetti munera) con cerimonie celebrate per<br />
rendere onore alla memoria dei defunti. In seguito<br />
divennero lo spettacolo preferito dai Romani<br />
con l’usanza diffusa da parte di cittadini ricchi e<br />
desiderosi di onori di assumersi molte delle<br />
spese occorrenti agli spettacoli altrimenti spettanti<br />
alle città; di conseguenza il favore del pubblico<br />
fece dei giochi gladiatori uno strumento di<br />
propaganda politico-elettorale per la classe dirigente.<br />
In un territorio ove l’occupazione militare<br />
romana non era stata ben vista dagli indigeni (si<br />
pensi alla massiccia utilizzazione della centuriazione<br />
per l’intero territorio del Vallo di Diano), il<br />
divertimento ludico del teatro e dell’anfiteatro fu<br />
un pretesto per i cittadini romani trapiantati in<br />
loco per attirarsi la simpatia della gente locale.<br />
MARCO AMBROGI<br />
- 55 -<br />
Figg. 9 - 10 - 11 - Fasi costruttive di un anfiteatro romano (disegni<br />
dell’Autore).<br />
Un elemento alquanto usuale che caratterizza<br />
i maggiori monumenti antichi di Atina, tra cui<br />
l’anfiteatro, è la presenza della pietra quale materiale<br />
da costruzione, in un’area (il Vallo di Diano<br />
e la Lucania) ove i reperti di epoca romana<br />
riconducono il più delle volte all’utilizzo massiccio<br />
della stessa, sia per le opere pubbliche che<br />
per le abitazioni rurali e cittadine. Non abbiamo<br />
però riferimenti certi circa le componenti dell’ossatura<br />
strutturale del monumento, se fosse costituita<br />
da laterizi (dei quali pure parla il Curto a
Fig. 12 - L’anfiteatro di Grumentum (disegno dell’Autore).<br />
Fig. 13 - Atena Lucana, la cappella di San Giuseppe al Borgo.<br />
proposito di altri monumenti dell’antica Atina),<br />
oppure da opus caementicium, con il quale si<br />
presenta invece il corpo centrale del Mausoleo di<br />
Caio Utiano Rufo a Polla, unica struttura di età<br />
romana di una certa mole tuttora visibile nell’area<br />
valligiana. Per simili tipologie di anfiteatro in<br />
area campano-lucana si assiste ad un proliferare<br />
dell’uso dell’opus reticulatum e dell’opus latericium<br />
con cui erano strutturate le ossature portanti<br />
dei monumenti pubblici e privati.<br />
L’anfiteatro dell’antica Capua è costituito da<br />
un’arena circondata da tre ordini di fasce di mattoni<br />
rivestiti di marmo e travertino, che testimonia<br />
il doppio utilizzo di materiali: meno nobili<br />
per le strutture, di elevato pregio (marmorei o di<br />
travertino) invece per i paramenti. Per quanto<br />
riguarda l’anfiteatro di Venosa, sappiamo che fu<br />
costruito (come per la maggior parte di questi<br />
edifici) in zona periferica rispetto all’abitato, per<br />
permettervi un maggior flusso dei materiali edilizi<br />
da costruzione e per facilitare l’accesso degli<br />
SALTERNUM<br />
- 56 -<br />
spettatori provenienti dalle zone rurali. Le strutture<br />
primarie dell’edificio sono state realizzate in<br />
opus reticulatum con utilizzo di cubilia dai 6 agli<br />
8 cm, ciò soprattutto nelle sostruzioni del primo<br />
anello; le strutture murarie di un probabile<br />
restauro del monumento sono invece eseguite in<br />
diverse tecniche edilizie, tra cui prevale l’utilizzo<br />
del laterizio e di pietre calcaree irregolari con<br />
faccia più o meno lisciata messa di taglio 30 .<br />
Analoga situazione si rileva a Grumentum, con<br />
l’utilizzo consistente dell’opus reticulatum.<br />
Quanto all’individuazione topografica dell’anfiteatro<br />
nella parte periferica della città, ancora<br />
una volta la somiglianza con Grumentum appare<br />
evidente; qui, per la costruzione, venne scelta<br />
l’estremità a Nord-Est dell’impianto urbano, sia<br />
per sfruttare il dislivello esistente tra le terrazze<br />
morfologiche del sito, sia per facilitare l’afflusso<br />
e il deflusso degli spettatori, senza intralciare la<br />
circolazione all’interno della città 31 . Ad Atena<br />
Lucana invece il sito dell’anfiteatro è posto a<br />
Sud-Est rispetto al nucleo abitato indigeno, nel<br />
vasto pianoro su cui si ampliò la primitiva cittadina<br />
in età romana. In quest’area ed in quelle<br />
prossime si addensano infatti sia i ritrovamenti<br />
che le descrizioni storiche sulla presenza di<br />
numerosi edifici pubblici e privati, dalle terme ai<br />
templi e alle dimore aristocratiche.<br />
Se le fonti storiche dei secoli XVIII e XIX<br />
costituiscono una valida base per analizzare la<br />
presenza a vista dell’anfiteatro, dalla sua costruzione<br />
ai lavori della metà Ottocento, la descrizione<br />
del Curto rimane l’unica ‘voce’ a cui poter<br />
attenersi al fine di ricostruire l’aspetto, la struttura<br />
e le dimensioni dell’anfiteatro atinate. I due<br />
paralleli muraglioni semicircolari osservati dall’erudito<br />
atenese dovrebbero coincidere con le<br />
strutture portanti dell’anfiteatro stesso e la misura<br />
in altezza del primo (il più esterno quasi certamente)<br />
pari a circa 40 palmi, ossia intorno ai<br />
dieci metri 32 , lascia supporre che le sostruzioni<br />
del monumento riconducano ad un’architettura<br />
di età classica ben conservata, pur sepolta per<br />
metà della sua area sotto le attuali abitazioni. Se<br />
così fosse, l’anfiteatro di Atina costituirebbe uno<br />
dei reperti meglio conservati della Lucania antica<br />
e del territorio a Sud di Salerno. Un termine di<br />
paragone, sul quale ‘testare’ le misure dell’anfi
teatro atinate per verificarne l’attendibilità, si<br />
ritrova ancora una volta nel monumento di<br />
Grumentum; è evidente il parallelismo non solo<br />
per la vicinanza delle due città romane, ma<br />
anche per la verosimile medesima importanza<br />
che le stesse ricoprivano all’interno della Lucania<br />
classica. Oserei dire, stessa importanza politicoeconomica,<br />
stessa tipologia di edifici, per cui se<br />
il primo assunto (ai quali gli storici hanno già<br />
dato affermativa risposta) fosse vero, ne scaturirebbe<br />
la validità del secondo. Un’analisi attenta<br />
dell’anfiteatro di Grumentum secondo i parametri<br />
metrici e costruttivi trova corrispondenza nelle<br />
misure rilevate dal Curto; infatti la distanza tra i<br />
due muri ossia quello esterno (largo proprio due<br />
metri circa e provvisto di contrafforti) e l’altro<br />
interno che sorregge il corridoio anulare (di<br />
minore spessore) è di otto metri e gli stessi muraglioni<br />
sono strutturati ad arcature, secondo la<br />
tipologia riservata a tali strutture. In effetti i due<br />
muri osservati dal Curto si identificavano con le<br />
sostruzioni della cavea, di cui lo stesso ha potuto<br />
vedere i grossi gradoni che scendevano nell’area<br />
e i finestroni. Si faccia attenzione però che le<br />
parole dello studioso atenese contengono<br />
comunque delle incertezze descrittive, rilevabili<br />
ad esempio dalla confusione sulla misura del<br />
secondo muro (vicino al corridoio anulare), che<br />
in prima analisi accomuna al primo nella profondità<br />
e poi specifica esser di minore spessore.<br />
Incerta appare la definizione dell’area costruita a<br />
selciato, anche se l’ipotesi più probabile è che si<br />
tratti dell’arena, la cui tessitura pavimentale poteva<br />
dare l’effetto del mosaico, se vista da lontano<br />
(di contro le gradinate potevano essere in blocchi<br />
di pietra o al limite in opus caementicium).<br />
Una simile supposizione trova conferma nell’anfiteatro<br />
nocerino, ove uno degli ambulacri presenta<br />
il piano di calpestio in opus signinum ossia<br />
in un impasto di cubetti minuscoli di marmo e<br />
pietre con l’utilizzo di pozzolana e sabbia.<br />
Analizzando la struttura dell’anfiteatro di<br />
Grumentum risalta il rispetto dei canoni classici<br />
dell’architettura assegnati a questa tipologia con<br />
i quattro ingressi principali, dei quali due riservati<br />
alle autorità e gli altri varcati dalle persone più<br />
ragguardevoli; i restanti accessi (diagonali) erano<br />
utilizzati dalla plebe. In questa disposizione si<br />
MARCO AMBROGI<br />
- 57 -<br />
rende evidente come gli ingressi, nel processo<br />
cronologico di disfacimento della struttura attraverso<br />
i secoli, siano le parti più labili ed esposte<br />
al crollo; tale riferimento potrebbe confermare<br />
l’ipotesi, più avanti esposta, che le differenze di<br />
quota intorno all’ellisse dell’anfiteatro di Atena<br />
corrispondano esattamente a queste parti dell’antica<br />
architettura. L’anfiteatro grumentino si è<br />
strutturato in origine in una forma che solo in<br />
apparenza è ellittica: in realtà è la risultante di<br />
una successione di spezzate ad angoli ottusi 33 . È<br />
da notare infine, che pur presentandosi simile ai<br />
grandi anfiteatri di età imperiale, l’impianto si<br />
compone di un’arena priva di ambienti ipogei,<br />
mentre la stessa è circoscritta da un corridoio<br />
anulare ricoperto da una pseudo-volta a pseudobotte.<br />
La sua struttura portante è caratterizzata<br />
inoltre da due sistemi costruttivi diversi, con gradinate<br />
che appoggiano direttamente sui vani di<br />
sostruzione 34 . Dagli ingressi principali accedevano<br />
all’arena i gladiatori, ossia dai vani posti sull’asse<br />
maggiore oppure dal corridoio anulare<br />
interno; i percorsi per il pubblico erano distinti<br />
in accessi alle gradinate e al podio, a cui si perveniva<br />
dalle scalinate a due rampe disposte a<br />
raggiera lungo l’anello ellittico 35 . La mancanza<br />
delle complesse strutture di sostruzioni, utilizzate<br />
come ambienti di servizio o per la custodia<br />
degli animali (tipiche di anfiteatri quali Pozzuoli,<br />
Capua o lo stesso Colosseo), rimanda ad un<br />
periodo anteriore allo sviluppo massiccio di questo<br />
tipo di costruzioni (in modo simile all’anfiteatro<br />
di Nola). Le evidenti somiglianze tecnicocostruttive<br />
tra gli anfiteatri di Grumentum ed<br />
Atina fanno supporre un identico ambito cronologico.<br />
L’erronea confusione con il teatro<br />
Pur se i riferimenti descrittivi ed eruditi riconducono<br />
per maggior voce alla presenza di un<br />
anfiteatro e non di un teatro nell’area del Largo<br />
Borgo-Braida, per dovere d’esattezza bisogna<br />
spendere qualche riga sulla confusione generatasi<br />
nel tempo tra la presenza dell’uno o dell’altro<br />
monumento 36 . Una distinzione precisa può essere<br />
elaborata alla luce di due fattori di carattere<br />
architettonico e topografico: innanzi tutto la<br />
struttura portante di un teatro differisce, anche se
non vistosamente, da quella di un anfiteatro.<br />
Infatti, in quest’ultimo i setti portanti radiali sono<br />
intervallati da murature ortogonali con un passo<br />
maggiore di quegli otto metri rivelati dal Curto.<br />
L’altro elemento che smentisce l’ipotesi che si<br />
tratti di un teatro viene dalla situazione altimetrica<br />
dell’area Borgo-Braida, che si presenta con un<br />
pianoro alla medesima quota, di forma ovoidale.<br />
La presenza di un teatro avrebbe definito un’area<br />
di colmatura a semicerchio, ove l’interruzione<br />
della stessa sarebbe stata ascrivibile alla presenza<br />
della scena; tale colmatura a semicerchio in<br />
effetti non è rinvenibile nell’altimetria e nelle<br />
tracce visibili dall’alto del sito di Largo Borgo-<br />
Braida. Infine, se di teatro si fosse trattato, il<br />
Curto ne avrebbe almeno visto parte della terminazione<br />
rettilinea della scena, dato che il suo<br />
testo narra di un monumento emerso durante lo<br />
scavo «per intero a luce». Su questa ultima nota è<br />
evidente la dissonanza dal reale intendimento<br />
dell’erudito atinate; infatti il monumento non<br />
poteva di certo essere visto per intero in un’area<br />
limitata come la piazzetta antistante il palazzo<br />
Marino; in questo caso la descrizione del Curto<br />
allude al visibile accertamento di una struttura di<br />
anfiteatro, con il rinvenimento di differenti parti<br />
delle gradinate in due punti distinti ed opposti<br />
della via, ossia sul sagrato della cappella di San<br />
Giuseppe e davanti alle case dei Mango. In ogni<br />
caso l’incontrovertibile ‘narrazione’ di Giovan<br />
Battista Curto segna un passo notevole nella<br />
riscoperta dell’antico monumento di Atina.<br />
La ‘Croce al Borgo’: un indizio prezioso<br />
Un termine di riferimento da non scartare<br />
nello studio dell’anfiteatro atinate è la presenza<br />
dell’antica croce astile una tempo infissa nel terreno<br />
al centro del Largo antistante palazzo<br />
Marino. Del riferimento della croce su colonna<br />
abbiamo due testimonianze particolari: l’una di<br />
carattere toponomastico, riferita alla presenza<br />
della ‘Via Stretta della Croce’, che si diparte in<br />
direzione sud-est dal Largo Borgo e che segna<br />
inequivocabilmente l’antica presenza in loco di<br />
un ‘segnacolo’ religioso; l’altra di carattere monumentale,<br />
con l’attuale collocazione in Largo<br />
Garibaldi di uno rilievo rappresentante Atteone,<br />
risalente al XVIII secolo, sormontato da un tron-<br />
SALTERNUM<br />
- 58 -<br />
co di colonna in marmo di Carrara. Nella descrizione<br />
dei lavori operati sotto l’amministrazione<br />
di Giuseppe Maria Pessolani 37 , e riportata dal<br />
Curto 38 , si afferma che la croce di «finissimo<br />
marmo» sopra una colonna era posta al centro<br />
dell’arena, bene architettata e connessa da sfidare<br />
i secoli. Non sappiamo se il tronco di colonna<br />
in marmo di Carrara (di grana fine e di provenienza<br />
da cave di prima scelta) che attualmente<br />
è sostenuto dalla base con stemma settecentesco<br />
di Atteone possa essere una modesta reliquia di<br />
quell’antico ‘segnacolo’ dei primi Cristiani di<br />
Atena, ma la connessione con lo stemma civico<br />
(attuale gonfalone comunale) pur se di fattura<br />
tardo barocca, ne potrebbe convalidare l’ipotesi.<br />
Nulla però sappiamo della «grandissima croce»,<br />
che venne rimossa insieme alla sottostante<br />
colonna con gradoni di pietra, anche se una<br />
ricerca d’archivio approfondita potrebbe rivelarne<br />
indizi favorevoli, dato che la rimozione<br />
avvenne nell’anno 1866. Di certo in età medievale<br />
l’anfiteatro costituì una vera e propria cava di<br />
pietra, con sistematico saccheggio degli elementi<br />
architettonici ed il successivo reimpiego in edifici<br />
sacri e civili; tanto più che il posizionamento<br />
della croce sull’arena costituiva quasi una legittimazione<br />
per la religiosa popolazione locale alla<br />
spoliazione dell’antico monumento. Sappiamo<br />
dalle note di Luca Mandelli 39 che Atena fu distrutta<br />
da Alarico, il quale<br />
«atterrò quanto di grandioso vi era nella scorreria<br />
che fece da Roma a Reggio… sicchè appena<br />
vi si ravvisano i vestigi, di un magnifico teatro,<br />
nel quale solevano gli antichi ragunarsi per<br />
celebrarvi gli spettacoli e feste».<br />
Localizzazione topografica<br />
All’esame delle fonti storiche, della tradizione<br />
locale e dell’attenta descrizione di Giovan<br />
Battista Curto, si evidenzia che la localizzazione<br />
topografica dell’anfiteatro sia ben delineata nella<br />
piana antistante il palazzo Marino 40 , anche se<br />
un’indagine fotometrica dall’alto secondo le<br />
recenti tecnologie per il rilievo di strutture nel<br />
sottosuolo potrebbe definire con certezza la puntuale<br />
traccia dell’ellissi del grande monumento.<br />
Nello studio di altri anfiteatri sepolti in Italia e nel
esto del mondo romano, si evidenzia una traccia<br />
costante a cui potersi affidare, in ambito<br />
urbano, per la determinazione delle strutture dell’architettura<br />
ludica: la curvatura o perimetrazione<br />
ellissoidale di alcune abitazioni o strutture<br />
edilizie. Senza affrontare argomenti di carattere<br />
più ampio, sulle sovrapposizioni medievali a<br />
monumenti di età classica (quali la piazza di<br />
Lucca sulle rovine dell’anfiteatro o situazioni<br />
simili), dal rilevamento di tracce di ellissoidi sul<br />
terreno da fotografie aeree si può esaminare una<br />
ricca serie di similitudini. È noto il caso di<br />
Ancona ove solamente una piccola parte del<br />
perimetro del monumento viene marcata dalla<br />
presenza di un gruppo di edifici che ne segue<br />
l’andamento in curvatura, mentre altre costruzioni<br />
vicine, o si presentano ‘estranee’ alla traccia<br />
del perimetro ellissoidale o ne riportano discosto<br />
il parallelismo. Per rimanere in area campana,<br />
basti confrontare l’addensamento edilizio di<br />
Nocera Inferiore sull’area dell’anfiteatro, del<br />
quale si riconosce l’andamento osservando la<br />
disposizione curvilinea delle case sul lato meridionale,<br />
l’andamento curvo della via<br />
Portaromana nel tratto in cui lambisce l’ellissoide<br />
ad Est, e ad Occidente, ove l’andamento ricurvo<br />
del muro del giardino del Convento francescano<br />
di Santa Maria degli Angeli conferma quanto<br />
prima riportato 41 .<br />
Ad Atena Lucana, osservando in prima analisi<br />
il tessuto urbano, emerge con chiarezza che<br />
tutta l’area alle spalle della cappella delle Anime<br />
del Purgatorio (posta nel largo antistante il<br />
palazzo Marino) si presenta in forma frammentaria,<br />
con piccole particelle edilizie, che si dispongono<br />
a ‘ventaglio’ rispetto al largo stesso;<br />
tale curvatura, che riprende una parte di<br />
un’ipotetica ellisse, si prolunga anche verso<br />
Nord, nell’isola di abitazioni tra le vie Borgo-<br />
Braida e Roma (per intenderci, le abitazioni sulla<br />
destra delle case Mango). Del gruppo di costruzioni<br />
citate solo alcune sono strettamente sulla<br />
linea di perimetro di un’ipotetica ellisse, mentre<br />
quelle contigue ne rimarcano (in modo frammentario<br />
e disomogeneo) l’andamento verso<br />
l’esterno. Se a questa condizione ne affianchiamo<br />
un’altra di carattere altimetrico, la situazione<br />
diventa più chiara.<br />
MARCO AMBROGI<br />
- 59 -<br />
Fig. 14 - Atena Lucana, la cappella delle Anime del Purgatorio al Borgo.<br />
Fig. 15 - Atena Lucana, Palazzo Marino al Borgo.<br />
Infatti sulla carta aerofotogrammetrica si può<br />
notare che l’area in questione si presenta in posizione<br />
rialzata rispetto a quella circostante.<br />
Prendendo in considerazione una quota media<br />
di 625,00 metri s.l.m. si presenta (sul suolo stradale<br />
e di campagna) un’area grosso modo corrispondente<br />
ad una macchia di forma circolare,<br />
con sfrangiamento verso Ovest, in direzione del<br />
centro indigeno antico. Tale pianoro secondo la<br />
tradizione locale sorge sull’area dell’anfiteatro e<br />
l’aspetto visivo ne conferma la validità. Anche se<br />
di labile consistenza, un filare di alberi, disposto<br />
sull’ellisse ipotetica sul retro del palazzo Marino<br />
e di alcune abitazioni contigue, potrebbero confermare<br />
il segno della curvatura dell’anfiteatro.
Una perfetta localizzazione dell’antico monumento<br />
sarebbe impossibile da stabilire in quanto<br />
le tracce sulla cartografia e le descrizioni del<br />
Curto sono contraddittorie.<br />
A conclusione del discorso, l’analisi e lo studio<br />
sulla presenza dell’anfiteatro e soprattutto<br />
sulla sua esatta ubicazione trova validità in due<br />
diverse soluzioni, frutto essenzialmente di un<br />
disegno cartografico e delle tracce precedentemente<br />
riportate. Su questi riferimenti si innestano<br />
in modo inequivocabile le descrizioni del<br />
Curto, che circoscrive i ruderi a lui visibili durante<br />
lo scavo della strada Borgo-Braida, tra il palazzo<br />
Marino, le case Mango e la cappella di San<br />
Giuseppe. Tenendo fermi questi punti di carattere<br />
storico-topografico, l’anfiteatro di Atina<br />
potrebbe avere due soluzioni differenti di orientamento:<br />
con l’asse maggiore in direzione nord -<br />
est, oppure ruotato di 70° circa in senso orario<br />
(si confrontino i due aerofotogrammi con<br />
sovrapposizione dell’ellisse planimetrica del<br />
monumento). Nella prima versione (la più credibile),<br />
il centro dell’arena si collocherebbe all’inizio<br />
di Via Stretta della Croce, nel punto antistante<br />
il palazzo Marino, mentre le tracce dell’ellissoi-<br />
SALTERNUM<br />
- 60 -<br />
de verrebbero a conformarsi a quelle già descritte<br />
precedentemente (abitazioni in curva, filare di<br />
alberi, suolo rialzato) con la conferma della presenza<br />
di strutture dell’anfiteatro sull’area di sedime<br />
dello scavo di fine Ottocento. Nella seconda<br />
ipotesi, con tracce dell’ellissoide più labili, ci troveremmo<br />
con l’arena collocata sul Largo Borgo-<br />
Braida, con centro esattamente sul sagrato della<br />
Cappella delle Anime del Purgatorio, mentre<br />
l’abbassamento della via in direzione est verrebbe<br />
confermato dalla presenza di uno dei due<br />
accessi (sull’ellisse maggiore) all’edificio antico,<br />
quindi maggiormente soggetto a crollo, con relativa<br />
diminuzione della quota del piano stradale.<br />
In questo secondo caso la maggior parte delle<br />
strutture si celerebbe sotto l’abitato urbano. In<br />
ognuna delle due ipotesi ci troveremmo di fronte<br />
ad un caso eccezionale di ‘archeologia moderna’,<br />
la cui unica certezza potrebbe essere offerta,<br />
più che da intenzionali saggi di scavo, da indagini<br />
fotografiche aeree secondo le recenti strumentazioni<br />
di rilevamento altimetrico, che potrebbero,<br />
almeno in parte, rivelare la forma, la geometria<br />
e le dimensioni di un antico monumento di<br />
Atina romana.
NOTE<br />
1 CURTO 1901, p. 40.<br />
2 Una precedente analisi di studio su Atina e il suo anfiteatro<br />
è ampiamente elaborata da parte dello scrivente nella tesi di<br />
laurea Il Vallo di Diano, morfologia e fasi insediative, discussa<br />
presso il Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, a.a.<br />
2001/2002 (Relatore: prof. G. Calza). Parziali approfondimenti<br />
sull’argomento sono stati pubblicati in AMBROGI 1994.<br />
3 GATTA 1723, p. 38.<br />
4 ANTONINI 1984 (1784 1 ), p. 116.<br />
5 ROMANELLI D., Antica topografia istorica del Regno di Napoli,<br />
Vol. I, p. 425, in LACAVA 1893, pp. 88-89.<br />
6 IDEM, Ibidem, p. 89.<br />
7 GIUSTINIANI 1804.<br />
8 ALBI-ROSA 1840, pp. 56-57.<br />
9 CORCIA (Vol. III, p. 96), in LACAVA 1893, p. 95. Di seguito (con<br />
rimando al Lacava), l’Autore riporta l’iscrizione dichiarata<br />
apocrifa dal Mommsen.<br />
10 MACCHIAROLI 1995 (1868 1 ), p. 38.<br />
11 ETERNI 1982, p. 67. Lo studioso sanrufese così riporta: «dove<br />
era ad Atena un nobile, ed antico teatro, del cui pochi vestigi<br />
si vedono, nel quale celebravano i Gentili Romani le loro<br />
feste, e giochi». Nella nota di approfondimento al testo, V.<br />
Bracco specifica che si tratta di anfiteatro, dato che lo stesso<br />
Eterni annotava la presenza di feste e giochi, dimostrando<br />
quindi la confusione o l’erronea trascrizione sulla tipologia<br />
del monumento.<br />
12 L’Italia sotto l’aspetto fisico, storico, artistico e statistico, Vol.<br />
I, lettera A, in LACAVA 1893, p. 99.<br />
13 Tra i grandi nomi degli eruditi viaggiatori stranieri, che citarono<br />
la presenza dell’anfiteatro di Atena Lucana, figura<br />
Francois Lenormant, che nella sua pubblicazione A travers<br />
l’Apulie et la Lucanie, II, Paris 1883, p. 85, fa un breve cenno<br />
al monumento. Di altre opere antiche (NISSEN, Italische<br />
Landeskunde e Friedlander, Darstellungen aus der<br />
Sittengeschichte Roms) di cui non mi è stato possibile effettuare<br />
un’attenta consultazione, si fa riferimento nell’attento<br />
studio curato da Vittorio Bracco, Inscriptiones Italiae,<br />
Volumen III-Regio III, Roma 1974, p. 79. Lascio ad approfondimenti<br />
maggiori la consultazione dei pochi riferimenti<br />
(spesso solo citazioni) non inseriti nel presente studio, come<br />
pure la disamina di documenti ottocenteschi di carattere<br />
locale.<br />
14 LACAVA 1893, p. 50. In nota lo studioso riporta, con incontrovertibile<br />
prova dei dubbi sulla topografia antica di Atina:<br />
«Nell’attuale paese vicino all’abitazione del signor Marini<br />
sono appariscenti gli avanzi di un anfiteatro» (Ivi, n. 2).<br />
15 IDEM, Ibidem, p. 73.<br />
16 CURTO 1901, p. 41.<br />
17 Isquarcio delle antichità di Atena, tratto da un ragguaglio<br />
Topografico della medesima, composto in grazia di chi ansioso<br />
fosse saperne le sue vaghezze, ms. ined. conservato dalla<br />
Società di Storia Patria di Napoli, in LACAVA 1893, p. 84-87.<br />
18 LACAVA 1893, p. 87. L’iscrizione viene riportata nello stesso<br />
saggio di Lacava come apocrifa. L’aver annoverato il testo<br />
dal Lacava tra quello del Troyli e l’altro dell’Antonini, colloca<br />
l’epoca del passo inedito probabilmente alla seconda<br />
metà del XVIII secolo.<br />
19 CURTO 1901, p. 40.<br />
20 IDEM, Ibidem, pp. 40, 41.<br />
21 IDEM, Ibidem, p. 38; lo studioso riporta anche la descrizione<br />
del materiale rinvenuto, tra cui un’eloquente iscrizione<br />
MARCO AMBROGI<br />
- 61 -<br />
(poi ricondotta alla presenza del foro), nella parte alta dell’abitato<br />
antico (sopra la Piazza) che riconduce, secondo la<br />
fonte, ad una struttura architettonica teatrale. Sul teatro, probabilmente<br />
costruito ‘alla greca’ sull’acropoli cittadina, lo<br />
stesso Curto discorre a p. 38, con il ritrovamento di frammenti<br />
di laterizio formanti delle colonnette.<br />
22 GILIBERTI 1913, pp. 27-28.<br />
23 RACIOPPI 1970, p. 499.<br />
24 L’epigrafe viene riportata anche dal BRACCO 1974, pp. 166-<br />
167, insieme all’altra del seguente tenore: LVCIUS X . L .<br />
MILES R/ P . HONORIB . GEN/ MVN . SVB/ AMPHITEA - -<br />
-/ R . F . P . P; le due iscrizioni vengono ritenute false, perché<br />
non corrispondono le citazioni di importanti eruditi antichi,<br />
quali il Mommsen, il Corcia e l’Antonini e quelli locali<br />
(Lacava, Albirosa, Macchiaroli e Curto). La tradizione storica<br />
locale (Curto), collocava un’iscrizione sul muro esterno della<br />
Taverna del Principe nell’abitato e l’altra nell’agro ove anticamente<br />
si trovava una villa di un militare romano.<br />
25 CURTO 1901, pp. 85-86.<br />
26 BRACCO 1974, pp. 166-167. Il Lacava la riporta come apocrifa<br />
(LACAVA 1893, p. 48).<br />
27 ANTONINI 1984 (1797 1 ), p. 116.<br />
28 BRACCO 1974, pp. 166-167.<br />
29 Come rimarca lo stesso BRACCO 1974, p. 167 ed anticipa<br />
nella presentazione delle iscrizioni di Atena Lucana (IDEM,<br />
Ibidem, p. 79).<br />
30 <strong>DI</strong>SCEPOLO 2007, p. 117 ss.<br />
31 BOTTINI 1997, p. 217.<br />
32 Il riferimento per la conversione delle misure è stato attinto<br />
da <strong>DI</strong> DONATO 1997, p. 18 (cap. sulle antiche misure in uso<br />
nel Vallo di Diano). Il palmo in area valligiana corrispondeva<br />
a cm 26, 4550.<br />
33 BOTTINI 1997, p. 217.<br />
34 BALLETTI et Alii, 2002. Cfr. inoltre Gli anfiteatri in Basilicata<br />
2002.<br />
35 II, Ibidem.<br />
36 Incertezza che ha coinvolto anche la studiosa atenese<br />
D’ALTO 1985, pp. 90 e 90 bis. Al volume della D’Alto si<br />
rimanda per una comprensione globale della storia antica di<br />
Atena Lucana e dei suoi ritrovamenti, giusta l’affidabilità analitica<br />
e descrittiva della studiosa, che per anni ha ricoperto il<br />
ruolo di Ispettrice Onoraria dei Monumenti atenesi, soprintendendo<br />
agli scavi degli anni ’60 e successivi effettuati nel<br />
paese.<br />
37 Figlio di Saverio Arcangelo e di De Stefano Serafina,<br />
nacque ad Atena Lucana il 27 febbraio del 1807 ed ivi<br />
passò a miglior vita il 23 novembre 1876. Fu tra i rivoltosi<br />
del 1848 nel Vallo di Diano, marciando alla testa di<br />
duemila volontari contro l’esercito borbonico; processato<br />
e condannato a morte, gli venne commutata la pena in<br />
18 anni di carcere e nel 1852 venne liberato, trovando<br />
rifugio in Inghilterra. Ritornato in Italia, nel 1860 si arruolò<br />
al seguito di Garibaldi e nella battaglia di Milazzo fu<br />
promosso capitano. Ferito nella marcia dei ‘Mille’ in<br />
Sicilia venne ricoverato in diversi ospedali, dai quali uscì<br />
inabile, con l’assegnazione di una pensione. Tornò nella<br />
natia Atena Lucana e ne fu nominato sindaco, amministrando<br />
il Comune con saggezza ed operosità. Nel paese<br />
si trova tutt’ora una targa a lui dedicata, (dal sito:<br />
www.pisacane.org/documenti/1860/Pessolani...) Del<br />
Pessolani parla anche il LACAVA 1893, p. 74.<br />
38 CURTO 1901, p. 41.
39 MANDELLI L., La Lucania sconosciuta, ms. della Biblioteca<br />
Nazionale di Napoli, tratto da LACAVA 1893, p. 57.<br />
40 Durante uno scavo in loco di circa quindici anni fa per i<br />
lavori ad una conduttura idrica, nella parte di strada prospiciente<br />
il palazzo delle Suore (accanto a quello Marino), il Sig.<br />
Michele Ciro Langone, ebbe modo di osservare un grosso<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
ALBI-ROSA G. 1840, L’osservatore degli Alburni sulla Valle di<br />
Diano, ossia descrizione istorico-topografica della medesima,<br />
Napoli.<br />
AMBROGI M. 1994, Monumenti sepolti. L’anfiteatro atinate, in<br />
“Il Saggio”, IX, n° 101.<br />
ANTONINI G. 1984 (17971 ), La Lucania, discorsi, Napoli (rist.<br />
anast. Bologna).<br />
BALLETTI C. et Alii, L’arena di Grumentum: misura, geometria,<br />
forma, Università IUAV di Venezia, Laboratorio di<br />
Fotogrammetria (testo tratto da Internet).<br />
BOTTINI P. 1997 (a cura di), Il Museo Archeologico dell’Alta<br />
Val D’Agri, Lavello (PZ).<br />
BRACCO V. 1974, Inscriptiones Italiae, Volumen III-Regio III,<br />
Roma.<br />
CURTO G. B. 1901, Notizie storiche sulla distrutta città di<br />
Atinum Lucana dai tempi incerti fino al secolo XIX, Sala<br />
Consilina (SA).<br />
D’ALTO E. 1985, Atena Antica, Galdo degli Alburni (SA).<br />
<strong>DI</strong> DONATO F. P. 1997, Trucioli della memoria, Salerno.<br />
<strong>DI</strong>SCEPOLO V. 2007, L’anfiteatro di Venosa, in “Basilicata<br />
Regione Notizie”, Periodico del Consiglio Regionale di<br />
Basilicata, n. 117, Potenza.<br />
SALTERNUM<br />
- 62 -<br />
lastrone ricurvo, probabilmente testimonianza dell’antico<br />
monumento ivi sepolto. Alla cortesia del sig. Langone devo<br />
la consultazione del prezioso testo di Michele Lacava.<br />
41 Le note sull’anfiteatro di Nuceria sono osservazioni personali<br />
tratte dalla cartografia cittadina.<br />
ETERNI P. 1982, La Descrizione seicentesca della “Valle di<br />
Diana”, a cura di V. Bracco, Napoli.<br />
GATTA C. 1723, La Lucania illustrata, Napoli.<br />
GILIBERTI L. 1913, Le antiche civiltà della Valle di Tegiano,<br />
Napoli.<br />
GIUSTINIANI L. 1804, Dizionario geografico ragionato del<br />
regno di Napoli, Napoli, s.v. Atena Lucana.<br />
Gli anfiteatri in Basilicata, Città e spettacoli in età romana<br />
2002, Catalogo della Mostra del Museo Archeologico<br />
dell’Alta Val d’Agri di Grumento Nova, a cura del Ministero<br />
per i Beni e le Attività Culturali, Matera.<br />
MACCHIAROLI S. 1868, Diano e l’omonima sua valle, Ricerche<br />
storico-archeologiche, Napoli (rist. anast. - con L’ambone<br />
della cattedrale di Diano, Napoli 1874 -, Teggiano (SA)<br />
1995).<br />
RACIOPPI G. 1970 (19021 ), Storia dei popoli della Lucania e<br />
della Basilicata, Vol. I, Roma (rist. anast., Roma).
