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Download del file - Gruppo Archeologico Salernitano

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Sono dieci anni che si stampa, a cura <strong>del</strong><br />

<strong>Gruppo</strong> <strong>Archeologico</strong> <strong>Salernitano</strong>, la<br />

Rivista Sal(t)ernum. Mi sembra opportuno,<br />

pertanto, dedicare questo editoriale ad un<br />

bilancio su quanto è stato fatto, alla funzione<br />

<strong>del</strong>la rivista stessa, e alla sua incidenza sulla problematica<br />

dei Beni Culturali a Salerno.<br />

Mi si perdonerà se trascurerò i suoi primi<br />

anni di vita, quando non ne ero ancora Direttore<br />

scientifico, né ne ero stata in qualche modo<br />

coinvolta. Si può solo dire, sfogliando questi<br />

primi fascicoli, che già dal primo numero sono<br />

stati affrontati temi di indubbio interesse, e ad<br />

essi hanno collaborato persone altamente qualificate;<br />

fa comunque un certo effetto vedere a<br />

confronto quei volumetti smilzi, frutto di un<br />

lavoro accurato ma di un finanziamento certamente<br />

insufficiente, e l’ultimo numero di<br />

Sal(t)ernum, ricco di quasi novanta pagine e<br />

stampato da una tipografia nota in Città per la<br />

sua professionalità.<br />

Alla fine <strong>del</strong>lo scorso secolo, fui contattata<br />

dal Presidente <strong>del</strong> <strong>Gruppo</strong> <strong>Archeologico</strong>, il dottore<br />

Felice Pastore, il quale mi chiese se volevo<br />

partecipare alla redazione <strong>del</strong>la loro Rivista. Io<br />

ero in pensione da qualche anno, ed abbastanza<br />

libera, e non ho avuto alcun problema ad<br />

accettare l’incarico, dopo essermi documentata<br />

sulla serietà e sulla civile disponibilità dei componenti<br />

<strong>del</strong> <strong>Gruppo</strong>. Così cominciò per me una<br />

nuova avventura.<br />

Alla prima riunione <strong>del</strong> Comitato scientifico,<br />

formato tutto da professionisti nel campo dei<br />

Beni Culturali, ci mettemmo d’accordo su una<br />

linea di comportamenti da cui non ci si doveva<br />

scostare: occuparsi soprattutto <strong>del</strong>le antichità <strong>del</strong><br />

<strong>Salernitano</strong>, e <strong>del</strong>la Campania in genere, non<br />

GABRIELLA D’HENRY<br />

EDITORIALE<br />

Anniversario<br />

- 1 -<br />

rifiutando, tuttavia, validi contributi provenienti<br />

da altri Gruppi Archeologici, o da altre realtà italiane;<br />

accettare anche alcune ricerche che si riferivano<br />

o all’Oriente antico, o a determinate<br />

situazioni stimolanti in ambiente europeo; rivolgersi<br />

a studiosi seri, più o meno noti, per avere<br />

un loro contributo su alcune emergenze particolarmente<br />

significative; non trascurare in alcun<br />

modo le ricerche approfondite che venivano dai<br />

soci <strong>del</strong> <strong>Gruppo</strong>, i quali, se coinvolti nella collaborazione,<br />

erano ben disposti a discutere sui<br />

temi da loro proposti, creando così un rapporto<br />

interattivo tra di essi ed il Comitato scientifico.<br />

Armati di questo vademecum, abbiamo<br />

cominciato a lavorare, e ci siamo trovati di fronte<br />

un impatto molto forte, da noi cercato e voluto:<br />

l’edizione preliminare, in attesa <strong>del</strong>la sua<br />

pubblicazione scientifica, <strong>del</strong> complesso monumentale<br />

di S. Pietro a Corte nel centro storico di<br />

Salerno, nell’ambito <strong>del</strong> quale si susseguono le<br />

diverse fasi, dalle terme romane alla necropoli<br />

cristiana, alla ristrutturazione arechiana, agli<br />

affreschi datati dal Medioevo al Settecento, fino<br />

all’uso degli ambienti in un periodo più recente,<br />

ed al rinvenimento, studio e restauro <strong>del</strong>le preesistenze<br />

antiche.<br />

La fatica non fu poca, ma poi l’emozione alla<br />

presentazione <strong>del</strong> libro ci ricompensò ampiamente.<br />

In seguito, abbiamo cercato di tenere sempre<br />

la Rivista su di un livello alto, approfondito<br />

anche se facilmente abbordabile, ricordandoci<br />

che non tutti sono archeologi, ma tutti hanno<br />

diritto di capire e di partecipare attivamente ad<br />

una provocazione intellettuale. Inoltre, in un<br />

periodo di deprimente decadenza e di mancanza<br />

di impegno da parte <strong>del</strong>le Istituzioni nei


iguardi <strong>del</strong> Beni Culturali, cercammo di fare le<br />

nostre battaglie e di dimostrare, per quanto<br />

potesse servire, il nostro dissenso.<br />

Ora, non so ancora se questo periodo sia<br />

passato; ma noi siamo sempre pronti ad espri-<br />

SALTERNUM<br />

- 2 -<br />

mere chiaramente il nostro pensiero ed a collaborare,<br />

da volontari, alla tutela e valorizzazione<br />

dei nostri Beni Culturali.


CHIARA LAMBERT<br />

Testimonianze di vita dalle iscrizioni funerarie<br />

infantili <strong>del</strong>la Campania (secoli IV-VIII d.C.)<br />

Il quotidiano manifestarsi <strong>del</strong>la morte ne<br />

rende il tema eternamente attuale e<br />

costituisce parte integrante <strong>del</strong> bagaglio<br />

emotivo, affettivo e culturale di tutti e di ciascuno.<br />

Il momento esiziale, comunque lo si<br />

intenda, è infatti ‘l’unica certezza che si ha<br />

nella vita’ ed il modo di affrontarlo rappresenta<br />

un elemento unificante nel sentire di un consesso<br />

umano e di una civiltà, in tutte le epoche.<br />

Toccandoci più o meno da vicino, la morte<br />

accompagna e scandisce molti momenti <strong>del</strong>l’esistenza<br />

individuale e familiare, a tal punto che,<br />

negazione <strong>del</strong>la vita e sua contrapposizione e<br />

contraddizione in termini, paradossalmente,<br />

essa ne è complementare. Con questa realtà si<br />

instaura pertanto un rapporto personale e soggettivo:<br />

la scomparsa <strong>del</strong>le persone care induce<br />

a riflettere sulla caducità <strong>del</strong>la vita, traducendosi<br />

in scelte o mutamenti comportamentali,<br />

condizionati dai convincimenti religiosi di<br />

ognuno e <strong>del</strong>la collettività di cui è parte, ma in<br />

cui la sfera <strong>del</strong>l’individualità dei sentimenti e<br />

<strong>del</strong>le azioni è molto più salvaguardata di quanto<br />

non si creda comunemente 1 .<br />

Il trattamento riservato ai propri defunti<br />

dalla comunità dei vivi - vale a dire ciò di cui<br />

resta segno più tangibile attraverso i riti di inumazione,<br />

le tipologie tombali e gli eventuali<br />

oggetti deposti accanto ai corpi 2 – rappresenta<br />

la traduzione materiale dei rapporti socio-economici<br />

che regolano la collettività al suo interno;<br />

al contempo, la pietas che impone il rispetto<br />

e la cura nei confronti dei defunti è elemento<br />

primario di distinzione <strong>del</strong>l’uomo dagli altri<br />

esseri animati. Considerando il passato storico,<br />

le citazioni letterarie potrebbero essere numerose,<br />

ma per limitarsi a due estremi temporali e<br />

- 3 -<br />

culturali, basti pensare, nell’Iliade omerica, alle<br />

umiliazioni che Priamo è pronto a subire pur di<br />

riavere il corpo <strong>del</strong> figlio Ettore, non solo per<br />

piangerlo, ma per assicurargli degna sepoltura,<br />

e a quale livello di condivisione giunse infine il<br />

vincitore Achille 3 ; a circa dodici secoli di<br />

distanza, nell’Occidente tardoantico, Agostino<br />

di Ippona (354-430 d.C.) compone una sorta di<br />

trattato sulle attenzioni che si devono prestare<br />

ai corpi dei propri defunti, in cui viene negata<br />

l’importanza <strong>del</strong>le modalità e <strong>del</strong> luogo di seppellimento<br />

