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SEMESTRALE DI INFORMAZIONE STORICA, CULTURALE E ...

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SALTERNUM<br />

<strong>SEMESTRALE</strong> <strong>DI</strong> <strong>INFORMAZIONE</strong> <strong>STORICA</strong>, <strong>CULTURALE</strong> E ARCHEOLOGICA<br />

A CURA DEL GRUPPO ARCHEOLOGICO SALERNITANO


REG. TRIB. <strong>DI</strong> SALERNO<br />

N. 998 DEL 31/10/1997<br />

ANNO XIII - NUMERO 22-23<br />

GENNAIO/<strong>DI</strong>CEMBRE 2009


Cento anni fa, il 9 maggio 1909, con<br />

Regio Decreto n. 373 venne fondata la<br />

Scuola Archeologica Italiana di Atene<br />

(ora chiamata, secondo la discutibile moda delle<br />

sigle, SAIA); il decreto venne pubblicato sulla<br />

Gazzetta Ufficiale del 30 giugno dello stesso<br />

anno. E la Scuola venne inaugurata l’anno<br />

seguente, il 7 aprile 1910. Si era a qualche<br />

decennio dall’Unità d’Italia e dalla nascita dello<br />

Stato italiano; fino a quel momento, nonostante<br />

l’attiva presenza di alcuni archeologi di valore,<br />

la cultura antichistica italiana era dominata dagli<br />

studiosi tedeschi, di stampo prevalentemente<br />

positivista.<br />

Per la prima volta un’Istituzione culturale italiana<br />

si affiancava a storiche Istituzioni dei maggiori<br />

Paesi, europei e non, che avevano nella<br />

Grecia classica il loro punto di riferimento ed il<br />

loro centro di ricerca.<br />

Già precedentemente un grande archeologo<br />

italiano, il trentino Halbherr, aveva lavorato<br />

nelle isole greche. Ma il primo direttore della<br />

Scuola fu Luigi Pernier, che rimase ad Atene<br />

diversi decenni: i suoi interessi di studioso si<br />

concentrarono a Creta e Lemno; oltre a Rodi,<br />

che in quegli anni era soggetta all’occupazione<br />

italiana. Per un breve tempo fu poi direttore lo<br />

storico dell’arte antica Alessandro Della Seta.<br />

Nel marzo 1948, dopo le vicissitudini del<br />

conflitto mondiale, la Scuola venne ufficialmente<br />

riaperta, sotto la direzione del triestino Doro<br />

Levi, che, prima delle leggi razziali di cui fu vittima,<br />

aveva già lavorato a lungo in Grecia,<br />

GABRIELLA d’HENRY<br />

E<strong>DI</strong>TORIALE<br />

- 3 -<br />

soprattutto a Creta (si ricordano in proposito gli<br />

scavi di Festòs e di Aghia Triada). Ma uno dei<br />

grandi meriti di Doro Levi fu quello di estendere<br />

gli interessi degli studiosi italiani verso la<br />

Turchia, la Siria, l’Albania, l’Egitto e Cipro, oltre<br />

alla Libia che era già stata interessata da missioni<br />

di scavo italiane.<br />

Dopo la lunga esperienza di Levi, che si<br />

interruppe nel 1975, furono direttori della<br />

Scuola d’Atene Antonino Di Vita ed il nostro<br />

quasi-concittadino Emanuele Greco, che ha dato<br />

un nuovo impulso a scavi e ricerche in terra<br />

greca, coinvolgendo nella sua organizzazione<br />

diverse università italiane.<br />

Qualche anno fa la Scuola corse il pericolo di<br />

chiusura, essendo entrata, erroneamente ed<br />

incredibilmente, nell’elenco dei cosiddetti “Enti<br />

inutili”: per fortuna si accorsero in tempo dell’errore<br />

e la cosa non ebbe seguito; ora combatte,<br />

come tutte le istituzioni culturali, con il problema<br />

dei fondi, ed ha dovuto, a malincuore, ridurre<br />

il suo personale.<br />

Nell’occasione del Centenario la Scuola ha<br />

pubblicato un simpatico ‘amarcord’, nel quale<br />

alcuni ex allievi della Scuola, ora docenti universitari<br />

o funzionari del Ministero per i Beni<br />

Culturali, parlano della loro prima esperienza in<br />

Grecia, con nostalgia e tenerezza; e tutti, senza<br />

eccezione, legano la loro formazione culturale<br />

all’esperienza ateniese.<br />

Ritengo che sia necessario riflettere su tutto<br />

questo, e non scordarsi mai che l’Italia è fatta<br />

anche di queste eccellenze.<br />

Gabriella d’Henry


GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

Le popolazioni indigene dell’entroterra<br />

Nell’incontro di oggi scenderemo di<br />

molto nel tempo rispetto alle cose di<br />

cui abbiamo discusso insieme l’ultima<br />

volta, in cui - se vi ricordate - eravamo rimasti,<br />

a seconda delle cronologie, tra i 3000 e i 2000<br />

a.C., dunque in un tempo molto remoto. Adesso<br />

saltiamo tutto un lungo periodo, che è quello<br />

dell’età del Bronzo, e ci spostiamo invece alle<br />

soglie dell’epoca storica, in quella che gli<br />

archeologi chiamano tradizionalmente prima Età<br />

del Ferro: siamo quindi, in termini di cronologia<br />

assoluta - per le cose più antiche che vedremo -<br />

già nel corso del IX secolo a.C.<br />

Faremo poi una veloce carrellata di quattrocinque<br />

secoli per cercare di vedere lo sviluppo di<br />

questa cultura indigena detta di ‘Oliveto-Cairano’<br />

nelle tappe più significative dei suoi mutamenti e<br />

per capire appunto come si evolve questa cultura<br />

indigena di fronte alle sollecitazioni della storia e<br />

ai suoi stessi sviluppi.<br />

La prima Età del Ferro è un momento essenziale<br />

per l’assetto più generale della penisola italiana.<br />

Sono trascorsi gli anni cruciali intorno al 1000 a.C.,<br />

che sono quelli durante i quali si verificano tutta<br />

una serie di fenomeni di cui non parlerò in questa<br />

sede, e che soprattutto si concludono con il<br />

formarsi di vere e proprie unità nazionali, quelle<br />

che, praticamente, ci hanno accompagnato fino<br />

quasi ai nostri giorni. Sto parlando delle unità<br />

nazionali in senso regionalistico, per cui già negli<br />

assetti delle popolazioni protostoriche che vivevano<br />

in quel periodo si vedeva una partizione<br />

dell’Italia che corrisponde grosso modo a quella<br />

che sarà poi delle regiones augustee - naturalmente<br />

con qualche piccola variante - e, tutto sommato,<br />

anche alla nostra divisione regionale odierna.<br />

Fa eccezione proprio la Campania, i cui confini<br />

- 5 -<br />

Bisaccia, 12.03.1997<br />

odierni, come sapete, sono poco più che<br />

un’espressione geografica, mentre al suo interno<br />

essa è un crogiolo di culture campane e di altre<br />

culture - come quelle di cui parleremo - che guardano<br />

a volte più verso il versante pugliese o verso<br />

il versante lucano.<br />

La Campania nell’Età del Ferro è percorsa<br />

essenzialmente da due grandi filoni culturali:<br />

quello degli incineratori villanoviani, che sono in<br />

pratica i Protoetruschi, e poi gli indigeni cosiddetti<br />

della ‘Cultura delle tombe a fossa’. E’ una distinzione<br />

che, soprattutto nella definizione, rivela già<br />

un’opposizione del rituale funerario tra popolazioni<br />

che incineravano, e cioè bruciavano i propri<br />

morti e li deponevano in un’urna costituita generalmente<br />

da un vaso o da una forma fittile di<br />

capannna, e popolazioni che invece, come facciamo<br />

noi, inumavano in semplici fosse terragne i<br />

resti dei propri antenati. I centri più importanti del<br />

gruppo villanoviano sono, a Nord, Capua e, nelle<br />

nostre zone, Pontecaganano; vi sono poi delle<br />

piccole appendici a Capodifiume, già in territorio<br />

pestano, e l’ultimo avamposto di Sala Consilina,<br />

nel Vallo di Diano, che probabilmente nell’Età del<br />

Ferro è una sorta di enclave degli Etruschi di<br />

Pontecagnano.<br />

Sala Consilina poi, per la sua stessa vocazione<br />

a metà tra Campania, Lucania e area enotria, deciderà<br />

molto presto, già nelle fasi finali dell’Età del<br />

Ferro, per la vocazione enotria e se ne andrà nel<br />

corso del suo sviluppo in tutt’altra direzione<br />

rispetto a Pontecagnano e a Capua.<br />

La ‘Cultura delle tombe a fossa’ si divide a sua<br />

volta in due sotto-filoni, uno costiero, detto di<br />

Cuma-Torre Galli perché raggiunge anche le<br />

coste calabresi, che ha i suoi centri nelle zone<br />

vicine a noi, come ad esempio S.Valentino Torio,


S. Marzano e numerosi altri centri. Vi è poi, derivata<br />

probabilmente da questa dopo l’impatto con<br />

i Greci, una cultura dell’interno che se na va però<br />

verso Caudium-Montesarchio passando per<br />

Avella, e che corrisponde a una sorta di ristrutturazione<br />

del mondo campano in un momento successivo<br />

alla destrutturazione avvenuta per<br />

l’incontro con i Greci che, almeno per alcuni indigeni<br />

e in particolare per quelli di Cuma, dovette<br />

essere particolarmente violento.<br />

Ma il secondo sotto-filone, quello che a noi<br />

interessa, è invece rappresentato dal gruppo detto<br />

di Oliveto-Cairano, che ha i suoi centri principali<br />

nell’alta valle del Sele a Oliveto Citra, probabilmente<br />

a Montecorvino Rovella e a S. Maria a Vico<br />

- dove sono attualmente in corso alcuni scavi -, e<br />

lungo il versante ofantino, appena superato il<br />

varco appenninico e la Sella di Conza, a Cairano,<br />

Calitri, Bisaccia, Conza della Campania e in tutta<br />

un’altra serie di centri, tra i quali i più esplorati<br />

sono quelli alto-irpini di Cairano e di Bisaccia.<br />

Si tratta probabilmente, da quelli che sono i<br />

dati archeologici, di una popolazione venuta un<br />

giorno dall’altra parte del mare, dall’altra sponda<br />

della costa adriatica e cioè dall’area cosiddetta illirica.<br />

I confronti più stretti si hanno ad esempio<br />

con materiali dalla Macedonia. Probabilmente<br />

attraversarono il mare, risalirono il corso<br />

dell’Ofanto, arrivarono nei dintorni del varco<br />

appenninico e si collocarono un po’ su tutte le<br />

alture strategicamente importanti a dominare il<br />

corso dell’Ofanto e del Sele. La via di comunicazione<br />

naturale Ofanto-Sele, attraverso la Sella di<br />

Conza e il varco appenninico, è nell’antichità una<br />

delle vie più importanti proprio per creare un passaggio,<br />

senza andare per mare, tra la costa tirrenica<br />

e quella adriatica ed è quindi una via di fondamentale<br />

importanza strategica, il cui controllo -<br />

come vedremo - era ricco di conseguenze.<br />

Le popolazioni di Oliveto-Cairano non raggiungono<br />

mai un livello urbano, vivono sempre<br />

sparse in villaggi - ma in villaggi uniti da un rapporto<br />

di solidarietà -, creando un sistema che permetteva<br />

di controllare tutto il territorio circostante.<br />

Come si presenta questa cultura al momento<br />

della sua comparsa nelle nostre zone? L’evidenza<br />

che abbiamo è ancora una volta soprattutto funeraria:<br />

non abbiamo gli abitati nemmeno per<br />

SALTERNUM<br />

- 6 -<br />

l’epoca più antica, che è la prima Età del Ferro. Le<br />

tombe sono - come dicevamo - tombe a fossa terragna<br />

che quasi sempre hanno una copertura in<br />

pietre e ciottoli di fiume. Tolta la copertura, nelle<br />

tombe appaiono i morti, con lo scheletro deposto<br />

supino nella fossa e, accanto a questo, degli<br />

oggetti che lo accompagnavano come corredo<br />

personale.<br />

Proprio dall’esame di ciò che compare in queste<br />

tombe cercheremo ora di ricavare dei dati per<br />

quello che riguarda l’assetto di queste comunità.<br />

Nella prima Età del Ferro i corredi sono generalmente<br />

abbastanza poveri e non particolarmente<br />

esuberanti; rarissimi sono gli oggetti di ornamento:<br />

si trovano infatti solo ornamenti funzionali,<br />

come la spilla che serviva a chiudere il vestito<br />

sul petto. Le donne, oltre alla spilla, raramente<br />

hanno qualche anellino o qualche bottoncino di<br />

bronzo, ma si tratta nel complesso di corredi<br />

molto sobrî. C’è poi il corredo ceramico, che<br />

generalmente è costituito dalla grande brocca<br />

biconica, all’interno della quale spesso c’è un piccolo<br />

attingitoio - una tazza o un’anforetta -, mentre,<br />

nei corredi più esuberanti, a questi due vasi si<br />

aggiunge una tazza più grande che noi chiamiamo<br />

ciotola-attingitoio, perché rappresenta una via<br />

intermedia tra una forma aperta e una forma chiusa.<br />

Il servizio ceramico era costantemente deposto<br />

ai piedi del defunto sia nelle tombe maschili sia<br />

nelle tombe femminili e il dato interessante, che a<br />

volte non si ritrova in altre popolazioni indigene<br />

contemporanee, è che si tratta sempre dello stesso<br />

servizio sia per l’uomo che per la donna.<br />

L’elemento che cambia, però, e che distingue i<br />

due sessi già a livello dell’esame degli oggetti nel<br />

momento della deposizione finale, è invece rappresentato<br />

dagli oggetti di ornamento, perché gli<br />

uomini hanno sempre spille del tipo ad arco serpeggiante,<br />

mentre le donne hanno la caratteristica<br />

fibula ‘ad occhiali’ (o a doppia spirale), che è uno<br />

degli elementi di tradizione adriatica che rimanda<br />

all’area illirica e che non compare a Pontecagnano<br />

o nella Valle del Sarno.<br />

Se il servizio ceramico ai piedi del defunto è lo<br />

stesso per uomini e per donne, l’uomo però è a<br />

volte connotato con oggetti tipicamente maschili<br />

come le armi - la punta di lancia ad esempio - o<br />

con strumenti a lui funzionali, come il rasoio. La


donna invece, quando vuole connotare il proprio<br />

sesso, presenta la fusaiola, che è un oggetto connesso<br />

con l’arte del filare e, quindi, con attività<br />

tipicamente femminili.<br />

Questo quadro già ci offre dati interessanti,<br />

perché bisogna pensare che una tomba a fossa,<br />

anche una tomba semplice come queste, deve<br />

essere interpretata quasi alla stregua di una<br />

fonte scritta o di un messaggio, ossia come un<br />

insieme di segni che gli antichi hanno lasciato<br />

non casualmente, ma volutamente, e che noi ora<br />

dobbiamo cercare di interpretare. Non è casuale,<br />

ad esempio, la forma stessa di una tomba, o<br />

se in una tomba è presente un oggetto piuttosto<br />

che un altro, o, ancora, se un particolare oggetto<br />

si trova in un punto preciso della tomba piuttosto<br />

che in un altro. Tutto questo insieme di<br />

segni costituisce un sistema dietro il quale c’è<br />

un’elaborazione e una volontà cosciente ed è<br />

proprio questa che noi dobbiamo cercare di leggere<br />

e interpretare, senza lavorare troppo con la<br />

fantasia.<br />

Che immagine ci restituisce, dunque, una<br />

necropoli fatta di tombe di questo tipo? Ci restituisce<br />

l’immagine di una comunità non particolarmente<br />

ricca, che non aveva quindi un grande<br />

surplus del quale poteva privarsi per donarlo, ad<br />

esempio, come corredo funebre ai morti, e una<br />

società tutto sommato abbastanza egualitaria. In<br />

realtà, come l’antropologia moderna ci insegna,<br />

una società veramente egualitaria probabilmente<br />

non è esistita mai; diciamo però che era egualitaria<br />

dal punto di vista delle nostre categorie<br />

moderne, le categorie economiche attraverso cui<br />

noi oggi misuriamo uguaglianze e disuguaglianze.<br />

Probabilmente, poi, va considerato che ci<br />

sono segni che non sono rimasti all’archeologo<br />

- si ricordi che spesso non si trovano neanche<br />

tutti gli oggetti della cultura materiale che eventualmente<br />

erano stati deposti in una tomba -,<br />

oppure segni, non della cultura materiale, che<br />

nella tomba a livello funerario non venivano<br />

indicati e che segnalavano però, all’interno di<br />

quella comunità, una differenza tra individui (si<br />

pensi ad esempio all’ipotesi che i cadaveri avessero<br />

tatuaggi, che noi non abbiamo più ma che<br />

magari rappresentavano un elemento di prestigio<br />

all’interno della comunità).<br />

GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

- 7 -<br />

Fig. 1 - Bisaccia (AV). Fibula ‘ad occhiali’ (o a doppia spirale).<br />

Possiamo comunque dire che ricaviamo<br />

l’immagine di una comunità che, almeno dal<br />

punto di vista economico, non aveva al suo interno<br />

grandi differenze e in cui probabilmente esistevano<br />

ancora forme di gestione comune delle<br />

risorse, che dovevano essere quelle agricole con<br />

integrazioni di allevamento e di attività pastorali.<br />

Soprattutto, il dato che colpisce e che risulta<br />

insolito rispetto alle altre popolazioni contemporanee,<br />

è questa equivalenza sociale dell’uomo e<br />

della donna: l’uomo e la donna si connotano, sì,<br />

per la loro differenza sessuale, ma il servizio che<br />

rappresenta l’individuo adulto ai piedi del morto<br />

è assolutamente identico e vi è dunque una<br />

sostanziale equivalenza dell’uomo e della donna<br />

all’interno del gruppo; vi è, cioè, una divisione di<br />

ruoli, ma un’uguale dignità e un uguale peso<br />

all’interno della comunità.<br />

La differenza passa invece, come spesso accade<br />

per queste popolazioni primitive, per le classi<br />

d’età. Se andiamo ad analizzare le tombe degli<br />

individui non ancora adulti, quindi non ancora<br />

iniziati alla comunità, vediamo che anche quando<br />

hanno un corredo particolarmente esuberante di<br />

ceramica, hanno, sì, la tazza e lo scodellone, ma<br />

non hanno mai il servizio tipico che comprende<br />

la grande brocca e l’attingitoio. Hanno poi


anch’essi le spille, che connotano, quando sono<br />

bambini avanti nell’età, il sesso maschile e femminile.<br />

Ma a loro è negato il servizio che identifica<br />

l’individuo adulto. Talvolta addirittura sono privi<br />

del corredo ceramico e hanno solo ornamenti.<br />

Dopo questo secondo livello di classi d’età, a<br />

un livello ancora più basso si collocano i neonati<br />

o i bambini nella prima infanzia, che di solito<br />

sono deposti in piccole fosse sul terreno nelle<br />

quali lo scheletro spesso non è rimasto se non<br />

sotto forma di piccoli frustuli di ossa.<br />

Le tombe di neonato si mostrano particolarmente<br />

interessanti perché al loro interno hanno<br />

sempre e soltanto la grande spilla maschile dei<br />

vari tipi ad arco serpeggiante, presente con<br />

esemplari di dimensioni normali - quindi non<br />

miniaturizzate per un bambino - se non, a volte,<br />

addirittura di dimensioni considerevoli. Vi è poi<br />

un esempio di tomba di infante in cui il neonato<br />

non era deposto nella fossa, ma vi era un<br />

buco nel terreno con un grande vaso che conteneva<br />

all’interno le spoglie del bimbo. Insieme<br />

alle spoglie del bambino si rinvennero un coltello<br />

di ferro, assolutamente improbabile come<br />

oggetto d’ornamento personale del neonato,<br />

un’enorme spilla ad arco serpeggiante e una<br />

punta di lancia di bronzo, identica a quella degli<br />

adulti maschi.<br />

In un’altra tomba di infante, invece, non c’era<br />

alcun oggetto di corredo, ma soltanto una punta<br />

di lancia in bronzo, deposta a metà della piccola<br />

fossa.<br />

L’immagine che suggerisce questo modo di<br />

deporre il neonato risulta abbastanza anomala: il<br />

neonato, in pratica, non ha un corredo personale<br />

e anche la spilla che chiude il vestito sul petto non<br />

appartiene al corredo dell’infante, anche perché in<br />

qualche caso, come in quello dell’enchytrismos (la<br />

sepoltura entro vasi), la spilla serviva piuttosto per<br />

chiudere il panno in cui i resti del neonato erano<br />

inseriti. L’infante non ha dunque diritto al servizio<br />

ceramico e neanche agli oggetti personali; quando<br />

poi si rinvengono elementi di tipo personale<br />

come la spilla, si tratta sempre della spilla maschile<br />

di grandi dimensioni. A volte, addirittura, a ribadire<br />

questa connotazione maschile di individuo<br />

adulto, sono presenti la punta di lancia e il coltello<br />

di ferro. Il neonato, dunque, in qualche modo<br />

SALTERNUM<br />

- 8 -<br />

non esiste di per sé e non ha ancora una sua individualità,<br />

ma esiste in quanto collegato con la<br />

figura paterna, perché è il padre che è garante del<br />

neonato e nelle tombe di neonato dà la sua<br />

impronta.<br />

Anche questo è un dato che non trova confronto<br />

nelle culture indigene contemporanee, in<br />

cui fin dalla primissima età i maschietti e le femminucce<br />

vengono connotati in maniera autonoma,<br />

anche se mai con tutte le prerogative proprie<br />

del maschio o della donna adulti.<br />

Questo è il quadro che dagli inizi della cultura,<br />

quindi dal pieno IX secolo a.C., prosegue fino<br />

circa a tutta la metà l’VIII secolo a.C. Poi improvvisamente,<br />

in modo anche abbastanza repentino e<br />

senza passaggi intermedi, le tombe più recenti,<br />

che vanno dalla seconda metà dell’VIII agli inizi<br />

del VII secolo a.C., si mostrano completamente<br />

diverse. Sono tombe generalmente molto più ricche<br />

di materiali e soprattutto si osserva che si è<br />

spezzata quella antica equivalenza tra il servizio<br />

dell’uomo e il servizio della donna ai piedi del<br />

morto. L’uomo, infatti, ha costantemente ai piedi<br />

una grande olla che non è più l’olla biconica del<br />

passato ma è la grande olla da derrate, quella che<br />

costituisce il simbolo della ricchezza agricola e il<br />

bene sostanziale del gruppo; al suo interno si<br />

trova ancora spesso l’attingitoio, costituito da<br />

un’anforetta o da una tazza. Per l’uomo, poi, si<br />

può individuare tra il resto della suppellettile un<br />

secondo servizio ceramico, che è deposto generalmente<br />

sulle gambe, sotto il bacino, e comprende<br />

un grande scodellone con, al suo interno, un<br />

ulteriore vaso. Il corredo maschile presenta la<br />

punta di lancia ormai realizzata in ferro e non più<br />

in bronzo ed è anch’esso caratterizzato da specifici<br />

oggetti di ornamento: continua infatti anche<br />

nelle spille la distinzione tra maschio e femmina,<br />

con la spilla ad arco serpeggiante per gli uomini<br />

e la spilla ‘ad occhiali’ per le donne, anche se vi<br />

sono alcuni tipi di fibule -come quelle a navicella<br />

o a sanguisuga - che condividono sia gli uomini<br />

che le donne.<br />

Come avevamo già visto comparire nelle<br />

sepolture femminili dell’età precedente, nelle<br />

tombe delle donne c’è adesso costantemente<br />

quello che è il fossile-guida della cultura, ossia il<br />

bracciale ad arco inflesso, che diventa in questo


momento molto più diffuso e canonico. Il bracciale<br />

ad arco inflesso, infatti, è presente in tutte le<br />

tombe femminili e quando si trova in una sepoltura,<br />

anche al di fuori dai centri della cultura di<br />

Oliveto-Cairano, si può essere certi di essere in<br />

presenza di una donna di Oliveto-Cairano, perché<br />

evidentemente questi bracciali erano qualcosa<br />

che, nell’immaginario di quelle genti, ribadiva<br />

l’identità culturale e l’appartenenza delle donne a<br />

quel gruppo ben definito.<br />

Le tombe femminili, a differenza di quelle<br />

maschili, non hanno la grande olla da derrata ai<br />

piedi, ma ai piedi hanno soltanto lo scodellone, a<br />

volte accompagnato da un altro vaso: in sostanza,<br />

le donne hanno ai piedi quello che nell’uomo<br />

costituisce il servizio secondario e complementare,<br />

che è posto sulle gambe o vicino al bacino. E<br />

questa è una differenza fondamentale rispetto alla<br />

fase precedente.<br />

Che immagine ci restituiscono già questi pochi<br />

dati? Per quanto riguarda la società in generale,<br />

che senza dubbio ha fatto un salto di crescita, i<br />

corredi sono tutti sensibilmente più ricchi e, nonostante<br />

questo, cominciano ad avvertirsi al loro<br />

interno le prime differenze di ricchezza.<br />

All’interno dei corredi funebri si comincia a rinvenire<br />

anche suppellettile ceramica che non è prodotta<br />

in loco ma che è prodotta dalle culture indigene<br />

vicine, in particolare della Daunia. E questo<br />

ci dice che si tratta ormai di una comunità che<br />

produce anche più di quanto le basti per la sua<br />

stessa sussistenza e che ha qualche cosa che può<br />

scambiare. Mentre l’immagine della comunità<br />

precedente era quella di una comunità tesa alla<br />

sopravvivenza e chiusa al suo interno, questa è<br />

l’immagine di una comunità invece in fase di sviluppo,<br />

che si apre all’esterno e che è in un<br />

momento di profonda crescita.<br />

Quello che cambia è, come si diceva,<br />

l’equivalenza tra uomo e donna: improvvisamente<br />

l’uomo rivendica nella tomba i simboli propri e<br />

sostanziali che ricordano la ricchezza del gruppo<br />

e che vengono rappresentati dall’olla da derrate.<br />

Ma non è soltanto questo. Tranne qualche rarissima<br />

eccezione, gli oggetti di ferro, che costituisce<br />

il metallo di valore sostanziale e di valore tecnologico<br />

all’interno del gruppo, sono prerogativa<br />

dell’elemento maschile.<br />

GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

- 9 -<br />

Fig. 2 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Askos dauno dalla T.<br />

110 - Prima metà VII sec. a.C.<br />

Fig. 3 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Goliera di bronzo<br />

dalla T. 110 - Prima metà del VII sec. a.C.<br />

Fig. 4 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Anforetta<br />

d’impasto decorata a lamelle metalliche dalla T. 11 - VII sec. a.C.


SALTERNUM<br />

Fig. 5 - Bisaccia (AV). La tomba della ‘Principessa’ in corso di scavo (foto G. Bailo).<br />

Si delinea dunque un quadro in cui ci sono<br />

corredi di donne che non possono definirsi povere,<br />

ma i simboli più importanti del potere reale<br />

all’interno del gruppo sono appannaggio dell’elemento<br />

maschile.<br />

Rimane da chiedersi che cosa ha fatto fare questo<br />

salto di qualità alla cultura. Fondamentale a<br />

questo proposito è il rinvenimento di una tomba<br />

che fu messa in un luce un giorno imprecisato<br />

della fine degli anni ’70 sulla collina di Bisaccia.<br />

Sulla collina si rinvenne una sepoltura che<br />

immediatamente si differenziava dalle altre.<br />

Innanzi tutto si trattava di una tomba a fossa,<br />

di grandi dimensioni, che aveva la normale copertura<br />

in pietre e ciottoli; da questo punto di vista,<br />

dunque, l’immagine era identica a quella delle<br />

altre tombe della collina, si differenziava però<br />

già dal grande lastrone di pietra bianca che si<br />

rinvenne reclinato e piegato tra le pietre della<br />

copertura, ma che in origine, probabilmente,<br />

doveva essere innalzato a formare una sorta di<br />

sema, ossia di segnacolo della tomba e che già<br />

- 10 -<br />

si poneva come elemento di distinzione rispetto<br />

alle altre tombe. Ma, soprattutto, il dato più<br />

curioso era rappresentato dal fatto che questa<br />

tomba era circondata, almeno per tutta la sua<br />

metà inferiore, da un recinto di pietre che le<br />

altre tombe non avevano. Vi era un primo recinto,<br />

quello probabilmente originale e più ampio,<br />

che venne poi ribadito da un ulteriore recinto,<br />

aggiunto forse quando il primo si era in parte<br />

interrato o era stato risistemato. Prima ancora di<br />

sapere che cosa ci fosse dentro la tomba, dunque,<br />

si osservava che questa sepoltura voleva<br />

presentarsi già dall’immagine esterna come<br />

diversa dalle altre tombe della collina.<br />

L’aspetto più importante di questa diversità<br />

è senz’altro rappresentata dal recinto, perché il<br />

recinto presso tutte le popolazioni antiche, e<br />

soprattutto quelle vicine a noi, ha uno spiccato<br />

valore di limite ed è capace di creare un<br />

limite, oltre il quale non si può andare, tra lo<br />

spazio interno e lo spazio esterno al recinto<br />

stesso. Il recinto, quindi, isola un elemento di


una certa importanza e rappresenta un limite<br />

che distingue ciò che è all’interno del limite<br />

stesso - che è sacro e di notevole importanza -<br />

da ciò che è all’esterno (si pensi ad esempio al<br />

solco che Romolo traccia quando deve disegnare<br />

il perimetro di Roma e si pensi al fatto<br />

che quando Remo, suo fratello, supera il solco,<br />

Romolo non esita ad ucciderlo, proprio perché<br />

era stato in qualche modo commesso un sacrilegio<br />

che soltanto la morte e il sacrificio potevano<br />

intervenire a sanare). Questi limiti dunque,<br />

anche se non fisicamente invalicabili,<br />

sono simbolici, e in quanto tali invalicabili<br />

sostanzialmente.<br />

Il messaggio che se ne può ricavare è dunque<br />

che all’interno di questo limite era posto qualcosa<br />

di importante e che il recinto costituiva un limite<br />

oltre il quale non si doveva andare.<br />

Sotto le pietre uscì il corredo particolarmente<br />

ricco dell’individuo che vi era deposto, che era<br />

sicuramente una donna per la presenza dei<br />

numerosi bracciali ad arco inflesso. Colpiva<br />

l’esuberanza del corredo non solo per la quantità<br />

dei vasi, ma anche per la qualità di alcuni di<br />

essi: vi erano infatti dei vasi di bronzo e i vasi di<br />

bronzo nell’antichità, in questo orizzonte cronologico,<br />

hanno anche un valore economicamente<br />

molto più rilevante rispetto ai vasi di ceramica.<br />

Soprattutto, questi oggetti erano degli status<br />

symbol, degli oggetti di prestigio. Molti di essi,<br />

come la phiale baccellata, sono quelli che si<br />

ritrovano costantemente in tutte le tombe dell’élite<br />

di Età orientalizzante, per esempio,<br />

dell’Etruria, nelle grandi tombe come la<br />

‘Bernardini’, la ‘Barberini’ o la ‘Regolini Galassi’.<br />

Ma al di là della preziosità di alcuni oggetti che<br />

uniformano il corredo di questa donna, che era<br />

databile agli inizi del VII secolo a.C., a quello dei<br />

principi di Età orientalizzante di Pontecagnano -<br />

per il confronto di due bacini di bronzo con prese<br />

lunate, che si trovano soltanto nelle tombe principesche<br />

di Pontecagnano -, al di là di ciò, questa<br />

tomba femminile conteneva degli elementi anomali,<br />

rispetto all’assetto della comunità, anche<br />

all’interno della fossa. Aveva ai piedi, ad esempio,<br />

la grande olla da derrate. Il suo corredo ceramico<br />

comprendeva vasi d’argilla e, oltre alla phiale baccellata<br />

e ai due bacini bronzei di cui abbiamo<br />

GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

- 11 -<br />

Fig. 6 - Bisaccia (AV). La ‘Principessa’ sulle colline.<br />

Fig. 7 - Bisaccia (AV), Museo Civico Castello Ducale. Phiale baccellata di<br />

bronzo dalla T. 66 - VII sec. a.C.<br />

appena parlato, un grande calderone anch’esso di<br />

bronzo.<br />

Tolto il corredo che più o meno rivestiva la<br />

defunta, uscì il vestito di quella che a questo<br />

punto possiamo chiamare ‘principessa’. La donna<br />

era interamente rivestita di bronzo. Tutte le donne<br />

sepolte sulla collina hanno in quest’epoca un corredo<br />

particolarmente abbondante nei bronzi – è<br />

tipico appunto delle comunità che hanno un riferimento<br />

con la sponda illirica dell’Adriatico - e<br />

tutte hanno oggetti di bronzo distribuiti dalla testa<br />

ai piedi; anche quando ve ne sono solo due o tre,<br />

infatti, si cerca di fare in modo che l’intero corpo<br />

sia toccato dal bronzo.<br />

La nostra principessa aveva migliaia di piccoli<br />

bottoncini di bronzo disseminati fino al bacino,<br />

che andavano disegnando una sorta di scialle;


Fig. 8 - Bisaccia (AV), La<br />

Principessa.<br />

bottoni più grandi erano<br />

verosimilmente applicati<br />

sulla gonna, che era poi<br />

ulteriormente appesantita<br />

da grandi dischi di bronzo,<br />

in qualche caso decorati.<br />

Aveva 51 bracciali ad<br />

arco inflesso, 25 al polso<br />

sinistro e 26 al polso<br />

destro: in questo caso il<br />

numero era singolare,<br />

poiché ci sono donne con<br />

più bracciali, ma questo<br />

numero è rimasto finora<br />

senza confronti. Va osservato,<br />

a questo punto, che<br />

le donne di Oliveto-<br />

Cairano avevano costantemente<br />

un bracciale in<br />

più al braccio destro e<br />

che i bracciali non sono<br />

mai in numero pari, sia<br />

quando sono in numero<br />

minore, sia fino al numero<br />

maggiore, che è<br />

appunto 51. Ad oggi non<br />

è possibile spiegare il<br />

significato di questo dato. Negli unici casi in cui i<br />

bracciali sono pari - perché, come sempre ci sono<br />

delle eccezioni -, si tratta o di bambini, oppure,<br />

come nella T. 4 di Cairano, della sepoltura di una<br />

donna che aveva un solo bracciale al polso sinistro<br />

e uno al polso destro, che per il resto era<br />

priva di corredo e che era una donna zoppa, con<br />

un difetto di articolazione agli arti inferiori. Una<br />

delle ipotesi che si potrebbero suggerire potrebbe<br />

essere che le donne che presentano un numero<br />

dispari di bracciali sono le donne adulte, maritate,<br />

quindi le donne che a pieno titolo hanno avuto il<br />

ruolo di elemento femminile della comunità.<br />

La nostra principessa aveva un numero notevole<br />

di spille di bronzo, tra cui alcune enormi,<br />

ricoperte di ambra e di avorio. Aveva poi anche le<br />

fusaiole, ma mentre le altre donne della cultura<br />

avevano spesso esemplari in impasto deposti ai<br />

piedi della fossa, la principessa le aveva in ambra<br />

e addirittura in metallo, quindi abbastanza improbabili<br />

come oggetti d’uso allusivi al duro lavoro<br />

SALTERNUM<br />

- 12 -<br />

quotidiano, ma da interpretare piuttosto come<br />

oggetti d’ornamento, appartenenti forse ad una<br />

lunga e complessa serie di elementi ornamentali<br />

che probabilmente adornavano i capelli o una<br />

treccia che correva lungo le spalle.<br />

Si trattava, dunque, di una donna che risultava<br />

trasgressiva rispetto all’elemento maschile<br />

della comunità e che rivendicava atteggiamenti<br />

impensabili per le altre donne; una donna che<br />

rivendicava in qualche modo anche la propria<br />

femminilità perché aveva poi tutti gli elementi<br />

che connotano le figure femminili, come la fibula<br />

‘ad occhiali’, la fusaiola e tutta una serie di<br />

elementi che caratterizzano anche le altre donne<br />

del gruppo.<br />

La principessa non era però l’unica ad avere<br />

una tomba dotata di recinto: di fianco a lei, infatti,<br />

c’era una tomba maschile che aveva anch’essa<br />

un accenno di recinto e che era dotata di un corredo<br />

particolarmente ricco, anche se poi non<br />

aveva al suo interno tutti quei simboli così significanti<br />

che aveva la principessa, ma questo perché<br />

si trattava di un uomo e l’uomo non doveva esibire<br />

nulla.<br />

Ai piedi di queste due tombe maggiori<br />

c’erano, disposte perpendicolarmente e quindi<br />

con un orientamento diverso da tutte le tombe<br />

del resto della collina, due tombe di giovani<br />

guerrieri, una ai piedi della principessa, una ai<br />

piedi dell’uomo che le era a fianco. Non avevano<br />

un corredo particolarmente esuberante: uno<br />

solo aveva un piccolo accenno di recinto, quindi<br />

uno di quegli elementi forti che avevano le<br />

tombe maggiori, ma che chiaramente gli derivava<br />

di riflesso dall’essere legato in qualche modo<br />

da un rapporto – non sappiamo quale, ma possiamo<br />

presumere un rapporto quasi di sudditanza<br />

o di complementarità e difesa - agli individui<br />

della parte superiore della collina.<br />

C’erano infine due tombe di bambino, con<br />

corredi dai bronzi molto belli, che, anche se non<br />

di particolare ricchezza, risultavano comunque<br />

sicuramente più ricche delle altre tombe di bambino<br />

coeve.<br />

Tutto questo insieme di sepolture, in una collina<br />

in cui le tombe sono disposte abbastanza<br />

fittamente una vicino all’altra, era distribuito<br />

invece su uno spazio che lasciava molta libertà.


Oltre tutto, ai piedi della principessa c’erano i<br />

resti di un vaso rituale che non si ritrova nei corredi<br />

funerari e che probabilmente è testimonianza,<br />

insieme alla reduplicazione del recinto, che<br />

la persona che vi era stata deposta, non solo era<br />

stata molto importante in vita, ma probabilmente<br />

aveva lasciato una memoria che era stata coltivata<br />

e in qualche modo anche acuita nel corso<br />

del tempo.<br />

E’ probabile, quindi, per arrivare alle conclusioni<br />

di questi segni, che siamo in presenza del<br />

gruppo di vertice della comunità che ha ormai<br />

abbandonato la prima Età del Ferro ed è entrata<br />

nell’Età orientalizzante e che rappresenta pertanto<br />

la comunità di seconda Età del Ferro di<br />

Oliveto-Cairano. Un gruppo di vertice sensibilmente<br />

staccato dal resto della comunità, dotato<br />

sicuramente di un potere incredibilmente forte<br />

rispetto ai propri simili e quindi, si può dire, di<br />

un potere di tipo più o meno assoluto.<br />

Riguardo alla ‘Principessa’ vi è, però, un’altra<br />

sorpresa. Al momento dello scavo, sotto il vestito<br />

si trovarono pochissime ossa e in un primo<br />

momento si pensò che il motivo andasse cercato<br />

nel bronzo stesso, che aveva corroso le ossa,<br />

o nell’acidità del terreno. In realtà, le analisi<br />

degli antropologi hanno dimostrato che si trattava<br />

dei resti di una bambina di pochi anni di età,<br />

sepolta con il vestito di una adulta.<br />

A questo punto, viene giustamente da chiedersi<br />

se non vacilli l’intero discorso. In realtà io<br />

penso che il discorso si rafforzi: proprio perché<br />

c’era un gruppo familiare dotato di un potere<br />

così forte, questa bimba è stata probabilmente<br />

deposta in questo modo in quanto predestinata:<br />

è stata cioè deposta secondo l’immagine che<br />

avrebbe assunto se avesse continuato a vivere<br />

all’interno del gruppo di vertice. E questo è<br />

ancora più significativo del nucleo sociale a cui<br />

la ‘principessina’ apparteneva.<br />

Adesso bisogna cercare di capire che cosa ha<br />

creato questa accelerazione improvvisa all’interno<br />

della comunità, questa ricchezza maggiore e questa<br />

frammentazione, disarticolazione e ricomposizione<br />

ad altri equilibri della compagine sociale.<br />

Sicuramente motivi interni, ma anche un elemento<br />

esterno che inevitabilmente deve avere<br />

accelerato il processo.<br />

GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

- 13 -<br />

A questo punto, se si va alla ricerca di spie<br />

che possano offrire una chiave di lettura, per me<br />

si tratta dei vasi dauni, i bei vasi di ceramica<br />

geometrica dipinta che cominciano a comparire<br />

improvvisamente a Bisaccia, e non negli altri<br />

centri della cultura di Oliveto-Cairano, nella<br />

seconda metà dell’VIII secolo a.C. e che compaiono,<br />

non in tutti i corredi, ma con una certa<br />

frequenza, soprattutto nei corredi femminili fino<br />

alla prima metà del VII secolo a.C.<br />

Che cosa sta succedendo in questo volgere di<br />

tempo? Poco prima della metà dell’VIII secolo a.C.<br />

è stato fondato nell’isola di Ischia l’emporio greco<br />

di Pithekoussai. Non è probabilmente la prima<br />

colonia greca d’Occidente - infatti gli antichi stessi<br />

a partire da Strabone parlano di Cuma come<br />

prima colonia greca d’Occidente -, ma è l’ultimo<br />

esito del processo precoloniale e delle frequentazioni<br />

delle coste campane da parte dei Greci risalenti<br />

ancora all’epoca micenea, quando i navigatori<br />

greci facevano rotta verso il litorale tirrenico<br />

per approvvigionarsi dei metalli e in particolare<br />

dei metalli dell’isola d’Elba.<br />

Pithekoussai è un momento di strutturazione<br />

forte di questo processo: si crea fisicamente e per<br />

la prima volta un avamposto stabile e residente a<br />

fare da testa di ponte proprio verso le coste tirreniche.<br />

Sappiamo, poi, che Pithekoussai era il polo<br />

occidentale di un sistema che il mondo euboico<br />

completava con l’emporio orientale di Al-Mina,<br />

alle foci dell’Oronte, e attraverso questi due poli si<br />

giocava la loro leadership sul Mediterraneo e<br />

quindi, più in generale, la leadership del commercio<br />

nel mondo allora conosciuto.<br />

Subito dopo, dopo la metà dell’VIII secolo<br />

a.C., viene fondata Cuma che è invece la prima<br />

vera e propria colonia greca d’Occidente, nel<br />

senso che è un insediamento nato per essere<br />

stabile, per sfruttare anche il territorio agricolo e<br />

non solo per istanze commerciali o di alto artigianato.<br />

Cuma nasce in base a un progetto politico<br />

di conquista per sempre, un progetto politico<br />

di ampio respiro.<br />

Noi sappiamo che questo porta al contatto con<br />

alcune delle popolazioni indigene: con alcuni, gli<br />

abitanti di Cuma per esempio, tale contatto fu<br />

sicuramente violento e gli indigeni scomparvero o<br />

furono massacrati, anche se le fonti lo adombrano


soltanto; le popolazioni dell’Etruria con cui i Greci<br />

entrarono in contatto fecero invece un notevole<br />

salto di qualità, anche perché erano depositarie<br />

dei metalli che i Greci andavano a cercare. Ma<br />

essendo i Greci finalmente qui e dovendo fare i<br />

conti per sempre con il retroterra indigeno, anche<br />

le nostre popolazioni indigene, quali più e quali<br />

meno, vennero in rapporto con i nuovi venuti. E<br />

reagiscono diversamente: quelli più saldamente<br />

strutturati, come i Protoetruschi di Pontecagnano,<br />

parlano con i Greci in condizioni quasi di pari<br />

dignità, mentre le popolazioni della ‘Cultura delle<br />

tombe a fossa’ in un modo un po’ più subalterno.<br />

Quello che prima del ritrovamento della tomba<br />

della ‘Principessa’ pensavamo è che questi fenomeni<br />

non avessero lasciato traccia sulle popolazioni<br />

indigene dell’interno, come quelle di<br />

Bisaccia, poiché nell’alta Irpinia non appariva<br />

materiale d’importazione greca.<br />

Invece, proprio la presenza di questi vasi dauni<br />

ha messo in sospetto. La Daunia nell’antichità, da<br />

Aristotele in poi fino alla tarda antichità, era famosa<br />

- soprattutto il centro di Canosa - per la qualità<br />

della sua lana. I centri greci, nel momento del loro<br />

primo insediamento, avevano da costruire tutto il<br />

loro assetto e approvvigionarsi di tutte le materie<br />

prime. E’ il momento in cui, in attesa di strutturarsi,<br />

i Greci hanno bisogno dagli indigeni di materie<br />

prime di qualunque tipo. Ed è probabile che la<br />

lana dauna in questa direzione giochi un ruolo<br />

fondamentale: è solo in questo momento infatti<br />

che noi troviamo i vasi dauni qui a Bisaccia, ma<br />

anche a Pithekoussai nell’isola di Ischia e poi in<br />

altri centri campani del retroterra più vicino, e vasi<br />

dauni giungono anche a Pontecagnano.<br />

Successivamente, invece, dopo il periodo collegato<br />

a questi avvenimenti, la presenza di tali oggetti<br />

scomparirà.<br />

A Pithekoussai i grandi archeologi Buchner e<br />

Ridgway scavarono negli anni Ottanta la tomba di<br />

una donna con un’associazione insolita di oggetti:<br />

si trattava dell’orecchino tipico di Oliveto-<br />

Cairano, della spilla di Oliveto-Cairano e di un<br />

tutulus, un copricapo come quello che aveva<br />

anche la principessa di Bisaccia. Questa era sicuramente<br />

la tomba di una donna della cultura di<br />

Oliveto-Cairano, probabilmente originaria di<br />

Bisaccia stessa, deposta a Pithekoussai.<br />

SALTERNUM<br />

- 14 -<br />

E anche a Pontecagnano c’è, ad esempio, il<br />

corredo di una donna che, sia dalla suppellettile<br />

ceramica sia dalla presenza dei bracciali ad arco<br />

inflesso e da altri elementi, rivela di essere una<br />

donna di Oliveto-Cairano, contraddistinta peraltro<br />

da un notevole status sociale.<br />

Tra gli oggetti di corredo che aveva questa<br />

donna ci sono due strani uncini che si sono trovati<br />

anche in altre tombe di donne indigene e che<br />

generalmente venivano interpretati come strumenti<br />

per cardare la lana anche se, per la verità,<br />

gli oggetti funzionali alla cardatura della lana non<br />

sono così, ma presentano più punte. Io ho cercato<br />

altri confronti, pensando sempre che fossero<br />

collegati all’attività della lana, e per ora ho trovato<br />

solo un confronto in un orizzonte lontano, con<br />

uno strumento del Kashmere che viene utilizzato<br />

vicino ad un telaio dove si fabbricano i famosi<br />

tappeti di quelle zone.<br />

Per farla breve, io credo che a un dato punto<br />

si avvertano queste esigenze di materie prime da<br />

parte del mondo greco, che non le richiedeva soltanto<br />

per sé, ma anche in vista di una redistribuzione<br />

sul mercato, visto anche il complesso sistema<br />

di commerci a cui abbiamo accennato poco fa.<br />

A quel punto, vengono coinvolte le popolazioni<br />

dei dintorni: uno degli elementi forti che interessano<br />

ai Greci per qualche motivo è la lana<br />

della Daunia. La Daunia e i centri dauni sono a<br />

breve distanza da Bisaccia e Bisaccia si trova sugli<br />

antichi tratturi di tradizione pastorale che già<br />

dall’Età preistorica funzionavano proprio in riferimento<br />

al fenomeno della transumanza.<br />

Le popolazioni di Oliveto-Cairano sono collocate,<br />

come abbiamo detto all’inizio, in punti strategici,<br />

controllano tutti i nodi viari fondamentali,<br />

non solo il sistema Ofanto-Sele, ma - Bisaccia in<br />

particolare - anche i corsi fluviali del Calaggio, del<br />

Carapelle e le varie direttrici che portano poi<br />

verso la costa campana e verso la Daunia.<br />

Penso che i Dauni fossero i produttori della<br />

lana e che, poiché erano legati anche per la<br />

comune origine illirica da una sorta di somiglianza<br />

culturale con le genti di Oliveto-Cairano, venga<br />

loro spontanea la collaborazione con queste<br />

popolazioni. Le genti di Oliveto-Cairano approfittano<br />

della loro collocazione strategica per fare poi<br />

da mediatori nei riguardi della costa, probabil


mente non direttamente con i Greci, ma con i centri<br />

indigeni forti, come Pontecagnano. Ma non è<br />

solo il commercio della lana che mettono in<br />

campo le genti di Oliveto-Cairano, bensì anche<br />

l’alta capacità tecnologica e artigianale delle proprie<br />

donne, di cui è un esempio la defunta che<br />

abbiamo vista sepolta a Pontecagnano con gli<br />

strumenti del mestiere. Addirittura, in un determinato<br />

momento, queste donne creano, come succede<br />

a Pontecagnano, dei veri e propri ateliers,<br />

delle piccole comunità di immigrati nei centri più<br />

vicini ai luoghi di mercato, dando così vita ad un<br />

sistema complesso.<br />

Questo, oltre probabilmente ad altri fatti, fa<br />

fare un salto di qualità enorme alla cultura di<br />

Oliveto-Cairano e alla sua gente. La figura femminile<br />

è quella che di fatto contribuisce, nella misura<br />

che abbiamo detto, a questi fenomeni; succede<br />

tuttavia, per apparente paradosso, che nel<br />

momento in cui la donna diventa ancora più<br />

importante per lo sviluppo del gruppo, improvvisamente<br />

è poi l’elemento maschile che detiene il<br />

controllo dei mezzi di produzione. Soltanto in una<br />

fase viene recuperata la grande dignità della<br />

donna, almeno nel livello del gruppo di vertice: si<br />

tratta della ‘principessa’, che in qualche modo<br />

raduna in sé, con i suoi elementi trasgressivi e<br />

tutto quanto abbiamo detto, l’immagine nuova e<br />

forte della donna all’interno della comunità.<br />

C’è poi un’altra tappa - ed è l’ultima - nella storia<br />

di Oliveto-Cairano.<br />

Dopo questo momento, databile entro la metà<br />

del VII secolo a.C., la vita di Oliveto-Cairano dura<br />

abbastanza simile per alcuni decenni. Dobbiamo<br />

arrivare al VI secolo a.C. per vedere un altro<br />

momento di rottura, questa volta non più a<br />

Bisaccia ma a Cairano.<br />

A Cairano era stata trovata in anni precedenti<br />

una necropoli simile a quella di Bisaccia e<br />

della stessa epoca; poi, improvvisamente, sulla<br />

collina del Calvario che dominava strategicamente<br />

tutta la zona, è uscito un nucleo abitato e<br />

una necropoli limitata, circondata da un ampio<br />

fossato. L’abitato si presenta come una sorta di<br />

grande palazzotto, non certo il villaggio di<br />

capanne della gente normale di quell’epoca. Le<br />

tombe della necropoli a volte hanno dimensioni<br />

notevoli - anche se ve ne sono alcune di dimen-<br />

GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

- 15 -<br />

sioni e di corredo normali -, sono incavate nel<br />

banco di roccia e hanno un aspetto quasi architettonico,<br />

assomigliando sempre più alle tombe<br />

a camera.<br />

Nelle tombe ricche, in questo orizzonte cronologico,<br />

finalmente compare anche il materiale<br />

importato dall’area etrusca e dall’area greca,<br />

come le coppe ioniche, il bucchero etrusco, i<br />

vasi di bronzo, le oinochoai di tipo rodio, e un<br />

elmo corinzio.<br />

L’abitato ha un grande magazzino con decine<br />

di olle da derrate, che si configura come un vero<br />

e proprio palazzotto dei signori locali dell’età<br />

arcaica e tardo-arcaica. I corredi delle sepolture<br />

sono poi particolarmente ricchi. Che cosa è successo?<br />

Siamo in un momento particolare: nel<br />

corso del VI secolo a.C. avviene lungo la costa<br />

quello scambio di leadership sulle rotte marittime<br />

tra Etruschi e Greci che segna gli eventi storici di<br />

quegli anni. Alla fine prevalgono i Greci, e gli<br />

Etruschi, che erano gli antichi re del mare, vengono<br />

definitivamente sconfitti. É il momento in<br />

cui nasce il centro di Fratte, perché proprio mentre<br />

Pontecagnano ha una vocazione costiera che<br />

segue il destino degli Etruschi, Fratte è rivolta<br />

verso la valle dell’Irno e verso l’interno, ed è il<br />

momento in cui i riferimenti per l’interno non<br />

sono più centri come Pontecagnano, ma altri<br />

come Capua. É il momento in cui rispetto all’elemento<br />

etrusco marittimo prevale l’elemento etrusco<br />

costiero, che però, ricacciato dalle coste,<br />

tende a spostare la sua produzione verso<br />

l’interno: non potendo infatti più farlo liberamente<br />

sul mare, se non a pena di gravi rischi, gli<br />

Etruschi cercano le vie dell’interno per portare<br />

gli oggetti con cui fare mercato dalla costa tirrenica<br />

a quella ionica e a quella adriatica.<br />

In questo frangente una via come quella<br />

dell’Ofanto-Sele - questa volta percorsa al contrario,<br />

non nel senso della lana che scendeva dalle<br />

colline, ma nel senso della merce che dai centri<br />

etruschi della costa andava verso l’interno - diventa<br />

fondamentale. Il controllo di quelle vie fa fare<br />

alla gente - forse in particolare più alla gente di<br />

Cairano e di Calitri, che si trovano più vicini<br />

all’Ofanto - un salto di qualità ulteriore. Il modello<br />

è probabilmente quello del prelievo in presenza<br />

di un passaggio obbligato, ma anche quello del


dono e di rapporti di reciprocità che si creano tra<br />

lo straniero che deve passare per quelle zone e gli<br />

indigeni. E’ probabile che all’interno delle comunità<br />

di Oliveto-Cairano i gruppi già emergenti<br />

traggano da questo movimento un elemento per<br />

fare un ulteriore salto di qualità. E a questo punto<br />

non solo distinguono la loro tomba all’interno<br />

delle altre, ma, come ad esempio a Cairano, addirittura<br />

spostano il loro abitato, non il villaggio di<br />

capanne dove stanno gli altri, sulla collina del<br />

Calvario. Anche la loro necropoli risulta separata<br />

da quella degli altri: è la necropoli ai piedi del<br />

palazzotto, circondata da un ampio fossato, in cui<br />

si trovano tombe ricche e meno ricche, il che fa<br />

pensare alla presenza, all’interno di un clan gentilizio,<br />

di signori e di loro clientes, secondo il<br />

modello che avremo poi in età romana.<br />

Concettualmente, anche se non si può pensare<br />

a una filiazione diretta di uno dall’altro, il fossato<br />

che circonda le tombe della collina del<br />

Calvario è l’estensione del recinto della<br />

‘Principessa’. Il fatto appunto che il recinto, nel<br />

caso della principessa e dell’uomo sepolto di fianco<br />

a lei, isolasse una sola tomba per volta ha un<br />

significato; il fatto che un intero nucleo sociale sia<br />

circondato da un fossato significa che gli equilibri<br />

sono mutati e che anche l’aspetto culturale cerca<br />

di ricalcare nell’immaginario funerario questa realtà<br />

diversa. È un po’ tutto il gruppo di vertice che<br />

si è ormai distaccato anche fisicamente dal resto<br />

della comunità e si colloca sulla collina.<br />

Questo quadro dura per tutta la seconda metà<br />

del VI secolo a.C. e per buona parte del V secolo<br />

a.C. Improvvisamente poi arriviamo alla fine della<br />

storia: proprio nel suo momento di massimo sviluppo<br />

la cultura di Oliveto-Cairano finisce e scompare<br />

in tutti i centri. Le necropoli non hanno<br />

seguito e non ci sono centri abitati contemporanei<br />

che si sviluppano.<br />

SALTERNUM<br />

- 16 -<br />

Cosa è successo? Dalla metà del V secolo a.C.<br />

in poi sono anni cruciali per le nostre zone e per<br />

la Campania in generale, perché comincia quel<br />

fenomeno che è stato chiamato di sannitizzazione,<br />

che riconduce tutta la regione a un forte grado di<br />

omogeneità politica, culturale e militare. Le nostre<br />

genti peraltro sono quelle sospette nelle fonti antiche<br />

per aver sostenuto l’elemento sannitico dell’interno:<br />

sappiamo infatti che la sannitizzazione è<br />

anche una presa del potere delle città greche da<br />

parte dell’elemento sannitico, ma è probabile -<br />

come ci testimoniano le fonti - che per fare questo<br />

abbiano chiamato a raccolta anche le tribù dell’interno<br />

con cui avevano rapporti di solidarietà.<br />

Due sono quindi le eventualità. Visto che<br />

sono mutati gli equilibri sulla costa e che tutto<br />

quel sistema di commerci di cui abbiamo parlato<br />

entra in crisi e cambia radicalmente, come<br />

l’antropologia moderna ci dimostra, è probabile<br />

che una cultura che ha fatto dei passi in avanti<br />

rispetto al proprio trend normale, se vengono<br />

improvvisamente a cadere i motivi che le hanno<br />

fatto fare questo salto di qualità, non solo torni<br />

ai livelli precedenti, ma addirittura, a volte, si<br />

estingua. Oppure, come io credo più probabile,<br />

finisce la cultura di Oliveto-Cairano, ma l’éthnos<br />

di Oliveto-Cairano si scioglie in questo momento<br />

più vasto di sannitizzazione della Campania.<br />

Noi non lo riconosciamo più perché è chiaro<br />

che esso assume, anche nella vita materiale, dei<br />

modelli e degli atteggiamenti consoni alla nuova<br />

realtà e alle nuove esigenze. Alla fine non sappiamo<br />

che fine hanno fatto le genti di Oliveto-<br />

Cairano, ma sappiamo che si è aperto un capitolo<br />

completamente diverso un po’ in tutta la<br />

Campania e molte pagine all’interno di esso<br />

vanno verso un nuovo destino.


GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

CURRICULUM DELL’ATTIVITÀ SCIENTIFICA E <strong>DI</strong>DATTICA<br />

di GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

- Il 21 giugno 1972 consegue, presso l’Università degli Studi di Milano, la laurea in Lettere e Filosofia con<br />

tesi in Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana (110 e lode).<br />

- Nell’anno accademico 1972/73 è ammesso alla Scuola Nazionale di Archeologia di Roma e frequenta il<br />

primo anno, superando le prove d’esame previste (Preistoria del Vicino e Medio Oriente, 30 e lode;<br />

Protostoria Europea, 30 e lode; Topografia di Roma e dell’Italia antica, 30 e lode; Paletnologia, 30 e lode).<br />

- Risulta vincitore di un assegno biennale di formazione scientifica e didattica presso la Facoltà di Lettere<br />

e Filosofia dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, a decorrere dall’1/11/1974 e rinnovato per i bienni<br />

successivi.<br />

- È immesso in ruolo come Ricercatore universitario confermato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia<br />

dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, con decorrenza giuridica dall’1/8/1980.<br />

- a partire dall’a.a. 1997/98 gli viene affidato l’insegnamento di Preistoria e Protostoria presso l’Università<br />

degli di Studi di Napoli – L’Orientale.<br />

ATTIVITA’ SCIENTIFICA<br />

A) Ricerca sul terreno<br />

Ha condotto numerose campagne di esplorazione archeologica su incarico della Soprintendenza<br />

Archeologica di Salerno, Avellino, Benevento e della Soprintendenza Archeologica della Basilicata.<br />

Nel 1970, 1971 e 1976 ha la direzione scientifica degli scavi nelle necropoli e nell’abitato di Cairano (AV).<br />

Sempre nell’alta valle dell’Ofanto dirige l’esplorazione dell’insediamento preistorico, della necropoli protostorica<br />

e dell’abitato d’età sannitica di Bisaccia (AV), (1975, 1976, 1989, 1990, 1991) e quello dell’insediamento<br />

arcaico di Calitri (AV), (1976).<br />

Nel corso degli anni ’70 effettua anche interventi di scavo e recupero nei centri della valle del Sarno<br />

(S. Marzano; S. Valentino Torio) e della piana del Sele (Eboli; Serra d’Arce; Oliveto Citra).<br />

Dal 1974 al 1979 dirige gli scavi effettuati nelle necropoli e nell’abitato del centro etrusco-campano di<br />

Pontecagnano (SA). Nello stesso sito, dal 1981 al 1987, ha la direzione scientifica delle annuali campagne<br />

di scavo condotte nell’area della città antica dalla cattedra di Etruscologia ed Antichità Italiche<br />

dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, su apposita concessione del Ministero per i Beni Culturali<br />

ed Ambientali.<br />

Nel 1989 conduce l’indagine archeologica nella necropoli d’età orientalizzante e nell’abitato di IV-III sec.<br />

a.C. di Noepoli (PZ).<br />

Dal 1992 al 1996 conduce numerose campagne di scavo nelle necropoli di Pontecagnano, riportando tra<br />

l’altro alla luce la necropoli d’età eneolitica riferibile alla facies del Gaudo.<br />

Nel 2001, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Salerno e la Soprintendenza Speciale<br />

al Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma, conduce una campagna di scavo a<br />

Paestum, all’interno del programma di ricerca sulle testimonianze pre-greche del territorio pestano, di cui<br />

è coordinatore.<br />

Nel 2002 ha la direzione scientifica dell’esplorazione archeologica preventiva del tratto di Pontecagnano<br />

in occasione dei lavori per l’ampliamento dell’Autostrada SA-RC, in base all’apposita convenzione stipulata<br />

tra la Soprintendenza Archeologica di Salerno, AV, BN e l’Università degli di Studi di Napoli –<br />

L’Orientale.<br />

- 17 -


SALTERNUM<br />

B) Convegni, Mostre, Musei<br />

Collabora alla promozione e organizzazione delle seguenti iniziative:<br />

- Seconda Mostra della Preistoria e Protostoria nel Salernitano, curata dalla Soprintendenza alle Antichità<br />

di Salerno e dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (Salerno-Pontecagnano, 1974).<br />

- Convegno Temi e problemi dell’istruzione storico-artistica preuniversitaria, promosso dalla Facoltà di<br />

Lettere e Filosofia dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Napoli, 1976).<br />

- Primo Convegno Internazionale sull’Ideologia Funeraria nel Mondo Antico a cura dell’Istituto<br />

Universitario Orientale di Napoli, del Centre des Recherches Comparées sur les Societés Anciennes e della<br />

Maison des Sciences de l’Homme di Parigi (Napoli-Ischia, 1977).<br />

- Colloquio Cronologia e diffusione della ceramica geometrica dipinta della Daunia, a cura del Seminario<br />

di Studi del Mondo Classico dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Napoli, 1978).<br />

- Riordino dei depositi, allestimento ed apertura al pubblico del Museo Nazionale dell’Agro Picentino<br />

(Pontecagnano 1978).<br />

- Convegno Internazionale Metodi e Tecniche dell’Archeologia, promosso dall’Istituto Universitario<br />

Orientale di Napoli (Napoli, 1979).<br />

- Tavola rotonda L’iscrizione di Amina (...) e le altre testimonianze epigrafiche dalla ricerca archeologica<br />

nell’abitato di Pontecagnano, a cura del Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo<br />

Antico dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (Pontecagnano, 1984).<br />

- Progetto per la fruizione del patrimonio archeologico di Pontecagnano (AA.VV., Parco archeologico di<br />

Pontecagnano - recupero di un ambiente urbano, Ercolano 1993).<br />

- Mostra L’Ultima Pietra, il Primo Metallo - sentieri della Preistoria, a cura della Soprintendenza<br />

Archeologica di Salerno, dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli e del Comune di Pontecagnano,<br />

Pontecagnano (SA), 1993).<br />

- Congresso L’Antica età del Bronzo, Viareggio 1995.<br />

- Mostra e Convegno La Pietà degli Dei - santuari e culto a Pontecagnano (Pontecagnano, 19 dicembre<br />

1996).<br />

- Convegno Criteri di nomenclatura e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del<br />

Neolitico/Eneolitico e del Bronzo/Ferro, Lido di Camaiore 1998.<br />

- Mostra e Convegno Prima di Pithecusa – i più antichi materiali greci del golfo di Salerno, Pontecagnano<br />

(SA), 1999.<br />

- Riordino dei materiali preistorici e protostorici del Museo Archeologico Nazionale della Valle del Sele<br />

di Eboli in occasione della sua apertura al pubblico.<br />

- Partecipazione al coordinamento scientifico dei lavori per l’allestimento del nuovo Museo Archeologico<br />

Nazionale di Pontecagnano (SA), in base all’apposita convenzione stipulata tra la Soprintendenza Archeologica<br />

di Salerno, AV, BN e l’Università degli di Studi di Napoli – L’Orientale.<br />

- Riordino dei materiali preistorici e protostorici del Museo Archeologico Nazionale di Paestum in vista<br />

del riallestimento dell’esposizione.<br />

É intervenuto con propri contributi a:<br />

- XV, XVI e XVIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1975, 1976, 1978).<br />

- XX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria in Basilicata (Melfi 1976).<br />

- Colloquio Cronologia e diffusione della ceramica geometrica della Daunia (Napoli 1978).<br />

- Tavola rotonda L’iscrizione di Amina (...) e le altre testimonianze epigrafiche dalla ricerca archeologica<br />

nell’abitato di Pontecagnano (Pontecagnano 1984).<br />

- IV Convegno di Acquasparta, L’emergenza del politico tra le popolazioni osco-lucane (Acquasparta 1986).<br />

- Congresso Internazionale L’età del Rame in Europa (Viareggio 1987).<br />

- 18 -


GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

- Congresso L’antica età del bronzo in Italia (Viareggio 1995).<br />

- Congresso Criteri di nomenclatura e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del<br />

Neolitico/Eneolitico e del Bronzo/Ferro (Lido di Camaiore, 26-29 marzo 1998).<br />

- Convegno di Studi in onore di L. Bernabò Brea, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Lipari 2000.<br />

- Convegno Depositi votivi e culti dell’Italia Antica – dall’età arcaica a quella tardo-repubblicana, Perugia<br />

2000.<br />

- Convegno Lo spazio del rito. Santuari e culti in Italia meridionale tra Indigeni e Greci, Matera 2002.<br />

- Incontro di Studi di Preistoria e Protostoria in Etruria Miti simboli decorazioni, Pitigliano (GR) -<br />

Valentano (VT), 2002.<br />

È stato responsabile scientifico di due programmi di ricerca CNR sui seguenti temi:<br />

- Sistemazione dei beni culturali ed ambientali: l’evidenza archeologica dei Campi Flegrei nella prospettiva<br />

d’uno sviluppo alternativo.<br />

- Culture indigene dell’Italia meridionale tra VIII e IV sec. a.C.<br />

C) Pubblicazioni<br />

Ha prodotto una monografia sulle popolazioni indigene della Campania interna in età arcaica, una<br />

sull’Età del Rame in Campania; contributi vari e schede negli Atti di diversi Convegni scientifici e contributi<br />

su Riviste specialistiche.<br />

Ha collaborato anche alla realizzazione di opere di divulgazione scientifica ed ha partecipato alla stesura<br />

di progetti finalizzati alla valorizzazione dei Beni Culturali e del territorio.<br />

ELENCO DELLE PUBBLICAZIONI<br />

Contributi scientifici:<br />

1- G. BAILO MODESTI, Eboli, necropoli eneolitica, in Seconda mostra della Preistoria e della Protostoria<br />

nel Salernitano, Salerno 1974, pp. 25-42.<br />

2- G. BAILO MODESTI, Cairano, in Seconda mostra della Preistoria e della Protostoria nel Salernitano,<br />

Salerno 1974, pp. 113-121.<br />

3- G. BAILO MODESTI, Bisaccia: campagna di scavo 1975, in Atti del XV Convegno di Studi sulla Magna<br />

Grecia, Taranto 1975, Napoli 1976, pp. 511-514.<br />

4- G. BAILO MODESTI, L’alta valle dell’Ofanto, in Atti del XVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia,<br />

Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 805-811.<br />

5- G. BAILO MODESTI, Aspetti della cultura di Oliveto-Cairano, in Atti della XX Riunione Scientifica<br />

dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria in Basilicata, 16-20 ottobre 1976, Firenze 1978, pp. 321-<br />

325.<br />

6- G. BAILO MODESTI et Alii, Pontecagnano, in Atti del XVIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia,<br />

Taranto 1976, Napoli 1977, pp. 298-301.<br />

7- G. BAILO MODESTI, Cairano nell’Età arcaica - l’abitato e la necropoli, in “AION ArchStAnt”,<br />

Quaderno 1, Napoli 1980.<br />

8- G. BAILO MODESTI, Il Periodo arcaico, in Storia del Vallo di Diano, I, Salerno 1981, pp. 85-122.<br />

9- G. BAILO MODESTI, Oliveto-Cairano: l’emergere di un potere politico, in G. GNOLI, J. P. VERNANT<br />

(edd.): La Mort, les Morts dans les sociétes anciennes, Cambridge 1982, pp. 241-256.<br />

10- G. BAILO MODESTI, Lo scavo nell’abitato antico di Pontecagnano e la coppa con l’iscrizione<br />

AMINA(...), in “AION ArchStAnt.”, VI, 1984, pp. 215-245.<br />

11- G. BAILO MODESTI, Cairano, in Bibliografia Topografica della Colonizzazione greca in Italia e nelle<br />

isole tirreniche, IV, 1985, pp. 244-246.<br />

- 19 -


SALTERNUM<br />

12- G. BAILO MODESTI, L’Eneolitico in Campania e la facies del Gaudo, in Atti del Congresso<br />

Internazionale L’età del Rame in Europa, Viareggio 15-18 ottobre 1987, in “Rassegna di Archeologia”, 7,<br />

1988, pp. 319-328.<br />

13- G. BAILO MODESTI, Oliveto Citra, in Bibliografia Topografica della Colonizzazione greca in Italia e<br />

nelle isole tirreniche, XII, 1993, pp. 457-460.<br />

14- G. BAILO MODESTI et Alii, L’ultima Pietra il primo Metallo - sentieri della Preistoria, Salerno 1993.<br />

15- G. BAILO MODESTI, A. SALERNO, Il Gaudo di Eboli, in “Origini”, XIX, 1995, pp. 327-393.<br />

16- G. BAILO MODESTI, M. CRISTOFANI, Pontecagnano, in Rivista di Epigrafia “Studi Etruschi”, Etrusca,<br />

LXII, 1996, n. 11.<br />

17- G. BAILO MODESTI, A. SALERNO, La Campania tra culture eneolitiche ed età del bronzo antico in<br />

D. COCCHI GENICK (ed.): L’antica età del bronzo in Italia, Firenze 1996, pp. 119-122.<br />

18- G. BAILO MODESTI, A. SALERNO, Pontecagnano II. 5. La necropoli eneolitica - L’età del Rame in<br />

Campania nei villaggi dei morti, in “AION ArchStAnt”, Quad. 11, Napoli 1998.<br />

19- G. BAILO MODESTI, Coppe a semicerchi penduli dalla necropoli di Pontecagnano, in M. BATS, B.<br />

d’AGOSTINO, Euboica - l’Eubea e la presenza euboica in Calcidica e in Occidente, Napoli 1998, pp. 369-375.<br />

20- G. BAILO MODESTI, A. SALERNO, P. TALAMO, L’Eneolitico in Campania: criteri per una definizione<br />

tipologica e terminologica del repertorio vascolare, in D. COCCHI GENIK (a cura di), Criteri di nomenclatura<br />

e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del Neolitico/Eneolitico e del<br />

Bronzo/Ferro, Atti del Congresso - Lido di Camaiore, 26-29 marzo 1998, Firenze 1999, pp. 207-215.<br />

21- G. BAILO MODESTI et Alii, Strutture morfologiche e funzionali delle classi vascolari del Bronzo Finale<br />

e della prima Età del Ferro in Italia meridionale, in D. COCCHI GENIK (a cura di), Criteri di nomenclatura<br />

e di terminologia inerente alla definizione delle forme vascolari del Neolitico/Eneolitico e del<br />

Bronzo/Ferro, Atti del Congresso - Lido di Camaiore, 26-29 marzo 1998, Firenze 1999, pp. 441- 467.<br />

22- G. BAILO MODESTI, P. GASTAL<strong>DI</strong> (a cura di), Prima di Pithecusa - i più antichi materiali greci del<br />

golfo di Salerno, Catalogo della Mostra - 29 aprile 1999, Pontecagnano Faiano, Museo Nazionale dell’Agro<br />

Picentino, Napoli 1999.<br />

23- G. BAILO MODESTI, Pontecagnano (Salerno), in E. PELLEGRINI, R. MACELLARI (a cura di), I lingotti<br />

con il segno del ramo secco – considerazioni su alcuni aspetti socio-economici nell’area etrusco-italica<br />

durante il periodo tardo arcaico, in “Biblioteca di Studi Etruschi”, 37, Pisa-Roma 2001, pp. 102-105.<br />

24- G. BAILO MODESTI, Rituali funerari eneolitici nell’Italia peninsulare: l’Italia meridionale in Atti del<br />

Convegno di Studi in onore di L. Bernabò Brea, Lipari 2000, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria,<br />

Firenze 2003, pp. 283-297.<br />

25- G. BAILO MODESTI et Alii, I santuari di Pontecagnano in Atti del Convegno Depositi votivi e culti<br />

dell’Italia Antica – dall’età arcaica a quella tardo-repubblicana, Perugia 1-4 giugno 2000.<br />

26- G. BAILO MODESTI et Alii, I santuari di Pontecagnano: paesaggio, azioni rituali e offerte in Atti del<br />

Convegno Lo spazio del rito. Santuari e culti in Italia meridionale tra indigeni e greci, Matera 27-29 giugno<br />

2002.<br />

27- G. BAILO MODESTI, P. AURINO, L’enigma della semplicità: schemi decorativi nella ceramica della<br />

cultura del Gaudo in Atti del Sesto Incontro di Studi di Preistoria e Protostoria in Etruria, Pitigliano (GR)<br />

13 settembre 2002, Valentano (VT) 14-15 settembre 2002, Milano 2004, pp. 67-81.<br />

28- G. BAILO MODESTI, Le tombe e la morte nell’Età del Rame in Campania, in F. MARTINI (a cura di):<br />

La cultura del morire nelle società preistoriche e protostoriche italiane, Firenze 2006, pp. 187-192.<br />

29- G. BAILO MODESTI 2006, Interpretare il Gaudo, Atti del Settimo Incontro di Studi di Preistorie e<br />

Protostoria in Etruria, Pitigliano (GR) 13 settembre 2004, Valentano (VT) 14-15 settembre 2004, Milano<br />

2006, pp. 447-453.<br />

30- G. BAILO MODESTI, Preistoria e Protostoria nel territorio di Paestum, 2008, in cds.<br />

- 20 -


GIANCARLO BAILO MODESTI<br />

31- G. BAILO MODESTI, A. GOBBI, Le genti delle dune e del mare, le tribù delle colline: egemonia dei<br />

centri etruschi e ristrutturazione del mondo indigeno in Campania nella seconda metà dell’VIII sec. a.C.,<br />

Atti del Nono Incontro di Studi di Preistoria e Protostoria in Etruria, Pitigliano (GR) 12 settembre 2008,<br />

Valentano (VT) 13-14 settembre 2008, in cds.<br />

32- G. BAILO MODESTI, P. AURINO, Pontecagnano (SA) - between the city and the sanctuary: the excavations<br />

along the motorway’s SA/RC extension, in “Newsletter Archeologia (CISA)”, 2009, pp. 6-21.<br />

Schede<br />

33- Schede nn. 5.9; 5.10; 5.11, in M. CRISTOFANI (a cura di), Civiltà degli Etruschi, Milano 1985, p. 131.<br />

34- Schede PC 23; PC 24-25, in G. COLONNA, L’Etruscità della Campania meridionale alla luce delle<br />

iscrizioni in AA.VV., La presenza etrusca nella Campania meridionale, Firenze 1994, pp. 376-377.<br />

35- Scheda n. 34, in M. CIPRIANI, F. LONGO (a cura di), I Greci in Occidente - Poseidonia e i Lucani,<br />

Napoli 1996, pp. 46-47.<br />

Attività di divulgazione scientifica<br />

36- G. BAILO MODESTI et Alii, La Preistoria, in Storia, Arte e Cultura della Campania, Milano 1976, pp.<br />

7-12.<br />

37- G. BAILO MODESTI et Alii, L’area tra il Sarno e il Sele, in Storia, Arte e Cultura della Campania,<br />

Milano 1976, pp. 18-22.<br />

38- G. BAILO MODESTI et Alii, Preistoria e Protostoria, in Storia della Campania, I, 1978, pp. 27-46.<br />

39- G. BAILO MODESTI et Alii, Museo Nazionale dell’Agro Picentino, Salerno 1978.<br />

40 - G. BAILO MODESTI, Le genti delle alte valli del Sele e dell’Ofanto, in Cultura materiale, Arti e<br />

Territorio in Campania, Salerno 1978, pp. 35-38.<br />

41- G. BAILO MODESTI et Alii, Pontecagnano: un centro etrusco-italico - storia ed immagini, Salerno<br />

1989.<br />

42- G. BAILO MODESTI, L’età del Ferro, in Storia Illustrata di Avellino e dell’Irpinia, I, Salerno 1996, pp.<br />

33-48.<br />

Saggi ed altri contributi<br />

43- G. BAILO MODESTI, B. d’AGOSTINO, Archeologia e Arte Classica nei manuali di Storia dell’Arte, in<br />

C. DE SETA (a cura di), Quale Storia dell’Arte, Napoli 1977, pp. 35-45.<br />

44- G. BAILO MODESTI et Alii, Parco archeologico di Pontecagnano - recupero di un ambiente urbano,<br />

Ercolano 1993.<br />

- 21 -


LUIGI PICCAR<strong>DI</strong><br />

Geomitologia ed origini geologiche del culto<br />

dell’Arcangelo Michele<br />

Relazione tenuta dall’Autore a Paestum - Venerdì 14 Novembre 2008<br />

nell’ambito del Convegno Geologia…Mito,<br />

organizzato dai Gruppi Archeologici d’Italia e dall’Associazione Italiana di Geologia e Turismo,<br />

tenutosi durante l’XI Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico.<br />

Nell’ambito della XI Borsa Mediterranea<br />

del Turismo Archeologico (Paestum,<br />

Novembre 2008), si è tenuto per il<br />

secondo anno un Convegno in collaborazione<br />

fra l’Associazione Italiana di Geologia e Turismo<br />

ed i Gruppi Archeologici d’Italia, per promuovere<br />

l’interazione fra geologia e archeologia. Tale<br />

interazione fornisce un valore aggiunto sia per<br />

un sito archeologico, dove spesso gli aspetti geologici<br />

sono poco rappresentati, che per un sito di<br />

interesse geologico, dove le implicazioni storiche<br />

consentono di ampliarne l’interesse ad un più<br />

vasto pubblico.<br />

Nel Convegno è stato affrontato in particolare<br />

lo studio delle relazioni fra geologia e mito, un<br />

campo estremamente interdisciplinare noto<br />

come ‘geomitologia’ 1 che può costituire un ulteriore<br />

contributo innovativo e rilevante, non solo<br />

per la possibilità di valorizzazione turistica e culturale<br />

del territorio, ma anche per le implicazioni<br />

ai fini della prevenzione dei rischi naturali 2 .<br />

Nello studio delle fonti storiche si arriva inevitabilmente<br />

a chiedersi dove sia il limite fra storia<br />

e leggenda. Per questo leggende e miti vengono<br />

setacciati alla ricerca di informazioni anche<br />

dai geologi, soprattutto per aree o per periodi<br />

con scarsità di notizie storiche in senso stretto.<br />

D’altro canto vi è anche un costante interesse<br />

per la compren sione del significato e delle origini<br />

dei miti, radici della nostra cultura. Finora lo<br />

studio della mitologia è rimasto appannaggio<br />

esclusivo di discipline umanistiche, quali storia,<br />

antropologia o psicologia, senz’altro le più atte<br />

a studiare il fenomeno nel suo complesso. Le<br />

fondamenta naturalistiche di gran parte della<br />

mitologia, fatto ben noto, sono state però considerate<br />

principalmente solo in termini generali,<br />

- 23 -<br />

senza tener conto del singolo caso specifico.<br />

Alle discipline umanistiche è finora mancato<br />

infatti un elemento fondamentale per poter<br />

interpretare il contenuto di quei particolari miti<br />

nei quali la base naturalistica ha un ruolo determinante,<br />

cioè la conoscenza scientifica del fenomeno<br />

naturale implicato.<br />

Quello che possiamo defïnire come lo studio<br />

geologico della mitologia è un campo emergente,<br />

di carattere fortemente interdisciplinare. E’<br />

infatti necessario avere una conoscenza sufficiente<br />

del quadro storico e culturale dell’epoca,<br />

del contesto religioso e della complessità del<br />

mito, dell’archeologia locale, del fenomeno<br />

naturale in questione e della geologia dei luoghi<br />

di ambientazione. In questi studi non si può disporre<br />

di tecniche standard che possano essere<br />

applicate indiscriminatamente. Ogni caso va<br />

valutato a sé, e in genere si ottengono risultati<br />

utili solo per alcuni casi specifici, dove le relazioni<br />

con la geologia sono chiaramente espresse<br />

e vi siano chiari ancoraggi con il territorio e<br />

con l’archeologia locale riscontrabili ancora<br />

oggi. E’ necessario risalire quanto più possibile<br />

alle fonti originarie, valutandole criticamente, ed<br />

integrando le informazioni contenute nelle<br />

diverse versioni del mito con i vari dati geologici.<br />

Infine, essendo impossibile la verifica sperimentale<br />

della fondatezza delle deduzioni fatte,<br />

si deve ricorrere ad evidenze di analisi comparativa.<br />

Mentre l’interpretazione di alcuni miti rimane<br />

ancora nel campo speculativo, in mancanza di<br />

una evidenza conclusiva, come nel caso di<br />

Atlantide o del Diluvio Universale, l’origine geologica<br />

di altri miti famosi è palese. Il titano<br />

Tifone, schiacciato da Zeus al di sotto del vulca-


no Etna, continua a scuotersi e a vomitare fiamme.<br />

La lingua di fuoco della indistruttibile<br />

Chimera, unico resto del famoso drago a tre<br />

teste, dardeggia ancora oggi sulle coste della<br />

Turchia, dove delle emissioni gassose naturali<br />

bruciano ininterrottamente da millenni. La natura<br />

eziologica di miti come questi è evidente, ma<br />

questi racconti contengono al loro interno anche<br />

memorie della evoluzione della religione locale:<br />

dall’essere orientata verso le potenze ctonie<br />

della Terra all’essere rivolta alle potenze celesti<br />

dell’Olimpo.<br />

La religione pre-olimpica era infatti dominata<br />

dalla figura della Dea Madre, la multiforme dea<br />

dai molti nomi la cui rappresentazione più sentita<br />

era quella di Gea, la Madre Terra. I culti allora<br />

non erano diretti verso l’alto, agli dei del<br />

cielo, ma verso il basso, verso la Terra, verso<br />

quegli inferi fecondi dai quali sgorgava incessantemente<br />

la vita e ai quali l’uomo ritornava<br />

dopo la morte. Non sorprende quindi che tanta<br />

attenzione sia stata data dalla mitologia primitiva<br />

proprio ai fenomeni geologici, e fra questi in<br />

particolare a quelli più impressionanti e più<br />

diret tamente in relazione col sottosuolo, come<br />

vulcani e terremoti. Tali fenomeni, che incutevano<br />

terrore e meraviglia al tempo stesso (ingredienti<br />

base della sacralità), interessavano proprio<br />

l’elemento che rappresentava il nucleo stesso<br />

di tutta l’esistenza umana: il grembo di Madre<br />

Terra, alfa e omega di ogni creatura.<br />

Alcuni miti che mantengono ancora oggi un<br />

forte aggancio con il territorio, essendo riferiti a<br />

determinati luoghi sacri ed a particolari eventi<br />

geologici, come ad esempio i terremoti, risultano<br />

più facilmente interpretabili nelle loro specifiche<br />

origini geologiche. Anche le relazioni più<br />

propriamente storiche sui terremoti non sono<br />

mai del tutto libere da un certo senso soprannaturale<br />

dell’evento. L’attribuzione di fenomeni<br />

naturali a cause soprannaturali a volte risulta<br />

essere stata operata anche coscientemente ed in<br />

maniera deliberata. Ad esempio, nella relazione<br />

sugli effetti del terremoto del 1456 l’Abate del<br />

Monastero di Santo Spirito, ubicato presso la<br />

faglia attiva di Sulmona, ammette esplicitamente<br />

la volontaria codificazione in termini religiosi di<br />

fenomeni da lui ritenuti naturali 3 . Descrivendo<br />

SALTERNUM<br />

- 24 -<br />

alcuni suoni insoliti uditi da due monaci «Di<br />

sera, circa la prima ora della notte di quel sabato<br />

che precedette il terremoto, mentre ogni cosa<br />

era immersa nel più profondo silenzio», l’Abate<br />

racconta infatti come «La mattina, avendo essi<br />

raccontato il miracolo pieni di stupore, non<br />

demmo importanza alla cosa. Ma dopo il terremoto,<br />

sebbene non ignorassi che spesso un<br />

vento sotterraneo, passando attraverso le fenditure<br />

della terra come attraverso una canna emette<br />

voci inarticolate ma melodiose, tuttavia non<br />

esitai a riferire pubblicamente che questo prodigio<br />

era stato compiuto dai santi angeli».<br />

E’ proprio dallo studio dei terremoti, in particolare<br />

dalla ricerca di testimonianze di passati<br />

eventi di fagliazione superficiale, che sono<br />

emersi risultati particolarmente interessanti per<br />

l’interpretazione geologica di alcuni miti famosi.<br />

E’ la convergenza di due principali concause<br />

che fa sì che solo oggi si possa giungere ad<br />

interpretazioni attendibili. In primo luogo il fatto<br />

che la nozione stessa di faglia sismica e di fagliazione<br />

superficiale sono concetti solo recentemente<br />

acquisiti dalla geologia. In secondo<br />

luogo, solo nell’ultimo secolo sono stati condotti<br />

diffusamente accurati scavi archeologici che<br />

hanno riportato alla luce i luoghi dell’ambientazione<br />

mitologica.<br />

In questo testo, l’esame di una serie di casi<br />

esemplari che nel loro insieme presentano una<br />

notevole coerenza 4 , mostra come le influenze<br />

geomitologiche non siano limitate a singole<br />

curiosità naturali locali, ma abbiano anche<br />

segnato profondamente la nostra cultura. Lo studio<br />

di questi casi ci permette di vedere come<br />

esista da sempre una sostanziale coincidenza fra<br />

alcuni luoghi sacri e geomiti. I principali santuari<br />

esaminati infatti spiccavano in primo luogo<br />

proprio per la singolarità dei fenomeni geologici<br />

che ospitavano, la cui interpretazione soprannaturale<br />

faceva sì che questi luoghi venissero<br />

protetti, preservati e visitati dai pellegrini, non<br />

molto diversamente dai nostri geositi o musei<br />

geologici moderni.<br />

Il caso più eclatante di questo tipo, dove è<br />

più direttamente espressa e comprensibile la<br />

relazione fra mito, geologia e archeologia, è<br />

quello del millenario Oracolo di Apollo a Delfi,


il più famoso santuario dell’antichità 5 . Delfi,<br />

ombelico del mondo, doveva la sua fama alla<br />

radicata convinzione dei contemporanei che il<br />

luogo ospitasse una voragine nella terra dalla<br />

quale esalavano vapori che invasavano la profetessa<br />

con lo spirito della divinità: della Terra<br />

all’inizio e di Apollo in seguito. Questa voragine<br />

era messa in stretta relazione con i terremoti. Era<br />

infatti assieme a Poseidone - lo scuotiterra - che<br />

Gea regnava sulla sua voragine oracolare. Ed è<br />

in seguito al terremoto scatenato dai sussulti<br />

agonizzanti del drago guardiano della voragine<br />

ed ucciso da Apollo, e dalle esalazioni provenienti<br />

dal cadavere dell’immane serpente, che si<br />

estendeva per miglia ai piedi del Monte Parnaso,<br />

lasciato ad imputridire nella voragine, che Delfi<br />

acquista il suo nome originario: Pito (pytho =<br />

putrefatto, in greco). Alcuni dicevano che il<br />

drago vivesse nella voragine stessa, altri che vi<br />

fosse lasciato da Apollo ad imputridire.<br />

Questo caso illustra anche gli effetti della<br />

scissione fra discipline umanistiche e scientifiche.<br />

L’esistenza di tale voragine è stata da sempre<br />

oggetto di dibattito fra filosofi, religiosi e<br />

storici, e la sua ricerca è stata uno degli obiettivi<br />

primari degli scavi archeologici iniziati nel<br />

1891. Poichè niente di simile fu allora riscontrato,<br />

la famosa voragine oracolare fu bollata<br />

come invenzione mitologica 6 . Dal punto di<br />

vista geologico lo stesso mito assume invece<br />

tutta un’altra prospettiva. Delfi si trova infatti<br />

sulla traccia della faglia attiva che borda le pendici<br />

del Monte Parnaso (2457 m) e la cui scarpata<br />

di faglia conserva chiare tracce di passati<br />

eventi di fagliazione superficiale. Leggende<br />

locali, tramandateci da Pausania (II sec. d.C.),<br />

descrivevano voragini che si sarebbero aperte<br />

nella terra e che avrebbero inghiottito il tempio<br />

dell’Oracolo poco avanti il VII secolo a.C., e<br />

rotture sismiche del terreno lungo la faglia di<br />

Delfi si sono verificate anche nei terremoti del<br />

373 a.C., del 551 d.C. e del 1891. La possibilità<br />

che qui un terremoto crei una voragine nella<br />

terra esalante gas solforosi (H 2 S, l’odore della<br />

putrefazione) e anidride carbonica (CO 2 ,<br />

l’ebbrezza della profetessa) appare quindi del<br />

tutto verosimile in questo scenario sismo-tettonico.<br />

La descrizione in questo luogo di una tale<br />

LUIGI PICCAR<strong>DI</strong><br />

- 25 -<br />

Fig. 1 - Solofra (AV). Statua dell’Arcangelo Michele.<br />

spaccatura sismica esalante gas potrebbe quindi<br />

risultare addirittura scontata e irrilevante, se<br />

non fosse che proprio su questo si è basato<br />

uno dei più importanti miti del passato, un santuario<br />

che ha direttamente influenzato la storia<br />

del Mediterraneo per almeno due millenni.<br />

Anche in Italia esiste un caso importante di<br />

una simile associazione fra un famoso luogo<br />

sacro, paragonabile a Delfi per importanza storica,<br />

e la locale faglia attiva: quello dell’apparizione<br />

dell’Arcangelo Michele sul Gargano, tradizionalmente<br />

datata alla fine del V sec. 7 . Il santuario<br />

di Monte Sant’Angelo, costruito sul luogo<br />

dell’apparizione, ha successivamente svolto un<br />

ruolo cruciale come propulsore della conversione<br />

dell’Europa pagana, divenendo anche la<br />

principale meta di pellegrinaggio nell’Alto<br />

Medioevo 8 . La figura altamente sincretica<br />

dell’Arcangelo guerriero, vincitore del dragone,<br />

ha infatti facilitato la conversione sia dei miti<br />

greco-romani che di quelli nordici longobardi.<br />

Le origini geologiche del santuario sono dichiarate<br />

nella leggenda, che descrive un forte terremoto<br />

associato all’apparizione, ed il successivo<br />

rinvenimento di particolari tracce nella roccia<br />

nella zona epicentrale. La descrizione degli<br />

effetti del terremoto trova chiari riscontri geologici<br />

nelle evidenze di eventi di fagliazione<br />

superficiale in prossimità del santuario lungo la<br />

traccia della faglia di Monte Sant’Angelo che fa<br />

parte del sistema di faglie attive di Mattinata. In


Fig. 2 - Polistena. Chiesa Matrice di Santa Marina Vergine, statua<br />

dell'Arcangelo.<br />

Fig. 3 - Roma,<br />

Chiesa dei<br />

Cappuccini.<br />

San Michele<br />

Arcangelo<br />

(Guido Reni,<br />

1635).<br />

base alle evidenze geologiche, si può stimare<br />

una magnitudo massima possibile di circa 6.7,<br />

superiore cioè alla 5.4 stimata per il terremoto di<br />

Mattinata del 1893, ritenuto la massima intensità<br />

macrosismica risentita in quell’area. Il terremoto<br />

SALTERNUM<br />

- 26 -<br />

riportato nella leggenda sembra quindi essere<br />

l’unica descrizione di un evento ben documentato<br />

dalle evidenze geologiche. Il catalogo sismico<br />

è d’altronde notoriamente incompleto per il<br />

periodo antecedente all’anno Mille. Il riconoscimento<br />

o meno del terremoto riportato nella leggenda<br />

come evento storico, benché con tutti i<br />

limiti connessi ad una informazione estratta<br />

dalla tradizione orale, viene quindi ad avere un<br />

peso decisivo per l’adeguata stima della pericolosità<br />

sismica dell’area, anche in considerazione<br />

del lungo periodo di quiescenza della faglia (><br />

1000 anni) rispetto a simili forti terremoti.<br />

E’ da notare che fu proprio la presenza tangibile<br />

delle tracce fisiche di quell’evento soprannaturale,<br />

cioè le ‘orme dell’Arcangelo’, ossia le<br />

spaccature nella roccia conseguenti al sisma, ad<br />

avvalorare la credibilità di questa leggenda, rendendo<br />

questo uno dei luoghi cardine della fede<br />

in epoca medievale. Pur decaduto come importanza,<br />

il santuario esiste da oltre 1500 anni e<br />

continua ad attrarre oltre un milione di visitatori<br />

all’anno.<br />

I due casi citati sopra risultano fortemente<br />

interconnessi, con un legame molto più diretto<br />

della semplice similarità iconografica fra le figure<br />

di Apollo e l’Arcangelo Michele. Entrambi i<br />

culti provengono infatti da una stessa area geografica<br />

in Asia Minore, la Frigia, ed in particolare<br />

dal bacino di Denizli. Qui, a pochi chilometri<br />

di distanza l’uno dall’altro, si trovano due siti<br />

archeologici e geomitologici di grande importanza<br />

9 . Uno è l’antica Hierapolis di Frigia, la città<br />

sacra ad Apollo, costruita sul plateau delle<br />

cascate bianche di travertino di Pamukkale, uno<br />

dei geositi più famosi del mondo. Poco a Sud di<br />

questo vi sono i resti della città di Colossae, dove<br />

sarebbe originato il culto di Michele, a seguito<br />

della sua prima e più famosa apparizione in era<br />

moderna.<br />

Hierapolis presenta la stessa associazione di<br />

elementi geologici e mitologici di Delfi, cioè la<br />

sovrapposizione di luoghi di culto della Dea<br />

madre e di Apollo in corrispondenza di una<br />

voragine nella terra esalante gas tossici, che corrisponde<br />

ad una faglia sismica. A Colossae invece<br />

il culto di Michele si sarebbe originato a<br />

seguito dei vistosi fenomeni geologici verificati-


si col terremoto che distrusse la città nel 60 d.C.<br />

Questi due siti di rilievo sono uniti fra loro dalla<br />

figura del testimone oculare dell’apparizione<br />

dell’Arcangelo Michele a Colossae: Archippo.<br />

Questi risulta essere stato un religioso proveniente<br />

da Hierapolis, apparentemente iniziato<br />

alla religione presso il tempio di Apollo, e poi<br />

successivamente formatosi a Colossae nella cultura<br />

altamente sincretica del locale culto degli<br />

angeli noto come ‘eresia Colossese’. San Paolo<br />

scrisse la sua lettera ai Colossesi proprio per<br />

combattere questa forma di adorazione degli<br />

angeli. Anche in questo caso, come per Monte<br />

Sant’Angelo, la leggenda dell’apparizione risulta<br />

fondata su precisi fenomeni geologici conseguenti<br />

al terremoto. Al tempo della proclamata<br />

apparizione la fede cristiana era arrivata a<br />

Colossae da meno di cinque anni. La leggenda<br />

mostra infatti più le caratteristiche del culto degli<br />

angeli tipico della ‘eresia Colossese’ che non<br />

della fede cristiana professata da San Paolo. Lo<br />

studio geo-mitologico consente quindi di approfondire<br />

l’esegesi dei testi sacri, non solo della<br />

leggenda paleocristiana, le cui fondamenta naturalistiche<br />

sono state poi riconosciute anche dalla<br />

Chiesa ufficiale 10 , ma anche della lettera di San<br />

Paolo ai Colossesi. La chiusura di questa lettera<br />

(Col. 4.17) contiene infatti il passaggio ritenuto<br />

il più oscuro ed enigmatico dei testi di San<br />

Paolo 11 e si riferisce proprio all’esortazione ad<br />

Archippo: «Dite ad Archippo: Considera il ministero<br />

che hai ricevuto nel Signore e vedi di compierlo<br />

bene».<br />

A Colossae, come a Delfi e Monte Sant’Angelo,<br />

è dunque possibile riconoscere ancora oggi gli<br />

elementi costitutivi della leggenda sia dal punto<br />

di vista archeologico che geologico. Lo studio dei<br />

casi qui esposti riguardanti Apollo e Michele ci<br />

mostra come alcuni dei più importanti culti del<br />

passato, che hanno influenzato la società per<br />

interi millenni, abbiano avuto le loro fondamenta<br />

proprio in eventi geologici, e proprio da questi<br />

traessero la convalidazione di base. La conoscenza<br />

di queste fondamenta geologiche rappresenta<br />

quindi un elemento di cruciale importanza non<br />

solo per la corretta comprensione dell’archeologia<br />

e della storia locale, ma anche dell’evoluzione<br />

culturale e religiosa della nostra società.<br />

LUIGI PICCAR<strong>DI</strong><br />

- 27 -<br />

A Delfi e a Monte Sant’Angelo erano infatti<br />

conservate le evidenze di fagliazione superficiale<br />

cosismica, non diversamente da quanto realizzato<br />

in tempi diversi in vari musei espressamente<br />

creati per preservare proprio parte della rottura<br />

sismica sulla faglia sismica (ad es. il Nojima<br />

Fault Museum in Giappone, a seguito del terremoto<br />

di Kobe del 1995). Hierapolis, col suo<br />

famoso Plutonium dove gli animali venivano<br />

sacrificati per soffocamento da CO2 introducendoli<br />

nella camera sotterranea dove invece i<br />

sacerdoti rimanevano illesi, non era diverso da<br />

quello che veniva mostrato nella famosa Grotta<br />

del Cane dei Campi Flegrei, una delle tappe<br />

obbligate del Grand Tour in Europa fra 1600 e<br />

1800. A Colossae, famosa già prima dell’apparizione<br />

per il lungo corso sotterraneo del fiume<br />

Lycus, era possibile osservare la voragine dovuta<br />

al crollo cosismico della volta del fiume sotterraneo<br />

per circa un chilometro, e in concomitanza<br />

del quale era stato osservato il manifestarsi<br />

di una enorme fiamma scaturita in corrispondenza<br />

della voragine «tamquam columna ignea<br />

pertingens a coelum in terra».<br />

Analoga situazione geo-mitologica si riscontra<br />

per un altro famoso mito, quello del mostro<br />

di Loch Ness. Quello che rende unico questo<br />

mito è da un lato il fatto che possiamo vivere<br />

l’esperienza diretta dell’ultimo dragone mitologico<br />

esistente (gli altri sono stati tutti ‘fatti fuori’ da<br />

schiere di eroi, santi o dei), dall’altro il fatto che<br />

si tratta di un mito paleocristiano che è stato<br />

riesumato solo di recente, negli anni Trenta. Il<br />

Loch Ness, luogo di indiscussa suggestione,<br />

sembrerebbe infatti dovere la sua fama al verificarsi<br />

di particolari fenomeni naturali legati alla<br />

presenza e all’attività della faglia della Great<br />

Glen sulla quale il lago è impostato 12 . Tali fenomeni,<br />

inusuali per gli osservatori comuni, ma del<br />

tutto comprensibili per un geologo, avrebbero<br />

generato e alimentato la credenza criptozoologica.<br />

Risalendo alla fonte originale della leggenda<br />

(Vita di S. Colomba, scritta da Adomnan, VII sec.<br />

d.C.), nella versione in latino troviamo che un<br />

forte tremore (ingenti fremitu) fu associato alla<br />

prima apparizione del mostro (VI sec. d.C.).<br />

Curiosamente anche qui, come a Monte<br />

Sant’Angelo, nessuna delle molte versioni


moderne del testo traduce correttamente il termine,<br />

riportandolo invece come ‘boato’ o ‘ruggito’.<br />

Inutile dire che l’interpretazione geologica<br />

non è stata molto apprezzata dai vari fans di<br />

Nessie.<br />

I santuari qui discussi sono collegati da uno<br />

stesso motivo di fondo, cioè il fatto che questi<br />

miti sono originati su punti particolari relazionati<br />

a faglie sismiche. Il posizionamento di luoghi<br />

sacri al di sopra delle tracce di faglie attive non<br />

sembra d’altronde essere un fenomeno isolato,<br />

NOTE<br />

1 a<br />

Sensu, VITALIANO 1973; PICCAR<strong>DI</strong> 2007.<br />

2<br />

PICCAR<strong>DI</strong> - MASSE 2007.<br />

3<br />

DELL’AQUILA 1456.<br />

4 Per una cui trattazione estesa si rimanda a precedenti<br />

lavori: PICCAR<strong>DI</strong> 1998; 2000a ; 2005: 2007b ; PICCAR<strong>DI</strong> et Alii<br />

2008.<br />

5 a<br />

PICCAR<strong>DI</strong> 2000 ; DE BOER et Alii 2001; ETIOPE et Alii 2006;<br />

PICCAR<strong>DI</strong> et Alii 2008.<br />

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terranean region. Abstracts CD-ROM, 31 International<br />

Geological Congress, Rio de Janeiro.<br />

SALTERNUM<br />

- 28 -<br />

limitato a pochi casi fortuiti. Esistono numerosi<br />

casi analoghi, e sembra quindi che questa sia<br />

stata in realtà una modalità di elezione dei luoghi<br />

sacri abbastanza diffusa nell’antichità 13 .<br />

Come abbiamo visto, il loro studio può fornire<br />

contributi utili sia per la conoscenza storica e<br />

culturale dei luoghi, in modo da permettere<br />

anche una loro miglior valorizzazione turistica,<br />

che per un’adeguata stima della pericolosità<br />

sismica locale.<br />

6 PARKE - WORMELL 1956.<br />

7 PICCAR<strong>DI</strong> 1998; 2005.<br />

8 CARLETTI - OTRANTO 1994.<br />

9 PICCAR<strong>DI</strong> 2007 b .<br />

10 CARAFFA 1967.<br />

11 DUNN 1996.<br />

12 PICCAR<strong>DI</strong> 2001 a .<br />

13 PICCAR<strong>DI</strong> 2000 b ; 2001 b .<br />

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apparition of Archangel Michael at Colossae (Aegean Turkey),<br />

in PICCAR<strong>DI</strong> L. - MASSE W. B. (eds.), 2007: Myth and Geology,<br />

Geological Society, London, Special Publications, 273, pp. 95-<br />

105.<br />

PICCAR<strong>DI</strong> L. - MASSE W. B. (eds.), 2007, Myth and Geology.<br />

Geological Society of London Special Publications, 273,<br />

Geological Society Publishing House, Bath, UK.<br />

PICCAR<strong>DI</strong> L. - MONTI C. - VASELLI O. - TASSI F. - GAKI-<br />

PAPANASTASSIOU K. - PAPANASTASSIOU D. 2008, Scent of a myth:<br />

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in “Journ. of the Geological Society”, London, 165, pp. 5-18.<br />

VITALIANO D. B. 1973, Legends of the Earth: Their Geologic<br />

Origins, Indiana University Press, Bloomington.


NICOLA FIERRO<br />

Di una iscrizione rinvenuta a Lacedonia (AV)<br />

L’epigrafe, depositata nel Museo<br />

Diocesano di S. Gerardo Maiella a<br />

Lacedonia (AV), era stata reimpiegata in<br />

epoca moderna come stipite di una finestra.<br />

Si tratta dell’iscrizione funeraria di un veterano<br />

che aveva militato nella terza coorte pretoria,<br />

databile alla fine del II o inizi del III sec. d. C.<br />

Il blocco di calcare, spezzato al centro in<br />

senso orizzontale, misura cm 47 x 47,5 x 14.<br />

L’altezza delle lettere è di cm 5. Il centro dello<br />

specchio epigrafico presenta un foro rettangolare,<br />

scalpellato in profondità, di cm 9 x 6, entro<br />

cui forse era inserito un angolo di una grossa<br />

cancellata. Questo foro, praticato nell’epigrafe,<br />

nel secondo rigo, ha tagliato a metà, in senso<br />

orizzontale, le ultime due lettere di VETERA[ni]<br />

e, nel terzo rigo, ha obliterato le ultime due lettere<br />

di MILITAV[it].<br />

Dopo un’accurata pulizia, negli ultimi tre<br />

righi dell’epigrafe sono apparse sigle di difficile<br />

lettura e interpretazione.<br />

Ecco l’iscrizione integrale:<br />

L(uci) DOMITI FORTV[nati]<br />

VETERA(ni) AVGG(ustorum) N[n(ostorum), qui]<br />

MILITAV[it] COH(orte) III [praetoria —- ]<br />

M(unicipium) AQVILONI(ae) E(x) A(uctoritate)<br />

PU(blica)<br />

DOMITI S(enatus) C(onsulto) AE(re) P(ublico)<br />

M(onumentum) D(edicavit))<br />

C(larissimo) V(iro)<br />

«Di Lucio Domizio Fortunato, veterano, il quale<br />

militò nella terza Coorte Pretoria dei nostri Augusti.<br />

Il Municipio di Aquilonia per il prestigio pubblico di<br />

Domizio, in seguito alla decisione del Senato, con<br />

denaro pubblico dedicò il monumento all’uomo<br />

illustrissimo».<br />

- 29 -<br />

Fig. 1 - Epigrafe di Lacedonia.<br />

L’epigrafe (fig. 1) inedita, ci presenta il veterano<br />

Lucio Domizio Fortunato come militante<br />

nella terza Coorte Pretoria dei due Augusti: era,<br />

in altri termini, guardia del corpo imperiale di<br />

due principi. Vediamo chi sono gli Augusti citati<br />

nell’epigrafe. Il veterano Lucio Domizio<br />

Fortunato, vissuto nell’età dei Severi (193-235<br />

d.C.), militò nella Terza Coorte Pretoria al servizio<br />

di Geta e Caracalla (211-217). Erano questi<br />

i due Augusti citati nell’epigrafe di<br />

Lacedonia. La data della morte di Lucio<br />

Domizio Fortunato, perciò, va collocata nel<br />

biennio 211-212, quando il potere era gestito<br />

ancora dai due Augusti, figli dell’imperatore<br />

Settimio Severo.<br />

Nella storia militare di Roma ciò che costituì<br />

un cambiamento radicale fu lo stanziamento<br />

permanente nella stessa città delle coorti pretorie,<br />

comandate da un prefetto agli ordini diretti<br />

dell’imperatore. Le coorti inizialmente erano<br />

nove, alle quali bisognava aggiungere altri seimila<br />

uomini, che avevano funzioni di polizia e<br />

altre sette coorti di mille uomini ciascuna, i<br />

vigiles.


Lo scopo palese degli imperatori romani era<br />

appunto questo: garantire la propria sicurezza<br />

personale e l’esercizio incontrastato del loro<br />

potere sovrano. La vita militare era di per sé un<br />

grave sacrificio. Per chi si voleva arruolare, l’età<br />

base era di venti anni. I pretoriani godevano di<br />

un trattamento economico privilegiato, che era<br />

quasi il doppio di quello dei legionari. Però<br />

l’impegno militare di servizio per i pretoriani era<br />

di sedici anni. La statura minima richiesta era di<br />

m 1,72. A questo bisognava aggiungere il divieto<br />

di matrimonio fino al congedo. La ferrea disciplina<br />

militare fu uno dei pilastri su cui si costruì<br />

e si conservò il più grande impero della storia.<br />

Nell’ambito di questa disciplina militare si svolse<br />

la carriera di Lucio Domizio Fortunato.<br />

Come è noto, Caracalla non volle dividere il<br />

potere con suo fratello: dopo averlo fatto assassinare,<br />

per calmare l’indignazione dei pretoriani<br />

aumentò la loro paga a 750 denari argentei.<br />

Lo storico Elio Spaziano ci informa che<br />

Settimio Severo (193-211), dopo aver lasciato la<br />

prima moglie, venuto a sapere che in Siria vi era<br />

una donna il cui oroscopo prediceva che sarebbe<br />

andata sposa ad un re, la fece cercare per<br />

averla in moglie. Infatti l’ottenne attraverso la<br />

mediazione di amici. Questa donna colta, Giulia<br />

Domna, intelligente e di tempra volitiva e ambiziosa,<br />

non cessò mai di consigliare e spronare il<br />

marito in tutte le sue imprese. Settimio Severo,<br />

da parte sua, non mancò mai di manifestarle una<br />

riconoscente venerazione. L’imperatore ebbe da<br />

lei due figli: Caracalla e Geta.<br />

Un’iscrizione ateniese attesta anche l’esistenza<br />

di un culto ufficiale dedicato a Giulia Domna.<br />

Sotto la sua intelligente guida, la corte imperiale<br />

di Roma pullulava di dotti giureconsulti, poeti ed<br />

eruditi. Nessuno avrebbe potuto mai immaginare<br />

che la corte del rude Severo sarebbe divenuta un<br />

centro di vita mondana e di attività intellettuale 1 .<br />

Grazie all’Imperatrice, la corte fu un centro di<br />

sincretismo culturale e religioso tra Occidente e<br />

Oriente. Infatti ella indusse il marito ad incrementare<br />

i culti orientali a Roma.<br />

In molte iscrizioni e monete è salutata con i<br />

titoli significativi di Augusta, Pia, Felix, mater<br />

patriae. Ufficialmente era denominata mater<br />

Augustorum, madre degli Augusti.<br />

SALTERNUM<br />

- 30 -<br />

Settimio Severo, finché fu in vita, condivise il<br />

potere con i suoi due figli. Il primogenito, Marco<br />

Aurelio Antonino Bassiano, introdusse in Roma<br />

la tunica gallica (caracalla), munita di cappuccio<br />

e maniche, che scendeva come una sottana<br />

fino alle caviglie. Da quest’indumento sarebbe<br />

poi derivato il suo soprannome: Caracalla.<br />

Settimio Severo nell’anno 198 d.C. indicò ufficialmente<br />

al Senato la successione dei due figli<br />

Caracalla e Geta. L’autoritario imperatore, secondo<br />

Erodiano, però era succube del suo prefetto<br />

Plauziano, che esercitava su di lui un’inspiegabile<br />

supremazia psicologica. La sfrontatezza e<br />

l’arroganza di Plauziano giungevano fino al<br />

punto di insultare e maltrattare Giulia Domna. Si<br />

attribuisce a lui anche l’uccisione di Emilio<br />

Saturnino, suo collega nella carica di prefetto, per<br />

assicurarsi l’incontrastato dominio nell’incarico.<br />

Avido, ambizioso, brutale, durante il periodo trascorso<br />

in Oriente al seguito dell’Imperatore egli<br />

avrebbe predato province e città. Rientrato in<br />

patria, assicura Dione Cassio, avrebbe fatto<br />

castrare ben cento cittadini romani di nobile<br />

nascita per poter assicurare la verginità della<br />

figlia Fulvia Plautilla andata in sposa a Caracalla.<br />

Questi, insofferente dell’autoritaria ingerenza del<br />

suocero negli affari del suo governo e della sua<br />

condotta privata, disgustato anche dal comportamento<br />

spudorato della moglie, dopo aver<br />

accusato il suocero Plauziano di un complotto ai<br />

danni di Settimio Severo, dette ordine a uno<br />

schiavo di ucciderlo. Era il 22 gennaio del 204<br />

d.C.. Plautilla, dopo la morte del padre, fu esiliata<br />

insieme al fratello nell’isola di Lipari, dove<br />

morì più tardi per ordine di Caracalla.<br />

Al posto di Plauziano fu nominato il giurista<br />

Papiniano, a cui furono attribuite vaste competenze<br />

giudiziarie. In questo periodo a Roma<br />

c’erano nove coorti pretorie: il veterano Lucio<br />

Domizio Fortunato militava nella terza Coorte,<br />

come attesta l’epigrafe.<br />

È certo, dicono gli storici contemporanei, che<br />

Caracalla attendeva con impazienza la morte del<br />

padre. Il destino non tardò ad assecondare la<br />

sua ambizione. Il vecchio e indomito Settimio<br />

Severo, mentre si accingeva in Bretagna ad<br />

intraprendere una nuova campagna contro i<br />

ribelli Calcedoni, morì improvvisamente il 4 feb-


aio del 211 d.C. Toccò al figlio Caracalla concludere<br />

le condizioni di pace e ricondurre<br />

l’esercito in Italia.<br />

La morte di Settimio Severo alimentò le ostilità,<br />

il crescente antagonismo e il sospetto tra i<br />

suoi due eredi. Il progetto di dividere l’Impero<br />

poteva forse rappresentare un tentativo di risolvere<br />

una situazione di crescente antagonismo, di<br />

continui litigi e intrighi. Davanti al Senato e alla<br />

madre Giulia Domna, Caracalla e Geta espongono<br />

i termini della ripartizione dell’impero: al<br />

primo sarebbero andate l’Europa e l’Africa, al<br />

secondo le province dell’Asia e dell’Egitto. Il<br />

Senato, sia pure a malincuore, diede il suo<br />

assenso, ma Giulia Domna contrastò con veemenza<br />

il piano divisorio.<br />

Il prestigio dell’imperatrice s’impose e la<br />

riunione si concluse con un nulla di fatto. Così<br />

si aggravò l’inconciliabilità dei due eredi di<br />

Settimio Severo. Intanto, scontri violenti accadevano<br />

continuamente fra i due fratelli: Caracalla<br />

era sempre più geloso del fratello Geta perchè<br />

questi godeva notevole stima e crescente popolarità<br />

sia nell’esercito sia nel mondo culturale del<br />

tempo.<br />

Dione Cassio attesta che Caracalla avrebbe<br />

voluto assassinare il fratello il giorno dei<br />

Saturnalia 2 , ma non era in grado di realizzare il<br />

suo piano: troppo manifesto era il suo malvagio<br />

proposito. Diversi soldati ed atleti sorvegliavano<br />

Geta giorno e notte. Caracalla allora indusse la<br />

madre ad invitarli da soli nel suo appartamento<br />

allo scopo di conciliarli. Appena Geta fu entrato,<br />

alcuni centurioni, già istruiti da Caracalla,<br />

irruppero nella stanza e l’uccisero. Eliminato il<br />

fratello, si affrettò a conquistarsi il favore dei soldati<br />

facendo spargere la voce di essere stato lui<br />

la vittima designata del complotto. Il tentativo di<br />

rivolta dei pretoriani e dei soldati della legione<br />

di Albano fu sedato con promesse di forti donativi.<br />

L’Historia Augusta narra i fatti che seguirono<br />

l’assassinio di Geta: notevole era<br />

l’indignazione e il malcontento dei soldati che<br />

avevano promesso fedeltà ai due principi.<br />

Anche Lucio Domizio Fortunato, in qualità di<br />

pretoriano, aveva promesso fedeltà agli imperatori.<br />

Egli forse fu spettatore diretto di questa<br />

vicenda.<br />

NICOLA FIERRO<br />

- 31 -<br />

Fig. 2 - Busto di Geta.<br />

Caracalla per calmare l’ira dei soldati mise in<br />

atto promesse di elargizione e una dura repressione<br />

dei sostenitori del fratello ucciso. Il giorno<br />

dopo il Senato non potè fare altro che prendere<br />

atto della morte di Geta e accettare la versione<br />

dei fatti fornita da Caracalla.<br />

Intanto, alleati e sostenitori veri e presunti di<br />

Geta vennero mandati a morte. La memoria di<br />

Geta venne cancellata e il nome fatto sparire da<br />

tutti monumenti, da luoghi pubblici e religiosi.<br />

Era la damnatio memoriae. Durante quella lotta<br />

fratricida era stato assassinato anche Papiniano,<br />

emerito giurista del tempo, amico di Geta. Un<br />

sicario, inviato da Caracalla, uccise il giurista con<br />

un colpo di scure, ma fu aspramente rimproverato<br />

dallo stesso perchè non aveva usato la<br />

spada.<br />

Ad Orvieto di recente è stato scoperto il<br />

fanum Voltumnae, il santuario federale degli<br />

Etruschi. In quest’area sacra sotto la rupe di<br />

Orvieto, durante gli scavi condotti<br />

dall’Università della stessa città, in località<br />

Campo della Fiera, è stato rinvenuto un busto di<br />

Geta (fig. 2). La ricostruzione storica di questo<br />

rinvenimento è stata fatta dall’archeologo<br />

Filippo Coarelli. Caracalla, com’è noto, aveva<br />

impartito l’ordine di distruggere tutte le immagini<br />

del fratello assassinato. Agli ordini arrivati da<br />

Roma non era consentito opporsi: il busto, ivi<br />

esistente, doveva essere distrutto.<br />

Ma nel fanum Voltumnae, qualcuno, fedele a<br />

Geta, forse un soldato o un sacerdote, seppellì il<br />

busto con molto rispetto senza danneggiarlo:<br />

collocò sotto la nuca una pietra a guisa di cuscino.<br />

Il busto di Geta, salvato da un suo oscuro<br />

partigiano, non fu spezzato o frantumato. Così è


stato trovato integro. Di questo importante rinvenimento<br />

ha dato notizia Giuseppe M. Della<br />

Fina, in un articolo, L’Imperatore cancellato,<br />

pubblicato su La Repubblica, sabato 30 agosto<br />

2008, p. 52 e nel n. 10 di Archeo, ottobre 2008,<br />

p. 12, Il fratello “scomodo” di Caracalla.<br />

L’importanza di questa inedita epigrafe, dedicata<br />

al militare Lucio Domizio Fortunato, sta nel<br />

fatto che per la prima volta nella storia si ha la<br />

testimonianza precisa che l’attuale Lacedonia in<br />

antico si chiamava Aquilonia, un centro sannitico;<br />

non è però confermato che si trattasse<br />

1 BESNIER M. 1901, L’Île tiberine dans l’antiquité, in “Rivista<br />

italiana di numismatica e scienze affini”, Paris, p. 193.<br />

SALTERNUM<br />

- 32 -<br />

dell’Aquilonia menzionata da Tito Livio (X, 38 e<br />

ss.), nota per la battaglia tra Sanniti e Romani<br />

del 293 a.C.<br />

Ad oggi autorevoli storici e studiosi dibattono<br />

sull’esistenza di due o più Aquilonia (G. Grasso)<br />

senza aver trovato la soluzione più convincente.<br />

Infatti vengono ubicate sul monte Vairano<br />

(Gianfranco De Benedittis) o sul monte S. Paolo<br />

nel comune di Colli al Volturno (Stefania<br />

Capini). Quello che risulta è che l’epigrafe inedita<br />

scoperta a Lacedonia menziona esplicitamente<br />

Aquilonia, sede di municipium in età<br />

romana.<br />

2 Festività romana in onore del dio Saturno che si svolgeva<br />

nel mese di dicembre.