Orazio, nel corso della sua produzione<br />
poetica, fa numerosi riferimenti<br />
alle città della costa e dell’entroterra<br />
campano. Il poeta venosino aveva conoscenza<br />
diretta di molte località, soprattutto di quelle<br />
situate nell’area flegrea; le puntuali allusioni del<br />
poeta, perciò, rivelano aspetti molto interessanti<br />
per la ricostruzione della storia dei centri campani.<br />
Nella divisione che Augusto fece dell’Italia, la<br />
Campania formò la Regio I insieme con il<br />
Latium vetus ed il Latium adiectum; in seguito<br />
comprese anche il territorio degli Irpini e parte<br />
del Sannio. Nel nuovo ordinamento dell’impero<br />
alla fine del sec. III d.C., con gli stessi confini<br />
della regione di Augusto, formò una delle province<br />
in cui fu allora divisa l’Italia. In base alla<br />
descrizione di Strabone (V, 4, 3), al tempo di<br />
Orazio la Campania comprendeva la regione<br />
costiera pianeggiante che si estendeva tra<br />
Sinuessa e la penisola sorrentina con le isole di<br />
Pitecussa, Procida, Capri, l’entroterra fino alla<br />
linea delle città dislocate lungo la via Appia e il<br />
tratto della via Latina che da Venafrum, attraverso<br />
Teanum Sidicinum e Cales, giungeva a<br />
Capua insieme ai centri dell’estremo limite<br />
orientale della pianura campana (Suessula, Nola,<br />
Acerrae, Abella) a ridosso dei territori sannitici<br />
sud-occidentali 1 .<br />
Gli Epodi, o Iambi, come li chiama Orazio,<br />
costituiscono l’esordio poetico del Venosino e<br />
furono composti tra il 42 ed il 31 a.C., cioè tra la<br />
battaglia di Filippi e quella di Azio, e pubblicati<br />
intorno al 30 a.C. Il poeta voleva rinnovare quel<br />
genere lirico che aveva dato tanta fortuna ad<br />
Archiloco e ad Ipponatte, molto adatto all’invettiva<br />
e alla satira, ma che consentiva anche qual-<br />
FRANCESCO MONTONE<br />
Orazio e la Campania<br />
- 63 -<br />
Fig. 1 - La regio I dell'Italia augustea.<br />
Fig. 2 - Cartina<br />
dei Campi Flegrei.<br />
che abbandono lirico. Nell’epodo II l’usuraio<br />
Alfio sogna una vita diversa dalla sua, nella<br />
quiete e nei piaceri della vita campestre, ma di<br />
fatto non riesce a cambiare le sue abitudini e<br />
continua a svolgere la sua ripugnante attività. Al<br />
v. 49 compare un riferimento alle ‘ostriche del<br />
Lucrino’. Il Lucrino è un bacino lacustre dei
Fig. 3 - Il Lago Lucrino.<br />
Campi Flegrei, separato dal mare da un argine,<br />
in parte naturale in parte artificiale, che congiungeva<br />
Baia a Pozzuoli; Agrippa fece costruire una<br />
strada su di esso e tentò di mettere in comunicazione<br />
il lago Lucrino con il vicino lago<br />
d’Averno, trasformato da lui in porto (Portus<br />
Iulius). La coltivazione delle ostriche del Lucrino<br />
è ricordata da Orazio anche nella IV satira del II<br />
libro, al v. 32.<br />
Nel IV epodo il poeta attacca con sarcasmo<br />
un ex-schiavo divenuto un ricco e arrogante<br />
cavaliere, ricordandogli le sue origini. Ai vv. 13-<br />
4 il Venosino ricorda l’ager Falernus, famosissimo<br />
per la produzione vinicola, situato nella<br />
parte settentrionale della Campania, nella zona<br />
di Sessa Aurunca e di Massico, a Nord del<br />
Volturno.<br />
Nell’epodo V, Orazio descrive il turpe sortilegio<br />
della maga Canidia ai danni di un giovinetto<br />
caduto nelle sue grinfie; al v. 26 il Venosino<br />
fa riferimento alle Avernales aquae con cui<br />
Sagana, un’amica di Canidia, asperge la casa.<br />
L’Averno è il lago craterico situato nei Campi<br />
Flegrei, dove, secondo i Greci, si situava<br />
l’ingresso dell’Ade. Al v. 43, inoltre, è citata<br />
l’otiosa Neapolis, città fondata nella prima metà<br />
del V a.C., come ampliamento di un centro più<br />
antico, che Cuma, la più potente delle colonie<br />
greche del golfo, avrebbe insediato sul luogo di<br />
un precedente stanziamento rodio, al quale risalirebbe<br />
il nome Parthenope (una delle Sirene) 2 .<br />
Napoli si accordò con i Romani quando i<br />
Sanniti l’assediarono tra il 328 ed il 326 a.C. e fu<br />
fedelissima all’Urbs, seguendo le sue sorti, prima<br />
SALTERNUM<br />
- 64 -<br />
come città federata, poi come municipio.<br />
Offuscata da Pozzuoli come porto e come centro<br />
commerciale dopo l’82 a.C., la città conservò<br />
un certo rilievo in qualche ramo manifatturiero<br />
(unguenti e profumi), ma fu soprattutto centro<br />
dalle tenaci tradizioni elleniche nella lingua,<br />
nella cultura, nel costume: città di piaceri, di<br />
famosi spettacoli teatrali e sportivi e di studi.<br />
L’otiosa Neapolis di Orazio fu anche la dolce e<br />
colta città dall’incomparabile scenario paesistico<br />
di Virgilio e di Stazio, la città prescelta da<br />
Nerone per le sue esibizioni sceniche, la città<br />
apprezzata da Marco Aurelio per i suoi filosofi.<br />
Come osserva il Della Corte 3 , tuttavia, Napoli era<br />
per Orazio città dell’otium ma non già nell’accezione<br />
virgiliana (Georg. IV, 563-4: «illo Vergilium<br />
me tempore dulcis alebat / Parthenope studiis<br />
florentem ignobilis oti»: «in quel tempo me,<br />
Virgilio, nutriva la dolce Partenope, tra felici<br />
opere di un ozio senza gloria»), cioè città adatta<br />
agli studi, bensì in quella ovidiana (Met. XV,<br />
711-2: «in otia natam / Parthenopen»:<br />
«Partenope, città nata per la vita tranquilla»), dal<br />
momento che Napoli (in particolare il suo golfo)<br />
era luogo di vacanze per i Romani.<br />
Nell’epodo XVI, nell’ambito di una dolorosa<br />
rievocazione delle guerre civili, in un elenco di<br />
nemici di Roma, in cui si ricordano i pericoli<br />
rappresentati da Annibale, Porsenna, Spartaco, i<br />
Germani, compare un riferimento a Capua, che<br />
era arrivata a minacciare l’Urbe (v. 5); di fondazione<br />
etrusca, essa era il centro più importante<br />
dell’entroterra campano ed è definita ‘rivale’ di<br />
Roma. Orazio, sottolinea il Mandruzzato 4 , «sembra<br />
esprimere un giudizio interessante: se Roma<br />
fosse stata eliminata nel suo momento cruciale è<br />
pensabile che proprio Capua sarebbe diventata<br />
il centro del mondo greco-italico». La città è<br />
ricordata, inoltre, tra le tappe dell’iter<br />
Brundisinum (Sat. I, 5, 47) ed è citata anche<br />
nelle Epistole (I, 11, 11-12), nell’ambito di un<br />
riferimento topografico alla via Appia.<br />
Orazio pubblicò due libri di Satire, il I verso<br />
il 35 a.C. e il II verso il 30, rifacendosi a Lucilio,<br />
capostipite del genere; in queste composizioni,<br />
che il poeta definiva Sermones, conversazioni<br />
alla buona, compaiono considerazioni filosofico-morali,<br />
questioni di critica letteraria, scene di
vita quotidiana, considerazioni autobiografiche,<br />
favole mitologiche. La satira V del I libro, il<br />
famoso iter Brundisinum 5 , ricorda il viaggio<br />
compiuto da Orazio, Mecenate, Virgilio e altri da<br />
Roma a Brindisi nel 37 a.C., secondo il modello<br />
luciliano del viaggio in Sicilia. È, quindi, una<br />
satira odeporica. All’origine del viaggio vi erano<br />
gravi motivi politici, dal momento che<br />
Ottaviano, in difficoltà a causa della guerra per<br />
mare con Sesto Pompeo, era stato costretto a<br />
chiedere aiuto ad Antonio, che giunse a Brindisi<br />
con 300 navi, richiedendo, in cambio, legionari<br />
per combattere contro i Parti. Orazio, tuttavia, fa<br />
un solo cenno ai motivi politici alla base del<br />
viaggio, ai vv. 28-29, quando ricorda che erano<br />
presenti alla spedizione Mecenate e Cocceio<br />
(«missi magnis de rebus uterque /legati...» 6 : «l’uno<br />
e l’altro mandati come ambasciatori per trattare<br />
di cose grosse»). Il viaggio, come spiega il<br />
Fedeli 7 , è soprattutto conoscenza di luoghi e di<br />
persone, considerati con l’occhio del viandante<br />
frettoloso, cui non interessa tanto osservare i<br />
dati etnografici e antropologici, ma piuttosto<br />
presentare rapidi bozzetti e squarci di vita locale.<br />
La Campania è attraversata nella VI e nella<br />
VII giornata. I viaggiatori percorrono le 38<br />
miglia che separano il ponte Campano da<br />
Caudium, fermandosi a Capua per una sosta.<br />
Mecenate si diletta giocando a palla, mentre<br />
Virgilio e Orazio, che soffrono l’uno di stomaco,<br />
l’altro a causa degli occhi infiammati, vanno a<br />
dormire. I viandanti cenano nella ricca villa di<br />
Cocceio, dove assistono alla divertente tenzone 8<br />
tra il buffone Sarmento e Messio Cicirro. Il<br />
primo ironizza sui difetti fisici dell’avversario,<br />
mentre Messio mette alla berlina lo stato sociale<br />
del rivale che, muovendo da origini servili, è<br />
diventato scriba. Il giorno dopo i viaggiatori da<br />
Caudium si rimettono in viaggio alla volta di<br />
Benevento. Lì un oste troppo premuroso per<br />
poco non brucia anche se stesso mentre arrostisce<br />
i suoi tordi. Il fuoco si sparge e le fiamme<br />
arrivano a lambire il soffitto. Orazio fa una<br />
descrizione squisita dell’allarmismo che coglie i<br />
clienti affamati e i servi spaventati, che portano<br />
fuori la cena e si impegnano, tutti insieme, a<br />
spegnere l’incendio. Il giorno dopo i viaggiatori<br />
lasciano a Benevento la via Appia, non più<br />
FRANCESCO MONTONE<br />
- 65 -<br />
Fig. 5 - Egnazia (BR) - La via Minucia ricalcata dalla via Traiana.<br />
Fig. 4 - Bonea (BN)<br />
- Villa di Cocceio<br />
(fine II - I sec. a.C.)<br />
opus signinum.<br />
lastricata fino a Brindisi, e prendono la via<br />
Minucia, che collegava, appunto, Benevento a<br />
Brindisi.<br />
Nella già menzionata IV satira del II libro<br />
Orazio ferma un tale Cazio, che si affretta a tornare<br />
a casa per scrivere dei nuovi precetti: non<br />
si tratta di precetti filosofici, ma di ricette e consigli<br />
culinari. Ai vv. 30-34 il poeta ricorda, oltre<br />
al murex di Baia e alla peloris di Lucrino, anche<br />
i molluschi di Miseno, l’estrema punta occidentale<br />
del golfo di Pozzuoli. Al v. 51 della stessa<br />
satira Orazio fa riferimento al vino prodotto<br />
nella zona del Mons Massicus, che segna il confine<br />
tra la Campania e la parte del Lazio a Sud<br />
del fiume Liri. Ai vv. 68-69 Orazio fa riferimento<br />
alla bontà dell’olio di Venafro, consigliato da<br />
Cazio per condire una salsa molto elaborata<br />
(«insuper addes / pressa Venafranae quod baca
Fig. 6 - La Campania costiera.<br />
remisit olivae»: «aggiungi sopra ciò che emette la<br />
bacca spremuta degli olivi di Venafro»). Venafro è<br />
una città di origine sannitica nel territorio occidentale<br />
dei Pentri, attribuita alla Regio I dall’ordinamento<br />
augusteo. La bontà dell’olio di Venafro<br />
è menzionata anche in Carm. II, 6, 15-16.<br />
Al v. 55 della stessa satira è menzionata<br />
Sorrento, località situata su un altro terrazzo tufaceo<br />
che domina a picco sul mare, ben conosciuta<br />
da Orazio, che ne esalta la salubrità del clima<br />
e la bontà del vino, consigliato per le sue proprietà<br />
anche dai medici. Sorrento è definito centro<br />
amoenum nella XVII epistola del I libro, al v. 52.<br />
Nell’VIII satira del II libro, Orazio dialoga con<br />
Fundanio che gli descrive la cena a casa di<br />
Nasidieno Rufo, cafone arricchito che fa sfoggio<br />
delle sue ricchezze attraverso piatti e vini prelibati.<br />
Ai vv. 39-40 Orazio ricorda le tazze potorie di<br />
Alife, molto capienti, nelle quali due personaggi<br />
partecipanti alla cena, Vibidio e Balatrone, rovesciano<br />
intere anfore. Alife è una città di origine<br />
sannitica situata sul versante campano del<br />
Matese, nella valle del Volturno, posta sulla diramazione<br />
dalla via Latina che congiungeva<br />
Venafrum a Beneventum. Ai vv. 45-46 è nuovamente<br />
menzionato l’olio di Venafro, utilizzato per<br />
condire il sugo di una salsa di gamberi che<br />
accompagna una murena, offerta durante la cena,<br />
per desiderio di ostentazione, dal parvenu.<br />
È ai quattro libri delle Odi, i primi tre composti<br />
tra il 30 ed il 23 a.C. ed il quarto pubblicato<br />
nel 13 a.C., tuttavia, che Orazio si affida per<br />
ottenere fama imperitura di poeta, aspirando ad<br />
eguagliare Alceo e Pindaro. In Carm. I, 31, 9 e<br />
SALTERNUM<br />
- 66 -<br />
IV, 12, 14 Orazio menziona Cales, città aurunca<br />
della Campania (oggi Calvi Vecchia, frazione di<br />
Calvi Risorta). Il Venosino ne ricorda la pregiata<br />
qualità del vino.<br />
In Carm. II, 18, 17-22 Orazio descrive il fervore<br />
dei lavori edilizi a Baia, città dei Campi<br />
Flegrei, sulla sponda occidentale del golfo di<br />
Pozzuoli, famosa per le acque termali, che<br />
divenne una stazione balneare di moda: «tu<br />
secanda marmora / locas sub ipsum funus et<br />
sepulcri / inmemor struis domos marisque Bais<br />
obstrepentis urges / submovere litora, / parum<br />
locuples continente ripa»: «tu commissioni tagli<br />
ampi di marmi nell’imminenza della sepoltura e<br />
levi casa e scordi la tua tomba, sconvolgi coste,<br />
argini il mare che percuote Baia: per confine<br />
una spiaggia, è poco signorile». Orazio attesta la<br />
prima fase dell’espansione edilizia di Baia 9 , centro<br />
di cui ha conoscenza diretta, come sottolinea<br />
in altri due luoghi (Carm. III, 4, 24 e Epist. I, 15,<br />
19). Nella I epistola del I libro Orazio irride chi<br />
è smanioso di far costruire la propria villa a<br />
Baia, al punto da considerare quel sito superiore<br />
a tutti gli altri (v. 83). La città divenne simbolo<br />
di lusso e corruzione mondana: Properzio, ad<br />
esempio, si scaglia contro Baia, luogo di corruzione<br />
per le fanciulle caste, ed esorta l’amata<br />
Cinzia ad allontanarsi da quei vergognosi lidi<br />
(Prop. I, 11, 27-30: «Tu modo quam primum corruptas<br />
desere Baias: / multis ista dabunt litora<br />
discidium, / litora quae fuerant castis inimica<br />
puellis: / a pereant Baiae, crimen Amoris,<br />
aquae!»: «Ma tu abbandona prima possibile la<br />
corrotta Baia: codesti lidi produrranno la separazione<br />
di molti lidi da sempre ostili alle caste fanciulle.<br />
In malora le acque di Baia, vergogna di<br />
Amore!»). Seneca, a sua volta, nell’epistola LI, 1-<br />
3, afferma di aver lasciato Baia dopo un giorno,<br />
dal momento che è divenuta un luogo che induce<br />
al vizio: «nos... contenti sumus Bais; qua<br />
postero die quam attigeram reliqui, locum ob<br />
hoc devitandum, cum habeat quasdam naturales<br />
dotes, quia illum sibi celebrandum luxuria<br />
desumpsit»: «mi sono dovuto accontentare di<br />
Baia, ma l’ho lasciata il giorno dopo che vi ero<br />
arrivato. Pur avendo l’attrattiva delle sue bellezze<br />
naturali, è una città da evitarsi, poiché è<br />
ormai un noto centro di corruzione».
I due libri di Epistole furono pubblicati nel 20<br />
a.C. e nel 13 a.C. Il primo comprende 20 epistole,<br />
il secondo ne raccoglie tre, tra cui la famosissima<br />
Ars Poetica. A differenza delle Satire, le<br />
Epistole non hanno toni aggressivi: permangono<br />
i temi della ricerca della saggezza e della morale<br />
(autárkeia e metriótes) 10 .<br />
Nella I epistola del I libro, ai vv. 85-87, è<br />
menzionata Teano, città fondata dalla tribù sannitica<br />
dei Sidicini e centro principale di questa<br />
popolazione; era situata alla congiunzione tra la<br />
via Latina e un’importante variante della via<br />
Appia e dotata di un ampio anfiteatro («cui si<br />
vitiosa libido /fecerit auspicium: cras ferramenta<br />
Teanum / tolletis, fabri»: «poi gli viene un capriccio<br />
amoroso, come un’ispirazione divina: domani<br />
gli operai portino le attrezzature a Teano»).<br />
Teano era una delle città più importanti della<br />
Campania e Orazio irride il ricco volubile che,<br />
mentre sta per farsi edificare una villa a Baia,<br />
ordina ai suoi operai di portare le attrezzature a<br />
Teano.<br />
Arriviamo, finalmente, alla già menzionata<br />
epistola XV del I libro, in cui Orazio cita<br />
Salerno. Orazio si rivolge a Numonio Vala per<br />
chiedere notizie sulle condizioni climatiche e<br />
sulla vivibilità di Salerno e di Velia, dal momento<br />
che il famoso medico di Augusto, Antonio<br />
Musa, gli ha prescritto cure di acqua fredda per<br />
i disturbi di cui soffriva agli occhi.<br />
Salerno 11 è situata sulla costa settentrionale<br />
dell’antico sinus Paestanum, a destra del fiume<br />
Irno, nell’agro Picentino. Essa nacque come<br />
colonia marittima di diritto romano nel 194 a.C.<br />
(Liv. XXXII, 29, 3; XXXIV, 45, 1-5; Vell. I, 15, 1-<br />
3), insieme ad altre quattro colonie costiere<br />
(Volturnum, Liternum, Puteoli e Buxentum), in<br />
base alla Lex Atinia de coloniis deducendis del<br />
197 a.C. Come ricorda Strabone (V, 4, 13),<br />
Salerno aveva una funzione essenzialmente militare,<br />
dal momento che è troppo esiguo il numero<br />
dei primi coloni perché si possa parlare di<br />
una colonia di popolamento. Era un centro fortificato<br />
per controllare gli inquieti Picentini, colpevoli<br />
di essersi schierati con Annibale dopo la<br />
battaglia di Canne. Attraversata dalla via Regio-<br />
Capuam che la collegava con l’interno della<br />
Lucania, da un lato, con Napoli e Pompei dall’al-<br />
FRANCESCO MONTONE<br />
- 67 -<br />
tro, Salerno divenne un centro molto importante.<br />
Fu saccheggiata nell’89 a.C. dall’esercito degli<br />
alleati italici guidato da Papius Mutilus, che in<br />
tale occasione arruolò nelle proprie schiere prigionieri<br />
e schiavi salernitani.<br />
Orazio domanda, inoltre, quale dei due siti<br />
abbia le messi migliori, quale sia più provvisto<br />
di lepri e cinghiali, quali acque siano più dotate<br />
di pesci e frutti di mare. Egli dà per scontato che<br />
la selvaggina pregiata non mancherà dalla sua<br />
tavola. Per quanto riguarda il vino, egli non fa<br />
proprio conto dei poco raffinati vini locali e<br />
cerca un vino nobile, d’alta classe, che non<br />
dovrà essere né pesante né di alta gradazione,<br />
ma tale da rendere vivace e piacevole chi lo<br />
beve, senza ubriacarlo. Orazio affida al vino il<br />
compito di lenire i suoi affanni, di fargli venire<br />
la parlantina (secondo il tòpos del vino che scioglie<br />
la lingua) e di renderlo gradito ad<br />
un’amante lucana: il Fedeli 12 ritiene che un tale<br />
accenno alla regione d’appartenenza della<br />
donna consenta di cogliere una leggera preferenza<br />
del Venosino per Velia. Al v. 24 il poeta,<br />
lasciati da parte i problemi di salute, chiarisce<br />
che lo scopo del suo viaggio a Velia o a Salerno<br />
è quello di tornarsene a casa ben pasciuto come<br />
un Feace («pinguis ut inde domum possim<br />
Phaeaxque reverti»: «perchè possa tornare a casa<br />
grasso, novello Feace»); ai Feaci il poeta aveva<br />
già accennato in Epist. I, 2, 28-29 e anche in quel<br />
caso con un ironico riferimento alla loro propensione<br />
per i piaceri della tavola. Il melancholicus<br />
13 Orazio cerca un luogo dove svernare e<br />
deve rinunciare, per rispettare i precetti di Musa,<br />
ai graditi soggiorni a Baia, che altrove il poeta<br />
arriva a personalizzare.<br />
Il medico di Augusto era un convinto sostenitore<br />
dei benefici terapeutici offerti dai bagni di<br />
acqua fredda. Orazio ricorreva, per seguire le<br />
osservanze del medico, al frigidarium della sua<br />
casa, mentre altri si recavano a Chiusi o a Gabii.<br />
Come osserva giustamente il Bracco 14 , Salerno e<br />
Velia non sono menzionate perché offrissero<br />
bagni freddi (non è nota nelle due città la presenza<br />
di sorgenti di acqua con proprietà terapeutiche):<br />
se il Venosino deve scegliere tra<br />
Salerno e Velia per curare la gotta e i disturbi<br />
agli occhi è perché quelle località offrivano un
sodalizio di medici esperti. Sono attestati nomi<br />
di medici a Velia e a Salerno è ricordato, dalle<br />
testimonianze epigrafiche, il nome di un medico<br />
di età giulio-claudia, Tiberio Claudio, che ha<br />
cognome greco come il padre: Diogene. La frequenza<br />
delle relazioni con l’Oriente dovette<br />
favorire il trasferimento nei due centri campani<br />
di individui esperti nell’arte medica. Il Bracco 15<br />
afferma che è attestata fin dall’età di Cesare<br />
quella tradizione medica che raggiungerà fama<br />
pienissima nel Medio Evo.<br />
Nella parte conclusiva dell’epistola Orazio<br />
ricorda un personaggio già citato in Sat. I, 3, 21,<br />
un certo Mevio, noto per essere un ingordo e un<br />
inguaribile spendaccione, e rimprovera se stesso,<br />
in grado di condurre, nel suo campicello,<br />
una vita frugale, ma incapace di resistere ai piaceri<br />
di una vita comoda quando gli si presenta<br />
l’occasione. Compare anche qui quella continua<br />
opposizione tra valori e modelli etici e scelta<br />
individuale, che ha indotto il La Penna ad affermare<br />
che Orazio opera una relativizzazione<br />
della morale 16 . Il poeta stesso, come sottolinea<br />
acutamente Italo Lana 17 , in Epist. I, 8 confessa di<br />
essere afflitto da un funestus veternus, uno stato<br />
di torpore e di inquietudine che genera in lui<br />
l’incapacità di agire coerentemente con le sue<br />
convinzioni morali. Egli non vive nec recte nec<br />
suaviter (v. 4) ed è assalito da un continuo stato<br />
di irrequietezza, che lo spinge a desiderare<br />
SALTERNUM<br />
- 68 -<br />
Roma quando è a Tivoli e Tivoli quando è a<br />
Roma (Epist. I, 8, 9-12: «...irascar amicis / cur me<br />
funesto properent arcere veterno; / quae nocuere<br />
sequar, fugiam quae profore credam, /<br />
Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam»:<br />
«con gli amici mi inquieto, perché s’affannano<br />
per salvarmi da un torpore che mi porta alla<br />
tomba, e faccio quello che mi ha fatto male e<br />
scappo da quello che mi farebbe - e lo so - assai<br />
bene. A Roma mi piace Tivoli; a Tivoli mi piace<br />
Roma. Sono come il vento»).<br />
Oltre all’amata Baia, Orazio deve rinunciare<br />
ad andare a Cuma (vv. 11-12: «...quo tendis? Non<br />
mihi Cumas / est iter aut Baias»: «Dove vai? La<br />
meta non è più Cuma o Baia»). Cuma, città situata<br />
sul litorale campano, sulla costa flegrea, fu la<br />
più antica colonia greca in Italia. La via<br />
Domiziana entrava in città da Nord, tagliando il<br />
monte Grillo e superando un profondo avvallamento<br />
con un ardito cavalcavia, un’opera<br />
cementizia rivestita di laterizio e tufelli, detto<br />
‘Arco Felice’.<br />
In conclusione, la lunga frequentazione da<br />
parte dell’inquieto poeta venosino delle località<br />
campane e le allusioni ad esse nelle sue opere<br />
ci offrono la possibilità di un viaggio affascinante<br />
all’interno di tradizioni locali, prodotti tipici,<br />
tendenze culturali della nostra regione, un percorso<br />
che ci conduce alla riscoperta, mai priva<br />
di emozione e di meraviglia, delle nostre radici.
NOTE<br />
1 Si veda il fondamentale contributo FERONE C. 1996, pp.<br />
424-432.<br />
2 Nell’Alessandra, il poeta ellenistico Licofrone fa predire a<br />
Cassandra la triplice direzione che avrebbero preso le tre<br />
Sirene, Parthenope, Leucosia e Ligeia, dopo il salto in mare<br />
e descrive i tre luoghi di approdo, sulle coste campane,<br />
dove si diffonde il loro culto: Napoli, Punta Licosa e<br />
Sant’Eufemia. L’insediamento collettivo si sarebbe situato,<br />
per gli antichi, nelle isolette sorrentine dette Sirenusse<br />
(oggi ‘Li Galli’). Sulle varie versioni del mito delle Sirene<br />
cfr. BETTINI - SPINA 2007.<br />
3 DELLA CORTE 1996, p. 517.<br />
4 Orazio, Odi ed Epodi, p. 535.<br />
5 FEDELI 1996, pp. 248-253. Si rimanda anche a FEDELI -<br />
RONCONI 1991.<br />
6 Il testo di Orazio è citato secondo le edizioni critiche allestite<br />
da P. VENINI (Odi ed Epodi) e da P. FEDELI (Satire ed<br />
Epistole) per il Bimillenario oraziano (Istituto Poligrafico<br />
dello Stato, Roma 1991, 1994, 1997).<br />
7 Orazio. Tutte le poesie, p. 828.<br />
8 A proposito della tenzone scrive il LA PENNA: «La tenzone<br />
comica sembra di una comicità gratuita e festosa; ma non<br />
FRANCESCO MONTONE<br />
- 69 -<br />
è escluso che Orazio questa volta provi gusto a farci vedere<br />
un troppo furbo parassita di città messo alle strette da<br />
un campano spiritoso. Non parlo di morale a tesi: è una<br />
morale meno cosciente che in altre satire, ma non assente:<br />
anzi è la morale che si confonde col gusto della vita e circola<br />
nel racconto con naturalezza, senza che la si possa<br />
isolare e definire» (LA PENNA 1968, p. 39).<br />
9 FERONE 1996, p. 426.<br />
10 LA PENNA 1968, pp. 40-44.<br />
11 PANEBIANCO 1991; BRACCO 1981, p. XVIII; FERONE 1996, pp.<br />
429-430; AVALLONE 2008, pp. 61-73. Si vedano anche i fondamentali<br />
contributi di LEONE – VITOLO 1982; ROMITO 1996.<br />
12 Orazio. Tutte le poesie, p. 928.<br />
13 Sull’irrequietezza di Orazio, che trapela sotto la marmorea<br />
superficie dei suoi versi, sulla tensione che vive il<br />
Venosino tra quello che sentiva di essere e quello che<br />
avrebbe voluto essere, insiste, in un bel volume, A. Traina<br />
(TRAINA 1993).<br />
14 BRACCO 1979, pp. 47-51.<br />
15 IDEM, Ibidem, p. XVIII.<br />
16 LA PENNA 1993, pp. 241-274.<br />
17 LANA 1993, pp. 73-91.
FONTI E BIBLIOGRAFIA<br />
FONTI<br />
Orazio, Le Epistole; L’Arte Poetica, a cura di P. FEDELI - C.<br />
CARENA, Roma 1997.<br />
Orazio, Le Odi; Il Carme Secolare; Gli Epodi, a cura di F.<br />
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MARIA AMORUSO<br />
Lo stato di conservazione degli affreschi<br />
di San Pietro a Corte in Salerno<br />
Il complesso monumentale di San<br />
Pietro a Corte si colloca nel centro storico<br />
della città di Salerno. La sua storia,<br />
molto articolata dal punto di vista architettonico,<br />
ha inizio nel I-II sec. d.C. con la costruzione<br />
di un complesso termale. Il frigidarium<br />
di queste terme costituisce la parte più antica e<br />
di conseguenza pone un termine certo per<br />
l’identificazione del primo periodo di frequentazione<br />
della struttura.<br />
Nel V sec. d.C., in seguito ad un precedente<br />
abbandono delle terme, il frigidarium continuò<br />
ad essere frequentato, non più come ambiente<br />
termale, ma con funzioni totalmente differenti.<br />
Infatti esso diventò un luogo di culto che con<br />
opportune modifiche fu utilizzato come chiesa<br />
paleocristiana e coemeterium. La chiesa e il<br />
cimitero, destinato ad ospitare le tombe delle<br />
personalità e delle famiglie più importanti di<br />
Salerno, vennero frequentati e utilizzati fino alla<br />
prima metà del VII sec. d.C.<br />
Nella seconda metà dell’VIII sec. d.C., Arechi<br />
II, duca di Benevento, scelse la città di Salerno<br />
per la costruzione di un secondo palazzo, che<br />
includeva al suo interno una cappella privata.<br />
Come luogo di costruzione per la sua cappella<br />
palatina, Arechi II individuò la chiesa e il<br />
cimitero paleocristiano e dopo aver apportato<br />
alcune modifiche architettoniche (abbattimento<br />
delle volte romane e costruzione di pilastri e<br />
murature di sostegno) innalzò su di essi la cappella,<br />
dedicandola ai santi Pietro e Paolo.<br />
Le fondamenta del palatium, costituite dalle<br />
strutture del frigidarium, dalla chiesa e dal<br />
cimitero, diventarono un ambiente ipogeo frequentato<br />
non solo dalla famiglia principesca ma<br />
forse anche dai comuni cittadini.<br />
- 71 -<br />
Con la fine del dominio longobardo e con il<br />
conseguente avvento dei Normanni a Salerno, la<br />
struttura ipogea fu trasformata in oratorio. In<br />
quel periodo storico (XII-XIII sec. d.C.) vennero<br />
realizzate una serie di pitture murali con la tecnica<br />
dell’affresco, con soggetti religiosi di stile<br />
bizantineggiante.<br />
Successivamente, la struttura fu anche utilizzata<br />
come sala pubblica in cui venivano conferite<br />
le lauree della Scuola Medica Salernitana,<br />
finché, alla fine del 1500 si verificò l’abbandono<br />
dell’intero complesso.<br />
In seguito agli scavi archeologici effettuati<br />
negli anni ’80 del secolo XX, gli affreschi furono<br />
sottoposti ad una serie di restauri finalizzati<br />
a preservare la loro integrità strutturale e decorativa.<br />
Attualmente il loro stato di conservazione<br />
suscita non poche preoccupazioni, poiché sono<br />
ben evidenti svariate forme di degrado che nel<br />
corso degli anni hanno agito sugli affreschi,<br />
creando danni consistenti allo strato pittorico e<br />
all’intonaco sottostante.<br />
I materiali che costituiscono l’affresco, ma<br />
anche tutti quelli che costituiscono ogni altro<br />
bene culturale, sono soggetti a questi fenomeni<br />
di alterazione e degrado per l’ interazione che si<br />
verifica tra essi e l’ambiente in cui sono situati.<br />
L’alterazione è un fenomeno che modifica il<br />
materiale senza provocare un peggioramento<br />
delle sue proprietà. Essa influisce non sulla consistenza<br />
dell’opera ma sul suo aspetto, alterandone<br />
il colore o comunque la superficie esterna.<br />
Il degrado invece modifica le proprietà del<br />
materiale, provocando quindi una perdita di<br />
parte dell’opera. Esso agisce sul bene con fenomeni<br />
di consumo e distruzione, attraverso trasformazioni<br />
di natura chimica, fisica e biologica.