ai fini <strong>del</strong>la salvezza <strong>del</strong>l’anima,<br />

esplicitando il significato <strong>del</strong> tutto nuovo che i<br />

cristiani conferiscono alla morte 4 . Inteso come<br />

trapasso ad una condizione migliore, di riposo<br />

eterno e di raggiungimento <strong>del</strong>la pienezza <strong>del</strong>la<br />

vera vita in Cristo, il momento <strong>del</strong> distacco<br />

diventa dies natalis, compleanno alla vita 5 . Ne<br />

risulta evidente la fondamentale differenza dall’atteggiamento<br />

di sconforto o di generica speranza<br />

in un aldilà indistinto che aveva caratterizzato<br />

parte <strong>del</strong> paganesimo e ancor più dalle<br />

posizioni di quanti, sulla scia <strong>del</strong>l’epicureismo,<br />

filtrato nel mondo romano da Lucrezio, guardavano<br />

alla fine <strong>del</strong>l’esistenza come ad un inevitabile<br />

accadimento biologico: ‘la morte non ci<br />

riguarda in nulla e non è un male’, essendo l’anima,<br />

come tutti gli elementi <strong>del</strong>l’universo, formata<br />

di atomi, solo più leggeri e sottili <strong>del</strong>la<br />

materia corporea e, in quanto tale, destinata a<br />

disgregarsi, per poi raggiungere un diverso<br />

stato 6 .<br />

L’individualità <strong>del</strong> ‘sentire’ di fronte alla<br />

morte, se si eccettuano le non infrequenti citazioni<br />

nella letteratura poetica od epistolare, è<br />

tuttavia un fatto che raramente lascia testimonianze<br />

documentarie, al di là dei manufatti


tombali e dei segni dei riti di deposizione: un<br />

corredo più o meno ricco non traduce la sincerità<br />

degli affetti feriti, né questi vengono<br />

espressi da un cordoglio manifestato con maggiore<br />

o minore pompa, spesso inserita in un<br />

contesto socio-economico che la richiede 7 .<br />

E’ di particolare interesse, pertanto, indagare<br />

in che modo gli antichi vivevano il loro rapporto<br />

con l’ineluttabilità di questo evento finale,<br />

come lo traducevano a livello di espressioni<br />

esteriori che, oltre ad assolvere alla più elementare<br />

funzione memorativa o quella più<br />

complessa <strong>del</strong>la commemorazione, potevano<br />

anche essere strumenti in qualche modo ‘catartici’:<br />

l’esternazione <strong>del</strong> dolore e <strong>del</strong> cordoglio<br />

permette di alleggerirsi, condividendolo con<br />

altri, da un peso interiore troppo profondo, di<br />

liberarsi dalla sua componente negativa e di<br />

recuperare la carica vitale 8 .<br />

Da questo punto di vista, i testi <strong>del</strong>le epigrafi<br />

funerarie <strong>del</strong>la tarda antichità e <strong>del</strong>l’altomedioevo<br />

rappresentano una sorta di osservatorio<br />

privilegiato per la storia <strong>del</strong>le mentalità, con<br />

straordinari punti di tangenza con il mondo<br />

contemporaneo, che trovano giustificazione<br />

proprio nell’universalità dei messaggi e <strong>del</strong>le<br />

aspettative che essi trasmettono.<br />

Nel caso specifico <strong>del</strong>le morti premature, tali<br />

considerazioni sembrano accentuarsi ulteriormente:<br />

il dolore di fronte ad una vita che appare<br />

umanamente violata, inspiegabilmente strappata<br />

(un dono sottratto a chi lo ha ricevuto – i<br />

genitori – e rubato a chi ne è portatore – il neonato<br />

o il bambino in tenera età), non sembra<br />

trovare alcuna spiegazione adeguata. E al concetto<br />

<strong>del</strong> distacco si associa, inevitabilmente, il<br />

dolore che ne deriva.<br />

Fig. 1 - Mortalità<br />

infantile nella<br />

Campania<br />

tardoantica<br />

(IV-VII sec. d.C.).<br />

Istogramma di<br />

distribuzione per<br />

Province attuali.<br />

SALTERNUM<br />

- 4 -<br />

Quale che sia l’età nella quale essa sopravviene,<br />

la morte di una persona cara, e soprattutto<br />

quella di un figlio, è sempre ‘prematura’, tuttavia<br />

da un punto di vista strettamente biometrico,<br />

nonché sotto il profilo giuridico, per immmaturae<br />

mortes si intendono quelle circoscritte nella<br />

fascia di età che va dagli 0 ai 12 anni. La documentazione<br />

in questo senso è discretamente<br />

ricca per il mondo antico, in cui la mortalità fetale,<br />

perinatale, infantile era – per tutta una serie<br />

di ragioni sociali e igienico-comportamentali<br />

ben note - piuttosto alta 9 . Nel territorio <strong>del</strong>l’attuale<br />

Campania, gli elementi relativi al periodo<br />

qui preso in considerazione - la tarda antichità e<br />

l’altomedioevo, con i secoli dal IV all’VIII d.C. -<br />

sono tuttavia relativamente esigui da un punto<br />

di vista quantitativo; nella loro valutazione si<br />

deve comunque tenere presente che le testimonianze<br />

epigrafiche pervenute sono spesso occasionali<br />

e non rappresentano che una percentuale<br />

minima di quanto originariamente prodotto.<br />

Diversamente da altri tipi di fonti, inoltre, quasi<br />

mai esse nascono con la consapevole finalità di<br />

divenire documento storico da tramandare alla<br />

posterità 10 .<br />

Su un campione verificato di 338 iscrizioni, di<br />

cui una minima percentuale intestata a due individui,<br />

quelle di bambini al di sotto dei 12 anni<br />

sono in numero di 44, ripartiti in 26 maschi e 18<br />

femmine 11 (fig. 1). I decessi risultano relativamente<br />

più alti nei primi 4 anni di vita; più bassi tra i<br />

5 ed i 6 anni; scarsamente o per nulla attestati tra<br />

i 7 ed i 9, per poi risalire leggermente tra i 10 ed<br />

i 12 12 (fig. 2). Questi dati, pur con i limiti segnalati,<br />

sembrano sostanzialmente allineati con quelli<br />

di altre aree e dalla valutazione generale se ne<br />

evince che la soglia media di mortalità per i bam-<br />

Fig. 2 - Mortalità<br />

infantile nella<br />

Campania<br />

tardoantica<br />

(IV-VII sec. d.C.).<br />

Istogramma di<br />

distribuzione<br />

per fasce di età.


ini ed i giovani, calcolata sul range 3÷17 anni, è<br />

di 10 anni, sia per i maschi che per le femmine,<br />

mentre le condizioni generali di salute di quanti<br />

poterono permettersi un’epigrafe funeraria dovevano<br />

essere discretamente buone: l’età media<br />

degli individui adulti, sostanzialmente omogenea<br />

nelle località considerate, è di 56 anni per gli<br />

uomini e di 46 per le donne.<br />

Dal punto di vista numerico le iscrizioni<br />

infantili rappresentano dunque solo il 13% <strong>del</strong><br />

totale censito; esse sono tuttavia estremamente<br />

‘parlanti’ sotto il profilo <strong>del</strong> formulario e <strong>del</strong><br />