L’asservimento d’uomini da parte d’altri<br />

uomini ha rappresentato per secoli e<br />

secoli, fin dagli albori dell’umanità, uno<br />

dei pilastri, forse il più importante, su cui si è<br />

fondata l’economia di tutte le società umane.<br />

Diciamo anche che, a mano a mano che le<br />

condizioni di vita progredivano, aumentando le<br />

esigenze della società e di conseguenza il<br />

fabbisogno di forza lavoro, il ricorso agli schiavi<br />

diveniva sempre più pressante. Osservando le<br />

comunità umane del passato non ne troviamo<br />

nessuna, almeno fra quelle di cui abbiamo una<br />

qualche conoscenza, in cui non ci fosse il lavoro<br />

degli schiavi ad assicurare condizioni di vita più<br />

agiata ai loro padroni.<br />

Sembra che una delle prime distinzioni fra gli<br />

uomini, se non proprio la prima, sia stata quella<br />

tra gli uomini liberi e i non liberi asserviti ai<br />

primi.<br />

Non sappiamo quando e come abbia avuto<br />

origine questa condizione umana. Certamente<br />

l’aggressività, caratteristica della nostra specie,<br />

unitamente allo spirito di affermazione e di<br />

sopraffazione, ha avuto una parte preponderante<br />

nello sviluppo e nel radicamento di questa<br />

realtà sociale, ma si può anche supporre<br />

che si sia affermata in modo quasi spontaneo,<br />

nel senso che, in seguito a scontri fra gruppi di<br />

uomini primitivi, coloro che erano stati fatti prigionieri<br />

si siano sottomessi di buon grado ai<br />

vincitori al fine di evitare più gravi conseguenze.<br />

Possiamo anche pensare che gli individui<br />

divenuti dominanti nel gruppo abbiano preteso<br />

sempre di più da quelli gerarchicamente inferiori<br />

fino a privarli della libertà. Sono tutte queste<br />

delle ipotesi che qui interessano relativamente.<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

La schiavitù a Roma<br />

- 33 -<br />

Dalle prime notizie di cui disponiamo in<br />

forma scritta l’istituto della condizione servile di<br />

non liberi appare già da molto tempo bene<br />

affermato e consolidato: ne parlano i testi ittiti,<br />

egizi, sumerici, le tavolette fittili rinvenute a Pilo<br />

e a Cnosso, l’esame delle quali ci mostra con<br />

evidenza che la produzione dei beni era affidata<br />

ad una manodopera servile; è ripetutamente<br />

citato nel codice di Hammurabi, nel quale si<br />

determinava il risarcimento dei danni personali<br />

calcolato in modo differente secondo che il danneggiato<br />

fosse uno schiavo o un uomo libero.<br />

Accettato comunemente, né nella Bibbia né nei<br />

Vangeli troviamo il minimo accenno di riprovazione<br />

per ciò che allora sembrava essere nella<br />

società una condizione assolutamente normale,<br />

ma si avverte al più solo una compassionevole<br />

considerazione. Nella Bibbia sono contenute<br />

alcune norme relative al differente trattamento<br />

degli schiavi di stirpe israelita e di quelli appartenenti<br />

ad altri popoli: «Quando alcuno dei tuoi<br />

fratelli, Ebreo o Ebrea, si sarà venduto a te, sèrvati<br />

sei anni, e al settimo anno mandalo in libertà<br />

d’appresso a te (Dt. 15,12)». Appare evidente<br />

che l’unica limitazione imposta dalla legge<br />

ebraica è quella temporale: dopo sei anni di<br />

sfruttamento lo schiavo deve essere affrancato.<br />

Ma la norma non sembra estendersi agli schiavi<br />

non ebrei. E’ anche possibile che sia limitata a<br />

coloro che si sono venduti spontaneamente e<br />

non agli schiavi acquisiti in altro modo.<br />

Essere ridotti in schiavitù è un accidente<br />

come un altro che può capitare a chiunque. Così<br />

come nascere schiavo è un evento sul quale<br />

l’uomo non ha alcun potere allo stesso modo<br />

d’essere biondo o bruno o nascere in una famiglia<br />

ricca o povera.


La parola ‘schiavo’ evoca in noi, uomini del<br />

XXI secolo, un senso di ripugnanza,<br />

d’oppressione e di sofferenza non facile a<br />

descriversi. In quel concetto si avverte la compressione<br />

della personalità umana al punto da<br />

essere esposti a qualsiasi arbitrio senza alcuna<br />

possibilità di difesa, di essere collocati in una<br />

condizione animalesca pur conservando, e questo<br />

è l’aspetto più tragico, emozioni, sentimenti<br />

e intelletto propri dell’uomo, perché essi prescindono<br />

dall’essere schiavi o padroni.<br />

Per quanto riguarda la posizione degli schiavi<br />

a Roma sono diffuse molte convinzioni inesatte<br />

nelle quali è opportuno tentare di mettere<br />

ordine. Osserviamo per prima cosa che<br />

l’unico paragone che sembra possibile è quello<br />

con la condizione degli schiavi in Grecia per<br />

una certa somiglianza culturale fra le due società<br />

in esame. Possiamo dire subito che le condizioni<br />

in Grecia dei doùloi (schiavi, in contrapposizione<br />

ai liberi eleùteroi) erano in media<br />

meno dure di quelle esistenti a Roma, anche<br />

perché erano diverse le due economie.<br />

L’agricoltura era fatta in appezzamenti di<br />

dimensioni piccole o medie, coltivate prevalentemente<br />

dagli stessi proprietari, magari con<br />

l’aiuto di qualche servo. Lì non esistevano<br />

grandi estensioni di terreni agricoli tali da<br />

richiedere torme di personale per coltivarle.<br />

Anche per questo motivo il numero degli schiavi<br />

di sesso maschile era in Grecia di gran lunga<br />

inferiore a quello delle schiave e ciò inoltre<br />

perché, soprattutto nel periodo miceneo e poi<br />

in quello arcaico, quando una città era conquistata,<br />

gli uomini sopravvissuti al combattimento<br />

erano uccisi, mentre le donne ed i bambini<br />

erano ridotti in schiavitù. Dall’esame delle tavolette<br />

fittili rinvenute a Pilo risulta un totale di<br />

popolazione servile di circa settecentocinquanta<br />

donne oltre ad un numero equivalente di<br />

bambini di entrambi i sessi, ma non vi appare<br />

nessun uomo adulto. Una situazione particolare<br />

era quella degli Iloti a Sparta, schiavi non<br />

tanto di singoli padroni quanto di una classe<br />

cittadina superiore, quella degli Spartiati, che li<br />

aveva confinati in una condizione d’inferiorità<br />

sociale mantenendoli in uno stato continuo di<br />

terrore.<br />

SALTERNUM<br />

- 34 -<br />

Nell’età classica anche in Grecia il fabbisogno<br />

di schiavi aumenta notevolmente ma non raggiunge,<br />

né mai raggiungerà, neanche lontanamente,<br />

quello che si riscontrerà a Roma. E il<br />

numero ridotto è in qualche modo una garanzia<br />

di migliore trattamento. Sia in Grecia sia a Roma<br />

le condizioni peggiori per uno schiavo erano,<br />

come vedremo, quelle di coloro che erano<br />

impiegati nelle miniere.<br />

Un aspetto degno di riflessione è quello che<br />

riguarda gli schiavi statali (demòsioi) che in<br />

Grecia assolvevano compiti di un certo rilievo,<br />

erano utilizzati come uscieri ma anche come<br />

funzionari della pólis di grado non molto elevato,<br />

e talvolta potevano essere addirittura armati<br />

per svolgere compiti di polizia. Qualche cosa di<br />

simile accadeva anche a Roma e nelle altre città<br />

dell’Italia e dell’Impero, ove esisteva una categoria<br />

di servi publici populi Romani che erano adibiti<br />

a varie funzioni, da quelle più modeste<br />

d’inservienti addetti alle terme o alla manutenzione<br />

delle latrine pubbliche a quelle più dignitose<br />

d’assistenza ai magistrati; in questo caso si<br />

trattava ovviamente di persone di cultura piuttosto<br />

elevata o con adeguate cognizioni tecniche<br />

che spesso ricevevano una retribuzione più che<br />

apprezzabile.<br />

Diversa era anche la legislazione fondamentale<br />

dello Stato che a Roma conferiva al pater<br />

familias dei poteri particolarmente estesi: egli<br />

aveva la potestà di vita e di morte sui suoi familiares,<br />

di vendere i figli o di adottare uno schiavo,<br />

il quale diventava per conseguenza un uomo<br />

libero a tutti gli effetti. Questo era sancito dalle<br />

leggi note come delle ‘XII Tavole’, risalenti alla<br />

metà del V sec. a.C.<br />

Nel corso degli anni la posizione dello schiavo<br />

a Roma era divenuta molto più varia ed articolata<br />

di quanto non lo fosse altrove; inoltre qui<br />

egli poteva nutrire la speranza di ottenere la<br />

libertà con maggiore facilità di quanto non la<br />

potesse ragionevolmente nutrire quello greco.<br />

La condizione di ‘liberto’ era molto frequente e<br />

chi la raggiungeva si veniva a trovare in uno<br />

stato non molto dissimile da quello degli altri<br />

uomini liberi, conservando semplicemente alcuni<br />

doveri d’ossequio e l’obbligo di alcune prestazioni<br />

(operae) da fornire all’ex padrone - le


caratteristiche e l’entità delle operae erano stabilite<br />

di volta in volta nell’atto d’affrancazione -;<br />

non solo, ma i figli dei liberti divenivano cittadini<br />

romani senza alcuna limitazione, quasi che il<br />

periodo di vita servile e poi quello nella condizione<br />

di liberto del genitore siano stati una specie<br />

di apprendistato familiare alla cittadinanza<br />

romana; perciò anche il figlio dell’ex schiavo<br />

trace o siriaco o altro ancora poteva affermare<br />

con orgoglio: «civis romanus sum». Ne abbiamo<br />

conferma a Pompei ove un’iscrizione (titulus)<br />

sull’architrave all’ingresso del tempio di Iside ci<br />

informa che «N. Popidius N. f. Celsinus Aedem<br />

Isidis terrae motu conlapsam a fundamento<br />

p(ecunia) s(ua) restituit. Hunc decuriones ob<br />

liberalitatem, cum esset annorum sexs, ordini<br />

suo gratis adlegerunt» («Numerio Popidio<br />

Celsino, figlio di Numerio, ricostruì interamente,<br />

a sue spese, il tempio di Iside abbattuto dal terremoto.<br />

Per questa sua munificenza i decurioni,<br />

benché avesse solo sei anni, lo accolsero gratis<br />

nel loro ordine»). Il padre di questo piccolo<br />

benefattore si chiamava Numerio Popidio<br />

Ampliato, era un liberto, già schiavo della gens<br />

Popidia, eminente famiglia pompeiana, che,<br />

come tale, non poteva aspirare a cariche pubbliche,<br />

ma che per quelle preparava la strada al<br />

figlio. Quest’iscrizione si riferisce ad un tempo<br />

successivo al terremoto che devastò la città nell’anno<br />

63 d.C.: non sappiamo di quanto successivo,<br />

se di mesi o di anni, né se il piccolo<br />

Popidio Celsino abbia fatto in tempo ad occupare<br />

effettivamente la sua carica di decurione<br />

prima dell’eruzione del 79 che distrusse definitivamente<br />

Pompei.<br />

Un certo legame tra l’ex schiavo ed il padrone<br />

permaneva nel fatto che colui che era affrancato<br />

da un cittadino romano accedeva automaticamente<br />

alla cittadinanza, mentre quello che<br />

fosse stato affrancato da un peregrinus, cioè da<br />

un suddito libero, che però non godeva della<br />

cittadinanza, si veniva a trovare nella stessa<br />

posizione dell’ex padrone e diveniva peregrinus<br />

anche lui. Forse anche in questa norma<br />

s’intravede quell’idea di ‘apprendistato’ ipotizzata<br />

in precedenza.<br />

Viceversa, la condizione dello schiavo<br />

liberato in Grecia era più articolata e soprattutto<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 35 -<br />

più dura: basta rileggere le Leggi di Platone, ove<br />

si prospetta l’idea che si possano rimettere le<br />

catene al liberto che sia venuto meno a<br />

qualcuno dei suoi doveri nei confronti dell’ex<br />

padrone, ma anche che per contrarre<br />

matrimonio dovrà fare quanto quello stabilirà<br />

per lui e perfino che non gli sarà lecito<br />

arricchirsi più di chi l’ha liberato; in tal caso la<br />

differenza sarebbe andata a vantaggio di colui<br />

che era stato, ed in parte continuava ad essere, il<br />

suo padrone. Per di più il liberto non potrà<br />

rimanere nella pólis per più di venti anni. La<br />

conclusione di quelle norme è che se qualcuno<br />

fosse risultato colpevole della violazione di una<br />

di esse doveva essere condannato a morte ed i<br />

suoi beni confiscati a vantaggio dell’erario.<br />

Normalmente il liberto greco aveva ben poche<br />

possibilità di ottenere la cittadinanza, alcune<br />

eccezioni come quelle dei banchieri Formione e<br />

Pasione debbono considerarsi come assolute<br />

rarità. Sembra che, a differenza di quanto<br />

accadeva a Roma, la preoccupazione di evitare<br />

ogni commistione della cittadinanza con<br />

elementi estranei ad essa sia stata prevalente su<br />

ogni altra considerazione. Una legge della<br />

seconda metà del V secolo a.C., forse voluta da<br />

Pericle, stabiliva che potevano essere cittadini<br />

d’Atene solo coloro che fossero stati figli di<br />

genitori entrambi ateniesi. Per questo motivo gli<br />

schiavi, normalmente non ateniesi, non<br />

avrebbero mai potuto aspirare alla cittadinanza.<br />

A Roma la cerimonia di affrancamento (manumissio)<br />

di uno schiavo avveniva sostanzialmente<br />

in due modi: la manumissio vindicta (lett. con la<br />

verga) era la forma solenne: nel corso del rito il<br />

padrone o altra persona da lui designata toccava<br />

con una verga l’uomo da affrancare, proclamandolo<br />

libero; la manumissio per testamentum o per<br />

litteram avveniva allorché la liberazione dello<br />

schiavo faceva parte delle disposizioni testamentarie<br />

lasciate dal padrone o in conseguenza di una<br />

lettera con cui questi manifestava chiaramente la<br />

volontà di affrancare il servo. A partire dal III sec.<br />

d.C. (ma forse già da prima), si trova attestata una<br />

terza pratica, la manumissio per mensam, consistente<br />

nell’invito che il padrone rivolgeva allo<br />

schiavo a prendere posto alla sua mensa rendendolo<br />

perciò suo pari 1 .


Fig. 1 - Osca (Spagna). Iscrizione col decreto di Emilio Paolo a favore<br />

degli schiavi della città.<br />

Quale fosse l’atteggiamento mentale dei<br />

Romani nei confronti dello schiavo affrancato lo<br />

si può arguire da un papiro della collezione di<br />

Ossirinco (Poxy IV, 706) risalente al 115 d.C. Vi<br />

si parla di un contenzioso fra un certo<br />

Heracleides ed un suo ex schiavo Damarion.<br />

Dai nomi si arguisce che doveva trattarsi di elementi<br />

entrambi di origine greca. Il primo accusava<br />

il secondo di avergli negato alcune prestazioni.<br />

Il convenuto non negava il fatto, ma asseriva<br />

che non era tenuto a quanto gli era richiesto<br />

in virtù del documento scritto di affrancazione,<br />

che esibiva al prefetto dell’Egitto M. Rutilius<br />

Lupus incaricato di giudicare il caso. Questi non<br />

tenne conto alcuno della prova, pure così evidente,<br />

apparendogli forse assurdo che un liberto<br />

non avesse più alcun dovere nei confronti<br />

dell’ex padrone, espresse quindi un giudizio di<br />

condanna 2 .<br />

Va anche osservato che molto difficilmente<br />

tanto in Grecia, quanto a Roma gli schiavi erano<br />

della stessa nazionalità dei padroni. Ad Atene<br />

vigeva un’antica legge - risalente a Solone,<br />

arconte in un anno compreso fra il 594 ed il 591<br />

secondo le notizie forniteci da Diogene Laerzio<br />

e da Aristotele – in forza della quale era vietato<br />

ridurre qualcuno in schiavitù per debiti 3 . A<br />

Roma, con la sola eccezione dei condannati per<br />

alcuni reati e dei debitori insolventi, la maggior<br />

parte della popolazione servile proveniva da territori<br />

considerati barbari o comunque non romani.<br />

Tuttavia anche qui con la lex Poetelia Papiria<br />

del 326 a.C. fu di fatto abolita la possibilità di<br />

ridurre in schiavitù il debitore insolvente. Fu una<br />

conquista civile di notevole importanza.<br />

SALTERNUM<br />

- 36 -<br />

Noteremo anche che Platone (La Repubblica)<br />

ed Aristotele (La Politica) erano giunti a teorizzare<br />

che alcune popolazioni erano naturalmente<br />

destinate alla schiavitù. Per Aristotele era tra<br />

l’altro la robustezza fisica dello schiavo a destinarlo<br />

‘geneticamente’ al lavoro servile.<br />

La quasi totalità della forza lavoro a Roma era<br />

costituita da manodopera servile. Questo almeno<br />

a partire dalla fine del III sec. a.C. quando<br />

l’espansione politica della città, prima nella<br />

penisola e poi nel bacino del Mediterraneo,<br />

aveva modificato profondamente l’assetto economico<br />

dell’agricoltura. I piccoli e medi proprietari<br />

furono sottratti al lavoro dei campi e costretti<br />

in armi per periodi sempre più lunghi. La conseguenza<br />

fu il passaggio di mano delle terre<br />

agricole dai coltivatori diretti, che avevano<br />

dovuto abbandonare i poderi, al grande latifondo<br />

dei patrizi, accresciuto spesso anche dall’occupazione<br />

di ager publicus (oggi diremmo di<br />

terreni demaniali) tenuto a coltura o a pascolo<br />

con l’impiego sempre più esteso di schiavi che<br />

affluivano sui mercati in quantità crescenti e<br />

conseguentemente a prezzi più accessibili, come<br />

diretto ‘prodotto’ delle guerre.<br />

A Roma, ma ancora di più in Grecia, era diffusa<br />

l’attività di alcuni imprenditori che possedevano<br />

un certo numero di schiavi da dare in affitto<br />

a chi ne avesse bisogno per periodi di tempo<br />

limitati o per lavori occasionali o stagionali e<br />

trarne quindi un reddito. Sappiamo da<br />

Senofonte (Sulle entrate 4,14) che Nicia, il generale<br />

e politico ateniese morto nel 413 a.C. a<br />

Siracusa durante la disastrosa spedizione avvenuta<br />

nel corso della guerra detta ‘del<br />

Peloponneso’, aveva dato in affitto mille schiavi,<br />

al prezzo di un obolo giornaliero ciascuno, ad<br />

un proprietario di miniere d’argento, con<br />

l’impegno da parte dell’affittuario di rimpiazzare<br />

a sue spese quelli che fossero venuti a mancare.<br />

Una clausola che è di per sé rivelatrice delle<br />

condizioni lavorative cui erano sottoposti quegli<br />

infelici.<br />

Queste considerazioni ci portano ad un primo<br />

interrogativo: come si diventava schiavi. I prigionieri<br />

di guerra rappresentavano certamente un<br />

numero molto rilevante del totale, ma c’erano<br />

anche altri modi. Già nei poemi omerici si parla


di servi come Euriclea, la nutrice di Odysseo, o<br />

Eumeo, il porcaro, entrambi di origine ragguardevole,<br />

rapiti dai pirati quando erano bambini e<br />

venduti come schiavi. Le scorrerie piratesche<br />

erano dunque, per importanza, il secondo canale<br />

di approvvigionamento. A queste due fonti si<br />

debbono aggiungere, in quantità non sappiamo<br />

quanto minore, coloro che erano ridotti in schiavitù<br />

per altre cause, come i debitori insolventi, i<br />

figli venduti, abbandonati o non riconosciuti dai<br />

padri, i condannati a pene che comportavano la<br />

perdita della libertà personale; in qualche caso<br />

accadeva che degli agricoltori che, per debiti,<br />

avevano perduto il podere, di propria iniziativa<br />

vendessero se stessi come schiavi, magari per coltivare<br />

lo stesso terreno che era prima di loro proprietà.<br />

Perdevano la libertà ma si assicuravano la<br />

sopravvivenza. Ma c’erano anche coloro che<br />

nascevano schiavi perché figli di genitori schiavi<br />

essi stessi, non importava se entrambi o solo uno.<br />

A mano a mano che si avanzava nel tempo,<br />

si affinavano i gusti e quelli che una volta erano<br />

considerati dei lussi divenivano esigenze di normale<br />

amministrazione e di conseguenza cresceva<br />

la richiesta di personale servile specializzato:<br />

se prima bastava disporre di braccia da far lavorare,<br />

ora la domanda diventava più differenziata<br />

e i prezzi di mercato aumentavano soprattutto<br />

quando si trattava di elementi con doti particolari,<br />

destinati a servire da coppieri, cuochi,<br />

camerieri, portatori di lettighe (lecticarii), ma<br />

anche come medici, architetti o grammatici.<br />

Questi ultimi erano prevalentemente di origine<br />

o cultura greca. Plinio il Vecchio (Nat. Hist. VII,<br />

128) ci riferisce che un grammatico fu pagato<br />

ben 700 mila sesterzi, una somma sbalorditiva se<br />

si pensa che normalmente a quei tempi il prezzo<br />

di uno schiavo che non avesse doti particolari<br />

si aggirava sui 2500.<br />

Il commercio degli schiavi era sorvegliato<br />

dagli aediles, i magistrati che avevano l’incarico<br />

di prendersi cura dei templi innanzi tutto, ma<br />

anche delle vie cittadine, dell’ordine pubblico,<br />

degli spettacoli, della polizia urbana e della vigilanza<br />

sui mercati. I mercanti, non diversamente<br />

da quelli che trattavano il bestiame, erano abili<br />

a nascondere i difetti della loro merce ed a farla<br />

apparire migliore di quanto fosse realmente.<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 37 -<br />

Il mercato si teneva in genere nel Foro, ove i<br />

venditori esibivano la mercanzia umana su un<br />

palco in modo che tutti potessero vederla e ne<br />

decantavano i pregi. Ma nella città esistevano<br />

pure altri posti in cui si svolgeva il commercio<br />

degli articoli di lusso e qui si potevano acquistare<br />

servi di maggior pregio dei due sessi, da<br />

destinare a funzioni di rappresentanza o ad<br />

appagare i piaceri dei padroni.<br />

Ma il gran commercio degli schiavi avveniva<br />

in particolare proprio in Grecia, a Delo e, in<br />

misura leggermente minore, ad Atene ove,<br />

Fig. 2 - Aphrodisias (Turchia). Statuetta in marmo nero di giovane<br />

schiavo.


secondo quanto ci riferisce il geografo e storico<br />

Strabone, ai suoi tempi, cioè in età augustea,<br />

giornalmente si acquistavano e si vendevano<br />

migliaia di uomini.<br />

La tecnologia moderna ci fornisce i mezzi per<br />

rendere la vita più facile e soprattutto meno faticosa,<br />

ma duemila anni prima del nostro tempo<br />

la situazione era completamente differente e<br />

coloro che volevano e potevano avere<br />

un’esistenza agiata sottraendosi alle esigenze<br />

quotidiane dei lavori di casa, di quelli agricoli e<br />

di tutte le altre necessità erano costretti a ricorrere<br />

all’opera dei servi. In questo contesto sociale<br />

quanti ne possedevano solo uno o due erano<br />

classificati tra i poveri, mentre il poter ostentare<br />

una numerosa servitù costituiva una rappresentazione<br />

sociale di sé a quella proporzionata. Il<br />

poeta Orazio (Sat. I.6, v. 78) ricordando la cura<br />

che il padre, liberto, aveva messo nella sua educazione,<br />

afferma che se qualcuno avesse posto<br />

attenzione al numero dei servi che lo seguivano<br />

quando andava a scuola lo avrebbe creduto<br />

appartenente ad un ceto sociale notevolmente<br />

superiore a quello di cui faceva parte. La sua<br />

condizione di figlio di un liberto, evidentemente<br />

benestante, non gli aveva impedito di prestare<br />

il servizio militare con il grado di Tribunus<br />

militum nell’esercito di Marco Bruto a Filippi, di<br />

godere dell’amicizia di Mecenate e d’Augusto e<br />

di potersi permettere di opporre un rifiuto a<br />

quest’ultimo quando gli chiese di fargli da segretario<br />

particolare, senza che la cosa gli creasse<br />

alcun problema.<br />

Alcune fonti storiche (quali Ateneo II-III sec.<br />

d.C., l’autore de I Dipnosofisti ovvero I Sofisti a<br />

banchetto, VI, 272) ci riferiscono che molti<br />

Romani possedevano da 10 mila a 20 mila schiavi.<br />

Naturalmente solo in minima parte erano<br />

impiegati nel servizio domestico del padrone e<br />

dei familiari; si trattava di grandi proprietari terrieri<br />

che destinavano quella moltitudine alla coltivazione<br />

delle loro terre in Italia ed in Sicilia ed<br />

a tutte quelle attività accessorie che rendevano le<br />

grandi villae rusticae autosufficienti per quanto<br />

riguardava l’approvvigionamento di attrezzi da<br />

lavoro, di carri, di contenitori fittili e d’altro tipo<br />

o di mattoni; perciò in quelle trovavano impiego,<br />

oltre alla massa dei lavoratori agricoli veri e pro-<br />

SALTERNUM<br />

- 38 -<br />

pri, anche fabbri, falegnami, muratori, calderari,<br />

ceramisti, calzolai, tessitori ed ancora il personale<br />

amministrativo, i sovrintendenti, i sorveglianti,<br />

i guardiani perché la condizione servile non<br />

escludeva una gerarchia. Era anzi proprio questa<br />

gerarchia a creare per coloro che erano ai livelli<br />

inferiori le condizioni di vita più dure, perché i<br />

preposti, per ben figurare di fronte ai padroni,<br />

imponevano ai dipendenti ritmi e carichi di lavoro<br />

sempre più gravosi anche ricorrendo a mezzi<br />

coercitivi particolarmente violenti. Negli ergastula<br />

annessi alle villae rusticae gli schiavi erano<br />

tenuti rinchiusi per evitare possibili fughe, talvolta<br />

incatenati quando vi era ragione di temere che<br />

ciò potesse accadere. Plinio il Vecchio definisce<br />

questa categoria ‘uomini senza speranza’. In<br />

compenso spesso erano ben nutriti, sia perché<br />

fossero nelle condizioni fisiche più idonee per<br />

lavorare proficuamente, sia perché il nutrimento<br />

era a portata di mano. Frequentemente in queste<br />

fattorie esisteva anche una specie d’infermeria<br />

(valetudinarium), ove erano curati gli schiavi<br />

ammalati. Talvolta era presente anche un medico,<br />

spesso schiavo anche lui. Si dava così anche<br />

il giusto peso alla salute e all’igiene personale<br />

dei servi, in qualche caso mettendo a loro disposizione<br />

dei bagni (balnea), ove potessero lavarsi<br />

e anche ritemprarsi dalle fatiche. Il tutto in una<br />

visione dell’ottenimento della massima produttività.<br />

Una situazione molto peggiore era quella<br />

degli schiavi utilizzati nelle miniere: al trattamento<br />

disumano si aggiungeva l’ambiente di<br />

lavoro duro già di per sé. Se solo pensiamo che<br />

allora l’unica fonte di illuminazione artificiale<br />

era fornita da torce e lucerne è facile immaginare<br />

quale aria dovevano respirare coloro che<br />

lavoravano in miniera. Non per nulla era un<br />

lavoro al quale erano destinati, oltre gli schiavi,<br />

i condannati per delitti molto gravi. La damnatio<br />

ad metalla era una pena inferiore, forse, solo<br />

a quella di morte, la damnatio capitis. Diodoro<br />

Siculo (Bibliotheca historica V, 36-8) narra che<br />

in Spagna, nel corso dell’ultimo periodo repubblicano,<br />

gli schiavi lavoravano nelle miniere in<br />

condizioni tremende, fino a morire.<br />

Chiaramente le condizioni degli appartenenti<br />

alla familia urbana erano molto migliori:


l’aspetto dello schiavo contribuiva a dare prestigio<br />

al padrone, pertanto, soprattutto a partire<br />

dalla tarda età repubblicana, erano vestiti non di<br />

vecchi stracci, come suggeriva una volta Catone<br />

al figlio, ma con abiti più dignitosi, talvolta sfarzosi<br />

ed erano nutriti in modo adeguato.<br />

Naturalmente esistevano condizioni molto differenti<br />

in ragione delle possibilità economiche dei<br />

padroni e della loro maggiore o minore generosità<br />

o avarizia.<br />

Nell’insieme quelli che vivevano nella stessa<br />

casa del padrone erano dei privilegiati che potevano<br />

anche sperare in un futuro meno brutto di<br />

quello che avevano avanti a sé gli appartenenti<br />

alle familiae rusticae. Se questi nella migliore<br />

delle ipotesi avevano la speranza di salire solo<br />

qualche gradino nella scala gerarchica servile,<br />

gli altri potevano augurarsi anche la libertà, la<br />

manumissio. Anche per questo il trasferimento<br />

dalla casa cittadina alla campagna era da considerare<br />

un provvedimento fortemente punitivo.<br />

E’ quanto minaccia Orazio ad un suo servo<br />

eccessivamente chiacchierone: «...se non sparisci<br />

subito andrai come nono lavoratore agricolo in<br />

Sabina», («…ocyus hinc te ni rapis, accedes opera<br />

agro nona Sabino», Sat. II, 7, vv. 117-118).<br />

Le commedie di Plauto ci presentano tipi di<br />

servi furbacchioni, imbroglioni, pronti a tutto a<br />

danno del padrone, soprattutto se è un avaro,<br />

spesso in accordo con il figlio di questo.<br />

Facendo salve le esigenze della comicità teatrale,<br />

si deve però pensare che dei comportamenti<br />

piuttosto ‘liberi’ di alcuni elementi della servitù<br />

non dovessero essere del tutto insoliti.<br />

Sono prevalentemente i servi della familia<br />

urbana quelli che vanno ad ingrossare le fila dei<br />

liberti, mentre al contrario le grandi rivolte di<br />

schiavi traggono origine da coloro che erano<br />

impiegati in agricoltura od in altre attività gravose.<br />

Nel 136 a.C., in Sicilia, uno schiavo d’origine<br />

siriaca, Euno, capeggiò una rivolta che in poco<br />

tempo divenne una vera e propria guerra. In<br />

breve gli insorti raggiunsero il numero complessivo<br />

di 200 mila, anche se non tutti combattenti,<br />

e divennero padroni di tutta la Sicilia, massacrarono<br />

le popolazioni di alcune città, sconfissero<br />

un esercito romano e la lotta si protrasse per<br />

circa quattro anni. Alla fine, la ribellione fu sof-<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 39 -<br />

focata nel sangue, anche se, stranamente, i<br />

Romani non infierirono eccessivamente, limitandosi<br />

per lo più a restituire gli schiavi catturati ai<br />

proprietari, che altrimenti avrebbero subito un<br />

ulteriore danno patrimoniale; anzi Euno morì in<br />

cattività, ma di morte naturale. Ma la rabbia<br />

rimase e un’altra sommossa, anche se di minore<br />

portata, avvenne nuovamente dal 104 al 101 a.C.<br />

Più pericolosa delle precedenti fu la ribellione<br />

guidata da Spartaco, che si spinse a minacciare<br />

la stessa Roma. Iniziò verso la metà del 73<br />

a.C. per opera di uno schiavo originario della<br />

Tracia, un valido guerriero, che aveva militato<br />

nelle legioni ausiliarie romane e che forse in<br />

precedenza era già stato un comandante di truppe<br />

nel suo paese d’origine; passato a servire<br />

nelle truppe ausiliarie romane, era poi finito,<br />

chissà come e perché, in schiavitù. Spartaco,<br />

proprio per la sua abilità nell’uso delle armi, era<br />

stato destinato a fare il gladiatore e condotto<br />

nella scuola di Capua; ribellatosi, fu a capo di<br />

una sollevazione che si estese a buona parte<br />

dell’Italia meridionale. I rivoltosi formarono un<br />

esercito ben armato a spese dei Romani stessi,<br />

che, ripetutamente colti di sorpresa, erano stati<br />

battuti dal Trace, il quale aveva mostrato capacità<br />

tattiche non comuni. I consoli eletti per l’anno<br />

72 a.C. si dimostrarono inferiori alle attese e<br />

assolutamente incapaci di opporsi adeguatamente<br />

ai rivoltosi che ormai avevano raggiunto<br />

il numero di 40 mila combattenti, più o meno<br />

l’equivalente di sette legioni romane, e sicuramente,<br />

a differenza dei rivoltosi di sessanta anni<br />

prima, annoveravano fra di loro un numero considerevole<br />

di soldati che erano stati fatti prigionieri<br />

nel corso delle recenti campagne di Mario,<br />

Silla e Pompeo e perciò addestrati all’uso delle<br />

armi.<br />

Spartaco marciò verso il nord Italia nell’intento<br />

di raggiungere le Alpi e di lì dare la possibilità<br />

ai ribelli di raggiungere i loro paesi d’origine.<br />

Giunse fino a Modena, ma l’odio che i suoi<br />

uomini nutrivano contro Roma era così forte e<br />

ben radicato che pretesero di essere condotti ad<br />

espugnarla. Nella circostanza egli dimostrò le<br />

doti di un vero capo, intuì subito che in quel<br />

modo non si sarebbe ottenuto nulla di buono,<br />

ma, non potendo opporsi del tutto alla volontà


dei suoi, li guidò in Lucania seguendo la costa<br />

adriatica. Il Senato finalmente comprese che il<br />

male era tale da richiedere una cura energica ed<br />

affidò la direzione della guerra, ricordata come<br />

bellum servile, ad un veterano dell’esercito di<br />

Silla: M. Licinio Crasso, il futuro triumviro, che si<br />

era già distinto nella guerra civile. Questi, con<br />

pugno di ferro, ripristinò la disciplina nelle<br />

legioni e quindi avanzò verso il nemico, che<br />

frattanto si era ritirato nel Bruzio (attuale<br />

Calabria) con l’intento di passare in Sicilia e da<br />

lì in Africa, e tentò di bloccarlo costruendo una<br />

fortificazione che dal mar Tirreno raggiungeva<br />

lo Ionio. Ancora una volta il suo avversario<br />

riuscì a sgattaiolare fuori dalla trappola per raggiungere<br />

nuovamente la Lucania e l’Apulia. Ma<br />

ora Crasso gli era addosso ed in due battaglie<br />

consecutive distrusse l’esercito dei ribelli (71<br />

a.C.). Spartaco cadde combattendo, gli schiavi<br />

sopravvissuti furono crocifissi lungo la via Appia<br />

fino alle porte di Roma, come monito per coloro<br />

che fossero stati tentati di ripetere le stesse<br />

gesta.<br />

E’ importante osservare che nella circostanza<br />

la sollevazione prese corpo tra i gladiatori e gli<br />

schiavi delle campagne, mentre fu del tutto insignificante<br />

il numero degli insorti e dei fuggitivi<br />

fra gli schiavi di città: ciò dimostra ancora una<br />

volta quanto fossero differenti le condizioni di<br />

vita tra le due categorie servili.<br />

Dobbiamo considerare indicativo il fatto che<br />

in Grecia non si siano riscontrate rivolte come<br />

quelle citate, che hanno creato non poche<br />

preoccupazioni a Roma; probabilmente ciò<br />

potrebbe confermare quanto già detto: che gli<br />

schiavi di sesso maschile non erano molto<br />

numerosi e che nel complesso le condizioni di<br />

vita a cui erano assoggettati non dovevano essere<br />

particolarmente dure.<br />

Abbiamo fin qui esaminato gli aspetti più<br />

brutti dell’esistenza degli schiavi, ma c’erano<br />

anche aspetti meno negativi, riconducibili ad un<br />

insieme di fattori. Innanzi tutto non bisogna trascurare<br />

il fatto che gli schiavi avevano un costo<br />

che, come abbiamo visto, poteva essere anche<br />

molto elevato e ciò spingeva di per sé i proprietari<br />

ad avere cura di un bene di valore.<br />

Certamente il gramaticus che era costato una<br />

SALTERNUM<br />

- 40 -<br />

cifra rilevante era trattato con ogni cura e sicuramente<br />

aveva a sua volta altri servi a disposizione<br />

per le necessità quotidiane (questi servi<br />

dei servi erano chiamati vicarii): il prezzo pagato<br />

era la migliore assicurazione e senza dubbio<br />

un suo semplice malanno normalmente trascurabile<br />

provocava al padrone una sensazione<br />

dolorosa, se non all’animo certamente alla tasca.<br />

Il valore intrinseco del servo, per funzioni o per<br />

bellezza non importa, costituiva la misura delle<br />

sue migliori o peggiori condizioni di vita. In<br />

fondo un cavallo da corsa, soprattutto se è un<br />

campione, gode di un trattamento ben diverso<br />

da quello che è destinato a tirare il carretto del<br />

fruttivendolo. E la posizione giuridica del servo<br />

è analoga a quella degli animali. Nella legislazione<br />

di molte città greche una stessa legge prende<br />

in considerazione tanto gli animali domestici<br />

quanto gli schiavi. Catone il Censore (234-148<br />

a.C.) nel suo trattato De Agricultura (56-59)<br />

parla delle razioni alimentari destinate ai servi<br />

quasi contestualmente all’alimentazione dei<br />

buoi. L’accostamento non è casuale perché<br />

effettivamente servi e buoi erano considerati<br />

sullo stesso piano: semplice forza lavoro.<br />

Domizio Ulpiano - illustre giurista romano, prefetto<br />

del pretorio sotto Alessandro Severo e<br />

morto assassinato nel 228 d.C. - autore di molte<br />

opere di dottrina giuridica, considera la fuga<br />

degli schiavi equivalente alla perdita di bestiame.<br />

Prima di lui Gaio, altro giurista romano del<br />

II sec. d.C. autore di un’opera giunta a noi molto<br />

lacunosa con il titolo di Institutiones, divide tutti<br />

gli uomini in due categorie fondamentali: liberi<br />

e schiavi ed i primi in ingenui e liberti, a seconda<br />

che fossero nati liberi o fossero stati liberati<br />

dalla schiavitù (1; 9-11).<br />

Anche coloro che erano stati destinati a combattere<br />

come gladiatori potevano sperare di salvare<br />

la pelle, magari con qualche cicatrice.<br />

Sembra che di solito quando un gladiatore avesse<br />

conseguito almeno dieci vittorie in combattimenti<br />

nell’arena venisse liberato, intascando<br />

anche un discreto gruzzolo. D’altra parte non<br />

dovevano passarsela proprio male se anche<br />

molti uomini liberi si arruolavano spontaneamente<br />

per combattere nei giochi del circo, i circenses.


I proprietari delle colonie di gladiatori investivano<br />

cifre molto alte per addestrare e mantenere<br />

convenientemente i loro combattenti ed<br />

erano restii a perderli con facilità; per questo<br />

motivo, con molta frequenza, intercorrevano<br />

degli accordi con gli organizzatori dei giochi<br />

perché le perdite umane fossero ridotte al minimo.<br />

Sappiamo che nell’anno 59 d.C., nel corso<br />

di uno spettacolo gladiatorio offerto dal senatore<br />

Livineio Regolo, scoppiò a Pompei una colossale<br />

zuffa tra Nocerini e Pompeiani, a causa<br />

della quale ci furono anche dei morti. Per conseguenza<br />

Nerone decise la ‘squalifica’ dell’anfiteatro<br />

cittadino per dieci anni. Sembra che i disordini<br />

siano stati causati da motivi politici, ignoriamo<br />

però se all’origine delle violenze popolari<br />

e come causa scatenante delle stesse non ci<br />

sia stato anche qualche accordo del tipo citato<br />

che abbia fatto inferocire gli spettatori e provocato<br />

la loro reazione.<br />

Molti gladiatori, come avviene oggi per i calciatori,<br />

quando giungevano al termine dell’attività<br />

nel circo, diventavano istruttori (lanistae)<br />

delle nuove leve destinate a sostituirli nell’arena.<br />

Questi erano considerati persone che esercitavano<br />

un mestiere spregevole, alla stessa stregua<br />

dei lenoni e anche degli attori, ma la riprovazione<br />

non si estendeva agli impresari. Tutte queste<br />

attività erano perciò affidate a schiavi od a liberti.<br />

Forse la maggioranza di coloro che morivano<br />

nei circhi era, in realtà, rappresentata dai condannati<br />

a morte mandati a combattere senza<br />

alcun addestramento preliminare e perciò destinati<br />

a soccombere di fronte ad avversari più<br />

agguerriti.<br />

Aumentando il numero degli schiavi cresceva<br />

di conseguenza quello degli affrancati, cioè dei<br />

liberti. Il passaggio dalla categoria servile a quella<br />

dei liberti poteva avvenire in vari modi. Per<br />

benevolenza del padrone, è il caso per esempio<br />

di Tirone, segretario di Cicerone, inventore di<br />

un sistema di scrittura abbreviata, una specie di<br />

stenografia, le notae tironianae. Fra i due si era<br />

stabilito un rapporto d’amicizia ed affetto e<br />

Tirone che, pur di salute cagionevole, sopravvisse<br />

di molti anni al suo ex padrone, curò anche<br />

la pubblicazione di molte opere ciceroniane, tra<br />

cui l’orazione In Verrem.<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 41 -<br />

Ma lo schiavo aveva anche la possibilità di<br />

raggranellare un po’ di denaro, il cosiddetto<br />

peculium, con cui acquistare la propria libertà.<br />

Naturalmente anche in questo caso occorreva<br />

che vi fosse un atteggiamento non negativo da<br />

parte del padrone, il quale, volendo, avrebbe<br />

potuto semplicemente appropriarsi della<br />

somma, in quanto il servo, soprattutto ai tempi<br />

della Repubblica, non aveva diritti. C’era però<br />

un aspetto particolare che riguardava gli schiavi<br />

che esercitavano un’attività artigianale o professionale:<br />

il peculium con la prospettiva della<br />

libertà rappresentava un potente stimolo a lavorare<br />

di più e meglio e ciò andava a vantaggio<br />

anche del padrone, che partecipava agli utili del<br />

lavoro del suo servo. Un’altra spinta verso la<br />

concessione della libertà agli schiavi era data dal<br />

fatto che ai patrizi era fatto divieto di svolgere<br />

attività commerciali. La legge romana prevedeva<br />

che a questa categoria superiore di cittadini<br />

fosse consentito solo il reddito derivante dal<br />

possesso della terra. Forse era un modo di vincolare<br />

al territorio le persone e renderle perciò<br />

più sollecite verso la patria comune; d’altra parte<br />

non si deve dimenticare che in origine il popolo<br />

romano era un popolo di agricoltori che,<br />

anche successivamente e soprattutto nelle classi<br />

più elevate, ha conservato un legame profondo<br />

con il mondo agricolo: nomi come Agricola,<br />

Cornelio, Asinio, Porcio sono una prova di questa<br />

connessione. Fatto sta che si trovò il modo<br />

di aggirare la legge affidando la gestione degli<br />

affari commerciali ad uomini liberi, ma che conservavano<br />

pur sempre un legame con gli antichi<br />

padroni, e che, a differenza dei servi, erano abilitati<br />

ad agire a proprio nome. Molti liberti così<br />

raggiunsero condizioni economiche invidiabili e<br />

il loro stato giuridico li collocò in una posizione<br />

analoga a quella degli altri cittadini già a partire<br />

dal periodo delle guerre sannitiche: infatti nel<br />

306 a.C. la legge voluta da Fabio Rulliano li integrò<br />

come cittadini, disponendo la loro iscrizione<br />

nelle quattro tribù urbane. Con il passare del<br />

tempo la loro importanza nella città andò progressivamente<br />

accrescendosi, per raggiungere<br />

sotto l’impero un rilievo sempre maggiore.<br />

L’imperatore Claudio fece di alcuni suoi liberti<br />

(ricordiamo Narciso e Pallante) una specie di


ministri imperiali e allo stesso modo si regolarono<br />

altri imperatori; vero è che la loro fortuna era<br />

strettamente legata a quella del loro patrono ed<br />

in quei tempi non era facile che gli imperatori<br />

finissero di morte naturale. I due liberti di<br />

Claudio ora citati fecero una brutta fine per<br />

mano di Nerone. Si salvò invece un altro liberto<br />

di Claudio, Elio, che anzi fu nelle grazie di<br />

Nerone al punto che durante il viaggio di questi<br />

in Grecia ebbe l’incarico di reggere l’impero in<br />

sua vece.<br />

Con la seconda guerra punica si assistette ad<br />

un fenomeno che deve far pensare che in fondo<br />

la condizione servile in quel periodo non doveva<br />

essere particolarmente dura, perché, lungi<br />

dall’approfittare della circostanza che vedeva<br />

Roma in condizioni di gravi difficoltà, schiavi e<br />

liberti si mantennero fedeli come se fossero tutti<br />

Romani a pieno titolo, meritando di essere premiati<br />

con una legge plebiscitaria del 189 a.C.<br />

che stabilì che i figli dei liberti godessero di tutti<br />

i diritti civili al pari degli altri cittadini. Tito Livio<br />

(Hist. XXII 57) riferisce che dopo la sconfitta di<br />

Canne furono riscattati a spese dell’erario ottomila<br />

schiavi che si dichiararono disposti ad<br />

arruolarsi nell’esercito. A Roma, così come in<br />

Grecia, i non liberi erano esclusi dalla milizia.<br />

Continuando nell’esame delle condizioni di<br />

vita e giuridiche degli schiavi, è interessante<br />

osservare un caso in cui Cicerone fu avvocato di<br />

un tale Quinto Roscio. Questi era una specie<br />

d’impresario teatrale, forse un liberto, che aveva<br />

curato la preparazione all’attività scenica di uno<br />

schiavo di proprietà di un certo Fannio. Tra<br />

Roscio e Fannio si era creata una società per lo<br />

sfruttamento delle capacità teatrali dell’uomo,<br />

con una ripartizione degli utili. Un brutto giorno<br />

però lo schiavo fu ucciso. Ne seguì un contenzioso,<br />

prima con l’uccisore e poi fra i due ex<br />

soci, per la divisione del risarcimento. In tutto il<br />

dibattimento si parla di soldi, di danni subiti dall’uno<br />

o dall’altro contendente, ma del povero<br />

schiavo se ne parla come ora si parlerebbe di un<br />

veicolo coinvolto in un sinistro stradale.<br />

Con l’andare dei tempi si venne attenuando il<br />

potere assoluto del pater familias nei confronti<br />

di tutti gli appartenenti alla sua casa, la familia<br />

appunto, che comprendeva anche la servitù. La<br />

SALTERNUM<br />

- 42 -<br />

politica di Augusto introdusse gradatamente una<br />

maggiore liberalità nei rapporti fra padroni e<br />

schiavi ed un più incisivo intervento dello stato.<br />

In proposito si deve porre attenzione ad un<br />

senatusconsultum del 9 d.C., noto come<br />

Silanianum dal nome del proponente, che prevedeva<br />

la condanna a morte dello schiavo che si<br />

fosse astenuto dal soccorrere il padrone qualora<br />

questi fosse stato aggredito. La portata giuridica<br />

del provvedimento era rafforzata dal fatto che il<br />

testamento di un dominus, morto per morte violenta,<br />

non doveva essere aperto se prima non<br />

fosse stata conclusa l’inchiesta sul decesso del<br />

testante e non fossero state eseguite le eventuali<br />

sentenze di condanna. Questo nel timore che<br />

gli eredi, da un lato potessero essersi accordati<br />

con gli schiavi per accelerare l’iter successorio e<br />

da un altro potessero essere indotti a salvare i<br />

servi, anche se colpevoli, al fine di non depauperare<br />

il patrimonio. L’attenzione degli imperatori<br />

ebbe anche dei risvolti più umanitari per il<br />

trattamento degli schiavi, come la libertà accordata<br />

ope legis a coloro che fossero stati abbandonati<br />

dai proprietari perché malati o troppo<br />

vecchi per lavorare: questi rappresentavano per<br />

i loro padroni un peso inutile e l’imperatore<br />

Claudio (41-54 d.C.) dovette addirittura emanare<br />

un provvedimento di proibizione di ucciderli.<br />

Ciò significa che in precedenza era una pratica<br />

non insolita. Circa un secolo dopo fu<br />

l’imperatore Adriano (117-138) a vietare, sempre<br />

ed in ogni caso, l’uccisione degli schiavi. Infine<br />

Costantino (312-337) equiparò l’uccisione di uno<br />

schiavo all’omicidio di un libero.<br />

Contemporaneamente a queste misure umanitarie<br />

ne furono adottate anche altre repressive,<br />

per cui se uno schiavo uccideva il suo dominus<br />

dovevano essere messi a morte tutti gli altri servi<br />

della familia presenti nel luogo ove era avvenuto<br />

il delitto (Nerone aveva così riesumato e reso<br />

più dura la legge risalente al periodo augusteo):<br />

evidentemente la norma era intesa a proteggere<br />

i padroni, punendo la corresponsabilità o anche<br />

la sola indifferenza. Tuttavia la norma non<br />

dovette essere sufficiente, perché Traiano (98-<br />

117), che pure era uomo equilibrato, la estese<br />

fino a comprendervi i liberti. Poiché le leggi<br />

nascono, si formano e si sviluppano in relazio


ne a quanto accade nella società, si deve pensare<br />

che il criterio che ispirò Traiano sia nato dal<br />

fatto che anche dei liberti si fossero macchiati o<br />

resi complici di quel delitto o per sottrarsi ai<br />

residui doveri che avevano nei confronti degli<br />

ex padroni oppure per qualche altro motivo. E’<br />

pur vero che molto spesso i liberti erano crudeli<br />

e viziosi tanto più quanto più erano divenuti<br />

ricchi. Ci è giunta memoria di un tale Vedio<br />

Pollione, un liberto, che gettava gli schiavi da<br />

punire nelle vasche ove si allevavano le murene<br />

(Seneca, De Clem. I, 18, 2). Il fatto non doveva<br />

essere nella consuetudine, altrimenti Seneca non<br />

lo avrebbe ricordato, ma sicuramente manifestazioni<br />

di crudeltà si dovevano registrare con una<br />

certa frequenza e che spesso gli autori fossero<br />

degli ex schiavi si può spiegare con il desiderio,<br />

certamente riprovevole, ma in fondo miserevolmente<br />

umano, di rivalersi, non importa come e<br />

su chi, delle mortificazioni precedentemente<br />

subite. Era tuttavia naturale che tra i liberti fossero<br />

abbondantemente presenti anche personaggi<br />

poco gradevoli, ricchi sì di denaro, ma<br />

anche di volgarità e di pessimo gusto. Petronio,<br />

il raffinato arbiter elegantiarum, ci ha lasciato il<br />

divertente ritratto di Trimalcione, uno di questi<br />

buzzurri arricchiti, dal comportamento ridicolmente<br />

disgustoso.<br />

Fortunatamente non sempre le cose erano<br />

così brutte: Tacito (Hist. I, 3 ed Ann. XV, 57) ci<br />

fornisce notizie ed esempi, come quello famoso<br />

di Epicharis, in cui schiavi e liberti sopportarono<br />

le più atroci torture per difendere i padroni<br />

accusati di aver preso parte alla congiura di<br />

Pisone contro Nerone.<br />

Per comprendere meglio la vita degli schiavi<br />

a Roma nel I sec. d.C. è interessante rileggere le<br />

lettere a Lucilio di Seneca, in particolare la 47,<br />

che, mentre consiglia mitezza e tolleranza nei<br />

confronti della servitù, ci illumina anche su un<br />

aspetto particolare del problema, quello dell’inversione<br />

dei ruoli; dice il filosofo: «Quanti di<br />

questi schiavi hanno alle loro dipendenze i<br />

padroni di un tempo! Vidi stare in attesa davanti<br />

alla porta di Callisto il suo antico padrone e lui<br />

che gli aveva fatto appendere al collo il cartello<br />

di vendita e che l’aveva esposto al pubblico fra<br />

i rifiuti degli schiavi ora veniva lasciato fuori<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 43 -<br />

mentre gli altri entravano». Come era potuto<br />

accadere ciò? Forse il padrone in difficoltà economiche<br />

era stato costretto a vendere gli schiavi<br />

fino a ridursi in miseria, mentre Callisto otteneva<br />

la libertà dal nuovo padrone, che sappiamo<br />

essere stato l’imperatore Caligola. Certo è<br />

che Callisto fu un altro liberto che ebbe poi<br />

importanti incarichi sotto Claudio e ciò gli diede<br />

la possibilità di vendicarsi.<br />

Sembra che Seneca, fino a quando rimase<br />

nelle grazie di Nerone, sia stato il capofila di<br />

quanti sostenevano il diritto dei servi ad un trattamento<br />

umano, in contrasto con un atteggiamento<br />

di chiusura del senato. Non sappiamo poi<br />

come il filosofo si comportasse nel privato:<br />

come si sa, era un personaggio piuttosto contraddittorio.<br />

Un altro aspetto della condizione servile era<br />

quello che consentiva allo schiavo di scegliersi<br />

una compagna tra le schiave di casa, una conserva<br />

e di vivere con lei come se fossero sposati.<br />

Questa convivenza, che si chiamava contubernium,<br />

non era riconosciuta giuridicamente<br />

ma, in fondo, era quasi sempre ben vista dai<br />

proprietari, che con la nascita di figli vedevano<br />

accresciuto il loro patrimonio. Era certamente<br />

questa una grande consolazione per chi fosse<br />

costretto a vivere nella condizione servile.<br />

Una piccola stele funeraria di marmo di età<br />

augustea recita: «NEBULLUS MARTHAE CONSER-<br />

VAE – Fleui, Martha, tuos extremo tempore casus<br />

ossaque composui. Pignus amoris habes».<br />

«NEBULLO A MARTA, COMPAGNA NELLA<br />

SCHIAVITÙ. Piansi o Marta, i dolorosi eventi dei<br />

tuoi ultimi momenti e composi le tue ossa.<br />

Ricevi questo pegno d’amore», poche commoventi<br />

parole che valgono più di un poema.<br />

Nell’età imperiale si ebbe un’ulteriore protezione<br />

per i conviventi, con il divieto di venderli<br />

separatamente.<br />

Uno dei problemi che si poneva a tutti, liberi,<br />

liberti o servi che fossero, era quello di avere<br />

alla morte un funerale decente. A parte i ricchi,<br />

per i quali la questione non esisteva, chi non<br />

poteva assicurarsi esequie dignitose quando era<br />

in vita era destinato a finire gettato in una fossa<br />

comune. Per evitare questa squallida conclusione<br />

della propria esistenza si formarono dei col-


legia funeraticia, cioè delle confraternite che<br />

avevano lo scopo di assicurare delle onoranze<br />

funebri quanto meno passabili ai propri soci, i<br />

quali pagavano al sodalizio una certa somma<br />

mensile o annuale a questo fine. A tali associazioni<br />

di tenuiores, vale a dire di persone piuttosto<br />

povere, molto spesso partecipavano anche<br />

degli schiavi, naturalmente con il consenso dei<br />

loro padroni. Anche in questo caso si deve registrare<br />

una diversità tra coloro che vivevano in<br />

città e quelli delle villae rusticae i quali, oltre ad<br />

avere incontri sporadici con i padroni, difficilmente<br />

potevano venire a contatto con quelle<br />

associazioni che erano prevalentemente cittadine.<br />

In ogni modo ci sono pervenute molte epigrafi<br />

funerarie di schiavi - come quella di cui<br />

sopra - e naturalmente ancora più di liberti.<br />

Tra gli schiavi esisteva una minoranza, esigua<br />

ma non trascurabile, che poteva dirsi benestante.<br />

Erano coloro che per conto dei padroni svolgevano<br />

lavori artigianali o comunque professionali;<br />

lo schiavo architetto, o medico o fabbro<br />

che fosse, metteva certamente la sua professionalità<br />

a disposizione del padrone, ma anche di<br />

altri, dividendo con quello i guadagni, in una<br />

sorta di società in accomandita ed il peculium<br />

così formato poteva accrescersi fino a raggiungere<br />

una cifra di un certo rilievo. Era il primo<br />

SALTERNUM<br />

Fig. 3 - Hadrumentum (Tunisia). Particolare di un mosaico con la messa in scena di una commedia, forse di<br />

Plauto, con uno schiavo incatenato.<br />

- 44 -<br />

passo per raggiungere la<br />

libertà. Non erano perciò<br />

solo i liberti che raggiungevano<br />

posizioni economiche<br />

invidiabili: molti<br />

schiavi utilizzavano il loro<br />

peculium investendolo in<br />

attività che potevano<br />

accrescerlo, anche acquistando<br />

in proprio altri<br />

schiavi. Abbiamo accennato<br />

ai vicarii: il rapporto<br />

giuridico intercorrente fra<br />

questi e lo schiavo-padrone<br />

era identico a quello<br />

esistente fra quello ed il<br />

dominus. Sesto Pomponio,<br />

giurista del II secolo, autore<br />

di un compendio di storia<br />

del diritto romano, cita<br />

il caso di uno schiavo che praticava il lenocinio<br />

facendo prostituire delle schiave acquistate col<br />

suo peculio. Il diritto consolidato dell’epoca prevedeva<br />

che i vicarii fossero proprietà dello<br />

schiavo e non del loro padrone.<br />

Un vecchio studio, basato sull’esame di molte<br />

epigrafi funerarie 4 arrivò a stabilire che gli artigiani<br />

a Roma erano così suddivisi: 27% liberi,<br />

66,75% liberti e 6,25% schiavi. Nel resto<br />

dell’Italia le percentuali diventavano rispettivamente<br />

46,25% – 52% – 1,75%. Come si può<br />

vedere, la presenza dei liberti era preponderante,<br />

ma è lecito pensare che questi svolgessero la<br />

stessa attività anche quando non erano liberi.<br />

D’altra parte la statistica prende in esame complessivamente<br />

le epigrafi che ci sono pervenute<br />

e non quelle – sarebbe stato pressoché impossibile<br />

– relative ad un determinato momento storico,<br />

per cui l’attendibilità e l’utilità del calcolo<br />

divengono praticamente irrilevanti, anche perché<br />

non è possibile sapere quanti non abbiano<br />

avuto una sepoltura corredata da una lapide e<br />

quante epigrafi siano andate perdute.<br />

La condizione servile non escludeva del<br />

tutto dalla vita pubblica; nelle città romane il<br />

quartiere aveva una sua rilevanza politica e<br />

religiosa: quella politica si esplicava nel sostegno<br />

anche robusto che gli abitanti accordavano


ai candidati alle cariche pubbliche, quella religiosa<br />

nel culto dei Lares compitales, le divinità<br />

che proteggevano il quartiere ed i suoi abitanti.<br />

Entrambe queste funzioni si esercitavano<br />

attraverso i Collegia compitalicia (il compitum<br />

era il quadrivio) che erano guidati dai magistri<br />

vici et compiti, detti anche vicomagistri, e questa<br />

funzione era affidata a personaggi che potevano<br />

essere di condizione libertina o anche<br />

servile. Non solo, altri sacerdozi minori erano<br />

aperti agli schiavi: alcune iscrizioni rinvenute a<br />

Pompei (Corpus Inscriptionum Latinarum, X,<br />

888 - 890) testimoniano, ad esempio, l’esistenza<br />

anche in quella città del collegio sacerdotale<br />

detto degli Augustales, che curava il culto del<br />

genius dell’imperatore Augusto, fra i componenti<br />

del quale erano compresi degli schiavi<br />

alla pari degli altri sacerdoti.<br />

E’ chiaro che il commercio d’uomini poteva<br />

produrre un profitto notevole; meno noto, ma<br />

importante, è che da alcune di queste transazioni<br />

commerciali, sia pure fittizie, si potevano trarre<br />

vantaggi d’altro genere. Come ormai tutti<br />

sanno, il capo di un casato, di una familia, era<br />

il paterfamilias, l’autorità del quale non era mai<br />

in discussione: si poteva perdere solo per morte<br />

o per la privazione dei diritti civili. Pure, in certe<br />

circostanze era importante che un figlio potesse<br />

acquisire una piena libertà: in tal caso l’unico<br />

mezzo legale disponibile era l’emancipatio; tuttavia<br />

quest’istituto appare solo in un secondo<br />

tempo, come derivazione laboriosa di una<br />

norma contenuta nella legge delle XII Tavole: «si<br />

pater filium ter venum duit, filius a patre libero<br />

esto». In pratica, se il padre vendeva per tre volte<br />

il figlio, questo otteneva la piena libertà.<br />

Accadeva perciò che chi intendesse emancipare<br />

un figlio lo vendeva in modo simulato ad un<br />

amico accondiscendente, il quale subito dopo lo<br />

liberava, facendolo tornare così nuovamente<br />

sotto l’autorità paterna; la vendita era poi ripetuta<br />

per altre due volte, in modo che il figlio<br />

potesse acquistare la piena libertà e divenire<br />

così il paterfamilias di un nuovo casato che<br />

poteva allearsi a quello originario nella vita pubblica<br />

o in eventuali speculazioni d’altro genere.<br />

Lo studio del fenomeno servile a Roma ci fornisce<br />

dunque molte notizie interessanti sulla vita<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 45 -<br />

Fig. 4 - Schiavi al lavoro in una cava di marmo. Rilievo scultoreo.<br />

Fig. 5 - Uno schiavo porta un piatto con del cibo. Frammento di rilievo da<br />

un monumento funerario.