SALTERNUM<br />
Fig. 1 - San Pietro a Corte (SA). Madonna regina in trono con Bambino e Santa Caterina d’ Alessandria.<br />
Sul pilastro arechiano situato nella zona della<br />
chiesa (ambiente D), c’è l’affresco della<br />
Madonna regina in trono con Bambino e Santa<br />
Caterina d’ Alessandria (fig. 1), realizzato nel XII<br />
sec. d.C.<br />
L’intera immagine è circondata da una cornice<br />
rossa che risulta mancante in molti punti.<br />
Inoltre si può notare una notevole lacuna nella<br />
zona destra, che occulta una parte del corpo del<br />
Bambino.<br />
Lo stato di conservazione dell’affresco è<br />
mediocre. Le forme di degrado che hanno agito<br />
e continuano ad agire su di esso sono in gran<br />
parte leggibili sullo strato pittorico, ma si esten-<br />
- 72 -<br />
dono anche all’intonaco sottostante. Infatti si sta<br />
verificando una graduale disgregazione della<br />
muratura che in alcune zone ha provocato la<br />
perdita dei colori originali e l’esposizione in<br />
primo piano dello strato di intonaco sottostante.<br />
La disgregazione è la separazione spontanea<br />
di grani di materiale senza che si eserciti alcuna<br />
azione meccanica su di essi. La sua manifestazione<br />
può verificarsi in seguito al passaggio dell’acqua,<br />
che può circolare in una parete attraverso<br />
vari fenomeni come la capillarità o<br />
l’infiltrazione. Il suo passaggio può provocare<br />
lo scioglimento dei sali che incontra lungo il
suo cammino depositandoli altrove; i danni<br />
dovuti alla presenza di sali si verificano in<br />
seguito all’evaporazione dell’acqua, quando<br />
essi cristallizzano e quindi aumentano di volume.<br />
Si verifica a questo punto una prova di<br />
forza tra i cristalli in espansione e le pareti dei<br />
pori del materiale in questione; infatti uno dei<br />
due dovrà cedere a seconda della sua resistenza.<br />
Se l’intonaco è più resistente, il cristallo<br />
verrà espulso sotto forma di efflorescenza, se<br />
invece è più forte il sale, le pareti dei pori si<br />
romperanno, causando la disgregazione dell’intonaco.<br />
Nella fig. 2 è possibile osservare la disgregazione<br />
della superficie pittorica, che ha provocato<br />
l’esposizione dello strato di intonaco sottostante.<br />
Nella fig. 3 si può osservare, nel particolare<br />
dell’ampollina, ciò che resta del colore originale<br />
e il risultato cromatico verificatosi in seguito<br />
all’azione della forma di degrado.<br />
Nell’affresco inoltre è possibile osservare la<br />
formazione in alcuni punti di una leggera patina<br />
biancastra o patina carbonatica. Negli intonaci<br />
a base di calcio, l’azione combinata dell’acqua<br />
e dell’anidride carbonica sul calcio può<br />
provocare alterazioni chimiche. Quando<br />
l’intonaco di un affresco inizia a far presa,<br />
l’acqua evapora progressivamente, trasformando<br />
la malta in un composto sempre più compatto.<br />
Contemporaneamente, in superficie inizia a<br />
formarsi una crosta di carbonato di calcio che<br />
può rallentare la penetrazione dell’anidride carbonica<br />
nella profondità dell’intonaco. Di conseguenza,<br />
in superficie risulterà uno strato molto<br />
duro perché completamente carbonatato, mentre<br />
sotto lo strato sarà più debole, perchè<br />
l’acqua è evaporata prima che tutto l’idrato di<br />
calcio sia entrato in contatto con l’anidride carbonica<br />
e quindi in profondità resterà uno strato<br />
di idrato di calcio. A questo punto, se l’intonaco<br />
viene bagnato dalla pioggia o se si trova in<br />
ambienti altamente umidi, l’idrato di calcio può<br />
reagire di nuovo con l’anidride carbonica dell’aria<br />
e quando l’acqua evapora, può venire in<br />
superficie, dove carbonatandosi, continua ad<br />
indurire l’intonaco. Quando tutto l’idrato di calcio<br />
avrà reagito, l’umidità, non potendo più rea-<br />
MARIA AMORUSO<br />
- 73 -<br />
Fig. 2 - San Pietro a Corte (SA). Particolare dell’affresco con evidente<br />
disgregazione dello strato pittorico.<br />
Fig. 3 - San Pietro a Corte (SA). Particolare dell’ampollina dell’affresco di<br />
S. Caterina d’Alessandria.<br />
Fig. 4 - San Pietro a Corte (SA). ‘Madonna Eleusa’ o ‘della tenerezza’.
Fig. 5 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con sollevamento e caduta<br />
dello strato pittorico.<br />
Fig. 6 - San Pietro a Corte (SA). Teoria di Santi.<br />
gire con esso, provocherà un processo di disgregazione,<br />
poiché l’anidride carbonica inizierà ad<br />
esercitare la sua azione acida sul carbonato di<br />
calcio, trasformandolo in bicarbonato solubile<br />
che, quando l’acqua sarà evaporata, si ridepositerà<br />
altrove, sotto forma di un velo bianco di<br />
carbonato di calcio.<br />
Alla destra dell’affresco sopra citato c’è una<br />
parete anch’essa di costruzione arechiana sulla<br />
quale sono stati realizzati tra la fine del XII sec.<br />
e l’inizio del XIII sec. d.C. una serie di affreschi<br />
ovvero, una ‘Madonna Eleusa’ o ‘della tenerezza’<br />
(fig. 4) e una Teoria di Santi in piedi.<br />
SALTERNUM<br />
- 74 -<br />
Partendo dall’analisi dello stato di conservazione<br />
della Madonna Eleusa, la situazione risulta<br />
molto grave: è visibile una netta differenza tra<br />
la parte alta dell’affresco, che risulta leggibile e<br />
in uno stato di conservazione migliore, e la<br />
parte inferiore, notevolmente rovinata. In questa<br />
zona manca almeno il 40% della superficie pittorica.<br />
Anche su questo affresco la forma di degrado<br />
più evidente consiste nella disgregazione,<br />
che in questo caso, oltre allo strato pittorico, ha<br />
interessato anche lo strato di intonaco immediatamente<br />
al di sotto. È probabile che su di esso<br />
abbia agito una percentuale di umidità notevolmente<br />
maggiore che sull’affresco precedente.<br />
La realizzazione dell’affresco in una struttura<br />
ipogea, il cui piano di calpestio si trova attualmente<br />
a circa 5 m dall’attuale piano stradale, ha<br />
reso possibile la risalita dell’umidità dal sottosuolo.<br />
Questo fenomeno spiega perché la maggioranza<br />
delle forme di degrado si sia sviluppata<br />
nella parte inferiore dell’affresco, che si trova<br />
molto più vicina al piano di calpestio.<br />
Nella zona sinistra dell’affresco, ancora una<br />
volta nella parte inferiore, è possibile osservare in<br />
uno stesso punto le varie fasi di avanzamento di<br />
altre forme di degrado, quali rigonfiamento, distacco<br />
e caduta dello strato pittorico. (fig. 5).<br />
Anche in questo caso la principale causa dello<br />
sviluppo di queste forme di degrado è l’umidità<br />
e ancora una volta la parte di affresco interessata<br />
è lo strato pittorico.<br />
La superficie esterna di un affresco, quella<br />
che riceve lo strato pittorico, si trova sempre in<br />
condizione di instabilità maggiore rispetto alla<br />
superficie sottostante. Ciò si verifica perché essa<br />
costituisce il piano di separazione tra la struttura<br />
murale sottostante e l’ambiente, e quindi la<br />
manifestazione su di essa di fenomeni come<br />
l’evaporazione, la condensazione e il semplice<br />
passaggio dell’acqua possono creare forme di<br />
degrado che generano la disgregazione della<br />
materia.<br />
Alla destra della Madonna si possono osservare<br />
due Santi (fig. 6). Il primo risulta essere S.<br />
Giacomo, il secondo invece non offre le caratteristiche<br />
necessarie per una chiara identificazione.
Nel verificare il loro stato di conservazione si<br />
possono riscontrare le medesime forme di degrado<br />
che hanno interessato l’affresco precedente,<br />
soltanto con qualche minima differenza. La parte<br />
inferiore dell’affresco continua ad essere quella<br />
maggiormente colpita dal degrado, ma anche la<br />
parte superiore risulta danneggiata. Per S.<br />
Giacomo la situazione è migliore e il suo volto<br />
risulta perfettamente leggibile, ma procedendo<br />
verso il basso si può osservare che le mani sono<br />
interessate da rigonfiamento, distacco e da una<br />
minima caduta della pellicola pittorica (fig. 7).<br />
Ancora più in basso aumentano le aree interessate<br />
dal degrado. L’umidità che risale dal sottosuolo<br />
ha generato la comparsa di patine carbonatiche<br />
(fig. 8), ancora una volta cadute dello<br />
strato pittorico (fig. 9), efflorescenze (fig.10) e<br />
concrezioni, dovute al deposito di sali da parte<br />
di acque circolanti sul materiale.<br />
La situazione dell’altro Santo è ancora più<br />
grave: oltre alla presenza di lacune, il suo volto<br />
risulta sbiadito a causa di patine e concrezioni.<br />
La stessa situazione conservativa si può osservare<br />
sul resto del corpo, oltre ad una serie di lacune<br />
nella parte superiore dell’affresco.<br />
Alla destra dei due Santi si possono osservare<br />
gli ultimi due personaggi affrescati. Si tratta di<br />
due Santi Vescovi (fig. 11); anche per questi<br />
l’umidità proveniente dal sottosuolo e quella<br />
presente nell’ambiente sono le cause principali<br />
della manifestazione delle forme di degrado.<br />
Sull’intera superficie dell’affresco insiste una<br />
patina biancastra (fig. 12) di diverso spessore, la<br />
cui intensità è maggiore nel vescovo di sinistra.<br />
Per la caduta dello strato pittorico, l’esatta lettura<br />
dei volti risulta compromessa. Nella parte<br />
inferiore dell’affresco si ripresenta la situazione<br />
riscontrata nei casi precedenti. La zona è maggiormente<br />
degradata per la risalita dell’ umidità<br />
che ancora una volta ha generato patine, concrezioni<br />
e cadute dello strato pittorico (fig. 13).<br />
Frontalmente al pilastro arechiano si innalza<br />
un setto murario, anch’esso di fattura arechiana,<br />
che divide la sala termale in due parti. La parete,<br />
un tempo interamente decorata con affreschi,<br />
conserva oggi soltanto un soggetto iconografico<br />
nell’area sinistra e alcuni frammenti in alto a<br />
destra.<br />
MARIA AMORUSO<br />
- 75 -<br />
Fig. 7 - San Pietro a Corte (SA). Particolare della mano di S. Giacomo,<br />
con evidente distacco e caduta dello strato pittorico.<br />
Fig. 8 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con patine di tipo<br />
carbonatico.<br />
Fig. 9 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con distacchi e cadute della<br />
pellicola pittorica.<br />
La situazione conservativa di questo affresco<br />
che ritrae ‘San Nicola e il cavallo’ è particolarmente<br />
grave (fig. 14). Diverse tipologie di forme<br />
di degrado si alternano e/o si sovrappongono<br />
sull’intera superficie pittorica, estendendosi allo<br />
strato di intonaco sottostante. Ancora una volta<br />
è l’umidità, presente in alte percentuali nella<br />
struttura, che regola l’azione e lo sviluppo di
Fig. 10 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con efflorescenze.<br />
Fig. 11 - San Pietro a Corte (SA). Santi Vescovi.<br />
Fig. 12 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con patine dello strato<br />
pittorico.<br />
SALTERNUM<br />
- 76 -<br />
tutti i processi di degrado che mettono a rischio<br />
la conservazione di questo dipinto murale. La<br />
grande azione devastatrice dell’acqua si può<br />
osservare gradualmente in questo affresco se si<br />
analizzano diverse aree dello stesso in cui le<br />
forme di degrado sono avanzate con tempi differenti.<br />
La risalita dei sali in superficie si colloca<br />
tra le prime manifestazioni evidenti del passaggio<br />
dell’acqua all’interno della struttura muraria<br />
(fig. 15).<br />
La fase successiva comporta il rigonfiamento<br />
della pellicola pittorica, il suo distacco e infine<br />
la caduta. Contemporaneamente si possono<br />
osservare sulla superficie altre efflorescenze saline,<br />
che continuano la loro azione disgregativa<br />
anche all’interno dell’intonaco (fig. 16).<br />
Le ultime fasi di questa tipologia di degrado<br />
mostrano la disgregazione dello strato pittorico e<br />
dell’intonaco immediatamente al di sotto. In questo<br />
affresco inoltre si può osservare una particolare<br />
forma di degrado che ha provocato la formazione<br />
di piccoli buchi che si estendono dallo strato<br />
pittorico a quello di intonaco (fig. 17).<br />
Procedendo con un’ulteriore analisi della<br />
superficie, si possono notare altre manifestazioni<br />
di degrado, tra cui una frattura verticale nella<br />
zona in basso a destra e anche in altre zone in<br />
cui manca lo strato pittorico (fig. 18).<br />
Attualmente in questa area non è presente nessuna<br />
forma di umidità, ma la disgregazione che<br />
si sta verificando è probabilmente il risultato del<br />
passaggio dell’acqua in tempi passati.<br />
Dallo studio effettuato su tutte le pitture, in<br />
considerazione dell’ambiente in cui esse sono<br />
situate e in base alle forme di degrado riscontrate,<br />
risulta evidente che la causa principale dell’alterazione<br />
e del degrado è l’acqua. Sia che<br />
essa abbia agito in forma liquida o di vapore, la<br />
sua azione è stata costantemente attiva nel corso<br />
degli anni, così da lasciare danni ingenti su<br />
buona parte delle pitture.<br />
Nella struttura di San Pietro a Corte l’umidità<br />
si è diffusa in vari modi.<br />
L’umidità di condensazione, che evaporando<br />
tende a saturare l’aria nell’ambiente e quindi a<br />
provocare condensazioni sulle altre pareti, giustifica<br />
la formazione dei veli bianchi di carbonato<br />
di calcio e delle efflorescenze sugli affreschi.
L’umidità di capillarità, che circola nei pori<br />
dei materiali che compongono le murature, giustifica<br />
la formazione di efflorescenze e causa<br />
l’erosione e la distruzione delle malte e degli<br />
intonaci per solubilizzazione e ricristallizzazione<br />
dei sali nelle zone di evaporazione.<br />
Infine l’umidità proveniente dal sottosuolo,<br />
dovuta alla struttura ipogea, spiega il motivo<br />
della maggiore diffusione delle forme di degrado<br />
nelle zone inferiori degli affreschi.<br />
A queste forme di degrado sviluppatesi per<br />
cause fisiche bisogna aggiungere alcune forme<br />
di degrado generate da cause biologiche. La<br />
probabile presenza di funghi o batteri ha generato<br />
la nascita di chiazze nere sulla superficie<br />
muraria dell’abside della chiesa paleocristiana.<br />
Complessivamente la condizione conservativa<br />
dell’apparato decorativo di San Pietro a Corte<br />
richiede un immediato intervento di restauro.<br />
Le principali fasi del lavoro di conservazione<br />
e restauro dovrebbero basarsi sul consolidamento<br />
delle parti di strato pittorico che risultano in<br />
fase di distacco e sull’eliminazione delle efflorescenze<br />
e delle patine carbonatiche. Queste operazioni<br />
hanno il compito di bloccare almeno<br />
temporaneamente il lento ma costante processo<br />
di distruzione che sta agendo sugli affreschi. Per<br />
rendere duraturo tale intervento bisognerebbe<br />
creare le condizioni idonee per ristabilire<br />
l’equilibrio tra le opere, la struttura e l’ambiente<br />
in cui esso di trova. Ciò potrebbe essere concretizzato<br />
con la creazione di un microclima che<br />
mantenga costantemente la temperatura ideale<br />
per la migliore conservazione degli affreschi. In<br />
questo modo potrebbe essere eliminata<br />
l’umidità di condensazione. Molto difficile, se<br />
non impossibile invece è riuscire ad eliminare<br />
l’umidità proveniente dal sottosuolo. Nonostante<br />
questo impedimento, l’attuazione degli interventi<br />
precedentemente descritti garantirebbe<br />
comunque una vita più lunga agli affreschi e<br />
all’intera struttura e con l’attuazione di un intervento<br />
di restauro pittorico si potrebbe ammirare<br />
nuovamente lo splendore originario delle pitture.<br />
MARIA AMORUSO<br />
- 77 -<br />
Fig. 13 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con caduta dello strato<br />
pittorico.<br />
Fig. 14 - San Pietro a Corte (SA). San Nicola e il cavallo.<br />
Fig. 15 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con risalita dei sali in<br />
superficie.
Fig. 16 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con rigonfiamento, distacco<br />
e caduta della pellicola pittorica ed efflorescenze saline.<br />
Fig. 17 - San Pietro a Corte (SA). Particolari con formazione di buchi<br />
nello strato pittorico e in quello di intonaco.<br />
Fig. 18 - San Pietro a Corte (SA). Frattura dell’affresco sulla superficie<br />
muraria che interessa anche l’affresco.<br />
SALTERNUM<br />
- 78 -<br />
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Gli affreschi di Casaluce. Una parentesi medievale<br />
Premessa<br />
La prima idea che si ha nel varcare<br />
l’uscio della Cappella Palatina di Santa<br />
Barbara in Castel Nuovo presso Napoli<br />
è quella di trovarsi in un conciliante spazio<br />
mistico profuso di luce e di un’amena essenza<br />
cultuale. Ma se si acutizza l’osservazione e ci si<br />
accosta con lo sguardo alle pareti dello spazio<br />
chiesastico, si ha l’impressione lucidissima di<br />
essere a contatto con un contesto medievale di<br />
grande portata. La struttura trecentesca lascia<br />
trasparire finissime monofore ed elementi in<br />
muratura frutto delle architetture catalane di<br />
primo Trecento: gli unici elementi fortunatamente<br />
sopravvissuti al recupero della chiesa Palatina<br />
e che nel loro insieme costituiscono l’apparato<br />
più antico del complesso castellare napoletano.<br />
Il particolare che più di tutti coglie il visitatore è<br />
la sistematica esposizione di pareti affrescate,<br />
disposte l’una accanto all’altra su entrambi i<br />
muri intonacati e sullo spazio di fondo. Sono<br />
spezzoni di pittura italiana, smembrati dalle<br />
accurate ‘stagioni degli stacchi’ promosse negli<br />
anni ’70 1 e desiderosi di emergere dai lacunosi<br />
‘rimpiazzi’ in cemento per rivendicarsi il pregio<br />
interpretativo di un tempo ormai remoto. Il ciclo<br />
affrescato racchiude di primo acchito, tra forme<br />
e stile, ‘frammenti’ di pittura tardogotica di notevole<br />
valenza artistica, se si evidenzia che il<br />
magister degli elaborati è un giottesco fiorentino<br />
catapultato in una stagione artistica napoletana<br />
del tutto propizia per la corrente artistica di metà<br />
del Trecento 2 . La committenza in questione ci<br />
rimanda nella Terra di Lavoro angioina, in particolare<br />
a Casaluce. È nel casertano difatti che<br />
sopravvive tutt’oggi il grande castello nobiliare,<br />
trasformato poi in monastero celestino con<br />
GIANMATTEO FUNICELLI<br />
- 79 -<br />
annessa chiesa che diventerà il fulcro della<br />
vicenda artistica qui esposta. Essa rimane tutt’oggi<br />
viva testimonianza delle molteplici esperienze<br />
pittoriche medievali in Italia meridionale.<br />
Del grande complesso castellare, di origine non<br />
precedente al periodo normanno 3 , oggi rimane<br />
una minima configurazione esterna di tufo che<br />
in ogni modo perpetua il suo antico valore di<br />
grande costruzione fortilizia seppure resa indefinita<br />
da una forte obliterazione, ma non è questa<br />
occasione per trarne spunti critico-descrittivi.<br />
Quello che spetta in questo scritto è delineare il<br />
frutto di un ‘miracoloso’ intervento di recupero,<br />
promosso dalla Soprintendenza del Polo<br />
Museale Napoletano, e con la cooperazione<br />
direttiva del Museo San Martino di Napoli, i<br />
quali hanno contribuito a preservare, rivalorizzare<br />
e musealizzare un pezzo di arte italiana che<br />
nel tempo è rimasto eclissato nello sfascio e il<br />
dimenticatoio comune. L’altro fondamentale<br />
scopo è presentare uno degli elementi clou della<br />
pittura tardo-medievale campana estratta dal<br />
contesto di Casaluce, ossia il ciclo delle Storie di<br />
San Guglielmo di Gellone e alcuni passi dalla<br />
Vita di Cristo dalle due cappelle laterali della<br />
Chiesa di Santa Maria ad Nives, sacrario facente<br />
parte del castello sunnominato. L’altro intervento<br />
sarà dedicato alla bottega del capomastro fiorentino<br />
in questione, composta da due affrescanti<br />
di notevoli abilità esecutive, che percorrono<br />
a Casaluce il loro specialistico apprendistato.<br />
Risultano scarse le ricerche sul recupero delle<br />
pitture al riguardo, e tali sono anche i dibattiti<br />
storico – critici esposti tra le recenti monografie,<br />
ma nella complessiva rivalorizzazione del cantiere<br />
pittorico si è ricorso anche a contributi<br />
scientifici e pubblicazioni di notevole apporto
alla memoria artistica del luogo in esame. Questo<br />
scritto si propone anch’esso tale scopo. Ovvero<br />
vuole essere di ulteriore contribuzione alle scarse<br />
ma nel contempo esaustive ricerche che studiosi<br />
e ricercatori espongono tra le pagine di svariate<br />
pubblicazioni atte alla memoria del complessivo<br />
patrimonio storico-artistico campano.<br />
La committenza. Un valore ‘devozionale’<br />
La pittura pertinente agli affreschi casalucensi<br />
ci porta alla consapevolezza di un vasto progetto<br />
esecutivo realizzato da ben tre figure<br />
distinte, un capomastro e due discepoli anonimi.<br />
Le indagini iconografiche eseguite da<br />
Ferdinando Bologna designano sulle esecuzioni<br />
un maturo contesto angioino, dove operò senza<br />
dubbio la mano di Niccolò di Tommaso, pittore<br />
fiorentino, che riservò particolari setti murari a<br />
due altre personalità di bottega, allievi di cui<br />
SALTERNUM<br />
Fig. 1 - Niccolò di Tommaso, San Pietro Celestino (papa Celestino V) in trono accompagnato dai monaci celestini (particolare), XIV sec. (Napoli, Castel<br />
Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />
- 80 -<br />
però non conosciamo l’identità e ci limitiamo a<br />
proporli come Secondo e Terzo Maestro di<br />
Casaluce. Sulle figure dei committenti e patrocinatori<br />
del ciclo, si apre un vasto capitolo di discussione,<br />
tale da percepire appieno il valore che<br />
assumono i nobili nei moventi di siffatte esecuzioni.<br />
La richiesta di un’opera da parte di figure<br />
di alto potere è determinata da interessanti punti<br />
di vista in cui il richiedente si presenta come il<br />
‘vero ideatore’ dell’opera desiderata. Questo sta<br />
a giustificare nel commissionario uno specifico<br />
bisogno di ‘richiesta’ verso la figura a cui viene<br />
destinato l’ex voto. Per il ciclo di Casaluce i nobili<br />
concessori Raimondo Del Balzo, conte di<br />
Soleto, e sua moglie Isabella D’Apia si presentano<br />
nell’argomento in esame come i diretti committenti,<br />
tanto da rientrare anch’essi nelle scene<br />
figurate. Per inquadrare i due personaggi nel<br />
contesto politico della fine XIV secolo, basterà
notare che la famiglia De Baux, volgarizzata in<br />
‘del Balzo’, risulta di antiche origini provenzali,<br />
come i reali d’Angiò i quali rientrano anch’essi<br />
nel discorso artistico per essere stati gli iniziatori<br />
del successo della coppia. I d’Angiò stringeranno<br />
con la coppia un forte legame politico.<br />
Dopo essere stato insignito da Giovanna I del<br />
titolo di Gran Camerlengo, e facendosi così strada<br />
politica nel grande esercito reale angioino,<br />
Raimondo convola a nozze dapprima con<br />
Caterina de Lagonesse, per poi scegliere come<br />
seconda compagna Isabella D’Eppes (D’Apia) 4 .<br />
La famiglia di Raimondo risulta essere, dalle<br />
attestazioni artistiche campane, una delle tante<br />
in cui le committenze ricorrono come elemento<br />
peculiare nel riconoscimento pubblico, quasi<br />
come un dato distintivo. Non a caso l’enfasi del<br />
ruolo di promotori di cui si vestono i nobili<br />
coniugi si manifesta in continuo crescere tra i<br />
dati artistici del Castello 5 , mentre ricorrono spesso<br />
committenze anche nelle singole direttive<br />
artistiche di Isabella D’Apia 6 . Un documento dell’abate<br />
celestino Donato Siderno 7 , redatto quando<br />
l’archivio del castello era ancora del tutto agibile<br />
(1622), fa luce sull’acquisizione del maniero<br />
da parte del nobile francese, il quale lo ottenne<br />
annesso al casale di Casaluce nel giorno 8 febbraio<br />
del 1359 da Roberto D’Ariano, identificato<br />
come «cavaliero napolitano». Lo scopo dell’acquisto<br />
non fu solo quello di affermarsi politicamente,<br />
ma di fondarvi all’interno un micro-complesso<br />
monastico in cui venerare la sua importante<br />
collezione sacra: l’icona bizantina della<br />
c.d. Vergine di Casaluce e due idrie di sua proprietà<br />
e da egli stesso ritenuti i recipienti che il<br />
Cristo utilizzò per tramutare l’acqua in vino<br />
durante le Nozze di Cana. L’idea di istituire e<br />
annettere al castello di Casaluce un insediamento<br />
monastico celestino, intorno al 1365, è collegato<br />
ad un suo precedente intervento di edificazione<br />
monastica presso la Diocesi di Aversa.<br />
Non è certamente un caso che il Balzo abbia<br />
apportato alla circoscrizione diocesana di Aversa<br />
e al suo castello delle strutture conventuali (di<br />
cui una a carattere privato). I del Balzo con queste<br />
operazioni progettuali puntarono ad un fondamentale<br />
disegno di propaganda sacra per<br />