tenore dei testi e la loro stessa esistenza, inquadrata<br />

nel più generale contesto <strong>del</strong>la contrazione<br />

<strong>del</strong>la produzione epigrafica attuatasi proprio<br />

nel corso <strong>del</strong>la tarda antichità, conferma il carattere<br />

di assoluto privilegio goduto dagli individui<br />

in età preadolescenziale ai quali venne concessa<br />

una memoria lapidaria. Da manufatto relativamente<br />

comune quale era stato nei secoli centrali<br />

<strong>del</strong>l’impero, l’iscrizione funeraria divenne<br />

ovunque un riconoscimento di natura non solo<br />

affettiva, ma principalmente sociale ed appannaggio<br />

sempre più esclusivo di persone fortemente<br />

connotate dall’appartenenza ad un rango<br />

elevato 13 ; uno status proprio degli adulti - gli<br />

ultimi rappresentanti <strong>del</strong>l’aristocrazia senatoria,<br />

fino a che questa sopravvisse, e in seguito dei<br />

membri <strong>del</strong>le nuove élite di stirpe germanica –<br />

che eccezionalmente venne riverberato sui giovanissimi<br />

deceduti prima <strong>del</strong>l’assunzione di<br />

qualsiasi ruolo di prestigio.<br />

Nelle iscrizioni precristiane dei primi secoli<br />

<strong>del</strong>l’Impero manca inoltre un formulario specifico<br />

per i bambini (fig.3 a, b, c), ma la loro qualità<br />

anagrafica è talora esplicitata, oltre che dall’indicazione<br />

degli anni, mesi e giorni vissuti, da<br />

aggettivi o apposizioni quali parvulus/a, infans,<br />

accompagnati da vocaboli che esprimono i sentimenti<br />

(dulcissimus/a); così come per gli adulti,<br />

esistono tuttavia testi ad hoc per i piccoli<br />

defunti di famiglie agiate o altolocate, come<br />

Caius Longinius Proculus, di quasi cinque anni,<br />

per il quale il padre e la madre fecero comporre<br />

in Castellamare di Stabia un lungo testo metrico,<br />

autentico florilegio di citazioni poetiche 14 ,<br />

che lo ricorda insieme al cuginetto Antonio, premortogli:<br />

«Rapito da una malattia, secondo la<br />

CHIARA LAMBERT<br />

- 5 -<br />

Fig.3.- Iscrizioni infantili di I sec.d.C.<br />

3a*. Neoptolemus, di 9 anni, collactius<br />

(‘fratello di latte’) <strong>del</strong>l’anonimo<br />

dedicante. Sorrento, Museo<br />

Correale di Terranova (da<br />

MAGALHAES 2003).<br />

Fig. 3b*. Fronto, di 2 anni e 6 mesi.<br />

Salerno, Museo Provinciale (da<br />

ROMITO 1996).<br />

Fig. 3c. Eclecies, ragazzina di 10 anni. Salerno, Museo Provinciale<br />

(da ROMITO 1996).<br />

*Lastre antropomorfe, <strong>del</strong> tipo detto “a columella” o “ad ombra”.<br />

dura legge <strong>del</strong>le Parche, giaccio in questo luogo<br />

di nera terra, quattordici giorni prima di aver<br />

compiuto, io piccolo, i cinque anni. Un tempo<br />

avevo il nomen di Longinio, il praenomen Gaio,<br />

il cognomen Proculo; ora sono un’ombra, né,<br />

posto sotto terra, la tomba mi protegge dall’ombra<br />

<strong>del</strong>la morte. E, non diversamente, il figlio<br />

generato dal fratello di mia madre, maggiore di<br />

quattro anni meno quaranta giorni, immerse i<br />

suoi occhi nella notte eterna. Questo mio quasi<br />

fratello è sepolto con me nel lido di Stabia e nelle<br />

tenebre scivola sulle onde <strong>del</strong>l’Acheronte. Ora,<br />

per te, felice passante, chiunque tu sia, non sia


Fig.4. Iscrizione di Caius Longinius Priscus. II sec. d.C. (CIL X 8131).<br />

Fig.6. Iscrizione di Dianeses.Apografo (da<br />

MASIELLO 2003).<br />

Fig.6a. Iscrizione di Dianeses. 397 d.C.<br />

Capua, Museo Campano, sala XXX, inv. 324<br />

(CIL X 4493).<br />

Fig.5. Iscrizione di<br />

Marcellus, che visse 1<br />

anno e 46 giorni. IV sec.<br />

d.C. Particolare <strong>del</strong><br />

simbolo iconografico.<br />

Capua, Museo Campano,<br />

Sala I ‘Mommsen’, inv.<br />

195 (CIL X 4715).<br />

di peso dire: se i Mani hanno una qualche pietà<br />

dopo i funerali, le ossa di Antonio e di Proculo<br />

possano riposare dolcemente. Il Padre, Caio<br />

Longinio Prisco, trierarca <strong>del</strong>la prima flotta<br />

misenate e la madre Licinia Procella (posero)<br />

per il dolcissimo figlio» 15 (fig. 4).<br />

SALTERNUM<br />

- 6 -<br />

La progressiva diffusione ed il successivo radicamento<br />

<strong>del</strong> Cristianesimo, che poté esplicitarsi a<br />

partire dai provvedimenti di legalizzazione voluti<br />

da Costantino (a. 313 d.C.), si manifestarono a<br />

livello epigrafico con un graduale adattamento<br />

<strong>del</strong> formulario, che inizialmente abolì le espressioni<br />

proprie <strong>del</strong>la religiosità pagana, conferendo<br />

un carattere ‘neutro’ alle iscrizioni, quindi, in rapido<br />

progresso di tempo, le sostituì o le ‘risemantizzò’<br />

in chiave cristiana, attribuendo significati<br />

nuovi ad antichi vocaboli o simboli iconografici<br />

(fig. 5). Anche per i tituli 16 di bambini le formule<br />

di apertura furono quelle maturate a partire dal<br />

secondo quarto <strong>del</strong> IV sec. d.C. e codificatesi nel<br />

corso <strong>del</strong> V sec. d.C., che presentano rare varianti<br />

all’espressione locativo-obituaria hic requiescit<br />

in pace, hic requiescit in somno pacis (‘qui riposa<br />

in pace’; ‘qui riposa nel sonno <strong>del</strong>la pace’) 17 , finalizzata<br />

ad indicare il luogo <strong>del</strong>la tomba, a garantirne<br />

il rispetto e, al contempo, a dichiarare la<br />

fede <strong>del</strong>la famiglia dei piccoli inumati. Alla loro<br />

tenera età viene dato tuttavia un risalto particolare,<br />

ricorrendo ad una semplice aggettivazione,<br />

già presente nelle iscrizioni di età classica, ma<br />

che muta in modo emblematico con il generalizzarsi<br />

<strong>del</strong> nuovo credo religioso: si assiste infatti al<br />

passaggio dall’uso <strong>del</strong> qualificativo infans (raramente<br />

infas) –antis 18 , che significa: ‘non ancora in<br />

grado di parlare’ (quindi, bambino o bambina in<br />

tenerissima età), all’omologo innocens,-tis, che<br />

contiene in sé la radice <strong>del</strong> verbo nocére: ‘nuocere’’.<br />

Il bimbo cristiano viene dunque connotato<br />

non più solo dalla sua incapacità di esprimersi<br />

con un linguaggio compiuto, bensì, secondo una<br />

categoria morale, dal suo essere ‘esente dal male<br />

o da colpe’ 19 . Un’evoluzione ben attestata in<br />

Campania, a titolo di esempio, dalle iscrizioni<br />

<strong>del</strong>la piccola innocens Infansia di Benevento (IV<br />

– V sec. d.C.) 20 , <strong>del</strong> bimbo capuano Dianeses di<br />

due anni (a.397) 21 , (figg.6-6a), o <strong>del</strong>l’innocens<br />

Theodenanda, bimba di 3 anni, 6 mesi e 9 giorni,<br />

che nell’anno 566 fu sepolta nel cimitero antistante<br />

la chiesa tardoantica dei SS. Pietro e Paolo<br />

in Salerno, oggi meglio nota come complesso di<br />

S. Pietro a Corte 22 (figg. 7-7a). In taluni contesti<br />

particolari, quali le catacombe di S. Gennaro in<br />

Napoli, vennero realizzati manufatti esclusivi,<br />

quali gli affreschi a complemento degli arcosolî di


Fig.7. Iscrizione di Theodenanda. 566 d.C. Salerno, Chiesa dei SS. Pietro e<br />