Fig. 6 - Statuetta in bronzo di giovane schiavo di colore, copia romana di<br />

un originale di età ellenistica.<br />

dell’epoca, un periodo di oltre mille anni nel<br />

corso del quale, tra progressi e ripensamenti, il<br />

problema posto dalla schiavitù, perché di un<br />

problema si tratta, ha tentato di trovare una<br />

soluzione che tuttavia era impossibile trovare in<br />

nessun altro modo che non fosse la sua semplice<br />

e completa abolizione. Ma l’economia di quei<br />

tempi era quasi del tutto fondata sul lavoro servile:<br />

ne conseguiva che la sua soppressione<br />

avrebbe portato inevitabilmente al collasso le<br />

città e gli stati e ciò anche prescindendo dall’egoismo<br />

delle classi dominanti. La quasi totalità<br />

degli artigiani dell’epoca era di condizione servile,<br />

mentre i liberi delle classi più povere erano<br />

per la maggior parte nullafacenti che campavano<br />

a carico dello Stato, mercé la distribuzione<br />

gratuita di vettovaglie (frumentationes). Liberare<br />

gli schiavi e contemporaneamente ricondurre la<br />

massa oziosa dei cittadini ad un’attività produttiva<br />

era un’impresa superiore alle forze di qualunque<br />

governante, pericolosa per il politico e per<br />

SALTERNUM<br />

- 46 -<br />

Fig. 7 - Collare in bronzo per schiavi.<br />

la stessa res publica: per questo motivo le cose<br />

dovevano necessariamente restare com’erano, in<br />

attesa di tempi migliori. Lo stesso Seneca che,<br />

come abbiamo visto, predicava moderazione e<br />

magnanimità nei confronti degli schiavi, non<br />

sarà neppure sfiorato dall’idea che la schiavitù<br />

potesse essere un abominio di per sé.<br />

Il sistema schiavistico nondimeno diverrà col<br />

tempo una delle cause della decadenza economica<br />

dell’Impero Romano. Arrestandosi<br />

l’espansione su nuovi territori in seguito alla<br />

progressiva diminuzione delle guerre di conquista<br />

e riducendosi l’Impero su posizioni di difesa,<br />

cesserà anche quel flusso di manodopera servile<br />

che in precedenza aveva favorito lo sviluppo<br />

dello Stato. Conseguentemente si registrerà una<br />

contrazione della parte attiva della popolazione,<br />

non compensata da un ceto di lavoratori liberi<br />

che era praticamente inesistente; i liberi disdegnavano<br />

d’impegnarsi in lavori manuali, tanto<br />

più che la loro impreparazione tecnica li avrebbe<br />

costretti facilmente ad operare alle dipendenze<br />

di maestri di condizione servile. Con queste<br />

premesse il declino economico era assolutamente<br />

inevitabile.<br />

Bisognerà attendere il tardo Medioevo perché<br />

si possa affermare che in Europa, ma solo in<br />

Europa, la schiavitù era (quasi) scomparsa.


Resisterà ancora per effetto delle razzie e degli<br />

atti di pirateria compiuti sia da parte cristiana<br />

sia araba in tutto il bacino del Mediterraneo,<br />

nonché sotto l’aspetto dei servi dominici - persone<br />

semilibere che erano nei fatti del tutto<br />

asservite, che operavano nelle corti dei signori,<br />

NOTE<br />

1 Se l’autore del Satyricon è il Petronio arbiter elegantiarum<br />

vissuto al tempo di Nerone (qualcuno ne dubita), si deve<br />

ritenere che già verso la metà del I secolo d.C. la pratica<br />

della manumissio per mensam fosse affermata, dal<br />

momento che si trova descritta nel corso della cena che<br />

Trimalcione offre ai suoi ospiti; ma è anche possibile che<br />

l’Autore abbia voluto solo presentarci un aspetto ridicolo<br />

nel comportamento dell’anfitrione.<br />

2<br />

PIATTELLI D. 1990, Tradizioni giuridiche d’Israele, Torino,<br />

p. 34.<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 47 -<br />

laici o ecclesiastici che fossero - anche nei paesi<br />

di cultura germanica, donde ci viene la parola<br />

‘schiavo’ (‘sclavus’), indicante in origine (X – XI<br />

sec.) i prigionieri di guerra d’etnia slava assoggettati<br />

e commercializzati dai vincitori.<br />

3 In realtà la legge di Solone interveniva più sulle cause che<br />

sugli effetti, nel senso che vietava che si potessero contrarre<br />

debiti offrendo come garanzia la propria persona fisica<br />

(epì tois sòmasin). In tal modo l’ipotetico creditore poteva<br />

rivalersi solo sui beni del debitore ed in conseguenza era<br />

costretto ad erogare il prestito unicamente sulla valutazione<br />

di quelli. Nello stesso tempo quella legge aboliva o<br />

almeno riduceva una parte dei debiti (chreòn apocopé).<br />

4 BRUNT P. A. 1989, Il lavoro umano, in Il Mondo di Roma<br />

Imperiale, a cura di J. WACHER, vol. III, p. 199.


L’anfiteatro atinate.<br />

Lineamenti storici, epigrafici e topografici<br />

di un monumento sepolto dell’antica Atina<br />

«Fra gli altri monumenti Atinati sta anche<br />

l’Anfiteatro, ammesso dalla maggior parte degli<br />

Archeologi… E di vero, una grandiosa città<br />

come si era la nostra, guerriera sotto gli antichi<br />

dominatori, non poteva essere privata di quel<br />

pubblico luogo, dove si esercitavano gli spettacoli<br />

ed i ludi punici… Noi avremmo desiderato,<br />

e ne feci rimostranza al Municipio, che, per<br />

monumento antico del paese, lo si fosse lasciato<br />

intatto e tal quale trovavasi scavato, ma, la<br />

necessità della strada, ne lo impedì, e si dovè<br />

colmare, però senza guastarne le mura, che<br />

peraltro non arrivavano al suolo» 1 .<br />

Il narratore del passo riportato è Giovan<br />

Battista Curto, storico ed archeologo di<br />

Atena Lucana, che nel 1892 ebbe modo di<br />

osservare direttamente i notevoli resti dell’anfiteatro<br />

romano dell’antica Atina. In un periodo storico in<br />

cui le necessità di pubblico servizio innegabilmente<br />

prevalevano sugli interessi culturali, la<br />

riscoperta dell’anfiteatro di Atina non seguì<br />

l’epilogo sperato dallo storico atenese, che però<br />

ebbe a parlarne estesamente nel suo lavoro sulla<br />

propria città natale dall’età classica al periodo<br />

moderno. In virtù di quest’unica testimonianza<br />

archeologica all’interno della storia antica del<br />

Vallo di Diano, la ricerca si presenta attraente ed<br />

interessante, per via delle derivazioni di carattere<br />

ricognitivo e di riscoperta di un luogo scomparso<br />

ormai da tempo. La ricerca qui presentata 2<br />

si articola su tre punti essenziali e significativi,<br />

intercomunicanti e strettamente connessi:<br />

l’analisi delle fonti storiche, la ricostruzione<br />

metrica ed architettonica dei ruderi osservati dal<br />

Curto ed il posizionamento dell’anfiteatro all’interno<br />

del tessuto antico ed attuale di Atena<br />

Lucana. Pertanto questo studio riguarda la rac-<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 49 -<br />

colta dei dati significativi e caratterizzanti dell’antico<br />

monumento, alla luce di un’ipotetica indagine<br />

di rilevamento stratigrafico da aerofoto, che<br />

ne accerterebbe la posizione reale.<br />

Le fonti storiche<br />

L’anfiteatro atinate, oltre a presentarsi come<br />

un’architettura monumentale antica all’interno di<br />

Atena Lucana, nelle memorie storico-archeologiche<br />

viene ricordato da vari studiosi, che a più<br />

riprese si occuparono delle vicende in età classica<br />

di Atina. La prima analisi di questo scritto,<br />

relativa alle note cronologiche sull’anfiteatro, si<br />

rivolge alle fonti bibliografiche che hanno citato<br />

o descritto il monumento. Spesso la non attenta<br />

lettura analitica e storica dell’edificio da parte di<br />

alcuni eruditi ha fatto sì che l’identificazione dell’anfiteatro<br />

non apparisse certa e definita, confondendolo<br />

più volte con il teatro romano, che<br />

pure ha lasciato traccia nel tessuto urbano della<br />

cittadina. Tra le prime fonti autorevoli,<br />

Costantino Gatta ci offre una sintesi descrittiva,<br />

di certo attinta da autori precedenti, ma particolarmente<br />

valida per l’attendibilità storica dello<br />

studioso:<br />

«Il dilei territorio [Sala Consilina], che per miglia<br />

otto s’estende, da occidente confina con Atena,<br />

di cui come celebre luogo ne fa Plinio onorata<br />

memoria, e ben si può credere essere stati ne’<br />

gli antichi tempi prodi e generosi li dilei popoli,<br />

per scernersi ivi, ancora al presente ne’ sobborghi<br />

di detta Terra le reliquie di magnifico<br />

anfiteatro d’opera laterizia, come altresì perchè<br />

vi si veggono scolpite in marmi memorie di<br />

famiglie illustri dell’ordine patrizio, e vi<br />

s’osservano innumerabili vestigie di caduta<br />

grandezza» 3 .


Il Gatta, a cui hanno attinto anche altri studiosi<br />

successivamente, rimane una fonte certa, perché<br />

residente nel paese contiguo di Sala, con<br />

evidente conoscenza diretta della cittadina atenese.<br />

L’osservazione delle vestigia, in questo caso,<br />

denota un riferimento alquanto puntuale per la<br />

localizzazione dell’anfiteatro: i sobborghi della<br />

cittadina, che ai tempi dello storico (come per<br />

SALTERNUM<br />

Fig. 1 - Atena Lucana, veduta da Oriente; sulla sinistra l’area dell’anfiteatro (Borgo).<br />

Fig. 2 - Atena Lucana dall’alto (da Google Earth).<br />

- 50 -<br />

quasi tutto l’Ottocento) coincidevano con gli ultimi<br />

palazzotti e le abitazioni rurali del Borgo.<br />

Sulla scorta dell’erudito salese, il barone<br />

Giuseppe Antonimi, pur non confermando la<br />

presenza della struttura ludica di età romana,<br />

riporta nel suo scritto l’esistenza dell’iscrizione<br />

che fa riferimento all’anfiteatro 4 e di cui meglio si<br />

parla in seguito. Nell’Ottocento la fortuna degli<br />

studi sulle antichità classiche portò numerosi studiosi<br />

ed eruditi più o meno noti a soffermarsi,<br />

anche se brevemente, sull’anfiteatro di Atena;<br />

uno di questi fu il Romanelli 5 , che offrì la seguente<br />

versione:<br />

«Tutto il suo recinto presenta tuttavia gli avanzi<br />

delle mura, da cui veniva circondato, e nel<br />

sito del così detto Borgo restano pur oggi gli<br />

avanzi del suo anfiteatro…» 6<br />

Ed in seguito riprese il Giustiniani:<br />

«Ella [Atena] fu antica città dei Lucani, e di qualche<br />

grandezza, e distinzione, come attestano i<br />

ruderi di molte speciose fabbriche, che vi


erano ne’ vecchi tempi, e specialmente quelli,<br />

che credonsi i fondamenti del suo anfiteatro di<br />

figura ovale» 7 .<br />

L’Albi-Rosa, erudito locale frequentemente<br />

ripreso negli studi riferiti al Vallo di Diano quale<br />

voce attendibile dell’ambito geografico, ampliò<br />

la citazione con i riferimenti epigrafici:<br />

«Tutti i geografi dell’antichità ne han fatto chiara<br />

menzione, parlando pure dei suoi Templi,<br />

dell’anfiteatro, delle feste, dei giuochi, e del<br />

conio numismatico… Divenuto Atena Romano<br />

Municipio essendovi una lapide rinvenuta sui<br />

ruderi dell’anfiteatro vicino alla casa De<br />

Marino, che mostra un segno di devozione al<br />

genio del Municipio Atenate…» 8 .<br />

Il Corcia nel suo studio sul Regno delle Due<br />

Sicilie non mancò di riportare un breve passo<br />

sull’antico monumento:<br />

«…si può supporre nondimeno che fosse allora<br />

[Atina] in qualche splendore, perché senza<br />

attribuirle la palestra, non è dubbio ch’ebbe un<br />

anfiteatro, ed è noto non solo da’ ruderi che ne<br />

rimangono con quelli della città nel piano sotto<br />

l’odierna terra di Atena, nel sinistro lato della<br />

Valle di Diano, ma anche da questa mutila epigrafe…»<br />

9 .<br />

La vicenda della diretta osservazione delle<br />

vestigia dell’anfiteatro non poteva sfuggire allo<br />

storico teggianese Stefano Macchiaroli, pur se<br />

egli nel resoconto su Atena si riferisce espressamente<br />

al teatro, e non all’anfiteatro:<br />

«Ove giace attualmente Atena, vi era probabilmente<br />

un teatro della prisca Atina, la quale, a<br />

quel che pare, era sita nel piano a piè del<br />

monte, dove la tradizione popolare la vuole, e<br />

dove, i ruderi, e gli oggetti antichi che si sono<br />

scavati e si disseppelliscono tuttora, ne rendono<br />

indubitata testimonianza” 10 .<br />

È probabile che il Macchiaroli abbia attinto<br />

all’Eterni, che pure parlò, anche se in modo confuso,<br />

di teatro romano 11 . Incertezza ripresa da un<br />

dizionario storico di fine Ottocento:<br />

“In quei tempi [Atena] ebbe monete proprie e<br />

contava molti pregiati edifizii, fra i quali primeggiavano<br />

un superbo tempio dedicato a<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 51 -<br />

Giunone Petilia, come rilevasi dalle lapidi, con<br />

iscrizioni ivi scoperte, ed un teatro od anfiteatro,<br />

i cui ruderi veggonsi ancora oggidì vicino<br />

alla Croce al Borgo.” 12<br />

Ancora sul cadere del secolo 13 e prima dei<br />

rilievi del Curto, un altro erudito lucano, Michele<br />

Lacava, si soffermò sulla storia di Atena in antichità:<br />

«Di edifizii pubblici, le iscrizioni non parlano;<br />

ma naturalmente la città, dovè avere teatri ed<br />

anfiteatri, il foro, le terme, e pubblici condotti<br />

di acqua» 14.<br />

In realtà il Lacava appare ricognitore<br />

d’antichità più intenzionato a smentire le leggendarie<br />

origini dell’antico nome di Atena che a rilevarne<br />

attentamente le vestigia; in questo caso<br />

commette l’errore di confondere ancora una<br />

volta la presenza del teatro con l’anfiteatro.<br />

Infatti in un passo del suo scritto riporta:<br />

Fig. 3 - Atena Lucana con lo sfondo del Vallo di Diano.<br />

Fig. 4 - Atena Lucana, veduta aerea del Largo Borgo-Braida (da Google<br />

Earth).


Fig. 5 - La Braida di Atena Lucana, sulla sin. l’area dell’anfiteatro.<br />

«Vestigia di antichi edifizii – Un edifizio, possibilmente<br />

teatro, dovè esistere nell’area che si<br />

distende dall’angolo orientale della casa<br />

Marino, ad andare verso la cappella di S.<br />

Giuseppe Murano.<br />

Con grande probabilità vi fu un anfiteatro, ove<br />

è l’attuale piazza Vittorio Emmanuele, scoverto<br />

con lo scavo delle fondazioni della casa<br />

Caporale, nel 1866» 15 .<br />

Pur volendo ammettere che le strutture successivamente<br />

osservate dal Curto fossero di un<br />

teatro, anziché di un anfiteatro, resterebbe da<br />

esaminare l’ipotesi di un’ulteriore struttura ludica<br />

(in questo caso dell’anfiteatro) in un’area prossima<br />

(la piazza Vittorio Emanuele) al Largo Borgo-<br />

Braida; però nessun altro studioso ne fa menzione.<br />

Le ipotesi di un ritrovamento archeologico<br />

nel tracciare le fondazioni della casa Caporale<br />

riportano, secondo il Curto, ad un tempio pagano<br />

dedicato a Giove 16 . Si presenta qui una chiara<br />

discordanza tra quanto asserito dai due maggiori<br />

studiosi di Atina: mentre il Lacava annota il<br />

rinvenimento dell’anfiteatro a seguito dello scavo<br />

di fondazione della casa Caporale nel 1866, il<br />

Curto invece narra che nello stesso anno il sito<br />

su cui insisteva la croce su colonna (il Largo<br />

Borgo-Braida) posta sui resti dell’anfiteatro, fu<br />

‘appianato’ dal maggiore Pessolani. La nota discordante<br />

sui due edifici dell’antica Atina riportata<br />

dal Lacava appare ancora più evidente dai<br />

passi stampati nell’ultima parte del suo volume,<br />

che citano le memorie antiche di Atena Lucana,<br />

tra cui l’anfiteatro. Da un antico manoscritto 17 , di<br />

cui l’autore non fornisce dettagli precisi della collocazione<br />

archivistica, si rileva che:<br />

«Ove oggi dicesi il Borgo, eravi un nobile e<br />

sontuoso anfiteatro, che serviva per la celebra-<br />

SALTERNUM<br />

- 52 -<br />

zione di pubblici spettacoli, che si facevano in<br />

quegli antichi tempi: che ciò sia vero, non solo<br />

si rileva da pochi segni, che pur ora, vi si veggono,<br />

ma ancora giova qui riportare una iscrizione<br />

trovata in un marmo, che tra gl’altri molti<br />

va disperso ne’ poderi Atenesi» 18 .<br />

Non vi è dubbio che la memoria a noi più<br />

vicina, e probabilmente la più autentica nella<br />

puntuale descrizione, sia quella del Curto. Egli<br />

nella cronaca sulle scoperte di Atena antica<br />

riserva particolare attenzione all’anfiteatro, segno<br />

che la ricognizione diretta delle strutture<br />

superstiti fu accompagnata da un ipotetico rilievo<br />

metrico e descrittivo:<br />

“Oltre a che, ultimamente, nel 1892, dovette il<br />

Municipio attuare la strada Borgo-Braida, e,<br />

nello scavamento uscì per intero a luce<br />

l’Anfiteatro, consistendo in due paralleli semicircolari<br />

muraglioni, per otto metri l’uno distante<br />

dall’altro, racchiudenti un’area capiente per<br />

migliaia di persone, e della spessezza ognuno<br />

oltre a due metri; il primo alto circa 40 palmi, ed<br />

intorno tutto finestroni alla metà dell’altura di<br />

esso, da cui, mediante grossi gradoni, si discendeva<br />

nell’area; ed il secondo di minore spessezza,<br />

era costruito tutto ad archi fino al suolo,<br />

sotto i quali corrispondevano i gradoni, che partivano<br />

dai finestroni del primo muro. Insomma<br />

l’anfiteatro occupava l’intera piana largura o<br />

piazzale che ora si trova innanzi al palazzo<br />

Marino e tira fino alla Cappella di S. Giuseppe<br />

ed alle case Mango; e la sua area o suolo era<br />

costruita a selciato di ben connesse e regolate<br />

pietre, da sembrare ordinario mosaico.” 19 .<br />

Lo studioso atenese porse le sue rimostranze<br />

al Municipio locale per la conservazione del<br />

monumento, ma la sua richiesta non ebbe seguito;<br />

il Curto annota successivamente dei preziosi<br />

riferimenti di carattere storico, congruenti con<br />

l’attuale toponomastica:<br />

«Forse all’epoca in cui, cioè nel medio Evo,<br />

l’Anfiteatro non agiva più, era stato rovistato,<br />

per cui niente più si vedeva conservato, di fossetti,<br />

colonnato ed altro.<br />

Proprio dove corrispondeva il centro dell’area,<br />

nei primi secoli del cristianesimo, per<br />

un’antichissima Bolla Pontificia, riportata dalla


Storia Ecclesiastica del Corbacher e da noi<br />

riscontrata, l’allora antico Municipio vi eresse<br />

sopra tre circolari e grandi gradoni di pietra,<br />

una colonna a croce di finissimo marmo, bene<br />

architettata e così connessa da sfidare i secoli,<br />

a base della quale grandissima croce, l’effigie<br />

di Atteone con l’iscrizione: Ego sum Acteon<br />

ecc., allora favoloso emblema Municipale.<br />

Imperocchè la Bolla prescriveva che, dovunque<br />

fossero stati anfiteatri, si avesse dovuto<br />

impiantare la Croce; ed in Atena, a cominciare<br />

dall’anno 500 circa dell’Era volgare, vi rimase<br />

fino al 1866, quando venne tolta, e fatto appianare<br />

quel sito, sotto il Sindacato del Maggiore<br />

Giuseppemaria Pessolani, uno dei mille di<br />

Marsala.<br />

Sicchè, a conchiudere, abbiamo la dimostrazione<br />

indubbia, avere avuto anche l’Anfiteatro<br />

l’antica nostra Atina» 20 .<br />

Un punto fermo sul quale si è generato il<br />

dubbio tra gli scrittori antichi se si fosse trattato<br />

di teatro o anfiteatro, si traspone nella reale presenza<br />

degli edifici entrambi collocati all’interno<br />

della forma urbis di Atina in epoca romana. A tal<br />

proposito viene in ausilio all’argomento nuovamente<br />

il Curto:<br />

«Evvi chi vi ammettè il solo Anfiteatro, chi l’uno<br />

e l’altro, cioè Teatro e Anfiteatro; e non poteva<br />

mancare in una tanto grandiosa città come<br />

Atina» 21 .<br />

Circa un decennio dopo la stampa del volume<br />

di Giovan Battista Curto, il Giliberti, attento<br />

descrittore delle antichità del Vallo di Diano,<br />

confermò quanto detto dal primo erudito:<br />

«Fra gli altri monumenti Atena ebbe anche<br />

l’anfiteatro, ammesso da quasi tutti gli archeologi<br />

ed una iscrizione lapidaria, venuta a luce, ne<br />

fa fede. Ed infatti, una città grandiosa e guerriera<br />

non poteva essere priva di un luogo dove si<br />

esercitavano i ludi gladiatorii. Nel 1882 riattando<br />

il Municipio la strada Borgo, che conduce<br />

alla Braida, nello scavare uscirono interamente<br />

a luce i ruderi dell’anfiteatro, consistenti in due<br />

muraglioni semicircolari paralleli, racchiudenti<br />

un’area capiente per migliaia di persone» 22 .<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 53 -<br />

Fig. 6 - Atena Lucana, lo stemma di Atteone con il tronco di colonna<br />

marmorea.<br />

Fig. 7 - Atena Lucana, Largo Garibaldi ove è collocato lo stemma di<br />

Atteone, con tronco di colonna marmorea.<br />

In realtà il Giliberti non fa che ripetere testualmente<br />

ed in forma abbreviata quanto asserito dal<br />

Curto, ma pur se di testimonianza secondaria<br />

trattasi, val la pena ricordare che la dovizia di<br />

ricerca del Giliberti porta conferma alle tesi del<br />

Curto, che allo stato attuale risultano le più<br />

accreditate e veritiere. Ciò al fine di dare sostegno<br />

all’ipotesi che di anfiteatro si debba parlare<br />

più che di teatro, ciò stante la confusione dell’esistenza<br />

nel medesimo punto topografico dell’u-


Fig. 8 - Atena Lucana, Largo Borgo-Braida (disegno dell’Autore). A sin. la<br />

cappella del Purgatorio.<br />

na o dell’altra struttura, entrambe di carattere teatrale.<br />

L’eco delle note di Curto, ma certamente<br />

più dello scavo di fine Ottocento effettuato nel<br />

Borgo, contribuì alla diffusione tra gli storici dell’epoca<br />

della ripresa d’interesse attenta ed analitica<br />

sulle antichità atenesi, dopo alcuni decenni<br />

d’abbandono. Il Racioppi nella sua opera sulla<br />

Lucania antica, a proposito dell’anfiteatro, riporta<br />

le seguenti parole:<br />

«Ivi [Atena Lucana] sono ancora le reliquie di<br />

antiche costruzioni, tra cui si riconoscono le<br />

vestigia d’un anfiteatro» 23 .<br />

A conclusione del breve sunto sulle testimonianze<br />

storiche del Sette-Ottocento, possiamo<br />

affermare con certezza che l’anfiteatro ad Atena<br />

ci fosse.<br />

Queste basi di carattere storiografico pongono<br />

ancor di più l’attenzione su un importante<br />

monumento e sulla reale consistenza dei suoi<br />

ruderi.<br />

Fonti epigrafiche false<br />

Lo studio di un’antica architettura non può<br />

prescindere dall’analisi delle fonti epigrafiche,<br />

siano esse attendibili o meno. Nel caso delle<br />

iscrizioni atenesi, si assiste ad un ampio e ricco<br />

repertorio (tra l’altro molto variegato ed assortito<br />

sulla tipologia e sul significato delle stesse) di<br />

epigrafi celebrative, funerarie e dedicatorie, tra<br />

cui due si possono riferire all’anfiteatro. Ma, pur<br />

essendo riportate da più eruditi (antichi e moderni)<br />

ed epigrafisti, le fonti incise su pietra, ad<br />

SALTERNUM<br />

- 54 -<br />

un’analisi approfondita, sono risultate false. Il<br />

Curto nella parte terza del suo studio su Atena<br />

antica 24 , traduce i versi di una dedica ad un gladiatore:<br />

«CAFFIUS BIS CONF<br />

ENSE POMPONII<br />

HIC STAT<br />

ALBA UXOR T.F.F.<br />

(Caffio due volte trafitto/ Dalla spada di<br />

Pomponio/ Qui riposa/ Sua moglie Alba mise<br />

l’urna).<br />

Note storiche.<br />

Questa epigrafe può dirsi storica e mortuaria,<br />

perché ricorda un defunto a causa dei giuochi<br />

gladiatori nell’Anfiteatro Atinate.<br />

Caffio e Pomponio erano due servi della patria,<br />

per cui fatti discendere all’arena nell’Anfiteatro,<br />

a spettacolo d’una principale solennità di<br />

quell’Atinate popolo. Quale sia stata questa festa<br />

solenne non risulta; ma era costume degli antichi<br />

popoli, in festevoli occasioni, il certame nel<br />

circo, fra gli altri barbari divertimenti.<br />

Pomponio fu il vittorioso, e, in premio, n’ebbe<br />

la manomissione. Caffio fu lo sconfitto, e morto<br />

per doppio ferimento di spada, e la moglie Alba<br />

innalzogli l’epigrafe e la tomba, vicino<br />

all’Anfiteatro.<br />

L’epoca dell’avvenimento risale all’incremento<br />

dei Lucani, e precede i primi due secoli di<br />

Roma.<br />

Quest’epigrafe è riportata da Antonini, Albirosa,<br />

Gatta ed altri, sebbene il Mommsen la reputasse<br />

apocrifa, senz’addurne la ragione.<br />

Stava fabbricata nel muro esterno della Taverna<br />

del Principe in sull’abitato, dove noi, insieme<br />

all’archeologo Pecori di Salerno, la leggemmo,<br />

pria che il tremuoto del 1857 facesse cadere la<br />

Taverna, e ridurre la detta epigrafe in frantumi» 25 .<br />

Un’altra iscrizione del seguente tenore:<br />

LVCIVS X . L . MILES R<br />

P . HONORIB . GEN<br />

MVN . SVB<br />

AMPHITEA - - - - -<br />

R . F . P . P


anch’essa falsa, secondo gli studi del Bracco 26 , fu<br />

ascritta al corpus atinate, insieme alla prima, da<br />

altri studiosi dell’antichità, tra i quali l’Antonini<br />

(che osservava a suo tempo entrambe le epigrafi<br />

sui muri delle case dei signori Deliunettis, successivamente<br />

Cicchetti) 27 . L’appartenenza alle<br />

dediche celebrative non attendibili 28 non inficia il<br />

discorso sulla presenza stessa dell’anfiteatro di<br />

Atena Lucana 29 , pur se la probabilità (per rimanere<br />

in ambito di incertezza rispetto alle recenti<br />

acquisizioni di falsità delle epigrafi) che queste<br />

fossero state architettate ad hoc dal primo studioso<br />

che le analizzò, sembra alquanto sostenibile.<br />

In un’epoca in cui il senso di appartenenza alle<br />

proprie radici e il persistente attaccamento al<br />

municipalismo influenzava decisamente gli scritti<br />

degli autori locali, rimarcare la storia e<br />

l’esistenza di monumenti di età classica della<br />

propria cittadina serviva quasi ad offrire vigore<br />

all’amor patrio. Di certo non possiamo affermare<br />

con esattezza che le iscrizioni siano del tutto<br />

false (non essendo visibili e non potendo accertare<br />

l’assoluta fedeltà di chi le ha studiate).<br />

Deduzioni ed ipotesi ricostruttiva<br />

L’anfiteatro di Atena, come gli altri edifici di<br />

questo genere, era destinato a duelli tra gladiatori<br />

e a venationes, cioè alla cattura di animali feroci<br />

con relativo combattimento tra uomini e<br />

bestie. I giochi, ad Atina, con molta probabilità<br />

venivano organizzati in occasione di funerali (i<br />

cosiddetti munera) con cerimonie celebrate per<br />

rendere onore alla memoria dei defunti. In seguito<br />

divennero lo spettacolo preferito dai Romani<br />

con l’usanza diffusa da parte di cittadini ricchi e<br />

desiderosi di onori di assumersi molte delle<br />

spese occorrenti agli spettacoli altrimenti spettanti<br />

alle città; di conseguenza il favore del pubblico<br />

fece dei giochi gladiatori uno strumento di<br />

propaganda politico-elettorale per la classe dirigente.<br />

In un territorio ove l’occupazione militare<br />

romana non era stata ben vista dagli indigeni (si<br />

pensi alla massiccia utilizzazione della centuriazione<br />

per l’intero territorio del Vallo di Diano), il<br />

divertimento ludico del teatro e dell’anfiteatro fu<br />

un pretesto per i cittadini romani trapiantati in<br />

loco per attirarsi la simpatia della gente locale.<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 55 -<br />

Figg. 9 - 10 - 11 - Fasi costruttive di un anfiteatro romano (disegni<br />

dell’Autore).<br />

Un elemento alquanto usuale che caratterizza<br />

i maggiori monumenti antichi di Atina, tra cui<br />

l’anfiteatro, è la presenza della pietra quale materiale<br />

da costruzione, in un’area (il Vallo di Diano<br />

e la Lucania) ove i reperti di epoca romana<br />

riconducono il più delle volte all’utilizzo massiccio<br />

della stessa, sia per le opere pubbliche che<br />

per le abitazioni rurali e cittadine. Non abbiamo<br />

però riferimenti certi circa le componenti dell’ossatura<br />

strutturale del monumento, se fosse costituita<br />

da laterizi (dei quali pure parla il Curto a


Fig. 12 - L’anfiteatro di Grumentum (disegno dell’Autore).<br />

Fig. 13 - Atena Lucana, la cappella di San Giuseppe al Borgo.<br />

proposito di altri monumenti dell’antica Atina),<br />

oppure da opus caementicium, con il quale si<br />

presenta invece il corpo centrale del Mausoleo di<br />

Caio Utiano Rufo a Polla, unica struttura di età<br />

romana di una certa mole tuttora visibile nell’area<br />

valligiana. Per simili tipologie di anfiteatro in<br />

area campano-lucana si assiste ad un proliferare<br />

dell’uso dell’opus reticulatum e dell’opus latericium<br />

con cui erano strutturate le ossature portanti<br />

dei monumenti pubblici e privati.<br />

L’anfiteatro dell’antica Capua è costituito da<br />

un’arena circondata da tre ordini di fasce di mattoni<br />

rivestiti di marmo e travertino, che testimonia<br />

il doppio utilizzo di materiali: meno nobili<br />

per le strutture, di elevato pregio (marmorei o di<br />

travertino) invece per i paramenti. Per quanto<br />

riguarda l’anfiteatro di Venosa, sappiamo che fu<br />

costruito (come per la maggior parte di questi<br />

edifici) in zona periferica rispetto all’abitato, per<br />

permettervi un maggior flusso dei materiali edilizi<br />

da costruzione e per facilitare l’accesso degli<br />

SALTERNUM<br />

- 56 -<br />

spettatori provenienti dalle zone rurali. Le strutture<br />

primarie dell’edificio sono state realizzate in<br />

opus reticulatum con utilizzo di cubilia dai 6 agli<br />

8 cm, ciò soprattutto nelle sostruzioni del primo<br />

anello; le strutture murarie di un probabile<br />

restauro del monumento sono invece eseguite in<br />

diverse tecniche edilizie, tra cui prevale l’utilizzo<br />

del laterizio e di pietre calcaree irregolari con<br />

faccia più o meno lisciata messa di taglio 30 .<br />

Analoga situazione si rileva a Grumentum, con<br />

l’utilizzo consistente dell’opus reticulatum.<br />

Quanto all’individuazione topografica dell’anfiteatro<br />

nella parte periferica della città, ancora<br />

una volta la somiglianza con Grumentum appare<br />

evidente; qui, per la costruzione, venne scelta<br />

l’estremità a Nord-Est dell’impianto urbano, sia<br />

per sfruttare il dislivello esistente tra le terrazze<br />

morfologiche del sito, sia per facilitare l’afflusso<br />

e il deflusso degli spettatori, senza intralciare la<br />

circolazione all’interno della città 31 . Ad Atena<br />

Lucana invece il sito dell’anfiteatro è posto a<br />

Sud-Est rispetto al nucleo abitato indigeno, nel<br />

vasto pianoro su cui si ampliò la primitiva cittadina<br />

in età romana. In quest’area ed in quelle<br />

prossime si addensano infatti sia i ritrovamenti<br />

che le descrizioni storiche sulla presenza di<br />

numerosi edifici pubblici e privati, dalle terme ai<br />

templi e alle dimore aristocratiche.<br />

Se le fonti storiche dei secoli XVIII e XIX<br />

costituiscono una valida base per analizzare la<br />

presenza a vista dell’anfiteatro, dalla sua costruzione<br />

ai lavori della metà Ottocento, la descrizione<br />

del Curto rimane l’unica ‘voce’ a cui poter<br />

attenersi al fine di ricostruire l’aspetto, la struttura<br />

e le dimensioni dell’anfiteatro atinate. I due<br />

paralleli muraglioni semicircolari osservati dall’erudito<br />

atenese dovrebbero coincidere con le<br />

strutture portanti dell’anfiteatro stesso e la misura<br />

in altezza del primo (il più esterno quasi certamente)<br />

pari a circa 40 palmi, ossia intorno ai<br />

dieci metri 32 , lascia supporre che le sostruzioni<br />

del monumento riconducano ad un’architettura<br />

di età classica ben conservata, pur sepolta per<br />

metà della sua area sotto le attuali abitazioni. Se<br />

così fosse, l’anfiteatro di Atina costituirebbe uno<br />

dei reperti meglio conservati della Lucania antica<br />

e del territorio a Sud di Salerno. Un termine di<br />

paragone, sul quale ‘testare’ le misure dell’anfi


teatro atinate per verificarne l’attendibilità, si<br />

ritrova ancora una volta nel monumento di<br />

Grumentum; è evidente il parallelismo non solo<br />

per la vicinanza delle due città romane, ma<br />

anche per la verosimile medesima importanza<br />

che le stesse ricoprivano all’interno della Lucania<br />

classica. Oserei dire, stessa importanza politicoeconomica,<br />

stessa tipologia di edifici, per cui se<br />

il primo assunto (ai quali gli storici hanno già<br />

dato affermativa risposta) fosse vero, ne scaturirebbe<br />

la validità del secondo. Un’analisi attenta<br />

dell’anfiteatro di Grumentum secondo i parametri<br />

metrici e costruttivi trova corrispondenza nelle<br />

misure rilevate dal Curto; infatti la distanza tra i<br />

due muri ossia quello esterno (largo proprio due<br />

metri circa e provvisto di contrafforti) e l’altro<br />

interno che sorregge il corridoio anulare (di<br />

minore spessore) è di otto metri e gli stessi muraglioni<br />

sono strutturati ad arcature, secondo la<br />

tipologia riservata a tali strutture. In effetti i due<br />

muri osservati dal Curto si identificavano con le<br />

sostruzioni della cavea, di cui lo stesso ha potuto<br />

vedere i grossi gradoni che scendevano nell’area<br />

e i finestroni. Si faccia attenzione però che le<br />

parole dello studioso atenese contengono<br />

comunque delle incertezze descrittive, rilevabili<br />

ad esempio dalla confusione sulla misura del<br />

secondo muro (vicino al corridoio anulare), che<br />

in prima analisi accomuna al primo nella profondità<br />

e poi specifica esser di minore spessore.<br />

Incerta appare la definizione dell’area costruita a<br />

selciato, anche se l’ipotesi più probabile è che si<br />

tratti dell’arena, la cui tessitura pavimentale poteva<br />

dare l’effetto del mosaico, se vista da lontano<br />

(di contro le gradinate potevano essere in blocchi<br />

di pietra o al limite in opus caementicium).<br />

Una simile supposizione trova conferma nell’anfiteatro<br />

nocerino, ove uno degli ambulacri presenta<br />

il piano di calpestio in opus signinum ossia<br />

in un impasto di cubetti minuscoli di marmo e<br />

pietre con l’utilizzo di pozzolana e sabbia.<br />

Analizzando la struttura dell’anfiteatro di<br />

Grumentum risalta il rispetto dei canoni classici<br />

dell’architettura assegnati a questa tipologia con<br />

i quattro ingressi principali, dei quali due riservati<br />

alle autorità e gli altri varcati dalle persone più<br />

ragguardevoli; i restanti accessi (diagonali) erano<br />

utilizzati dalla plebe. In questa disposizione si<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 57 -<br />

rende evidente come gli ingressi, nel processo<br />

cronologico di disfacimento della struttura attraverso<br />

i secoli, siano le parti più labili ed esposte<br />

al crollo; tale riferimento potrebbe confermare<br />

l’ipotesi, più avanti esposta, che le differenze di<br />

quota intorno all’ellisse dell’anfiteatro di Atena<br />

corrispondano esattamente a queste parti dell’antica<br />

architettura. L’anfiteatro grumentino si è<br />

strutturato in origine in una forma che solo in<br />

apparenza è ellittica: in realtà è la risultante di<br />

una successione di spezzate ad angoli ottusi 33 . È<br />

da notare infine, che pur presentandosi simile ai<br />

grandi anfiteatri di età imperiale, l’impianto si<br />

compone di un’arena priva di ambienti ipogei,<br />

mentre la stessa è circoscritta da un corridoio<br />

anulare ricoperto da una pseudo-volta a pseudobotte.<br />

La sua struttura portante è caratterizzata<br />

inoltre da due sistemi costruttivi diversi, con gradinate<br />

che appoggiano direttamente sui vani di<br />

sostruzione 34 . Dagli ingressi principali accedevano<br />

all’arena i gladiatori, ossia dai vani posti sull’asse<br />

maggiore oppure dal corridoio anulare<br />

interno; i percorsi per il pubblico erano distinti<br />

in accessi alle gradinate e al podio, a cui si perveniva<br />

dalle scalinate a due rampe disposte a<br />

raggiera lungo l’anello ellittico 35 . La mancanza<br />

delle complesse strutture di sostruzioni, utilizzate<br />

come ambienti di servizio o per la custodia<br />

degli animali (tipiche di anfiteatri quali Pozzuoli,<br />

Capua o lo stesso Colosseo), rimanda ad un<br />

periodo anteriore allo sviluppo massiccio di questo<br />

tipo di costruzioni (in modo simile all’anfiteatro<br />

di Nola). Le evidenti somiglianze tecnicocostruttive<br />

tra gli anfiteatri di Grumentum ed<br />

Atina fanno supporre un identico ambito cronologico.<br />

L’erronea confusione con il teatro<br />

Pur se i riferimenti descrittivi ed eruditi riconducono<br />

per maggior voce alla presenza di un<br />

anfiteatro e non di un teatro nell’area del Largo<br />

Borgo-Braida, per dovere d’esattezza bisogna<br />

spendere qualche riga sulla confusione generatasi<br />

nel tempo tra la presenza dell’uno o dell’altro<br />

monumento 36 . Una distinzione precisa può essere<br />

elaborata alla luce di due fattori di carattere<br />

architettonico e topografico: innanzi tutto la<br />

struttura portante di un teatro differisce, anche se


non vistosamente, da quella di un anfiteatro.<br />

Infatti, in quest’ultimo i setti portanti radiali sono<br />

intervallati da murature ortogonali con un passo<br />

maggiore di quegli otto metri rivelati dal Curto.<br />

L’altro elemento che smentisce l’ipotesi che si<br />

tratti di un teatro viene dalla situazione altimetrica<br />

dell’area Borgo-Braida, che si presenta con un<br />

pianoro alla medesima quota, di forma ovoidale.<br />

La presenza di un teatro avrebbe definito un’area<br />

di colmatura a semicerchio, ove l’interruzione<br />

della stessa sarebbe stata ascrivibile alla presenza<br />

della scena; tale colmatura a semicerchio in<br />

effetti non è rinvenibile nell’altimetria e nelle<br />

tracce visibili dall’alto del sito di Largo Borgo-<br />

Braida. Infine, se di teatro si fosse trattato, il<br />

Curto ne avrebbe almeno visto parte della terminazione<br />

rettilinea della scena, dato che il suo<br />

testo narra di un monumento emerso durante lo<br />

scavo «per intero a luce». Su questa ultima nota è<br />

evidente la dissonanza dal reale intendimento<br />

dell’erudito atinate; infatti il monumento non<br />

poteva di certo essere visto per intero in un’area<br />

limitata come la piazzetta antistante il palazzo<br />

Marino; in questo caso la descrizione del Curto<br />

allude al visibile accertamento di una struttura di<br />

anfiteatro, con il rinvenimento di differenti parti<br />

delle gradinate in due punti distinti ed opposti<br />

della via, ossia sul sagrato della cappella di San<br />

Giuseppe e davanti alle case dei Mango. In ogni<br />

caso l’incontrovertibile ‘narrazione’ di Giovan<br />

Battista Curto segna un passo notevole nella<br />

riscoperta dell’antico monumento di Atina.<br />

La ‘Croce al Borgo’: un indizio prezioso<br />

Un termine di riferimento da non scartare<br />

nello studio dell’anfiteatro atinate è la presenza<br />

dell’antica croce astile una tempo infissa nel terreno<br />

al centro del Largo antistante palazzo<br />

Marino. Del riferimento della croce su colonna<br />

abbiamo due testimonianze particolari: l’una di<br />

carattere toponomastico, riferita alla presenza<br />

della ‘Via Stretta della Croce’, che si diparte in<br />

direzione sud-est dal Largo Borgo e che segna<br />

inequivocabilmente l’antica presenza in loco di<br />

un ‘segnacolo’ religioso; l’altra di carattere monumentale,<br />

con l’attuale collocazione in Largo<br />

Garibaldi di uno rilievo rappresentante Atteone,<br />

risalente al XVIII secolo, sormontato da un tron-<br />

SALTERNUM<br />

- 58 -<br />

co di colonna in marmo di Carrara. Nella descrizione<br />

dei lavori operati sotto l’amministrazione<br />

di Giuseppe Maria Pessolani 37 , e riportata dal<br />

Curto 38 , si afferma che la croce di «finissimo<br />

marmo» sopra una colonna era posta al centro<br />

dell’arena, bene architettata e connessa da sfidare<br />

i secoli. Non sappiamo se il tronco di colonna<br />

in marmo di Carrara (di grana fine e di provenienza<br />

da cave di prima scelta) che attualmente<br />

è sostenuto dalla base con stemma settecentesco<br />

di Atteone possa essere una modesta reliquia di<br />

quell’antico ‘segnacolo’ dei primi Cristiani di<br />

Atena, ma la connessione con lo stemma civico<br />

(attuale gonfalone comunale) pur se di fattura<br />

tardo barocca, ne potrebbe convalidare l’ipotesi.<br />

Nulla però sappiamo della «grandissima croce»,<br />

che venne rimossa insieme alla sottostante<br />

colonna con gradoni di pietra, anche se una<br />

ricerca d’archivio approfondita potrebbe rivelarne<br />

indizi favorevoli, dato che la rimozione<br />

avvenne nell’anno 1866. Di certo in età medievale<br />

l’anfiteatro costituì una vera e propria cava di<br />

pietra, con sistematico saccheggio degli elementi<br />

architettonici ed il successivo reimpiego in edifici<br />

sacri e civili; tanto più che il posizionamento<br />

della croce sull’arena costituiva quasi una legittimazione<br />

per la religiosa popolazione locale alla<br />

spoliazione dell’antico monumento. Sappiamo<br />

dalle note di Luca Mandelli 39 che Atena fu distrutta<br />

da Alarico, il quale<br />

«atterrò quanto di grandioso vi era nella scorreria<br />

che fece da Roma a Reggio… sicchè appena<br />

vi si ravvisano i vestigi, di un magnifico teatro,<br />

nel quale solevano gli antichi ragunarsi per<br />

celebrarvi gli spettacoli e feste».<br />

Localizzazione topografica<br />

All’esame delle fonti storiche, della tradizione<br />

locale e dell’attenta descrizione di Giovan<br />

Battista Curto, si evidenzia che la localizzazione<br />

topografica dell’anfiteatro sia ben delineata nella<br />

piana antistante il palazzo Marino 40 , anche se<br />

un’indagine fotometrica dall’alto secondo le<br />

recenti tecnologie per il rilievo di strutture nel<br />

sottosuolo potrebbe definire con certezza la puntuale<br />

traccia dell’ellissi del grande monumento.<br />

Nello studio di altri anfiteatri sepolti in Italia e nel


esto del mondo romano, si evidenzia una traccia<br />

costante a cui potersi affidare, in ambito<br />

urbano, per la determinazione delle strutture dell’architettura<br />

ludica: la curvatura o perimetrazione<br />

ellissoidale di alcune abitazioni o strutture<br />

edilizie. Senza affrontare argomenti di carattere<br />

più ampio, sulle sovrapposizioni medievali a<br />

monumenti di età classica (quali la piazza di<br />

Lucca sulle rovine dell’anfiteatro o situazioni<br />

simili), dal rilevamento di tracce di ellissoidi sul<br />

terreno da fotografie aeree si può esaminare una<br />

ricca serie di similitudini. È noto il caso di<br />

Ancona ove solamente una piccola parte del<br />

perimetro del monumento viene marcata dalla<br />

presenza di un gruppo di edifici che ne segue<br />

l’andamento in curvatura, mentre altre costruzioni<br />

vicine, o si presentano ‘estranee’ alla traccia<br />

del perimetro ellissoidale o ne riportano discosto<br />

il parallelismo. Per rimanere in area campana,<br />

basti confrontare l’addensamento edilizio di<br />

Nocera Inferiore sull’area dell’anfiteatro, del<br />

quale si riconosce l’andamento osservando la<br />

disposizione curvilinea delle case sul lato meridionale,<br />

l’andamento curvo della via<br />

Portaromana nel tratto in cui lambisce l’ellissoide<br />

ad Est, e ad Occidente, ove l’andamento ricurvo<br />

del muro del giardino del Convento francescano<br />

di Santa Maria degli Angeli conferma quanto<br />

prima riportato 41 .<br />

Ad Atena Lucana, osservando in prima analisi<br />

il tessuto urbano, emerge con chiarezza che<br />

tutta l’area alle spalle della cappella delle Anime<br />

del Purgatorio (posta nel largo antistante il<br />

palazzo Marino) si presenta in forma frammentaria,<br />

con piccole particelle edilizie, che si dispongono<br />

a ‘ventaglio’ rispetto al largo stesso;<br />

tale curvatura, che riprende una parte di<br />

un’ipotetica ellisse, si prolunga anche verso<br />

Nord, nell’isola di abitazioni tra le vie Borgo-<br />

Braida e Roma (per intenderci, le abitazioni sulla<br />

destra delle case Mango). Del gruppo di costruzioni<br />

citate solo alcune sono strettamente sulla<br />

linea di perimetro di un’ipotetica ellisse, mentre<br />

quelle contigue ne rimarcano (in modo frammentario<br />

e disomogeneo) l’andamento verso<br />

l’esterno. Se a questa condizione ne affianchiamo<br />

un’altra di carattere altimetrico, la situazione<br />

diventa più chiara.<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 59 -<br />

Fig. 14 - Atena Lucana, la cappella delle Anime del Purgatorio al Borgo.<br />

Fig. 15 - Atena Lucana, Palazzo Marino al Borgo.<br />

Infatti sulla carta aerofotogrammetrica si può<br />

notare che l’area in questione si presenta in posizione<br />

rialzata rispetto a quella circostante.<br />

Prendendo in considerazione una quota media<br />

di 625,00 metri s.l.m. si presenta (sul suolo stradale<br />

e di campagna) un’area grosso modo corrispondente<br />

ad una macchia di forma circolare,<br />

con sfrangiamento verso Ovest, in direzione del<br />

centro indigeno antico. Tale pianoro secondo la<br />

tradizione locale sorge sull’area dell’anfiteatro e<br />

l’aspetto visivo ne conferma la validità. Anche se<br />

di labile consistenza, un filare di alberi, disposto<br />

sull’ellisse ipotetica sul retro del palazzo Marino<br />

e di alcune abitazioni contigue, potrebbero confermare<br />

il segno della curvatura dell’anfiteatro.


Una perfetta localizzazione dell’antico monumento<br />

sarebbe impossibile da stabilire in quanto<br />

le tracce sulla cartografia e le descrizioni del<br />

Curto sono contraddittorie.<br />

A conclusione del discorso, l’analisi e lo studio<br />

sulla presenza dell’anfiteatro e soprattutto<br />

sulla sua esatta ubicazione trova validità in due<br />

diverse soluzioni, frutto essenzialmente di un<br />

disegno cartografico e delle tracce precedentemente<br />

riportate. Su questi riferimenti si innestano<br />

in modo inequivocabile le descrizioni del<br />

Curto, che circoscrive i ruderi a lui visibili durante<br />

lo scavo della strada Borgo-Braida, tra il palazzo<br />

Marino, le case Mango e la cappella di San<br />

Giuseppe. Tenendo fermi questi punti di carattere<br />

storico-topografico, l’anfiteatro di Atina<br />

potrebbe avere due soluzioni differenti di orientamento:<br />

con l’asse maggiore in direzione nord -<br />

est, oppure ruotato di 70° circa in senso orario<br />

(si confrontino i due aerofotogrammi con<br />

sovrapposizione dell’ellisse planimetrica del<br />

monumento). Nella prima versione (la più credibile),<br />

il centro dell’arena si collocherebbe all’inizio<br />

di Via Stretta della Croce, nel punto antistante<br />

il palazzo Marino, mentre le tracce dell’ellissoi-<br />

SALTERNUM<br />

- 60 -<br />

de verrebbero a conformarsi a quelle già descritte<br />

precedentemente (abitazioni in curva, filare di<br />

alberi, suolo rialzato) con la conferma della presenza<br />

di strutture dell’anfiteatro sull’area di sedime<br />

dello scavo di fine Ottocento. Nella seconda<br />

ipotesi, con tracce dell’ellissoide più labili, ci troveremmo<br />

con l’arena collocata sul Largo Borgo-<br />

Braida, con centro esattamente sul sagrato della<br />

Cappella delle Anime del Purgatorio, mentre<br />

l’abbassamento della via in direzione est verrebbe<br />

confermato dalla presenza di uno dei due<br />

accessi (sull’ellisse maggiore) all’edificio antico,<br />

quindi maggiormente soggetto a crollo, con relativa<br />

diminuzione della quota del piano stradale.<br />

In questo secondo caso la maggior parte delle<br />

strutture si celerebbe sotto l’abitato urbano. In<br />

ognuna delle due ipotesi ci troveremmo di fronte<br />

ad un caso eccezionale di ‘archeologia moderna’,<br />

la cui unica certezza potrebbe essere offerta,<br />

più che da intenzionali saggi di scavo, da indagini<br />

fotografiche aeree secondo le recenti strumentazioni<br />

di rilevamento altimetrico, che potrebbero,<br />

almeno in parte, rivelare la forma, la geometria<br />

e le dimensioni di un antico monumento di<br />

Atina romana.