garantirsi una solida salvezza ‘per la vita eterna’,<br />
GIANMATTEO FUNICELLI<br />
- 81 -<br />
ovvero assicurarsi una protezione di carattere<br />
spirituale.<br />
Gli affreschi<br />
Meritevoli di una prima discussione sono le<br />
Storie di San Guglielmo di Gellone, in cui prevale<br />
l’unica ed inconfondibile mano lesta e sintetica<br />
di Niccolò di Tommaso. Queste, concentrate<br />
sul secondo ambiente congiunto alla navata di<br />
destra della chiesa di Santa Maria ad Nives, presentavano<br />
le vicende avventurose di Guglielmo<br />
d’Orange, il valoroso soldato che prestò servizio<br />
in Aquitania contro i Saraceni al servizio di Carlo<br />
Magno. Egli fondò a Gellone, a conclusione<br />
della sua carriera militare, l’abbazia in cui si rifugiò<br />
seguendo un’intensa vita monastica. Una<br />
prima dipintura del Maestro, però, verrà dapprima<br />
applicata per la raffigurazione dei committenti<br />
sullo spazio esterno del luogo sacro, e precisamente<br />
sull’intradosso della nicchia sinistra<br />
del portale di accesso alla chiesa. La scena<br />
descrive la coppia di nobili inginocchiati al<br />
cospetto di San Pietro Celestino (fig. 1), dove<br />
Isabella risulta accompagnata da Ludovico da<br />
Tolosa (fig. 2), questi in veste monacale. Nello<br />
spazio centrale vi è San Pietro Celestino assiso<br />
su di un monumentale trono 8 in atto di benedire<br />
e con lo sguardo fisso verso l’osservatore,<br />
mentre il fitto gruppo dei Celestini in atteggiamento<br />
di preghiera assiste ai suoi piedi.<br />
Ferdinando Bologna individua lampanti affinità<br />
stilistiche nei tratti somatici del San Pietro casalucense<br />
e nel Sant’Antonio abate datato al 1371,<br />
facente parte del Trittico di Forìa, che tutt’oggi<br />
si conserva presso il Museo Nazionale di<br />
Capodimonte 9 . Si notano, oltre a ciò, anche delle<br />
contrapposizioni esecutive nel dipinto sacro.<br />
Differenze di resa che riguardano ad esempio il<br />
preciso vigore nel realizzare il Pietro Celestino<br />
in opposizione al sintetico ed inespressivo volto<br />
di Isabella che la studiosa Francesca Larcinese,<br />
in un suo intervento sul Pittore 10 , afferma essere<br />
stato realizzato da uno dei due collaboratori, in<br />
quanto i particolari anatomici ed il panneggio<br />
della figura femminile risultano essere approssimativi<br />
e di sommaria definizione. Lo si deduce<br />
dalla «diversità del medium pittorico», giustificato<br />
(probabilmente) dal fatto che il personaggio
Fig. 2 - Niccolò di Tommaso, Isabella d’Eppe prega dinanzi a San Pietro<br />
Celestino accompagnata da San Ludovico di Tolosa (particolare), XIV sec.<br />
(Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />
Fig. 3 - Niccolò di Tommaso, L’incontro tra Guglielmo di Gellone e Carlo<br />
Magno (particolare), XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa<br />
Barbara).<br />
risultava scarsamente visibile nella composizione.<br />
Così Niccolò decise di mettere alla prova<br />
uno dei due collaboratori. San Ludovico da<br />
Tolosa viene, al contrario, egregiamente raffigurato.<br />
Nell’affresco verrà commemorato per aver<br />
donato a Raimondo gli oggetti sacri da venerare<br />
nel santuario. L’attività artistica di Niccolò di<br />
Tommaso presso Casaluce, iscritta in un arco<br />
SALTERNUM<br />
- 82 -<br />
temporale che va dal 1365 al 1371, proviene da<br />
una più ampia e ‘fortunata’ committenza reale<br />
per mano di Giovanna I d’Angiò intrapresa dapprima<br />
nella Chiesa di Sant’Antonio abate a Forìa,<br />
dove eseguì il Trittico sunnominato. Alle mura<br />
gotiche del santuario casertano, invece, il maestro<br />
giottesco dedica dei passi tratti dalle Storie<br />
di San Guglielmo I di Tolosa, che gli storici<br />
ricordano più spesso come Guglielmo<br />
d’Aquitania. Il valoroso paladino franco, che<br />
visse tra il 755 e l’812 d.C., era figlio di un merovingio<br />
e nipote di Carlo Martello, per cui cugino<br />
di Carlo Magno; a lui vennero riconosciuti i titoli<br />
di conte di Tolosa, duca di Narbona e Gotia.<br />
Dopo varie vicissitudini legate alla vita militare,<br />
il guerriero abdicò presso Gellona, dove fondò<br />
un monastero (806). Le sue vicissitudini vengono<br />
tramandate dai passi poetici della ‘Chanson<br />
de geste’, dove l’animoso soldato è il protagonista<br />
di una guerra contro i Saraceni del Sud francese.<br />
È da questa leggendaria vicenda letteraria<br />
che si possono trarre particolari accadimenti che<br />
trovano eco nelle raffigurazioni degli affreschi in<br />
esame. In tal modo si potrà ricreare, nel parziale<br />
itinerario affrescato, un percorso narrativo<br />
sequenziale tale da costituire una rara trascrizione<br />
pittorica della saga. Il racconto si apre sulla<br />
prima storia del capitolo, ossia quella riguardante<br />
l’episodio di Guglielmo inginocchiato dinanzi<br />
a Carlo Magno (fig. 3) che presenta non<br />
poche zone lacunose: al centro della scena campeggia<br />
il giovane cavaliere prostrato dinanzi ad<br />
una figura assisa su di un trono (Carlo Magno)<br />
in presenza di un gruppo di monaci acefali, in<br />
quanto dallo stacco del complesso ci perviene<br />
solo la parte inferiore dei dipinti. Così come si<br />
presentano trinciati nella zona superiore la raffigurazione<br />
dei cavalli sull’esterno della scena a<br />
sinistra, i quali alludono alla lunga galoppata<br />
che precedentemente Guglielmo intraprese per<br />
raggiungere l’imperatore ad Arles. Il Santo è raffigurato<br />
intento a descrivere a Carlo il sogno nel<br />
quale la Vergine gli avrebbe dettato una missione:<br />
«conservare la corona del figlio Luigi nei<br />
sette anni che separano il delfino dall’età matura,<br />
essendo prossima la morte dell’Imperatore».<br />
Dopo questa vicenda, la pittura percorre uno<br />
scenario di combattimenti sostenuti dal guerrie-
o contro i Saraceni, sviluppato<br />
dapprima nel frammento raffigurante<br />
l’imperatore sul suo fedele<br />
destriero bianco – purtroppo tanto<br />
lacunoso da cancellarne l’intera<br />
area superiore – al di sotto del<br />
quale compare un soldato sopraffatto.<br />
Nella scena raffigurante il combattimento<br />
tra Guglielmo e il gigante,<br />
viene presentato un personaggio<br />
ciclopico, dalla corazza rossa e la<br />
possente clava, identificabile in<br />
Renoardo, Re dei Saraceni (fig. 4).<br />
L’affascinante duello, in cui il fulcro<br />
della scena è la lancia di Guglielmo<br />
saldamente tesa verso il gigante,<br />
viene assistito da tre donne che si<br />
stagliano sullo sfondo cupo del<br />
bosco. Solo una delle gentildonne<br />
dalle mani legate volge lo sguardo<br />
alla scena, Guiborc, moglie di<br />
Guglielmo. La forte ed affannosa<br />
espressività dei volti delle donne<br />
rimanda alla Deposizione di Niccolò<br />
nella Pinacoteca di Parma, dove i<br />
volti delle donne attorno al Cristo<br />
riprendono lo stesso schema del<br />
sopracciglio congiunto alla canna<br />
del naso, nonché lo stesso lieve<br />
vigore emotivo delle ‘pie donne’. La<br />
conclusione del ciclo rimanda alla<br />
scelta del Santo verso la vita monastica.<br />
Una delle testimonianze è<br />
descritta su di un pannello conservato<br />
presso il Museo di San Martino,<br />
in cui campeggia una figura di spalle<br />
intenta a trasportare del materiale<br />
da costruzione in un contesto<br />
vago e montuoso. Si tratta delle montagne di<br />
Gellona, l’attuale Saint-Guilhelm-du Desert e le<br />
pietre trasportate dall’uomo indicano la prima<br />
fase della Fondazione del monastero di Gellone<br />
sui monti rocciosi, dove una visione divina gli<br />
comunica verbalmente: «In questo deserto<br />
costruirai la tua casa, servirai il Signore giorno e<br />
notte».<br />
Per i rimanenti affreschi, data la loro notevole<br />
frammentarietà, tale da non permetterne la<br />
GIANMATTEO FUNICELLI<br />
Fig. 4 - Niccolò di Tommaso, Duello tra Guglielmo di Gellone e il gigante Rinoardo (particolare),<br />
XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />
Fig. 5 - Niccolò di Tommaso, Scena non identificata tratta dalla vita di Guglielmo di Gellone<br />
(particolare), XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />
- 83 -<br />
completa identificazione, risulta operazione<br />
ardua quella di riconoscerne sia le giuste tematiche<br />
che gli elementi intrinsechi: si tratta di un<br />
brano in cui si leggono due figure, un uomo ed<br />
una donna con un’espressione affranta e recanti<br />
un bambino in fasce. I due si allontanano<br />
mentre alle loro spalle una figura, che esce da<br />
una porta sulla destra e armata con un bastone,<br />
allontana altre persone piangenti (fig. 5). Un<br />
altro lacerto non individuabile è la struttura di
Fig. 6 - Niccolò di Tommaso, Angelo entro cornice cosmatesca, XIV sec.<br />
(Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />
un edificio con arcate a tutto sesto e riccamente<br />
rivestito da modanature policrome e particolari<br />
quali bifore goticheggianti e colonnine tortili.<br />
Privati della lettura della parte inferiore, si scorge<br />
a malapena sul lato sinistro una figura femminile<br />
panneggiata di bianco e rosa e recante un oggetto,<br />
probabilmente un cesto con del pane, teso<br />
verso un uomo genuflesso che in cambio offre<br />
alla figura femminile un libro. Infine si evidenzia<br />
un terzo elemento pittorico identificato come un<br />
angelo iscritto in una cornice costituita da finte<br />
tarsie marmoree e dove lo spazio presenta elementi<br />
decorati in stile cosmatesco (fig. 6).<br />
Nell’intelaiatura geometrica compare un<br />
angelo riccamente vestito e dalle ali bianche. La<br />
grazia e l’armonia celeste è trasposta da Niccolò<br />
sul volto dell’angelo con abile e consapevole<br />
ingegno, tale da sottolinearne un raffinato valore<br />
emotivo.<br />
La continuità della Bottega. Il Secondo e il Terzo<br />
Maestro di Casaluce.<br />
In linea di continuità, agli affreschi del sacrario<br />
parteciparono attivamente altri allievi che la<br />
storiografia ha variamente interpretati 11 . Le ultime<br />
attribuzioni li riferiscono all’opera di due<br />
artisti non del tutto riconoscibili, il Secondo ed<br />
il Terzo Maestro di Casaluce, ai quali Niccolò<br />
SALTERNUM<br />
- 84 -<br />
riservò gli spazi della prima cappella dell’ingresso<br />
alla chiesa. Le tematiche affrontate dagli<br />
apprendisti hanno i seguenti contenuti: sugli<br />
interi spazi della cappella vennero raffigurate<br />
Scene della vita di Cristo e le Storie di<br />
Sant’Antonio abate. Nello spazio murario dell’altare<br />
vi erano inoltre due Santi in trono incorniciati<br />
e sormontati da una lunetta in cui si presenta<br />
una figura femminile entro un clipeo. Nella<br />
zona superiore dell’arco d’accesso alla cappella<br />
vi era raffigurato Il Sogno di Giacobbe, mentre<br />
nel registro inferiore erano affrescate delle singole<br />
figure di Santi, ovvero Antonio abate, un<br />
Santo certosino non del tutto identificato, e una<br />
Maria Maddalena (fig. 7). Gli ultimi due personaggi<br />
sacri rimangono i più enigmatici ed in<br />
attesa di un’appropriata identificazione agiografica.<br />
Difatti resta puramente indicativa l’ipotesi<br />
che la figura monacale maschile, recante un<br />
vaso nella mano destra, sia un personalità eminente<br />
nella cerchia ecclesiastica del contesto,<br />
così come la figura recante il ramoscello di fiori<br />
è stata maldestramente individuata come Santa<br />
Maria Maddalena, in cui tutti riconosciamo una<br />
simbologia lontana dall’ideale di purezza.<br />
Per quel che concerne le scene della Vita di<br />
Sant’Antonio, assegnate al Secondo Maestro, la<br />
Larcinese interpreta l’artista come un possibile<br />
fiorentino in quanto risultano lampanti alcuni<br />
ravvicinamenti alla pittura giottesca di Maso di<br />
Banco. Se si osservano i particolari paesaggistici<br />
della suggestiva scena di Sant’Antonio nel deserto<br />
(fig. 8), si notano forti richiami ai paesaggi<br />
murari che eseguì Giotto nella più fortunata stagione<br />
assisiate. Un paesaggio dalla vegetazione<br />
netta, e di notevole spazialità, di larga campitura<br />
e profondità prospettica: l’ideale ambientazione<br />
per inquadrare il Santo anacoreta che, attorniato<br />
dai demoni, si presenta verso il Cristo, mentre la<br />
folla incuriosita osserva la scena. Risulta fondamentale<br />
notare i particolari della resa chiaroscurale<br />
nei tratti somatici, che variano dalle linee<br />
mimiche dei volti attoniti alle mani dolcemente<br />
segnate dai tocchi chiaroscurali, sino ai leggeri<br />
panneggi, sia dei personaggi centrali della scena,<br />
che nel Cristo benedicente. Questi i segni peculiari<br />
di una minuziosità effettiva che ricorre<br />
anche nelle opere di Niccolò di Tommaso.
Passando all’esecuzione delle<br />
Esequie di Sant’Antonio abate<br />
(fig. 9), per la cui paternità artistica<br />
si continuano ad accettare<br />
entrambi i pittori anonimi, ci soffermiamo<br />
su di una scena abilmente<br />
iscritta in una sontuosa<br />
parentesi architettonica, a prospettiva<br />
centrale e di grande resa<br />
spaziale, tale da contenere il<br />
corpo spento del Santo nello spazio<br />
del centro e il corteo di<br />
monaci affollati sullo spazio di<br />
destra. Il punto culminante della<br />
scena dovrebbe focalizzarsi sul<br />
corpo del Santo in primo piano,<br />
ma l’attenzione del critico stavolta<br />
si riversa sui particolari della<br />
costruzione architettonica riccamente<br />
espressa nei valori goticheggianti.<br />
Il considerevole alzato<br />
presenta un vano centrale<br />
aggettante sovrastato da un soffitto<br />
intelaiato sotto cui si iscrivono<br />
i pennacchi dell’arco di sostegno<br />
a decorazione cosmatesca, attraverso<br />
il quale si presenta sullo<br />
sfondo un altro vano in cui è<br />
inclusa una bifora con estremità<br />
trilobate e con oculo. Gli spazi<br />
attigui a quello centrale si allineano<br />
al vano di fondo e presentano<br />
le stesse decorazioni intarsiate.<br />
Sullo spazio frontale di questi si<br />
aprono due archetti a sesto acuto<br />
schiacciato. La teoria secondo la<br />
quale l’opera potrebbe essere il<br />
risultato di una collaborazione a<br />
quattro mani tra il Secondo ed il<br />
Terzo Maestro risulta da un attenta analisi che<br />
compie P. Leone De Castris nel rapportare attinenze<br />
di gusto compositivo tra le architetture<br />
delle Esequie del Secondo Maestro, e lo spazio<br />
architettonico nella Distribuzione dei beni ai<br />
poveri attribuita invece al Terzo Maestro (fig.<br />
10). La raffigurazione seguente, erroneamente<br />
identificata come Storia della vita di San<br />
Lorenzo, trova una più valida interpretazione<br />
GIANMATTEO FUNICELLI<br />
Fig. 7 - Secondo Maestro di Casaluce, Santo benedettino e Santa vergine, XIV sec. (Napoli, Castel<br />
Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />
Fig. 8 - Secondo Maestro di Casaluce, Sant’Antonio nel deserto (particolare), XIV sec. (Napoli,<br />
Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />
- 85 -<br />
nella Rinuncia e donazione dei beni di<br />
Sant’Antonio ai poveri. Potrei avanzare, a mio<br />
avviso, che le architetture del registro sinistro<br />
della lunetta (quella meno lacunosa) presentano<br />
una particolare soluzione di inquadramento prospettico<br />
più contenuta, ma nel contempo del<br />
tutto spaziata invece negli interni, a differenza<br />
dell’affannoso edificio sacro delle Esequie di<br />
Sant’Antonio del Secondo Maestro (si noti come
Fig. 9 - Secondo Maestro di Casaluce, Esequie di Sant’Antonio abate, XIV<br />
sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />
Fig. 10 - Terzo Maestro di Casaluce, Distribuzione dei beni ai poveri (Storie<br />
di San Lorenzo ?) (particolare della lunetta sinistra lacunosa), XIV sec.<br />
(Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />
il Santo si lascia alle spalle una porta socchiusa,<br />
tale da localizzare la scena probabilmente in<br />
un’anticamera o nello spazio di un porticato).<br />
Basti notare la leggerezza dei due archi a tutto<br />
sesto in cui si inserisce la scena.<br />
SALTERNUM<br />
- 86 -<br />
Dell’altro registro, quasi del tutto obliterato, ci<br />
rimane una figura di spalle in abito sacerdotale<br />
che varca una più complessa architettura<br />
d’interno.<br />
Dell’abilità del Terzo Maestro, infine, mi limito<br />
ad annoverare la parete destra di un’ulteriore<br />
lunetta, ossia quella in cui è decritta, tra le parziali<br />
scene della cristologia casalucense, La chiamata<br />
di Giacomo e Giovanni intenti a pescare<br />
col padre Zebedeo (fig. 11). L’affresco, identificato<br />
anche come Chiamata di Pietro e Andrea 12 ,<br />
raffigura il Cristo che giunge verso la barca dei<br />
pescatori Giacomo e Giovanni per indurli a<br />
seguire la predicazione cristiana. La scena,<br />
modulata in un’ambientazione fluviale, presenta<br />
i due fratelli che lasciano il padre Zebedeo - raffigurato<br />
in barca sull’estrema destra mentre<br />
ricompone la rete, ignaro dell’accaduto - per<br />
ascoltare le parole del Cristo. A questo elaborato<br />
pittorico si dovrà giustamente riconoscere<br />
una sommarietà nelle esecuzioni dei volti, in cui<br />
emergono di buona qualità solo i tratti gentili<br />
del Cristo, personaggio chiave, in relazione a<br />
quelli attoniti dei fratelli pescatori, di resa più<br />
grossolana. Altrettanto indicativi sono i particolari<br />
anatomici delle mani e dei piedi di tutti i<br />
personaggi. Per i panneggi si ricorre a sommarie<br />
campiture cromatiche (povere quantitativamente<br />
e limitate al giallo-ocra, rosso, blu e verde) su<br />
cui vengono registrati sintetici tratti chiaroscurali,<br />
resi essenzialmente tramite solide e scure<br />
pennellate verticali, alternate a lievi biancheggiature.<br />
Elementi di pregio nell’esecuzione dell’elaborato<br />
sono da riconoscere soprattutto nella<br />
rappresentazione spaziale che, seppur impostata<br />
nel condizionato e disarticolato spazio della<br />
semilunetta di destra, si presenta del tutto esaustiva;<br />
presenze urbanistiche sullo sfondo, il<br />
fiume reso in prospettiva sull’area centrale, e la<br />
piccola ambientazione, fortemente marcata da<br />
ritmi chiaroscurali, sullo spazio di destra in cui<br />
viene centrata la scena rappresentata.<br />
In conclusione, nello stesso Terzo Maestro è<br />
da evidenziare una resa minore del naturalismo<br />
presente invece nelle dipinture del Secondo<br />
Maestro. Il Terzo Maestro agisce su composizioni<br />
dai forti verticalismi ed allungamenti anatomici<br />
enfatizzanti: elementi riscontrabili palesemen-
te nei volti e nei corpi allungati dell’Apparizione<br />
di Cristo alla Vergine, facente ugualmente parte<br />
del ciclo.<br />
Conclusioni<br />
A termine di questo breve excursus pittorico,<br />
sarebbe opportuno soffermarsi su altri elementi<br />
che in questo esame non sono stati menzionati.<br />
GIANMATTEO FUNICELLI<br />
Fig. 11 - Terzo Maestro di Casaluce, La chiamata d Giacomo e Giovanni, intenti a pescare col padre Zebedeo, XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella<br />
di Santa Barbara).<br />
- 87 -<br />
Trattasi di ulteriori pareti affrescate che denunciano<br />
una notevole alterazione e necessitano di un<br />
urgente restauro per ritornare a descrivere una<br />
parentesi dell’arte italiana del XIV secolo, che<br />
tutt’oggi vive in condizioni fatiscenti tra gli<br />
stucchi e le intonacature barocche della Chiesa<br />
di Santa Maria ad Nives di Casaluce, uno scrigno<br />
di storia dell’arte medievale.
NOTE<br />
1 Trattasi della ‘Stagione degli stacchi degli affreschi’, attività di<br />
recupero promossa dalla ‘Scuola di restauro’ fiorentina a partire<br />
dal 1971.<br />
2 Per comprendere validi punti sulla promozione dell’artista<br />
nel tardo Medioevo alla corte dei grandi Imperatori si rimanda<br />
a WARNKE 1995, p. 216.<br />
3 Per la storia del maniero casalucense si veda <strong>DI</strong> NARDO 1969,<br />
pp. 20-25.<br />
4 Risultano scarse le informazioni su Isabella d’Apia: probabilmente<br />
figlia del Cavaliere Giovanni d’Eppes, siniscalco del<br />
Regno di Sicilia. Nata nel 1305 e morta tra il 4 e il 14 luglio a<br />
Napoli del 1375. Alle nozze col del Balzo risultava già vedova<br />
di due matrimoni precedenti. Le sue origini possono essere<br />
chiaramente attestabili in Francia, come si evince dall’epigrafe<br />
iscritta sulla sua tomba che recita: «ISABELLA CELEBRI<br />
SIC NOMINE <strong>DI</strong>CTA / DEQUE APIA CLARUM TRAXIT COGNO-<br />
MEN AVORUM / FRANCIA QUOS GENUIT […]».<br />
5 Al ruolo di committenza che ebbero i del Balzo fa riferimento<br />
una lunga iscrizione in caratteri gotici posta nel portico del<br />
sacrario, precisamente sul lato destro del portale. L’epigrafe,<br />
in cui i consorti vengono esaltati in maniera egualitaria, elogia<br />
la fondazione della chiesa dedicata alla Vergine come frutto<br />
della stretta volontà di entrambi i personaggi.<br />
6 Esiste nel Castello una commissione unicamente diretta da<br />
Isabella. Essa si trova in una lunetta cuspidata nel portale<br />
d’ingresso alla chiesa. Nell’interno vi è un gruppo marmoreo<br />
raffigurante una ‘Madonna con Bambino’ mentre ai lati vi<br />
sono due figure di Santi. Nella figura maschile canuta<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
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dal secondo dopoguerra: criteri, scelte, risultati, in Napoli<br />
e la Campania del Novecento. Diario di un secolo, Napoli,<br />
vol. II, pp. 219-237.<br />
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CAMPANILE F. 1618, Dell’armi, ovvero insegne de’ nobili, seconda<br />
impressione, Napoli.<br />
CAPECELATRO F. 1769, Origine della città e delle famiglie nobili<br />
di Napoli, Napoli.<br />
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2, pp. 20-25.<br />
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LEONE DE CASTRIS P. 1990, Castel Nuovo, Il Museo Civico,<br />
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IDEM 1995 a , L’Italia meridionale, in Pittura murale d’Italia.<br />
Dal tardo Duecento ai primi del Quattrocento, a cura di M.<br />
SALTERNUM<br />
- 88 -<br />
l’iconografia riconosce S. Giacomo Maggiore, mentre l’altro<br />
personaggio intagliato, dai tratti incisivamente femminei, si<br />
presenta come Giovanni, fratello di Giacomo. Sul gruppo statuario<br />
spicca lo stemma nobiliare dei d’Apia, ma questa volta<br />
non integrato a quello dei del Balzo.<br />
7 Donato Pullieni de’ Lupari da Siderno, monaco celestino<br />
dalle alte cariche ufficiali, nacque a Siderno probabilmente<br />
tra il 1570 e il 1575. Dopo aver compiuto i primi studi teologici<br />
ed essere entrato nell’ordine dei Celestini di Bologna,<br />
giunse a Napoli nel 1609, dove si trasferì dapprima nel monastero<br />
di San Pietro a Majella per poi stabilirsi definitivamente<br />
nel Monastero di Casaluce. Qui guidò la sua comunità come<br />
Abate (1609).<br />
8 Nel soggiorno artistico napoletano, Niccolò di Tommaso si<br />
concesse una breve villeggiatura a Capri, dove sulla lunetta<br />
d’ingresso alla Certosa realizzò una Vergine assisa tra due<br />
committenti. Il trono caprese è identico a quello di Celestino<br />
V dell’affresco casalucense.<br />
9 Lo stesso Bologna afferma che Niccolò lasciò rapidamente<br />
Firenze per raggiungere Napoli e realizzare il progetto della<br />
regina angioina Giovanna I, ovvero il Trittico per la Chiesa di<br />
S. Antonio abate a Forìa. Per questo punto si veda BOLOGNA<br />
1969, p. 326.<br />
10 STRINATI 2007, pp. 49-52.<br />
11 Ottavio Morisani attribuì la paternità dell’intero ciclo ad<br />
Andrea Vanni, autore di un vasto polittico di cui una sezione<br />
è conservata presso il Museo di Capodimonte (MORISANI 1947,<br />
pp. 91-92).<br />
12 LEONE DE CASTRIS 1990, p. 80.<br />
GREGORI, Torino, pp. 180-202.<br />
IDEM 1995 b , A margine de “I pittori alla corte angioina”: Maso<br />
di Banco e Roberto d’Oderisio, in Napoli, l’Europa: ricerche<br />
di storia dell’arte in onore di Ferdinando Bologna, a cura di<br />
F. ABBATE – F. SRICCHIA SANTORO, Catanzaro, pp. 45-49.<br />
MAIURI A. 1940, Picturae Ligneis Formis inclusae. Note sulla<br />
tecnica della pittura in Campania, in “Accademia dei<br />
Lincei”, fasc. 7-10, pp. 138-160.<br />
MILANESI G. 1901, Nuovi documenti per la storia dell’arte<br />
toscana dal XII al XV secolo, nuova ed., Firenze.<br />
MORSANI O. 1947, Pittura del Trecento a Napoli, Napoli.<br />
PARENTE G. 1857, Origini e vicende ecclesiastiche della città<br />
di Aversa, frammenti storici, Napoli, pp. 157-163.<br />
RUSSO B. 1934, Il santuario della Madonna di Casaluce e il<br />
suo castello, Aversa.<br />
STRINATI T. et Alii 2007, Casaluce. Un ciclo trecentesco in terra<br />
angioina, Milano.<br />
TARTUFERI A. 1985, Appunti tardogotici fiorentini: Niccolò di<br />
Tommaso, il Maestro di Barberino e Neri di Bicci, in<br />
“Paragone”, n. 425, pp. 3-16.<br />
WARNKE M. 1995, Artisti di corte. Preistoria dell’artista<br />
moderno, Roma.
MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />
La Natività della tradizione apocrifa<br />
nella cripta della cattedrale di Nusco (AV)<br />
Fig. 1 - Gruppo statuario in stucco con la Vergine distesa dopo il parto e S. Giuseppe. Nusco, Cripta della Cattedrale.<br />
Una rappresentazione presepiale decisamente<br />
inusuale connota una piccola<br />
cappella laterale nella cripta della<br />
chiesa vescovile di Nusco, in provincia di<br />
Avellino. A marcare l’originalità della Natività é<br />
la composizione della scena: in parte affidata a<br />
due singolari statue (fig. 1), entrambe in pesante<br />
stucco cementizio, che mostrano un San<br />
Giuseppe sonnolente e la Vergine distesa dopo<br />
gli sforzi del parto, in parte raffigurata mediante<br />
pitture murali databili alla prima metà del XV<br />
secolo, un parato a fresco che occupa la quasi<br />
- 89 -<br />
totalità delle pareti della piccola cella e che successivi<br />
lavori di sistemazione della soprastante<br />
area presbiteriale hanno in parte compromesso.<br />
Mentre la scoperta e la lettura del ciclo pittorico<br />
e della statua del vecchio dormiente è questione<br />
recente (gennaio 1999), la figura femminile<br />
adagiata su di un catafalco è stata oggetto<br />
nel tempo di diverse interpretazioni. Per secoli è<br />
stata ritenuta come la Vergine del Soccorso, cui<br />
affidare la supplice preghiera delle partorienti;<br />
aspirazione taumaturgica comune per tutto il<br />
Medioevo, quando il parto costituiva un grave
Fig. 2 - Vergine puerpera, statua lignea donata dalla regina di Napoli<br />
Sancia di Maiorca alle Clarisse del Convento di Santa Chiara. Napoli,<br />
Museo di S. Martino (secolo XIV).<br />
pericolo, tale da suggerire alle donne gravide di<br />
rivolgersi in primo luogo alla Madre di Dio per<br />
chiedere a lei, in quanto Madre, aiuto e protezione.<br />
Il successivo ritrovamento, nel 1959, di<br />
un’epigrafe tombale lasciò intendere poi che<br />
quell’ambiente ipogeo potesse essere la cella<br />
sepolcrale dei Gianvilla (Janville) e la scultura la<br />
maschera sepolcrale di Ilaria, la nobile feudataria<br />
di Nusco morta nell’aprile del 1522, visibile<br />
solamente attraverso una sorta di fenestella confessionis<br />
che si apriva nel sacello ipogeico.<br />
Bisognerà attendere l’esecuzione dei lavori successivi<br />
al terremoto del 1980 1 per arrivare all’esplorazione<br />
del piccolo ridotto e conseguentemente<br />
al ritrovamento del ciclo pittorico; cosa<br />
che ha reso certamente più attendibile l’ipotesi<br />
che in quell’ambiente fosse stata ricreata<br />
un’ambientazione presepiale, una ricostruzione<br />
fortemente scenografica, letta alla luce dei<br />
Vangeli apocrifi e realizzata secondo i canoni<br />
iconografici ancora consentiti nei primi secoli<br />
del secondo Millennio.<br />
Nusco, sulla dorsale della linea spartiacque<br />
appenninica, a cavallo dell’alta Valle dell’Ofanto<br />
e del tratto superiore della Valle del Calore, è<br />
città di antica cristianità, sul cui seggio episcopale,<br />
nel 1048, salì per primo S. Amato, grazie alla<br />
nomina ottenuta dall’Arcivescovo di Salerno<br />
Alfano I e con il consenso di Roberto il<br />
Guiscardo. E proprio al Santo Vescovo di Nusco<br />
si deve la costruzione, nel 1093, e la dedicazione<br />
della maggior chiesa al protomartire S. Stefano.<br />
Una dedicazione solo formale, però, poiché da<br />
subito la chiesa fu per tutti quella di Sant’Amato,<br />
come si evince anche da un’ordinatoria di re<br />
SALTERNUM<br />
- 90 -<br />
Roberto d’Angiò del 1311, nella quale la chiesa<br />
vescovile di Nusco veniva denominata col titolo<br />
di Ecclesia Sancti Amati.<br />
La cattedrale si trova al centro della struttura<br />
urbanistica medievale, individuata nella città<br />
murata con il castello. In diretta relazione con la<br />
chiesa maggiore è la piazza, a cui si giunge<br />
attraverso la strada principale che dalla porta<br />
urbis conduce alla cattedrale, il cui impianto fa<br />
riferimento ad una tipica configurazione di stampo<br />
romanico della quale non sono sopravanzati<br />
particolari elementi, tranne poche tracce nella<br />
cripta sottostante il transetto e riferibili alla chiesa<br />
preesistente, forse la primitiva struttura del<br />
complesso di Santo Stefano.<br />
E in questa cripta, dove tra l’altro è conservata<br />
la preziosa urna con le ossa di Sant’Amato, si<br />
apre la cella con la singolare rappresentazione<br />
presepiale di cui ci stiamo occupando.<br />
Nella raffigurazione pittorica della Natività<br />
arcaica, mutila purtroppo in molte parti, anche<br />
se perfettamente leggibile, si riconoscono tutti<br />
gli elementi compositivi che si ritroveranno poi<br />
nella tradizione presepiale occidentale: c’è la<br />
grotta, che poi diverrà una capanna; l’asino e il<br />
bue; gli angeli che danno l’annuncio ai pastori;<br />
i Magi e le levatrici, che in seguito dovranno<br />
scomparire.<br />
A tenere la scena, però, sono le due figure<br />
statuarie: la Madonna, distesa su un prezioso<br />
drappo rosso, come nelle più classiche delle raffigurazioni<br />
bizantine, e S. Giuseppe, raffigurato<br />
nell’atteggiamento meditabondo di chi va interrogandosi<br />
sulla reale paternità di quel bambino.<br />
Praticamente la stessa ambientazione che<br />
M. Piacenza, già presidente della Pontificia<br />
Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e<br />
della Pontificia Commissione di Archeologia<br />
Sacra, descrive in un suo contributo, La rappresentazione<br />
della Natività nell’arte, raccolto in<br />
una nota dell’Agenzia Fides del 23 dicembre<br />
2005: «A partire dal IV secolo la Natività divenne<br />
uno dei temi più frequentemente rappresentati<br />
nell’arte religiosa, come dimostrano il prezioso<br />
dittico in avorio e pietre preziose del V secolo<br />
conservato nel Duomo di Milano, i mosaici della<br />
Cappella Palatina a Palermo, del Battistero di
Venezia e delle Basiliche di Santa Maria<br />
Maggiore e di Santa Maria in Trastevere a Roma.<br />
In queste opere la scena si svolge in una grotta,<br />
utilizzata per il ricovero degli animali, con Maria<br />
distesa come una puerpera, Giuseppe assorto in<br />
un angolo e gli Angeli che portano l’annuncio ai<br />
pastori, mentre a volte in lontananza si intravedono<br />
i Magi. Il centro della composizione è<br />
costituito dal Bambino Gesù, avvolto in fasce,<br />
talmente strette da parere quelle di un morto, e<br />
deposto in una culla, che a volte sembra un sarcofago,<br />
a preannunciare simbolicamente la sua<br />
morte e la risurrezione. La rappresentazione è<br />
inoltre arricchita da particolari tratti dai Vangeli<br />
apocrifi, come il bagno del Bambino, a sottolineare<br />
la realtà dell’incarnazione del Verbo, vero<br />
Dio e vero uomo».<br />
A incoraggiare la tesi che quella della cripta<br />
di Nusco sia una Natività, anche se manipolata<br />
nel tempo, c’è la fattura dei due altorilievi, formati<br />
da parti originali e da altre ricomposte<br />
secoli dopo da mani più inesperte, in una diversa<br />
postura e con materiale differente. Della<br />
Vergine, ad esempio, solo la parte superiore, il<br />
busto e il capo sono primigeni, mentre il resto è<br />
lavoro di restauro, confermato dalla circostanza<br />
che tra il materiale di risulta nella cripta sono<br />
stati poi rinvenuti un piede femminile e una<br />
mano su uno sfondo rosso, facilmente riconoscibili<br />
come il piede e la mano originali.<br />
Un coerente raffronto iconografico rimanda<br />
la lettura della figura della Madonna della cripta<br />
nuscana a quella della Vergine puerpera donata<br />
dalla regina di Napoli Sancia di Maiorca alle<br />
Clarisse del Convento di Santa Chiara e conservata<br />
nel Museo di S. Martino a Napoli (fig. 2).<br />
Questa Madonna, si legge sul pannello didascalico<br />
del sito museale, «é raffigurata distesa,<br />
secondo un’iconografia di provenienza siriaca,<br />
diffusa fin dal VI secolo. Ancora pensosa per il<br />
solitario travaglio ed assorta nell’arcano mistero,<br />
la Vergine aveva, presumibilmente, come in altre<br />
iconografie coeve, il Bambino alle sue spalle<br />
riscaldato dal bue e dall’asino. In questa fase di<br />
svolgimento del tema iconografico la figura di<br />
Giuseppe appare estranea alla scena sacra, mentre<br />
compaiono le nutrici, Zelomi e Salomé citate<br />
nei Vangeli apocrifi».<br />
MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />
- 91 -<br />
Fig. 3 - Scena presepiale, il<br />
primo bagno di Gesù<br />
Bambino. Nusco, Cripta<br />
della Cattedrale.<br />
Una descrizione di come si presentasse quella<br />
che a Nusco, ab antiquis temporibus, era ritenuta<br />
la Vergine delle partorienti l’ha lasciata un<br />
avveduto storico locale, G. Passaro, che ebbe<br />
modo di vedere la statua prima che la successiva<br />
opera restauratrice recuperasse le originali<br />
fattezze e la primitiva postura per consegnarcela<br />
come la si vede oggi: «Nell’ipogeo della cattedrale<br />
di Nusco è un simulacro in gesso, venerato<br />
sotto il titolo di Madonna del Soccorso. Con<br />
le mani giunte, senza Bambino, è vestita di tunica<br />
e di pallio, che, dalla testa, ricadendo sugli<br />
omeri e sulle braccia, finisce quasi nel mezzo<br />
della figura. Porta sul capo una corona, a punte,<br />
di legno dorato; i piedi poggiano su di una mensola<br />
di tiglio; giace distesa sopra un piano leggermente<br />
inclinato».<br />
Della statua di Giuseppe, invece, sono originali<br />
solo la testa e le piante dei piedi, pure queste<br />
ritrovate tra il materiale di riempimento della<br />
cella. I reperti rinvenuti sono in pietra e calce<br />
impastata e rivestita di stucco, lo stesso materiale<br />
con cui è fatta la statua della Madonna.<br />
La riproduzione di tutti gli altri personaggi<br />
del Presepe, invece, è affidata alle pitture murali<br />
e al pennello di un anonimo frescante che<br />
operò sulle pareti della cripta-grotta dell’antica<br />
cattedrale di Nusco.<br />
L’esegesi teologico-iconografica di questa<br />
Natività rende evidente l’umanità di Maria, collocata<br />
al centro della ricostruzione scenografica;<br />
una condizione che fa da contraltare alla divinità<br />
del Bambino. Tale centralità trova la sua<br />
ragion d’essere nei canoni del Concilio di Efeso
Fig. 4 - Scena presepiale, Gesù Bambino nella culla tra il bue e l’asino.<br />
Nusco, Cripta della Cattedrale.<br />
Fig. 5 - Scena presepiale, l’annuncio ai pastori. Nusco, Cripta della<br />
Cattedrale.<br />
Fig. 6 - Scena presepiale,<br />
i Magi in cammino.<br />
Nusco, Cripta della<br />
Cattedrale.<br />
SALTERNUM<br />
- 92 -<br />
del 431, che indicò la Vergine come il più perfetto<br />
esempio di umanità, proclamandola con il<br />
titolo di Theotókos, Madre di Dio; in questo<br />
richiamando con maggiore pregnanza quanto<br />
già i Vangeli avevano fatto comprendere, là<br />
dove si legge di Maria che ha concepito e generato<br />
un figlio, il quale è il Figlio dell’Altissimo,<br />
Santo e Figlio di Dio (Lc 1,31-32.35); Maria inoltre<br />
è chiamata ‘Madre di Gesù’ (Gv 2,1.3; At<br />
1,14), ‘Madre del Signore’ (Lc 1,43) o semplicemente<br />
‘madre’, ‘sua madre’ come più volte nel<br />
capitolo 2 di Matteo.<br />
Con l’intento di sottolineare l’assoluta naturalità<br />
della nascita del Bambino, la Vergine della<br />
cripta nuscana rimanda, per la sua posizione<br />
sdraiata, all’immagine di una puerpera che si è<br />
appena sgravata. Il suo volto, però, è sereno e<br />
per niente provato dalle fatiche del parto, così<br />
come vuole la concezione teologica di alcuni<br />
Padri della Chiesa, tra i quali S. Girolamo, che<br />
ritengono che il parto di Maria sia avvenuto<br />
senza degradazione e senza dolore.<br />
Nella scena presepiale di Nusco è del tutto<br />
evidente che la Madonna ha occhi solo per il<br />
Bambino, immerso già grandicello in una conca<br />
che ricorda il fonte battesimale, mentre due<br />
donne si occupano di lavarlo (fig. 3). La più<br />
anziana di queste, vestita con abiti più sontuosi,<br />
è certamente Salomè, l’ostetrica che, secondo i<br />
Vangeli apocrifi, ha dubitato della verginità di<br />
Maria. L’altra, invece, vestita più poveramente, è<br />
Zelomi.<br />
E occorre rifarsi ancora ai testi apocrifi<br />
(Protovangelo di Giacomo 18-19; Vangelo dello<br />
Pseudo-Matteo; Vangelo dell’infanzia arabosiriaco;<br />
Vangelo dell’infanzia armeno) per leggere<br />
l’altra scena della Natività, visibile alle<br />
spalle della Madonna, quella dove campeggia il<br />
Bambino con le fattezze di un neonato che sta<br />
ad indicare che tutto è presente, che il moto<br />
della natura è sospeso.<br />
Assecondando la teologia per immagini<br />
della tradizione bizantina, l’Infante è raffigurato<br />
tra il bue e l’asino (fig. 4), avvolto in fasce<br />
che ricordano le bende della sepoltura e in una<br />
vasca in pietra che ha le fattezze di una cassa<br />
sepolcrale, aperta per anticipare quello che<br />
sarà il destino umano del Salvatore dell’umani-
tà. In entrambe le scene la divinità del<br />
Bambino viene espressamente fatta risaltare dai<br />
nimbi dorati che cerchiano il capo delle due<br />
figure infantili.<br />
Un angelo, intanto, non molto lontano,<br />
annuncia solennemente ai pastori la nascita del<br />
Messia (fig. 5), mentre i Magi già sono in cammino,<br />
a piedi o su cavalcature le cui briglie sono<br />
rette da un paggio (fig. 6).<br />
Il paesaggio che fa da sfondo alla Natività è<br />
segnato da una rada vegetazione che si alterna<br />
a rocce taglienti e a spigoli vivi, quasi a volere<br />
significare che il Salvatore è nato in un mondo<br />
arido e freddo e quindi ostile.<br />
Dall’alto, infine, scendono tre raggi della stella<br />
di Giacobbe, evocata dall’oracolo messianico<br />
del mago Balaam, la cui storia si legge nel libro<br />
biblico dei Numeri (24, 17).<br />
Insieme a tutto questo, al disotto della scena<br />
pittorica e giusto ai piedi della Madonna, c’è la<br />
statua di S. Giuseppe, mostrato come un uomo<br />
anziano; peculiarità che viene ancora una volta<br />
ripresa dai Vangeli apocrifi. Il vegliardo, infatti,<br />
è rappresentato distante, in atteggiamento pensieroso,<br />
rinchiuso di fronte al mistero nel mantello<br />
dei propri pensieri e nel suo umanissimo<br />
dubbio. Lui sa di non essere il padre del neonato,<br />
per cui pare quasi che non voglia lasciarsi<br />
coinvolgere dalla scena e nella scena che si svolge<br />
attorno a lui.<br />
Questa tipologia di raffigurazione si ritrova<br />
assai di frequente in affreschi quattrocenteschi<br />
del Cilento, come la Natività nella cripta di<br />
Santa Maria dei Longobardi a Novi Velia (fig.<br />
7), pure questa chiaramente ispirata dai Vangeli<br />
apocrifi. Testi la cui influenza sarà riconosciuta<br />
acriticamente, almeno fino ai veti imposti dal<br />
Concilio di Trento, come un valido strumento<br />
didattico e didascalico. L’arte e la letteratura,<br />
infatti, hanno guardato attentamente per tutto il<br />
Medioevo e il Rinascimento all’intensa carica di<br />
umanità e al fin troppo esplicito realismo che<br />
contraddistinguono, ad esempio, i Vangeli dell’infanzia,<br />
che a differenza dei testi canonici<br />
raccontano con maggiore senso narrativo la<br />
nascita miracolosa di Gesù fino a coinvolgere<br />
personaggi nuovi. Cosicché, anche nella cripta<br />
della Cattedrale di Nusco, immaginata come la<br />
MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />
- 93 -<br />
Fig. 8 - Natività. Laurito, Chiesa di S. Filippo d’Agira.<br />
Fig. 7 - Natività.<br />
Novi Velia, Cripta<br />
di S. Maria dei<br />
Longobardi.<br />
grotta sotterranea «in cui non c’era mai stata<br />
luce, ma sempre tenebre», secondo il Vangelo<br />
dello Pseudo-Matteo XI, si vedono le levatrici<br />
impegnate a fare il bagno a Gesù.<br />
La presenza delle donne colloca gli affreschi<br />
di Nusco tra gli epigoni delle rappresentazioni<br />
presepiali che hanno attinto alla tradizione<br />
apocrifa, e per questo assumono un valore e<br />
un significato decisamente più interessante.<br />
Riprendendo il discorso sulle prescrizioni<br />
imposte dal Concilio tridentino, è utile ricordare<br />
la Natività della Chiesa di S. Filippo d’Agira<br />
a Laurito (fig. 8), cittadina prossima a Novi<br />
Velia, dove, mentre continuano ad esserci tutte<br />
le figure e gli elementi arcaici, la Vergine è ora<br />
in piedi, in posizione adorante. Altra evoluzione<br />
iconografica è quella che si ritrova nel battistero<br />
paleocristiano di S. Maria Maggiore a<br />
Nocera Superiore, dove la ‘grotta’ della natività<br />
è diventata la ‘capanna’ immaginata da San
Francesco.<br />
Già prima che la Chiesa vietasse con il<br />
Concilio di Trento la riproduzione nelle raffigurazioni<br />
iconografiche di soggetti dottrinalmente<br />
non corretti, quale era la scena del bagno e il<br />
parto della Vergine simile a quello di una comune<br />
donna, le elaborazioni dogmatiche di San<br />
Tommaso e le Meditazioni sulla vita di Cristo<br />
dello Pseudo-Bonaventura (il francescano<br />
Giovanni De Caulibus di San Gimignano)<br />
influenzarono l’operato degli artisti. Santa<br />
Brigida di Svezia, destinataria di suggestive<br />
Revelationes su alcuni episodi della storia sacra,<br />
tra i quali la nascita del Cristo, contribuì con<br />
maggiore determinazione a suggerire nuove<br />
figurazioni iconografiche, affermando che sul<br />
corpo di Gesù non c’era ombra di lordura.<br />
La descrizione della Natività fatta dalla Santa<br />
svedese, così dettagliata e ricca di particolari,<br />
ebbe maggiore impatto sugli artisti rispetto alle<br />
Meditationes vitae Christi, cosicché l’impianto<br />
rappresentativo del Natale conobbe, allora, una<br />
considerevole innovazione nei contenuti e nel<br />
linguaggio figurativo.<br />
In particolare, la formulazione di questa<br />
nuova rappresentazione andò presumibilmente<br />
sviluppandosi a Napoli ad opera del fiorentino<br />
Niccolò di Tommaso, pittore di corte della regina<br />
Giovanna negli anni Settanta del XIV secolo.<br />
L’artista toscano, che con molta probabilità<br />
aveva incontrato Brigida proprio alla corte<br />
angioina 2 , dove la visionaria svedese, di ritorno<br />
dal viaggio in Terra Santa, era giunta alla fine del<br />
1372 per restare ospite per qualche tempo nel<br />
palazzo di Aversa, ripropose in tre piccoli pannelli<br />
la visione della Natività secondo i canoni<br />
dettati da Brigida, che venne raffigurata mentre<br />
riceve le rivelazioni a Betlemme.<br />
In questi dipinti, oggi conservati in diversi<br />
musei 3 , la nobildonna svedese, priva di aureola<br />
perché non ancora santa, viene rappresentata<br />
genuflessa intanto che assiste adorante alla<br />
visione di Maria inginocchiata di fronte al Figlio<br />
che giace sul pavimento della grotta.<br />
Per tornare alla lettura critica della Natività<br />
della chiesa vescovile di Nusco, occorre dire che<br />
la ricostruzione riempie tutta la volta della grotta,<br />
mentre la Vergine puerpera, pur nella sua<br />
SALTERNUM<br />
- 94 -<br />
centralità scenografica, guarda il divino<br />
Bambino in piedi in una conca tondeggiante che<br />
ricorda il fonte battesimale. Gesù, identificato da<br />
un’aureola crucesignata, dorata ed evidenziata<br />
da perline bianche, è già grandicello.<br />
Nell’affresco Salomé é raffigurata vestita di<br />
verde, con uno scialle che le fascia la testa fin<br />
sotto il mento; nella mano sinistra regge una<br />
brocca monoansata, mentre con la destra sembra<br />
saggiare la temperatura dell’acqua nella<br />
vasca. L’altra donna, Zelomi (negli apocrifi viene<br />
identificata anche come Eva), con una tunica<br />
rossa e pure lei con il capo coperto da una sorta<br />
di cuffia, è intenta a lavare il divino giovinetto.<br />
La scena si consuma sulla soglia di quella<br />
che l’anonimo frescante nuscano ha immaginato,<br />
con una suggestiva costruzione scenografica,<br />
come una grotta segnata da massi sporgenti<br />
e irregolari che ne delimitano l’ingresso.<br />
L’affresco si rivela ancora arcaico nella<br />
costruzione dello spazio, nella mancanza di<br />
prospettiva e di profondità e nella piattezza di<br />
talune figure. Ciò nonostante si possono cogliere<br />
in alcune parti di esso i caratteri dell’innovativa<br />
pittura che già andava caratterizzandosi in<br />
contesti geografici e culturali più vicini alla<br />
modernità, con un contrasto stilistico che<br />
denuncia come evidente la presenza, sulla<br />
parete frontale, di un secondo frescante nell’angelo<br />
che annuncia a due pastori la nascita<br />
del Salvatore: probabile segno che nella cripta<br />
era stato avviato un cantiere.<br />
Vicino al Cristo bambino, nel lacerto di affresco,<br />
sono evidenti poche tracce pittoriche relative<br />
alla presenza del bue e dell’asino; purtroppo assai<br />
danneggiate dai lavori che interessarono la cripta.<br />
Del ruminante, alla destra del neonato e di color<br />
marrone, sono visibili solo una piccola parte delle<br />
zampe anteriori mentre è molto chiaro il ciuffo di<br />
fieno che viene fuori dalla bocca; dell’asino, invece,<br />
di colore grigio, si possono vedere gli zoccoli<br />
e parte della testa con un occhio.<br />
Purtroppo i lavori che tra il 1740 e il 1780,<br />
per iniziativa dei vescovi del tempo, servirono<br />
per consolidare la soprastante area del coro<br />
comportarono l’abbassamento della volta della<br />
cella e la conseguente distruzione della parte<br />
superiore dell’affresco.
Con queste opere strutturali sono state troncate<br />
di netto anche la testa e parte delle ali di un<br />
angelo annunciante, la cui figura si staglia dalla<br />
sommità di una colonna spezzata, della quale<br />
sono fin troppo delineate le scanalature verticali<br />
con gli spigoli smussati. La creatura celestiale,<br />
che indossa una preziosa veste damascata, una<br />
dalmatica nei colori rosso-oro, regge con la<br />
mano sinistra un lungo rotolo che gli arriva fino<br />
ai piedi e dal quale ha appena proclamato<br />
l’annuncio ai pastori.<br />
Questi, che puntano increduli lo sguardo sul<br />
messaggero divino, indossano una veste corta al<br />
ginocchio e la mantellina, calzano stivali morbidi<br />
e imbracciano un lungo bastone alla maniera<br />
dei pellegrini in viaggio.<br />
Alle loro spalle, sulla parete sinistra, la stessa<br />
mano ha raffigurato una scena pastorale (fig. 9)<br />
dove si vede un recinto per gli animali con alcune<br />
pecore che si rincorrono, mentre altri ovini<br />
bianchi e neri pascolano nei pressi, sorvegliati da<br />
un cane decisamente minaccioso. Tutt’intorno il<br />
paesaggio mostra alberi e arbusti cespugliosi. Nel<br />
trattamento degli animali raffigurati, questa<br />
scena pastorale richiama ancora una volta<br />
l’impianto pittorico che si ritrova nella già citata<br />
Natività quattrocentesca di Novi Velia.<br />
Si diceva di almeno due mani che, probabilmente<br />
intorno ai primi decenni del XV secolo,<br />
erano al lavoro nella cripta della Cattedrale di<br />
Nusco. La prima, quella che si impegna nella<br />
descrizione del Bambino, può ben essere quella<br />
di un pittore locale, sicuramente colto ma<br />
con scarsa predisposizione alla raffigurazione<br />
dei dettagli anatomici. Basta vedere come<br />
dipinge le braccia e le mani di Gesù, o quelle<br />
delle levatrici: arti tozzi, dove non c’è soluzione<br />
di continuità tra braccio e avambraccio, tra<br />
polso e mano. Doveva trattarsi di un pittore<br />
erudito, però, perché mostra di conoscere la<br />
Natività del Maestro della Cappella Barrile a<br />
San Lorenzo in Napoli (fig. 10), al quale si ispira<br />
con sorprendente evidenza nel disegno della<br />
cuffia che raccoglie i capelli di Zelomi e nei<br />
colori della veste di Salomè, pressoché identica<br />
nella gradazione di verde scelto per il tessuto<br />
dell’abito.<br />
MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />
- 95 -<br />
Fig. 9 - Scena<br />
pastorale.<br />
Nusco, Cripta<br />
della<br />
Cattedrale.<br />
Fig. 10 -<br />
Natività.<br />
Napoli,<br />
chiesa di<br />
S. Lorenzo,<br />
Cappella<br />
Barrile.<br />
Molto più eloquente è il secondo frescante, al<br />
cui pennello si deve attribuire l’annuncio dell’angelo<br />
ai pastori, la scena pastorale con lo stazzo<br />
e gli ovini, e ancora le figure dei Magi giunti<br />
seguendo la stella. Qui, con un netto distacco<br />
dei colori, il maestro ha rappresentato la scena<br />
e i personaggi con modi quasi miniaturistici,<br />
capaci di trasferire figure e personaggi dalla ben<br />
nota ritualità del mondo rurale e pastorale ad<br />
un’ambientazione immaginifica che si poggia su<br />
un paesaggio agreste, dove la caratterizzazione<br />
degli animali e della realtà circostante è enfatizzata<br />
da un’insolita e marcata sproporzione<br />
rispetto ai pastori, che nulla toglie però ad<br />
un’ammirevole sensibilità naturalistica.<br />
Se non ci fu proprio un vero cantiere, è lecito<br />
pensare che nella cripta nuscana abbiano<br />
operato in stretta collaborazione due pittori.<br />
Non è facile dire, considerata l’innegabile<br />
coerenza e la logica organicità, se operanti in<br />
contemporanea ovvero in successione, con il
secondo che riprende l’impostazione già data al<br />
programma dal suo predecessore.<br />
L’impostazione pittorica ricorda iconograficamente<br />
anche i cicli di affreschi dell’alto casertano,<br />
ed in particolare quello della Chiesa di<br />
Sant’Antonio Abate a Sant’Angelo d’Alife, datato<br />
intorno agli anni Trenta del ‘400 e inizialmente<br />
attribuito a Perrinetto da Benevento; attribuzione<br />
che negli ultimi anni pare non trovare più<br />
sufficiente fondamento.<br />
Il nostro frescante sembra aver guardato,<br />
almeno un decennio dopo, ai cantieri dell’area<br />
matesina-alifana, e in particolare agli affreschi<br />
della Chiesa di San Biagio a Piedimonte Matese,<br />
a quelli di Sant’Antonio abate a Pantuliano di<br />
Pastorano e alle citate pitture dell’omonima<br />
chiesa santangiolese, assimilando e cercando di<br />
far propria quella cultura.<br />
Un contesto geografico e culturale, quello<br />
alifano, in qualche modo legato alla storia delle<br />
comunità dell’alta valle del Calore grazie ad una<br />
lunga signoria feudale avuta in comune, che fa<br />
ipotizzare frequenti contatti e scambi di servizi<br />
artistici tra le due realtà territoriali. È provato,<br />
infatti, che le terre irpine e quelle del medio<br />
Volturno (fiume affluente del Calore) fossero,<br />
dal 1194 al 1269, nel possesso feudale dei<br />
Schweisspeunt prima e dei d’Aquino dopo, e<br />
dal 1307 al 1345 dei Gianvilla, casate che contemporaneamente<br />
tenevano anche Nusco. E<br />
ancora più stretto fu il rapporto quando<br />
Ceccarella, figlia secondogenita di Amelio<br />
Gianvilla, conte di Sant’Angelo dei Lombardi e<br />
della terra di Nusco, tra la fine del 1300 e i primi<br />
anni del 1400 andò in sposa a Goffredo di<br />
Marzano, conte di Alife.<br />
Che ci fosse un consolidato contatto tra<br />
l’area alifana e l’alta valle del Calore è provato,<br />
inoltre, anche dall’acquisto che gli Origlia,<br />
signori di Alife dal 1407 al 1419, fecero del<br />
feudo irpino di Volturara, ricomprato ancora<br />
una volta alla fine del 1530 dal nuovo feudatario,<br />
il Conte Antonio Diaz Garlon.<br />
La scena pastorale degli affreschi alifani, così<br />
come la raffigurazione degli animali e la vegetazione,<br />
infatti, impongono inevitabilmente il<br />
confronto con gli analoghi soggetti della cripta<br />
nuscana, che divide con gli affreschi delle cita-<br />
SALTERNUM<br />
- 96 -<br />
te chiese dell’area matesina anche la rappresentazione<br />
morfologica degli elementi lapidei, che<br />
si presentano uniformemente aspri e frastagliati.<br />
Va detto, in ogni caso, che mentre è indubbio<br />
che questi motivi erano ricorrenti nelle aree<br />
interne, e per il momento solo con esse, visto il<br />
paragone già proposto con l’affresco di Novi<br />
Velia, il confronto con la pittura napoletana<br />
resta assolutamente impossibile, dal momento<br />
che nella Capitale quasi nulla ci è pervenuto<br />
quanto a cicli tardogotici. Per di più è singolare<br />
la notevole analogia della figura di San<br />
Giuseppe nella scena cilentana con il sonnolente<br />
patriarca di quella a S. Angelo d’Alife.<br />
Riprendendo il discorso sulle pitture della<br />
cripta di Nusco, va notato che mentre vicino<br />
alle ali dell’angelo annunciante si intravedono<br />
appena le punte estreme di quella che doveva<br />
essere la stella di Giacobbe, meglio conservata<br />
è invece la scena dei Magi che arrivano al<br />
cospetto del Messia. La regalità dei tre sapienti,<br />
preannunciati dalla stella che due di loro sembrano<br />
indicare con l’indice destro puntato verso<br />
l’alto, è contraddistinta dalle corone che portano<br />
con sicurezza e che danno ad ognuno un<br />
prestigio che incute deferenza anche da parte<br />
del paggio di colore che li accompagna e che<br />
resta un passo indietro, compreso anche lui<br />
dalla considerazione che sta vivendo un’ora<br />
grande e decisiva. Il rispetto per i Magi, che esibiscono<br />
barbe lunghe e ben tenute che ci permettono<br />
di attribuire loro un’età giovane, adulta<br />
e anziana, è enfatizzato pure dal loro abbigliamento<br />
semplice e severo, caratterizzato da<br />
un mantello sopra una lunga tunica da cui fuoriescono<br />
gli stivali alti, di morbida pelle, che<br />
tendono ad afflosciarsi con pieghe di originale<br />
sinuosità.<br />
Scrive ancora M. Piacenza: «Dal secolo XIV<br />
anche l’aspetto dei Magi comincia a differenziarsi.<br />
Identificati con i tre popoli discendenti<br />
dai figli di Noè, diventano i rappresentanti<br />
rispettivamente delle tre razze umane, dei tre<br />
continenti allora conosciuti e delle tre età dell’uomo…».<br />
I tre saggi, infine, hanno tra le mani una<br />
sorta di pisside lungiforme e sfaccettata, che
contribuisce a dare valore ai doni che ognuno<br />
di loro porta a Betlemme.<br />
Del cielo nel ciclo pittorico di Nusco, di colore<br />
blu e trapuntato di stelle, è rimasto ben poco<br />
a causa dei citati lavori per l’abbassamento della<br />
volta. Ma l’osservazione attenta delle pitture<br />
mostra con evidenza che l’affresco doveva proseguire<br />
anche al di fuori dell’attuale perimetro<br />
della cella, dove un muro di sostegno del vano<br />
ipogeo le ha purtroppo interrotte.<br />
MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />
- 97 -<br />
L’importanza delle pitture murali della cattedrale<br />
di Nusco non deriva esclusivamente dalla<br />
loro particolare cifra artistica, ma anche e<br />
soprattutto dal fatto di avere la capacità di riassumere,<br />
in uno spazio fisico limitatissimo, il<br />
complesso ed articolato universo della Natività<br />
nella cultura religiosa dell’epoca.<br />
Del resto il tema della Natività aveva assunto,<br />
fin dall’antichità, un ruolo primario nell’iconografia<br />
dell’arte sacra, essendo, insieme alla<br />
Passione, l’evento centrale della Cristianità.
Questo studio riprende e sintetizza uno degli argomenti della tesi<br />
di laurea in Storia dell’Arte Medievale ‘Affreschi del XIV e XV secolo<br />
nell’Alta Valle del Calore’, Istituto Universitario ‘Suor Orsola<br />
Benincasa’ - Napoli (a.a. 2007-2008, Relatore: prof. P. Leone De<br />
Castris).<br />
NOTE<br />
1 PASSARO 1980, p. 171.<br />
2 La presenza a Napoli della nobile svedese è confermata da<br />
una testimonianza raccolta nelle udienze per la canonizza-<br />
BIBLIOGRAFIA<br />
ABBATE F. 1990 (a cura di), Il Cilento ritrovato: la produzione<br />
artistica nell’antica diocesi di Capaccio (Catalogo della<br />
Mostra, Padula), Napoli.<br />
CARAFA R. 1998, La chiesa di S. Maria dei Lombardi, in “I<br />
beni culturali”, VI, 3/98, pp. 40-42.<br />
CASAZZA C. 1860, Sulla statua della beata Vergine detta del<br />
Soccorso esistente nell’ipogeo della chiesa vescovile di Nusco<br />
in provincia di P. U., Napoli.<br />
PASSARO G. 1980, Cronotassi dei Vescovi della Diocesi di<br />
Nusco, Napoli, vol. IV, parte II, Tavv. 51-100.<br />
SVANBERG J. 2003, Niccolò Di Tommaso’s paintings in the<br />
Naples area and Birgitta, in AILI H. - SVANBERG J. 2003,<br />
Imagines Sanctae Birgittae: the earliest illuminated manuscripts<br />
and panel paintings related to the revelations of St.<br />
Birgitta of Sweden, The Royal Academy of Letters, History<br />
and Antiquities, Stockholm.<br />
zione della futura santa, avvenuta nel 1391 ad opera di<br />
Papa Bonifacio IX (cfr. SVANBERG 2003, p. 101, n. 60).<br />
3 Dei tre dipinti uno, Santa Brigida di Svezia e la Visione della<br />
Natività, è nella Pinacoteca Vaticana; un secondo, commissionato<br />
dalla Regina Giovanna per la chiesa di S. Antonio abate,<br />
è conservato nella Johnson Collection del Philadelphia<br />
Museum of Art; il terzo, infine, è alla Yale University tra le<br />
opere dell’Art Collection.<br />
SITOGRAFIA<br />
BERGAMO M. 2003, Da Maria puerpera a Maria adorante -<br />
Evoluzione della postura della Madre di Dio nelle immagini<br />
della Natività, inEngramma, Rivista on-line del Centro<br />
studi ‘Architettura, civiltà, tradizione del classico’<br />
dell’Università IUAV di Venezia, n. 29, dic. 2003.<br />
http://www.engramma.it/engramma_v4/rivista/esperidi/29<br />
/029_nativita_home.html<br />
PIACENZA M. 2005, La rappresentazione della Natività<br />
nell’arte, in Agenzia Fides, 23/12/2005.<br />
http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commi<br />
ssions/pcchc/documents/rc_com_pcchc_20051223_nati<br />
vita-arte_it.html
Origini e sviluppo dell’architettura rurale<br />
nella piana del Sele: l’esempio della Masseria Fosso<br />
Premessa<br />
La Piana del Sele ha offerto sin dal<br />
Paleolitico felici condizioni di insediamento<br />
a piccole comunità che, agevolate<br />
dal clima dolce e dal suolo fertile, ne sfruttavano<br />
i molteplici fiumi e torrenti.<br />
Tra il 730 e il 580 a.C. Etruschi e Greci si stabilirono<br />
rispettivamente alla destra e alla sinistra<br />
del fiume Sele, traendo potere e ricchezza dai<br />
commerci, dallo sfruttamento cerealicolo della<br />
terra e contrastando, in tal modo, l’espandersi<br />
della palude, oltre che favorendo la diffusione di<br />
fattorie e santuari agresti.<br />
A partire dal III secolo a.C., con l’avvio della<br />
politica di espansione da parte di Roma, si consolidò<br />
il processo di omologazione culturale,<br />
cominciato con la comparsa nella Piana degli<br />
Oschi, dei Sanniti, dei Lucani. Iniziò, quindi, un<br />
periodo di prosperità con la costruzione di<br />
ponti, strade, ville e con l’impianto di canali, atti<br />
a prosciugare le aree acquitrinose.<br />
Tuttavia, il trasferimento della capitale a<br />
Bisanzio e le invasioni barbariche determinarono<br />
anche in queste aree l’estendersi della palude<br />
e la conseguente malaria; inoltre, già con<br />
l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. il lapillo si era<br />
depositato nei canali di drenaggio, contribuendo<br />
alla loro definitiva scomparsa. Le popolazioni<br />
della Piana, stremate dalle difficoltà ambientali,<br />
si ritirarono sui monti, in luoghi più salubri e<br />
sicuri.<br />
La ricostruzione demografica delle campagne<br />
iniziò durante il periodo di massimo splendore<br />
della Repubblica di Amalfi e del Principato di<br />
Salerno: parallelamente al sorgere di vari monasteri<br />
benedettini, centri di comunità religiose ed<br />
agricole, cominciarono a disseminarsi piccole<br />
LORELLA MAZZELLA<br />
- 99 -<br />
Fig. 1 - Localizzazione della Masseria Fosso sulla mappa catastale.<br />
Fig. 2 - ASNa, Archivio Privato Doria d’Angri, parte I, 1827, busta<br />
863.<br />
abitazioni rurali al fine di ospitare i contadini trasferitisi<br />
in zona a seguito della messa a coltura<br />
delle terre appartenenti alla Badia di Cava e alla<br />
Chiesa salernitana.<br />
Origini e sviluppi<br />
Il Medioevo, dunque, diede inizio alla fioritura<br />
economica della Piana, poiché i principi longobardi,<br />
oltre a fondare vari monasteri, promossero<br />
un diffuso tentativo di bonifica e di recupe-
Fig. 3 - Masseria Fosso. Veduta esterna.<br />
ro di terreni incolti, provato dall’impianto di<br />
vigneti anche in zone malsane, dalla costruzione<br />
di numerosi mulini ad acqua e dall’edificazione<br />
di cappelle rurali allo scopo di provvedere<br />
alla vita spirituale dei contadini.<br />
Le costruzioni rurali vennero ubicate nei<br />
punti meno pericolosi per le infezioni malariche,<br />
con possibilità di irrigazione sfruttando<br />
attraverso sistemi rudimentali le acque di fiumi<br />
e torrenti, e lungo le grandi strade di comunicazione<br />
che conducevano al Cilento o alle<br />
Calabrie.<br />
In un primo momento le peculiarità di tali<br />
abitazioni - orientamento, materiali e tecniche<br />
costruttive, distribuzione interna, utilizzo di<br />
scale esterne, porticati, terrazze - furono fortemente<br />
condizionate dalle caratteristiche geologiche<br />
e climatiche del territorio, connesse<br />
alle limitazioni economiche e alle esigenze<br />
funzionali della società contadina; successivamente,<br />
la progressiva estensione del patrimonio<br />
terriero ecclesiastico e baronale rese tali<br />
costruzioni espressione tangibile e irriproducibile<br />
dei cambiamenti sociali, economici e culturali<br />
in atto.<br />
Aggiunte e ampliamenti vennero realizzati a<br />
partire dal nucleo primitivo delle abitazioni,<br />
proporzionali all’estensione della proprietà o<br />
alla potenza della casata, fino alla trasformazione<br />
di esse, nel XVII secolo, in importanti aziende<br />
condotte da grandi feudatari o affittate o<br />
affidate in dote per matrimoni o monacazioni.<br />
A seconda delle possibilità di irrigazione e<br />
delle comodità che la masseria offriva (attrezzi<br />
per la pigiatura e la fermentazione del mosto,<br />
pozzo di acqua sorgente, stalla, forno, aia), le<br />
proprietà potevano comprendere terreni arbustati,<br />
vitati, seminatori e fruttiferi.<br />
SALTERNUM<br />
- 100 -<br />
Dunque, l’acquisto di una masseria ben<br />
attrezzata richiedeva somme piuttosto consistenti<br />
e, conseguentemente, accanto ai grandi Ordini<br />
Religiosi, i grandi feudatari della Piana furono i<br />
Grimaldi, i Filomarino, i Genovese, i Pignatelli<br />
Noja, i Doria d’Angri.<br />
Inoltre, allo sfruttamento agricolo della Piana<br />
promosso dalle masserie si lega la nascita della<br />
città di Battipaglia - il cui spunto venne offerto<br />
dalla volontà di ospitare i terremotati di Melfi<br />
(1857) - ed alla creazione di tabacchifici, conservifici,<br />
caseifici.<br />
Dei molteplici organismi di architettura rurale<br />
disseminati nel territorio della Piana, si indaga<br />
il caso della masseria Fosso che, per vicende<br />
storiche, peculiarità e caratteristiche costruttive,<br />
rappresenta il monumento/documento esplicativo<br />
di quanto detto finora.<br />
La Masseria Fosso<br />
Vicende storiche<br />
Fosso è un’importante costruzione rurale ubicata<br />
in località Tusciano, posta immediatamente<br />
ad Ovest del fiume omonimo, in un territorio<br />
che ora appartiene al comune di Battipaglia, ma<br />
che fino ad un passato recente apparteneva a<br />
quello di Montecorvino.<br />
Essa, probabilmente, deriva il suo nome dall’utilizzo<br />
dei ‘fossi’, canali artigianali realizzati<br />
per irrigare i campi incanalando le acque del<br />
Tusciano; infatti, i canali erano limitati proprio a<br />
solchi scavati nel terreno a seconda delle esigenze<br />
e della posizione dei fondi che venivano irrigati.<br />
Non si conosce la data di fondazione della<br />
masseria ma nell’anno 940 Guaimario II arricchì<br />
il patrimonio arcivescovile con la donazione di<br />
alcuni terreni ubicati a poca distanza dal<br />
Tusciano e dal suo affluente, il Cornea 1 .<br />
Successivamente, nel 977, il principe Gisulfo I<br />
donò all’Arcivescovo tutte le terre di cui non era<br />
ancora proprietaria poste tra il fiume Tusciano e<br />
la riva del mare 2 ; tale lascito fu confermato dai<br />
suoi successori, mentre nel 982 la Mensa<br />
Arcivescovile salernitana ottenne anche il diritto<br />
del «decursus aquarum» sui fiumi Tusciano e<br />
Sele da Ottone II 3 .