Paolo (S.Pietro ‘a Corte’).<br />

famiglie agiate, ove al ritratto dei defunto viene<br />

associato un titulus pictus che ne esplicita il<br />

nome e l’età: è il caso <strong>del</strong>le piccole Nicatiola, di<br />

cui non viene indicata l’età, e Nonnosa di 2 anni<br />

e 10 mesi, entrambe riconducibili al V-VI sec.<br />

d.C. 23 (figg. 8-9).<br />

Sempre al VI secolo va riferita la toccante<br />

iscrizione metrica voluta da un Petrus, alto esponente<br />

<strong>del</strong>l’aristocrazia senatoria <strong>del</strong>l’area salernitana,<br />

per la moglie Fortunata e la figlioletta<br />

Petronia, morte insieme, tragicamente: «Qui<br />

Fig.8. Iscrizione di Nicatiola, dipinta sulla parete di<br />

un arcosolio.VI sec. d.C. Napoli, Catacomba di<br />

S.Gennaro.<br />

CHIARA LAMBERT<br />

Fig.9. Iscrizione di Nonnosa, dipinta sulla parete<br />

di un arcosolio.VI sec. d.C. Napoli, Catacomba di<br />

S.Gennaro.<br />

- 7 -<br />

Fig.7a. Iscrizione di Theodenanda. 566 d.C. Salerno, Chiesa dei SS. Pietro<br />

e Paolo (S. Pietro ‘a Corte’). Particolare.<br />

giaci, o Fortuna, abbattuta a terra da un disgraziato<br />

crollo. Ahimé!, o dolce moglie, ciò che mi<br />

opprime maggiormente è che hai concluso la tua<br />

vita all’improvviso, con una rovinosa morte. E<br />

mentre tu muori, per me non muore il dolore.<br />

Casta, graziosa, saggia, umile, gradita al marito,<br />

hai trasformato in gemiti tutta la mia gioia.<br />

Ma a te questa morte tanto cru<strong>del</strong>e non poté<br />

nuocere in nulla: la tua vita, infatti, rimane nei<br />

tuoi meriti. Giace anche questa figlioletta<br />

Petronia, uccisa dal destino che il giorno crude-<br />

Fig.10. Iscrizione di Fortunata, Clarissima<br />

Femina, e <strong>del</strong>la figlioletta Petronia, di 6 anni.VI<br />

sec. d.C. Ravello, perduta (CIL X 664 = CLE<br />

1440 = I.I., Salernum, n.168).


le <strong>del</strong>la morte ha congiunto a te.<br />

Qui riposa in pace Fortunata,<br />

Clarissima Femina, moglie di Petrus,<br />

Vir clarissimus, Pater Pauperum, la<br />

quale visse circa 36 anni e fu deposta<br />

in pace con la figlioletta Petronia,<br />

di 6 anni, nel VII giorno dalle<br />

Calende di Febbraio (il 26 gennaio),<br />

nell’Indizione … » 24 (fig. 10).<br />

Di grande impatto emozionale<br />

anche il breve testo di accompagnamento<br />

per il piccolo Caius Nonius Flavianus,<br />

membro di una famiglia altolocata di Pozzuoli<br />

che ancora ricorre al sistema trinominale per<br />

l’indicazione onomastica 25 , e che gli elementi di<br />

cui si dispone inducono a datare, ugualmente,<br />

nell’ambito <strong>del</strong> VI secolo. La sua iscrizione, carica<br />

di un sofferto pathos che travalica il tempo,<br />

testimonia di una maternità e paternità fortemente<br />

volute, <strong>del</strong>la trepida attesa dei genitori e<br />

<strong>del</strong> loro strazio per una morte davvero inattesa<br />

e prematura: ‘… richiesto con preghiere per molti<br />

anni, una volta nato, visse un anno ed undici<br />

mesi …’ 26 (fig. 11).<br />

In conclusione, un ultimo testo permette di<br />

tornare su due concetti già espressi in apertura:<br />

quello <strong>del</strong> valore ‘liberatorio’, oltre che memorativo,<br />

che alle antiche iscrizioni veniva affidato<br />

dai committenti e quello <strong>del</strong>la relatività <strong>del</strong> concetto<br />

di ‘morte prematura’. Si tratta <strong>del</strong> lungo<br />

epitaffio che Stefano II, vescovo di Napoli nella<br />

seconda metà <strong>del</strong>l’VIII secolo, fa predisporre per<br />

il figlio, il Console Cesario, che egli dice ‘teneris<br />

sublatus in annis’ benché avesse compiuto ventisei<br />

anni 27 : «Qui riposa Cesario Console rapito<br />

negli anni <strong>del</strong>la giovinezza; … E voi, o miei<br />

parenti, compiangete le ferite di me che l’ho<br />

generato, voi che tanto desiderate di godere <strong>del</strong>la<br />

buona sorte dei figli. La mia sorte è tanto più<br />

SALTERNUM<br />

Fig.11. Iscrizione <strong>del</strong> piccolo Caius Nonius Flavianus.Pozzuoli, perduta (CIL X 3310/11).<br />

- 8 -<br />

infelice per il lutto <strong>del</strong> figlio amato e la sua fiamma<br />

mi consuma dentro nel petto…. Con l’aiuto<br />

di lui, la mia annosa vecchiezza di padre si sentiva<br />

sicura, ed io ero ormai un uomo tranquillo….Console<br />

e poi vescovo io, tuo padre, ho<br />

dovuto prepararti la tomba, mentre avresti<br />

dovuto comporre tu i resti di tuo padre….Egli<br />

aveva appena superato i ventisei anni, quando<br />

restituì il suo spirito a Cristo nel cielo. Fragile<br />

diventa la vita di un vecchio dopo la morte acerba<br />

<strong>del</strong> proprio figlio; dopo di lui, credo, non<br />

durerà che pochi giorni. Ti preceda la luce di<br />

Cristo, o figlio carissimo, e tu, S. Gennaro, porta<br />

a Dio la mia preghiera. Deposto il 20 settembre,<br />

nell’anno XIII <strong>del</strong>l’impero di Costantino il giovane<br />

(VI) e di Irene, Augusti, nell’Indizione XII<br />

(789)» 28 .<br />

E’ una dimostrazione estremamente eloquente<br />

<strong>del</strong> dramma di un padre che vede rovesciarsi<br />

le leggi naturali e che si trova a riflettere sull’absurdum<br />

di un destino che impone, a lui ormai<br />

anziano, di prestare al giovane figlio premortogli<br />

quelle ultime cure che la logica avrebbe<br />

voluto essere riservate, dal figlio, a lui. Al di là<br />

<strong>del</strong> mero dato biometrico, anche in presenza di<br />

una fede che alimenta la speranza di un ricongiungimento<br />

e assicura la continuità <strong>del</strong>la vita<br />

nell’aldilà, nella sfera degli affetti, un funus è<br />

sempre acervus e la mors semper immatura.


*Il testo, con alcuni ampliamenti ed i dovuti rimandi bibliografici,<br />

ripropone quanto presentato nella seduta pomeridiana<br />

degli Incontri di Archeologia in occasione <strong>del</strong>la IX<br />

Borsa Mediterranea <strong>del</strong> Turismo <strong>Archeologico</strong>, Paestum<br />

18.11.2006, su invito <strong>del</strong> dott. Felice Pastore, Direttore <strong>del</strong><br />

<strong>Gruppo</strong> <strong>Archeologico</strong> <strong>Salernitano</strong>, che ringrazio vivamente.<br />

NOTE<br />

1 Circa gli atteggiamenti <strong>del</strong>l’uomo, antico e moderno, di<br />

fronte alla morte, l’incidenza <strong>del</strong>le credenze religiose nei<br />

riti di seppellimento ed il ruolo <strong>del</strong>la Chiesa nella loro<br />

codificazione a partire dall’età tardoantica e particolarmente<br />

nell’altomedioevo carolingio, cf. SICARD 1978; ARIÈS<br />

1977 (1985), part. capp. I; III-IV; IDEM 1980; VOVELLE 1976;<br />

IDEM 1983; DUCOS 1987; FÉVRIER 1987; GEARY 1984, part.<br />

pp.89-92; TREFFORT 1996; REBILLARD 2003.<br />

2 Per una panoramica sui principali temi <strong>del</strong>l’archeologia<br />

funeraria, cf. L’inhumation privilegiée 1986; Sepolture e<br />

necropoli 1988; Burial Archaeology 1989; Archéologie du<br />

cimetière chrétien 1996; Sepolture tra IV e VIII secolo 1998.<br />

Circa i significati <strong>del</strong>la deposizione di oggetti in età altomedievale<br />

e la loro sostituzione con altre forme di ritualità,<br />

cf. LA ROCCA 1997; EADEM 1998 e 2000.<br />

3 HOMERI, Ilias, XXIV, 500-601.<br />

4 Il famoso scritto, significativamente intitolato De cura pro<br />

mortuis gerenda, fu occasionato da una lettera <strong>del</strong>l’amico<br />

Paolino da Nola, che interrogava Agostino circa l’atteggiamento<br />

da assumere nei confronti dei fe<strong>del</strong>i che richiedevano<br />

la pratica <strong>del</strong> seppellimento ad sanctum presso la<br />

tomba <strong>del</strong> confessore Felice nella basilica di Cimitile.<br />

5 LAMBERT 2004, Glossario, s.v., p.112.<br />

6 LUCR., De rerum Natura, III, 830: «nihil igitur mors est ad<br />

nos neque pertinet hilum»; per una sintesi <strong>del</strong> pensiero e<br />

<strong>del</strong>l’opera di Tito Lucrezio Caro, cf. PERELLI 1969 1 , pp.129-<br />