NOTE<br />

1 CURTO 1901, p. 40.<br />

2 Una precedente analisi di studio su Atina e il suo anfiteatro<br />

è ampiamente elaborata da parte dello scrivente nella tesi di<br />

laurea Il Vallo di Diano, morfologia e fasi insediative, discussa<br />

presso il Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, a.a.<br />

2001/2002 (Relatore: prof. G. Calza). Parziali approfondimenti<br />

sull’argomento sono stati pubblicati in AMBROGI 1994.<br />

3 GATTA 1723, p. 38.<br />

4 ANTONINI 1984 (1784 1 ), p. 116.<br />

5 ROMANELLI D., Antica topografia istorica del Regno di Napoli,<br />

Vol. I, p. 425, in LACAVA 1893, pp. 88-89.<br />

6 IDEM, Ibidem, p. 89.<br />

7 GIUSTINIANI 1804.<br />

8 ALBI-ROSA 1840, pp. 56-57.<br />

9 CORCIA (Vol. III, p. 96), in LACAVA 1893, p. 95. Di seguito (con<br />

rimando al Lacava), l’Autore riporta l’iscrizione dichiarata<br />

apocrifa dal Mommsen.<br />

10 MACCHIAROLI 1995 (1868 1 ), p. 38.<br />

11 ETERNI 1982, p. 67. Lo studioso sanrufese così riporta: «dove<br />

era ad Atena un nobile, ed antico teatro, del cui pochi vestigi<br />

si vedono, nel quale celebravano i Gentili Romani le loro<br />

feste, e giochi». Nella nota di approfondimento al testo, V.<br />

Bracco specifica che si tratta di anfiteatro, dato che lo stesso<br />

Eterni annotava la presenza di feste e giochi, dimostrando<br />

quindi la confusione o l’erronea trascrizione sulla tipologia<br />

del monumento.<br />

12 L’Italia sotto l’aspetto fisico, storico, artistico e statistico, Vol.<br />

I, lettera A, in LACAVA 1893, p. 99.<br />

13 Tra i grandi nomi degli eruditi viaggiatori stranieri, che citarono<br />

la presenza dell’anfiteatro di Atena Lucana, figura<br />

Francois Lenormant, che nella sua pubblicazione A travers<br />

l’Apulie et la Lucanie, II, Paris 1883, p. 85, fa un breve cenno<br />

al monumento. Di altre opere antiche (NISSEN, Italische<br />

Landeskunde e Friedlander, Darstellungen aus der<br />

Sittengeschichte Roms) di cui non mi è stato possibile effettuare<br />

un’attenta consultazione, si fa riferimento nell’attento<br />

studio curato da Vittorio Bracco, Inscriptiones Italiae,<br />

Volumen III-Regio III, Roma 1974, p. 79. Lascio ad approfondimenti<br />

maggiori la consultazione dei pochi riferimenti<br />

(spesso solo citazioni) non inseriti nel presente studio, come<br />

pure la disamina di documenti ottocenteschi di carattere<br />

locale.<br />

14 LACAVA 1893, p. 50. In nota lo studioso riporta, con incontrovertibile<br />

prova dei dubbi sulla topografia antica di Atina:<br />

«Nell’attuale paese vicino all’abitazione del signor Marini<br />

sono appariscenti gli avanzi di un anfiteatro» (Ivi, n. 2).<br />

15 IDEM, Ibidem, p. 73.<br />

16 CURTO 1901, p. 41.<br />

17 Isquarcio delle antichità di Atena, tratto da un ragguaglio<br />

Topografico della medesima, composto in grazia di chi ansioso<br />

fosse saperne le sue vaghezze, ms. ined. conservato dalla<br />

Società di Storia Patria di Napoli, in LACAVA 1893, p. 84-87.<br />

18 LACAVA 1893, p. 87. L’iscrizione viene riportata nello stesso<br />

saggio di Lacava come apocrifa. L’aver annoverato il testo<br />

dal Lacava tra quello del Troyli e l’altro dell’Antonini, colloca<br />

l’epoca del passo inedito probabilmente alla seconda<br />

metà del XVIII secolo.<br />

19 CURTO 1901, p. 40.<br />

20 IDEM, Ibidem, pp. 40, 41.<br />

21 IDEM, Ibidem, p. 38; lo studioso riporta anche la descrizione<br />

del materiale rinvenuto, tra cui un’eloquente iscrizione<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 61 -<br />

(poi ricondotta alla presenza del foro), nella parte alta dell’abitato<br />

antico (sopra la Piazza) che riconduce, secondo la<br />

fonte, ad una struttura architettonica teatrale. Sul teatro, probabilmente<br />

costruito ‘alla greca’ sull’acropoli cittadina, lo<br />

stesso Curto discorre a p. 38, con il ritrovamento di frammenti<br />

di laterizio formanti delle colonnette.<br />

22 GILIBERTI 1913, pp. 27-28.<br />

23 RACIOPPI 1970, p. 499.<br />

24 L’epigrafe viene riportata anche dal BRACCO 1974, pp. 166-<br />

167, insieme all’altra del seguente tenore: LVCIUS X . L .<br />

MILES R/ P . HONORIB . GEN/ MVN . SVB/ AMPHITEA - -<br />

-/ R . F . P . P; le due iscrizioni vengono ritenute false, perché<br />

non corrispondono le citazioni di importanti eruditi antichi,<br />

quali il Mommsen, il Corcia e l’Antonini e quelli locali<br />

(Lacava, Albirosa, Macchiaroli e Curto). La tradizione storica<br />

locale (Curto), collocava un’iscrizione sul muro esterno della<br />

Taverna del Principe nell’abitato e l’altra nell’agro ove anticamente<br />

si trovava una villa di un militare romano.<br />

25 CURTO 1901, pp. 85-86.<br />

26 BRACCO 1974, pp. 166-167. Il Lacava la riporta come apocrifa<br />

(LACAVA 1893, p. 48).<br />

27 ANTONINI 1984 (1797 1 ), p. 116.<br />

28 BRACCO 1974, pp. 166-167.<br />

29 Come rimarca lo stesso BRACCO 1974, p. 167 ed anticipa<br />

nella presentazione delle iscrizioni di Atena Lucana (IDEM,<br />

Ibidem, p. 79).<br />

30 <strong>DI</strong>SCEPOLO 2007, p. 117 ss.<br />

31 BOTTINI 1997, p. 217.<br />

32 Il riferimento per la conversione delle misure è stato attinto<br />

da <strong>DI</strong> DONATO 1997, p. 18 (cap. sulle antiche misure in uso<br />

nel Vallo di Diano). Il palmo in area valligiana corrispondeva<br />

a cm 26, 4550.<br />

33 BOTTINI 1997, p. 217.<br />

34 BALLETTI et Alii, 2002. Cfr. inoltre Gli anfiteatri in Basilicata<br />

2002.<br />

35 II, Ibidem.<br />

36 Incertezza che ha coinvolto anche la studiosa atenese<br />

D’ALTO 1985, pp. 90 e 90 bis. Al volume della D’Alto si<br />

rimanda per una comprensione globale della storia antica di<br />

Atena Lucana e dei suoi ritrovamenti, giusta l’affidabilità analitica<br />

e descrittiva della studiosa, che per anni ha ricoperto il<br />

ruolo di Ispettrice Onoraria dei Monumenti atenesi, soprintendendo<br />

agli scavi degli anni ’60 e successivi effettuati nel<br />

paese.<br />

37 Figlio di Saverio Arcangelo e di De Stefano Serafina,<br />

nacque ad Atena Lucana il 27 febbraio del 1807 ed ivi<br />

passò a miglior vita il 23 novembre 1876. Fu tra i rivoltosi<br />

del 1848 nel Vallo di Diano, marciando alla testa di<br />

duemila volontari contro l’esercito borbonico; processato<br />

e condannato a morte, gli venne commutata la pena in<br />

18 anni di carcere e nel 1852 venne liberato, trovando<br />

rifugio in Inghilterra. Ritornato in Italia, nel 1860 si arruolò<br />

al seguito di Garibaldi e nella battaglia di Milazzo fu<br />

promosso capitano. Ferito nella marcia dei ‘Mille’ in<br />

Sicilia venne ricoverato in diversi ospedali, dai quali uscì<br />

inabile, con l’assegnazione di una pensione. Tornò nella<br />

natia Atena Lucana e ne fu nominato sindaco, amministrando<br />

il Comune con saggezza ed operosità. Nel paese<br />

si trova tutt’ora una targa a lui dedicata, (dal sito:<br />

www.pisacane.org/documenti/1860/Pessolani...) Del<br />

Pessolani parla anche il LACAVA 1893, p. 74.<br />

38 CURTO 1901, p. 41.


39 MANDELLI L., La Lucania sconosciuta, ms. della Biblioteca<br />

Nazionale di Napoli, tratto da LACAVA 1893, p. 57.<br />

40 Durante uno scavo in loco di circa quindici anni fa per i<br />

lavori ad una conduttura idrica, nella parte di strada prospiciente<br />

il palazzo delle Suore (accanto a quello Marino), il Sig.<br />

Michele Ciro Langone, ebbe modo di osservare un grosso<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

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Diano, ossia descrizione istorico-topografica della medesima,<br />

Napoli.<br />

AMBROGI M. 1994, Monumenti sepolti. L’anfiteatro atinate, in<br />

“Il Saggio”, IX, n° 101.<br />

ANTONINI G. 1984 (17971 ), La Lucania, discorsi, Napoli (rist.<br />

anast. Bologna).<br />

BALLETTI C. et Alii, L’arena di Grumentum: misura, geometria,<br />

forma, Università IUAV di Venezia, Laboratorio di<br />

Fotogrammetria (testo tratto da Internet).<br />

BOTTINI P. 1997 (a cura di), Il Museo Archeologico dell’Alta<br />

Val D’Agri, Lavello (PZ).<br />

BRACCO V. 1974, Inscriptiones Italiae, Volumen III-Regio III,<br />

Roma.<br />

CURTO G. B. 1901, Notizie storiche sulla distrutta città di<br />

Atinum Lucana dai tempi incerti fino al secolo XIX, Sala<br />

Consilina (SA).<br />

D’ALTO E. 1985, Atena Antica, Galdo degli Alburni (SA).<br />

<strong>DI</strong> DONATO F. P. 1997, Trucioli della memoria, Salerno.<br />

<strong>DI</strong>SCEPOLO V. 2007, L’anfiteatro di Venosa, in “Basilicata<br />

Regione Notizie”, Periodico del Consiglio Regionale di<br />

Basilicata, n. 117, Potenza.<br />

SALTERNUM<br />

- 62 -<br />

lastrone ricurvo, probabilmente testimonianza dell’antico<br />

monumento ivi sepolto. Alla cortesia del sig. Langone devo<br />

la consultazione del prezioso testo di Michele Lacava.<br />

41 Le note sull’anfiteatro di Nuceria sono osservazioni personali<br />

tratte dalla cartografia cittadina.<br />

ETERNI P. 1982, La Descrizione seicentesca della “Valle di<br />

Diana”, a cura di V. Bracco, Napoli.<br />

GATTA C. 1723, La Lucania illustrata, Napoli.<br />

GILIBERTI L. 1913, Le antiche civiltà della Valle di Tegiano,<br />

Napoli.<br />

GIUSTINIANI L. 1804, Dizionario geografico ragionato del<br />

regno di Napoli, Napoli, s.v. Atena Lucana.<br />

Gli anfiteatri in Basilicata, Città e spettacoli in età romana<br />

2002, Catalogo della Mostra del Museo Archeologico<br />

dell’Alta Val d’Agri di Grumento Nova, a cura del Ministero<br />

per i Beni e le Attività Culturali, Matera.<br />

MACCHIAROLI S. 1868, Diano e l’omonima sua valle, Ricerche<br />

storico-archeologiche, Napoli (rist. anast. - con L’ambone<br />

della cattedrale di Diano, Napoli 1874 -, Teggiano (SA)<br />

1995).<br />

RACIOPPI G. 1970 (19021 ), Storia dei popoli della Lucania e<br />

della Basilicata, Vol. I, Roma (rist. anast., Roma).


Orazio, nel corso della sua produzione<br />

poetica, fa numerosi riferimenti<br />

alle città della costa e dell’entroterra<br />

campano. Il poeta venosino aveva conoscenza<br />

diretta di molte località, soprattutto di quelle<br />

situate nell’area flegrea; le puntuali allusioni del<br />

poeta, perciò, rivelano aspetti molto interessanti<br />

per la ricostruzione della storia dei centri campani.<br />

Nella divisione che Augusto fece dell’Italia, la<br />

Campania formò la Regio I insieme con il<br />

Latium vetus ed il Latium adiectum; in seguito<br />

comprese anche il territorio degli Irpini e parte<br />

del Sannio. Nel nuovo ordinamento dell’impero<br />

alla fine del sec. III d.C., con gli stessi confini<br />

della regione di Augusto, formò una delle province<br />

in cui fu allora divisa l’Italia. In base alla<br />

descrizione di Strabone (V, 4, 3), al tempo di<br />

Orazio la Campania comprendeva la regione<br />

costiera pianeggiante che si estendeva tra<br />

Sinuessa e la penisola sorrentina con le isole di<br />

Pitecussa, Procida, Capri, l’entroterra fino alla<br />

linea delle città dislocate lungo la via Appia e il<br />

tratto della via Latina che da Venafrum, attraverso<br />

Teanum Sidicinum e Cales, giungeva a<br />

Capua insieme ai centri dell’estremo limite<br />

orientale della pianura campana (Suessula, Nola,<br />

Acerrae, Abella) a ridosso dei territori sannitici<br />

sud-occidentali 1 .<br />

Gli Epodi, o Iambi, come li chiama Orazio,<br />

costituiscono l’esordio poetico del Venosino e<br />

furono composti tra il 42 ed il 31 a.C., cioè tra la<br />

battaglia di Filippi e quella di Azio, e pubblicati<br />

intorno al 30 a.C. Il poeta voleva rinnovare quel<br />

genere lirico che aveva dato tanta fortuna ad<br />

Archiloco e ad Ipponatte, molto adatto all’invettiva<br />

e alla satira, ma che consentiva anche qual-<br />

FRANCESCO MONTONE<br />

Orazio e la Campania<br />

- 63 -<br />

Fig. 1 - La regio I dell'Italia augustea.<br />

Fig. 2 - Cartina<br />

dei Campi Flegrei.<br />

che abbandono lirico. Nell’epodo II l’usuraio<br />

Alfio sogna una vita diversa dalla sua, nella<br />

quiete e nei piaceri della vita campestre, ma di<br />

fatto non riesce a cambiare le sue abitudini e<br />

continua a svolgere la sua ripugnante attività. Al<br />

v. 49 compare un riferimento alle ‘ostriche del<br />

Lucrino’. Il Lucrino è un bacino lacustre dei


Fig. 3 - Il Lago Lucrino.<br />

Campi Flegrei, separato dal mare da un argine,<br />

in parte naturale in parte artificiale, che congiungeva<br />

Baia a Pozzuoli; Agrippa fece costruire una<br />

strada su di esso e tentò di mettere in comunicazione<br />

il lago Lucrino con il vicino lago<br />

d’Averno, trasformato da lui in porto (Portus<br />

Iulius). La coltivazione delle ostriche del Lucrino<br />

è ricordata da Orazio anche nella IV satira del II<br />

libro, al v. 32.<br />

Nel IV epodo il poeta attacca con sarcasmo<br />

un ex-schiavo divenuto un ricco e arrogante<br />

cavaliere, ricordandogli le sue origini. Ai vv. 13-<br />

4 il Venosino ricorda l’ager Falernus, famosissimo<br />

per la produzione vinicola, situato nella<br />

parte settentrionale della Campania, nella zona<br />

di Sessa Aurunca e di Massico, a Nord del<br />

Volturno.<br />

Nell’epodo V, Orazio descrive il turpe sortilegio<br />

della maga Canidia ai danni di un giovinetto<br />

caduto nelle sue grinfie; al v. 26 il Venosino<br />

fa riferimento alle Avernales aquae con cui<br />

Sagana, un’amica di Canidia, asperge la casa.<br />

L’Averno è il lago craterico situato nei Campi<br />

Flegrei, dove, secondo i Greci, si situava<br />

l’ingresso dell’Ade. Al v. 43, inoltre, è citata<br />

l’otiosa Neapolis, città fondata nella prima metà<br />

del V a.C., come ampliamento di un centro più<br />

antico, che Cuma, la più potente delle colonie<br />

greche del golfo, avrebbe insediato sul luogo di<br />

un precedente stanziamento rodio, al quale risalirebbe<br />

il nome Parthenope (una delle Sirene) 2 .<br />

Napoli si accordò con i Romani quando i<br />

Sanniti l’assediarono tra il 328 ed il 326 a.C. e fu<br />

fedelissima all’Urbs, seguendo le sue sorti, prima<br />

SALTERNUM<br />

- 64 -<br />

come città federata, poi come municipio.<br />

Offuscata da Pozzuoli come porto e come centro<br />

commerciale dopo l’82 a.C., la città conservò<br />

un certo rilievo in qualche ramo manifatturiero<br />

(unguenti e profumi), ma fu soprattutto centro<br />

dalle tenaci tradizioni elleniche nella lingua,<br />

nella cultura, nel costume: città di piaceri, di<br />

famosi spettacoli teatrali e sportivi e di studi.<br />

L’otiosa Neapolis di Orazio fu anche la dolce e<br />

colta città dall’incomparabile scenario paesistico<br />

di Virgilio e di Stazio, la città prescelta da<br />

Nerone per le sue esibizioni sceniche, la città<br />

apprezzata da Marco Aurelio per i suoi filosofi.<br />

Come osserva il Della Corte 3 , tuttavia, Napoli era<br />

per Orazio città dell’otium ma non già nell’accezione<br />

virgiliana (Georg. IV, 563-4: «illo Vergilium<br />

me tempore dulcis alebat / Parthenope studiis<br />

florentem ignobilis oti»: «in quel tempo me,<br />

Virgilio, nutriva la dolce Partenope, tra felici<br />

opere di un ozio senza gloria»), cioè città adatta<br />

agli studi, bensì in quella ovidiana (Met. XV,<br />

711-2: «in otia natam / Parthenopen»:<br />

«Partenope, città nata per la vita tranquilla»), dal<br />

momento che Napoli (in particolare il suo golfo)<br />

era luogo di vacanze per i Romani.<br />

Nell’epodo XVI, nell’ambito di una dolorosa<br />

rievocazione delle guerre civili, in un elenco di<br />

nemici di Roma, in cui si ricordano i pericoli<br />

rappresentati da Annibale, Porsenna, Spartaco, i<br />

Germani, compare un riferimento a Capua, che<br />

era arrivata a minacciare l’Urbe (v. 5); di fondazione<br />

etrusca, essa era il centro più importante<br />

dell’entroterra campano ed è definita ‘rivale’ di<br />

Roma. Orazio, sottolinea il Mandruzzato 4 , «sembra<br />

esprimere un giudizio interessante: se Roma<br />

fosse stata eliminata nel suo momento cruciale è<br />

pensabile che proprio Capua sarebbe diventata<br />

il centro del mondo greco-italico». La città è<br />

ricordata, inoltre, tra le tappe dell’iter<br />

Brundisinum (Sat. I, 5, 47) ed è citata anche<br />

nelle Epistole (I, 11, 11-12), nell’ambito di un<br />

riferimento topografico alla via Appia.<br />

Orazio pubblicò due libri di Satire, il I verso<br />

il 35 a.C. e il II verso il 30, rifacendosi a Lucilio,<br />

capostipite del genere; in queste composizioni,<br />

che il poeta definiva Sermones, conversazioni<br />

alla buona, compaiono considerazioni filosofico-morali,<br />

questioni di critica letteraria, scene di


vita quotidiana, considerazioni autobiografiche,<br />

favole mitologiche. La satira V del I libro, il<br />

famoso iter Brundisinum 5 , ricorda il viaggio<br />

compiuto da Orazio, Mecenate, Virgilio e altri da<br />

Roma a Brindisi nel 37 a.C., secondo il modello<br />

luciliano del viaggio in Sicilia. È, quindi, una<br />

satira odeporica. All’origine del viaggio vi erano<br />

gravi motivi politici, dal momento che<br />

Ottaviano, in difficoltà a causa della guerra per<br />

mare con Sesto Pompeo, era stato costretto a<br />

chiedere aiuto ad Antonio, che giunse a Brindisi<br />

con 300 navi, richiedendo, in cambio, legionari<br />

per combattere contro i Parti. Orazio, tuttavia, fa<br />

un solo cenno ai motivi politici alla base del<br />

viaggio, ai vv. 28-29, quando ricorda che erano<br />

presenti alla spedizione Mecenate e Cocceio<br />

(«missi magnis de rebus uterque /legati...» 6 : «l’uno<br />

e l’altro mandati come ambasciatori per trattare<br />

di cose grosse»). Il viaggio, come spiega il<br />

Fedeli 7 , è soprattutto conoscenza di luoghi e di<br />

persone, considerati con l’occhio del viandante<br />

frettoloso, cui non interessa tanto osservare i<br />

dati etnografici e antropologici, ma piuttosto<br />

presentare rapidi bozzetti e squarci di vita locale.<br />

La Campania è attraversata nella VI e nella<br />

VII giornata. I viaggiatori percorrono le 38<br />

miglia che separano il ponte Campano da<br />

Caudium, fermandosi a Capua per una sosta.<br />

Mecenate si diletta giocando a palla, mentre<br />

Virgilio e Orazio, che soffrono l’uno di stomaco,<br />

l’altro a causa degli occhi infiammati, vanno a<br />

dormire. I viandanti cenano nella ricca villa di<br />

Cocceio, dove assistono alla divertente tenzone 8<br />

tra il buffone Sarmento e Messio Cicirro. Il<br />

primo ironizza sui difetti fisici dell’avversario,<br />

mentre Messio mette alla berlina lo stato sociale<br />

del rivale che, muovendo da origini servili, è<br />

diventato scriba. Il giorno dopo i viaggiatori da<br />

Caudium si rimettono in viaggio alla volta di<br />

Benevento. Lì un oste troppo premuroso per<br />

poco non brucia anche se stesso mentre arrostisce<br />

i suoi tordi. Il fuoco si sparge e le fiamme<br />

arrivano a lambire il soffitto. Orazio fa una<br />

descrizione squisita dell’allarmismo che coglie i<br />

clienti affamati e i servi spaventati, che portano<br />

fuori la cena e si impegnano, tutti insieme, a<br />

spegnere l’incendio. Il giorno dopo i viaggiatori<br />

lasciano a Benevento la via Appia, non più<br />

FRANCESCO MONTONE<br />

- 65 -<br />

Fig. 5 - Egnazia (BR) - La via Minucia ricalcata dalla via Traiana.<br />

Fig. 4 - Bonea (BN)<br />

- Villa di Cocceio<br />

(fine II - I sec. a.C.)<br />

opus signinum.<br />

lastricata fino a Brindisi, e prendono la via<br />

Minucia, che collegava, appunto, Benevento a<br />

Brindisi.<br />

Nella già menzionata IV satira del II libro<br />

Orazio ferma un tale Cazio, che si affretta a tornare<br />

a casa per scrivere dei nuovi precetti: non<br />

si tratta di precetti filosofici, ma di ricette e consigli<br />

culinari. Ai vv. 30-34 il poeta ricorda, oltre<br />

al murex di Baia e alla peloris di Lucrino, anche<br />

i molluschi di Miseno, l’estrema punta occidentale<br />

del golfo di Pozzuoli. Al v. 51 della stessa<br />

satira Orazio fa riferimento al vino prodotto<br />

nella zona del Mons Massicus, che segna il confine<br />

tra la Campania e la parte del Lazio a Sud<br />

del fiume Liri. Ai vv. 68-69 Orazio fa riferimento<br />

alla bontà dell’olio di Venafro, consigliato da<br />

Cazio per condire una salsa molto elaborata<br />

(«insuper addes / pressa Venafranae quod baca


Fig. 6 - La Campania costiera.<br />

remisit olivae»: «aggiungi sopra ciò che emette la<br />

bacca spremuta degli olivi di Venafro»). Venafro è<br />

una città di origine sannitica nel territorio occidentale<br />

dei Pentri, attribuita alla Regio I dall’ordinamento<br />

augusteo. La bontà dell’olio di Venafro<br />

è menzionata anche in Carm. II, 6, 15-16.<br />

Al v. 55 della stessa satira è menzionata<br />

Sorrento, località situata su un altro terrazzo tufaceo<br />

che domina a picco sul mare, ben conosciuta<br />

da Orazio, che ne esalta la salubrità del clima<br />

e la bontà del vino, consigliato per le sue proprietà<br />

anche dai medici. Sorrento è definito centro<br />

amoenum nella XVII epistola del I libro, al v. 52.<br />

Nell’VIII satira del II libro, Orazio dialoga con<br />

Fundanio che gli descrive la cena a casa di<br />

Nasidieno Rufo, cafone arricchito che fa sfoggio<br />

delle sue ricchezze attraverso piatti e vini prelibati.<br />

Ai vv. 39-40 Orazio ricorda le tazze potorie di<br />

Alife, molto capienti, nelle quali due personaggi<br />

partecipanti alla cena, Vibidio e Balatrone, rovesciano<br />

intere anfore. Alife è una città di origine<br />

sannitica situata sul versante campano del<br />

Matese, nella valle del Volturno, posta sulla diramazione<br />

dalla via Latina che congiungeva<br />

Venafrum a Beneventum. Ai vv. 45-46 è nuovamente<br />

menzionato l’olio di Venafro, utilizzato per<br />

condire il sugo di una salsa di gamberi che<br />

accompagna una murena, offerta durante la cena,<br />

per desiderio di ostentazione, dal parvenu.<br />

È ai quattro libri delle Odi, i primi tre composti<br />

tra il 30 ed il 23 a.C. ed il quarto pubblicato<br />

nel 13 a.C., tuttavia, che Orazio si affida per<br />

ottenere fama imperitura di poeta, aspirando ad<br />

eguagliare Alceo e Pindaro. In Carm. I, 31, 9 e<br />

SALTERNUM<br />

- 66 -<br />

IV, 12, 14 Orazio menziona Cales, città aurunca<br />

della Campania (oggi Calvi Vecchia, frazione di<br />

Calvi Risorta). Il Venosino ne ricorda la pregiata<br />

qualità del vino.<br />

In Carm. II, 18, 17-22 Orazio descrive il fervore<br />

dei lavori edilizi a Baia, città dei Campi<br />

Flegrei, sulla sponda occidentale del golfo di<br />

Pozzuoli, famosa per le acque termali, che<br />

divenne una stazione balneare di moda: «tu<br />

secanda marmora / locas sub ipsum funus et<br />

sepulcri / inmemor struis domos marisque Bais<br />

obstrepentis urges / submovere litora, / parum<br />

locuples continente ripa»: «tu commissioni tagli<br />

ampi di marmi nell’imminenza della sepoltura e<br />

levi casa e scordi la tua tomba, sconvolgi coste,<br />

argini il mare che percuote Baia: per confine<br />

una spiaggia, è poco signorile». Orazio attesta la<br />

prima fase dell’espansione edilizia di Baia 9 , centro<br />

di cui ha conoscenza diretta, come sottolinea<br />

in altri due luoghi (Carm. III, 4, 24 e Epist. I, 15,<br />

19). Nella I epistola del I libro Orazio irride chi<br />

è smanioso di far costruire la propria villa a<br />

Baia, al punto da considerare quel sito superiore<br />

a tutti gli altri (v. 83). La città divenne simbolo<br />

di lusso e corruzione mondana: Properzio, ad<br />

esempio, si scaglia contro Baia, luogo di corruzione<br />

per le fanciulle caste, ed esorta l’amata<br />

Cinzia ad allontanarsi da quei vergognosi lidi<br />

(Prop. I, 11, 27-30: «Tu modo quam primum corruptas<br />

desere Baias: / multis ista dabunt litora<br />

discidium, / litora quae fuerant castis inimica<br />

puellis: / a pereant Baiae, crimen Amoris,<br />

aquae!»: «Ma tu abbandona prima possibile la<br />

corrotta Baia: codesti lidi produrranno la separazione<br />

di molti lidi da sempre ostili alle caste fanciulle.<br />

In malora le acque di Baia, vergogna di<br />

Amore!»). Seneca, a sua volta, nell’epistola LI, 1-<br />

3, afferma di aver lasciato Baia dopo un giorno,<br />

dal momento che è divenuta un luogo che induce<br />

al vizio: «nos... contenti sumus Bais; qua<br />

postero die quam attigeram reliqui, locum ob<br />

hoc devitandum, cum habeat quasdam naturales<br />

dotes, quia illum sibi celebrandum luxuria<br />

desumpsit»: «mi sono dovuto accontentare di<br />

Baia, ma l’ho lasciata il giorno dopo che vi ero<br />

arrivato. Pur avendo l’attrattiva delle sue bellezze<br />

naturali, è una città da evitarsi, poiché è<br />

ormai un noto centro di corruzione».


I due libri di Epistole furono pubblicati nel 20<br />

a.C. e nel 13 a.C. Il primo comprende 20 epistole,<br />

il secondo ne raccoglie tre, tra cui la famosissima<br />

Ars Poetica. A differenza delle Satire, le<br />

Epistole non hanno toni aggressivi: permangono<br />

i temi della ricerca della saggezza e della morale<br />

(autárkeia e metriótes) 10 .<br />

Nella I epistola del I libro, ai vv. 85-87, è<br />

menzionata Teano, città fondata dalla tribù sannitica<br />

dei Sidicini e centro principale di questa<br />

popolazione; era situata alla congiunzione tra la<br />

via Latina e un’importante variante della via<br />

Appia e dotata di un ampio anfiteatro («cui si<br />

vitiosa libido /fecerit auspicium: cras ferramenta<br />

Teanum / tolletis, fabri»: «poi gli viene un capriccio<br />

amoroso, come un’ispirazione divina: domani<br />

gli operai portino le attrezzature a Teano»).<br />

Teano era una delle città più importanti della<br />

Campania e Orazio irride il ricco volubile che,<br />

mentre sta per farsi edificare una villa a Baia,<br />

ordina ai suoi operai di portare le attrezzature a<br />

Teano.<br />

Arriviamo, finalmente, alla già menzionata<br />

epistola XV del I libro, in cui Orazio cita<br />

Salerno. Orazio si rivolge a Numonio Vala per<br />

chiedere notizie sulle condizioni climatiche e<br />

sulla vivibilità di Salerno e di Velia, dal momento<br />

che il famoso medico di Augusto, Antonio<br />

Musa, gli ha prescritto cure di acqua fredda per<br />

i disturbi di cui soffriva agli occhi.<br />

Salerno 11 è situata sulla costa settentrionale<br />

dell’antico sinus Paestanum, a destra del fiume<br />

Irno, nell’agro Picentino. Essa nacque come<br />

colonia marittima di diritto romano nel 194 a.C.<br />

(Liv. XXXII, 29, 3; XXXIV, 45, 1-5; Vell. I, 15, 1-<br />

3), insieme ad altre quattro colonie costiere<br />

(Volturnum, Liternum, Puteoli e Buxentum), in<br />

base alla Lex Atinia de coloniis deducendis del<br />

197 a.C. Come ricorda Strabone (V, 4, 13),<br />

Salerno aveva una funzione essenzialmente militare,<br />

dal momento che è troppo esiguo il numero<br />

dei primi coloni perché si possa parlare di<br />

una colonia di popolamento. Era un centro fortificato<br />

per controllare gli inquieti Picentini, colpevoli<br />

di essersi schierati con Annibale dopo la<br />

battaglia di Canne. Attraversata dalla via Regio-<br />

Capuam che la collegava con l’interno della<br />

Lucania, da un lato, con Napoli e Pompei dall’al-<br />

FRANCESCO MONTONE<br />

- 67 -<br />

tro, Salerno divenne un centro molto importante.<br />

Fu saccheggiata nell’89 a.C. dall’esercito degli<br />

alleati italici guidato da Papius Mutilus, che in<br />

tale occasione arruolò nelle proprie schiere prigionieri<br />

e schiavi salernitani.<br />

Orazio domanda, inoltre, quale dei due siti<br />

abbia le messi migliori, quale sia più provvisto<br />

di lepri e cinghiali, quali acque siano più dotate<br />

di pesci e frutti di mare. Egli dà per scontato che<br />

la selvaggina pregiata non mancherà dalla sua<br />

tavola. Per quanto riguarda il vino, egli non fa<br />

proprio conto dei poco raffinati vini locali e<br />

cerca un vino nobile, d’alta classe, che non<br />

dovrà essere né pesante né di alta gradazione,<br />

ma tale da rendere vivace e piacevole chi lo<br />

beve, senza ubriacarlo. Orazio affida al vino il<br />

compito di lenire i suoi affanni, di fargli venire<br />

la parlantina (secondo il tòpos del vino che scioglie<br />

la lingua) e di renderlo gradito ad<br />

un’amante lucana: il Fedeli 12 ritiene che un tale<br />

accenno alla regione d’appartenenza della<br />

donna consenta di cogliere una leggera preferenza<br />

del Venosino per Velia. Al v. 24 il poeta,<br />

lasciati da parte i problemi di salute, chiarisce<br />

che lo scopo del suo viaggio a Velia o a Salerno<br />

è quello di tornarsene a casa ben pasciuto come<br />

un Feace («pinguis ut inde domum possim<br />

Phaeaxque reverti»: «perchè possa tornare a casa<br />

grasso, novello Feace»); ai Feaci il poeta aveva<br />

già accennato in Epist. I, 2, 28-29 e anche in quel<br />

caso con un ironico riferimento alla loro propensione<br />

per i piaceri della tavola. Il melancholicus<br />

13 Orazio cerca un luogo dove svernare e<br />

deve rinunciare, per rispettare i precetti di Musa,<br />

ai graditi soggiorni a Baia, che altrove il poeta<br />

arriva a personalizzare.<br />

Il medico di Augusto era un convinto sostenitore<br />

dei benefici terapeutici offerti dai bagni di<br />

acqua fredda. Orazio ricorreva, per seguire le<br />

osservanze del medico, al frigidarium della sua<br />

casa, mentre altri si recavano a Chiusi o a Gabii.<br />

Come osserva giustamente il Bracco 14 , Salerno e<br />

Velia non sono menzionate perché offrissero<br />

bagni freddi (non è nota nelle due città la presenza<br />

di sorgenti di acqua con proprietà terapeutiche):<br />

se il Venosino deve scegliere tra<br />

Salerno e Velia per curare la gotta e i disturbi<br />

agli occhi è perché quelle località offrivano un


sodalizio di medici esperti. Sono attestati nomi<br />

di medici a Velia e a Salerno è ricordato, dalle<br />

testimonianze epigrafiche, il nome di un medico<br />

di età giulio-claudia, Tiberio Claudio, che ha<br />

cognome greco come il padre: Diogene. La frequenza<br />

delle relazioni con l’Oriente dovette<br />

favorire il trasferimento nei due centri campani<br />

di individui esperti nell’arte medica. Il Bracco 15<br />

afferma che è attestata fin dall’età di Cesare<br />

quella tradizione medica che raggiungerà fama<br />

pienissima nel Medio Evo.<br />

Nella parte conclusiva dell’epistola Orazio<br />

ricorda un personaggio già citato in Sat. I, 3, 21,<br />

un certo Mevio, noto per essere un ingordo e un<br />

inguaribile spendaccione, e rimprovera se stesso,<br />

in grado di condurre, nel suo campicello,<br />

una vita frugale, ma incapace di resistere ai piaceri<br />

di una vita comoda quando gli si presenta<br />

l’occasione. Compare anche qui quella continua<br />

opposizione tra valori e modelli etici e scelta<br />

individuale, che ha indotto il La Penna ad affermare<br />

che Orazio opera una relativizzazione<br />

della morale 16 . Il poeta stesso, come sottolinea<br />

acutamente Italo Lana 17 , in Epist. I, 8 confessa di<br />

essere afflitto da un funestus veternus, uno stato<br />

di torpore e di inquietudine che genera in lui<br />

l’incapacità di agire coerentemente con le sue<br />

convinzioni morali. Egli non vive nec recte nec<br />

suaviter (v. 4) ed è assalito da un continuo stato<br />

di irrequietezza, che lo spinge a desiderare<br />

SALTERNUM<br />

- 68 -<br />

Roma quando è a Tivoli e Tivoli quando è a<br />

Roma (Epist. I, 8, 9-12: «...irascar amicis / cur me<br />

funesto properent arcere veterno; / quae nocuere<br />

sequar, fugiam quae profore credam, /<br />

Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam»:<br />

«con gli amici mi inquieto, perché s’affannano<br />

per salvarmi da un torpore che mi porta alla<br />

tomba, e faccio quello che mi ha fatto male e<br />

scappo da quello che mi farebbe - e lo so - assai<br />

bene. A Roma mi piace Tivoli; a Tivoli mi piace<br />

Roma. Sono come il vento»).<br />

Oltre all’amata Baia, Orazio deve rinunciare<br />

ad andare a Cuma (vv. 11-12: «...quo tendis? Non<br />

mihi Cumas / est iter aut Baias»: «Dove vai? La<br />

meta non è più Cuma o Baia»). Cuma, città situata<br />

sul litorale campano, sulla costa flegrea, fu la<br />

più antica colonia greca in Italia. La via<br />

Domiziana entrava in città da Nord, tagliando il<br />

monte Grillo e superando un profondo avvallamento<br />

con un ardito cavalcavia, un’opera<br />

cementizia rivestita di laterizio e tufelli, detto<br />

‘Arco Felice’.<br />

In conclusione, la lunga frequentazione da<br />

parte dell’inquieto poeta venosino delle località<br />

campane e le allusioni ad esse nelle sue opere<br />

ci offrono la possibilità di un viaggio affascinante<br />

all’interno di tradizioni locali, prodotti tipici,<br />

tendenze culturali della nostra regione, un percorso<br />

che ci conduce alla riscoperta, mai priva<br />

di emozione e di meraviglia, delle nostre radici.


NOTE<br />

1 Si veda il fondamentale contributo FERONE C. 1996, pp.<br />

424-432.<br />

2 Nell’Alessandra, il poeta ellenistico Licofrone fa predire a<br />

Cassandra la triplice direzione che avrebbero preso le tre<br />

Sirene, Parthenope, Leucosia e Ligeia, dopo il salto in mare<br />

e descrive i tre luoghi di approdo, sulle coste campane,<br />

dove si diffonde il loro culto: Napoli, Punta Licosa e<br />

Sant’Eufemia. L’insediamento collettivo si sarebbe situato,<br />

per gli antichi, nelle isolette sorrentine dette Sirenusse<br />

(oggi ‘Li Galli’). Sulle varie versioni del mito delle Sirene<br />

cfr. BETTINI - SPINA 2007.<br />

3 DELLA CORTE 1996, p. 517.<br />

4 Orazio, Odi ed Epodi, p. 535.<br />

5 FEDELI 1996, pp. 248-253. Si rimanda anche a FEDELI -<br />

RONCONI 1991.<br />

6 Il testo di Orazio è citato secondo le edizioni critiche allestite<br />

da P. VENINI (Odi ed Epodi) e da P. FEDELI (Satire ed<br />

Epistole) per il Bimillenario oraziano (Istituto Poligrafico<br />

dello Stato, Roma 1991, 1994, 1997).<br />

7 Orazio. Tutte le poesie, p. 828.<br />

8 A proposito della tenzone scrive il LA PENNA: «La tenzone<br />

comica sembra di una comicità gratuita e festosa; ma non<br />

FRANCESCO MONTONE<br />

- 69 -<br />

è escluso che Orazio questa volta provi gusto a farci vedere<br />

un troppo furbo parassita di città messo alle strette da<br />

un campano spiritoso. Non parlo di morale a tesi: è una<br />

morale meno cosciente che in altre satire, ma non assente:<br />

anzi è la morale che si confonde col gusto della vita e circola<br />

nel racconto con naturalezza, senza che la si possa<br />

isolare e definire» (LA PENNA 1968, p. 39).<br />

9 FERONE 1996, p. 426.<br />

10 LA PENNA 1968, pp. 40-44.<br />

11 PANEBIANCO 1991; BRACCO 1981, p. XVIII; FERONE 1996, pp.<br />

429-430; AVALLONE 2008, pp. 61-73. Si vedano anche i fondamentali<br />

contributi di LEONE – VITOLO 1982; ROMITO 1996.<br />

12 Orazio. Tutte le poesie, p. 928.<br />

13 Sull’irrequietezza di Orazio, che trapela sotto la marmorea<br />

superficie dei suoi versi, sulla tensione che vive il<br />

Venosino tra quello che sentiva di essere e quello che<br />

avrebbe voluto essere, insiste, in un bel volume, A. Traina<br />

(TRAINA 1993).<br />

14 BRACCO 1979, pp. 47-51.<br />

15 IDEM, Ibidem, p. XVIII.<br />

16 LA PENNA 1993, pp. 241-274.<br />

17 LANA 1993, pp. 73-91.


FONTI E BIBLIOGRAFIA<br />

FONTI<br />

Orazio, Le Epistole; L’Arte Poetica, a cura di P. FEDELI - C.<br />

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MARIA AMORUSO<br />

Lo stato di conservazione degli affreschi<br />

di San Pietro a Corte in Salerno<br />

Il complesso monumentale di San<br />

Pietro a Corte si colloca nel centro storico<br />

della città di Salerno. La sua storia,<br />

molto articolata dal punto di vista architettonico,<br />

ha inizio nel I-II sec. d.C. con la costruzione<br />

di un complesso termale. Il frigidarium<br />

di queste terme costituisce la parte più antica e<br />

di conseguenza pone un termine certo per<br />

l’identificazione del primo periodo di frequentazione<br />

della struttura.<br />

Nel V sec. d.C., in seguito ad un precedente<br />

abbandono delle terme, il frigidarium continuò<br />

ad essere frequentato, non più come ambiente<br />

termale, ma con funzioni totalmente differenti.<br />

Infatti esso diventò un luogo di culto che con<br />

opportune modifiche fu utilizzato come chiesa<br />

paleocristiana e coemeterium. La chiesa e il<br />

cimitero, destinato ad ospitare le tombe delle<br />

personalità e delle famiglie più importanti di<br />

Salerno, vennero frequentati e utilizzati fino alla<br />

prima metà del VII sec. d.C.<br />

Nella seconda metà dell’VIII sec. d.C., Arechi<br />

II, duca di Benevento, scelse la città di Salerno<br />

per la costruzione di un secondo palazzo, che<br />

includeva al suo interno una cappella privata.<br />

Come luogo di costruzione per la sua cappella<br />

palatina, Arechi II individuò la chiesa e il<br />

cimitero paleocristiano e dopo aver apportato<br />

alcune modifiche architettoniche (abbattimento<br />

delle volte romane e costruzione di pilastri e<br />

murature di sostegno) innalzò su di essi la cappella,<br />

dedicandola ai santi Pietro e Paolo.<br />

Le fondamenta del palatium, costituite dalle<br />

strutture del frigidarium, dalla chiesa e dal<br />

cimitero, diventarono un ambiente ipogeo frequentato<br />

non solo dalla famiglia principesca ma<br />

forse anche dai comuni cittadini.<br />

- 71 -<br />

Con la fine del dominio longobardo e con il<br />

conseguente avvento dei Normanni a Salerno, la<br />

struttura ipogea fu trasformata in oratorio. In<br />

quel periodo storico (XII-XIII sec. d.C.) vennero<br />

realizzate una serie di pitture murali con la tecnica<br />

dell’affresco, con soggetti religiosi di stile<br />

bizantineggiante.<br />

Successivamente, la struttura fu anche utilizzata<br />

come sala pubblica in cui venivano conferite<br />

le lauree della Scuola Medica Salernitana,<br />

finché, alla fine del 1500 si verificò l’abbandono<br />

dell’intero complesso.<br />

In seguito agli scavi archeologici effettuati<br />

negli anni ’80 del secolo XX, gli affreschi furono<br />

sottoposti ad una serie di restauri finalizzati<br />

a preservare la loro integrità strutturale e decorativa.<br />

Attualmente il loro stato di conservazione<br />

suscita non poche preoccupazioni, poiché sono<br />

ben evidenti svariate forme di degrado che nel<br />

corso degli anni hanno agito sugli affreschi,<br />

creando danni consistenti allo strato pittorico e<br />

all’intonaco sottostante.<br />

I materiali che costituiscono l’affresco, ma<br />

anche tutti quelli che costituiscono ogni altro<br />

bene culturale, sono soggetti a questi fenomeni<br />

di alterazione e degrado per l’ interazione che si<br />

verifica tra essi e l’ambiente in cui sono situati.<br />

L’alterazione è un fenomeno che modifica il<br />

materiale senza provocare un peggioramento<br />

delle sue proprietà. Essa influisce non sulla consistenza<br />

dell’opera ma sul suo aspetto, alterandone<br />

il colore o comunque la superficie esterna.<br />

Il degrado invece modifica le proprietà del<br />

materiale, provocando quindi una perdita di<br />

parte dell’opera. Esso agisce sul bene con fenomeni<br />

di consumo e distruzione, attraverso trasformazioni<br />

di natura chimica, fisica e biologica.


SALTERNUM<br />

Fig. 1 - San Pietro a Corte (SA). Madonna regina in trono con Bambino e Santa Caterina d’ Alessandria.<br />

Sul pilastro arechiano situato nella zona della<br />

chiesa (ambiente D), c’è l’affresco della<br />

Madonna regina in trono con Bambino e Santa<br />

Caterina d’ Alessandria (fig. 1), realizzato nel XII<br />

sec. d.C.<br />

L’intera immagine è circondata da una cornice<br />

rossa che risulta mancante in molti punti.<br />

Inoltre si può notare una notevole lacuna nella<br />

zona destra, che occulta una parte del corpo del<br />

Bambino.<br />

Lo stato di conservazione dell’affresco è<br />

mediocre. Le forme di degrado che hanno agito<br />

e continuano ad agire su di esso sono in gran<br />

parte leggibili sullo strato pittorico, ma si esten-<br />

- 72 -<br />

dono anche all’intonaco sottostante. Infatti si sta<br />

verificando una graduale disgregazione della<br />

muratura che in alcune zone ha provocato la<br />

perdita dei colori originali e l’esposizione in<br />

primo piano dello strato di intonaco sottostante.<br />

La disgregazione è la separazione spontanea<br />

di grani di materiale senza che si eserciti alcuna<br />

azione meccanica su di essi. La sua manifestazione<br />

può verificarsi in seguito al passaggio dell’acqua,<br />

che può circolare in una parete attraverso<br />

vari fenomeni come la capillarità o<br />

l’infiltrazione. Il suo passaggio può provocare<br />

lo scioglimento dei sali che incontra lungo il


suo cammino depositandoli altrove; i danni<br />

dovuti alla presenza di sali si verificano in<br />

seguito all’evaporazione dell’acqua, quando<br />

essi cristallizzano e quindi aumentano di volume.<br />

Si verifica a questo punto una prova di<br />

forza tra i cristalli in espansione e le pareti dei<br />

pori del materiale in questione; infatti uno dei<br />

due dovrà cedere a seconda della sua resistenza.<br />

Se l’intonaco è più resistente, il cristallo<br />

verrà espulso sotto forma di efflorescenza, se<br />

invece è più forte il sale, le pareti dei pori si<br />

romperanno, causando la disgregazione dell’intonaco.<br />

Nella fig. 2 è possibile osservare la disgregazione<br />

della superficie pittorica, che ha provocato<br />

l’esposizione dello strato di intonaco sottostante.<br />

Nella fig. 3 si può osservare, nel particolare<br />

dell’ampollina, ciò che resta del colore originale<br />

e il risultato cromatico verificatosi in seguito<br />

all’azione della forma di degrado.<br />

Nell’affresco inoltre è possibile osservare la<br />

formazione in alcuni punti di una leggera patina<br />

biancastra o patina carbonatica. Negli intonaci<br />

a base di calcio, l’azione combinata dell’acqua<br />

e dell’anidride carbonica sul calcio può<br />

provocare alterazioni chimiche. Quando<br />

l’intonaco di un affresco inizia a far presa,<br />

l’acqua evapora progressivamente, trasformando<br />

la malta in un composto sempre più compatto.<br />

Contemporaneamente, in superficie inizia a<br />

formarsi una crosta di carbonato di calcio che<br />

può rallentare la penetrazione dell’anidride carbonica<br />

nella profondità dell’intonaco. Di conseguenza,<br />

in superficie risulterà uno strato molto<br />

duro perché completamente carbonatato, mentre<br />

sotto lo strato sarà più debole, perchè<br />

l’acqua è evaporata prima che tutto l’idrato di<br />

calcio sia entrato in contatto con l’anidride carbonica<br />

e quindi in profondità resterà uno strato<br />

di idrato di calcio. A questo punto, se l’intonaco<br />

viene bagnato dalla pioggia o se si trova in<br />

ambienti altamente umidi, l’idrato di calcio può<br />

reagire di nuovo con l’anidride carbonica dell’aria<br />

e quando l’acqua evapora, può venire in<br />

superficie, dove carbonatandosi, continua ad<br />

indurire l’intonaco. Quando tutto l’idrato di calcio<br />

avrà reagito, l’umidità, non potendo più rea-<br />

MARIA AMORUSO<br />

- 73 -<br />

Fig. 2 - San Pietro a Corte (SA). Particolare dell’affresco con evidente<br />

disgregazione dello strato pittorico.<br />

Fig. 3 - San Pietro a Corte (SA). Particolare dell’ampollina dell’affresco di<br />

S. Caterina d’Alessandria.<br />

Fig. 4 - San Pietro a Corte (SA). ‘Madonna Eleusa’ o ‘della tenerezza’.


Fig. 5 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con sollevamento e caduta<br />

dello strato pittorico.<br />

Fig. 6 - San Pietro a Corte (SA). Teoria di Santi.<br />

gire con esso, provocherà un processo di disgregazione,<br />

poiché l’anidride carbonica inizierà ad<br />

esercitare la sua azione acida sul carbonato di<br />

calcio, trasformandolo in bicarbonato solubile<br />

che, quando l’acqua sarà evaporata, si ridepositerà<br />

altrove, sotto forma di un velo bianco di<br />

carbonato di calcio.<br />

Alla destra dell’affresco sopra citato c’è una<br />

parete anch’essa di costruzione arechiana sulla<br />

quale sono stati realizzati tra la fine del XII sec.<br />

e l’inizio del XIII sec. d.C. una serie di affreschi<br />

ovvero, una ‘Madonna Eleusa’ o ‘della tenerezza’<br />

(fig. 4) e una Teoria di Santi in piedi.<br />

SALTERNUM<br />

- 74 -<br />

Partendo dall’analisi dello stato di conservazione<br />

della Madonna Eleusa, la situazione risulta<br />

molto grave: è visibile una netta differenza tra<br />

la parte alta dell’affresco, che risulta leggibile e<br />

in uno stato di conservazione migliore, e la<br />

parte inferiore, notevolmente rovinata. In questa<br />

zona manca almeno il 40% della superficie pittorica.<br />

Anche su questo affresco la forma di degrado<br />

più evidente consiste nella disgregazione,<br />

che in questo caso, oltre allo strato pittorico, ha<br />

interessato anche lo strato di intonaco immediatamente<br />

al di sotto. È probabile che su di esso<br />

abbia agito una percentuale di umidità notevolmente<br />

maggiore che sull’affresco precedente.<br />

La realizzazione dell’affresco in una struttura<br />

ipogea, il cui piano di calpestio si trova attualmente<br />

a circa 5 m dall’attuale piano stradale, ha<br />

reso possibile la risalita dell’umidità dal sottosuolo.<br />

Questo fenomeno spiega perché la maggioranza<br />

delle forme di degrado si sia sviluppata<br />

nella parte inferiore dell’affresco, che si trova<br />

molto più vicina al piano di calpestio.<br />

Nella zona sinistra dell’affresco, ancora una<br />

volta nella parte inferiore, è possibile osservare in<br />

uno stesso punto le varie fasi di avanzamento di<br />

altre forme di degrado, quali rigonfiamento, distacco<br />

e caduta dello strato pittorico. (fig. 5).<br />

Anche in questo caso la principale causa dello<br />

sviluppo di queste forme di degrado è l’umidità<br />

e ancora una volta la parte di affresco interessata<br />

è lo strato pittorico.<br />

La superficie esterna di un affresco, quella<br />

che riceve lo strato pittorico, si trova sempre in<br />

condizione di instabilità maggiore rispetto alla<br />

superficie sottostante. Ciò si verifica perché essa<br />

costituisce il piano di separazione tra la struttura<br />

murale sottostante e l’ambiente, e quindi la<br />

manifestazione su di essa di fenomeni come<br />

l’evaporazione, la condensazione e il semplice<br />

passaggio dell’acqua possono creare forme di<br />

degrado che generano la disgregazione della<br />

materia.<br />

Alla destra della Madonna si possono osservare<br />

due Santi (fig. 6). Il primo risulta essere S.<br />

Giacomo, il secondo invece non offre le caratteristiche<br />

necessarie per una chiara identificazione.


Nel verificare il loro stato di conservazione si<br />

possono riscontrare le medesime forme di degrado<br />

che hanno interessato l’affresco precedente,<br />

soltanto con qualche minima differenza. La parte<br />

inferiore dell’affresco continua ad essere quella<br />

maggiormente colpita dal degrado, ma anche la<br />

parte superiore risulta danneggiata. Per S.<br />

Giacomo la situazione è migliore e il suo volto<br />

risulta perfettamente leggibile, ma procedendo<br />

verso il basso si può osservare che le mani sono<br />

interessate da rigonfiamento, distacco e da una<br />

minima caduta della pellicola pittorica (fig. 7).<br />

Ancora più in basso aumentano le aree interessate<br />

dal degrado. L’umidità che risale dal sottosuolo<br />

ha generato la comparsa di patine carbonatiche<br />

(fig. 8), ancora una volta cadute dello<br />

strato pittorico (fig. 9), efflorescenze (fig.10) e<br />

concrezioni, dovute al deposito di sali da parte<br />

di acque circolanti sul materiale.<br />

La situazione dell’altro Santo è ancora più<br />

grave: oltre alla presenza di lacune, il suo volto<br />

risulta sbiadito a causa di patine e concrezioni.<br />

La stessa situazione conservativa si può osservare<br />

sul resto del corpo, oltre ad una serie di lacune<br />

nella parte superiore dell’affresco.<br />

Alla destra dei due Santi si possono osservare<br />

gli ultimi due personaggi affrescati. Si tratta di<br />

due Santi Vescovi (fig. 11); anche per questi<br />

l’umidità proveniente dal sottosuolo e quella<br />

presente nell’ambiente sono le cause principali<br />

della manifestazione delle forme di degrado.<br />

Sull’intera superficie dell’affresco insiste una<br />

patina biancastra (fig. 12) di diverso spessore, la<br />

cui intensità è maggiore nel vescovo di sinistra.<br />

Per la caduta dello strato pittorico, l’esatta lettura<br />

dei volti risulta compromessa. Nella parte<br />

inferiore dell’affresco si ripresenta la situazione<br />

riscontrata nei casi precedenti. La zona è maggiormente<br />

degradata per la risalita dell’ umidità<br />

che ancora una volta ha generato patine, concrezioni<br />

e cadute dello strato pittorico (fig. 13).<br />

Frontalmente al pilastro arechiano si innalza<br />

un setto murario, anch’esso di fattura arechiana,<br />

che divide la sala termale in due parti. La parete,<br />

un tempo interamente decorata con affreschi,<br />

conserva oggi soltanto un soggetto iconografico<br />

nell’area sinistra e alcuni frammenti in alto a<br />

destra.<br />

MARIA AMORUSO<br />

- 75 -<br />

Fig. 7 - San Pietro a Corte (SA). Particolare della mano di S. Giacomo,<br />

con evidente distacco e caduta dello strato pittorico.<br />

Fig. 8 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con patine di tipo<br />

carbonatico.<br />

Fig. 9 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con distacchi e cadute della<br />

pellicola pittorica.<br />

La situazione conservativa di questo affresco<br />

che ritrae ‘San Nicola e il cavallo’ è particolarmente<br />

grave (fig. 14). Diverse tipologie di forme<br />

di degrado si alternano e/o si sovrappongono<br />

sull’intera superficie pittorica, estendendosi allo<br />

strato di intonaco sottostante. Ancora una volta<br />

è l’umidità, presente in alte percentuali nella<br />

struttura, che regola l’azione e lo sviluppo di


Fig. 10 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con efflorescenze.<br />

Fig. 11 - San Pietro a Corte (SA). Santi Vescovi.<br />

Fig. 12 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con patine dello strato<br />

pittorico.<br />

SALTERNUM<br />

- 76 -<br />

tutti i processi di degrado che mettono a rischio<br />

la conservazione di questo dipinto murale. La<br />

grande azione devastatrice dell’acqua si può<br />

osservare gradualmente in questo affresco se si<br />

analizzano diverse aree dello stesso in cui le<br />

forme di degrado sono avanzate con tempi differenti.<br />

La risalita dei sali in superficie si colloca<br />

tra le prime manifestazioni evidenti del passaggio<br />

dell’acqua all’interno della struttura muraria<br />

(fig. 15).<br />

La fase successiva comporta il rigonfiamento<br />

della pellicola pittorica, il suo distacco e infine<br />

la caduta. Contemporaneamente si possono<br />

osservare sulla superficie altre efflorescenze saline,<br />

che continuano la loro azione disgregativa<br />

anche all’interno dell’intonaco (fig. 16).<br />

Le ultime fasi di questa tipologia di degrado<br />

mostrano la disgregazione dello strato pittorico e<br />

dell’intonaco immediatamente al di sotto. In questo<br />

affresco inoltre si può osservare una particolare<br />

forma di degrado che ha provocato la formazione<br />

di piccoli buchi che si estendono dallo strato<br />

pittorico a quello di intonaco (fig. 17).<br />

Procedendo con un’ulteriore analisi della<br />

superficie, si possono notare altre manifestazioni<br />

di degrado, tra cui una frattura verticale nella<br />

zona in basso a destra e anche in altre zone in<br />

cui manca lo strato pittorico (fig. 18).<br />

Attualmente in questa area non è presente nessuna<br />

forma di umidità, ma la disgregazione che<br />

si sta verificando è probabilmente il risultato del<br />

passaggio dell’acqua in tempi passati.<br />

Dallo studio effettuato su tutte le pitture, in<br />

considerazione dell’ambiente in cui esse sono<br />

situate e in base alle forme di degrado riscontrate,<br />

risulta evidente che la causa principale dell’alterazione<br />

e del degrado è l’acqua. Sia che<br />

essa abbia agito in forma liquida o di vapore, la<br />

sua azione è stata costantemente attiva nel corso<br />

degli anni, così da lasciare danni ingenti su<br />

buona parte delle pitture.<br />

Nella struttura di San Pietro a Corte l’umidità<br />

si è diffusa in vari modi.<br />

L’umidità di condensazione, che evaporando<br />

tende a saturare l’aria nell’ambiente e quindi a<br />

provocare condensazioni sulle altre pareti, giustifica<br />

la formazione dei veli bianchi di carbonato<br />

di calcio e delle efflorescenze sugli affreschi.


L’umidità di capillarità, che circola nei pori<br />

dei materiali che compongono le murature, giustifica<br />

la formazione di efflorescenze e causa<br />

l’erosione e la distruzione delle malte e degli<br />

intonaci per solubilizzazione e ricristallizzazione<br />

dei sali nelle zone di evaporazione.<br />

Infine l’umidità proveniente dal sottosuolo,<br />

dovuta alla struttura ipogea, spiega il motivo<br />

della maggiore diffusione delle forme di degrado<br />

nelle zone inferiori degli affreschi.<br />

A queste forme di degrado sviluppatesi per<br />

cause fisiche bisogna aggiungere alcune forme<br />

di degrado generate da cause biologiche. La<br />

probabile presenza di funghi o batteri ha generato<br />

la nascita di chiazze nere sulla superficie<br />

muraria dell’abside della chiesa paleocristiana.<br />

Complessivamente la condizione conservativa<br />

dell’apparato decorativo di San Pietro a Corte<br />

richiede un immediato intervento di restauro.<br />

Le principali fasi del lavoro di conservazione<br />

e restauro dovrebbero basarsi sul consolidamento<br />

delle parti di strato pittorico che risultano in<br />

fase di distacco e sull’eliminazione delle efflorescenze<br />

e delle patine carbonatiche. Queste operazioni<br />

hanno il compito di bloccare almeno<br />

temporaneamente il lento ma costante processo<br />

di distruzione che sta agendo sugli affreschi. Per<br />

rendere duraturo tale intervento bisognerebbe<br />

creare le condizioni idonee per ristabilire<br />

l’equilibrio tra le opere, la struttura e l’ambiente<br />

in cui esso di trova. Ciò potrebbe essere concretizzato<br />

con la creazione di un microclima che<br />

mantenga costantemente la temperatura ideale<br />

per la migliore conservazione degli affreschi. In<br />

questo modo potrebbe essere eliminata<br />

l’umidità di condensazione. Molto difficile, se<br />

non impossibile invece è riuscire ad eliminare<br />

l’umidità proveniente dal sottosuolo. Nonostante<br />

questo impedimento, l’attuazione degli interventi<br />

precedentemente descritti garantirebbe<br />

comunque una vita più lunga agli affreschi e<br />

all’intera struttura e con l’attuazione di un intervento<br />

di restauro pittorico si potrebbe ammirare<br />

nuovamente lo splendore originario delle pitture.<br />

MARIA AMORUSO<br />

- 77 -<br />

Fig. 13 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con caduta dello strato<br />

pittorico.<br />

Fig. 14 - San Pietro a Corte (SA). San Nicola e il cavallo.<br />

Fig. 15 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con risalita dei sali in<br />

superficie.