In epoca normanna anche Roberto il<br />
Guiscardo confermò i possedimenti della<br />
Chiesa 4 , la quale conduceva i suoi beni con contratti<br />
di locazione «ad amphiteosim perpetuam»,<br />
mediante i quali si richiedeva ai locatari il dissodamento<br />
delle terre incolte e il miglioramento di<br />
quelle già coltivate; in cambio si concedeva il<br />
godimento del fondo e la facoltà di trasmetterlo<br />
agli eredi.<br />
In un documento del 1321, Bartolomea, badessa<br />
del monastero di S. Lorenzo di Amalfi, cedette<br />
in locazione a «(…) Nicolao f. qd Francisci de<br />
Rodoerio da Girono terram seminatoriam sitam in<br />
Tussano ubi a lu Fossu dicitur (…)» 5 .<br />
Nel 1331 Petrus de Vallone di Salerno fittò a<br />
Bernardo de Morcono per parte del monastero<br />
di S. Lorenzo di Amalfi una terra situata fuori<br />
Salerno «(…) in loco Tussiani seu Fossi» 6 .<br />
Il 19 novembre del 1367 la località Fosso è<br />
nuovamente citata in una lite giudiziaria per il<br />
possesso del Priorato di S. Maria de ‘dopmo’ e di<br />
S. Massimo, tra l’Arcivescovo di Salerno<br />
Guglielmo e l’abate di Cava Golferio; ma in questo<br />
caso la citazione è marginale, in quanto<br />
serve solo ad indicare che il vastatario di S. Mattia<br />
è ‘prope fossum’ 7 .<br />
Il potere arcivescovile sul territorio della<br />
Piana durò fino al 1550 circa: nel 1494 Alfonso<br />
d’Aragona stabilì che Montecorvino entrasse a<br />
far parte del Regio Demanio; la disposizione fu<br />
successivamente confermata da Ferdinando il<br />
Cattolico nel 1509 e, definitivamente, da Carlo V<br />
nel 1536. Successivamente i sovrani spagnoli<br />
posero in vendita alcuni territori del Demanio e<br />
il Feudo di Montecorvino fu venduto nel 1572 a<br />
Nicolò Grimaldi, marchese di Eboli e duca del<br />
Vallo di Diano.<br />
Nel 1590 Montecorvino ottenne la reintegrazione<br />
nel Regio Demanio ma ancora posta in<br />
vendita nel 1638 e acquistata dal principe di<br />
Noja, don Giulio Pignatelli «mediante publico<br />
Istrumento rogato al 26 agosto dell’anno sudetto<br />
1638 stipulato per il q: Notar Massimo Passaro di<br />
Napoli, regente di Notaro della Regia Corte» 8 ;<br />
questi, a sua volta, donò lo Stato nel 1644 al<br />
figlio secondogenito Aniello che acquistò, nel<br />
1649, anche i Feudi Rustici di Fosso e Verdesca<br />
e i Suffeudi o Difese di Ortogrande e Tufarella.<br />
LORELLA MAZZELLA<br />
- 101 -<br />
Inoltre, egli ottenne dal re Cattolico il privilegio<br />
di essere nominato principe dello Stato di<br />
Montecorvino e di poter trasmettere il titolo ai<br />
suoi eredi.<br />
Defunto Aniello, Stato e Feudi Rustici furono<br />
ereditati dal primogenito Giulio, duca di S. Mauro,<br />
e alla morte di quest’ultimo dal fratello<br />
Giacomo. In occasione di tale passaggio venne<br />
commissionato al Tavolario Antonio Galluccio<br />
l’apprezzo dei due Feudi Rustici 9 .<br />
Anche i Pignatelli, come tutti i feudatari della<br />
Piana, erano soliti affittare le proprietà terriere e,<br />
attraverso un contratto stipulato nel 1700 dal<br />
notaio Albinente, si conoscono i particolari delle<br />
condizioni di affitto di Fosso: il locatario, Paolo<br />
Salvatore di Olevano, oltre a pagare il canone<br />
nel tempo stabilito, doveva curare la vigna<br />
murata, seminare e provvedere agli animali.<br />
Della casa palaziata egli poteva usufruire solo<br />
delle stanze terranee e della camera nella torre<br />
per riporre le vettovaglie. Le altre camere soprane<br />
dovevano restare a disposizione del principe<br />
e del suo amministratore; inoltre, era assolutamente<br />
vietato all’affittuario abbattere con scoppiettate<br />
i piccioni, che erano del padrone 10 .<br />
Nel 1719 Giacomo vendette lo Stato di<br />
Montecorvino e i due Feudi Rustici di Fosso e<br />
Verdesca a Nicola Ippolito Revertera, duca della<br />
Salandra; in tale occasione venne eseguito un<br />
nuovo apprezzo dal Tavolario Pietro Vinaccia.<br />
La somma che il duca doveva versare per<br />
l’acquisto doveva essere versata per una parte al<br />
monastero di S. Liguori a Napoli per il vitalizio<br />
di due sorelle del principe, per un’altra parte ai<br />
creditori di Giacomo, mentre il resto della<br />
somma avrebbe dovuto essere pagato dopo<br />
nove anni con un interesse del 3,5%. Tuttavia, il<br />
duca della Salandra non estinse i suoi debiti in<br />
tempi convenienti, sicchè Giacomo vendette il<br />
credito che gli spettava dalla vendita al principe<br />
di Marsico Nuovo, don Giovanni Battista<br />
Pignatelli. Nel 1737 venne ordinato al duca della<br />
Salandra di soddisfare i suoi debiti, ma questi si<br />
rifiutò di pagare l’intero prezzo poiché nel frattempo<br />
erano stati resi demaniali i due Feudi<br />
Rustici di Fosso e Verdesca.<br />
Pertanto, dopo una lunga transazione, il duca<br />
vendette a Girolamo Pignatelli, figlio di
Giovanni Battista, lo stato di Montecorvino «(…)<br />
colle sue Giurisdizioni, e Corpi annessivi e<br />
cogl’anzidetti due Feudi rustici, per il prezzo di<br />
ducati quarantottomila centocinquanta» 11 . A sua<br />
volta, nel 1744, il principe vendette lo Stato di<br />
Montecorvino a Matteo Genovese al prezzo di<br />
sessantamila ducati insieme al Feudo del Fosso<br />
«(…) la maggior parte seminatorio di capacità<br />
tomola cento, e dieci in circa, comprendente<br />
una vigna murata (…)» 12 , e alla Difesa della<br />
Verdesca «(…) di estensione tomola trecento in<br />
circa (…)» 13 . Così nel catasto conciario del 1753<br />
venne censita la proprietà di Matteo Genovese:<br />
«L’Ill.mo Sig. Barone Genovese possiede nel<br />
luogo detto il Fosso una masseria di fabrica e<br />
terra seminatoria, e d’uso d’uva, e vigna in<br />
ununo di capacità tomoli centottanta, confina<br />
col fiume Toscano e colli beni di Giuseppe<br />
Capograsso. Simile di rendita dedotta la spesa<br />
di coltura della vigna annui ducati trecento<br />
quaranta e resta da appezzarsi la rendita del<br />
casamento della masseria nella discussione» 14 .<br />
Infine, una relazione fatta eseguire dalla<br />
Mensa Arcivescovile, in occasione di visite pastorali,<br />
sostiene che «nella massaria dell’Ill.mo Sig.<br />
Barone dove si dice il Fosso vi è una cappella<br />
sotto il titolo di Santo Mauro»15.<br />
Nel 1795 i Corpi feudali di Fosso e Verdesca<br />
furono venduti a Marcantonio Doria, principe di<br />
Angri 16 ; ma già nel 1641 i Doria avevano acquistato<br />
Eboli, Capaccio e quattro Feudi Rustici<br />
(Lagopiccolo, Isca di Comora, Isca di S. Nicola,<br />
Isca S. Felice), di cui Eboli era l’Università con<br />
l’agro più grande della Campania poiché comprendeva<br />
oltre ventimila ettari di superficie.<br />
I contratti d’affitto dei Doria andavano da un<br />
minimo di tre anni ad un massimo di dodici; sappiamo<br />
che nel 1799 Fosso era affidata alla conduzione<br />
di un certo Schiavone 17 e che, in tale periodo,<br />
i guardiani di Fosso e Verdesca ricevevano i<br />
salari più alti degli altri dipendenti dei Doria<br />
d’Angri 18 .<br />
Nel 1827 la masseria in questione era affittata<br />
a don Lorenzo Carrara, a cui il terreno serviva<br />
perché confinante con i suoi beni, ma spesso<br />
veniva inondato dalle acque del fiume Tusciano 19 .<br />
SALTERNUM<br />
- 102 -<br />
Inoltre, i beni di Marcantonio siti in località<br />
Fosso sono segnalati nel Catasto provvisorio 20 di<br />
Montecorvino e descritti in un apprezzo del<br />
1843 21 .<br />
Nei periodi di più intensa attività erano soprattutto<br />
i forestieri ad affluire in grandi quantità nelle<br />
varie masserie, ospitati nei piani terreni, nelle stalle,<br />
nei fienili; infatti, il Galanti scrive:<br />
«Vengono gli uomini dalla Basilicata, dalle<br />
Calabrie e fino dal lontano Abruzzo a fare i<br />
lavori necessari per una miserabile mercede»<br />
22 , mentre il Liber defunctorum documenta<br />
che «il giorno 1 gennaio 1805 in località lo<br />
Fosso passava a miglior vita Luigi Palermo di<br />
Moliterno, che fu sotterrato nella Chiesa della<br />
SS. Annnunziata» 23 .<br />
Dopo la morte di Marcantonio il vasto patrimonio<br />
terriero fu sottoposto ad una frammentazione<br />
ereditaria lunga e difficile, che si concluse<br />
solo nel 1878 e che comportò la vendita<br />
di molti beni all’asta, acquistati dagli antichi<br />
affittuari, soprattutto dai Bellelli, dai Pastore,<br />
dai Conforti.<br />
È molto probabile che proprio in occasione<br />
di tali vendite Fosso sia passato ai baroni<br />
Sorvillo, una ricca famiglia di Vietri sul mare, la<br />
cui ultima discendente vendette la proprietà, nel<br />
1968, agli antichi affittuari, i Rinaldi. Questi ultimi,<br />
a loro volta, furono costretti a vendere all’asta<br />
la masseria che attualmente è posseduta dai<br />
baroni Sorvillo.<br />
Peculiarità e caratteristiche costruttive<br />
L’analisi relativa alle peculiarità e alla storia<br />
delle trasformazioni di Fosso è stata condotta<br />
integrando tutte le informazioni ottenute su di<br />
essa, sia attraverso le fonti archivistiche e bibliografiche,<br />
sia attraverso l’operazione di attento<br />
rilievo del manufatto stesso, operazione fondamentale<br />
per la conoscenza e la comprensione di<br />
qualsiasi organismo architettonico.<br />
Essa si presenta come un’imponente costruzione<br />
a due livelli, priva di qualsiasi decorazione<br />
e racchiusa da massicce mura perimetrali,<br />
con una forte estensione longitudinale e sormontata<br />
da torre colombaia.
LORELLA MAZZELLA<br />
Fig. 4 - Sezione longitudinale e prospetto interno alla corte (rilievo dell’Autore, 2004).<br />
Fig. 5 - Sezione longitudinale e prospetto interno alla corte (rilievo dell’Autore, 2004).<br />
Fig. 6 - Pianta I livello (rilievo dell’Autore, 2004).<br />
La sua nascita può risalire al periodo in cui il<br />
terreno era posseduto dal monastero di S. Lorenzo<br />
di Amalfi, che lo affittava a forestieri affinché<br />
venisse coltivato: sarà stata dunque necessaria la<br />
costruzione di un primitivo rudimentale impianto<br />
che ha condizionato e posto le basi per il più<br />
grande e posteriore edificio di abitazione.<br />
Quest’ultimo è probabilmente riconducibile alla<br />
metà del Cinquecento, quando la Mensa<br />
- 103 -<br />
Fig. 7 - Pianta II livello (rilievo dell’Autore, 2004).<br />
Arcivescovile di Salerno concedeva terreni «ad<br />
perpetuam laborandum» per il fittavolo e i suoi<br />
successori con la clausola che questi si impegnasse<br />
ad «edificare due membra di casa» 24 per<br />
sé e la famiglia entro sei anni, o ad ampliare<br />
l’abitazione esistente.<br />
Ad ogni modo, in tale periodo l’abitazione<br />
vera e propria non faceva parte dell’attuale masseria,<br />
ma era situata a pochi metri da questa, ove
Fig. 8 - Masseria Fosso, interno della primitiva abitazione.<br />
Fig. 9 - Masseria Fosso. Resti della primitiva abitazione.<br />
attualmente sorge la casa dei Rinaldi; di essa<br />
sono ancora visibili pochi resti. Indicata già<br />
come fatiscente dal Tavolario Vinaccia nel 1717,<br />
era formata da quattro bassi, coperti con travi in<br />
legno, sui quali vi erano quattro camere da letto<br />
coperte a tetto.<br />
Resti della primitiva abitazione<br />
L’attuale masseria era adibita a funzioni agricole:<br />
il primo livello era costituito da cinque<br />
ambienti non comunicanti - destinati a stalla,<br />
deposito per attrezzi e macchine, magazzini per<br />
materiali e forno - coperti con volte a botte o a<br />
specchio e caratterizzati da doppio accesso; il<br />
secondo livello consisteva solo nella torre<br />
colombaia e in una camera adibita a cucina,<br />
posta ad Ovest della torre stessa, collegate da<br />
una grande terrazza. Ad Ovest della cucina vi<br />
era un portico, da cui si accedeva al forno, che<br />
sosteneva una dispensa, coperta a tetto, a servizio<br />
della cucina stessa.<br />
SALTERNUM<br />
- 104 -<br />
Il collegamento tra i due livelli, poi, avveniva<br />
attraverso una scala scoperta, retta da eleganti<br />
rampanti in pietra, situata nell’angolo nord-est<br />
della fabbrica. Conduceva ad un piccolo corridoio,<br />
anch’esso scoperto, attraverso cui si accedeva<br />
alla menzionata cucina «uno stanzone<br />
grande coverto a tetto a due penne con comodità<br />
di focolaro» 25 . Inoltre, due piccoli vani<br />
seminterrati, coperti da volte a botte a sesto<br />
ribassato, venivano utilizzati come cantine per la<br />
conservazione di quei prodotti che, come il vino<br />
o il latte, avevano bisogno di locali più freschi.<br />
Sempre all’interno del perimetro murario,<br />
ma nell’angolo nord-ovest, era la cappella rurale<br />
dedicata a S. Mauro, oggi destinata a deposito<br />
attrezzi e perciò alterata da numerose modifiche.<br />
L’antica copertura a tetto è stata sostituita,<br />
nel XX secolo, da una latero-cementizia;<br />
così come l’arco di ingresso, originariamente a<br />
sesto ribassato, è stato tamponato con una<br />
porta in ferro, mentre l’interno è stato completamente<br />
reintonacato. Entrambi gli edifici furono<br />
costruiti con muratura del tipo a sacco, con<br />
paramenti in pietra calcarea e, soprattutto, ciottoli<br />
di grandi dimensioni coadiuvati dall’impiego<br />
di malta; il nucleo era costituito da spezzoni<br />
di pietrame e malta.<br />
L’utilizzo di tali materiali è riconducibile alla<br />
natura calcarea del terreno su cui i due edifici<br />
sono stati edificati, associato alla loro grande<br />
economia di impiego, poiché, quasi sempre, il<br />
contadino stesso cavava, lavorava e metteva in<br />
opera la pietra. A loro volta, i ciottoli, facili da<br />
reperire nei greti di fiumi e torrenti, consentivano<br />
di ridurre il costo di estrazione, oltre ad eliminare<br />
la fatica della lavorazione, poiché venivano<br />
messi in opera così come cavati o, al massimo,<br />
dopo una semplice spaccatura. Dunque,<br />
la pietra diveniva muro, arco, pilastro, pavimentazione,<br />
arco, arcotrave e volta. Le volte si<br />
impiegavano a coprire particolari ambienti quali<br />
stalla, fienile, magazzini, allo scopo di eliminare<br />
i pericoli di incendio, possibili, invece, con solai<br />
in legno e perciò destinati alle zone abitative.<br />
Ulteriore elemento caratterizzato da precisa<br />
funzionalità è la colombaia: essa permetteva di<br />
sorvegliare il lavoro condotto sulla vasta distesa<br />
dei campi e anche l’allevamento dei volatili.
Presentava una copertura in legno a quattro<br />
falde e un solaio con travi a sezione circolare,<br />
oggi crollati.<br />
Attraverso il contratto stipulato nel 1700 dal<br />
notaio Albinente, in cui sono stabilite le condizioni<br />
di Giacomo Pignatelli e l’apprezzo del<br />
Tavolario Vinaccia nel 1717, in occasione della<br />
vendita di Fosso al duca della Salandra, si possono<br />
conoscere i ‘miglioramenti’ 26 apportati dal<br />
Principe alla masseria. Egli fece piantare una<br />
nuova vigna e, siccome la primitiva abitazione<br />
era fatiscente, venne costruito un secondo livello<br />
sull’edificio utilizzato a scopo agricolo, con<br />
camere poste in sequenza e dotate di camini.<br />
Queste erano caratterizzate da grandi finestroni<br />
schermati da robuste ante in legno e aperti sia a<br />
Sud-Ovest, per ricevere un soleggiamento ottimale,<br />
sia a Nord-Est. Di queste camere, quelle<br />
ad Ovest della torre colombaia avevano funzioni<br />
di rappresentanza e presentavano una pavimentazione<br />
in cotto e copertura di capriate in<br />
legno di quercia; quelle ad Est della torre erano<br />
destinate a camere da letto e avevano pavimentazione<br />
in battuto oltre che copertura con tetto a<br />
due falde. Questa sopraelevazione comportò un<br />
sovraccarico alla muratura del primo livello e,<br />
siccome la muratura in ciottolate ha scarsa<br />
coerenza dovuta alla forma rotondeggiante dei<br />
pezzi - sebbene per colmare eventuali vuoti si<br />
inserivano ricorsi in argilla - il Principe fece erigere<br />
degli speroni di sostegno atti a consolidare<br />
la muratura stessa; essi vennero posti in vari<br />
punti del prospetto esterno e negli angoli del<br />
fabbricato. Inoltre, Giacomo fece erigere, nell’angolo<br />
sud-ovest del fabbricato, «tre bassi per<br />
comodità di rimesse e coverti a lamia» 27 che,<br />
privi di mura perimetrali, erano completamente<br />
aperti verso la vigna, oggi terreno incolto, e<br />
verso il cortile.<br />
Successivamente il Feudo venne acquistato<br />
dai baroni Genovese e anche questi apportarono<br />
delle modifiche a seconda delle loro esigenze<br />
funzionali. Innanzi tutto venne rinforzato<br />
anche il prospetto nord-est da un ulteriore portico<br />
che, attraverso la profondità delle arcate a<br />
guisa di speroni, aveva la funzione di sostenere<br />
il loggiato occupato dal corridoio in modo da<br />
facilitare l’accesso alle varie camere di rappre-<br />
LORELLA MAZZELLA<br />
- 105 -<br />
Fig. 10 - Masseria Fosso, resti di una volta della primitiva abitazione.<br />
sentanza, disposte in maniera sequenziale;<br />
venne consolidata la volta della stalla attraverso<br />
un arco che ne seguiva il profilo, giacchè un<br />
muro trasversale del livello superiore era stato<br />
poggiato in falso al suo centro. Venne poi tamponato<br />
con muratura a sacco l’ingresso alla stalla<br />
stessa, che affacciava sulla vigna. Nello stesso<br />
tempo, la scala esterna venne coperta con una<br />
piccola tettoia in legno e vennero tamponate<br />
anche le rimesse fatte costruire da Giacomo. Ad<br />
esse si poteva accedere, ora, solo dal cortile<br />
interno e non dalla vigna e furono destinate a<br />
nuove funzioni: la prima fu adibita a fienile, la<br />
seconda a stalla e la terza a forno.<br />
Il fienile era coperto con una volta a botte a<br />
sesto ribassato in conci di arenaria e arieggiato<br />
da una feritoia, la stalla era coperta da due volte<br />
a botte in conci di arenaria che si innestavano su<br />
un arco centrale, oggi in parte crollate a causa<br />
del pesante rinfianco in ciottoli.<br />
Il vano adibito a forno era coperto da un<br />
tetto a falda costituito da travi in legno, anch’esso<br />
crollato e, di fronte a questo, venne costruito<br />
il pozzo con abbeveratoio.<br />
Tutti e tre gli ambienti presentavano<br />
l’estradosso piano a formare una grande terrazza,<br />
a cui si accedeva tramite la costruzione di<br />
una nuova scala esterna che, priva di copertura,<br />
aveva la funzione principale di condurre direttamente<br />
alle camere da letto senza dover attraversare<br />
le camere di rappresentanza. Nel 1858 le<br />
disposizioni del re riguardo la fondazione di una<br />
Colonia Agricola spinsero i contadini della<br />
Basilicata e del Vallo di Diano a muoversi verso
la contrada di Battipaglia, con la speranza di una<br />
casa e di un pezzo di terreno da coltivare. Nel<br />
frattempo essi si accamparono in casoni per<br />
braccianti agricoli e nella masseria Fosso vennero<br />
ospitati in piccoli vani-dormitorio di muratura,<br />
dotati di camino, che vennero addossati alla<br />
facciata esterna dell’edificio.<br />
In tale periodo, Fosso apparteneva ai Doria<br />
d’Angri. Questi, per non investire capitali, privilegiavano<br />
l’allevamento brado e le aree seminative<br />
si riducevano a pochi terreni, a differenza<br />
degli affittuari che, come in Fosso, sfruttavano<br />
nel modo migliore la fertilità dei campi.<br />
Inoltre, i grandi feudatari spesso negavano le<br />
riparazioni richieste, ritenendole ingiustificate. Il<br />
più evidente intervento effettuato nell’Ottocento<br />
è infatti l’inserimento nelle murature del secondo<br />
livello di catene in ferro disposte longitudinalmente<br />
e trasversalmente ad esse, necessarie<br />
NOTE<br />
1 La notizia si legge in una pergamena pubblicata in appendice<br />
da SCHIPA 1968, p. 254.<br />
2<br />
CARLONE 2000, p. 6.<br />
3<br />
PAESANO 1846, p. 68.<br />
4 ADS, Arca I, n° 21.<br />
5<br />
MAZZOLENI - OREFICE 1987, pp. 819-822.<br />
6<br />
IIDEM 1987, pp. 954-958.<br />
7 AAC, arca LXXV, n°52.<br />
8 ASS, Archivi privati, Archivio Genovese, Platea di tutti i<br />
beni della famiglia Genovese formata dall’illustre Marchese<br />
D. Mariano Genovese e terminata nel mese di Xembre dell’anno<br />
1788, busta 54. La Platea, eseguita dopo che la famiglia<br />
Genovese acquista Montecorvino e i due Feudi Rustici,<br />
è suddivisa in vari paragrafi in cui vengono descritte notizie<br />
sulle condizioni della vendita, sui ‘Pesi’ annessi ai beni,<br />
sulle proprietà che la Mensa ha nello stato di<br />
Montecorvino, ecc. Di grande importanza per la ricostruzione<br />
delle vicende storiche della masseria Fosso sono le<br />
notizie preambole a tale ‘Compra’ eseguita da Matteo<br />
Genovese.<br />
9 ASNa, Apprezzi, Antonio Galluccio, Montecorvino Rovella,<br />
1641, scheda 460. «(…) come mi viene commesso<br />
l’apprezzo della Difesa della Verdesca e del Fosso (…) mi<br />
sono conferito nelle pertinenze della terra di Montecorvino<br />
(…) ed avendo camminato circuì circa ho ritrovato che<br />
quella è tutta piana, e buona parte di essa è padulognola<br />
dove che s’ingorga l’acqua, e detto padulognolo è tutto<br />
boscoso con alberi di salocomi, olma ed altre frutte, e<br />
pieno di per azze, sicchè detto territorio conforma oggi si<br />
ritrova non è buono peraltro che per il pascolo di bufale,<br />
ma quando si sterpassero le dette per azze varia buono il<br />
territorio anco per seminarsi (…)»<br />
SALTERNUM<br />
- 106 -<br />
per contenere la sconnessione dei giunti dovuti<br />
ad una non buona ammorsatura.<br />
Agli inizi del Novecento i vani costruiti per<br />
ospitare i nuovi braccianti vennero ricostruiti<br />
con muratura in mattoni e copertura laterocementizia,<br />
mentre le camere di rappresentanza<br />
vennero suddivise da tramezzi.<br />
Ma di lì a poco, nel periodo cosiddetto<br />
‘moderno’, e soprattutto nel dopoguerra, con<br />
l’introduzione della prefabbricazione e con il<br />
mutare delle tecniche di coltura e di allevamento,<br />
si assiste all’abbandono delle masserie. Ciò<br />
accade anche per Fosso, considerata un rudere<br />
privo di importanza, la cui sorte appare tuttavia<br />
‘fortunata’ rispetto alle forti modifiche strutturali<br />
e funzionali subite da altri organismi agricoli,<br />
che hanno totalmente perso la loro identità culturale<br />
e architettonica.<br />
10 ASS, Protocolli Notarili, Montecorvino 1700, Notaio<br />
Albinente, fascicolo n° 331.<br />
11 ASNa, Apprezzi, Pietro Vinaccia, Montecorvino Rovella<br />
1717, scheda 1717, scheda 161, prot. 32. «(…) ed in primis<br />
il territorio detto il Fosso sito, e posto in detto Stato di<br />
Montecorvino, distante dal detto Casale di Rovella circa<br />
miglia sei camminando verso Ostro, confina il medesimo<br />
con il fiume di Battipaglia, via vicinale che confina con li<br />
Pinti, colli Beni della Reverenda Mensa Arcivescovile di<br />
salerno, colla strabella, che viene dalla via Regia, e va alla<br />
scafa d’Eboli, ed altri confini consiste il medesimo in un territorio,<br />
la maggior parte del quale seminatorio di capacità<br />
tomola 110 in circa, e parte in una vigna murata, che si<br />
descriverà, e per ultimo in un comprensorio di casa, quale<br />
consiste, ecc. In primis un portone, avanti del quale vi è aria<br />
da batter le vittovaglie, e dal medesimo si entra nel cortile<br />
murato scoverto, a sinistra del quale vi è una picciola<br />
Cappella coverta a tetto sotto il titolo di S. Mauro, a detta<br />
siegue un vano distretto di mura, quale serve per carcere<br />
degli animali, e quattro bassi coverti a travi, sopra dei quali<br />
vi giacciono quattro camere coverte a tetto antiche, oggi<br />
mezzo dirute, in testa poi del detto cortile per porta s’ave<br />
l’uscita all’enunciata vigna, qual è tutta murata, e di capacità<br />
tomola cinque in circa, dove si fa mediocre vino, e detta<br />
è stata piantata a spese dell’odierno principe, e seguitando<br />
in giro il sudetto cortile vi sono tre bassi fatti nuovamente<br />
dal suddetto principe per comodità di rimesse, uno però dè<br />
quali scoverto, e senza astrico; a destra poi girando vi sono<br />
cinque porte, per le quali si entra in magazzeni, e cantina<br />
per riponer vino coverto a lamia, dopo detti siegue porta<br />
della grada, che si descriverà; sta inoltre un supportico<br />
coverto a lamia però antico, in testa del quale per porta<br />
s’entra in un basso coverto a lamia per uso di forno.