132; 134-135; TODINI 2005, pp.78-82; 145-151.<br />

7 Per un inquadramento <strong>del</strong> tema sotto il profilo filosofico,<br />

teologico e religioso cf. COENEN 1991 e DE CHIRICO 2007;<br />

per una trattazione monografica <strong>del</strong>l’atteggiamento <strong>del</strong>l’uomo<br />

moderno, credente e non, di fronte alla morte, cf.<br />

inoltre MESSORI 1982.<br />

8 L’iscrizione cristiana di un bimbo di 2 anni e 2 mesi (da<br />

Capua, a. 563 d.C.) recita: «…cuius rememoratio dolum<br />

parentibus demisit», («…Il ricordarlo, lenì il dolore ai genitori»),<br />

(MASIELLO 2003, p.65).<br />

9 Sulla mortalità antica letta attraverso i documenti epigrafici<br />

cf. MAZZOLENI s.d., p.62; IDEM 1999, pp.207-227.<br />

10 Circa le finalità <strong>del</strong>le iscrizioni, in cui domina la componente<br />

memorativa a livello per lo più familiare, e la loro<br />

potenziale durata nel tempo, cf. LAMBERT 2004, pp. 47-48.<br />

11 Il computo - nel quale non rientrano le iscrizioni infantili<br />

<strong>del</strong> secolo VIII, perché in numero così ridotto da non<br />

essere utilizzabili a fini statistici - è stato effettuato sulla<br />

base dei tradizionali corpora (CIL, I I, ICI, ILCV), nonché<br />

<strong>del</strong>le più recenti acquisizioni. Non si è conteggiata l’ulteriore<br />

ottantina di epigrafi proveniente dalla basilica paleocristiana<br />

di Atripalda, al momento ancora sostanzialmente<br />

inedita, ma di prossima pubblicazione in un volume <strong>del</strong>le<br />

Inscriptiones Christianae Italiae (ICI) a cura di Heikki<br />

Solin. Da colloqui intercorsi con l’A., sembra tuttavia che<br />

i bambini non vi siano significativamente rappresentati<br />

(per qualche anticipazione, cf. SOLIN 1998).<br />

12 Il numero relativamente più elevato di maschi non è di<br />

CHIARA LAMBERT<br />

- 9 -<br />

per sé significativo, data l’esiguità <strong>del</strong> campione, e può<br />

essere imputato alla casualità <strong>del</strong>la conservazione <strong>del</strong> materiale,<br />

che raramente proviene da scavi sistematici e che in<br />

passato è stato oggetto di ulteriori selezioni finalizzate al<br />

collezionismo museale o privato, che privilegiava testi integri,<br />

ben impaginati ed eventualmente dotati di un apparato<br />

iconografico.<br />

13 Sull’argomento, cf., da ultimo, DE RUBEIS 2007, part. pp.<br />

387-390.<br />

14 Il testo contiene tre citazioni da Ovidio, due dall’Eneide<br />

virgiliana, due da Valerio Flacco. I passi sono indicati in<br />

CLE, Indices, Versuum Auctores cognitores, pp. 915; 916-<br />

917; 919-920. Al Bücheler era tuttavia sfuggito, al v. 15,<br />

l’eco diretta <strong>del</strong>l’ovidiano «Anchisae molliter ossa cubent»,<br />

segnalatomi da U. Todini.<br />

15 CIL, X 8131= CLE, 428. L’iscrizione è databile tra I e II sec.<br />

d.C. La traduzione proposta nel testo è di U. Todini e di chi<br />

scrive.<br />

16 Il termine titulus (pl. tituli) indica in primo luogo la lastra<br />

di supporto di un testo iscritto (tituli erano definite anche<br />

le tabelle marmoree con incisi i nomi dei proprietari di una<br />

casa o di un mausoleo); per estensione definisce anche il<br />

contenuto <strong>del</strong> testo stesso (LAMBERT 2004, Glossario, s.v.,<br />

p.116).<br />

17<br />

COLAFRANCESCO CARLETTI 1995; CARLETTI 1997 e, per l’ambito<br />

specificamente campano, LAMBERT 2003, p.124, tabb. 1-4;<br />

EADEM 2007, pp. 47-48; EADEM cdsb , Tab. 3a.<br />

18 Il termine latino è mutuato dal greco in-femì [fhmí ><br />

fasía; a-fasía] > lat. fateor: ‘dire’, ‘dichiarare’, ‘parlare’.<br />

19 Il termine infans permane comunque occasionalmente<br />

anche nel corso <strong>del</strong> VI sec. Cf. ad es. il titulus dipinto di<br />

Nicatiola su di un arcosolio <strong>del</strong>la catacomba napoletana di<br />

S. Gennaro (figg. 8-9).<br />

20ICI VIII, Hirpini, pp.31-32, n.1. Il Felle non esclude che<br />

‘Infansia’ sia il nome <strong>del</strong>la defunta; quanto alla datazione,<br />

l’indicazione <strong>del</strong> console Albino rende possibili gli anni 345<br />

(?); 444; 493.<br />

21 CIL X 4493, a. 397 d.C.; MASIELLO 2003, p.63: «A-chrismòn-<br />

Ω. Hic est positus / Dianeses innocens/ qui vixit annos II /<br />

menses duo dep(ositus) / XV kal(endas) Iunias/ Fl(avio)<br />

Caesario et Nonio / Attico consul(ibus). Benemerenti et<br />

Dulci/tio parentes fecerunt», («Qui è deposto l’innocente<br />

Dianeses, che visse 2 anni e 2 mesi. Sepolto il XV giorno<br />

dalle calende di Giugno (18 maggio), sotto il consolato di<br />

Flavio Cesario e Nonio Attico. I genitori fecero per il dolcissimo figlio che ben meritò»).<br />

22 Ǡ Hic requiescit / in pace innocens / Theodenanda / quae<br />

vixit in pace / ann(os) pl(us) m(inus) III m(enses) VI / d(ies)<br />

VIIII deposita est / sub d(ie) V kal(endas) oct(o)b(res) /<br />

imp(erante) Iustino p(er)p(etuo) Aug(usto) / anno primo<br />

eodem / c(o)ns(ule) ind(ictione) XV». («Qui riposa in pace<br />

l’innocente Theodenanda, che visse circa tre anni, sei mesi<br />

e nove giorni; fu deposta il quinto giorno dalle calende di<br />

ottobre (27 settembre), nell’indizione quindicesima <strong>del</strong><br />

primo anno di consolato <strong>del</strong>l’imperatore Giustino (a.566)»,<br />

(LAMBERT 2004, pp.78-79, con bibliografia precedente).<br />

Circa la frequenza <strong>del</strong>l’apposizione innocens nei titoli<br />

sepolcrali infantili, cf. ILCV, Indices, p.539.<br />

23<br />

SILVAGNI 1943, Tabb. VII, 4; VIII, 1.<br />

24 «Hic Fortuna iaces casu prostrata ruinae/ heu dulcis<br />

coniunx me magis illa premit / clausisti subito cru<strong>del</strong>i<br />

funere vitam / et mihi non moritur te pereunte dolor / casta


decens sapiens humilis iocunda marito / vertisti in gemitus<br />

gaudia tanta meos / sed tibi nil potuit mors haec tam saeva<br />

nocere / de meritis veniens nam tua vita manet / hac quoque<br />

nata iacet Petronia sorte perempta / quam tecum iunxit<br />

mortis acerva dies. / Hic requiescit in pace Fortunata<br />

cl(arissima) fem(ina) coniux / Petri v(iri) c(larissimi)<br />

pat(ris) pau(perum) qui vixit / annos pl(us) m(inus) XXXVI<br />

cum filia Petronia / annorum sex deposita in pace sub d(ie)<br />

VII Kal(endas) / Feb(ruarias) indict(ione) [- - -]». (L’iscrizione<br />

proveniva da Ravello: CIL X 664 = CLE 1440 = I.I., Salernum<br />

- a c. di V. Bracco, 1981- p.93, n.168; LAMBERT cds c , Allegati,<br />

testo n.2; EADEM cds d . La traduzione proposta nel testo è di<br />

chi scrive).<br />

25 A partire dal IV sec. si generalizzò ovunque l’uso quasi<br />

esclusivo <strong>del</strong> solo cognomen, che corrisponde al nostro<br />

nome proprio; rari esempi di attardamento <strong>del</strong> sistema<br />

binominale/trinominale a livello di singole realtà locali,<br />

soprattutto nel territorio <strong>del</strong>le antiche diocesi di Aeclanum<br />