Fig. 16 - San Pietro a Corte (SA). Particolare con rigonfiamento, distacco<br />

e caduta della pellicola pittorica ed efflorescenze saline.<br />

Fig. 17 - San Pietro a Corte (SA). Particolari con formazione di buchi<br />

nello strato pittorico e in quello di intonaco.<br />

Fig. 18 - San Pietro a Corte (SA). Frattura dell’affresco sulla superficie<br />

muraria che interessa anche l’affresco.<br />

SALTERNUM<br />

- 78 -<br />

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Picturae in ecclesiae S. Marie de Casalucio<br />

Gli affreschi di Casaluce. Una parentesi medievale<br />

Premessa<br />

La prima idea che si ha nel varcare<br />

l’uscio della Cappella Palatina di Santa<br />

Barbara in Castel Nuovo presso Napoli<br />

è quella di trovarsi in un conciliante spazio<br />

mistico profuso di luce e di un’amena essenza<br />

cultuale. Ma se si acutizza l’osservazione e ci si<br />

accosta con lo sguardo alle pareti dello spazio<br />

chiesastico, si ha l’impressione lucidissima di<br />

essere a contatto con un contesto medievale di<br />

grande portata. La struttura trecentesca lascia<br />

trasparire finissime monofore ed elementi in<br />

muratura frutto delle architetture catalane di<br />

primo Trecento: gli unici elementi fortunatamente<br />

sopravvissuti al recupero della chiesa Palatina<br />

e che nel loro insieme costituiscono l’apparato<br />

più antico del complesso castellare napoletano.<br />

Il particolare che più di tutti coglie il visitatore è<br />

la sistematica esposizione di pareti affrescate,<br />

disposte l’una accanto all’altra su entrambi i<br />

muri intonacati e sullo spazio di fondo. Sono<br />

spezzoni di pittura italiana, smembrati dalle<br />

accurate ‘stagioni degli stacchi’ promosse negli<br />

anni ’70 1 e desiderosi di emergere dai lacunosi<br />

‘rimpiazzi’ in cemento per rivendicarsi il pregio<br />

interpretativo di un tempo ormai remoto. Il ciclo<br />

affrescato racchiude di primo acchito, tra forme<br />

e stile, ‘frammenti’ di pittura tardogotica di notevole<br />

valenza artistica, se si evidenzia che il<br />

magister degli elaborati è un giottesco fiorentino<br />

catapultato in una stagione artistica napoletana<br />

del tutto propizia per la corrente artistica di metà<br />

del Trecento 2 . La committenza in questione ci<br />

rimanda nella Terra di Lavoro angioina, in particolare<br />

a Casaluce. È nel casertano difatti che<br />

sopravvive tutt’oggi il grande castello nobiliare,<br />

trasformato poi in monastero celestino con<br />

GIANMATTEO FUNICELLI<br />

- 79 -<br />

annessa chiesa che diventerà il fulcro della<br />

vicenda artistica qui esposta. Essa rimane tutt’oggi<br />

viva testimonianza delle molteplici esperienze<br />

pittoriche medievali in Italia meridionale.<br />

Del grande complesso castellare, di origine non<br />

precedente al periodo normanno 3 , oggi rimane<br />

una minima configurazione esterna di tufo che<br />

in ogni modo perpetua il suo antico valore di<br />

grande costruzione fortilizia seppure resa indefinita<br />

da una forte obliterazione, ma non è questa<br />

occasione per trarne spunti critico-descrittivi.<br />

Quello che spetta in questo scritto è delineare il<br />

frutto di un ‘miracoloso’ intervento di recupero,<br />

promosso dalla Soprintendenza del Polo<br />

Museale Napoletano, e con la cooperazione<br />

direttiva del Museo San Martino di Napoli, i<br />

quali hanno contribuito a preservare, rivalorizzare<br />

e musealizzare un pezzo di arte italiana che<br />

nel tempo è rimasto eclissato nello sfascio e il<br />

dimenticatoio comune. L’altro fondamentale<br />

scopo è presentare uno degli elementi clou della<br />

pittura tardo-medievale campana estratta dal<br />

contesto di Casaluce, ossia il ciclo delle Storie di<br />

San Guglielmo di Gellone e alcuni passi dalla<br />

Vita di Cristo dalle due cappelle laterali della<br />

Chiesa di Santa Maria ad Nives, sacrario facente<br />

parte del castello sunnominato. L’altro intervento<br />

sarà dedicato alla bottega del capomastro fiorentino<br />

in questione, composta da due affrescanti<br />

di notevoli abilità esecutive, che percorrono<br />

a Casaluce il loro specialistico apprendistato.<br />

Risultano scarse le ricerche sul recupero delle<br />

pitture al riguardo, e tali sono anche i dibattiti<br />

storico – critici esposti tra le recenti monografie,<br />

ma nella complessiva rivalorizzazione del cantiere<br />

pittorico si è ricorso anche a contributi<br />

scientifici e pubblicazioni di notevole apporto


alla memoria artistica del luogo in esame. Questo<br />

scritto si propone anch’esso tale scopo. Ovvero<br />

vuole essere di ulteriore contribuzione alle scarse<br />

ma nel contempo esaustive ricerche che studiosi<br />

e ricercatori espongono tra le pagine di svariate<br />

pubblicazioni atte alla memoria del complessivo<br />

patrimonio storico-artistico campano.<br />

La committenza. Un valore ‘devozionale’<br />

La pittura pertinente agli affreschi casalucensi<br />

ci porta alla consapevolezza di un vasto progetto<br />

esecutivo realizzato da ben tre figure<br />

distinte, un capomastro e due discepoli anonimi.<br />

Le indagini iconografiche eseguite da<br />

Ferdinando Bologna designano sulle esecuzioni<br />

un maturo contesto angioino, dove operò senza<br />

dubbio la mano di Niccolò di Tommaso, pittore<br />

fiorentino, che riservò particolari setti murari a<br />

due altre personalità di bottega, allievi di cui<br />

SALTERNUM<br />

Fig. 1 - Niccolò di Tommaso, San Pietro Celestino (papa Celestino V) in trono accompagnato dai monaci celestini (particolare), XIV sec. (Napoli, Castel<br />

Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />

- 80 -<br />

però non conosciamo l’identità e ci limitiamo a<br />

proporli come Secondo e Terzo Maestro di<br />

Casaluce. Sulle figure dei committenti e patrocinatori<br />

del ciclo, si apre un vasto capitolo di discussione,<br />

tale da percepire appieno il valore che<br />

assumono i nobili nei moventi di siffatte esecuzioni.<br />

La richiesta di un’opera da parte di figure<br />

di alto potere è determinata da interessanti punti<br />

di vista in cui il richiedente si presenta come il<br />

‘vero ideatore’ dell’opera desiderata. Questo sta<br />

a giustificare nel commissionario uno specifico<br />

bisogno di ‘richiesta’ verso la figura a cui viene<br />

destinato l’ex voto. Per il ciclo di Casaluce i nobili<br />

concessori Raimondo Del Balzo, conte di<br />

Soleto, e sua moglie Isabella D’Apia si presentano<br />

nell’argomento in esame come i diretti committenti,<br />

tanto da rientrare anch’essi nelle scene<br />

figurate. Per inquadrare i due personaggi nel<br />

contesto politico della fine XIV secolo, basterà


notare che la famiglia De Baux, volgarizzata in<br />

‘del Balzo’, risulta di antiche origini provenzali,<br />

come i reali d’Angiò i quali rientrano anch’essi<br />

nel discorso artistico per essere stati gli iniziatori<br />

del successo della coppia. I d’Angiò stringeranno<br />

con la coppia un forte legame politico.<br />

Dopo essere stato insignito da Giovanna I del<br />

titolo di Gran Camerlengo, e facendosi così strada<br />

politica nel grande esercito reale angioino,<br />

Raimondo convola a nozze dapprima con<br />

Caterina de Lagonesse, per poi scegliere come<br />

seconda compagna Isabella D’Eppes (D’Apia) 4 .<br />

La famiglia di Raimondo risulta essere, dalle<br />

attestazioni artistiche campane, una delle tante<br />

in cui le committenze ricorrono come elemento<br />

peculiare nel riconoscimento pubblico, quasi<br />

come un dato distintivo. Non a caso l’enfasi del<br />

ruolo di promotori di cui si vestono i nobili<br />

coniugi si manifesta in continuo crescere tra i<br />

dati artistici del Castello 5 , mentre ricorrono spesso<br />

committenze anche nelle singole direttive<br />

artistiche di Isabella D’Apia 6 . Un documento dell’abate<br />

celestino Donato Siderno 7 , redatto quando<br />

l’archivio del castello era ancora del tutto agibile<br />

(1622), fa luce sull’acquisizione del maniero<br />

da parte del nobile francese, il quale lo ottenne<br />

annesso al casale di Casaluce nel giorno 8 febbraio<br />

del 1359 da Roberto D’Ariano, identificato<br />

come «cavaliero napolitano». Lo scopo dell’acquisto<br />

non fu solo quello di affermarsi politicamente,<br />

ma di fondarvi all’interno un micro-complesso<br />

monastico in cui venerare la sua importante<br />

collezione sacra: l’icona bizantina della<br />

c.d. Vergine di Casaluce e due idrie di sua proprietà<br />

e da egli stesso ritenuti i recipienti che il<br />

Cristo utilizzò per tramutare l’acqua in vino<br />

durante le Nozze di Cana. L’idea di istituire e<br />

annettere al castello di Casaluce un insediamento<br />

monastico celestino, intorno al 1365, è collegato<br />

ad un suo precedente intervento di edificazione<br />

monastica presso la Diocesi di Aversa.<br />

Non è certamente un caso che il Balzo abbia<br />

apportato alla circoscrizione diocesana di Aversa<br />

e al suo castello delle strutture conventuali (di<br />

cui una a carattere privato). I del Balzo con queste<br />

operazioni progettuali puntarono ad un fondamentale<br />

disegno di propaganda sacra per<br />

garantirsi una solida salvezza ‘per la vita eterna’,<br />

GIANMATTEO FUNICELLI<br />

- 81 -<br />

ovvero assicurarsi una protezione di carattere<br />

spirituale.<br />

Gli affreschi<br />

Meritevoli di una prima discussione sono le<br />

Storie di San Guglielmo di Gellone, in cui prevale<br />

l’unica ed inconfondibile mano lesta e sintetica<br />

di Niccolò di Tommaso. Queste, concentrate<br />

sul secondo ambiente congiunto alla navata di<br />

destra della chiesa di Santa Maria ad Nives, presentavano<br />

le vicende avventurose di Guglielmo<br />

d’Orange, il valoroso soldato che prestò servizio<br />

in Aquitania contro i Saraceni al servizio di Carlo<br />

Magno. Egli fondò a Gellone, a conclusione<br />

della sua carriera militare, l’abbazia in cui si rifugiò<br />

seguendo un’intensa vita monastica. Una<br />

prima dipintura del Maestro, però, verrà dapprima<br />

applicata per la raffigurazione dei committenti<br />

sullo spazio esterno del luogo sacro, e precisamente<br />

sull’intradosso della nicchia sinistra<br />

del portale di accesso alla chiesa. La scena<br />

descrive la coppia di nobili inginocchiati al<br />

cospetto di San Pietro Celestino (fig. 1), dove<br />

Isabella risulta accompagnata da Ludovico da<br />

Tolosa (fig. 2), questi in veste monacale. Nello<br />

spazio centrale vi è San Pietro Celestino assiso<br />

su di un monumentale trono 8 in atto di benedire<br />

e con lo sguardo fisso verso l’osservatore,<br />

mentre il fitto gruppo dei Celestini in atteggiamento<br />

di preghiera assiste ai suoi piedi.<br />

Ferdinando Bologna individua lampanti affinità<br />

stilistiche nei tratti somatici del San Pietro casalucense<br />

e nel Sant’Antonio abate datato al 1371,<br />

facente parte del Trittico di Forìa, che tutt’oggi<br />

si conserva presso il Museo Nazionale di<br />

Capodimonte 9 . Si notano, oltre a ciò, anche delle<br />

contrapposizioni esecutive nel dipinto sacro.<br />

Differenze di resa che riguardano ad esempio il<br />

preciso vigore nel realizzare il Pietro Celestino<br />

in opposizione al sintetico ed inespressivo volto<br />

di Isabella che la studiosa Francesca Larcinese,<br />

in un suo intervento sul Pittore 10 , afferma essere<br />

stato realizzato da uno dei due collaboratori, in<br />

quanto i particolari anatomici ed il panneggio<br />

della figura femminile risultano essere approssimativi<br />

e di sommaria definizione. Lo si deduce<br />

dalla «diversità del medium pittorico», giustificato<br />

(probabilmente) dal fatto che il personaggio


Fig. 2 - Niccolò di Tommaso, Isabella d’Eppe prega dinanzi a San Pietro<br />

Celestino accompagnata da San Ludovico di Tolosa (particolare), XIV sec.<br />

(Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />

Fig. 3 - Niccolò di Tommaso, L’incontro tra Guglielmo di Gellone e Carlo<br />

Magno (particolare), XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa<br />

Barbara).<br />

risultava scarsamente visibile nella composizione.<br />

Così Niccolò decise di mettere alla prova<br />

uno dei due collaboratori. San Ludovico da<br />

Tolosa viene, al contrario, egregiamente raffigurato.<br />

Nell’affresco verrà commemorato per aver<br />

donato a Raimondo gli oggetti sacri da venerare<br />

nel santuario. L’attività artistica di Niccolò di<br />

Tommaso presso Casaluce, iscritta in un arco<br />

SALTERNUM<br />

- 82 -<br />

temporale che va dal 1365 al 1371, proviene da<br />

una più ampia e ‘fortunata’ committenza reale<br />

per mano di Giovanna I d’Angiò intrapresa dapprima<br />

nella Chiesa di Sant’Antonio abate a Forìa,<br />

dove eseguì il Trittico sunnominato. Alle mura<br />

gotiche del santuario casertano, invece, il maestro<br />

giottesco dedica dei passi tratti dalle Storie<br />

di San Guglielmo I di Tolosa, che gli storici<br />

ricordano più spesso come Guglielmo<br />

d’Aquitania. Il valoroso paladino franco, che<br />

visse tra il 755 e l’812 d.C., era figlio di un merovingio<br />

e nipote di Carlo Martello, per cui cugino<br />

di Carlo Magno; a lui vennero riconosciuti i titoli<br />

di conte di Tolosa, duca di Narbona e Gotia.<br />

Dopo varie vicissitudini legate alla vita militare,<br />

il guerriero abdicò presso Gellona, dove fondò<br />

un monastero (806). Le sue vicissitudini vengono<br />

tramandate dai passi poetici della ‘Chanson<br />

de geste’, dove l’animoso soldato è il protagonista<br />

di una guerra contro i Saraceni del Sud francese.<br />

È da questa leggendaria vicenda letteraria<br />

che si possono trarre particolari accadimenti che<br />

trovano eco nelle raffigurazioni degli affreschi in<br />

esame. In tal modo si potrà ricreare, nel parziale<br />

itinerario affrescato, un percorso narrativo<br />

sequenziale tale da costituire una rara trascrizione<br />

pittorica della saga. Il racconto si apre sulla<br />

prima storia del capitolo, ossia quella riguardante<br />

l’episodio di Guglielmo inginocchiato dinanzi<br />

a Carlo Magno (fig. 3) che presenta non<br />

poche zone lacunose: al centro della scena campeggia<br />

il giovane cavaliere prostrato dinanzi ad<br />

una figura assisa su di un trono (Carlo Magno)<br />

in presenza di un gruppo di monaci acefali, in<br />

quanto dallo stacco del complesso ci perviene<br />

solo la parte inferiore dei dipinti. Così come si<br />

presentano trinciati nella zona superiore la raffigurazione<br />

dei cavalli sull’esterno della scena a<br />

sinistra, i quali alludono alla lunga galoppata<br />

che precedentemente Guglielmo intraprese per<br />

raggiungere l’imperatore ad Arles. Il Santo è raffigurato<br />

intento a descrivere a Carlo il sogno nel<br />

quale la Vergine gli avrebbe dettato una missione:<br />

«conservare la corona del figlio Luigi nei<br />

sette anni che separano il delfino dall’età matura,<br />

essendo prossima la morte dell’Imperatore».<br />

Dopo questa vicenda, la pittura percorre uno<br />

scenario di combattimenti sostenuti dal guerrie-


o contro i Saraceni, sviluppato<br />

dapprima nel frammento raffigurante<br />

l’imperatore sul suo fedele<br />

destriero bianco – purtroppo tanto<br />

lacunoso da cancellarne l’intera<br />

area superiore – al di sotto del<br />

quale compare un soldato sopraffatto.<br />

Nella scena raffigurante il combattimento<br />

tra Guglielmo e il gigante,<br />

viene presentato un personaggio<br />

ciclopico, dalla corazza rossa e la<br />

possente clava, identificabile in<br />

Renoardo, Re dei Saraceni (fig. 4).<br />

L’affascinante duello, in cui il fulcro<br />

della scena è la lancia di Guglielmo<br />

saldamente tesa verso il gigante,<br />

viene assistito da tre donne che si<br />

stagliano sullo sfondo cupo del<br />

bosco. Solo una delle gentildonne<br />

dalle mani legate volge lo sguardo<br />

alla scena, Guiborc, moglie di<br />

Guglielmo. La forte ed affannosa<br />

espressività dei volti delle donne<br />

rimanda alla Deposizione di Niccolò<br />

nella Pinacoteca di Parma, dove i<br />

volti delle donne attorno al Cristo<br />

riprendono lo stesso schema del<br />

sopracciglio congiunto alla canna<br />

del naso, nonché lo stesso lieve<br />

vigore emotivo delle ‘pie donne’. La<br />

conclusione del ciclo rimanda alla<br />

scelta del Santo verso la vita monastica.<br />

Una delle testimonianze è<br />

descritta su di un pannello conservato<br />

presso il Museo di San Martino,<br />

in cui campeggia una figura di spalle<br />

intenta a trasportare del materiale<br />

da costruzione in un contesto<br />

vago e montuoso. Si tratta delle montagne di<br />

Gellona, l’attuale Saint-Guilhelm-du Desert e le<br />

pietre trasportate dall’uomo indicano la prima<br />

fase della Fondazione del monastero di Gellone<br />

sui monti rocciosi, dove una visione divina gli<br />

comunica verbalmente: «In questo deserto<br />

costruirai la tua casa, servirai il Signore giorno e<br />

notte».<br />

Per i rimanenti affreschi, data la loro notevole<br />

frammentarietà, tale da non permetterne la<br />

GIANMATTEO FUNICELLI<br />

Fig. 4 - Niccolò di Tommaso, Duello tra Guglielmo di Gellone e il gigante Rinoardo (particolare),<br />

XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />

Fig. 5 - Niccolò di Tommaso, Scena non identificata tratta dalla vita di Guglielmo di Gellone<br />

(particolare), XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />

- 83 -<br />

completa identificazione, risulta operazione<br />

ardua quella di riconoscerne sia le giuste tematiche<br />

che gli elementi intrinsechi: si tratta di un<br />

brano in cui si leggono due figure, un uomo ed<br />

una donna con un’espressione affranta e recanti<br />

un bambino in fasce. I due si allontanano<br />

mentre alle loro spalle una figura, che esce da<br />

una porta sulla destra e armata con un bastone,<br />

allontana altre persone piangenti (fig. 5). Un<br />

altro lacerto non individuabile è la struttura di


Fig. 6 - Niccolò di Tommaso, Angelo entro cornice cosmatesca, XIV sec.<br />

(Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />

un edificio con arcate a tutto sesto e riccamente<br />

rivestito da modanature policrome e particolari<br />

quali bifore goticheggianti e colonnine tortili.<br />

Privati della lettura della parte inferiore, si scorge<br />

a malapena sul lato sinistro una figura femminile<br />

panneggiata di bianco e rosa e recante un oggetto,<br />

probabilmente un cesto con del pane, teso<br />

verso un uomo genuflesso che in cambio offre<br />

alla figura femminile un libro. Infine si evidenzia<br />

un terzo elemento pittorico identificato come un<br />

angelo iscritto in una cornice costituita da finte<br />

tarsie marmoree e dove lo spazio presenta elementi<br />

decorati in stile cosmatesco (fig. 6).<br />

Nell’intelaiatura geometrica compare un<br />

angelo riccamente vestito e dalle ali bianche. La<br />

grazia e l’armonia celeste è trasposta da Niccolò<br />

sul volto dell’angelo con abile e consapevole<br />

ingegno, tale da sottolinearne un raffinato valore<br />

emotivo.<br />

La continuità della Bottega. Il Secondo e il Terzo<br />

Maestro di Casaluce.<br />

In linea di continuità, agli affreschi del sacrario<br />

parteciparono attivamente altri allievi che la<br />

storiografia ha variamente interpretati 11 . Le ultime<br />

attribuzioni li riferiscono all’opera di due<br />

artisti non del tutto riconoscibili, il Secondo ed<br />

il Terzo Maestro di Casaluce, ai quali Niccolò<br />

SALTERNUM<br />

- 84 -<br />

riservò gli spazi della prima cappella dell’ingresso<br />

alla chiesa. Le tematiche affrontate dagli<br />

apprendisti hanno i seguenti contenuti: sugli<br />

interi spazi della cappella vennero raffigurate<br />

Scene della vita di Cristo e le Storie di<br />

Sant’Antonio abate. Nello spazio murario dell’altare<br />

vi erano inoltre due Santi in trono incorniciati<br />

e sormontati da una lunetta in cui si presenta<br />

una figura femminile entro un clipeo. Nella<br />

zona superiore dell’arco d’accesso alla cappella<br />

vi era raffigurato Il Sogno di Giacobbe, mentre<br />

nel registro inferiore erano affrescate delle singole<br />

figure di Santi, ovvero Antonio abate, un<br />

Santo certosino non del tutto identificato, e una<br />

Maria Maddalena (fig. 7). Gli ultimi due personaggi<br />

sacri rimangono i più enigmatici ed in<br />

attesa di un’appropriata identificazione agiografica.<br />

Difatti resta puramente indicativa l’ipotesi<br />

che la figura monacale maschile, recante un<br />

vaso nella mano destra, sia un personalità eminente<br />

nella cerchia ecclesiastica del contesto,<br />

così come la figura recante il ramoscello di fiori<br />

è stata maldestramente individuata come Santa<br />

Maria Maddalena, in cui tutti riconosciamo una<br />

simbologia lontana dall’ideale di purezza.<br />

Per quel che concerne le scene della Vita di<br />

Sant’Antonio, assegnate al Secondo Maestro, la<br />

Larcinese interpreta l’artista come un possibile<br />

fiorentino in quanto risultano lampanti alcuni<br />

ravvicinamenti alla pittura giottesca di Maso di<br />

Banco. Se si osservano i particolari paesaggistici<br />

della suggestiva scena di Sant’Antonio nel deserto<br />

(fig. 8), si notano forti richiami ai paesaggi<br />

murari che eseguì Giotto nella più fortunata stagione<br />

assisiate. Un paesaggio dalla vegetazione<br />

netta, e di notevole spazialità, di larga campitura<br />

e profondità prospettica: l’ideale ambientazione<br />

per inquadrare il Santo anacoreta che, attorniato<br />

dai demoni, si presenta verso il Cristo, mentre la<br />

folla incuriosita osserva la scena. Risulta fondamentale<br />

notare i particolari della resa chiaroscurale<br />

nei tratti somatici, che variano dalle linee<br />

mimiche dei volti attoniti alle mani dolcemente<br />

segnate dai tocchi chiaroscurali, sino ai leggeri<br />

panneggi, sia dei personaggi centrali della scena,<br />

che nel Cristo benedicente. Questi i segni peculiari<br />

di una minuziosità effettiva che ricorre<br />

anche nelle opere di Niccolò di Tommaso.


Passando all’esecuzione delle<br />

Esequie di Sant’Antonio abate<br />

(fig. 9), per la cui paternità artistica<br />

si continuano ad accettare<br />

entrambi i pittori anonimi, ci soffermiamo<br />

su di una scena abilmente<br />

iscritta in una sontuosa<br />

parentesi architettonica, a prospettiva<br />

centrale e di grande resa<br />

spaziale, tale da contenere il<br />

corpo spento del Santo nello spazio<br />

del centro e il corteo di<br />

monaci affollati sullo spazio di<br />

destra. Il punto culminante della<br />

scena dovrebbe focalizzarsi sul<br />

corpo del Santo in primo piano,<br />

ma l’attenzione del critico stavolta<br />

si riversa sui particolari della<br />

costruzione architettonica riccamente<br />

espressa nei valori goticheggianti.<br />

Il considerevole alzato<br />

presenta un vano centrale<br />

aggettante sovrastato da un soffitto<br />

intelaiato sotto cui si iscrivono<br />

i pennacchi dell’arco di sostegno<br />

a decorazione cosmatesca, attraverso<br />

il quale si presenta sullo<br />

sfondo un altro vano in cui è<br />

inclusa una bifora con estremità<br />

trilobate e con oculo. Gli spazi<br />

attigui a quello centrale si allineano<br />

al vano di fondo e presentano<br />

le stesse decorazioni intarsiate.<br />

Sullo spazio frontale di questi si<br />

aprono due archetti a sesto acuto<br />

schiacciato. La teoria secondo la<br />

quale l’opera potrebbe essere il<br />

risultato di una collaborazione a<br />

quattro mani tra il Secondo ed il<br />

Terzo Maestro risulta da un attenta analisi che<br />

compie P. Leone De Castris nel rapportare attinenze<br />

di gusto compositivo tra le architetture<br />

delle Esequie del Secondo Maestro, e lo spazio<br />

architettonico nella Distribuzione dei beni ai<br />

poveri attribuita invece al Terzo Maestro (fig.<br />

10). La raffigurazione seguente, erroneamente<br />

identificata come Storia della vita di San<br />

Lorenzo, trova una più valida interpretazione<br />

GIANMATTEO FUNICELLI<br />

Fig. 7 - Secondo Maestro di Casaluce, Santo benedettino e Santa vergine, XIV sec. (Napoli, Castel<br />

Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />

Fig. 8 - Secondo Maestro di Casaluce, Sant’Antonio nel deserto (particolare), XIV sec. (Napoli,<br />

Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />

- 85 -<br />

nella Rinuncia e donazione dei beni di<br />

Sant’Antonio ai poveri. Potrei avanzare, a mio<br />

avviso, che le architetture del registro sinistro<br />

della lunetta (quella meno lacunosa) presentano<br />

una particolare soluzione di inquadramento prospettico<br />

più contenuta, ma nel contempo del<br />

tutto spaziata invece negli interni, a differenza<br />

dell’affannoso edificio sacro delle Esequie di<br />

Sant’Antonio del Secondo Maestro (si noti come


Fig. 9 - Secondo Maestro di Casaluce, Esequie di Sant’Antonio abate, XIV<br />

sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />

Fig. 10 - Terzo Maestro di Casaluce, Distribuzione dei beni ai poveri (Storie<br />

di San Lorenzo ?) (particolare della lunetta sinistra lacunosa), XIV sec.<br />

(Napoli, Castel Nuovo, Cappella di Santa Barbara).<br />

il Santo si lascia alle spalle una porta socchiusa,<br />

tale da localizzare la scena probabilmente in<br />

un’anticamera o nello spazio di un porticato).<br />

Basti notare la leggerezza dei due archi a tutto<br />

sesto in cui si inserisce la scena.<br />

SALTERNUM<br />

- 86 -<br />

Dell’altro registro, quasi del tutto obliterato, ci<br />

rimane una figura di spalle in abito sacerdotale<br />

che varca una più complessa architettura<br />

d’interno.<br />

Dell’abilità del Terzo Maestro, infine, mi limito<br />

ad annoverare la parete destra di un’ulteriore<br />

lunetta, ossia quella in cui è decritta, tra le parziali<br />

scene della cristologia casalucense, La chiamata<br />

di Giacomo e Giovanni intenti a pescare<br />

col padre Zebedeo (fig. 11). L’affresco, identificato<br />

anche come Chiamata di Pietro e Andrea 12 ,<br />

raffigura il Cristo che giunge verso la barca dei<br />

pescatori Giacomo e Giovanni per indurli a<br />

seguire la predicazione cristiana. La scena,<br />

modulata in un’ambientazione fluviale, presenta<br />

i due fratelli che lasciano il padre Zebedeo - raffigurato<br />

in barca sull’estrema destra mentre<br />

ricompone la rete, ignaro dell’accaduto - per<br />

ascoltare le parole del Cristo. A questo elaborato<br />

pittorico si dovrà giustamente riconoscere<br />

una sommarietà nelle esecuzioni dei volti, in cui<br />

emergono di buona qualità solo i tratti gentili<br />

del Cristo, personaggio chiave, in relazione a<br />

quelli attoniti dei fratelli pescatori, di resa più<br />

grossolana. Altrettanto indicativi sono i particolari<br />

anatomici delle mani e dei piedi di tutti i<br />

personaggi. Per i panneggi si ricorre a sommarie<br />

campiture cromatiche (povere quantitativamente<br />

e limitate al giallo-ocra, rosso, blu e verde) su<br />

cui vengono registrati sintetici tratti chiaroscurali,<br />

resi essenzialmente tramite solide e scure<br />

pennellate verticali, alternate a lievi biancheggiature.<br />

Elementi di pregio nell’esecuzione dell’elaborato<br />

sono da riconoscere soprattutto nella<br />

rappresentazione spaziale che, seppur impostata<br />

nel condizionato e disarticolato spazio della<br />

semilunetta di destra, si presenta del tutto esaustiva;<br />

presenze urbanistiche sullo sfondo, il<br />

fiume reso in prospettiva sull’area centrale, e la<br />

piccola ambientazione, fortemente marcata da<br />

ritmi chiaroscurali, sullo spazio di destra in cui<br />

viene centrata la scena rappresentata.<br />

In conclusione, nello stesso Terzo Maestro è<br />

da evidenziare una resa minore del naturalismo<br />

presente invece nelle dipinture del Secondo<br />

Maestro. Il Terzo Maestro agisce su composizioni<br />

dai forti verticalismi ed allungamenti anatomici<br />

enfatizzanti: elementi riscontrabili palesemen-


te nei volti e nei corpi allungati dell’Apparizione<br />

di Cristo alla Vergine, facente ugualmente parte<br />

del ciclo.<br />

Conclusioni<br />

A termine di questo breve excursus pittorico,<br />

sarebbe opportuno soffermarsi su altri elementi<br />

che in questo esame non sono stati menzionati.<br />

GIANMATTEO FUNICELLI<br />

Fig. 11 - Terzo Maestro di Casaluce, La chiamata d Giacomo e Giovanni, intenti a pescare col padre Zebedeo, XIV sec. (Napoli, Castel Nuovo, Cappella<br />

di Santa Barbara).<br />

- 87 -<br />

Trattasi di ulteriori pareti affrescate che denunciano<br />

una notevole alterazione e necessitano di un<br />

urgente restauro per ritornare a descrivere una<br />

parentesi dell’arte italiana del XIV secolo, che<br />

tutt’oggi vive in condizioni fatiscenti tra gli<br />

stucchi e le intonacature barocche della Chiesa<br />

di Santa Maria ad Nives di Casaluce, uno scrigno<br />

di storia dell’arte medievale.


NOTE<br />

1 Trattasi della ‘Stagione degli stacchi degli affreschi’, attività di<br />

recupero promossa dalla ‘Scuola di restauro’ fiorentina a partire<br />

dal 1971.<br />

2 Per comprendere validi punti sulla promozione dell’artista<br />

nel tardo Medioevo alla corte dei grandi Imperatori si rimanda<br />

a WARNKE 1995, p. 216.<br />

3 Per la storia del maniero casalucense si veda <strong>DI</strong> NARDO 1969,<br />

pp. 20-25.<br />

4 Risultano scarse le informazioni su Isabella d’Apia: probabilmente<br />

figlia del Cavaliere Giovanni d’Eppes, siniscalco del<br />

Regno di Sicilia. Nata nel 1305 e morta tra il 4 e il 14 luglio a<br />

Napoli del 1375. Alle nozze col del Balzo risultava già vedova<br />

di due matrimoni precedenti. Le sue origini possono essere<br />

chiaramente attestabili in Francia, come si evince dall’epigrafe<br />

iscritta sulla sua tomba che recita: «ISABELLA CELEBRI<br />

SIC NOMINE <strong>DI</strong>CTA / DEQUE APIA CLARUM TRAXIT COGNO-<br />

MEN AVORUM / FRANCIA QUOS GENUIT […]».<br />

5 Al ruolo di committenza che ebbero i del Balzo fa riferimento<br />

una lunga iscrizione in caratteri gotici posta nel portico del<br />

sacrario, precisamente sul lato destro del portale. L’epigrafe,<br />

in cui i consorti vengono esaltati in maniera egualitaria, elogia<br />

la fondazione della chiesa dedicata alla Vergine come frutto<br />

della stretta volontà di entrambi i personaggi.<br />

6 Esiste nel Castello una commissione unicamente diretta da<br />

Isabella. Essa si trova in una lunetta cuspidata nel portale<br />

d’ingresso alla chiesa. Nell’interno vi è un gruppo marmoreo<br />

raffigurante una ‘Madonna con Bambino’ mentre ai lati vi<br />

sono due figure di Santi. Nella figura maschile canuta<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

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dal secondo dopoguerra: criteri, scelte, risultati, in Napoli<br />

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di Napoli, Napoli.<br />

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2, pp. 20-25.<br />

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IDEM 1995 a , L’Italia meridionale, in Pittura murale d’Italia.<br />

Dal tardo Duecento ai primi del Quattrocento, a cura di M.<br />

SALTERNUM<br />

- 88 -<br />

l’iconografia riconosce S. Giacomo Maggiore, mentre l’altro<br />

personaggio intagliato, dai tratti incisivamente femminei, si<br />

presenta come Giovanni, fratello di Giacomo. Sul gruppo statuario<br />

spicca lo stemma nobiliare dei d’Apia, ma questa volta<br />

non integrato a quello dei del Balzo.<br />

7 Donato Pullieni de’ Lupari da Siderno, monaco celestino<br />

dalle alte cariche ufficiali, nacque a Siderno probabilmente<br />

tra il 1570 e il 1575. Dopo aver compiuto i primi studi teologici<br />

ed essere entrato nell’ordine dei Celestini di Bologna,<br />

giunse a Napoli nel 1609, dove si trasferì dapprima nel monastero<br />

di San Pietro a Majella per poi stabilirsi definitivamente<br />

nel Monastero di Casaluce. Qui guidò la sua comunità come<br />

Abate (1609).<br />

8 Nel soggiorno artistico napoletano, Niccolò di Tommaso si<br />

concesse una breve villeggiatura a Capri, dove sulla lunetta<br />

d’ingresso alla Certosa realizzò una Vergine assisa tra due<br />

committenti. Il trono caprese è identico a quello di Celestino<br />

V dell’affresco casalucense.<br />

9 Lo stesso Bologna afferma che Niccolò lasciò rapidamente<br />

Firenze per raggiungere Napoli e realizzare il progetto della<br />

regina angioina Giovanna I, ovvero il Trittico per la Chiesa di<br />

S. Antonio abate a Forìa. Per questo punto si veda BOLOGNA<br />

1969, p. 326.<br />

10 STRINATI 2007, pp. 49-52.<br />

11 Ottavio Morisani attribuì la paternità dell’intero ciclo ad<br />

Andrea Vanni, autore di un vasto polittico di cui una sezione<br />

è conservata presso il Museo di Capodimonte (MORISANI 1947,<br />

pp. 91-92).<br />

12 LEONE DE CASTRIS 1990, p. 80.<br />

GREGORI, Torino, pp. 180-202.<br />

IDEM 1995 b , A margine de “I pittori alla corte angioina”: Maso<br />

di Banco e Roberto d’Oderisio, in Napoli, l’Europa: ricerche<br />

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STRINATI T. et Alii 2007, Casaluce. Un ciclo trecentesco in terra<br />

angioina, Milano.<br />

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WARNKE M. 1995, Artisti di corte. Preistoria dell’artista<br />

moderno, Roma.


MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />

La Natività della tradizione apocrifa<br />

nella cripta della cattedrale di Nusco (AV)<br />

Fig. 1 - Gruppo statuario in stucco con la Vergine distesa dopo il parto e S. Giuseppe. Nusco, Cripta della Cattedrale.<br />

Una rappresentazione presepiale decisamente<br />

inusuale connota una piccola<br />

cappella laterale nella cripta della<br />

chiesa vescovile di Nusco, in provincia di<br />

Avellino. A marcare l’originalità della Natività é<br />

la composizione della scena: in parte affidata a<br />

due singolari statue (fig. 1), entrambe in pesante<br />

stucco cementizio, che mostrano un San<br />

Giuseppe sonnolente e la Vergine distesa dopo<br />

gli sforzi del parto, in parte raffigurata mediante<br />

pitture murali databili alla prima metà del XV<br />

secolo, un parato a fresco che occupa la quasi<br />

- 89 -<br />

totalità delle pareti della piccola cella e che successivi<br />

lavori di sistemazione della soprastante<br />

area presbiteriale hanno in parte compromesso.<br />

Mentre la scoperta e la lettura del ciclo pittorico<br />

e della statua del vecchio dormiente è questione<br />

recente (gennaio 1999), la figura femminile<br />

adagiata su di un catafalco è stata oggetto<br />

nel tempo di diverse interpretazioni. Per secoli è<br />

stata ritenuta come la Vergine del Soccorso, cui<br />

affidare la supplice preghiera delle partorienti;<br />

aspirazione taumaturgica comune per tutto il<br />

Medioevo, quando il parto costituiva un grave


Fig. 2 - Vergine puerpera, statua lignea donata dalla regina di Napoli<br />

Sancia di Maiorca alle Clarisse del Convento di Santa Chiara. Napoli,<br />

Museo di S. Martino (secolo XIV).<br />

pericolo, tale da suggerire alle donne gravide di<br />

rivolgersi in primo luogo alla Madre di Dio per<br />

chiedere a lei, in quanto Madre, aiuto e protezione.<br />

Il successivo ritrovamento, nel 1959, di<br />

un’epigrafe tombale lasciò intendere poi che<br />

quell’ambiente ipogeo potesse essere la cella<br />

sepolcrale dei Gianvilla (Janville) e la scultura la<br />

maschera sepolcrale di Ilaria, la nobile feudataria<br />

di Nusco morta nell’aprile del 1522, visibile<br />

solamente attraverso una sorta di fenestella confessionis<br />

che si apriva nel sacello ipogeico.<br />

Bisognerà attendere l’esecuzione dei lavori successivi<br />

al terremoto del 1980 1 per arrivare all’esplorazione<br />

del piccolo ridotto e conseguentemente<br />

al ritrovamento del ciclo pittorico; cosa<br />

che ha reso certamente più attendibile l’ipotesi<br />

che in quell’ambiente fosse stata ricreata<br />

un’ambientazione presepiale, una ricostruzione<br />

fortemente scenografica, letta alla luce dei<br />

Vangeli apocrifi e realizzata secondo i canoni<br />

iconografici ancora consentiti nei primi secoli<br />

del secondo Millennio.<br />

Nusco, sulla dorsale della linea spartiacque<br />

appenninica, a cavallo dell’alta Valle dell’Ofanto<br />

e del tratto superiore della Valle del Calore, è<br />

città di antica cristianità, sul cui seggio episcopale,<br />

nel 1048, salì per primo S. Amato, grazie alla<br />

nomina ottenuta dall’Arcivescovo di Salerno<br />

Alfano I e con il consenso di Roberto il<br />

Guiscardo. E proprio al Santo Vescovo di Nusco<br />

si deve la costruzione, nel 1093, e la dedicazione<br />

della maggior chiesa al protomartire S. Stefano.<br />

Una dedicazione solo formale, però, poiché da<br />

subito la chiesa fu per tutti quella di Sant’Amato,<br />

come si evince anche da un’ordinatoria di re<br />

SALTERNUM<br />

- 90 -<br />

Roberto d’Angiò del 1311, nella quale la chiesa<br />

vescovile di Nusco veniva denominata col titolo<br />

di Ecclesia Sancti Amati.<br />

La cattedrale si trova al centro della struttura<br />

urbanistica medievale, individuata nella città<br />

murata con il castello. In diretta relazione con la<br />

chiesa maggiore è la piazza, a cui si giunge<br />

attraverso la strada principale che dalla porta<br />

urbis conduce alla cattedrale, il cui impianto fa<br />

riferimento ad una tipica configurazione di stampo<br />

romanico della quale non sono sopravanzati<br />

particolari elementi, tranne poche tracce nella<br />

cripta sottostante il transetto e riferibili alla chiesa<br />

preesistente, forse la primitiva struttura del<br />

complesso di Santo Stefano.<br />

E in questa cripta, dove tra l’altro è conservata<br />

la preziosa urna con le ossa di Sant’Amato, si<br />

apre la cella con la singolare rappresentazione<br />

presepiale di cui ci stiamo occupando.<br />

Nella raffigurazione pittorica della Natività<br />

arcaica, mutila purtroppo in molte parti, anche<br />

se perfettamente leggibile, si riconoscono tutti<br />

gli elementi compositivi che si ritroveranno poi<br />

nella tradizione presepiale occidentale: c’è la<br />

grotta, che poi diverrà una capanna; l’asino e il<br />

bue; gli angeli che danno l’annuncio ai pastori;<br />

i Magi e le levatrici, che in seguito dovranno<br />

scomparire.<br />

A tenere la scena, però, sono le due figure<br />

statuarie: la Madonna, distesa su un prezioso<br />

drappo rosso, come nelle più classiche delle raffigurazioni<br />

bizantine, e S. Giuseppe, raffigurato<br />

nell’atteggiamento meditabondo di chi va interrogandosi<br />

sulla reale paternità di quel bambino.<br />

Praticamente la stessa ambientazione che<br />

M. Piacenza, già presidente della Pontificia<br />

Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e<br />

della Pontificia Commissione di Archeologia<br />

Sacra, descrive in un suo contributo, La rappresentazione<br />

della Natività nell’arte, raccolto in<br />

una nota dell’Agenzia Fides del 23 dicembre<br />

2005: «A partire dal IV secolo la Natività divenne<br />

uno dei temi più frequentemente rappresentati<br />

nell’arte religiosa, come dimostrano il prezioso<br />

dittico in avorio e pietre preziose del V secolo<br />

conservato nel Duomo di Milano, i mosaici della<br />

Cappella Palatina a Palermo, del Battistero di


Venezia e delle Basiliche di Santa Maria<br />

Maggiore e di Santa Maria in Trastevere a Roma.<br />

In queste opere la scena si svolge in una grotta,<br />

utilizzata per il ricovero degli animali, con Maria<br />

distesa come una puerpera, Giuseppe assorto in<br />

un angolo e gli Angeli che portano l’annuncio ai<br />

pastori, mentre a volte in lontananza si intravedono<br />

i Magi. Il centro della composizione è<br />

costituito dal Bambino Gesù, avvolto in fasce,<br />

talmente strette da parere quelle di un morto, e<br />

deposto in una culla, che a volte sembra un sarcofago,<br />

a preannunciare simbolicamente la sua<br />

morte e la risurrezione. La rappresentazione è<br />

inoltre arricchita da particolari tratti dai Vangeli<br />

apocrifi, come il bagno del Bambino, a sottolineare<br />

la realtà dell’incarnazione del Verbo, vero<br />

Dio e vero uomo».<br />

A incoraggiare la tesi che quella della cripta<br />

di Nusco sia una Natività, anche se manipolata<br />

nel tempo, c’è la fattura dei due altorilievi, formati<br />

da parti originali e da altre ricomposte<br />

secoli dopo da mani più inesperte, in una diversa<br />

postura e con materiale differente. Della<br />

Vergine, ad esempio, solo la parte superiore, il<br />

busto e il capo sono primigeni, mentre il resto è<br />

lavoro di restauro, confermato dalla circostanza<br />

che tra il materiale di risulta nella cripta sono<br />

stati poi rinvenuti un piede femminile e una<br />

mano su uno sfondo rosso, facilmente riconoscibili<br />

come il piede e la mano originali.<br />

Un coerente raffronto iconografico rimanda<br />

la lettura della figura della Madonna della cripta<br />

nuscana a quella della Vergine puerpera donata<br />

dalla regina di Napoli Sancia di Maiorca alle<br />

Clarisse del Convento di Santa Chiara e conservata<br />

nel Museo di S. Martino a Napoli (fig. 2).<br />

Questa Madonna, si legge sul pannello didascalico<br />

del sito museale, «é raffigurata distesa,<br />

secondo un’iconografia di provenienza siriaca,<br />

diffusa fin dal VI secolo. Ancora pensosa per il<br />

solitario travaglio ed assorta nell’arcano mistero,<br />

la Vergine aveva, presumibilmente, come in altre<br />

iconografie coeve, il Bambino alle sue spalle<br />

riscaldato dal bue e dall’asino. In questa fase di<br />

svolgimento del tema iconografico la figura di<br />

Giuseppe appare estranea alla scena sacra, mentre<br />

compaiono le nutrici, Zelomi e Salomé citate<br />

nei Vangeli apocrifi».<br />

MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />

- 91 -<br />

Fig. 3 - Scena presepiale, il<br />

primo bagno di Gesù<br />

Bambino. Nusco, Cripta<br />

della Cattedrale.<br />

Una descrizione di come si presentasse quella<br />

che a Nusco, ab antiquis temporibus, era ritenuta<br />

la Vergine delle partorienti l’ha lasciata un<br />

avveduto storico locale, G. Passaro, che ebbe<br />

modo di vedere la statua prima che la successiva<br />

opera restauratrice recuperasse le originali<br />

fattezze e la primitiva postura per consegnarcela<br />

come la si vede oggi: «Nell’ipogeo della cattedrale<br />

di Nusco è un simulacro in gesso, venerato<br />

sotto il titolo di Madonna del Soccorso. Con<br />

le mani giunte, senza Bambino, è vestita di tunica<br />

e di pallio, che, dalla testa, ricadendo sugli<br />

omeri e sulle braccia, finisce quasi nel mezzo<br />

della figura. Porta sul capo una corona, a punte,<br />

di legno dorato; i piedi poggiano su di una mensola<br />

di tiglio; giace distesa sopra un piano leggermente<br />

inclinato».<br />

Della statua di Giuseppe, invece, sono originali<br />

solo la testa e le piante dei piedi, pure queste<br />

ritrovate tra il materiale di riempimento della<br />

cella. I reperti rinvenuti sono in pietra e calce<br />

impastata e rivestita di stucco, lo stesso materiale<br />

con cui è fatta la statua della Madonna.<br />

La riproduzione di tutti gli altri personaggi<br />

del Presepe, invece, è affidata alle pitture murali<br />

e al pennello di un anonimo frescante che<br />

operò sulle pareti della cripta-grotta dell’antica<br />

cattedrale di Nusco.<br />

L’esegesi teologico-iconografica di questa<br />

Natività rende evidente l’umanità di Maria, collocata<br />

al centro della ricostruzione scenografica;<br />

una condizione che fa da contraltare alla divinità<br />

del Bambino. Tale centralità trova la sua<br />

ragion d’essere nei canoni del Concilio di Efeso


Fig. 4 - Scena presepiale, Gesù Bambino nella culla tra il bue e l’asino.<br />

Nusco, Cripta della Cattedrale.<br />

Fig. 5 - Scena presepiale, l’annuncio ai pastori. Nusco, Cripta della<br />

Cattedrale.<br />

Fig. 6 - Scena presepiale,<br />

i Magi in cammino.<br />

Nusco, Cripta della<br />

Cattedrale.<br />

SALTERNUM<br />

- 92 -<br />

del 431, che indicò la Vergine come il più perfetto<br />

esempio di umanità, proclamandola con il<br />

titolo di Theotókos, Madre di Dio; in questo<br />

richiamando con maggiore pregnanza quanto<br />

già i Vangeli avevano fatto comprendere, là<br />

dove si legge di Maria che ha concepito e generato<br />

un figlio, il quale è il Figlio dell’Altissimo,<br />

Santo e Figlio di Dio (Lc 1,31-32.35); Maria inoltre<br />

è chiamata ‘Madre di Gesù’ (Gv 2,1.3; At<br />

1,14), ‘Madre del Signore’ (Lc 1,43) o semplicemente<br />

‘madre’, ‘sua madre’ come più volte nel<br />

capitolo 2 di Matteo.<br />

Con l’intento di sottolineare l’assoluta naturalità<br />

della nascita del Bambino, la Vergine della<br />

cripta nuscana rimanda, per la sua posizione<br />

sdraiata, all’immagine di una puerpera che si è<br />

appena sgravata. Il suo volto, però, è sereno e<br />

per niente provato dalle fatiche del parto, così<br />

come vuole la concezione teologica di alcuni<br />

Padri della Chiesa, tra i quali S. Girolamo, che<br />

ritengono che il parto di Maria sia avvenuto<br />

senza degradazione e senza dolore.<br />

Nella scena presepiale di Nusco è del tutto<br />

evidente che la Madonna ha occhi solo per il<br />

Bambino, immerso già grandicello in una conca<br />

che ricorda il fonte battesimale, mentre due<br />

donne si occupano di lavarlo (fig. 3). La più<br />

anziana di queste, vestita con abiti più sontuosi,<br />

è certamente Salomè, l’ostetrica che, secondo i<br />

Vangeli apocrifi, ha dubitato della verginità di<br />

Maria. L’altra, invece, vestita più poveramente, è<br />

Zelomi.<br />

E occorre rifarsi ancora ai testi apocrifi<br />

(Protovangelo di Giacomo 18-19; Vangelo dello<br />

Pseudo-Matteo; Vangelo dell’infanzia arabosiriaco;<br />

Vangelo dell’infanzia armeno) per leggere<br />

l’altra scena della Natività, visibile alle<br />

spalle della Madonna, quella dove campeggia il<br />

Bambino con le fattezze di un neonato che sta<br />

ad indicare che tutto è presente, che il moto<br />

della natura è sospeso.<br />

Assecondando la teologia per immagini<br />

della tradizione bizantina, l’Infante è raffigurato<br />

tra il bue e l’asino (fig. 4), avvolto in fasce<br />

che ricordano le bende della sepoltura e in una<br />

vasca in pietra che ha le fattezze di una cassa<br />

sepolcrale, aperta per anticipare quello che<br />

sarà il destino umano del Salvatore dell’umani-


tà. In entrambe le scene la divinità del<br />

Bambino viene espressamente fatta risaltare dai<br />

nimbi dorati che cerchiano il capo delle due<br />

figure infantili.<br />

Un angelo, intanto, non molto lontano,<br />

annuncia solennemente ai pastori la nascita del<br />

Messia (fig. 5), mentre i Magi già sono in cammino,<br />

a piedi o su cavalcature le cui briglie sono<br />

rette da un paggio (fig. 6).<br />

Il paesaggio che fa da sfondo alla Natività è<br />

segnato da una rada vegetazione che si alterna<br />

a rocce taglienti e a spigoli vivi, quasi a volere<br />

significare che il Salvatore è nato in un mondo<br />

arido e freddo e quindi ostile.<br />

Dall’alto, infine, scendono tre raggi della stella<br />

di Giacobbe, evocata dall’oracolo messianico<br />

del mago Balaam, la cui storia si legge nel libro<br />

biblico dei Numeri (24, 17).<br />

Insieme a tutto questo, al disotto della scena<br />

pittorica e giusto ai piedi della Madonna, c’è la<br />

statua di S. Giuseppe, mostrato come un uomo<br />

anziano; peculiarità che viene ancora una volta<br />

ripresa dai Vangeli apocrifi. Il vegliardo, infatti,<br />

è rappresentato distante, in atteggiamento pensieroso,<br />

rinchiuso di fronte al mistero nel mantello<br />

dei propri pensieri e nel suo umanissimo<br />

dubbio. Lui sa di non essere il padre del neonato,<br />

per cui pare quasi che non voglia lasciarsi<br />

coinvolgere dalla scena e nella scena che si svolge<br />

attorno a lui.<br />

Questa tipologia di raffigurazione si ritrova<br />

assai di frequente in affreschi quattrocenteschi<br />

del Cilento, come la Natività nella cripta di<br />

Santa Maria dei Longobardi a Novi Velia (fig.<br />

7), pure questa chiaramente ispirata dai Vangeli<br />

apocrifi. Testi la cui influenza sarà riconosciuta<br />

acriticamente, almeno fino ai veti imposti dal<br />

Concilio di Trento, come un valido strumento<br />

didattico e didascalico. L’arte e la letteratura,<br />

infatti, hanno guardato attentamente per tutto il<br />

Medioevo e il Rinascimento all’intensa carica di<br />

umanità e al fin troppo esplicito realismo che<br />

contraddistinguono, ad esempio, i Vangeli dell’infanzia,<br />

che a differenza dei testi canonici<br />

raccontano con maggiore senso narrativo la<br />

nascita miracolosa di Gesù fino a coinvolgere<br />

personaggi nuovi. Cosicché, anche nella cripta<br />

della Cattedrale di Nusco, immaginata come la<br />

MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />

- 93 -<br />

Fig. 8 - Natività. Laurito, Chiesa di S. Filippo d’Agira.<br />

Fig. 7 - Natività.<br />

Novi Velia, Cripta<br />

di S. Maria dei<br />

Longobardi.<br />

grotta sotterranea «in cui non c’era mai stata<br />

luce, ma sempre tenebre», secondo il Vangelo<br />

dello Pseudo-Matteo XI, si vedono le levatrici<br />

impegnate a fare il bagno a Gesù.<br />

La presenza delle donne colloca gli affreschi<br />

di Nusco tra gli epigoni delle rappresentazioni<br />

presepiali che hanno attinto alla tradizione<br />

apocrifa, e per questo assumono un valore e<br />

un significato decisamente più interessante.<br />

Riprendendo il discorso sulle prescrizioni<br />

imposte dal Concilio tridentino, è utile ricordare<br />

la Natività della Chiesa di S. Filippo d’Agira<br />

a Laurito (fig. 8), cittadina prossima a Novi<br />

Velia, dove, mentre continuano ad esserci tutte<br />

le figure e gli elementi arcaici, la Vergine è ora<br />

in piedi, in posizione adorante. Altra evoluzione<br />

iconografica è quella che si ritrova nel battistero<br />

paleocristiano di S. Maria Maggiore a<br />

Nocera Superiore, dove la ‘grotta’ della natività<br />

è diventata la ‘capanna’ immaginata da San


Francesco.<br />

Già prima che la Chiesa vietasse con il<br />

Concilio di Trento la riproduzione nelle raffigurazioni<br />

iconografiche di soggetti dottrinalmente<br />

non corretti, quale era la scena del bagno e il<br />

parto della Vergine simile a quello di una comune<br />

donna, le elaborazioni dogmatiche di San<br />

Tommaso e le Meditazioni sulla vita di Cristo<br />

dello Pseudo-Bonaventura (il francescano<br />

Giovanni De Caulibus di San Gimignano)<br />

influenzarono l’operato degli artisti. Santa<br />

Brigida di Svezia, destinataria di suggestive<br />

Revelationes su alcuni episodi della storia sacra,<br />

tra i quali la nascita del Cristo, contribuì con<br />

maggiore determinazione a suggerire nuove<br />

figurazioni iconografiche, affermando che sul<br />

corpo di Gesù non c’era ombra di lordura.<br />

La descrizione della Natività fatta dalla Santa<br />

svedese, così dettagliata e ricca di particolari,<br />

ebbe maggiore impatto sugli artisti rispetto alle<br />

Meditationes vitae Christi, cosicché l’impianto<br />

rappresentativo del Natale conobbe, allora, una<br />

considerevole innovazione nei contenuti e nel<br />

linguaggio figurativo.<br />

In particolare, la formulazione di questa<br />

nuova rappresentazione andò presumibilmente<br />

sviluppandosi a Napoli ad opera del fiorentino<br />

Niccolò di Tommaso, pittore di corte della regina<br />

Giovanna negli anni Settanta del XIV secolo.<br />

L’artista toscano, che con molta probabilità<br />

aveva incontrato Brigida proprio alla corte<br />

angioina 2 , dove la visionaria svedese, di ritorno<br />

dal viaggio in Terra Santa, era giunta alla fine del<br />

1372 per restare ospite per qualche tempo nel<br />

palazzo di Aversa, ripropose in tre piccoli pannelli<br />

la visione della Natività secondo i canoni<br />

dettati da Brigida, che venne raffigurata mentre<br />

riceve le rivelazioni a Betlemme.<br />

In questi dipinti, oggi conservati in diversi<br />

musei 3 , la nobildonna svedese, priva di aureola<br />

perché non ancora santa, viene rappresentata<br />

genuflessa intanto che assiste adorante alla<br />

visione di Maria inginocchiata di fronte al Figlio<br />

che giace sul pavimento della grotta.<br />

Per tornare alla lettura critica della Natività<br />

della chiesa vescovile di Nusco, occorre dire che<br />

la ricostruzione riempie tutta la volta della grotta,<br />

mentre la Vergine puerpera, pur nella sua<br />

SALTERNUM<br />

- 94 -<br />

centralità scenografica, guarda il divino<br />

Bambino in piedi in una conca tondeggiante che<br />

ricorda il fonte battesimale. Gesù, identificato da<br />

un’aureola crucesignata, dorata ed evidenziata<br />

da perline bianche, è già grandicello.<br />

Nell’affresco Salomé é raffigurata vestita di<br />

verde, con uno scialle che le fascia la testa fin<br />

sotto il mento; nella mano sinistra regge una<br />

brocca monoansata, mentre con la destra sembra<br />

saggiare la temperatura dell’acqua nella<br />

vasca. L’altra donna, Zelomi (negli apocrifi viene<br />

identificata anche come Eva), con una tunica<br />

rossa e pure lei con il capo coperto da una sorta<br />

di cuffia, è intenta a lavare il divino giovinetto.<br />

La scena si consuma sulla soglia di quella<br />

che l’anonimo frescante nuscano ha immaginato,<br />

con una suggestiva costruzione scenografica,<br />

come una grotta segnata da massi sporgenti<br />

e irregolari che ne delimitano l’ingresso.<br />

L’affresco si rivela ancora arcaico nella<br />

costruzione dello spazio, nella mancanza di<br />

prospettiva e di profondità e nella piattezza di<br />

talune figure. Ciò nonostante si possono cogliere<br />

in alcune parti di esso i caratteri dell’innovativa<br />

pittura che già andava caratterizzandosi in<br />

contesti geografici e culturali più vicini alla<br />

modernità, con un contrasto stilistico che<br />

denuncia come evidente la presenza, sulla<br />

parete frontale, di un secondo frescante nell’angelo<br />

che annuncia a due pastori la nascita<br />

del Salvatore: probabile segno che nella cripta<br />

era stato avviato un cantiere.<br />

Vicino al Cristo bambino, nel lacerto di affresco,<br />

sono evidenti poche tracce pittoriche relative<br />

alla presenza del bue e dell’asino; purtroppo assai<br />

danneggiate dai lavori che interessarono la cripta.<br />

Del ruminante, alla destra del neonato e di color<br />

marrone, sono visibili solo una piccola parte delle<br />

zampe anteriori mentre è molto chiaro il ciuffo di<br />

fieno che viene fuori dalla bocca; dell’asino, invece,<br />

di colore grigio, si possono vedere gli zoccoli<br />

e parte della testa con un occhio.<br />

Purtroppo i lavori che tra il 1740 e il 1780,<br />

per iniziativa dei vescovi del tempo, servirono<br />

per consolidare la soprastante area del coro<br />

comportarono l’abbassamento della volta della<br />

cella e la conseguente distruzione della parte<br />

superiore dell’affresco.