Ritornando alla grada, con l’appianarne tre d’essa si trova<br />
porta, per la quale s’entra in una stanza per uso magazzeno,<br />
e con una tesa scoverta di gradi num. 17 si trova un<br />
corridoio, seu picciola loggia scoperta, a destra della quale<br />
per porta s’entra in uno stanzone grande coverto a tetto a<br />
due penne, e tiene due finestre affacciatore a mezzodì, e<br />
comodità di focolaro, detta però è antica; accosto il detto<br />
focolaro vi è porta per la quale s’entra in una piccola stanza<br />
coverta a tetto. Segue a destra altra stanza fatta nuovamente<br />
dal detto illustre Principe coverta a travi numero 8,<br />
e vi è comodità di focolare e due finestre; a detto focolaro<br />
segue piccola stanza per uso di dispensa anche nuova<br />
coverta a travi, in cantone della detta stanza segue un’altra<br />
camera coverta a travi numero 6, anche nuovamente fatta<br />
da detto Principe con comodità di focolaro, e due finestre,<br />
e sopra dette camere vi è il tetto; a sinistra poi del detto<br />
stanzone sieguono della stanze una dopo l’altra, delle quali<br />
una è antica, e l’altre quattro nuovamente fatte, secondo fu<br />
deposto sopra la faccia del luogo, tutte però dette stanze si<br />
ritrovano coverte, a travi con tetto sopra, con comodità di<br />
focolaro, e finestre, con torretta, seu palombara sopra una<br />
d’esse, e nell’ultima di dette si trovano due porte, per una<br />
delle quali si entra in un piccolo camerino per dispensa, e<br />
per l’altra s’esce sopra una loggia giacente sopra le dette<br />
rimesse, ed in questo consiste il suddetto comprensorio, e<br />
feudo detto il Fosso, su del quale volendosi da me assignare<br />
il giusto prezzo per intiero, tanto al territorio, quanto<br />
casa, e vigna, siccome al presente sta senza niuna servitù,<br />
e che tutto il frutto annuale vada a beneficio del padrone;<br />
che perciò riflettendo alla capacità del Territorio, sito ove<br />
risiede, qualità del medesimo, rendita ottenuta, e che se ne<br />
può ottenere, riflettendo ancora alla descrizione, ed<br />
apprezzo fatto dal Tavolario Gio. Battista de Marino nell’anno<br />
1640, che si legge nel secondo volume fol. 611, ove<br />
similmente vi enuncia esser parte feudale, e parte burgensatico,<br />
che perciò fatte tutte le dovute diligenze sopra tale<br />
affare, considerando la diversità dei tempi dà allora ai presenti,<br />
valuto il suddetti Feudo del Fosso con casa, e vigna,<br />
come descritto di sopra, franco da ogni peso per ducati seimila…6000.<br />
Le migliorazioni fatte dall’odierno principe sì<br />
in materia di fabbrica, vigna e altro secondo la comune<br />
deposizione de testimonj esserne quelle state fatte da lui,<br />
ed a minuto a me dimostrate dagl’Esperti assegnatimi, iportano<br />
ducati millecento…1100. È ben vero però Riverito<br />
Signore, che da quel tanto appare nell’unisona deposizione<br />
di tutti i testimonj sopra l’articolato feudo del Fosso<br />
asserentino, che l’Università vi abbia sopra del medesimo<br />
l’azione, e servitù del pascolo, come sono tutti gli altri<br />
rimanenti territorij dè particolari e che intanto tutto il frutto<br />
del detto territorio và in beneficio del suddetto Principe,<br />
non per altro, se non per mera cortesia, e grato affetto di<br />
detta Università verso il Principe; del che riverito Signore<br />
non v’ha dubio, che se la detta Università avesse tale auto-<br />
LORELLA MAZZELLA<br />
- 107 -<br />
rità, e jus, volesse di quello avvalersene, minorerebbe tal<br />
distinzione, stimandosi dal V. S. necessaria, lo potrà con<br />
suo decreto ordinare, cha da me ne formerà relazione a<br />
parte (…)».<br />
12 ASS, Archivi privati, Archivio Genovese, IDEM.<br />
13 ASS, Archivi privati, Archivio Genovese, IDEM.<br />
14 ASNa, Catasto Conciario, 1753, b.3802, p.287.<br />
15 ADS, Visite Pastorali, Cappellanie Rurali che stanno nel<br />
ristretto della Carta di Montecorvino situata nella Piana, R.<br />
78, 1730-1769.<br />
16 I corpi Feudali di fosso e Verdesca furono venduti a<br />
Marcantonio Doria «con Istrumento di 27 Aprile 1795 per<br />
Notar Lucantonio Ferraro di Napoli dai Demanisti D.<br />
Pompeo Maiorino, Don Sabbato Pizzuto, tanto nei propri<br />
nomi, quanto come Cessionarii di D. Giuseppe M. Sparano,<br />
D. Luca Cavaliere, D. Diego Carrara, D. Francesco di<br />
Simone, D. Scipione della Corte, D. Lorenzo Denza nomine<br />
proprio, D. Ambrogio Meo nomine proprio, D. Pietro<br />
Corrado nomine proprio e D. Tommaso Corrado tanto<br />
nomine proprio, quanto come Cessionario di D. Ludovico<br />
Sparano». I Demanisti cedettero i loro feudi in quanto<br />
Marcantonio Doria aveva prestato loro una somma di danaro<br />
affinché si liberassero dal dominio dei Genovese.<br />
17<br />
MOSCATI 1964.<br />
18 ASNa, Relevi Feudali, Eboli e Montecorvino, voll. 269-272<br />
e 1799.<br />
19 ASNa, Archivio Privato Doria d’Angri, parte I, 1827, busta<br />
863.<br />
20 ASS, Catasto Provvisorio, Montecorvino Rovella, 1827,<br />
Stato di Sezioni, vol. 18, pp. 103-104<br />
21 ASNa, Archivio Privato Doria d’Angri, parte I, Apprezzo<br />
dei beni di Marcantonio Doria, 1843, n° 967 A/3. Fondi siti<br />
nel tenimento del comune di Montecorvino Rovella.<br />
«1° Vastissima tenuta denominata Picciola (…).<br />
2° Feudo denominato Fosso, di natura scampia seminatorio<br />
ed arbosto, confinante con i beni di Domenico<br />
Granozio, dei Signori Bellelli e dei Signori Mauro di<br />
Salerno».<br />
3° Altra vasta tenuta appellata Verdesca (…).<br />
Questi detti stabili sono riportati nel catasto provvisorio del<br />
comune di Montecorvino Rovella sotto l’articolo 1799 in<br />
testa di Doria Francesco fu Marcantonio Principe di Angri<br />
(…) con la rendita complessiva di ducati 9861,11». In questi<br />
stabili vanno compresi i vari casamenti colonici, fattorie<br />
dei rispettivi Feudi.<br />
22 GALANTI 1790, p. 187.<br />
23 Archivio della Parrocchia dello Spirito Santo di S. Martino,<br />
Liber defunctorum, 1794-1845, f. 25.<br />
24 ADS, Mensa Arcivescovile, Reg. II, pp. 308-364.<br />
25 ASNa, Apprezzi, Pietro Vinaccia, Montecorvino Rovella<br />
1717, scheda 1717, scheda 161, prot. 32.<br />
26 Ibidem.<br />
27 Ibidem.
ABBREVIAZIONI<br />
“BSSPC”: “Bollettino Storico di Salerno e Principato Citra”.<br />
ASNa: Archivio di Stato di Napoli.<br />
ASS: Archivio di Stato di Salerno.<br />
ADS: Archivio Diocesano di Salerno.<br />
AAC: Archivio Abbazia di Cava de’ Tirreni.<br />
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Marcantonio Doria in Eboli nel primo quarantennio del<br />
XIX secolo, in Studi sulla Società meridionale, Napoli.
ELISA BASILE<br />
Il restauro della scultura lapidea di S. Pietro Martire<br />
nella chiesa di S. Domenico a Matera<br />
L’opera è ubicata nella chiesa San<br />
Domenico a Matera in una nicchia sul<br />
IV altare della navata sinistra.<br />
La scultura, raffigura San Pietro martire, il<br />
frate domenicano Pietro Rosini, nato a Verona<br />
nel 1206, inquisitore, ucciso in un agguato in<br />
Brianza da alcuni eretici lombardi.<br />
La scultura, di notevoli dimensioni (h 1,75 x<br />
0,74 x 0,35 m), è in pietra calcarea policroma,<br />
scolpita a tutto tondo, e non è dipinta sul retro.<br />
San Pietro Martire è rappresentato in abito<br />
domenicano; ha il capo lievemente inclinato<br />
verso il basso è coperto da una calotta di capelli<br />
lisci, il volto segnato da rughe è incorniciato<br />
dalla corta barba. Il Santo, in piedi, avvolto nel<br />
mantello, regge con la mano sinistra un lembo<br />
del manto e il Vangelo. Uno stiletto è conficcato<br />
nel petto e un rozzo coltello gli trapassa il capo.<br />
La scultura è attribuita a Stefano da Putignano,<br />
attivo negli anni 1470-1540. Protagonista della<br />
scultura pugliese del Rinascimento, autore di un<br />
numero considerevole di sculture in pietra locale<br />
vivacemente dipinte.<br />
Il confronto stilistico con la scultura raffigurante<br />
la Madonna della salute, nella stessa chiesa,<br />
è evidente soprattutto nell’accentuazione<br />
grafica del panneggio reso con cordonature<br />
parallele, confermata dall’autografia dell’autore,<br />
Stefano da Putignano, e la data di esecuzione<br />
dell’opera: «1518» sulla base (figg. 3-5; 19-21).<br />
Stato di conservazione<br />
La visione complessiva sullo stato di conservazione<br />
della scultura e l’attenta osservazione<br />
ravvicinata hanno evidenziato, prima del restauro,<br />
alcuni segni di alterazione presenti sulla<br />
superficie lapidea e pittorica: - depositi incoe-<br />
- 109 -<br />
Fig. 1 - La statua prima del restauro. Evidenti ridipinture su tutta la<br />
superficie scultorea.<br />
Fig. 2 - Prima del Restauro, dettaglio del volto. Evidenti ridipinture su<br />
tutta la superficie scultorea.
Figg. 3 - 4 - Statua della Madonna della Salute, prima del restauro.<br />
Fig. 5 - Statua della Madonna della Salute, dopo il restauro. Particolare<br />
della base con la firma autografa dell’autore e la data di esecuzione<br />
dell’opera: «Stephanus Apulie Poteniani me celavit 1518».<br />
renti; - vistose ridipinture; - alcuni parziali rifacimenti<br />
scultorei; - strati pittorici sollevati dal supporto<br />
e a tratti delle cadute di colore.<br />
La scultura, rimaneggiata più volte, presenta<br />
vari strati di colore e due strati di gesso di notevole<br />
consistenza, evidente soprattutto sulla veste<br />
del Santo.<br />
Il mantello è ricoperto da una evidente ridipintura<br />
di colore nero con vernice lucida alterata<br />
e non uniforme, mentre uno strato di gesso e<br />
una ridipintura più corposa di colore grigio chiaro<br />
opaco ricopre il cappuccio.<br />
Fig. 6 - Prima del restauro. Evidenti ridipinture su tutta la superficie<br />
scultorea.<br />
SALTERNUM<br />
- 110 -<br />
Sull’incarnato del volto sono particolarmente<br />
evidenti microfratture, sollevamenti e cadute della<br />
pellicola pittorica. Metà palmo e le dita della<br />
mano destra del Santo sono in legno, testimonianza<br />
di un rifacimento del secolo scorso. La base,<br />
blocco unico con la scultura, è chiaramente<br />
posticcia, non in linea stilisticamente con la scultura,<br />
è ridipinta e ricoperta da un corposo strato<br />
di gesso (figg. 1-2; 10; 15-16).<br />
Fasi di Restauro<br />
I tre strati di ridipinture che ricoprivano gli<br />
incarnati e la veste del Santo e i cinque strati<br />
sulle mani sono stati rimossi a secco, con<br />
mezzo meccanico (bisturi), uno dopo l’altro,<br />
recuperando la policromia originale sottile,<br />
delicata, opaca, fredda nei toni, ma a contrasto<br />
con i toni caldi dei particolari; sul mantello del<br />
Santo, l’unica ridipintura applicata direttamente<br />
sul colore originale è stata asportata con una<br />
miscela di solventi adeguati. Con la rimozione<br />
degli strati sono stati recuperati il realismo dell’intaglio<br />
soprattutto sul volto, la data di esecuzione<br />
dell’opera - «1517» - sul bordo inferiore<br />
della veste e l’oro zecchino quasi integro sul<br />
Vangelo del Santo. La base posticcia è stata<br />
demolita con molta cautela, a secco; è stato<br />
asportato il gesso superficiale, e successivamente,<br />
sono stati rimossi i pezzi di gesso più<br />
compatto che inglobavano la base originale<br />
leggera e arrotondata, liberandola totalmente.<br />
Con il recupero della base originale è stata<br />
riportata alla luce la firma autografa dell’autore<br />
scolpita sul bordo: «STEPHANUS APULIAE<br />
POTENIANI ME CELAVIT».<br />
Fig. 7 - Durante il restauro. Pulitura e rimozione degli strati con il bisturi.
La ripresentazione estetica è stata eseguita<br />
con pigmenti puri; le mancanze di colore si<br />
sono accordate ai toni della policromia originale<br />
con piccoli ritocchi e leggere velature.<br />
Fig. 8 - Le operazioni di restauro, pulitura e rimozione degli strati con il<br />
bisturi.<br />
Fig. 10 - Statua di San Pietro martire, in corso di restauro.<br />
ELISA BASILE<br />
- 111 -<br />
Documentazione Fotografica:<br />
Beatrice Carriero<br />
Soprintendenza per i Beni Artistici Storici ed<br />
Etnoantropologici della Basilicata - Matera<br />
Fig. 9 - Le operazioni di restauro, pulitura e rimozione degli strati con il<br />
bisturi.<br />
Fig. 11 - Statua di San Pietro martire, particolare del volto. Pulitura<br />
parziale.
Fig. 12 - Statua di San Pietro martire, dopo il restauro.<br />
Fig. 14 - Statua di San Pietro martire, dopo il restauro: particolare della<br />
mano sinistra.<br />
Fig. 15 - Statua di San Pietro martire, rifacimento parziale (in legno) della<br />
mano destra.<br />
SALTERNUM<br />
- 112 -<br />
Fig. 13 - Statua di San Pietro martire, dopo il restauro: particolare del<br />
volto<br />
Fig. 16 - Statua di San Pietro martire, particolare della mano destra dopo<br />
il restauro.
Fig. 17 - Statua di San Pietro martire, particolare del volto dopo il<br />
restauro.<br />
Fig. 19 - Statua di San Pietro martire, base originale con la firma autografa<br />
dell’autore (fase di rimozione dello strato di gesso posticcio).<br />
Fig. 21 - Statua di San Pietro martire, base originale con la firma autografa<br />
dell’autore.<br />
ELISA BASILE<br />
- 113 -<br />
Fig. 18 - Statua di San Pietro martire, particolare degli occhi dopo il<br />
restauro.<br />
Fig. 20 - Statua di San Pietro martire, la data di esecuzione dopo il<br />
restauro.
La Redazione, salutando l’uscita del<br />
nuovo romanzo della prof.ssa D. Memoli<br />
Apicella, accoglie le considerazioni suscitate<br />
dalla sua lettura in una giovane<br />
Socia.<br />
Il libro di Dorotea<br />
Memoli Apicella dal<br />
titolo Sighelgaita tra<br />
Longobardi e Normanni<br />
(Laveglia&Carlone, Salerno 2009,<br />
204 pp.) oltre alle tante novità<br />
storiche riportate, sicuramente<br />
apprezzate dai suoi lettori,<br />
potrebbe suscitare anche forti<br />
emozioni, non solo perchè rende<br />
partecipi delle vicende del<br />
tempo in cui la vicenda si colloca,<br />
ma soprattutto perché l’Autrice considera<br />
protagonista del suo libro una figura femminile<br />
dotata di grande personalità, la principessa<br />
Sichelgaita, vissuta in una Salerno medievale<br />
che aveva segnato il passaggio dalla stirpe longobarda<br />
a quella normanna.<br />
Ed è proprio in questo periodo storico-politico<br />
che la Memoli ambienta il suo racconto<br />
storico, facendo brillare la principessa di luce<br />
propria rispetto al marito, il normanno Roberto<br />
il Guiscardo, che ella, pur riconoscendogli il<br />
ruolo di dominatore incontrastato del<br />
Mezzogiorno d’Italia, riteneva debole e vulnerabile,<br />
circondato com’era da tanti nemici. Alla<br />
luce di queste considerazioni, emerge il carattere<br />
forte della principessa, la quale maturò la<br />
ferma volontà di seguirlo nelle campagne militari.<br />
La storica bizantina Anna Comneno,<br />
descrivendone la personalità nei momenti<br />
della sua esaltazione guerriera, la descrive<br />
FRANCESCA ANGELLOTTI<br />
Libri e Recensioni<br />
- 115 -<br />
come una donna forte che combatte<br />
valorosamente in sella al<br />
suo cavallo, fianco a fianco al<br />
marito, gettandosi nella battaglia<br />
con grande coraggio. Voleva<br />
proteggere non solo il suo<br />
sposo, ma soprattutto, prevalendo<br />
in lei il sentimento di madre,<br />
difenderlo da forze ostili e preparare<br />
senza traumi il terreno<br />
alla successione del figlio primogenito<br />
Ruggero Borsa, frutto<br />
della loro unione.<br />
Gli avvenimenti di quel<br />
tempo, attraverso una serie di circostanze<br />
favorevoli avevano portato<br />
i Normanni a impadronirsi<br />
dell’Italia meridionale nel volgere<br />
di pochi anni. Essi avevano conquistato la Sicilia<br />
nel gennaio del 1061 occupando Messina, su<br />
sollecitazione dell’Emiro Ibn-Thimna. In quella<br />
occasione Roberto affidò il comando delle operazioni<br />
al fratello Ruggero, poiché da circa tre<br />
anni la sua vita privata era intervenuta incisivamente<br />
su quella pubblica.<br />
Aveva conosciuto Sichelgaita di Salerno e le<br />
sue notevoli virtù dovettero colpirlo in maniera<br />
così forte tanto che dalle sue parole traspare<br />
subito l’intenzione di sposarla:<br />
«... è giunto a me ed alla mia gente la<br />
fama di donna avvenente, saggia, pudica<br />
e religiosa: sarà grande onore e gioia<br />
per il Popolo normanno vederla sposa e<br />
signora del suo duce...»<br />
Ella aveva ventidue anni ed era nel pieno<br />
della sua avvenente bellezza e della sua forza<br />
fisica di donna valorosa. Sposando il più temuto<br />
e rispettato condottiero dell’epoca, avrebbe
mantenuto non solo lo status di principessa<br />
longobarda, ma avrebbe anche acquisito il titolo<br />
di duchessa normanna.<br />
Amato di Montecassino, autore di una<br />
Historia Normannorum, la definisce nobile,<br />
bella e saggia, e il primate Romualdo di Salerno,<br />
onesta, pudica, virile nell’animo e provvida di<br />
saggi consigli.<br />
Sichelgaita versò in quella unione ogni possibile<br />
contributo culturale e politico utile al successo<br />
del coniuge, con il quale ebbe rapporti<br />
sostanzialmente conflittuali: la sua raffinatezza<br />
intellettuale ed il suo acuto talento diplomatico<br />
si scontravano con la rozzezza pragmatica di lui,<br />
spietato ed ambizioso.<br />
Era nata nel 1036, terzogenita di Gemma di<br />
Teano e del Principe Guaimaro IV della dinastia<br />
longobarda di Spoleto; era sorella di Gisulfo II e<br />
di Gaitelgrima, a sua volta coniugata col<br />
Principe Giordano I di Capua e poi con il Conte<br />
Alfredo di Sarno.<br />
Sichelgaita aveva vissuto l’infanzia e<br />
l’adolescenza nel monastero salernitano di San<br />
Giorgio, vicino al Palatium, coltivando, parallelamente<br />
agli studi dei Classici latini e greci ed<br />
all’analisi delle Sacre Scritture, anche la passione<br />
per la medicina e l’erboristeria, come discepola<br />
di Trotula de Ruggero, esponente di spicco della<br />
Scuola Medica Salernitana.<br />
Gli anni dorati della formazione erano stati<br />
però sconvolti dalla morte del padre, il Principe<br />
più influente dell’Italia meridionale, Grimoaldo<br />
IV. La descrizione del suo assassinio fatta dalla<br />
Memoli raggiunge momenti di grande commozione:<br />
poco prima dell’evento, l’incontro del<br />
principe con la moglie, «in quell’addio supremo,<br />
fatto di struggente rimpianto di ciò che avevano<br />
insieme vissuto…», poi l’arrivo sulla spiaggia di<br />
santa Teresa, raggiunta passando da una postierla<br />
del palatium, dove si svolge l’ultimo atto della<br />
sua vita. Sono le prime luci dell’alba del 3 giugno<br />
1052 e i tiepidi raggi del sole illuminano la<br />
triste scena della fine del Principe. Assistiamo<br />
così, da spettatori, a quell’episodio sanguinoso,<br />
perpetrato da parte di un gruppo di ribelli amalfitani<br />
e bizantini e dai quattro nipoti, figli del<br />
cognato Pandolfo V di Capua. Nell’occasione il<br />
giovane Gisulfo II, già associato al trono nel<br />
SALTERNUM<br />
- 116 -<br />
1042, era stato catturato e poi liberato dall’abilità<br />
dello zio Guido di Sorrento, che aveva assediato<br />
la città e preso in ostaggio le famiglie dei<br />
congiurati, per barattarle per il rilascio del nipote.<br />
Gisulfo II, riconosciuto legittimo erede, fu<br />
influenzato nelle sue scelte politiche dal temperamento<br />
della sorella: infatti, Sichelgaita era coltissima<br />
ed esercitò grande ascendente a corte,<br />
distinguendosi per le attività sociali.<br />
Pochi anni dopo l’assassinio del padre, a cui<br />
probabilmente non erano estranei gli stessi<br />
Normanni, nel 1058 Sichelgaita sposa il<br />
Guiscardo - il quale, per sospetta consanguineità,<br />
aveva divorziato dalla prima moglie, la normanna<br />
Alberada di Buonalbergo -; da questa<br />
unione nacquero ben otto figli: Mafalda,<br />
Ruggero Borsa, Guido d’Amalfi, Roberto Scalio,<br />
Sibilla, Mabilia, Emma, Olimpia.<br />
Si deve all’abilità politica di Sichelgaita la<br />
riconciliazione della Chiesa con i Normanni e la<br />
portata di quell’evento sarebbe stata esaltata,<br />
alla fine di quell’anno, dalla nascita di Ruggero<br />
Borsa, a conferma della sua capacità di armonizzare<br />
il ruolo diplomatico e politico con quello di<br />
sposa e di madre.<br />
Ella visse in un periodo di eccezionale rilevanza<br />
storica, che vide il processo di rinnovamento<br />
della Chiesa di Roma nel segno della<br />
riforma gregoriana, la lotta delle investiture,<br />
l’espansione dei nuovi ‘barbari’ nella<br />
Langobardia meridionale, il declino dell’antico<br />
Principato di Salerno, il trionfo dei Normanni. I<br />
protagonisti furono: Gregorio VII, Enrico IV,<br />
Desiderio di Montecassino, Alfano I di Salerno,<br />
Roberto il Guiscardo e, tra questi, la principessa<br />
Sichelgaita.<br />
Purtroppo un pesante pensiero la tormentava<br />
da sempre: era interiormente angosciata per la<br />
sorte della figlia Olimpia, che era stata inviata<br />
alla corte di Costantinopoli quale promessa<br />
sposa. L’evolversi degli eventi, nel 1078, comportò,<br />
però, la deposizione dell’imperatore<br />
Michele Dukas, per cui Olimpia fu relegata in un<br />
convento, dove prese il nome di Elena.<br />
Tale situazione portò Sichelgaita ad appoggiare<br />
il progetto di Roberto di ribellarsi a<br />
Bisanzio: fu una spedizione che assunse il carattere<br />
di una ‘precrociata’. Venne allestita una flot-
ta imponente sulla quale ella stessa si imbarcò.<br />
Dopo Corfù, l’esercito normanno volse alla conquista<br />
di Durazzo. Lo scontro fu di inaudita violenza,<br />
un’ala delle colonne normanne, guidata<br />
da Roberto e Boemondo, ebbe la meglio sulle<br />
truppe greche e veneziane alleate, mentre<br />
un’altra ala stava per ripiegare. Sichelgaita si<br />
sentì investita dalla responsabilità del momento:<br />
saltò a cavallo ed alla testa dei suoi uomini si<br />
lanciò impavida nella mischia. Una freccia la<br />
colpì alla spalla sinistra e rischiò di essere fatta<br />
prigioniera, ma il suo coraggio risvegliò a tal<br />
punto l’ardire dei Normanni che li portò alla vittoria.<br />
Era il 18 ottobre 1081, Durazzo era conquistata.<br />
Roberto corse incontro a Sichelgaita e<br />
l’abbracciò tra le acclamazioni dei soldati. L’atto<br />
di coraggio fu così commentato da Guglielmo<br />
Appulo:<br />
«Dio la salvò perché non volle che fosse<br />
oggetto di scherno una signora sì nobile<br />
e venerabile».<br />
Dopo meno di due mesi, nel 1085 Roberto<br />
moriva nei pressi di Cefalonia, in circostanze<br />
misteriose, forse colpito da una malattia epidemica.<br />
Sichelgaita, Boemondo e Ruggero, immersi<br />
nel più straziante dolore, sciolsero le vele<br />
verso la Puglia con le sue spoglie mortali, che<br />
furono sepolte nella chiesa della SS. Trinità di<br />
Venosa. L’autorevole cronista Guglielmo Appulo<br />
descrive con vivo realismo la commozione di<br />
Sichelgaita:<br />
«Oh dolore! che sarò io sventurata? dove<br />
potrò andarmene infelice? Quando<br />
apprenderanno la notizia della tua<br />
morte i Greci non assaliranno forse me,<br />
tuo figlio e il tuo popolo, di cui tu solo<br />
eri la gloria, la speranza e la forza?».<br />
In quell’anno la morte colpì, oltre il<br />
Guiscardo, altri due personaggi-chiave della storia<br />
di quell’epoca: papa Gregorio VII e<br />
l’arcivescovo di Salerno, Alfano I. Fu un ulteriore<br />
dolore per la principessa.<br />
FRANCESCA ANGELLOTTI<br />
- 117 -<br />
Ormai sola, si ritirò in Castel Terracena e continuò<br />
a prodigarsi in favore del figlio Ruggero, a<br />
mediare con Boemondo, al quale furono assegnate<br />
le sue conquiste in Grecia e varie città<br />
pugliesi, quali Bari, Otranto e Taranto.<br />
Anche questa volta ne uscì vincitrice. La scelta<br />
del ‘bicefalismo ducale’, come fu definito<br />
dagli storici, fu il modo più intelligente per scongiurare<br />
le lotte intestine ed assicurare il rilancio<br />
di un forte governo del ducato. Sichelgaita, pur<br />
senza Roberto, riuscì, in forza delle sue doti di<br />
carattere, a portare Salerno al culmine della sua<br />
potenza.<br />
Negli ultimi anni si dedicò ad una vita di preghiera.<br />
Fu un’assidua frequentatrice della Badia<br />
di Cava, alla quale aveva fatto donare, sin dai<br />
tempi del Guiscardo, molti conventi. Allo stesso<br />
modo fu benefattrice di Montecassino, cui la<br />
legava il vincolo di parentela con l’abate<br />
Desiderio, il futuro Papa Vittore III. Fu questo<br />
un periodo finalmente tranquillo, di pieno ardore<br />
religioso, in cui ella poté sostenere l’opera di<br />
moralizzazione della Chiesa. In un momento di<br />
sconforto spirituale, rivelò alla sorella<br />
Gaitelgrima la sua ultima volontà: chiedeva<br />
d’essere sepolta a Montecassino. I Longobardi si<br />
sentirono privati di una madre, i Normanni<br />
ebbero chiara coscienza che si dileguava l’ultima<br />
testimonianza del loro potere, gli umili la piansero<br />
affettuosamente. Mentre il Guiscardo si era<br />
fatto seppellire nella SS. Trinità di Venosa, nel<br />
sacrario dei duchi normanni, dove più tardi<br />
Boemondo fece tumulare anche sua madre<br />
Alberada, Sichelgaita scelse, come sua ultima<br />
dimora, Montecassino. Fu l’ultimo grande gesto<br />
di una figura maestosa nella storia: volle farsi in<br />
disparte dando un forte segno d’umiltà, di quell’umiltà<br />
che connota i forti e che la pose nella<br />
leggenda.
Adriano Caffaro - Giuseppe<br />
Falanga, Isidoro di Siviglia.<br />
Arte e tecnica nelle etimologie,<br />
Edizioni Arci Postiglione,<br />
Salerno 2009, 207 pp.<br />
Il nuovo libro di Adriano<br />
Caffaro e di Giuseppe<br />
Falanga, dedicato al grande<br />
erudito del VII secolo, presenta<br />
aspetti che meritano di<br />
essere considerati alla luce dei<br />
recenti indirizzi che hanno<br />
orientato lo studio storico<br />
delle tecniche artistiche, indirizzi<br />
che mirano per lo più ad<br />
offrire una visione comparatistica<br />
delle fonti letterarie,<br />
allo scopo di tratteggiare la<br />
linea evolutiva di quel processo complesso,<br />
quanto affascinante, che è la codificazione scritta<br />
delle pratiche artistiche. Il merito da riconoscere<br />
all’opera dei due studiosi è, innanzitutto,<br />
l’aver calato una fonte poliedrica di portata<br />
eccezionale, come le Etymologiae di Isidoro di<br />
Siviglia, nell’ambito settoriale della storia tecnico-artistica,<br />
affinché se ne potessero ricostruire<br />
le corrispondenze ragionevoli tra le notizie<br />
d’arte in essa raccolte e le informazioni contenute<br />
in altri testi-chiave della trattatistica occidentale.<br />
In quest’ottica, l’opera di Isidoro si è illuminata<br />
di una luce nuova, perché è stata rapportata<br />
- con le dovute misure critiche e filologiche -<br />
ai testi canonici della letteratura artistica, come il<br />
noto De diversis artibus del monaco Teofilo o le<br />
Compositiones ad tingenda Musiva, contenute<br />
nel Codice 490 di Lucca. Ne è emersa una lettura<br />
trasversale di un’opera che ha fatto parlare di<br />
sé per secoli.<br />
Al pari delle note grammaticali e retoriche,<br />
metriche e bibliche, le notizie tecniche ed artistiche<br />
tramandate da Isidoro nelle Etymologiae<br />
sono, infatti, sviluppate con significativa ricchezza<br />
di dettagli e con varietà di indicazioni supplementari,<br />
anche se in molti brani è proprio la<br />
ridondanza informativa a togliere alla trattazione<br />
isidoriana i caratteri di organicità e di ordine,<br />
che saranno tipici della trattatistica moderna.<br />
SALTERNUM<br />
- 118 -<br />
L’opera è tra le più rinomate<br />
dell’Alto Medioevo ed appartiene<br />
al genere enciclopedico<br />
mediolatino, cui non si può di<br />
certo chiedere la completezza<br />
sistematica perseguita dai trattatisti,<br />
che, dopo di Isidoro,<br />
faranno tesoro della sua<br />
immensa erudizione e potranno<br />
da quella attingere argomenti<br />
a sostegno delle proprie<br />
tesi.<br />
Il nuovo libro di Caffaro e<br />
Falanga si compone di quattro<br />
capitoli, preceduti da una<br />
nota introduttiva, che illustra<br />
il progetto culturale sotteso<br />
alla collana editoriale<br />
«L’officina dell’arte», ideata<br />
proprio da A. Caffaro e promossa dall’Arci<br />
Postiglione per offrire al vasto pubblico una<br />
trama di testimonianze letterarie utili alla ricostruzione<br />
unitaria della tradizione tecnico-artistica.<br />
Ad inaugurare la collana nel 2004 era stato un<br />
altro fortunato saggio dei due studiosi, dedicato<br />
al Papiro X di Leida, ritenuto il testo capofila<br />
della storia trattatistica della tecnica artistica in<br />
Occidente.<br />
Guardiamo, ora, il nuovo volume. Il primo<br />
capitolo presenta le Etymologiae in relazione<br />
all’enciclopedismo medievale e ne svela la chiave<br />
‘etimologica’, quella scelta dal vescovo ispanico<br />
per la compilazione dei dati. Il secondo<br />
capitolo tratteggia il profilo religioso e culturale<br />
di Isidoro, per far sì che il suo pensiero e la sua<br />
azione campeggino nel più ampio affresco storico.<br />
Il terzo capitolo propone una ricca antologia<br />
di brani isidoriani, utili alla lettura intertestuale -<br />
latina ed italiana - delle notizie di rilievo artistico.<br />
L’ultimo capitolo raccoglie le analisi e le<br />
considerazioni sviluppate intorno ai temi dell’arte<br />
e della tecnica, che nel testo isidoriano<br />
appaiono codificati, attraverso l’esercizio etimologico,<br />
in una dimensione teologica ed estetica<br />
non immune dalle citazioni di altre fonti enciclopediche,<br />
per lo più antiche. Corredano il volume<br />
una copiosa bibliografia, strumento utile per<br />
la consultazione della storiografia tecnico-artisti-
ca, ed un accurato ‘Indice degli argomenti’, che,<br />
invero, non sono pochi, spazianti dalla metallurgia<br />
all’oreficeria, dall’edilizia militare e civile<br />
all’arte plastica, vetraria e alla tintura dei tessuti.<br />
Il nuovo libro di Caffaro e Falanga illustra, in<br />
sintesi, la tesi secondo cui il progresso tecnicoartistico<br />
passa anche per le copiose pagine delle<br />
Etymologiae, le quali non possono essere assimilate<br />
in toto ai ricettari artistici che trovarono<br />
fortuna nelle botteghe artigiane di tutti i secoli,<br />
ma possono essere annoverate tra le fonti ‘trasmissive’<br />
di un sapere tecnico antico, che sarebbe<br />
altrimenti andato perduto, ossia tra le fonti<br />
letterarie che, pur non capaci di apporti speculativi<br />
originali, hanno trovato dignità e funzione<br />
nel ‘convertire’ la sapienza antica nella moderna.<br />
Nell’inserire l’opera isidoriana nel lungo filone<br />
della tradizione artistica e letteraria occidentale,<br />
i due storici dell’arte hanno verificato<br />
l’ipotesi dell’inclusione sommativa dei saperi,<br />
perché anche il vescovo sivigliano ha posto al<br />
centro dei propri interessi il complesso patrimonio<br />
di conoscenze pratiche accumulato nei secoli<br />
dagli artisti e dagli artigiani, dagli alchimisti e<br />
dai tintori, dai monaci e dai bibliofili.<br />
Vissuto a cavallo del VI-VII secolo, Isidoro ha<br />
animato la complessa stagione delle invasioni<br />
visigotiche fino a divenirne ‘anima’ culturale,<br />
padre di una civiltà ispanica e già europea. Basti<br />
pensare al grande contributo dato per<br />
l’unificazione linguistica occidentale, nella ricerca<br />
quasi spasmodica di conservare le radici vive<br />
di una lingua, quella latina dei dotti, che sopravvisse<br />
anche grazie all’impresa isidoriana, seppure<br />
in un sostrato romanzo, che sarà destinato a<br />
contaminarsi. E, come per i dati linguistici, così<br />
è per i contenuti desunti dai grandi repertori<br />
delle arti dell’Antichità. Isidoro è stato un grande<br />
raccoglitore di excerpta estratti dalla tradizione<br />
ed ha tentato di organizzare il sapere in una<br />
cornice argomentativa unitaria. I 20 libri che<br />
compongono l’opera originale sono ‘farciti’ di<br />
citazioni tratte dai testi di Omero, Plauto,<br />
Terenzio, Varrone, Cicerone, Palladio, Virgilio,<br />
Orazio, Lucrezio, Ovidio fino a Plinio il Vecchio<br />
GENEROSO CONFORTI<br />
- 119 -<br />
e a Vitruvio, i cui trattati di portata enciclopedica<br />
basterebbero da soli a dire la grandezza degli<br />
antichi. Considerati i tempi in cui il Sivigliano è<br />
vissuto, può oggi dirsi che Isidoro sia riuscito<br />
nella folle impresa. Si tenga conto, tra l’altro,<br />
della lunga gestazione dell’opera, che impegnò<br />
Isidoro per circa ventuno anni, tra il 615 ed il<br />
636. Ne sarebbe seguita un’eccezionale vicenda<br />
editoriale, costellata dalle edizioni cinquecentesche<br />
di De Grial e Arevalo, dalle ottocentesche<br />
del Migne e del Lindemann e, al di sopra delle<br />
altre, quella curata nel 1911 dal Lindsay, edizione<br />
critica che riunisce l’intera opera in due volumi<br />
e mette fine alla ‘diaspora’ dei manoscritti isidoriani.<br />
Lo studio di Caffaro e Falanga mostra quanto<br />
Isidoro sia stato capace di interpretare e di sintetizzare<br />
la vivente e indefinita tradizione precettistica,<br />
ossia di trasmetterla ai posteri e di farne<br />
il pretesto per educare alle arti e alla religione,<br />
per avvicinare il popolo, attraverso l’etimo, al<br />
mistero della bellezza e a Dio.<br />
Le conclusioni giungono naturali: l’enciclopedia<br />
isidoriana è degna di essere valutata corne<br />
l’esito significativo di un percorso evolutivo che<br />
risale all’antichità egizia e greco-romana, attraversa<br />
il medioevo e giunge nell’età moderna. Il<br />
testo enciclopedico, seppure connotato da stile<br />
compilativo, rivela insieme alla profonda erudizione<br />
dell’autore anche la sua sensibilità estetica,<br />
intrisa, come è ovvio, di toni moralistici ed<br />
afflato spirituale. Isidoro non si limita a raccogliere<br />
le informazioni tramandate dagli Auctores<br />
pagani e tardoantichi, ma le investe di spirito<br />
nuovo e dà loro una rinnovata forma e funzione<br />
culturale. La grande cultura permette ad<br />
Isidoro di selezionare brani d’interesse della<br />
sapienza tecnica antica, pur senza che sia sviluppato<br />
un notevole livello critico; egli ribadisce i<br />
contenuti tecnici salienti, tratti dai testi delle<br />
scienze naturali o delle arti meccaniche, per<br />
dilatare gli orizzonti conoscitivi e applicativi a<br />
ciò che, in precedenza, era indirizzato soltanto a<br />
scopi pratici ed operativi.