e Benevento, si riscontrano generalmente in testi di individui<br />

di alto rango dichiarato (cf. LAMBERT cds b ).<br />

26 CIL X 3310/11: «C(aius) Nonius Flavianus / plurimis annis<br />

orationibus petitus natus vixit anno uno / m(enses) XI in<br />

cuius honorem basilica haec a parentibus adquisita / contectaquae<br />

est requievit in pace XVIII kal(endas)<br />

ian(uarias)», («Caio Nonio Flaviano, richiesto con preghiere<br />

per molti anni, una volta nato visse un anno e 11 mesi.<br />

In suo onore questa basilica è stata acquistata e dotata di<br />

un tetto dai suoi genitori. Riposa in pace nel diciottesimo<br />

giorno dalle calende di gennaio (il 15 dicembre)». Il termine<br />

‘basilica’, come già sottolineato a suo tempo dal mons.<br />

Galante, è da intendersi come una cella memoriae, un piccolo<br />

mausoleo privato (GALANTE 1987, pp.79-82).<br />

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DE CHIRICO L. 2007, s.v. Morte, in Dizionario di Teologia evan-<br />

SALTERNUM<br />

- 10 -<br />

27 Stefano II fu duca di Napoli dal 755 e vescovo dal 767; il<br />

figlio, che egli si associò nel ducato, fu ostaggio di Arechi<br />

II a Benevento nel corso di una guerra tra Napoletani e<br />

Longobardi beneventani. Il carme, in distici, è acrostico<br />

nelle lettere iniziali degli esametri. L’iscrizione è giunta per<br />

tradizione indiretta (RUSSO MAILLER 1981, pp.83-86).<br />

28 «Caesarius Consul, teneris sublatus in annis,/ Hic recubat;<br />

moriens vae Ubi Parthenope!/ Aeternum medio gestas in<br />

pectore vulnus;/ Militibus periit murus et arma tuis./ Et<br />

mea, qui hunc genui, vos vulnera flere parentes, /Qui sobolum<br />

cupitis tam bene sorte frui. /Sors mea deterior dulcis in<br />

funere nati, /Cuius flamma meum pectus ubique cremat.<br />

/Aptus erat cunctis verbo, probus in actu; in /Consilio sollers,<br />

fortis ad arma simul. /Rex Romae praecelsa Novae quo<br />

sceptra reguntur, / Praetulit hunc nostra civibus urbe suis.<br />

/ Istius auxilio longeva paterna senectus /Tuta regebantur,<br />

tamque quietus eram. /Virtus, ingenium, pietas, patientia<br />

summa, /Vae cui cum genito tot periere bona! / Sic blandus<br />

Bardis eras, ut foedera Grais / Servares sapiens inviolata<br />

tamen. /Consul, post praesul genitor monumenta parabi,<br />

/Cui fuerat curae condere membra patris. /O mihi non prolis<br />

tantum sed collega fidus, /Cui tantos linquis quos tuus<br />

auxit amor. /Nutritus obses Arichis moderamine sancti,<br />

/Salvasti patriam, permemorande, tuam. /Sex quater et<br />

binos hic iam trascenderat annos /Cum flamen Christo reddidit<br />

aethre suum. / Vita senis tenuis post nati funus acervum,<br />

/Post illum paucis credo diebus eam. /Lux te praecedat<br />

Christi, carissime fili, /Sancte Ianuari quod peto posce<br />

Deum. /Depositus est XII Kalendas Octobris, imperante<br />

novo /Costantino et Eireni Aug., anno XIIII, Ind. XII» (RUSSO<br />

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BIANCA<br />

CANCELLARE


VINCENZA IORIO<br />

La gens Fadena nell’Italia centrale<br />

(Roma, Regio IV e Regio V)<br />

Il gentilizio Fadenus è una variante <strong>del</strong><br />

gentilizio Fadienus 1 , entrambi poco attestati<br />

nell’onomastica romana 2 .<br />

Secondo alcuni studiosi il gentilizio Fadenus<br />

deve essere legato al gentilizio Fadius 3 , quest’ultimo<br />

ben attestato nell’Italia centro-meridionale<br />

ed in particolare nella Regio IV e nella Regio V 4 .<br />

Recenti ritrovamenti avvenuti nell’attuale provincia<br />

di Ferrara, e più precisamente nella frazione<br />

di Gambulaga <strong>del</strong> comune di Portomaggiore,<br />

hanno fornito ulteriori conoscenze sulla gens<br />

Fadiena, essendo stato portato alla luce un<br />

sepolcreto gentilizio 5 .<br />

Come si è detto, si tratta di gentes poco attestate<br />

nell’onomastica romana ed infatti nessun<br />

personaggio con il gentilizio Fadenus o<br />

Fadienus è presente in opere che si occupano di<br />

prosopografia 6 .<br />

La necropoli di Gambulaga non è la prima di<br />

epoca romana ad essere venuta alla luce nel territorio<br />

<strong>del</strong> <strong>del</strong>ta <strong>del</strong> Po, poiché tra le necropoli<br />

<strong>del</strong>l’attuale provincia di Ferrara bisogna annoverare<br />

quella rinvenuta nel territorio <strong>del</strong> Comune<br />

di Voghenza 7 , la necropoli <strong>del</strong>la Vallona di<br />

Ostellato 8 e la necropoli di Stellata nei pressi di<br />

Bondeno (Fig. 1) 9 .<br />

Uno degli aspetti più importanti <strong>del</strong>la necropoli<br />

di Gambulaga è scuramente quello epigrafico,<br />

poiché gli scavi eseguiti 10 hanno messo in<br />

luce cinque iscrizioni nelle quali sono menzionati<br />

personaggi <strong>del</strong>la gens Fadiena, vissuti tra la<br />

fine <strong>del</strong> I sec. a.C. e la fine <strong>del</strong> I sec. d.C. 11 .<br />

Il Camodeca, che si è occupato <strong>del</strong>lo studio<br />

<strong>del</strong>le epigrafi, afferma che il gentilizio Fadienus<br />

è molto raro ed è presente in alcune città<br />

<strong>del</strong>l’Italia settentrionale, mentre la sua variante<br />

Fadenus è meglio attestata ed in particolare lo è<br />

- 13 -<br />

Fig. 1 - Ubicazione <strong>del</strong>le necropoli e <strong>del</strong>le tombe singole nel territorio<br />

<strong>del</strong>la provincia di Ferrara (da BERTI 2006, p. 2, Fig. 1).<br />

Fig. 2 - Il territorio <strong>del</strong>la Regio IV e <strong>del</strong>la RegioV (da CIL IX,Tav. I).<br />

in Sabina, con un preciso riferimento a Nursia<br />

(Norcia), dove sono state rinvenute alcune epigrafi<br />

nelle quali ricorrono personaggi di questa<br />

gens.<br />

I Fadieni di Gambulaga quindi avrebbero<br />

avuto le loro origini nell’Italia centrale ed in<br />

questa sede si cercherà di tracciare un quadro<br />

topografico <strong>del</strong>la presenza <strong>del</strong>la gens Fadena a<br />

Roma, nella Regio IV e nella Regio V (Fig. 2).