Con queste opere strutturali sono state troncate<br />

di netto anche la testa e parte delle ali di un<br />

angelo annunciante, la cui figura si staglia dalla<br />

sommità di una colonna spezzata, della quale<br />

sono fin troppo delineate le scanalature verticali<br />

con gli spigoli smussati. La creatura celestiale,<br />

che indossa una preziosa veste damascata, una<br />

dalmatica nei colori rosso-oro, regge con la<br />

mano sinistra un lungo rotolo che gli arriva fino<br />

ai piedi e dal quale ha appena proclamato<br />

l’annuncio ai pastori.<br />

Questi, che puntano increduli lo sguardo sul<br />

messaggero divino, indossano una veste corta al<br />

ginocchio e la mantellina, calzano stivali morbidi<br />

e imbracciano un lungo bastone alla maniera<br />

dei pellegrini in viaggio.<br />

Alle loro spalle, sulla parete sinistra, la stessa<br />

mano ha raffigurato una scena pastorale (fig. 9)<br />

dove si vede un recinto per gli animali con alcune<br />

pecore che si rincorrono, mentre altri ovini<br />

bianchi e neri pascolano nei pressi, sorvegliati da<br />

un cane decisamente minaccioso. Tutt’intorno il<br />

paesaggio mostra alberi e arbusti cespugliosi. Nel<br />

trattamento degli animali raffigurati, questa<br />

scena pastorale richiama ancora una volta<br />

l’impianto pittorico che si ritrova nella già citata<br />

Natività quattrocentesca di Novi Velia.<br />

Si diceva di almeno due mani che, probabilmente<br />

intorno ai primi decenni del XV secolo,<br />

erano al lavoro nella cripta della Cattedrale di<br />

Nusco. La prima, quella che si impegna nella<br />

descrizione del Bambino, può ben essere quella<br />

di un pittore locale, sicuramente colto ma<br />

con scarsa predisposizione alla raffigurazione<br />

dei dettagli anatomici. Basta vedere come<br />

dipinge le braccia e le mani di Gesù, o quelle<br />

delle levatrici: arti tozzi, dove non c’è soluzione<br />

di continuità tra braccio e avambraccio, tra<br />

polso e mano. Doveva trattarsi di un pittore<br />

erudito, però, perché mostra di conoscere la<br />

Natività del Maestro della Cappella Barrile a<br />

San Lorenzo in Napoli (fig. 10), al quale si ispira<br />

con sorprendente evidenza nel disegno della<br />

cuffia che raccoglie i capelli di Zelomi e nei<br />

colori della veste di Salomè, pressoché identica<br />

nella gradazione di verde scelto per il tessuto<br />

dell’abito.<br />

MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />

- 95 -<br />

Fig. 9 - Scena<br />

pastorale.<br />

Nusco, Cripta<br />

della<br />

Cattedrale.<br />

Fig. 10 -<br />

Natività.<br />

Napoli,<br />

chiesa di<br />

S. Lorenzo,<br />

Cappella<br />

Barrile.<br />

Molto più eloquente è il secondo frescante, al<br />

cui pennello si deve attribuire l’annuncio dell’angelo<br />

ai pastori, la scena pastorale con lo stazzo<br />

e gli ovini, e ancora le figure dei Magi giunti<br />

seguendo la stella. Qui, con un netto distacco<br />

dei colori, il maestro ha rappresentato la scena<br />

e i personaggi con modi quasi miniaturistici,<br />

capaci di trasferire figure e personaggi dalla ben<br />

nota ritualità del mondo rurale e pastorale ad<br />

un’ambientazione immaginifica che si poggia su<br />

un paesaggio agreste, dove la caratterizzazione<br />

degli animali e della realtà circostante è enfatizzata<br />

da un’insolita e marcata sproporzione<br />

rispetto ai pastori, che nulla toglie però ad<br />

un’ammirevole sensibilità naturalistica.<br />

Se non ci fu proprio un vero cantiere, è lecito<br />

pensare che nella cripta nuscana abbiano<br />

operato in stretta collaborazione due pittori.<br />

Non è facile dire, considerata l’innegabile<br />

coerenza e la logica organicità, se operanti in<br />

contemporanea ovvero in successione, con il


secondo che riprende l’impostazione già data al<br />

programma dal suo predecessore.<br />

L’impostazione pittorica ricorda iconograficamente<br />

anche i cicli di affreschi dell’alto casertano,<br />

ed in particolare quello della Chiesa di<br />

Sant’Antonio Abate a Sant’Angelo d’Alife, datato<br />

intorno agli anni Trenta del ‘400 e inizialmente<br />

attribuito a Perrinetto da Benevento; attribuzione<br />

che negli ultimi anni pare non trovare più<br />

sufficiente fondamento.<br />

Il nostro frescante sembra aver guardato,<br />

almeno un decennio dopo, ai cantieri dell’area<br />

matesina-alifana, e in particolare agli affreschi<br />

della Chiesa di San Biagio a Piedimonte Matese,<br />

a quelli di Sant’Antonio abate a Pantuliano di<br />

Pastorano e alle citate pitture dell’omonima<br />

chiesa santangiolese, assimilando e cercando di<br />

far propria quella cultura.<br />

Un contesto geografico e culturale, quello<br />

alifano, in qualche modo legato alla storia delle<br />

comunità dell’alta valle del Calore grazie ad una<br />

lunga signoria feudale avuta in comune, che fa<br />

ipotizzare frequenti contatti e scambi di servizi<br />

artistici tra le due realtà territoriali. È provato,<br />

infatti, che le terre irpine e quelle del medio<br />

Volturno (fiume affluente del Calore) fossero,<br />

dal 1194 al 1269, nel possesso feudale dei<br />

Schweisspeunt prima e dei d’Aquino dopo, e<br />

dal 1307 al 1345 dei Gianvilla, casate che contemporaneamente<br />

tenevano anche Nusco. E<br />

ancora più stretto fu il rapporto quando<br />

Ceccarella, figlia secondogenita di Amelio<br />

Gianvilla, conte di Sant’Angelo dei Lombardi e<br />

della terra di Nusco, tra la fine del 1300 e i primi<br />

anni del 1400 andò in sposa a Goffredo di<br />

Marzano, conte di Alife.<br />

Che ci fosse un consolidato contatto tra<br />

l’area alifana e l’alta valle del Calore è provato,<br />

inoltre, anche dall’acquisto che gli Origlia,<br />

signori di Alife dal 1407 al 1419, fecero del<br />

feudo irpino di Volturara, ricomprato ancora<br />

una volta alla fine del 1530 dal nuovo feudatario,<br />

il Conte Antonio Diaz Garlon.<br />

La scena pastorale degli affreschi alifani, così<br />

come la raffigurazione degli animali e la vegetazione,<br />

infatti, impongono inevitabilmente il<br />

confronto con gli analoghi soggetti della cripta<br />

nuscana, che divide con gli affreschi delle cita-<br />

SALTERNUM<br />

- 96 -<br />

te chiese dell’area matesina anche la rappresentazione<br />

morfologica degli elementi lapidei, che<br />

si presentano uniformemente aspri e frastagliati.<br />

Va detto, in ogni caso, che mentre è indubbio<br />

che questi motivi erano ricorrenti nelle aree<br />

interne, e per il momento solo con esse, visto il<br />

paragone già proposto con l’affresco di Novi<br />

Velia, il confronto con la pittura napoletana<br />

resta assolutamente impossibile, dal momento<br />

che nella Capitale quasi nulla ci è pervenuto<br />

quanto a cicli tardogotici. Per di più è singolare<br />

la notevole analogia della figura di San<br />

Giuseppe nella scena cilentana con il sonnolente<br />

patriarca di quella a S. Angelo d’Alife.<br />

Riprendendo il discorso sulle pitture della<br />

cripta di Nusco, va notato che mentre vicino<br />

alle ali dell’angelo annunciante si intravedono<br />

appena le punte estreme di quella che doveva<br />

essere la stella di Giacobbe, meglio conservata<br />

è invece la scena dei Magi che arrivano al<br />

cospetto del Messia. La regalità dei tre sapienti,<br />

preannunciati dalla stella che due di loro sembrano<br />

indicare con l’indice destro puntato verso<br />

l’alto, è contraddistinta dalle corone che portano<br />

con sicurezza e che danno ad ognuno un<br />

prestigio che incute deferenza anche da parte<br />

del paggio di colore che li accompagna e che<br />

resta un passo indietro, compreso anche lui<br />

dalla considerazione che sta vivendo un’ora<br />

grande e decisiva. Il rispetto per i Magi, che esibiscono<br />

barbe lunghe e ben tenute che ci permettono<br />

di attribuire loro un’età giovane, adulta<br />

e anziana, è enfatizzato pure dal loro abbigliamento<br />

semplice e severo, caratterizzato da<br />

un mantello sopra una lunga tunica da cui fuoriescono<br />

gli stivali alti, di morbida pelle, che<br />

tendono ad afflosciarsi con pieghe di originale<br />

sinuosità.<br />

Scrive ancora M. Piacenza: «Dal secolo XIV<br />

anche l’aspetto dei Magi comincia a differenziarsi.<br />

Identificati con i tre popoli discendenti<br />

dai figli di Noè, diventano i rappresentanti<br />

rispettivamente delle tre razze umane, dei tre<br />

continenti allora conosciuti e delle tre età dell’uomo…».<br />

I tre saggi, infine, hanno tra le mani una<br />

sorta di pisside lungiforme e sfaccettata, che


contribuisce a dare valore ai doni che ognuno<br />

di loro porta a Betlemme.<br />

Del cielo nel ciclo pittorico di Nusco, di colore<br />

blu e trapuntato di stelle, è rimasto ben poco<br />

a causa dei citati lavori per l’abbassamento della<br />

volta. Ma l’osservazione attenta delle pitture<br />

mostra con evidenza che l’affresco doveva proseguire<br />

anche al di fuori dell’attuale perimetro<br />

della cella, dove un muro di sostegno del vano<br />

ipogeo le ha purtroppo interrotte.<br />

MARIA GIOVANNA VESPASIANO<br />

- 97 -<br />

L’importanza delle pitture murali della cattedrale<br />

di Nusco non deriva esclusivamente dalla<br />

loro particolare cifra artistica, ma anche e<br />

soprattutto dal fatto di avere la capacità di riassumere,<br />

in uno spazio fisico limitatissimo, il<br />

complesso ed articolato universo della Natività<br />

nella cultura religiosa dell’epoca.<br />

Del resto il tema della Natività aveva assunto,<br />

fin dall’antichità, un ruolo primario nell’iconografia<br />

dell’arte sacra, essendo, insieme alla<br />

Passione, l’evento centrale della Cristianità.


Questo studio riprende e sintetizza uno degli argomenti della tesi<br />

di laurea in Storia dell’Arte Medievale ‘Affreschi del XIV e XV secolo<br />

nell’Alta Valle del Calore’, Istituto Universitario ‘Suor Orsola<br />

Benincasa’ - Napoli (a.a. 2007-2008, Relatore: prof. P. Leone De<br />

Castris).<br />

NOTE<br />

1 PASSARO 1980, p. 171.<br />

2 La presenza a Napoli della nobile svedese è confermata da<br />

una testimonianza raccolta nelle udienze per la canonizza-<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

ABBATE F. 1990 (a cura di), Il Cilento ritrovato: la produzione<br />

artistica nell’antica diocesi di Capaccio (Catalogo della<br />

Mostra, Padula), Napoli.<br />

CARAFA R. 1998, La chiesa di S. Maria dei Lombardi, in “I<br />

beni culturali”, VI, 3/98, pp. 40-42.<br />

CASAZZA C. 1860, Sulla statua della beata Vergine detta del<br />

Soccorso esistente nell’ipogeo della chiesa vescovile di Nusco<br />

in provincia di P. U., Napoli.<br />

PASSARO G. 1980, Cronotassi dei Vescovi della Diocesi di<br />

Nusco, Napoli, vol. IV, parte II, Tavv. 51-100.<br />

SVANBERG J. 2003, Niccolò Di Tommaso’s paintings in the<br />

Naples area and Birgitta, in AILI H. - SVANBERG J. 2003,<br />

Imagines Sanctae Birgittae: the earliest illuminated manuscripts<br />

and panel paintings related to the revelations of St.<br />

Birgitta of Sweden, The Royal Academy of Letters, History<br />

and Antiquities, Stockholm.<br />

zione della futura santa, avvenuta nel 1391 ad opera di<br />

Papa Bonifacio IX (cfr. SVANBERG 2003, p. 101, n. 60).<br />

3 Dei tre dipinti uno, Santa Brigida di Svezia e la Visione della<br />

Natività, è nella Pinacoteca Vaticana; un secondo, commissionato<br />

dalla Regina Giovanna per la chiesa di S. Antonio abate,<br />

è conservato nella Johnson Collection del Philadelphia<br />

Museum of Art; il terzo, infine, è alla Yale University tra le<br />

opere dell’Art Collection.<br />

SITOGRAFIA<br />

BERGAMO M. 2003, Da Maria puerpera a Maria adorante -<br />

Evoluzione della postura della Madre di Dio nelle immagini<br />

della Natività, inEngramma, Rivista on-line del Centro<br />

studi ‘Architettura, civiltà, tradizione del classico’<br />

dell’Università IUAV di Venezia, n. 29, dic. 2003.<br />

http://www.engramma.it/engramma_v4/rivista/esperidi/29<br />

/029_nativita_home.html<br />

PIACENZA M. 2005, La rappresentazione della Natività<br />

nell’arte, in Agenzia Fides, 23/12/2005.<br />

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commi<br />

ssions/pcchc/documents/rc_com_pcchc_20051223_nati<br />

vita-arte_it.html


Origini e sviluppo dell’architettura rurale<br />

nella piana del Sele: l’esempio della Masseria Fosso<br />

Premessa<br />

La Piana del Sele ha offerto sin dal<br />

Paleolitico felici condizioni di insediamento<br />

a piccole comunità che, agevolate<br />

dal clima dolce e dal suolo fertile, ne sfruttavano<br />

i molteplici fiumi e torrenti.<br />

Tra il 730 e il 580 a.C. Etruschi e Greci si stabilirono<br />

rispettivamente alla destra e alla sinistra<br />

del fiume Sele, traendo potere e ricchezza dai<br />

commerci, dallo sfruttamento cerealicolo della<br />

terra e contrastando, in tal modo, l’espandersi<br />

della palude, oltre che favorendo la diffusione di<br />

fattorie e santuari agresti.<br />

A partire dal III secolo a.C., con l’avvio della<br />

politica di espansione da parte di Roma, si consolidò<br />

il processo di omologazione culturale,<br />

cominciato con la comparsa nella Piana degli<br />

Oschi, dei Sanniti, dei Lucani. Iniziò, quindi, un<br />

periodo di prosperità con la costruzione di<br />

ponti, strade, ville e con l’impianto di canali, atti<br />

a prosciugare le aree acquitrinose.<br />

Tuttavia, il trasferimento della capitale a<br />

Bisanzio e le invasioni barbariche determinarono<br />

anche in queste aree l’estendersi della palude<br />

e la conseguente malaria; inoltre, già con<br />

l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. il lapillo si era<br />

depositato nei canali di drenaggio, contribuendo<br />

alla loro definitiva scomparsa. Le popolazioni<br />

della Piana, stremate dalle difficoltà ambientali,<br />

si ritirarono sui monti, in luoghi più salubri e<br />

sicuri.<br />

La ricostruzione demografica delle campagne<br />

iniziò durante il periodo di massimo splendore<br />

della Repubblica di Amalfi e del Principato di<br />

Salerno: parallelamente al sorgere di vari monasteri<br />

benedettini, centri di comunità religiose ed<br />

agricole, cominciarono a disseminarsi piccole<br />

LORELLA MAZZELLA<br />

- 99 -<br />

Fig. 1 - Localizzazione della Masseria Fosso sulla mappa catastale.<br />

Fig. 2 - ASNa, Archivio Privato Doria d’Angri, parte I, 1827, busta<br />

863.<br />

abitazioni rurali al fine di ospitare i contadini trasferitisi<br />

in zona a seguito della messa a coltura<br />

delle terre appartenenti alla Badia di Cava e alla<br />

Chiesa salernitana.<br />

Origini e sviluppi<br />

Il Medioevo, dunque, diede inizio alla fioritura<br />

economica della Piana, poiché i principi longobardi,<br />

oltre a fondare vari monasteri, promossero<br />

un diffuso tentativo di bonifica e di recupe-


Fig. 3 - Masseria Fosso. Veduta esterna.<br />

ro di terreni incolti, provato dall’impianto di<br />

vigneti anche in zone malsane, dalla costruzione<br />

di numerosi mulini ad acqua e dall’edificazione<br />

di cappelle rurali allo scopo di provvedere<br />

alla vita spirituale dei contadini.<br />

Le costruzioni rurali vennero ubicate nei<br />

punti meno pericolosi per le infezioni malariche,<br />

con possibilità di irrigazione sfruttando<br />

attraverso sistemi rudimentali le acque di fiumi<br />

e torrenti, e lungo le grandi strade di comunicazione<br />

che conducevano al Cilento o alle<br />

Calabrie.<br />

In un primo momento le peculiarità di tali<br />

abitazioni - orientamento, materiali e tecniche<br />

costruttive, distribuzione interna, utilizzo di<br />

scale esterne, porticati, terrazze - furono fortemente<br />

condizionate dalle caratteristiche geologiche<br />

e climatiche del territorio, connesse<br />

alle limitazioni economiche e alle esigenze<br />

funzionali della società contadina; successivamente,<br />

la progressiva estensione del patrimonio<br />

terriero ecclesiastico e baronale rese tali<br />

costruzioni espressione tangibile e irriproducibile<br />

dei cambiamenti sociali, economici e culturali<br />

in atto.<br />

Aggiunte e ampliamenti vennero realizzati a<br />

partire dal nucleo primitivo delle abitazioni,<br />

proporzionali all’estensione della proprietà o<br />

alla potenza della casata, fino alla trasformazione<br />

di esse, nel XVII secolo, in importanti aziende<br />

condotte da grandi feudatari o affittate o<br />

affidate in dote per matrimoni o monacazioni.<br />

A seconda delle possibilità di irrigazione e<br />

delle comodità che la masseria offriva (attrezzi<br />

per la pigiatura e la fermentazione del mosto,<br />

pozzo di acqua sorgente, stalla, forno, aia), le<br />

proprietà potevano comprendere terreni arbustati,<br />

vitati, seminatori e fruttiferi.<br />

SALTERNUM<br />

- 100 -<br />

Dunque, l’acquisto di una masseria ben<br />

attrezzata richiedeva somme piuttosto consistenti<br />

e, conseguentemente, accanto ai grandi Ordini<br />

Religiosi, i grandi feudatari della Piana furono i<br />

Grimaldi, i Filomarino, i Genovese, i Pignatelli<br />

Noja, i Doria d’Angri.<br />

Inoltre, allo sfruttamento agricolo della Piana<br />

promosso dalle masserie si lega la nascita della<br />

città di Battipaglia - il cui spunto venne offerto<br />

dalla volontà di ospitare i terremotati di Melfi<br />

(1857) - ed alla creazione di tabacchifici, conservifici,<br />

caseifici.<br />

Dei molteplici organismi di architettura rurale<br />

disseminati nel territorio della Piana, si indaga<br />

il caso della masseria Fosso che, per vicende<br />

storiche, peculiarità e caratteristiche costruttive,<br />

rappresenta il monumento/documento esplicativo<br />

di quanto detto finora.<br />

La Masseria Fosso<br />

Vicende storiche<br />

Fosso è un’importante costruzione rurale ubicata<br />

in località Tusciano, posta immediatamente<br />

ad Ovest del fiume omonimo, in un territorio<br />

che ora appartiene al comune di Battipaglia, ma<br />

che fino ad un passato recente apparteneva a<br />

quello di Montecorvino.<br />

Essa, probabilmente, deriva il suo nome dall’utilizzo<br />

dei ‘fossi’, canali artigianali realizzati<br />

per irrigare i campi incanalando le acque del<br />

Tusciano; infatti, i canali erano limitati proprio a<br />

solchi scavati nel terreno a seconda delle esigenze<br />

e della posizione dei fondi che venivano irrigati.<br />

Non si conosce la data di fondazione della<br />

masseria ma nell’anno 940 Guaimario II arricchì<br />

il patrimonio arcivescovile con la donazione di<br />

alcuni terreni ubicati a poca distanza dal<br />

Tusciano e dal suo affluente, il Cornea 1 .<br />

Successivamente, nel 977, il principe Gisulfo I<br />

donò all’Arcivescovo tutte le terre di cui non era<br />

ancora proprietaria poste tra il fiume Tusciano e<br />

la riva del mare 2 ; tale lascito fu confermato dai<br />

suoi successori, mentre nel 982 la Mensa<br />

Arcivescovile salernitana ottenne anche il diritto<br />

del «decursus aquarum» sui fiumi Tusciano e<br />

Sele da Ottone II 3 .


In epoca normanna anche Roberto il<br />

Guiscardo confermò i possedimenti della<br />

Chiesa 4 , la quale conduceva i suoi beni con contratti<br />

di locazione «ad amphiteosim perpetuam»,<br />

mediante i quali si richiedeva ai locatari il dissodamento<br />

delle terre incolte e il miglioramento di<br />

quelle già coltivate; in cambio si concedeva il<br />

godimento del fondo e la facoltà di trasmetterlo<br />

agli eredi.<br />

In un documento del 1321, Bartolomea, badessa<br />

del monastero di S. Lorenzo di Amalfi, cedette<br />

in locazione a «(…) Nicolao f. qd Francisci de<br />

Rodoerio da Girono terram seminatoriam sitam in<br />

Tussano ubi a lu Fossu dicitur (…)» 5 .<br />

Nel 1331 Petrus de Vallone di Salerno fittò a<br />

Bernardo de Morcono per parte del monastero<br />

di S. Lorenzo di Amalfi una terra situata fuori<br />

Salerno «(…) in loco Tussiani seu Fossi» 6 .<br />

Il 19 novembre del 1367 la località Fosso è<br />

nuovamente citata in una lite giudiziaria per il<br />

possesso del Priorato di S. Maria de ‘dopmo’ e di<br />

S. Massimo, tra l’Arcivescovo di Salerno<br />

Guglielmo e l’abate di Cava Golferio; ma in questo<br />

caso la citazione è marginale, in quanto<br />

serve solo ad indicare che il vastatario di S. Mattia<br />

è ‘prope fossum’ 7 .<br />

Il potere arcivescovile sul territorio della<br />

Piana durò fino al 1550 circa: nel 1494 Alfonso<br />

d’Aragona stabilì che Montecorvino entrasse a<br />

far parte del Regio Demanio; la disposizione fu<br />

successivamente confermata da Ferdinando il<br />

Cattolico nel 1509 e, definitivamente, da Carlo V<br />

nel 1536. Successivamente i sovrani spagnoli<br />

posero in vendita alcuni territori del Demanio e<br />

il Feudo di Montecorvino fu venduto nel 1572 a<br />

Nicolò Grimaldi, marchese di Eboli e duca del<br />

Vallo di Diano.<br />

Nel 1590 Montecorvino ottenne la reintegrazione<br />

nel Regio Demanio ma ancora posta in<br />

vendita nel 1638 e acquistata dal principe di<br />

Noja, don Giulio Pignatelli «mediante publico<br />

Istrumento rogato al 26 agosto dell’anno sudetto<br />

1638 stipulato per il q: Notar Massimo Passaro di<br />

Napoli, regente di Notaro della Regia Corte» 8 ;<br />

questi, a sua volta, donò lo Stato nel 1644 al<br />

figlio secondogenito Aniello che acquistò, nel<br />

1649, anche i Feudi Rustici di Fosso e Verdesca<br />

e i Suffeudi o Difese di Ortogrande e Tufarella.<br />

LORELLA MAZZELLA<br />

- 101 -<br />

Inoltre, egli ottenne dal re Cattolico il privilegio<br />

di essere nominato principe dello Stato di<br />

Montecorvino e di poter trasmettere il titolo ai<br />

suoi eredi.<br />

Defunto Aniello, Stato e Feudi Rustici furono<br />

ereditati dal primogenito Giulio, duca di S. Mauro,<br />

e alla morte di quest’ultimo dal fratello<br />

Giacomo. In occasione di tale passaggio venne<br />

commissionato al Tavolario Antonio Galluccio<br />

l’apprezzo dei due Feudi Rustici 9 .<br />

Anche i Pignatelli, come tutti i feudatari della<br />

Piana, erano soliti affittare le proprietà terriere e,<br />

attraverso un contratto stipulato nel 1700 dal<br />

notaio Albinente, si conoscono i particolari delle<br />

condizioni di affitto di Fosso: il locatario, Paolo<br />

Salvatore di Olevano, oltre a pagare il canone<br />

nel tempo stabilito, doveva curare la vigna<br />

murata, seminare e provvedere agli animali.<br />

Della casa palaziata egli poteva usufruire solo<br />

delle stanze terranee e della camera nella torre<br />

per riporre le vettovaglie. Le altre camere soprane<br />

dovevano restare a disposizione del principe<br />

e del suo amministratore; inoltre, era assolutamente<br />

vietato all’affittuario abbattere con scoppiettate<br />

i piccioni, che erano del padrone 10 .<br />

Nel 1719 Giacomo vendette lo Stato di<br />

Montecorvino e i due Feudi Rustici di Fosso e<br />

Verdesca a Nicola Ippolito Revertera, duca della<br />

Salandra; in tale occasione venne eseguito un<br />

nuovo apprezzo dal Tavolario Pietro Vinaccia.<br />

La somma che il duca doveva versare per<br />

l’acquisto doveva essere versata per una parte al<br />

monastero di S. Liguori a Napoli per il vitalizio<br />

di due sorelle del principe, per un’altra parte ai<br />

creditori di Giacomo, mentre il resto della<br />

somma avrebbe dovuto essere pagato dopo<br />

nove anni con un interesse del 3,5%. Tuttavia, il<br />

duca della Salandra non estinse i suoi debiti in<br />

tempi convenienti, sicchè Giacomo vendette il<br />

credito che gli spettava dalla vendita al principe<br />

di Marsico Nuovo, don Giovanni Battista<br />

Pignatelli. Nel 1737 venne ordinato al duca della<br />

Salandra di soddisfare i suoi debiti, ma questi si<br />

rifiutò di pagare l’intero prezzo poiché nel frattempo<br />

erano stati resi demaniali i due Feudi<br />

Rustici di Fosso e Verdesca.<br />

Pertanto, dopo una lunga transazione, il duca<br />

vendette a Girolamo Pignatelli, figlio di


Giovanni Battista, lo stato di Montecorvino «(…)<br />

colle sue Giurisdizioni, e Corpi annessivi e<br />

cogl’anzidetti due Feudi rustici, per il prezzo di<br />

ducati quarantottomila centocinquanta» 11 . A sua<br />

volta, nel 1744, il principe vendette lo Stato di<br />

Montecorvino a Matteo Genovese al prezzo di<br />

sessantamila ducati insieme al Feudo del Fosso<br />

«(…) la maggior parte seminatorio di capacità<br />

tomola cento, e dieci in circa, comprendente<br />

una vigna murata (…)» 12 , e alla Difesa della<br />

Verdesca «(…) di estensione tomola trecento in<br />

circa (…)» 13 . Così nel catasto conciario del 1753<br />

venne censita la proprietà di Matteo Genovese:<br />

«L’Ill.mo Sig. Barone Genovese possiede nel<br />

luogo detto il Fosso una masseria di fabrica e<br />

terra seminatoria, e d’uso d’uva, e vigna in<br />

ununo di capacità tomoli centottanta, confina<br />

col fiume Toscano e colli beni di Giuseppe<br />

Capograsso. Simile di rendita dedotta la spesa<br />

di coltura della vigna annui ducati trecento<br />

quaranta e resta da appezzarsi la rendita del<br />

casamento della masseria nella discussione» 14 .<br />

Infine, una relazione fatta eseguire dalla<br />

Mensa Arcivescovile, in occasione di visite pastorali,<br />

sostiene che «nella massaria dell’Ill.mo Sig.<br />

Barone dove si dice il Fosso vi è una cappella<br />

sotto il titolo di Santo Mauro»15.<br />

Nel 1795 i Corpi feudali di Fosso e Verdesca<br />

furono venduti a Marcantonio Doria, principe di<br />

Angri 16 ; ma già nel 1641 i Doria avevano acquistato<br />

Eboli, Capaccio e quattro Feudi Rustici<br />

(Lagopiccolo, Isca di Comora, Isca di S. Nicola,<br />

Isca S. Felice), di cui Eboli era l’Università con<br />

l’agro più grande della Campania poiché comprendeva<br />

oltre ventimila ettari di superficie.<br />

I contratti d’affitto dei Doria andavano da un<br />

minimo di tre anni ad un massimo di dodici; sappiamo<br />

che nel 1799 Fosso era affidata alla conduzione<br />

di un certo Schiavone 17 e che, in tale periodo,<br />

i guardiani di Fosso e Verdesca ricevevano i<br />

salari più alti degli altri dipendenti dei Doria<br />

d’Angri 18 .<br />

Nel 1827 la masseria in questione era affittata<br />

a don Lorenzo Carrara, a cui il terreno serviva<br />

perché confinante con i suoi beni, ma spesso<br />

veniva inondato dalle acque del fiume Tusciano 19 .<br />

SALTERNUM<br />

- 102 -<br />

Inoltre, i beni di Marcantonio siti in località<br />

Fosso sono segnalati nel Catasto provvisorio 20 di<br />

Montecorvino e descritti in un apprezzo del<br />

1843 21 .<br />

Nei periodi di più intensa attività erano soprattutto<br />

i forestieri ad affluire in grandi quantità nelle<br />

varie masserie, ospitati nei piani terreni, nelle stalle,<br />

nei fienili; infatti, il Galanti scrive:<br />

«Vengono gli uomini dalla Basilicata, dalle<br />

Calabrie e fino dal lontano Abruzzo a fare i<br />

lavori necessari per una miserabile mercede»<br />

22 , mentre il Liber defunctorum documenta<br />

che «il giorno 1 gennaio 1805 in località lo<br />

Fosso passava a miglior vita Luigi Palermo di<br />

Moliterno, che fu sotterrato nella Chiesa della<br />

SS. Annnunziata» 23 .<br />

Dopo la morte di Marcantonio il vasto patrimonio<br />

terriero fu sottoposto ad una frammentazione<br />

ereditaria lunga e difficile, che si concluse<br />

solo nel 1878 e che comportò la vendita<br />

di molti beni all’asta, acquistati dagli antichi<br />

affittuari, soprattutto dai Bellelli, dai Pastore,<br />

dai Conforti.<br />

È molto probabile che proprio in occasione<br />

di tali vendite Fosso sia passato ai baroni<br />

Sorvillo, una ricca famiglia di Vietri sul mare, la<br />

cui ultima discendente vendette la proprietà, nel<br />

1968, agli antichi affittuari, i Rinaldi. Questi ultimi,<br />

a loro volta, furono costretti a vendere all’asta<br />

la masseria che attualmente è posseduta dai<br />

baroni Sorvillo.<br />

Peculiarità e caratteristiche costruttive<br />

L’analisi relativa alle peculiarità e alla storia<br />

delle trasformazioni di Fosso è stata condotta<br />

integrando tutte le informazioni ottenute su di<br />

essa, sia attraverso le fonti archivistiche e bibliografiche,<br />

sia attraverso l’operazione di attento<br />

rilievo del manufatto stesso, operazione fondamentale<br />

per la conoscenza e la comprensione di<br />

qualsiasi organismo architettonico.<br />

Essa si presenta come un’imponente costruzione<br />

a due livelli, priva di qualsiasi decorazione<br />

e racchiusa da massicce mura perimetrali,<br />

con una forte estensione longitudinale e sormontata<br />

da torre colombaia.


LORELLA MAZZELLA<br />

Fig. 4 - Sezione longitudinale e prospetto interno alla corte (rilievo dell’Autore, 2004).<br />

Fig. 5 - Sezione longitudinale e prospetto interno alla corte (rilievo dell’Autore, 2004).<br />

Fig. 6 - Pianta I livello (rilievo dell’Autore, 2004).<br />

La sua nascita può risalire al periodo in cui il<br />

terreno era posseduto dal monastero di S. Lorenzo<br />

di Amalfi, che lo affittava a forestieri affinché<br />

venisse coltivato: sarà stata dunque necessaria la<br />

costruzione di un primitivo rudimentale impianto<br />

che ha condizionato e posto le basi per il più<br />

grande e posteriore edificio di abitazione.<br />

Quest’ultimo è probabilmente riconducibile alla<br />

metà del Cinquecento, quando la Mensa<br />

- 103 -<br />

Fig. 7 - Pianta II livello (rilievo dell’Autore, 2004).<br />

Arcivescovile di Salerno concedeva terreni «ad<br />

perpetuam laborandum» per il fittavolo e i suoi<br />

successori con la clausola che questi si impegnasse<br />

ad «edificare due membra di casa» 24 per<br />

sé e la famiglia entro sei anni, o ad ampliare<br />

l’abitazione esistente.<br />

Ad ogni modo, in tale periodo l’abitazione<br />

vera e propria non faceva parte dell’attuale masseria,<br />

ma era situata a pochi metri da questa, ove


Fig. 8 - Masseria Fosso, interno della primitiva abitazione.<br />

Fig. 9 - Masseria Fosso. Resti della primitiva abitazione.<br />

attualmente sorge la casa dei Rinaldi; di essa<br />

sono ancora visibili pochi resti. Indicata già<br />

come fatiscente dal Tavolario Vinaccia nel 1717,<br />

era formata da quattro bassi, coperti con travi in<br />

legno, sui quali vi erano quattro camere da letto<br />

coperte a tetto.<br />

Resti della primitiva abitazione<br />

L’attuale masseria era adibita a funzioni agricole:<br />

il primo livello era costituito da cinque<br />

ambienti non comunicanti - destinati a stalla,<br />

deposito per attrezzi e macchine, magazzini per<br />

materiali e forno - coperti con volte a botte o a<br />

specchio e caratterizzati da doppio accesso; il<br />

secondo livello consisteva solo nella torre<br />

colombaia e in una camera adibita a cucina,<br />

posta ad Ovest della torre stessa, collegate da<br />

una grande terrazza. Ad Ovest della cucina vi<br />

era un portico, da cui si accedeva al forno, che<br />

sosteneva una dispensa, coperta a tetto, a servizio<br />

della cucina stessa.<br />

SALTERNUM<br />

- 104 -<br />

Il collegamento tra i due livelli, poi, avveniva<br />

attraverso una scala scoperta, retta da eleganti<br />

rampanti in pietra, situata nell’angolo nord-est<br />

della fabbrica. Conduceva ad un piccolo corridoio,<br />

anch’esso scoperto, attraverso cui si accedeva<br />

alla menzionata cucina «uno stanzone<br />

grande coverto a tetto a due penne con comodità<br />

di focolaro» 25 . Inoltre, due piccoli vani<br />

seminterrati, coperti da volte a botte a sesto<br />

ribassato, venivano utilizzati come cantine per la<br />

conservazione di quei prodotti che, come il vino<br />

o il latte, avevano bisogno di locali più freschi.<br />

Sempre all’interno del perimetro murario,<br />

ma nell’angolo nord-ovest, era la cappella rurale<br />

dedicata a S. Mauro, oggi destinata a deposito<br />

attrezzi e perciò alterata da numerose modifiche.<br />

L’antica copertura a tetto è stata sostituita,<br />

nel XX secolo, da una latero-cementizia;<br />

così come l’arco di ingresso, originariamente a<br />

sesto ribassato, è stato tamponato con una<br />

porta in ferro, mentre l’interno è stato completamente<br />

reintonacato. Entrambi gli edifici furono<br />

costruiti con muratura del tipo a sacco, con<br />

paramenti in pietra calcarea e, soprattutto, ciottoli<br />

di grandi dimensioni coadiuvati dall’impiego<br />

di malta; il nucleo era costituito da spezzoni<br />

di pietrame e malta.<br />

L’utilizzo di tali materiali è riconducibile alla<br />

natura calcarea del terreno su cui i due edifici<br />

sono stati edificati, associato alla loro grande<br />

economia di impiego, poiché, quasi sempre, il<br />

contadino stesso cavava, lavorava e metteva in<br />

opera la pietra. A loro volta, i ciottoli, facili da<br />

reperire nei greti di fiumi e torrenti, consentivano<br />

di ridurre il costo di estrazione, oltre ad eliminare<br />

la fatica della lavorazione, poiché venivano<br />

messi in opera così come cavati o, al massimo,<br />

dopo una semplice spaccatura. Dunque,<br />

la pietra diveniva muro, arco, pilastro, pavimentazione,<br />

arco, arcotrave e volta. Le volte si<br />

impiegavano a coprire particolari ambienti quali<br />

stalla, fienile, magazzini, allo scopo di eliminare<br />

i pericoli di incendio, possibili, invece, con solai<br />

in legno e perciò destinati alle zone abitative.<br />

Ulteriore elemento caratterizzato da precisa<br />

funzionalità è la colombaia: essa permetteva di<br />

sorvegliare il lavoro condotto sulla vasta distesa<br />

dei campi e anche l’allevamento dei volatili.


Presentava una copertura in legno a quattro<br />

falde e un solaio con travi a sezione circolare,<br />

oggi crollati.<br />

Attraverso il contratto stipulato nel 1700 dal<br />

notaio Albinente, in cui sono stabilite le condizioni<br />

di Giacomo Pignatelli e l’apprezzo del<br />

Tavolario Vinaccia nel 1717, in occasione della<br />

vendita di Fosso al duca della Salandra, si possono<br />

conoscere i ‘miglioramenti’ 26 apportati dal<br />

Principe alla masseria. Egli fece piantare una<br />

nuova vigna e, siccome la primitiva abitazione<br />

era fatiscente, venne costruito un secondo livello<br />

sull’edificio utilizzato a scopo agricolo, con<br />

camere poste in sequenza e dotate di camini.<br />

Queste erano caratterizzate da grandi finestroni<br />

schermati da robuste ante in legno e aperti sia a<br />

Sud-Ovest, per ricevere un soleggiamento ottimale,<br />

sia a Nord-Est. Di queste camere, quelle<br />

ad Ovest della torre colombaia avevano funzioni<br />

di rappresentanza e presentavano una pavimentazione<br />

in cotto e copertura di capriate in<br />

legno di quercia; quelle ad Est della torre erano<br />

destinate a camere da letto e avevano pavimentazione<br />

in battuto oltre che copertura con tetto a<br />

due falde. Questa sopraelevazione comportò un<br />

sovraccarico alla muratura del primo livello e,<br />

siccome la muratura in ciottolate ha scarsa<br />

coerenza dovuta alla forma rotondeggiante dei<br />

pezzi - sebbene per colmare eventuali vuoti si<br />

inserivano ricorsi in argilla - il Principe fece erigere<br />

degli speroni di sostegno atti a consolidare<br />

la muratura stessa; essi vennero posti in vari<br />

punti del prospetto esterno e negli angoli del<br />

fabbricato. Inoltre, Giacomo fece erigere, nell’angolo<br />

sud-ovest del fabbricato, «tre bassi per<br />

comodità di rimesse e coverti a lamia» 27 che,<br />

privi di mura perimetrali, erano completamente<br />

aperti verso la vigna, oggi terreno incolto, e<br />

verso il cortile.<br />

Successivamente il Feudo venne acquistato<br />

dai baroni Genovese e anche questi apportarono<br />

delle modifiche a seconda delle loro esigenze<br />

funzionali. Innanzi tutto venne rinforzato<br />

anche il prospetto nord-est da un ulteriore portico<br />

che, attraverso la profondità delle arcate a<br />

guisa di speroni, aveva la funzione di sostenere<br />

il loggiato occupato dal corridoio in modo da<br />

facilitare l’accesso alle varie camere di rappre-<br />

LORELLA MAZZELLA<br />

- 105 -<br />

Fig. 10 - Masseria Fosso, resti di una volta della primitiva abitazione.<br />

sentanza, disposte in maniera sequenziale;<br />

venne consolidata la volta della stalla attraverso<br />

un arco che ne seguiva il profilo, giacchè un<br />

muro trasversale del livello superiore era stato<br />

poggiato in falso al suo centro. Venne poi tamponato<br />

con muratura a sacco l’ingresso alla stalla<br />

stessa, che affacciava sulla vigna. Nello stesso<br />

tempo, la scala esterna venne coperta con una<br />

piccola tettoia in legno e vennero tamponate<br />

anche le rimesse fatte costruire da Giacomo. Ad<br />

esse si poteva accedere, ora, solo dal cortile<br />

interno e non dalla vigna e furono destinate a<br />

nuove funzioni: la prima fu adibita a fienile, la<br />

seconda a stalla e la terza a forno.<br />

Il fienile era coperto con una volta a botte a<br />

sesto ribassato in conci di arenaria e arieggiato<br />

da una feritoia, la stalla era coperta da due volte<br />

a botte in conci di arenaria che si innestavano su<br />

un arco centrale, oggi in parte crollate a causa<br />

del pesante rinfianco in ciottoli.<br />

Il vano adibito a forno era coperto da un<br />

tetto a falda costituito da travi in legno, anch’esso<br />

crollato e, di fronte a questo, venne costruito<br />

il pozzo con abbeveratoio.<br />

Tutti e tre gli ambienti presentavano<br />

l’estradosso piano a formare una grande terrazza,<br />

a cui si accedeva tramite la costruzione di<br />

una nuova scala esterna che, priva di copertura,<br />

aveva la funzione principale di condurre direttamente<br />

alle camere da letto senza dover attraversare<br />

le camere di rappresentanza. Nel 1858 le<br />

disposizioni del re riguardo la fondazione di una<br />

Colonia Agricola spinsero i contadini della<br />

Basilicata e del Vallo di Diano a muoversi verso


la contrada di Battipaglia, con la speranza di una<br />

casa e di un pezzo di terreno da coltivare. Nel<br />

frattempo essi si accamparono in casoni per<br />

braccianti agricoli e nella masseria Fosso vennero<br />

ospitati in piccoli vani-dormitorio di muratura,<br />

dotati di camino, che vennero addossati alla<br />

facciata esterna dell’edificio.<br />

In tale periodo, Fosso apparteneva ai Doria<br />

d’Angri. Questi, per non investire capitali, privilegiavano<br />

l’allevamento brado e le aree seminative<br />

si riducevano a pochi terreni, a differenza<br />

degli affittuari che, come in Fosso, sfruttavano<br />

nel modo migliore la fertilità dei campi.<br />

Inoltre, i grandi feudatari spesso negavano le<br />

riparazioni richieste, ritenendole ingiustificate. Il<br />

più evidente intervento effettuato nell’Ottocento<br />

è infatti l’inserimento nelle murature del secondo<br />

livello di catene in ferro disposte longitudinalmente<br />

e trasversalmente ad esse, necessarie<br />

NOTE<br />

1 La notizia si legge in una pergamena pubblicata in appendice<br />

da SCHIPA 1968, p. 254.<br />

2<br />

CARLONE 2000, p. 6.<br />

3<br />

PAESANO 1846, p. 68.<br />

4 ADS, Arca I, n° 21.<br />

5<br />

MAZZOLENI - OREFICE 1987, pp. 819-822.<br />

6<br />

IIDEM 1987, pp. 954-958.<br />

7 AAC, arca LXXV, n°52.<br />

8 ASS, Archivi privati, Archivio Genovese, Platea di tutti i<br />

beni della famiglia Genovese formata dall’illustre Marchese<br />

D. Mariano Genovese e terminata nel mese di Xembre dell’anno<br />

1788, busta 54. La Platea, eseguita dopo che la famiglia<br />

Genovese acquista Montecorvino e i due Feudi Rustici,<br />

è suddivisa in vari paragrafi in cui vengono descritte notizie<br />

sulle condizioni della vendita, sui ‘Pesi’ annessi ai beni,<br />

sulle proprietà che la Mensa ha nello stato di<br />

Montecorvino, ecc. Di grande importanza per la ricostruzione<br />

delle vicende storiche della masseria Fosso sono le<br />

notizie preambole a tale ‘Compra’ eseguita da Matteo<br />

Genovese.<br />

9 ASNa, Apprezzi, Antonio Galluccio, Montecorvino Rovella,<br />

1641, scheda 460. «(…) come mi viene commesso<br />

l’apprezzo della Difesa della Verdesca e del Fosso (…) mi<br />

sono conferito nelle pertinenze della terra di Montecorvino<br />

(…) ed avendo camminato circuì circa ho ritrovato che<br />

quella è tutta piana, e buona parte di essa è padulognola<br />

dove che s’ingorga l’acqua, e detto padulognolo è tutto<br />

boscoso con alberi di salocomi, olma ed altre frutte, e<br />

pieno di per azze, sicchè detto territorio conforma oggi si<br />

ritrova non è buono peraltro che per il pascolo di bufale,<br />

ma quando si sterpassero le dette per azze varia buono il<br />

territorio anco per seminarsi (…)»<br />

SALTERNUM<br />

- 106 -<br />

per contenere la sconnessione dei giunti dovuti<br />

ad una non buona ammorsatura.<br />

Agli inizi del Novecento i vani costruiti per<br />

ospitare i nuovi braccianti vennero ricostruiti<br />

con muratura in mattoni e copertura laterocementizia,<br />

mentre le camere di rappresentanza<br />

vennero suddivise da tramezzi.<br />

Ma di lì a poco, nel periodo cosiddetto<br />

‘moderno’, e soprattutto nel dopoguerra, con<br />

l’introduzione della prefabbricazione e con il<br />

mutare delle tecniche di coltura e di allevamento,<br />

si assiste all’abbandono delle masserie. Ciò<br />

accade anche per Fosso, considerata un rudere<br />

privo di importanza, la cui sorte appare tuttavia<br />

‘fortunata’ rispetto alle forti modifiche strutturali<br />

e funzionali subite da altri organismi agricoli,<br />

che hanno totalmente perso la loro identità culturale<br />

e architettonica.<br />

10 ASS, Protocolli Notarili, Montecorvino 1700, Notaio<br />

Albinente, fascicolo n° 331.<br />

11 ASNa, Apprezzi, Pietro Vinaccia, Montecorvino Rovella<br />

1717, scheda 1717, scheda 161, prot. 32. «(…) ed in primis<br />

il territorio detto il Fosso sito, e posto in detto Stato di<br />

Montecorvino, distante dal detto Casale di Rovella circa<br />

miglia sei camminando verso Ostro, confina il medesimo<br />

con il fiume di Battipaglia, via vicinale che confina con li<br />

Pinti, colli Beni della Reverenda Mensa Arcivescovile di<br />

salerno, colla strabella, che viene dalla via Regia, e va alla<br />

scafa d’Eboli, ed altri confini consiste il medesimo in un territorio,<br />

la maggior parte del quale seminatorio di capacità<br />

tomola 110 in circa, e parte in una vigna murata, che si<br />

descriverà, e per ultimo in un comprensorio di casa, quale<br />

consiste, ecc. In primis un portone, avanti del quale vi è aria<br />

da batter le vittovaglie, e dal medesimo si entra nel cortile<br />

murato scoverto, a sinistra del quale vi è una picciola<br />

Cappella coverta a tetto sotto il titolo di S. Mauro, a detta<br />

siegue un vano distretto di mura, quale serve per carcere<br />

degli animali, e quattro bassi coverti a travi, sopra dei quali<br />

vi giacciono quattro camere coverte a tetto antiche, oggi<br />

mezzo dirute, in testa poi del detto cortile per porta s’ave<br />

l’uscita all’enunciata vigna, qual è tutta murata, e di capacità<br />

tomola cinque in circa, dove si fa mediocre vino, e detta<br />

è stata piantata a spese dell’odierno principe, e seguitando<br />

in giro il sudetto cortile vi sono tre bassi fatti nuovamente<br />

dal suddetto principe per comodità di rimesse, uno però dè<br />

quali scoverto, e senza astrico; a destra poi girando vi sono<br />

cinque porte, per le quali si entra in magazzeni, e cantina<br />

per riponer vino coverto a lamia, dopo detti siegue porta<br />

della grada, che si descriverà; sta inoltre un supportico<br />

coverto a lamia però antico, in testa del quale per porta<br />

s’entra in un basso coverto a lamia per uso di forno.


Ritornando alla grada, con l’appianarne tre d’essa si trova<br />

porta, per la quale s’entra in una stanza per uso magazzeno,<br />

e con una tesa scoverta di gradi num. 17 si trova un<br />

corridoio, seu picciola loggia scoperta, a destra della quale<br />

per porta s’entra in uno stanzone grande coverto a tetto a<br />

due penne, e tiene due finestre affacciatore a mezzodì, e<br />

comodità di focolaro, detta però è antica; accosto il detto<br />

focolaro vi è porta per la quale s’entra in una piccola stanza<br />

coverta a tetto. Segue a destra altra stanza fatta nuovamente<br />

dal detto illustre Principe coverta a travi numero 8,<br />

e vi è comodità di focolare e due finestre; a detto focolaro<br />

segue piccola stanza per uso di dispensa anche nuova<br />

coverta a travi, in cantone della detta stanza segue un’altra<br />

camera coverta a travi numero 6, anche nuovamente fatta<br />

da detto Principe con comodità di focolaro, e due finestre,<br />

e sopra dette camere vi è il tetto; a sinistra poi del detto<br />

stanzone sieguono della stanze una dopo l’altra, delle quali<br />

una è antica, e l’altre quattro nuovamente fatte, secondo fu<br />

deposto sopra la faccia del luogo, tutte però dette stanze si<br />

ritrovano coverte, a travi con tetto sopra, con comodità di<br />

focolaro, e finestre, con torretta, seu palombara sopra una<br />

d’esse, e nell’ultima di dette si trovano due porte, per una<br />

delle quali si entra in un piccolo camerino per dispensa, e<br />

per l’altra s’esce sopra una loggia giacente sopra le dette<br />

rimesse, ed in questo consiste il suddetto comprensorio, e<br />

feudo detto il Fosso, su del quale volendosi da me assignare<br />

il giusto prezzo per intiero, tanto al territorio, quanto<br />

casa, e vigna, siccome al presente sta senza niuna servitù,<br />

e che tutto il frutto annuale vada a beneficio del padrone;<br />

che perciò riflettendo alla capacità del Territorio, sito ove<br />

risiede, qualità del medesimo, rendita ottenuta, e che se ne<br />

può ottenere, riflettendo ancora alla descrizione, ed<br />

apprezzo fatto dal Tavolario Gio. Battista de Marino nell’anno<br />

1640, che si legge nel secondo volume fol. 611, ove<br />

similmente vi enuncia esser parte feudale, e parte burgensatico,<br />

che perciò fatte tutte le dovute diligenze sopra tale<br />

affare, considerando la diversità dei tempi dà allora ai presenti,<br />

valuto il suddetti Feudo del Fosso con casa, e vigna,<br />

come descritto di sopra, franco da ogni peso per ducati seimila…6000.<br />

Le migliorazioni fatte dall’odierno principe sì<br />

in materia di fabbrica, vigna e altro secondo la comune<br />

deposizione de testimonj esserne quelle state fatte da lui,<br />

ed a minuto a me dimostrate dagl’Esperti assegnatimi, iportano<br />

ducati millecento…1100. È ben vero però Riverito<br />

Signore, che da quel tanto appare nell’unisona deposizione<br />

di tutti i testimonj sopra l’articolato feudo del Fosso<br />

asserentino, che l’Università vi abbia sopra del medesimo<br />

l’azione, e servitù del pascolo, come sono tutti gli altri<br />

rimanenti territorij dè particolari e che intanto tutto il frutto<br />

del detto territorio và in beneficio del suddetto Principe,<br />

non per altro, se non per mera cortesia, e grato affetto di<br />

detta Università verso il Principe; del che riverito Signore<br />

non v’ha dubio, che se la detta Università avesse tale auto-<br />

LORELLA MAZZELLA<br />

- 107 -<br />

rità, e jus, volesse di quello avvalersene, minorerebbe tal<br />

distinzione, stimandosi dal V. S. necessaria, lo potrà con<br />

suo decreto ordinare, cha da me ne formerà relazione a<br />

parte (…)».<br />

12 ASS, Archivi privati, Archivio Genovese, IDEM.<br />

13 ASS, Archivi privati, Archivio Genovese, IDEM.<br />

14 ASNa, Catasto Conciario, 1753, b.3802, p.287.<br />

15 ADS, Visite Pastorali, Cappellanie Rurali che stanno nel<br />

ristretto della Carta di Montecorvino situata nella Piana, R.<br />

78, 1730-1769.<br />

16 I corpi Feudali di fosso e Verdesca furono venduti a<br />

Marcantonio Doria «con Istrumento di 27 Aprile 1795 per<br />

Notar Lucantonio Ferraro di Napoli dai Demanisti D.<br />

Pompeo Maiorino, Don Sabbato Pizzuto, tanto nei propri<br />

nomi, quanto come Cessionarii di D. Giuseppe M. Sparano,<br />

D. Luca Cavaliere, D. Diego Carrara, D. Francesco di<br />

Simone, D. Scipione della Corte, D. Lorenzo Denza nomine<br />

proprio, D. Ambrogio Meo nomine proprio, D. Pietro<br />

Corrado nomine proprio e D. Tommaso Corrado tanto<br />

nomine proprio, quanto come Cessionario di D. Ludovico<br />

Sparano». I Demanisti cedettero i loro feudi in quanto<br />

Marcantonio Doria aveva prestato loro una somma di danaro<br />

affinché si liberassero dal dominio dei Genovese.<br />

17<br />

MOSCATI 1964.<br />

18 ASNa, Relevi Feudali, Eboli e Montecorvino, voll. 269-272<br />

e 1799.<br />

19 ASNa, Archivio Privato Doria d’Angri, parte I, 1827, busta<br />

863.<br />

20 ASS, Catasto Provvisorio, Montecorvino Rovella, 1827,<br />

Stato di Sezioni, vol. 18, pp. 103-104<br />

21 ASNa, Archivio Privato Doria d’Angri, parte I, Apprezzo<br />

dei beni di Marcantonio Doria, 1843, n° 967 A/3. Fondi siti<br />

nel tenimento del comune di Montecorvino Rovella.<br />

«1° Vastissima tenuta denominata Picciola (…).<br />

2° Feudo denominato Fosso, di natura scampia seminatorio<br />

ed arbosto, confinante con i beni di Domenico<br />

Granozio, dei Signori Bellelli e dei Signori Mauro di<br />

Salerno».<br />

3° Altra vasta tenuta appellata Verdesca (…).<br />

Questi detti stabili sono riportati nel catasto provvisorio del<br />

comune di Montecorvino Rovella sotto l’articolo 1799 in<br />

testa di Doria Francesco fu Marcantonio Principe di Angri<br />

(…) con la rendita complessiva di ducati 9861,11». In questi<br />

stabili vanno compresi i vari casamenti colonici, fattorie<br />

dei rispettivi Feudi.<br />

22 GALANTI 1790, p. 187.<br />

23 Archivio della Parrocchia dello Spirito Santo di S. Martino,<br />

Liber defunctorum, 1794-1845, f. 25.<br />

24 ADS, Mensa Arcivescovile, Reg. II, pp. 308-364.<br />

25 ASNa, Apprezzi, Pietro Vinaccia, Montecorvino Rovella<br />

1717, scheda 1717, scheda 161, prot. 32.<br />

26 Ibidem.<br />

27 Ibidem.


ABBREVIAZIONI<br />

“BSSPC”: “Bollettino Storico di Salerno e Principato Citra”.<br />

ASNa: Archivio di Stato di Napoli.<br />

ASS: Archivio di Stato di Salerno.<br />

ADS: Archivio Diocesano di Salerno.<br />

AAC: Archivio Abbazia di Cava de’ Tirreni.<br />

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Marcantonio Doria in Eboli nel primo quarantennio del<br />

XIX secolo, in Studi sulla Società meridionale, Napoli.


ELISA BASILE<br />

Il restauro della scultura lapidea di S. Pietro Martire<br />

nella chiesa di S. Domenico a Matera<br />

L’opera è ubicata nella chiesa San<br />

Domenico a Matera in una nicchia sul<br />

IV altare della navata sinistra.<br />

La scultura, raffigura San Pietro martire, il<br />

frate domenicano Pietro Rosini, nato a Verona<br />

nel 1206, inquisitore, ucciso in un agguato in<br />

Brianza da alcuni eretici lombardi.<br />

La scultura, di notevoli dimensioni (h 1,75 x<br />

0,74 x 0,35 m), è in pietra calcarea policroma,<br />

scolpita a tutto tondo, e non è dipinta sul retro.<br />

San Pietro Martire è rappresentato in abito<br />

domenicano; ha il capo lievemente inclinato<br />

verso il basso è coperto da una calotta di capelli<br />

lisci, il volto segnato da rughe è incorniciato<br />

dalla corta barba. Il Santo, in piedi, avvolto nel<br />

mantello, regge con la mano sinistra un lembo<br />

del manto e il Vangelo. Uno stiletto è conficcato<br />

nel petto e un rozzo coltello gli trapassa il capo.<br />

La scultura è attribuita a Stefano da Putignano,<br />

attivo negli anni 1470-1540. Protagonista della<br />

scultura pugliese del Rinascimento, autore di un<br />

numero considerevole di sculture in pietra locale<br />

vivacemente dipinte.<br />

Il confronto stilistico con la scultura raffigurante<br />

la Madonna della salute, nella stessa chiesa,<br />

è evidente soprattutto nell’accentuazione<br />

grafica del panneggio reso con cordonature<br />

parallele, confermata dall’autografia dell’autore,<br />

Stefano da Putignano, e la data di esecuzione<br />

dell’opera: «1518» sulla base (figg. 3-5; 19-21).<br />

Stato di conservazione<br />

La visione complessiva sullo stato di conservazione<br />

della scultura e l’attenta osservazione<br />

ravvicinata hanno evidenziato, prima del restauro,<br />

alcuni segni di alterazione presenti sulla<br />

superficie lapidea e pittorica: - depositi incoe-<br />

- 109 -<br />

Fig. 1 - La statua prima del restauro. Evidenti ridipinture su tutta la<br />

superficie scultorea.<br />

Fig. 2 - Prima del Restauro, dettaglio del volto. Evidenti ridipinture su<br />

tutta la superficie scultorea.