SALTERNUM<br />
Storia di una collaborazione<br />
La mia collaborazione con l’Associazione<br />
ARCI POSTIGLIONE ebbe inizio nel 1994.<br />
Ricordo quando fui contattato dal<br />
Presidente, il dott. Generoso Conforti, instancabile<br />
coordinatore di tutte le attività culturali che<br />
si svolgono nei Paesi degli Alburni. La telefonata<br />
mi fece molto piacere, perché mi venne chiesto<br />
di scrivere un articolo per la Rivista “Il<br />
Postiglione” 1 . La conoscenza con il dott. Conforti<br />
risaliva ad alcuni anni prima, quando mi divertivo<br />
a fare l’allenatore della squadra di calcio del<br />
mio Paese, Sicignano degli Alburni. In quel<br />
tempo mi trovavo spesso di fronte, da avversario,<br />
un eccellente giocatore, difficile da affrontare<br />
perché era tatticamente disciplinato e non<br />
dava punti di riferimento nella marcatura. Ho<br />
voluto citare questo spaccato calcistico per evidenziare<br />
come la sua applicazione nel fare le<br />
cose sia rimasta immutata e si sia riversata anche<br />
in quella sua attività culturale di cui oggi si celebra<br />
il ventennale 2 .<br />
Agli inizi degli anni ’90 ero tornato da una<br />
lunga permanenza lavorativa a Milano, dove<br />
avevo avuto l’opportunità di fare un’esperienza<br />
giornalistica: il dott. Enrico Moneta Caglio,<br />
uomo dalle grandi virtù morali, Direttore della<br />
Rivista “Agrisport e Agriturismo”, mi aveva invogliato<br />
a scrivere un articolo per il giornale e, una<br />
volta iniziata la collaborazione, mi aveva affidato<br />
l’incarico di curare la pagina culturale di quel<br />
mensile. Quando, alcuni anni dopo, ho accettato<br />
l’invito dell’ARCI POSTIGLIONE ero abituato a<br />
dare ai miei articoli un taglio rigoroso, ma divulgativo<br />
e privo di apparato critico. Allorché consegnai<br />
alla Redazione de “Il Postiglione” il mio<br />
testo, il Direttore mi fece notare che mancavano<br />
le note bibliografiche! Ne nacque un diverso<br />
modo di impostare gli scritti, improntato alle esigenze<br />
della ricerca scientifica, che sempre espli-<br />
- 120 -<br />
cita e documenta le proprie fonti. Un criterio al<br />
quale mi sono ispirato anche quando, nel 1997,<br />
eletto Direttore del GRUPPO ARCHEOLOGICO<br />
SALERNITANO, ho dato vita a “Salternum”, Rivista<br />
semestrale di informazione storica, culturale e<br />
archeologica.<br />
Ho tuttavia continuato a collaborare con<br />
l’Associazione per diversi anni, durante i quali<br />
ho scritto articoli che hanno trattato spaccati di<br />
vita e personaggi storici del mio Paese e ho partecipato<br />
a diversi incontri letterari dell’estate<br />
postiglionese 3 .<br />
Esperienze entrambe dalle quali ho sempre<br />
tratto l’emozione che si prova quando si espongono<br />
i risultati di ricerche svolte negli archivi<br />
storici e nelle biblioteche non meno che sulle<br />
evidenze storico-artistiche ed archeologiche. È<br />
successo anche per la chiesa di Santa Maria del<br />
Serrone extra moenia castrum Siciniani 4 .<br />
Durante il restauro, sulla sua parete sud è stata<br />
rinvenuta una finestra romanica dalla quale si<br />
può spaziare su gran parte del territorio di pertinenza<br />
del Priorato, così come descritto nel<br />
documento n. 247 dell’Arca XII della Biblioteca<br />
dell’Abbazia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni,<br />
ritrovato grazie all’attenzione di alcuni studiosi 5 :<br />
si tratta di un caso esemplare del binomio ‘documento<br />
– monumento’, sul quale ogni ricercatore<br />
si augura di poter lavorare.<br />
I nostri Paesi degli Alburni hanno quella sete<br />
di conoscenza che permette di ricostruire una<br />
storia ancora in gran parte da scoprire. A noi<br />
spetta il compito più importante: fare ricerca sul<br />
territorio per riportare alla luce il patrimonio culturale<br />
che ci appartiene e per riappropriarci<br />
delle nostre origini.<br />
In questa ottica è di fondamentale importanza<br />
che la collaborazione oggi ventennale tra le<br />
due Associazioni, l’ARCI POSTIGLIONE eilGRUPPO
ARCHEOLOGICO SALERNITANO, venga mantenuta in<br />
vita e costantemente alimentata da una ‘linfa’<br />
capace di generare nuove idee e suscitare interessi<br />
e collaborazioni soprattutto da parte dei<br />
giovani.<br />
Abbiamo il dovere morale di trasmettere alle<br />
future generazioni l’esempio di come un Bene<br />
Culturale possa essere tutelato e valorizzato<br />
attraverso la conservazione della sua memoria<br />
storica.<br />
Al termine di una conferenza che ho tenuto<br />
a Postiglione nell’agosto del 2005, ho proiettato<br />
un’immagine di un tramonto sull’isola di Capri,<br />
ripreso in una limpida giornata da un terrazzo<br />
naturale di quel lontano paese alburnino. Le<br />
parole conclusive, nelle quali continuiamo a<br />
riconoscerci, erano:<br />
«la memoria storica di un territorio è arte,<br />
è fuoco, è luce. Facciamo di tutto per<br />
non farla tramontare come l’ultimo sole<br />
che ogni giorno tramonta nell’azzurro mar<br />
Tirreno».<br />
1 PASTORE F. 1994, A Sicignano degli Alburni in un luogo di<br />
pace: il convento dei Frati Cappuccini, in “Il Postiglione”,<br />
VI, n. 7, pp. 213-216.<br />
2 CAFFARO A. - CONFORTI G. - MELE R. 2009, In viaggio da vent’anni.<br />
Arci Postiglione 1989 - 2009, Ed. Arci Postiglione,<br />
Penta (SA).<br />
3 PASTORE F. 1996, Girolamo Brittonio: la famiglia, la vita, le<br />
opere, in “Il Postiglione”, VIII, n. 9, pp. 289-296.<br />
4 IDEM 1997, Il Priorato di Santa Maria del Serrone a<br />
Sicignano degli Alburni, in “Il Postiglione”, IX, n.10, pp.<br />
271-284.<br />
5 FORES D. P. 1988, L’inventario dei beni di S. Benedetto di<br />
Salerno a Sicignano, in Appunti e documenti per la storia<br />
del territorio di Sicignano degli Alburni, a cura di C.<br />
CARLONE - F. MOTTOLA, Ed. Studi Storici Meridionali, Nocera<br />
Inf. (SA), pp. 361-381.<br />
FELICE PASTORE<br />
- 121 -
MONDRAGONE (CE).<br />
Dallo scavo preistorico un paleosuolo di 50.000<br />
anni fa.<br />
Dallo scorso mese di settembre 2009 è in<br />
corso la nona campagna di scavo nella grotta di<br />
Roccia San Sebastiano in loc. Incaldana, condotta,<br />
con il contributo finanziario del Comune di<br />
Mondragone, dall’Università di Roma ‘Sapienza’,<br />
in regime di concessione da parte della<br />
Soprintendenza Archeologica delle Province di<br />
Salerno, Avellino, Benevento e Caserta. Lo scavo<br />
di quest’ anno, che terminerà verso la metà di<br />
Ottobre, ha permesso di ampliare l’esplorazione<br />
dei livelli più antichi del Paleolitico superiore, al<br />
di sotto del livello Gravettiano datato a circa<br />
20.000 anni fa. La sequenza messa in luce finora<br />
dimostra, in modo evidente la continuità e<br />
l’intensità della frequentazione preistorica dell’area<br />
del Comune di Mondragone e delle pendici<br />
del Monte Massico. Al di sotto dei livelli già noti<br />
fino al 2008, è stato possibile accertare la presenza<br />
di un importante livello con resti di fauna<br />
e manufatti litici attribuibili alla cosiddetta<br />
Cultura Aurignaziana, che si colloca in Europa<br />
agli inizi del Paleolitico superiore, con datazioni,<br />
in altri giacimenti italiani, intorno a 30.000<br />
anni fa circa. «Si tratta di un risultato sorprendente<br />
- commenta entusiasta l’Assessore alla Cultura<br />
Antonio Taglialatela - che premia la volontà di<br />
incrementare le risorse per gli scavi a partire dall’anno<br />
2008». La scoperta certamente più significativa<br />
di questa campagna di ricerche è stata tuttavia<br />
quella relativa all’esistenza di un livello<br />
ancora più antico, databile tra 45.000 e 50.000<br />
anni fa, caratterizzato da un notevole ricchezza<br />
di manufatti riferibili al Musteriano, la Cultura<br />
che precede l’arrivo in Europa dell’Uomo<br />
FELICE PASTORE<br />
Notizie dagli scavi<br />
- 123 -<br />
moderno. La scoperta e lo scavo in corso di questo<br />
livello documentano la presenza di gruppi<br />
umani Neanderthaliani, la specie che popolò<br />
l’Europa e parte dell’Asia, tra 200.000 e poco<br />
meno di 30.000 anni fa circa. «Con questa scoperta<br />
- commenta il Sindaco Achille Cennami -<br />
cambia la storia di Mondragone e la Preistoria<br />
dell’Alta Campania: Mondragone diventa terra di<br />
uomini Neanderthaliani e i prossimi anni potranno<br />
essere ricchi di ulteriori importanti scoperte.<br />
Ci troviamo di fronte a reperti che non hanno<br />
valore commerciale, ma un grandissimo valore<br />
scientifico, trattandosi di reperti in pietra e in<br />
selce. Il Museo Civico Archeologico ‘Biagio<br />
Greco’ si conferma una punta di eccellenza nel<br />
campo dei Beni Archeologici, grazie anche<br />
all’intensa collaborazione della Soprintendenza<br />
Archeologica e la direzione del dottor Luigi<br />
Crimaco».<br />
MONDRAGONE (CE).<br />
Dal Monte Massico riemerge un vigneto dell’antico<br />
Falerno.<br />
All’interno di un vigneto fossile individuato<br />
lungo uno dei fianchi del Monte Massico<br />
(Caserta), sono state rinvenute tracce di polline<br />
di una vigna di età romana, analizzate presso<br />
un laboratorio dell’Università degli Studi di<br />
Padova. Ad annunciare i risultati è stato<br />
l’archeologo Luigi Crimaco, durante il Seminario<br />
‘Dal Falernum al Falerno’, svoltosi al Museo<br />
Civico ‘Biagio Greco’ di Mondragone.<br />
«Da uno dei terrazzamenti antichi, ubicato<br />
alle pendici del Massico, proviene una delle più<br />
interessanti scoperte archeologiche - spiega<br />
Crimaco - che ha restituito le tracce fossili di un
vigneto risalente all’età imperiale romana. La<br />
scoperta, fatta negli ultimi anni del secolo scorso<br />
dopo i lavori di sbancamento per la costruzione<br />
della strada Panoramica del piccolo borgo<br />
di Falciano del Massico, ha permesso di individuare<br />
una serie di sulci (filari), in cui dovevano<br />
essere sistemate le viti per la produzione del<br />
vino. All’interno dei solchi, al momento della<br />
scoperta, furono rinvenuti esclusivamente frammenti<br />
di ceramica fine di produzione africana,<br />
tipica del mondo imperiale romano. Si tratta di<br />
15 solchi paralleli, disposti a una distanza di<br />
circa 2,70 metri l’uno dall’altro e ricavati nel<br />
paleosuolo composto di ignimbrite campana. Le<br />
recenti analisi polliniche hanno fornito risposte<br />
adeguate e possiamo affermare che il fossile rinvenuto<br />
nell’area del Massico apparteneva ad un<br />
vigneto di Falerno».<br />
All’incontro - che ha avuto la finalità di fare il<br />
punto sugli studi su una delle aree più importanti<br />
nella diffusione della vite nel Mediterraneo,<br />
l’Ager Falernus - sono intervenuti l’Assessore<br />
regionale all’Agricoltura Gianfranco Nappi, il<br />
sub-Commissario della Provincia di Caserta<br />
Michele Petruzzelli, il deputato Mario Landolfi, il<br />
Presidente di AGRISVILUPPO Giuseppe Falco, il<br />
Sindaco di Mondragone Achille Cennami, ed i<br />
professori Luigi Moio, ordinario di enologia<br />
all’Università degli Studi di Napoli Federico II, e<br />
Nicola Trabucco, agronomo. Ha moderato il<br />
dibattito il giornalista Luciano Pignataro.<br />
Il Seminario è stato organizzato nell’ambito<br />
del Programma Speciale di Marketing<br />
Territoriale ‘Costiera dei Fiori’, ideato e promosso<br />
dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione<br />
Campania e realizzato da una partenariato locale<br />
costituito dalla Camera di Commercio di<br />
Caserta, Stapa Cepica ed Amministrazione<br />
Provinciale, di cui AGRISVILUPPO è soggetto attuatore.<br />
In quell’occasione l’agronomo Trabucco ha<br />
trattato della composizione del suolo della ricca<br />
terra del Falerno, analizzando le singole aree di<br />
produzione; a tracciare un percorso dell’origine<br />
del Falerno, a spiegare i metodi di vinificazione<br />
nell’epoca romana e le caratteristiche sensoriali<br />
del vino come riportato dagli autori classici, è<br />
stato il professor Moio.<br />
SALTERNUM<br />
- 124 -<br />
Per valorizzare questa risorsa antica che può<br />
rinnovarsi al presente, il Presidente di<br />
AGRISVILUPPO ha illustrato tre importanti progetti:<br />
«L’idea è quella di realizzare una Fondazione per<br />
la promozione del vino Falerno, che associ<br />
Camera di Commercio, Comuni interessati e<br />
produttori di vino. Poi avvieremo la pratica<br />
necessaria per chiedere all’Unesco la tutela del<br />
vinum falernum e abbiamo l’intenzione di ricostruire<br />
tre vigneti sul modello di quelli degli antichi<br />
Romani, in tre diverse zone quali il Teatro<br />
Romano di Sessa Aurunca, la Villa di San Limato<br />
a Cellole e gli Scavi del Castello di Mondragone».<br />
Il Sindaco di Mondragone e l’Assessore regionale<br />
all’Agricoltura hanno annunciato la realizzazione<br />
di un’enoteca dedicata all’importante<br />
vitigno, per la quale è già stato fatto un cospicuo<br />
stanziamento.<br />
MONDRAGONE (CE).<br />
Rinvenimento di un fonte battesimale medievale.<br />
Dopo il rinvenimento di una staffa di cavallo,<br />
un’ulteriore sorprendente scoperta ha premiato<br />
la IX campagna di scavo in corso sulla Rocca<br />
Montis Dragonis, diretta da Luigi Crimaco,<br />
Direttore del Museo Civico Archeologico ‘Biagio<br />
Greco’. Si tratta di un fonte battesimale medievale,<br />
del peso stimato in 350 kg.<br />
«Si tratta di una bellissima scoperta archeologica<br />
- commenta L. Crimaco - sulla quale ci riserviamo,<br />
dopo i necessari studi, di pronunciarci in<br />
modo completo. Ad una prima analisi possiamo<br />
affermare che forse si tratta di un fonte battesimale<br />
medievale, ma è opportuna la cautela.<br />
Quello che mi preme è formulare un vivo ringraziamento<br />
al parroco di S. Angelo, Don<br />
Roberto Gutturiello, presente durante le operazioni<br />
di recupero del reperto archeologico.<br />
Senza l’aiuto dei componenti del Comitato Festa<br />
di S. Angelo non sarebbe stato possibile portare<br />
immediatamente al Museo questa importante<br />
testimonianza del passato». Le operazioni di trasporto,<br />
eseguite nella giornata di giovedì 24 settembre,<br />
sono state infatti possibili grazie alla fattiva<br />
collaborazione del Comitato della Festa<br />
Patronale di S.Michele, presenti sul luogo in<br />
quanto impegnati a montare l’illuminazione del
Castello. Il fonte battesimale è stato trasporto<br />
lentamente dalla sommità del Castello fin dalle<br />
prime ore della mattinata ed è giunto in località<br />
Cantarella verso le ore 15.00, quando è stato<br />
preso in custodia dagli operai del Comune<br />
Giuseppe Rao e Vincenzo Crimaldi. Sotto la<br />
supervisione della restauratrice del Museo, la<br />
dott.ssa Marianna Musella, il reperto è stato poi<br />
collocato nella sala medievale, posta al secondo<br />
piano, che ospita anche lo stemma dei Duca<br />
Grillo. «Ritengo che con la scoperta di questo<br />
importate reperto archeologico di epoca medievale<br />
- commenta il Sindaco Achille Cennami -<br />
confermiamo una vocazione di eccellenza del<br />
nostro Museo Civico e della sua Direzione<br />
Scientifica. Ringrazio anche io la comunità di<br />
Sant’Angelo, nella persona del parroco don<br />
Roberto Gutturiello, per il prezioso aiuto dato<br />
alla nostra équipe scientifica dai componenti il<br />
Comitato Festa nell’operazione di salvataggio e<br />
mi piace sottolineare come il fonte battesimale<br />
possa essere già visto nelle sale del nostro<br />
Museo. La continua collaborazione con la<br />
Soprintendenza Archeologica, attraverso la persona<br />
della dott.ssa Ruggi d’Aragona, ci permette<br />
di mettere in risalto e di offrire all’attenzione di<br />
tutti quanto di bello e prezioso la nostra storia ci<br />
ha lasciato».<br />
MARIGLIANO (NA).<br />
Riportato alla luce un tratto della via Popilia.<br />
Il 2 febbraio 2009 è stato individuato un tratto<br />
dell’antica via Popilia. Superate iniziali difficoltà<br />
legate principalmente alla mancanza di<br />
fondi, si sono avviati gli scavi in via Sentino per<br />
riportare alla luce completamente l’antica strada<br />
romana, costruita nel 132 a.C. per collegare<br />
Capua con Reggio Calabria; l’importante arteria<br />
passava per Acerra, Marigliano, Nola, Nocera e<br />
il territorio salernitano fino ad arrivare a Reggio.<br />
A dirigere i lavori è la Soprintendenza<br />
Archeologica di Napoli e Pompei diretta dal funzionario<br />
di zona, Giuseppe Vecchio, con<br />
l’archeologo Nicola Castaldo. «Mi sono subito<br />
reso conto dell’importanza della scoperta – spiega<br />
Castaldo - che apre nuovi e inaspettati orizzonti<br />
sulle potenzialità archeologiche di<br />
FELICE PASTORE<br />
- 125 -<br />
Marigliano». L’individuazione della via romana si<br />
aggiunge ad altri rinvenimenti di particolare rilevanza,<br />
avvenuti nel 2007 e nel 2008, tra cui una<br />
necropoli romana stratificata, una villa in via<br />
Sentino, un’altra di Età imperiale in via Ponte<br />
delle Tavole, ai confini con San Vitaliano, ed<br />
una capanna dell’Età del Bronzo risalente a 1700<br />
anni a.C. In mancanza di finanziamenti per la<br />
prosecuzione degli scavi, tali emergenze erano<br />
state temporaneamente reinterrate, per evitare<br />
atti di vandalismo e furti. Uno spiraglio si è aperto<br />
con l’ingresso di Marigliano nel piano strategico<br />
di valorizzazione di Beni Culturali dell’area<br />
nolana, finanziato dall’Unione Europea con 21<br />
milioni di euro; al Comune sono stati assegnati<br />
circa 2 milioni di euro per la realizzazione del<br />
Parco Archeologico e di un centro per lo studio<br />
e la catalogazione delle tradizioni locali. Con la<br />
ripresa degli scavi della via Popilia si riaccendono<br />
i riflettori sull’area archeologica di<br />
Marilianum e a sostenere la causa del Parco<br />
Archeologico si è aggiunto anche uno splendido<br />
vaso in sigillata italica del I secolo d.C., rinvenuto<br />
nella villa sannitica. Il vaso, dopo il restauro,<br />
verrà esposto in una sala del nuovo Museo<br />
Archeologico di Nola.<br />
NOLA (NA).<br />
Reperto di età augustea ‘esposto’ in un giardino<br />
privato.<br />
Conservava una reperto archeologico in<br />
marmo di età augustea nel giardino di una villa,<br />
usandolo come elemento ornamentale; il proprietario<br />
è stato denunciato in stato di libertà. A<br />
effettuare la scoperta i Carabinieri del Nucleo<br />
Tutela Patrimonio Culturale di Napoli, i quali<br />
hanno eseguito un sopralluogo all’interno di<br />
una lussuosa residenza utilizzata per ricevimenti.<br />
Il reperto è una metopa finemente decorata<br />
con bassorilievi, che doveva far parte di un<br />
mausoleo o di un edificio pubblico di età augustea,<br />
probabilmente situato nel territorio nolano,<br />
in un sito archeologico che con ogni probabilità<br />
negli anni passati è stato visitato da un gruppo<br />
di tombaroli. Dopo un rapido accertamento,<br />
il titolare della villa è risultato sprovvisto di autorizzazioni<br />
che giustificassero il possesso dell’og-
getto sequestrato ed è stato denunciato per il<br />
reato di ‘impossessamento illecito di Beni<br />
Culturali appartenenti allo Stato’. La metopa è<br />
stata sottoposta a perizia tecnica da parte di un<br />
funzionario archeologo della Soprintendenza di<br />
Napoli e Pompei il quale, oltre ad attestarne<br />
l’autenticità e la datazione, ha anche evidenzia-<br />
SALTERNUM<br />
- 126 -<br />
to che si tratta di un opera di grande pregio artistico<br />
e scientifico. Il reperto è stato trasportato al<br />
Museo Archeologico di Nola.<br />
(Notizie tratte da: Archemail. L'archeologia in Campania<br />
"Notiziario on-line del Gruppo Archeologico Napoletano",<br />
mesi sett. - ott. 2009).
Scoprendo il Perù...<br />
Scoprire il Perù e lasciarsi sorprendere<br />
dai suoi mille volti è un’esperienza gratificante.<br />
Le diversità geografiche, climatiche ed etniche<br />
che coesistono in questa magica terra, gli usi e<br />
i costumi dei suoi abitanti, anche da lontano, non<br />
finiscono di emozionarti.<br />
I mille aspetti di questa realtà ti incuriosiscono<br />
e ti rincorrono, coinvolgendoti.<br />
Sono i lunghi deserti, i maestosi e innevati vulcani<br />
andini a lasciarsi ammirare; sono le greggi di<br />
alpaca o di vigogne che ti corrono davanti agli<br />
occhi e i versi dei leoni marini o dei volatili, stanziati<br />
nelle isole Ballestas, in mezzo all’oceano, a<br />
richiamarti.<br />
E poi i volti dei bambini bruciati dal sole e dal<br />
vento di altitudini impossibili da abitare e i loro<br />
piedi scalzi nei recinti insieme coi lama, o le<br />
madri pazienti che trasportano i loro piccoli in<br />
spalla nei panni multicolori, a parlarti di una realtà<br />
diversa e difficile.<br />
Il Perù è anche la grande lezione di vita trasmessa<br />
dalla mitezza e dall’essenzialità in cui vivono<br />
popolazioni umili, come gli Uros delle isole galleggianti<br />
del lago più alto del mondo: il Titicaca.<br />
Esse sono riccamente paghe di vivere in armonia<br />
con una natura non sempre confortevole.<br />
Coinvolgente è anche il mistero dei giganteschi<br />
segni, prodotti chissà da quali civiltà, ora nel<br />
deserto, come quelli di Nasca, ora su dune sabbiose,<br />
come quelle di Paracas.<br />
E intanto ti interroghi sulla grandezza di megalitiche<br />
costruzioni, testimoni di antiche civiltà millenarie<br />
che ti affascinano insieme a riti, danze e<br />
musiche, che come l’Inti Raymi, ancora oggi le<br />
rappresentano.<br />
ROSALBA TRUONO<br />
Appunti di Viaggio<br />
- 127 -<br />
Fig. 1 - Isole galleggianti. Donne di etnia Uros.<br />
Fig. 2 - Festa dell’Inti Raymi.<br />
Fig. 3 - Festa dell’Inti Raymi.
Fig. 4 - Pisac. I ‘terrazzamenti incaici’.<br />
Fig. 5 -Vigogne e misti - Il vulcano simbolo di Arequipa.<br />
Fig. 6 - Isole Ballestas - Parco Naturale.<br />
...come un incantesimo<br />
La veduta di Machu Picchu è un’emozione<br />
mozzafiato; all’alba poi, avvolta dalla nebbia che<br />
si dirada, man mano che il sole del solstizio<br />
d’inverno incede, ti ripaga degli ostacoli e dei disagi<br />
di un viaggio faticoso.<br />
SALTERNUM<br />
- 128 -<br />
Un traguardo irrinunciabile per gli amici naturalisti<br />
e per gli appassionati di archeologia, che in<br />
quest’atmosfera da favola possono ben capire ciò<br />
che dovette provare Hiram Bingham quando, nel<br />
1911, vide questo luogo incantato per la prima<br />
volta.<br />
E’ qui che ti sorprende la bellezza di una<br />
Natura prepotente e la sapienza di mani esperte<br />
ed antiche.<br />
Tutto è uno spettacolo nello spettacolo: i picchi<br />
verdi delle montagne che appaiono e scompaiono<br />
tra la nebbia, i terrazzamenti maestosi che<br />
degradano verso il fondo valle, l’acqua trasparente<br />
del fiume Urubamba che scorre laggiù nelle<br />
gole profonde, i lama pazienti che brucano l’erba,<br />
le mille orchidee che fanno capolino tra il verde<br />
rigoglioso della vicina foresta e infine le antiche<br />
costruzioni incaiche, che ordinatamente si adagiano<br />
in ogni dove, come perle incastonate nella<br />
loro più naturale cornice.<br />
Sono queste pietre, magistralmente incastrate<br />
in un luogo quasi inaccessibile, sono i lunghi sentieri<br />
incaici, sofisticati canali che un tempo consentivano<br />
l’irrigazione costante delle colture, le<br />
numerose scalinate di pietra, incassate nei muri i<br />
cui blocchi intagliati e levigati sono giustapposti<br />
senza margine di errore, sono le enigmatiche<br />
forme scultoree cerimoniali, i templi, le terrazze<br />
affacciate su vertiginosi precipizi a porci misteriose<br />
domande sulla grandezza e sulla organizzazione<br />
delle civiltà andine.<br />
Nascosto nella nebbia dell’umido bosco e<br />
nella sua rigogliosa vegetazione, il complesso di<br />
Machu Picchu è ben a ragione considerato una<br />
delle meraviglie del mondo. Probabilmente fu<br />
una città sacra, abitata da persone scelte, forse<br />
appartenenti alla nobiltà incaica e alle alte gerarchie<br />
religiose, una città che tuttavia gli Spagnoli<br />
durante la conquista non attaccarono mai e che<br />
forse fu abbandonata dai suoi abitanti, che scapparono<br />
verso la selva per sfuggire all’esercito<br />
nemico.<br />
La complessa struttura urbanistica di Machu<br />
Picchu e la sua possente architettura rendono<br />
alquanto difficile i tentativi di identificarne la funzione<br />
e l’origine. Qui, più che altrove, gli elementi<br />
tipici dei centri cerimoniali e dei luoghi di culto<br />
sono commisti a quelli propri delle fortezze
difensive e degli insediamenti agricoli. Perciò<br />
ancora oggi questo complesso non cessa di stupirci<br />
ed essere fonte di dibattiti tra gli archeologi,<br />
che, forse in un prossimo futuro, ne sveleranno<br />
nuovi, affascinanti aspetti.<br />
E intanto, mentre nella nostra mente si affollano<br />
come flasches le immagini di un paesaggio<br />
incantato, i cui luoghi riecheggiano della poesia<br />
di nomi quecheea - Machu Picchu (cima vecchia),<br />
Huayna Picchu (cima giovane), Intiwatane<br />
(luogo che cattura il sole) e così via -, noi non<br />
possiamo che essere d’accordo con le parole di<br />
Hiram Bingham: «…la visione mi catturava lo<br />
sguardo come un incantesimo!».<br />
ROSALBA TRUONO<br />
- 129 -<br />
Fig. 7 - Machu Picchu.
SALTERNUM<br />
Indice<br />
Editoriale......................................................................................................................................pag. 3<br />
di Gabriella D’Henry<br />
Le popolazioni indigene dell'entroterra ........................................................................................pag. 5<br />
di Gianni Bailo Modesti<br />
Geomitologia ed origini geologiche del culto dell’Arcangelo Michele ........................................pag. 23<br />
di Luigi Piccardi<br />
Di una iscrizione rinvenuta a Lacedonia ......................................................................................pag. 29<br />
di Nicola Fierro<br />
La schiavitù a Roma....................................................................................................................pag. 33<br />
di Pietro Crivelli<br />
L’anfiteatro atinate.<br />
Lineamenti storici, epigrafici e topografici<br />
di un monumento sepolto dell’antica Atina ..............................................................................pag. 49<br />
di Marco Ambrogi<br />
Orazio e la Campania..................................................................................................................pag. 63<br />
di Francesco Montone<br />
Lo stato di conservazione degli affreschi di San Pietro a Corte in Salerno ....................................pag. 71<br />
di Maria Amoruso<br />
“Picturae in ecclesiae S. Marie de Casalucio”<br />
Gli affreschi di Casaluce. Una parentesi medievale ........................................................................pag. 79<br />
di Gianmatteo Funicelli<br />
La Natività della tradizione apocrifa nella cripta della cattedrale di Nusco ................................pag. 89<br />
di Maria Giovanna Vespasiano<br />
Origini e sviluppo dell’architettura rurale<br />
nella piana del Sele: l’esempio della Masseria Fosso ....................................................................pag. 99<br />
di Lorella Mazzella<br />
Il restauro della scultura lapidea di San Pietro Martire nella chiesa di S. Domenico a Matera ......pag. 109<br />
di Elisa Basile<br />
RECENSIONI<br />
Dorotea Memoli Apicella, Sichelgaita tra Longobardi e Normanni,............................................pag. 115<br />
di Francesca Angellotti<br />
Adriano Caffaro - Giuseppe Falanga, Isidoro di Siviglia. Arte e tecnica nelle etimologie ........pag. 118<br />
di Generoso Conforti<br />
Storia di una collaborazione ....................................................................................................pag. 120<br />
di Felice Pastore<br />
Notizie dagli scavi....................................................................................................................pag. 123<br />
di Felice Pastore<br />
Appunti di viaggio ..................................................................................................................pag. 127<br />
di Rosalba Truono<br />
- 131 -
Finito di stampare<br />
nel mese di novembre 2009<br />
da Arti Grafiche Sud<br />
Salerno