La Regio IV comprendeva parte <strong>del</strong> territorio<br />

<strong>del</strong>le moderne regioni <strong>del</strong>l’Abruzzo, <strong>del</strong>la<br />

Campania, <strong>del</strong> Lazio, <strong>del</strong> Molise e <strong>del</strong>l’Umbria 12 ,<br />

mentre la Regio V comprendeva parte <strong>del</strong> territorio<br />

<strong>del</strong>le moderne regioni <strong>del</strong>l’Abruzzo e <strong>del</strong>le<br />

Marche 13 .<br />

La Regio IV e la Regio V rientrano in quel programma<br />

amministrativo attuato da Augusto in<br />

base al quale tutto il territorio che allora indicava<br />

l’Italia fu diviso in varie regiones 14 .<br />

Nel Corpus Inscriptionum Latinarum le iscrizioni<br />

provenienti dalla Regio IV e dalla Regio V<br />

sono presenti nel IX volume <strong>del</strong>l’opera 15 , dal<br />

quale si partirà prendendo in considerazione<br />

quelle epigrafi lì riportate nelle quali compaiono<br />

personaggi <strong>del</strong>la gens Fadena 16 .<br />

Oltre alle epigrafi <strong>del</strong> Corpus Inscriptionum<br />

Latinarum, si esamineranno anche quelle riportate<br />

nei Supplementa Italica, nell’Année Épigraphique<br />

ed in un volume <strong>del</strong>la Rivista Notizie<br />

degli Scavi <strong>del</strong>l’Antichità.<br />

REGIO IV:<br />

1) Foruli:<br />

Non abbiamo molte notizie su questa località,<br />

che era comunque un vicus dipendente da<br />

Amiternum, ricordato dagli autori <strong>del</strong>la letteratura<br />

classica 17 e che oggi corrisponde a Civitatomassa<br />

(AQ), sita tra i resti <strong>del</strong>l’antica Amiternum e Rieti.<br />

In epoca romana ebbe una grande importanza<br />

poiché da qui partiva la Via Claudia Nova, aperta<br />

nel 47 d.C. 18 .<br />

1.1) CIL IX 4408 (Fig. 3).<br />

L’ iscrizione fu rinvenuta nella parete esterna<br />

<strong>del</strong>la chiesa di San Giovanni a Civitatomassa<br />

(AQ).<br />

Fig. 3 - CIL IX 4408.<br />

SALTERNUM<br />

- 14 -<br />

Trascrizione:<br />

C(aius) FADENUS (aii) F(ilius) PATER<br />

SEIENA TIBERI F(ilia) MATER<br />

FADENA C(aii) F(ilia) SOROR<br />

Q(uintus) FADENUS C(aii) F(ilius)<br />

Traduzione:<br />

Caio Fadeno, figlio di Caio, padre (e) Seiena, figlia di<br />

Tiberio, madre (e) Fadena, figlia di Caio, sorella (e)<br />

Quinto Fadeno, figlio di Caio.<br />

Il Mommsen, curatore <strong>del</strong> IX volume <strong>del</strong><br />

Corpus Inscriptionum Latinarum afferma che le<br />

lettere <strong>del</strong>l’epigrafe sono piuttosto antiche.<br />

L’osservazione <strong>del</strong> grande studioso concorda<br />

con la mancanza <strong>del</strong> cognomen nei personaggi<br />

citati, essendo il cognomen, tra gli elementi dei<br />

tria nomina distintivi <strong>del</strong> cittadino romano,<br />

quello il cui uso è più recente 19 .<br />

Si tratta di un’epigrafe sepolcrale relativa alla<br />

gens Fadena, nella quale sono riportati al nominativo<br />

i nomi <strong>del</strong>le persone i cui resti erano<br />

deposti nel sepolcro. Le parole sono divise da<br />

un punto di forma rotonda, molto usuale nell’epigrafia<br />

latina 20 .<br />

Alla prima riga si legge il nome <strong>del</strong> capofamiglia,<br />

cioè C. Fadenus, alla seconda riga il<br />

nome di una donna, Seiena, indicata come<br />

mater, ma non è chiaro se si tratti <strong>del</strong>la madre<br />

di C. Fadenus o di sua moglie, poiché nell’ultima<br />

riga è riportato il nome <strong>del</strong> figlio di C.<br />

Fadenus, Q. Fadenus e quindi Seiena, in quanto<br />

mater, potrebbe esserlo sia di C. Fadenus sia<br />

di Q. Fadenus.<br />

Nella terza riga invece è riportato il nome di<br />

un’altra donna, Fadena, figlia di Caius, indicata<br />

come soror e quindi sorella di C. Fadenus.<br />

Il secondo gentilizio riportato nell’epigrafe,<br />

Seienus, è anch’esso poco attestato nell’onomastica<br />

romana 21 .<br />

Le donne citate nell’epigrafe non hanno il<br />

praenomen poiché questo elemento nell’onomastica<br />

romana femminile era arcaico e raro 22 .<br />

La lettura <strong>del</strong>l’epigrafe pone qualche problema<br />

nella prima riga, dove dopo il praenomen ed il<br />

nomen <strong>del</strong> primo personaggio è riportata una lettera,<br />

la cui trascrizione, secondo chi scrive, è errata.


La lettera infatti sembra rappresentare una<br />

“A” con al di sopra un’asticella orizzontale, cosa<br />

che apparentemente non sembra avere un significato.<br />

Si potrebbe ipotizzare che l’asticella al di<br />

sopra <strong>del</strong>la “A” sia in realtà una scalfittura <strong>del</strong>la<br />

pietra e che chi ha ricopiato l’epigrafe, pensando<br />

che il segno facesse parte <strong>del</strong> testo, lo abbia<br />

comunque riportato.<br />

Questa presunta errata trascrizione non ci<br />

meraviglia, poiché la lettura di un’epigrafe può<br />

facilmente ingannare chi la trascrive e soprattutto<br />

perché molte <strong>del</strong>le epigrafi presenti nel<br />

Corpus Inscriptionum Latinarum non sono state<br />

trascritte da specialisti, per cui la possibilità di<br />

fraintendimento di lettere o spesso di semplici<br />

segni, è molto alta.<br />

Quindi nella nostra epigrafe dovremmo leggere<br />

semplicemente la lettera “A”, la quale, trovandosi<br />

dopo il nomen <strong>del</strong> nostro personaggio,<br />

corrisponderebbe al suo patronimico e quindi il<br />

praenomen <strong>del</strong> padre di C. Fadenus sarebbe<br />

stato Aulus.<br />

Come però si è detto, nell’epigrafe, alla terza<br />

riga, è ricordata la sorella di C. Fadenus, indicata<br />

anche con il nome <strong>del</strong> padre che inizia con la<br />

lettera “C” e che quindi deve essere letto come<br />

Caius.<br />

Essendo quindi C. Fadenus e Fadena, figlia di<br />

Caius, fratello e sorella, ne deduciamo che Caius<br />

era anche il padre di C. Fadenus e che quindi<br />

padre e figlio avevano lo stesso praenomen.<br />

Tenendo presente quanto sopra esposto, in<br />

questa sede si ipotizza che la trascrizione <strong>del</strong>la<br />

lettera “A” con un’asticella al di sopra sia errata,<br />

e che quindi in quella posizione era scritta la lettera<br />

“C”.<br />

L’epigrafe, per la mancanza dei cognomina<br />

dei personaggi, potrebbe essere datata tra la fine<br />

<strong>del</strong> I sec. a.C. e gli inizi <strong>del</strong> I sec. d.C.<br />

2) Nursia:<br />

È la località, tenendo presente che ad essa<br />

apparteneva anche il territorio <strong>del</strong>l’odierna<br />

Cascia, dalla quale proviene il maggior numero<br />

di iscrizioni relative a personaggi <strong>del</strong>la gens<br />

Fadena. Tutti gli autori antichi concordano sul<br />

fatto che l’antica Nursia, corrispondente all’at-<br />

VINCENZA IORIO<br />

- 15 -<br />

Fig. 4 - Suppl. It. XIII, n. 19.<br />

Fig. 5 - CIL IX 4550.<br />

tuale Norcia, fosse una città dei Sabini 23 . Dopo la<br />

conquista romana <strong>del</strong> territorio, Nursia divenne<br />

prima praefectura e poi un municipium retto da<br />

octoviri e da octoviri duovirali potestate 24 .<br />

2.1) CIL IX 4550= AE, 1950, n. 89; 1989, n.<br />

204; 1996, n. 529 a-f ; Suppl. It. XIII, n. 19 (Fig.<br />

4). Si tratta di un’epigrafe parzialmente nota nel<br />

Seicento, forse perché seminterrata sotto un’altra,<br />

sulla parete <strong>del</strong>l’abside <strong>del</strong>la chiesa di San<br />