Figg. 3 - 4 - Statua della Madonna della Salute, prima del restauro.<br />

Fig. 5 - Statua della Madonna della Salute, dopo il restauro. Particolare<br />

della base con la firma autografa dell’autore e la data di esecuzione<br />

dell’opera: «Stephanus Apulie Poteniani me celavit 1518».<br />

renti; - vistose ridipinture; - alcuni parziali rifacimenti<br />

scultorei; - strati pittorici sollevati dal supporto<br />

e a tratti delle cadute di colore.<br />

La scultura, rimaneggiata più volte, presenta<br />

vari strati di colore e due strati di gesso di notevole<br />

consistenza, evidente soprattutto sulla veste<br />

del Santo.<br />

Il mantello è ricoperto da una evidente ridipintura<br />

di colore nero con vernice lucida alterata<br />

e non uniforme, mentre uno strato di gesso e<br />

una ridipintura più corposa di colore grigio chiaro<br />

opaco ricopre il cappuccio.<br />

Fig. 6 - Prima del restauro. Evidenti ridipinture su tutta la superficie<br />

scultorea.<br />

SALTERNUM<br />

- 110 -<br />

Sull’incarnato del volto sono particolarmente<br />

evidenti microfratture, sollevamenti e cadute della<br />

pellicola pittorica. Metà palmo e le dita della<br />

mano destra del Santo sono in legno, testimonianza<br />

di un rifacimento del secolo scorso. La base,<br />

blocco unico con la scultura, è chiaramente<br />

posticcia, non in linea stilisticamente con la scultura,<br />

è ridipinta e ricoperta da un corposo strato<br />

di gesso (figg. 1-2; 10; 15-16).<br />

Fasi di Restauro<br />

I tre strati di ridipinture che ricoprivano gli<br />

incarnati e la veste del Santo e i cinque strati<br />

sulle mani sono stati rimossi a secco, con<br />

mezzo meccanico (bisturi), uno dopo l’altro,<br />

recuperando la policromia originale sottile,<br />

delicata, opaca, fredda nei toni, ma a contrasto<br />

con i toni caldi dei particolari; sul mantello del<br />

Santo, l’unica ridipintura applicata direttamente<br />

sul colore originale è stata asportata con una<br />

miscela di solventi adeguati. Con la rimozione<br />

degli strati sono stati recuperati il realismo dell’intaglio<br />

soprattutto sul volto, la data di esecuzione<br />

dell’opera - «1517» - sul bordo inferiore<br />

della veste e l’oro zecchino quasi integro sul<br />

Vangelo del Santo. La base posticcia è stata<br />

demolita con molta cautela, a secco; è stato<br />

asportato il gesso superficiale, e successivamente,<br />

sono stati rimossi i pezzi di gesso più<br />

compatto che inglobavano la base originale<br />

leggera e arrotondata, liberandola totalmente.<br />

Con il recupero della base originale è stata<br />

riportata alla luce la firma autografa dell’autore<br />

scolpita sul bordo: «STEPHANUS APULIAE<br />

POTENIANI ME CELAVIT».<br />

Fig. 7 - Durante il restauro. Pulitura e rimozione degli strati con il bisturi.


La ripresentazione estetica è stata eseguita<br />

con pigmenti puri; le mancanze di colore si<br />

sono accordate ai toni della policromia originale<br />

con piccoli ritocchi e leggere velature.<br />

Fig. 8 - Le operazioni di restauro, pulitura e rimozione degli strati con il<br />

bisturi.<br />

Fig. 10 - Statua di San Pietro martire, in corso di restauro.<br />

ELISA BASILE<br />

- 111 -<br />

Documentazione Fotografica:<br />

Beatrice Carriero<br />

Soprintendenza per i Beni Artistici Storici ed<br />

Etnoantropologici della Basilicata - Matera<br />

Fig. 9 - Le operazioni di restauro, pulitura e rimozione degli strati con il<br />

bisturi.<br />

Fig. 11 - Statua di San Pietro martire, particolare del volto. Pulitura<br />

parziale.


Fig. 12 - Statua di San Pietro martire, dopo il restauro.<br />

Fig. 14 - Statua di San Pietro martire, dopo il restauro: particolare della<br />

mano sinistra.<br />

Fig. 15 - Statua di San Pietro martire, rifacimento parziale (in legno) della<br />

mano destra.<br />

SALTERNUM<br />

- 112 -<br />

Fig. 13 - Statua di San Pietro martire, dopo il restauro: particolare del<br />

volto<br />

Fig. 16 - Statua di San Pietro martire, particolare della mano destra dopo<br />

il restauro.


Fig. 17 - Statua di San Pietro martire, particolare del volto dopo il<br />

restauro.<br />

Fig. 19 - Statua di San Pietro martire, base originale con la firma autografa<br />

dell’autore (fase di rimozione dello strato di gesso posticcio).<br />

Fig. 21 - Statua di San Pietro martire, base originale con la firma autografa<br />

dell’autore.<br />

ELISA BASILE<br />

- 113 -<br />

Fig. 18 - Statua di San Pietro martire, particolare degli occhi dopo il<br />

restauro.<br />

Fig. 20 - Statua di San Pietro martire, la data di esecuzione dopo il<br />

restauro.


La Redazione, salutando l’uscita del<br />

nuovo romanzo della prof.ssa D. Memoli<br />

Apicella, accoglie le considerazioni suscitate<br />

dalla sua lettura in una giovane<br />

Socia.<br />

Il libro di Dorotea<br />

Memoli Apicella dal<br />

titolo Sighelgaita tra<br />

Longobardi e Normanni<br />

(Laveglia&Carlone, Salerno 2009,<br />

204 pp.) oltre alle tante novità<br />

storiche riportate, sicuramente<br />

apprezzate dai suoi lettori,<br />

potrebbe suscitare anche forti<br />

emozioni, non solo perchè rende<br />

partecipi delle vicende del<br />

tempo in cui la vicenda si colloca,<br />

ma soprattutto perché l’Autrice considera<br />

protagonista del suo libro una figura femminile<br />

dotata di grande personalità, la principessa<br />

Sichelgaita, vissuta in una Salerno medievale<br />

che aveva segnato il passaggio dalla stirpe longobarda<br />

a quella normanna.<br />

Ed è proprio in questo periodo storico-politico<br />

che la Memoli ambienta il suo racconto<br />

storico, facendo brillare la principessa di luce<br />

propria rispetto al marito, il normanno Roberto<br />

il Guiscardo, che ella, pur riconoscendogli il<br />

ruolo di dominatore incontrastato del<br />

Mezzogiorno d’Italia, riteneva debole e vulnerabile,<br />

circondato com’era da tanti nemici. Alla<br />

luce di queste considerazioni, emerge il carattere<br />

forte della principessa, la quale maturò la<br />

ferma volontà di seguirlo nelle campagne militari.<br />

La storica bizantina Anna Comneno,<br />

descrivendone la personalità nei momenti<br />

della sua esaltazione guerriera, la descrive<br />

FRANCESCA ANGELLOTTI<br />

Libri e Recensioni<br />

- 115 -<br />

come una donna forte che combatte<br />

valorosamente in sella al<br />

suo cavallo, fianco a fianco al<br />

marito, gettandosi nella battaglia<br />

con grande coraggio. Voleva<br />

proteggere non solo il suo<br />

sposo, ma soprattutto, prevalendo<br />

in lei il sentimento di madre,<br />

difenderlo da forze ostili e preparare<br />

senza traumi il terreno<br />

alla successione del figlio primogenito<br />

Ruggero Borsa, frutto<br />

della loro unione.<br />

Gli avvenimenti di quel<br />

tempo, attraverso una serie di circostanze<br />

favorevoli avevano portato<br />

i Normanni a impadronirsi<br />

dell’Italia meridionale nel volgere<br />

di pochi anni. Essi avevano conquistato la Sicilia<br />

nel gennaio del 1061 occupando Messina, su<br />

sollecitazione dell’Emiro Ibn-Thimna. In quella<br />

occasione Roberto affidò il comando delle operazioni<br />

al fratello Ruggero, poiché da circa tre<br />

anni la sua vita privata era intervenuta incisivamente<br />

su quella pubblica.<br />

Aveva conosciuto Sichelgaita di Salerno e le<br />

sue notevoli virtù dovettero colpirlo in maniera<br />

così forte tanto che dalle sue parole traspare<br />

subito l’intenzione di sposarla:<br />

«... è giunto a me ed alla mia gente la<br />

fama di donna avvenente, saggia, pudica<br />

e religiosa: sarà grande onore e gioia<br />

per il Popolo normanno vederla sposa e<br />

signora del suo duce...»<br />

Ella aveva ventidue anni ed era nel pieno<br />

della sua avvenente bellezza e della sua forza<br />

fisica di donna valorosa. Sposando il più temuto<br />

e rispettato condottiero dell’epoca, avrebbe


mantenuto non solo lo status di principessa<br />

longobarda, ma avrebbe anche acquisito il titolo<br />

di duchessa normanna.<br />

Amato di Montecassino, autore di una<br />

Historia Normannorum, la definisce nobile,<br />

bella e saggia, e il primate Romualdo di Salerno,<br />

onesta, pudica, virile nell’animo e provvida di<br />

saggi consigli.<br />

Sichelgaita versò in quella unione ogni possibile<br />

contributo culturale e politico utile al successo<br />

del coniuge, con il quale ebbe rapporti<br />

sostanzialmente conflittuali: la sua raffinatezza<br />

intellettuale ed il suo acuto talento diplomatico<br />

si scontravano con la rozzezza pragmatica di lui,<br />

spietato ed ambizioso.<br />

Era nata nel 1036, terzogenita di Gemma di<br />

Teano e del Principe Guaimaro IV della dinastia<br />

longobarda di Spoleto; era sorella di Gisulfo II e<br />

di Gaitelgrima, a sua volta coniugata col<br />

Principe Giordano I di Capua e poi con il Conte<br />

Alfredo di Sarno.<br />

Sichelgaita aveva vissuto l’infanzia e<br />

l’adolescenza nel monastero salernitano di San<br />

Giorgio, vicino al Palatium, coltivando, parallelamente<br />

agli studi dei Classici latini e greci ed<br />

all’analisi delle Sacre Scritture, anche la passione<br />

per la medicina e l’erboristeria, come discepola<br />

di Trotula de Ruggero, esponente di spicco della<br />

Scuola Medica Salernitana.<br />

Gli anni dorati della formazione erano stati<br />

però sconvolti dalla morte del padre, il Principe<br />

più influente dell’Italia meridionale, Grimoaldo<br />

IV. La descrizione del suo assassinio fatta dalla<br />

Memoli raggiunge momenti di grande commozione:<br />

poco prima dell’evento, l’incontro del<br />

principe con la moglie, «in quell’addio supremo,<br />

fatto di struggente rimpianto di ciò che avevano<br />

insieme vissuto…», poi l’arrivo sulla spiaggia di<br />

santa Teresa, raggiunta passando da una postierla<br />

del palatium, dove si svolge l’ultimo atto della<br />

sua vita. Sono le prime luci dell’alba del 3 giugno<br />

1052 e i tiepidi raggi del sole illuminano la<br />

triste scena della fine del Principe. Assistiamo<br />

così, da spettatori, a quell’episodio sanguinoso,<br />

perpetrato da parte di un gruppo di ribelli amalfitani<br />

e bizantini e dai quattro nipoti, figli del<br />

cognato Pandolfo V di Capua. Nell’occasione il<br />

giovane Gisulfo II, già associato al trono nel<br />

SALTERNUM<br />

- 116 -<br />

1042, era stato catturato e poi liberato dall’abilità<br />

dello zio Guido di Sorrento, che aveva assediato<br />

la città e preso in ostaggio le famiglie dei<br />

congiurati, per barattarle per il rilascio del nipote.<br />

Gisulfo II, riconosciuto legittimo erede, fu<br />

influenzato nelle sue scelte politiche dal temperamento<br />

della sorella: infatti, Sichelgaita era coltissima<br />

ed esercitò grande ascendente a corte,<br />

distinguendosi per le attività sociali.<br />

Pochi anni dopo l’assassinio del padre, a cui<br />

probabilmente non erano estranei gli stessi<br />

Normanni, nel 1058 Sichelgaita sposa il<br />

Guiscardo - il quale, per sospetta consanguineità,<br />

aveva divorziato dalla prima moglie, la normanna<br />

Alberada di Buonalbergo -; da questa<br />

unione nacquero ben otto figli: Mafalda,<br />

Ruggero Borsa, Guido d’Amalfi, Roberto Scalio,<br />

Sibilla, Mabilia, Emma, Olimpia.<br />

Si deve all’abilità politica di Sichelgaita la<br />

riconciliazione della Chiesa con i Normanni e la<br />

portata di quell’evento sarebbe stata esaltata,<br />

alla fine di quell’anno, dalla nascita di Ruggero<br />

Borsa, a conferma della sua capacità di armonizzare<br />

il ruolo diplomatico e politico con quello di<br />

sposa e di madre.<br />

Ella visse in un periodo di eccezionale rilevanza<br />

storica, che vide il processo di rinnovamento<br />

della Chiesa di Roma nel segno della<br />

riforma gregoriana, la lotta delle investiture,<br />

l’espansione dei nuovi ‘barbari’ nella<br />

Langobardia meridionale, il declino dell’antico<br />

Principato di Salerno, il trionfo dei Normanni. I<br />

protagonisti furono: Gregorio VII, Enrico IV,<br />

Desiderio di Montecassino, Alfano I di Salerno,<br />

Roberto il Guiscardo e, tra questi, la principessa<br />

Sichelgaita.<br />

Purtroppo un pesante pensiero la tormentava<br />

da sempre: era interiormente angosciata per la<br />

sorte della figlia Olimpia, che era stata inviata<br />

alla corte di Costantinopoli quale promessa<br />

sposa. L’evolversi degli eventi, nel 1078, comportò,<br />

però, la deposizione dell’imperatore<br />

Michele Dukas, per cui Olimpia fu relegata in un<br />

convento, dove prese il nome di Elena.<br />

Tale situazione portò Sichelgaita ad appoggiare<br />

il progetto di Roberto di ribellarsi a<br />

Bisanzio: fu una spedizione che assunse il carattere<br />

di una ‘precrociata’. Venne allestita una flot-


ta imponente sulla quale ella stessa si imbarcò.<br />

Dopo Corfù, l’esercito normanno volse alla conquista<br />

di Durazzo. Lo scontro fu di inaudita violenza,<br />

un’ala delle colonne normanne, guidata<br />

da Roberto e Boemondo, ebbe la meglio sulle<br />

truppe greche e veneziane alleate, mentre<br />

un’altra ala stava per ripiegare. Sichelgaita si<br />

sentì investita dalla responsabilità del momento:<br />

saltò a cavallo ed alla testa dei suoi uomini si<br />

lanciò impavida nella mischia. Una freccia la<br />

colpì alla spalla sinistra e rischiò di essere fatta<br />

prigioniera, ma il suo coraggio risvegliò a tal<br />

punto l’ardire dei Normanni che li portò alla vittoria.<br />

Era il 18 ottobre 1081, Durazzo era conquistata.<br />

Roberto corse incontro a Sichelgaita e<br />

l’abbracciò tra le acclamazioni dei soldati. L’atto<br />

di coraggio fu così commentato da Guglielmo<br />

Appulo:<br />

«Dio la salvò perché non volle che fosse<br />

oggetto di scherno una signora sì nobile<br />

e venerabile».<br />

Dopo meno di due mesi, nel 1085 Roberto<br />

moriva nei pressi di Cefalonia, in circostanze<br />

misteriose, forse colpito da una malattia epidemica.<br />

Sichelgaita, Boemondo e Ruggero, immersi<br />

nel più straziante dolore, sciolsero le vele<br />

verso la Puglia con le sue spoglie mortali, che<br />

furono sepolte nella chiesa della SS. Trinità di<br />

Venosa. L’autorevole cronista Guglielmo Appulo<br />

descrive con vivo realismo la commozione di<br />

Sichelgaita:<br />

«Oh dolore! che sarò io sventurata? dove<br />

potrò andarmene infelice? Quando<br />

apprenderanno la notizia della tua<br />

morte i Greci non assaliranno forse me,<br />

tuo figlio e il tuo popolo, di cui tu solo<br />

eri la gloria, la speranza e la forza?».<br />

In quell’anno la morte colpì, oltre il<br />

Guiscardo, altri due personaggi-chiave della storia<br />

di quell’epoca: papa Gregorio VII e<br />

l’arcivescovo di Salerno, Alfano I. Fu un ulteriore<br />

dolore per la principessa.<br />

FRANCESCA ANGELLOTTI<br />

- 117 -<br />

Ormai sola, si ritirò in Castel Terracena e continuò<br />

a prodigarsi in favore del figlio Ruggero, a<br />

mediare con Boemondo, al quale furono assegnate<br />

le sue conquiste in Grecia e varie città<br />

pugliesi, quali Bari, Otranto e Taranto.<br />

Anche questa volta ne uscì vincitrice. La scelta<br />

del ‘bicefalismo ducale’, come fu definito<br />

dagli storici, fu il modo più intelligente per scongiurare<br />

le lotte intestine ed assicurare il rilancio<br />

di un forte governo del ducato. Sichelgaita, pur<br />

senza Roberto, riuscì, in forza delle sue doti di<br />

carattere, a portare Salerno al culmine della sua<br />

potenza.<br />

Negli ultimi anni si dedicò ad una vita di preghiera.<br />

Fu un’assidua frequentatrice della Badia<br />

di Cava, alla quale aveva fatto donare, sin dai<br />

tempi del Guiscardo, molti conventi. Allo stesso<br />

modo fu benefattrice di Montecassino, cui la<br />

legava il vincolo di parentela con l’abate<br />

Desiderio, il futuro Papa Vittore III. Fu questo<br />

un periodo finalmente tranquillo, di pieno ardore<br />

religioso, in cui ella poté sostenere l’opera di<br />

moralizzazione della Chiesa. In un momento di<br />

sconforto spirituale, rivelò alla sorella<br />

Gaitelgrima la sua ultima volontà: chiedeva<br />

d’essere sepolta a Montecassino. I Longobardi si<br />

sentirono privati di una madre, i Normanni<br />

ebbero chiara coscienza che si dileguava l’ultima<br />

testimonianza del loro potere, gli umili la piansero<br />

affettuosamente. Mentre il Guiscardo si era<br />

fatto seppellire nella SS. Trinità di Venosa, nel<br />

sacrario dei duchi normanni, dove più tardi<br />

Boemondo fece tumulare anche sua madre<br />

Alberada, Sichelgaita scelse, come sua ultima<br />

dimora, Montecassino. Fu l’ultimo grande gesto<br />

di una figura maestosa nella storia: volle farsi in<br />

disparte dando un forte segno d’umiltà, di quell’umiltà<br />

che connota i forti e che la pose nella<br />

leggenda.


Adriano Caffaro - Giuseppe<br />

Falanga, Isidoro di Siviglia.<br />

Arte e tecnica nelle etimologie,<br />

Edizioni Arci Postiglione,<br />

Salerno 2009, 207 pp.<br />

Il nuovo libro di Adriano<br />

Caffaro e di Giuseppe<br />

Falanga, dedicato al grande<br />

erudito del VII secolo, presenta<br />

aspetti che meritano di<br />

essere considerati alla luce dei<br />

recenti indirizzi che hanno<br />

orientato lo studio storico<br />

delle tecniche artistiche, indirizzi<br />

che mirano per lo più ad<br />

offrire una visione comparatistica<br />

delle fonti letterarie,<br />

allo scopo di tratteggiare la<br />

linea evolutiva di quel processo complesso,<br />

quanto affascinante, che è la codificazione scritta<br />

delle pratiche artistiche. Il merito da riconoscere<br />

all’opera dei due studiosi è, innanzitutto,<br />

l’aver calato una fonte poliedrica di portata<br />

eccezionale, come le Etymologiae di Isidoro di<br />

Siviglia, nell’ambito settoriale della storia tecnico-artistica,<br />

affinché se ne potessero ricostruire<br />

le corrispondenze ragionevoli tra le notizie<br />

d’arte in essa raccolte e le informazioni contenute<br />

in altri testi-chiave della trattatistica occidentale.<br />

In quest’ottica, l’opera di Isidoro si è illuminata<br />

di una luce nuova, perché è stata rapportata<br />

- con le dovute misure critiche e filologiche -<br />

ai testi canonici della letteratura artistica, come il<br />

noto De diversis artibus del monaco Teofilo o le<br />

Compositiones ad tingenda Musiva, contenute<br />

nel Codice 490 di Lucca. Ne è emersa una lettura<br />

trasversale di un’opera che ha fatto parlare di<br />

sé per secoli.<br />

Al pari delle note grammaticali e retoriche,<br />

metriche e bibliche, le notizie tecniche ed artistiche<br />

tramandate da Isidoro nelle Etymologiae<br />

sono, infatti, sviluppate con significativa ricchezza<br />

di dettagli e con varietà di indicazioni supplementari,<br />

anche se in molti brani è proprio la<br />

ridondanza informativa a togliere alla trattazione<br />

isidoriana i caratteri di organicità e di ordine,<br />

che saranno tipici della trattatistica moderna.<br />

SALTERNUM<br />

- 118 -<br />

L’opera è tra le più rinomate<br />

dell’Alto Medioevo ed appartiene<br />

al genere enciclopedico<br />

mediolatino, cui non si può di<br />

certo chiedere la completezza<br />

sistematica perseguita dai trattatisti,<br />

che, dopo di Isidoro,<br />

faranno tesoro della sua<br />

immensa erudizione e potranno<br />

da quella attingere argomenti<br />

a sostegno delle proprie<br />

tesi.<br />

Il nuovo libro di Caffaro e<br />

Falanga si compone di quattro<br />

capitoli, preceduti da una<br />

nota introduttiva, che illustra<br />

il progetto culturale sotteso<br />

alla collana editoriale<br />

«L’officina dell’arte», ideata<br />

proprio da A. Caffaro e promossa dall’Arci<br />

Postiglione per offrire al vasto pubblico una<br />

trama di testimonianze letterarie utili alla ricostruzione<br />

unitaria della tradizione tecnico-artistica.<br />

Ad inaugurare la collana nel 2004 era stato un<br />

altro fortunato saggio dei due studiosi, dedicato<br />

al Papiro X di Leida, ritenuto il testo capofila<br />

della storia trattatistica della tecnica artistica in<br />

Occidente.<br />

Guardiamo, ora, il nuovo volume. Il primo<br />

capitolo presenta le Etymologiae in relazione<br />

all’enciclopedismo medievale e ne svela la chiave<br />

‘etimologica’, quella scelta dal vescovo ispanico<br />

per la compilazione dei dati. Il secondo<br />

capitolo tratteggia il profilo religioso e culturale<br />

di Isidoro, per far sì che il suo pensiero e la sua<br />

azione campeggino nel più ampio affresco storico.<br />

Il terzo capitolo propone una ricca antologia<br />

di brani isidoriani, utili alla lettura intertestuale -<br />

latina ed italiana - delle notizie di rilievo artistico.<br />

L’ultimo capitolo raccoglie le analisi e le<br />

considerazioni sviluppate intorno ai temi dell’arte<br />

e della tecnica, che nel testo isidoriano<br />

appaiono codificati, attraverso l’esercizio etimologico,<br />

in una dimensione teologica ed estetica<br />

non immune dalle citazioni di altre fonti enciclopediche,<br />

per lo più antiche. Corredano il volume<br />

una copiosa bibliografia, strumento utile per<br />

la consultazione della storiografia tecnico-artisti-


ca, ed un accurato ‘Indice degli argomenti’, che,<br />

invero, non sono pochi, spazianti dalla metallurgia<br />

all’oreficeria, dall’edilizia militare e civile<br />

all’arte plastica, vetraria e alla tintura dei tessuti.<br />

Il nuovo libro di Caffaro e Falanga illustra, in<br />

sintesi, la tesi secondo cui il progresso tecnicoartistico<br />

passa anche per le copiose pagine delle<br />

Etymologiae, le quali non possono essere assimilate<br />

in toto ai ricettari artistici che trovarono<br />

fortuna nelle botteghe artigiane di tutti i secoli,<br />

ma possono essere annoverate tra le fonti ‘trasmissive’<br />

di un sapere tecnico antico, che sarebbe<br />

altrimenti andato perduto, ossia tra le fonti<br />

letterarie che, pur non capaci di apporti speculativi<br />

originali, hanno trovato dignità e funzione<br />

nel ‘convertire’ la sapienza antica nella moderna.<br />

Nell’inserire l’opera isidoriana nel lungo filone<br />

della tradizione artistica e letteraria occidentale,<br />

i due storici dell’arte hanno verificato<br />

l’ipotesi dell’inclusione sommativa dei saperi,<br />

perché anche il vescovo sivigliano ha posto al<br />

centro dei propri interessi il complesso patrimonio<br />

di conoscenze pratiche accumulato nei secoli<br />

dagli artisti e dagli artigiani, dagli alchimisti e<br />

dai tintori, dai monaci e dai bibliofili.<br />

Vissuto a cavallo del VI-VII secolo, Isidoro ha<br />

animato la complessa stagione delle invasioni<br />

visigotiche fino a divenirne ‘anima’ culturale,<br />

padre di una civiltà ispanica e già europea. Basti<br />

pensare al grande contributo dato per<br />

l’unificazione linguistica occidentale, nella ricerca<br />

quasi spasmodica di conservare le radici vive<br />

di una lingua, quella latina dei dotti, che sopravvisse<br />

anche grazie all’impresa isidoriana, seppure<br />

in un sostrato romanzo, che sarà destinato a<br />

contaminarsi. E, come per i dati linguistici, così<br />

è per i contenuti desunti dai grandi repertori<br />

delle arti dell’Antichità. Isidoro è stato un grande<br />

raccoglitore di excerpta estratti dalla tradizione<br />

ed ha tentato di organizzare il sapere in una<br />

cornice argomentativa unitaria. I 20 libri che<br />

compongono l’opera originale sono ‘farciti’ di<br />

citazioni tratte dai testi di Omero, Plauto,<br />

Terenzio, Varrone, Cicerone, Palladio, Virgilio,<br />

Orazio, Lucrezio, Ovidio fino a Plinio il Vecchio<br />

GENEROSO CONFORTI<br />

- 119 -<br />

e a Vitruvio, i cui trattati di portata enciclopedica<br />

basterebbero da soli a dire la grandezza degli<br />

antichi. Considerati i tempi in cui il Sivigliano è<br />

vissuto, può oggi dirsi che Isidoro sia riuscito<br />

nella folle impresa. Si tenga conto, tra l’altro,<br />

della lunga gestazione dell’opera, che impegnò<br />

Isidoro per circa ventuno anni, tra il 615 ed il<br />

636. Ne sarebbe seguita un’eccezionale vicenda<br />

editoriale, costellata dalle edizioni cinquecentesche<br />

di De Grial e Arevalo, dalle ottocentesche<br />

del Migne e del Lindemann e, al di sopra delle<br />

altre, quella curata nel 1911 dal Lindsay, edizione<br />

critica che riunisce l’intera opera in due volumi<br />

e mette fine alla ‘diaspora’ dei manoscritti isidoriani.<br />

Lo studio di Caffaro e Falanga mostra quanto<br />

Isidoro sia stato capace di interpretare e di sintetizzare<br />

la vivente e indefinita tradizione precettistica,<br />

ossia di trasmetterla ai posteri e di farne<br />

il pretesto per educare alle arti e alla religione,<br />

per avvicinare il popolo, attraverso l’etimo, al<br />

mistero della bellezza e a Dio.<br />

Le conclusioni giungono naturali: l’enciclopedia<br />

isidoriana è degna di essere valutata corne<br />

l’esito significativo di un percorso evolutivo che<br />

risale all’antichità egizia e greco-romana, attraversa<br />

il medioevo e giunge nell’età moderna. Il<br />

testo enciclopedico, seppure connotato da stile<br />

compilativo, rivela insieme alla profonda erudizione<br />

dell’autore anche la sua sensibilità estetica,<br />

intrisa, come è ovvio, di toni moralistici ed<br />

afflato spirituale. Isidoro non si limita a raccogliere<br />

le informazioni tramandate dagli Auctores<br />

pagani e tardoantichi, ma le investe di spirito<br />

nuovo e dà loro una rinnovata forma e funzione<br />

culturale. La grande cultura permette ad<br />

Isidoro di selezionare brani d’interesse della<br />

sapienza tecnica antica, pur senza che sia sviluppato<br />

un notevole livello critico; egli ribadisce i<br />

contenuti tecnici salienti, tratti dai testi delle<br />

scienze naturali o delle arti meccaniche, per<br />

dilatare gli orizzonti conoscitivi e applicativi a<br />

ciò che, in precedenza, era indirizzato soltanto a<br />

scopi pratici ed operativi.


SALTERNUM<br />

Storia di una collaborazione<br />

La mia collaborazione con l’Associazione<br />

ARCI POSTIGLIONE ebbe inizio nel 1994.<br />

Ricordo quando fui contattato dal<br />

Presidente, il dott. Generoso Conforti, instancabile<br />

coordinatore di tutte le attività culturali che<br />

si svolgono nei Paesi degli Alburni. La telefonata<br />

mi fece molto piacere, perché mi venne chiesto<br />

di scrivere un articolo per la Rivista “Il<br />

Postiglione” 1 . La conoscenza con il dott. Conforti<br />

risaliva ad alcuni anni prima, quando mi divertivo<br />

a fare l’allenatore della squadra di calcio del<br />

mio Paese, Sicignano degli Alburni. In quel<br />

tempo mi trovavo spesso di fronte, da avversario,<br />

un eccellente giocatore, difficile da affrontare<br />

perché era tatticamente disciplinato e non<br />

dava punti di riferimento nella marcatura. Ho<br />

voluto citare questo spaccato calcistico per evidenziare<br />

come la sua applicazione nel fare le<br />

cose sia rimasta immutata e si sia riversata anche<br />

in quella sua attività culturale di cui oggi si celebra<br />

il ventennale 2 .<br />

Agli inizi degli anni ’90 ero tornato da una<br />

lunga permanenza lavorativa a Milano, dove<br />

avevo avuto l’opportunità di fare un’esperienza<br />

giornalistica: il dott. Enrico Moneta Caglio,<br />

uomo dalle grandi virtù morali, Direttore della<br />

Rivista “Agrisport e Agriturismo”, mi aveva invogliato<br />

a scrivere un articolo per il giornale e, una<br />

volta iniziata la collaborazione, mi aveva affidato<br />

l’incarico di curare la pagina culturale di quel<br />

mensile. Quando, alcuni anni dopo, ho accettato<br />

l’invito dell’ARCI POSTIGLIONE ero abituato a<br />

dare ai miei articoli un taglio rigoroso, ma divulgativo<br />

e privo di apparato critico. Allorché consegnai<br />

alla Redazione de “Il Postiglione” il mio<br />

testo, il Direttore mi fece notare che mancavano<br />

le note bibliografiche! Ne nacque un diverso<br />

modo di impostare gli scritti, improntato alle esigenze<br />

della ricerca scientifica, che sempre espli-<br />

- 120 -<br />

cita e documenta le proprie fonti. Un criterio al<br />

quale mi sono ispirato anche quando, nel 1997,<br />

eletto Direttore del GRUPPO ARCHEOLOGICO<br />

SALERNITANO, ho dato vita a “Salternum”, Rivista<br />

semestrale di informazione storica, culturale e<br />

archeologica.<br />

Ho tuttavia continuato a collaborare con<br />

l’Associazione per diversi anni, durante i quali<br />

ho scritto articoli che hanno trattato spaccati di<br />

vita e personaggi storici del mio Paese e ho partecipato<br />

a diversi incontri letterari dell’estate<br />

postiglionese 3 .<br />

Esperienze entrambe dalle quali ho sempre<br />

tratto l’emozione che si prova quando si espongono<br />

i risultati di ricerche svolte negli archivi<br />

storici e nelle biblioteche non meno che sulle<br />

evidenze storico-artistiche ed archeologiche. È<br />

successo anche per la chiesa di Santa Maria del<br />

Serrone extra moenia castrum Siciniani 4 .<br />

Durante il restauro, sulla sua parete sud è stata<br />

rinvenuta una finestra romanica dalla quale si<br />

può spaziare su gran parte del territorio di pertinenza<br />

del Priorato, così come descritto nel<br />

documento n. 247 dell’Arca XII della Biblioteca<br />

dell’Abbazia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni,<br />

ritrovato grazie all’attenzione di alcuni studiosi 5 :<br />

si tratta di un caso esemplare del binomio ‘documento<br />

– monumento’, sul quale ogni ricercatore<br />

si augura di poter lavorare.<br />

I nostri Paesi degli Alburni hanno quella sete<br />

di conoscenza che permette di ricostruire una<br />

storia ancora in gran parte da scoprire. A noi<br />

spetta il compito più importante: fare ricerca sul<br />

territorio per riportare alla luce il patrimonio culturale<br />

che ci appartiene e per riappropriarci<br />

delle nostre origini.<br />

In questa ottica è di fondamentale importanza<br />

che la collaborazione oggi ventennale tra le<br />

due Associazioni, l’ARCI POSTIGLIONE eilGRUPPO


ARCHEOLOGICO SALERNITANO, venga mantenuta in<br />

vita e costantemente alimentata da una ‘linfa’<br />

capace di generare nuove idee e suscitare interessi<br />

e collaborazioni soprattutto da parte dei<br />

giovani.<br />

Abbiamo il dovere morale di trasmettere alle<br />

future generazioni l’esempio di come un Bene<br />

Culturale possa essere tutelato e valorizzato<br />

attraverso la conservazione della sua memoria<br />

storica.<br />

Al termine di una conferenza che ho tenuto<br />

a Postiglione nell’agosto del 2005, ho proiettato<br />

un’immagine di un tramonto sull’isola di Capri,<br />

ripreso in una limpida giornata da un terrazzo<br />

naturale di quel lontano paese alburnino. Le<br />

parole conclusive, nelle quali continuiamo a<br />

riconoscerci, erano:<br />

«la memoria storica di un territorio è arte,<br />

è fuoco, è luce. Facciamo di tutto per<br />

non farla tramontare come l’ultimo sole<br />

che ogni giorno tramonta nell’azzurro mar<br />

Tirreno».<br />

1 PASTORE F. 1994, A Sicignano degli Alburni in un luogo di<br />

pace: il convento dei Frati Cappuccini, in “Il Postiglione”,<br />

VI, n. 7, pp. 213-216.<br />

2 CAFFARO A. - CONFORTI G. - MELE R. 2009, In viaggio da vent’anni.<br />

Arci Postiglione 1989 - 2009, Ed. Arci Postiglione,<br />

Penta (SA).<br />

3 PASTORE F. 1996, Girolamo Brittonio: la famiglia, la vita, le<br />

opere, in “Il Postiglione”, VIII, n. 9, pp. 289-296.<br />

4 IDEM 1997, Il Priorato di Santa Maria del Serrone a<br />

Sicignano degli Alburni, in “Il Postiglione”, IX, n.10, pp.<br />

271-284.<br />

5 FORES D. P. 1988, L’inventario dei beni di S. Benedetto di<br />

Salerno a Sicignano, in Appunti e documenti per la storia<br />

del territorio di Sicignano degli Alburni, a cura di C.<br />

CARLONE - F. MOTTOLA, Ed. Studi Storici Meridionali, Nocera<br />

Inf. (SA), pp. 361-381.<br />

FELICE PASTORE<br />

- 121 -


MONDRAGONE (CE).<br />

Dallo scavo preistorico un paleosuolo di 50.000<br />

anni fa.<br />

Dallo scorso mese di settembre 2009 è in<br />

corso la nona campagna di scavo nella grotta di<br />

Roccia San Sebastiano in loc. Incaldana, condotta,<br />

con il contributo finanziario del Comune di<br />

Mondragone, dall’Università di Roma ‘Sapienza’,<br />

in regime di concessione da parte della<br />

Soprintendenza Archeologica delle Province di<br />

Salerno, Avellino, Benevento e Caserta. Lo scavo<br />

di quest’ anno, che terminerà verso la metà di<br />

Ottobre, ha permesso di ampliare l’esplorazione<br />

dei livelli più antichi del Paleolitico superiore, al<br />

di sotto del livello Gravettiano datato a circa<br />

20.000 anni fa. La sequenza messa in luce finora<br />

dimostra, in modo evidente la continuità e<br />

l’intensità della frequentazione preistorica dell’area<br />

del Comune di Mondragone e delle pendici<br />

del Monte Massico. Al di sotto dei livelli già noti<br />

fino al 2008, è stato possibile accertare la presenza<br />

di un importante livello con resti di fauna<br />

e manufatti litici attribuibili alla cosiddetta<br />

Cultura Aurignaziana, che si colloca in Europa<br />

agli inizi del Paleolitico superiore, con datazioni,<br />

in altri giacimenti italiani, intorno a 30.000<br />

anni fa circa. «Si tratta di un risultato sorprendente<br />

- commenta entusiasta l’Assessore alla Cultura<br />

Antonio Taglialatela - che premia la volontà di<br />

incrementare le risorse per gli scavi a partire dall’anno<br />

2008». La scoperta certamente più significativa<br />

di questa campagna di ricerche è stata tuttavia<br />

quella relativa all’esistenza di un livello<br />

ancora più antico, databile tra 45.000 e 50.000<br />

anni fa, caratterizzato da un notevole ricchezza<br />

di manufatti riferibili al Musteriano, la Cultura<br />

che precede l’arrivo in Europa dell’Uomo<br />

FELICE PASTORE<br />

Notizie dagli scavi<br />

- 123 -<br />

moderno. La scoperta e lo scavo in corso di questo<br />

livello documentano la presenza di gruppi<br />

umani Neanderthaliani, la specie che popolò<br />

l’Europa e parte dell’Asia, tra 200.000 e poco<br />

meno di 30.000 anni fa circa. «Con questa scoperta<br />

- commenta il Sindaco Achille Cennami -<br />

cambia la storia di Mondragone e la Preistoria<br />

dell’Alta Campania: Mondragone diventa terra di<br />

uomini Neanderthaliani e i prossimi anni potranno<br />

essere ricchi di ulteriori importanti scoperte.<br />

Ci troviamo di fronte a reperti che non hanno<br />

valore commerciale, ma un grandissimo valore<br />

scientifico, trattandosi di reperti in pietra e in<br />

selce. Il Museo Civico Archeologico ‘Biagio<br />

Greco’ si conferma una punta di eccellenza nel<br />

campo dei Beni Archeologici, grazie anche<br />

all’intensa collaborazione della Soprintendenza<br />

Archeologica e la direzione del dottor Luigi<br />

Crimaco».<br />

MONDRAGONE (CE).<br />

Dal Monte Massico riemerge un vigneto dell’antico<br />

Falerno.<br />

All’interno di un vigneto fossile individuato<br />

lungo uno dei fianchi del Monte Massico<br />

(Caserta), sono state rinvenute tracce di polline<br />

di una vigna di età romana, analizzate presso<br />

un laboratorio dell’Università degli Studi di<br />

Padova. Ad annunciare i risultati è stato<br />

l’archeologo Luigi Crimaco, durante il Seminario<br />

‘Dal Falernum al Falerno’, svoltosi al Museo<br />

Civico ‘Biagio Greco’ di Mondragone.<br />

«Da uno dei terrazzamenti antichi, ubicato<br />

alle pendici del Massico, proviene una delle più<br />

interessanti scoperte archeologiche - spiega<br />

Crimaco - che ha restituito le tracce fossili di un


vigneto risalente all’età imperiale romana. La<br />

scoperta, fatta negli ultimi anni del secolo scorso<br />

dopo i lavori di sbancamento per la costruzione<br />

della strada Panoramica del piccolo borgo<br />

di Falciano del Massico, ha permesso di individuare<br />

una serie di sulci (filari), in cui dovevano<br />

essere sistemate le viti per la produzione del<br />

vino. All’interno dei solchi, al momento della<br />

scoperta, furono rinvenuti esclusivamente frammenti<br />

di ceramica fine di produzione africana,<br />

tipica del mondo imperiale romano. Si tratta di<br />

15 solchi paralleli, disposti a una distanza di<br />

circa 2,70 metri l’uno dall’altro e ricavati nel<br />

paleosuolo composto di ignimbrite campana. Le<br />

recenti analisi polliniche hanno fornito risposte<br />

adeguate e possiamo affermare che il fossile rinvenuto<br />

nell’area del Massico apparteneva ad un<br />

vigneto di Falerno».<br />

All’incontro - che ha avuto la finalità di fare il<br />

punto sugli studi su una delle aree più importanti<br />

nella diffusione della vite nel Mediterraneo,<br />

l’Ager Falernus - sono intervenuti l’Assessore<br />

regionale all’Agricoltura Gianfranco Nappi, il<br />

sub-Commissario della Provincia di Caserta<br />

Michele Petruzzelli, il deputato Mario Landolfi, il<br />

Presidente di AGRISVILUPPO Giuseppe Falco, il<br />

Sindaco di Mondragone Achille Cennami, ed i<br />

professori Luigi Moio, ordinario di enologia<br />

all’Università degli Studi di Napoli Federico II, e<br />

Nicola Trabucco, agronomo. Ha moderato il<br />

dibattito il giornalista Luciano Pignataro.<br />

Il Seminario è stato organizzato nell’ambito<br />

del Programma Speciale di Marketing<br />

Territoriale ‘Costiera dei Fiori’, ideato e promosso<br />

dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione<br />

Campania e realizzato da una partenariato locale<br />

costituito dalla Camera di Commercio di<br />

Caserta, Stapa Cepica ed Amministrazione<br />

Provinciale, di cui AGRISVILUPPO è soggetto attuatore.<br />

In quell’occasione l’agronomo Trabucco ha<br />

trattato della composizione del suolo della ricca<br />

terra del Falerno, analizzando le singole aree di<br />

produzione; a tracciare un percorso dell’origine<br />

del Falerno, a spiegare i metodi di vinificazione<br />

nell’epoca romana e le caratteristiche sensoriali<br />

del vino come riportato dagli autori classici, è<br />

stato il professor Moio.<br />

SALTERNUM<br />

- 124 -<br />

Per valorizzare questa risorsa antica che può<br />

rinnovarsi al presente, il Presidente di<br />

AGRISVILUPPO ha illustrato tre importanti progetti:<br />

«L’idea è quella di realizzare una Fondazione per<br />

la promozione del vino Falerno, che associ<br />

Camera di Commercio, Comuni interessati e<br />

produttori di vino. Poi avvieremo la pratica<br />

necessaria per chiedere all’Unesco la tutela del<br />

vinum falernum e abbiamo l’intenzione di ricostruire<br />

tre vigneti sul modello di quelli degli antichi<br />

Romani, in tre diverse zone quali il Teatro<br />

Romano di Sessa Aurunca, la Villa di San Limato<br />

a Cellole e gli Scavi del Castello di Mondragone».<br />

Il Sindaco di Mondragone e l’Assessore regionale<br />

all’Agricoltura hanno annunciato la realizzazione<br />

di un’enoteca dedicata all’importante<br />

vitigno, per la quale è già stato fatto un cospicuo<br />

stanziamento.<br />

MONDRAGONE (CE).<br />

Rinvenimento di un fonte battesimale medievale.<br />

Dopo il rinvenimento di una staffa di cavallo,<br />

un’ulteriore sorprendente scoperta ha premiato<br />

la IX campagna di scavo in corso sulla Rocca<br />

Montis Dragonis, diretta da Luigi Crimaco,<br />

Direttore del Museo Civico Archeologico ‘Biagio<br />

Greco’. Si tratta di un fonte battesimale medievale,<br />

del peso stimato in 350 kg.<br />

«Si tratta di una bellissima scoperta archeologica<br />

- commenta L. Crimaco - sulla quale ci riserviamo,<br />

dopo i necessari studi, di pronunciarci in<br />

modo completo. Ad una prima analisi possiamo<br />

affermare che forse si tratta di un fonte battesimale<br />

medievale, ma è opportuna la cautela.<br />

Quello che mi preme è formulare un vivo ringraziamento<br />

al parroco di S. Angelo, Don<br />

Roberto Gutturiello, presente durante le operazioni<br />

di recupero del reperto archeologico.<br />

Senza l’aiuto dei componenti del Comitato Festa<br />

di S. Angelo non sarebbe stato possibile portare<br />

immediatamente al Museo questa importante<br />

testimonianza del passato». Le operazioni di trasporto,<br />

eseguite nella giornata di giovedì 24 settembre,<br />

sono state infatti possibili grazie alla fattiva<br />

collaborazione del Comitato della Festa<br />

Patronale di S.Michele, presenti sul luogo in<br />

quanto impegnati a montare l’illuminazione del


Castello. Il fonte battesimale è stato trasporto<br />

lentamente dalla sommità del Castello fin dalle<br />

prime ore della mattinata ed è giunto in località<br />

Cantarella verso le ore 15.00, quando è stato<br />

preso in custodia dagli operai del Comune<br />

Giuseppe Rao e Vincenzo Crimaldi. Sotto la<br />

supervisione della restauratrice del Museo, la<br />

dott.ssa Marianna Musella, il reperto è stato poi<br />

collocato nella sala medievale, posta al secondo<br />

piano, che ospita anche lo stemma dei Duca<br />

Grillo. «Ritengo che con la scoperta di questo<br />

importate reperto archeologico di epoca medievale<br />

- commenta il Sindaco Achille Cennami -<br />

confermiamo una vocazione di eccellenza del<br />

nostro Museo Civico e della sua Direzione<br />

Scientifica. Ringrazio anche io la comunità di<br />

Sant’Angelo, nella persona del parroco don<br />

Roberto Gutturiello, per il prezioso aiuto dato<br />

alla nostra équipe scientifica dai componenti il<br />

Comitato Festa nell’operazione di salvataggio e<br />

mi piace sottolineare come il fonte battesimale<br />

possa essere già visto nelle sale del nostro<br />

Museo. La continua collaborazione con la<br />

Soprintendenza Archeologica, attraverso la persona<br />

della dott.ssa Ruggi d’Aragona, ci permette<br />

di mettere in risalto e di offrire all’attenzione di<br />

tutti quanto di bello e prezioso la nostra storia ci<br />

ha lasciato».<br />

MARIGLIANO (NA).<br />

Riportato alla luce un tratto della via Popilia.<br />

Il 2 febbraio 2009 è stato individuato un tratto<br />

dell’antica via Popilia. Superate iniziali difficoltà<br />

legate principalmente alla mancanza di<br />

fondi, si sono avviati gli scavi in via Sentino per<br />

riportare alla luce completamente l’antica strada<br />

romana, costruita nel 132 a.C. per collegare<br />

Capua con Reggio Calabria; l’importante arteria<br />

passava per Acerra, Marigliano, Nola, Nocera e<br />

il territorio salernitano fino ad arrivare a Reggio.<br />

A dirigere i lavori è la Soprintendenza<br />

Archeologica di Napoli e Pompei diretta dal funzionario<br />

di zona, Giuseppe Vecchio, con<br />

l’archeologo Nicola Castaldo. «Mi sono subito<br />

reso conto dell’importanza della scoperta – spiega<br />

Castaldo - che apre nuovi e inaspettati orizzonti<br />

sulle potenzialità archeologiche di<br />

FELICE PASTORE<br />

- 125 -<br />

Marigliano». L’individuazione della via romana si<br />

aggiunge ad altri rinvenimenti di particolare rilevanza,<br />

avvenuti nel 2007 e nel 2008, tra cui una<br />

necropoli romana stratificata, una villa in via<br />

Sentino, un’altra di Età imperiale in via Ponte<br />

delle Tavole, ai confini con San Vitaliano, ed<br />

una capanna dell’Età del Bronzo risalente a 1700<br />

anni a.C. In mancanza di finanziamenti per la<br />

prosecuzione degli scavi, tali emergenze erano<br />

state temporaneamente reinterrate, per evitare<br />

atti di vandalismo e furti. Uno spiraglio si è aperto<br />

con l’ingresso di Marigliano nel piano strategico<br />

di valorizzazione di Beni Culturali dell’area<br />

nolana, finanziato dall’Unione Europea con 21<br />

milioni di euro; al Comune sono stati assegnati<br />

circa 2 milioni di euro per la realizzazione del<br />

Parco Archeologico e di un centro per lo studio<br />

e la catalogazione delle tradizioni locali. Con la<br />

ripresa degli scavi della via Popilia si riaccendono<br />

i riflettori sull’area archeologica di<br />

Marilianum e a sostenere la causa del Parco<br />

Archeologico si è aggiunto anche uno splendido<br />

vaso in sigillata italica del I secolo d.C., rinvenuto<br />

nella villa sannitica. Il vaso, dopo il restauro,<br />

verrà esposto in una sala del nuovo Museo<br />

Archeologico di Nola.<br />

NOLA (NA).<br />

Reperto di età augustea ‘esposto’ in un giardino<br />

privato.<br />

Conservava una reperto archeologico in<br />

marmo di età augustea nel giardino di una villa,<br />

usandolo come elemento ornamentale; il proprietario<br />

è stato denunciato in stato di libertà. A<br />

effettuare la scoperta i Carabinieri del Nucleo<br />

Tutela Patrimonio Culturale di Napoli, i quali<br />

hanno eseguito un sopralluogo all’interno di<br />

una lussuosa residenza utilizzata per ricevimenti.<br />

Il reperto è una metopa finemente decorata<br />

con bassorilievi, che doveva far parte di un<br />

mausoleo o di un edificio pubblico di età augustea,<br />

probabilmente situato nel territorio nolano,<br />

in un sito archeologico che con ogni probabilità<br />

negli anni passati è stato visitato da un gruppo<br />

di tombaroli. Dopo un rapido accertamento,<br />

il titolare della villa è risultato sprovvisto di autorizzazioni<br />

che giustificassero il possesso dell’og-


getto sequestrato ed è stato denunciato per il<br />

reato di ‘impossessamento illecito di Beni<br />

Culturali appartenenti allo Stato’. La metopa è<br />

stata sottoposta a perizia tecnica da parte di un<br />

funzionario archeologo della Soprintendenza di<br />

Napoli e Pompei il quale, oltre ad attestarne<br />

l’autenticità e la datazione, ha anche evidenzia-<br />

SALTERNUM<br />

- 126 -<br />

to che si tratta di un opera di grande pregio artistico<br />

e scientifico. Il reperto è stato trasportato al<br />

Museo Archeologico di Nola.<br />

(Notizie tratte da: Archemail. L'archeologia in Campania<br />

"Notiziario on-line del Gruppo Archeologico Napoletano",<br />

mesi sett. - ott. 2009).


Scoprendo il Perù...<br />

Scoprire il Perù e lasciarsi sorprendere<br />

dai suoi mille volti è un’esperienza gratificante.<br />

Le diversità geografiche, climatiche ed etniche<br />

che coesistono in questa magica terra, gli usi e<br />

i costumi dei suoi abitanti, anche da lontano, non<br />

finiscono di emozionarti.<br />

I mille aspetti di questa realtà ti incuriosiscono<br />

e ti rincorrono, coinvolgendoti.<br />

Sono i lunghi deserti, i maestosi e innevati vulcani<br />

andini a lasciarsi ammirare; sono le greggi di<br />

alpaca o di vigogne che ti corrono davanti agli<br />

occhi e i versi dei leoni marini o dei volatili, stanziati<br />

nelle isole Ballestas, in mezzo all’oceano, a<br />

richiamarti.<br />

E poi i volti dei bambini bruciati dal sole e dal<br />

vento di altitudini impossibili da abitare e i loro<br />

piedi scalzi nei recinti insieme coi lama, o le<br />

madri pazienti che trasportano i loro piccoli in<br />

spalla nei panni multicolori, a parlarti di una realtà<br />

diversa e difficile.<br />

Il Perù è anche la grande lezione di vita trasmessa<br />

dalla mitezza e dall’essenzialità in cui vivono<br />

popolazioni umili, come gli Uros delle isole galleggianti<br />

del lago più alto del mondo: il Titicaca.<br />

Esse sono riccamente paghe di vivere in armonia<br />

con una natura non sempre confortevole.<br />

Coinvolgente è anche il mistero dei giganteschi<br />

segni, prodotti chissà da quali civiltà, ora nel<br />

deserto, come quelli di Nasca, ora su dune sabbiose,<br />

come quelle di Paracas.<br />

E intanto ti interroghi sulla grandezza di megalitiche<br />

costruzioni, testimoni di antiche civiltà millenarie<br />

che ti affascinano insieme a riti, danze e<br />

musiche, che come l’Inti Raymi, ancora oggi le<br />

rappresentano.<br />

ROSALBA TRUONO<br />

Appunti di Viaggio<br />

- 127 -<br />

Fig. 1 - Isole galleggianti. Donne di etnia Uros.<br />

Fig. 2 - Festa dell’Inti Raymi.<br />

Fig. 3 - Festa dell’Inti Raymi.


Fig. 4 - Pisac. I ‘terrazzamenti incaici’.<br />

Fig. 5 -Vigogne e misti - Il vulcano simbolo di Arequipa.<br />

Fig. 6 - Isole Ballestas - Parco Naturale.<br />

...come un incantesimo<br />

La veduta di Machu Picchu è un’emozione<br />

mozzafiato; all’alba poi, avvolta dalla nebbia che<br />

si dirada, man mano che il sole del solstizio<br />

d’inverno incede, ti ripaga degli ostacoli e dei disagi<br />

di un viaggio faticoso.<br />

SALTERNUM<br />

- 128 -<br />

Un traguardo irrinunciabile per gli amici naturalisti<br />

e per gli appassionati di archeologia, che in<br />

quest’atmosfera da favola possono ben capire ciò<br />

che dovette provare Hiram Bingham quando, nel<br />

1911, vide questo luogo incantato per la prima<br />

volta.<br />

E’ qui che ti sorprende la bellezza di una<br />

Natura prepotente e la sapienza di mani esperte<br />

ed antiche.<br />

Tutto è uno spettacolo nello spettacolo: i picchi<br />

verdi delle montagne che appaiono e scompaiono<br />

tra la nebbia, i terrazzamenti maestosi che<br />

degradano verso il fondo valle, l’acqua trasparente<br />

del fiume Urubamba che scorre laggiù nelle<br />

gole profonde, i lama pazienti che brucano l’erba,<br />

le mille orchidee che fanno capolino tra il verde<br />

rigoglioso della vicina foresta e infine le antiche<br />

costruzioni incaiche, che ordinatamente si adagiano<br />

in ogni dove, come perle incastonate nella<br />

loro più naturale cornice.<br />

Sono queste pietre, magistralmente incastrate<br />

in un luogo quasi inaccessibile, sono i lunghi sentieri<br />

incaici, sofisticati canali che un tempo consentivano<br />

l’irrigazione costante delle colture, le<br />

numerose scalinate di pietra, incassate nei muri i<br />

cui blocchi intagliati e levigati sono giustapposti<br />

senza margine di errore, sono le enigmatiche<br />

forme scultoree cerimoniali, i templi, le terrazze<br />

affacciate su vertiginosi precipizi a porci misteriose<br />

domande sulla grandezza e sulla organizzazione<br />

delle civiltà andine.<br />

Nascosto nella nebbia dell’umido bosco e<br />

nella sua rigogliosa vegetazione, il complesso di<br />

Machu Picchu è ben a ragione considerato una<br />

delle meraviglie del mondo. Probabilmente fu<br />

una città sacra, abitata da persone scelte, forse<br />

appartenenti alla nobiltà incaica e alle alte gerarchie<br />

religiose, una città che tuttavia gli Spagnoli<br />

durante la conquista non attaccarono mai e che<br />

forse fu abbandonata dai suoi abitanti, che scapparono<br />

verso la selva per sfuggire all’esercito<br />

nemico.<br />

La complessa struttura urbanistica di Machu<br />

Picchu e la sua possente architettura rendono<br />

alquanto difficile i tentativi di identificarne la funzione<br />

e l’origine. Qui, più che altrove, gli elementi<br />

tipici dei centri cerimoniali e dei luoghi di culto<br />

sono commisti a quelli propri delle fortezze


difensive e degli insediamenti agricoli. Perciò<br />

ancora oggi questo complesso non cessa di stupirci<br />

ed essere fonte di dibattiti tra gli archeologi,<br />

che, forse in un prossimo futuro, ne sveleranno<br />

nuovi, affascinanti aspetti.<br />

E intanto, mentre nella nostra mente si affollano<br />

come flasches le immagini di un paesaggio<br />

incantato, i cui luoghi riecheggiano della poesia<br />

di nomi quecheea - Machu Picchu (cima vecchia),<br />

Huayna Picchu (cima giovane), Intiwatane<br />

(luogo che cattura il sole) e così via -, noi non<br />

possiamo che essere d’accordo con le parole di<br />

Hiram Bingham: «…la visione mi catturava lo<br />

sguardo come un incantesimo!».<br />

ROSALBA TRUONO<br />

- 129 -<br />

Fig. 7 - Machu Picchu.


SALTERNUM<br />

Indice<br />

Editoriale......................................................................................................................................pag. 3<br />

di Gabriella D’Henry<br />

Le popolazioni indigene dell'entroterra ........................................................................................pag. 5<br />

di Gianni Bailo Modesti<br />

Geomitologia ed origini geologiche del culto dell’Arcangelo Michele ........................................pag. 23<br />

di Luigi Piccardi<br />

Di una iscrizione rinvenuta a Lacedonia ......................................................................................pag. 29<br />

di Nicola Fierro<br />

La schiavitù a Roma....................................................................................................................pag. 33<br />

di Pietro Crivelli<br />

L’anfiteatro atinate.<br />

Lineamenti storici, epigrafici e topografici<br />

di un monumento sepolto dell’antica Atina ..............................................................................pag. 49<br />

di Marco Ambrogi<br />

Orazio e la Campania..................................................................................................................pag. 63<br />

di Francesco Montone<br />

Lo stato di conservazione degli affreschi di San Pietro a Corte in Salerno ....................................pag. 71<br />

di Maria Amoruso<br />

“Picturae in ecclesiae S. Marie de Casalucio”<br />

Gli affreschi di Casaluce. Una parentesi medievale ........................................................................pag. 79<br />

di Gianmatteo Funicelli<br />

La Natività della tradizione apocrifa nella cripta della cattedrale di Nusco ................................pag. 89<br />

di Maria Giovanna Vespasiano<br />

Origini e sviluppo dell’architettura rurale<br />

nella piana del Sele: l’esempio della Masseria Fosso ....................................................................pag. 99<br />

di Lorella Mazzella<br />

Il restauro della scultura lapidea di San Pietro Martire nella chiesa di S. Domenico a Matera ......pag. 109<br />

di Elisa Basile<br />

RECENSIONI<br />

Dorotea Memoli Apicella, Sichelgaita tra Longobardi e Normanni,............................................pag. 115<br />

di Francesca Angellotti<br />

Adriano Caffaro - Giuseppe Falanga, Isidoro di Siviglia. Arte e tecnica nelle etimologie ........pag. 118<br />

di Generoso Conforti<br />

Storia di una collaborazione ....................................................................................................pag. 120<br />

di Felice Pastore<br />

Notizie dagli scavi....................................................................................................................pag. 123<br />

di Felice Pastore<br />

Appunti di viaggio ..................................................................................................................pag. 127<br />

di Rosalba Truono<br />

- 131 -


Finito di stampare<br />

nel mese di novembre 2009<br />

da Arti Grafiche Sud<br />

Salerno

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