Lorenzo a Norcia. Fu per la prima volta riportata<br />

parzialmente nel Corpus Inscriptionum<br />

Latinarum (IX 4550) (Figg. 4 e 5) ma il Ciucci,<br />

autore <strong>del</strong> manoscritto dal quale l’epigrafe fu<br />

tratta, commise alcuni errori nel trascriverla.<br />

L’epigrafe fu poi rinvenuta nel 1942 frammentata<br />

e capovolta, a mezzo metro sotto terra,<br />

nel campanile <strong>del</strong>la suddetta chiesa, e quindi<br />

ricomposta e murata a filo terra sul fianco<br />

destro, dov’è tuttora. In questa sede, si segue l’epigrafe<br />

pubblicata più recentemente e cioè quella<br />

presenta in Suppl. It. XIII, n. 19.<br />

Trascrizione:<br />

a. prima colonna:<br />

C(aio) FADENO Q(uinti) F(ilio)<br />

QUI(rina) BASSO<br />

VIII VIR(o) II VIR(ali) POT(estate)<br />

PATRONO PLEB(is)


. seconda colonna:<br />

[Q(uinto) F]ADEN[no – f(ilio)]<br />

QU[i(rina)—-]<br />

VIII[vir(o)]<br />

PATR[i]<br />

c. Terza colonna:<br />

[P?]ETILLENAE Q(uinti) F(ilia)<br />

MAXIMAE<br />

MATRI<br />

d. Quarta colonna:<br />

FA[denae - f]<br />

MA[ximae]<br />

A[mitae]<br />

e al centro ed in mezzo:<br />

[Ex t]ESTAMENTO C(aii) FADENI [Q(uinti) F(ilii)<br />

Qui(rina) Bassi]<br />

MODERATUS [l(ibertus)],<br />

f. nell’estremità inferiore:<br />

L(ocus)[d(atus) d(ecreto) d(ecurionum)?]<br />

Traduzione<br />

a. prima colonna:<br />

A Caio Fadeno, figlio di Quinto, <strong>del</strong>la tribù Quirina,<br />

Basso, octoviro per potestà duovirale, patrono <strong>del</strong>la<br />

plebe<br />

b. seconda colonna:<br />

A Quinto Fadeno, figlio di [-], <strong>del</strong>la tribù Quirina [—-<br />

], octoviro, padre<br />

c. terza colonna:<br />

A Petillena, figlia di Quinto, Massima, madre<br />

d. quarta colonna:<br />

A Fadena, figlia di [-] Massima, zia paterna<br />

e al centro ed in mezzo:<br />

per testamento di Caio Fadeno, figlio di Quinto, <strong>del</strong>la<br />

tribù Quirina, Basso<br />

il liberto Moderato<br />

f. nell’estremità inferiore:<br />

Il luogo è stato dato per decreto dei decurioni<br />

SALTERNUM<br />

- 16 -<br />

Le parole nell’epigrafe sono divise da un<br />

punto di forma rotonda, molto usuale nell’epigrafia<br />

latina 25 .<br />

L’epigrafe è l’unione di tre frammenti, ma<br />

probabilmente manca un quarto frammento da<br />

inserire tra il secondo ed il terzo, a partire da<br />

sinistra, sul quale doveva essere riportato alla<br />

prima riga il patronimico di Q. Fadenus e la<br />

prima lettera <strong>del</strong> gentilizio <strong>del</strong>la moglie di Q.<br />

Fadenus e madre di C. Fadenus Bassus, mentre<br />

nella seconda riga doveva essere riportato il<br />

cognomen <strong>del</strong>lo stesso Q. Fadenus. Si tratta di<br />

un’epigrafe scolpita per un monumento funerario<br />

costruito dal liberto Moderatus, seguendo il<br />

testamento di C. Fadenus Bassus. Nel monumento<br />

funerario, oltre allo stesso C. Fadenus<br />

Bassus, erano seppelliti suo padre, Q. Fadenus,<br />

di cui come si è detto non conosciamo il cognomen,<br />

sua madre Petillena Maxima e la zia paterna,<br />

Fadena Maxima. Si tratta di personaggi<br />

appartenenti ad una classe sociale molto alta,<br />

poiché Q. Fadenus era stato un membro <strong>del</strong> collegio<br />

degli octoviri, mentre suo figlio era stato<br />

membro di un sottocollegio degli octoviri duovirali<br />

potestate, con funzione giurisdicente, un sottocollegio<br />

che sembra proprio <strong>del</strong>l’amministrazione<br />

nursina 26 .<br />

Nell’epigrafe, oltre al gentilizio Fadenus è<br />

presente anche il gentilizio (P?)etillenus,<br />

anch’esso poco attestato nell’onomastica romana<br />

27 , mentre lo è maggiormente il gentilizio<br />

Petillius, al quale Petillenus potrebbe essere<br />

legato 28 .<br />

Due i cognomina presenti nell’epigrafe: il<br />

primo, Bassus, è quello di C. Fadenus, il secondo<br />

invece, Maxima, appartiene sia alla madre di<br />

C. Fadenus, Petillena Maxima sia alla sua zia<br />

paterna, Fadena Maxima.<br />

L’etimologia <strong>del</strong> cognomen Bassus pone alcuni<br />

problemi, poiché la parola non è di origine<br />

latina 29 , mentre molto semplice è l’etimologia <strong>del</strong><br />

cognomen <strong>del</strong>le due donne, Petillena Maxima e<br />

Fadena Maxima, poiché è un cognomen che<br />

augura la perfezione a chi lo possiede 30 .<br />

L’epigrafe può essere datata, per le caratteristiche<br />

paleografiche ed onomastiche e per il formulario,<br />

nella prima metà <strong>del</strong> I sec. d.C.


2.2) CIL IX 4594 (Fig. 6).<br />

Si tratta di un’epigrafe ricopiata dal Ciucci,<br />

così come è riportato nel Corpus Inscriptionum<br />

Latinarum. L’epigrafe fu vista dallo stesso<br />

Ciucci due volte presso due distinte case, la<br />

prima volta presso la casa dei signori Tesorieri<br />

e la seconda presso la casa <strong>del</strong>la signora Marzia<br />

Pichini.<br />

Trascrizione:<br />

D(iis) M(anibus) SECUNDO<br />

C(aii) FADEN(i) BASSI SERVO<br />

SECUNDUS PATER ET<br />

[—-]BLECAS MATER<br />

PARENTES FILIO (pi)ISSIMO<br />

V(ixit) ANN(um) MEN(ses) II DIES XII<br />

P(osuerunt)<br />

Traduzione<br />

Agli Dei Mani. A Secondo, schiavo di Caio Fadeno<br />

Basso, il padre Secondo e la madre [—-]blecas, genitori,<br />

al figlio piissimo (che) visse un anno, due mesi e<br />

dodici giorni, posero.<br />

Le parole nell’epigrafe sono divise da un<br />

punto di forma rotonda, molto usuale nell’epigrafia<br />

latina 31 .<br />

Nel riportare l’epigrafe è stato probabilmente<br />

commesso un errore, poiché le prime due lettere<br />

D(iis) M(anibus) nelle iscrizioni sepolcrali si<br />

trovano isolate e non sulla stessa riga di altre<br />

parole 32 .<br />

L’espressione D(iis) M(anibus) è molto frequente<br />

nelle iscrizioni sepolcrali e ricorda che la<br />

proprietà <strong>del</strong>la tomba, divenuta res religiosa, è<br />

degli Dei Mani e ciò anche per proteggerla da<br />

possibili manomissioni 33 .<br />

Il senso <strong>del</strong>l’epigrafe è molto chiaro poiché si<br />

tratta di una dedica da parte di due schiavi,<br />

marito e moglie, al loro figlio che visse un anno,<br />

due mesi e dodici giorni. Il padre ed il figlio<br />

avevano lo stesso nome, cioè Secundus, un<br />

nome ben attestato tra gli schiavi, la cui origine<br />

è un numerale 34 . Nell’onomastica romana,<br />

Secundus è anche attestato come cognomen 35 .<br />

Poco chiaro invece il nome <strong>del</strong>la madre <strong>del</strong><br />

bimbo morto, che il Ciucci riporta come IIBLE-<br />

VINCENZA IORIO<br />

- 17 -<br />

Fig. 6 - CIL IX 4594.<br />

CAS, ma nella cui trascrizione è stato forse commesso<br />

un errore, poiché nell’onomastica romana<br />

schiavile non è presente il nome (...)blecas,<br />

se lo leggiamo come il Ciucci lo ho trascritto.<br />

Secondo chi scrive, non è possibile stabilire<br />

con quali lettere iniziasse il nome <strong>del</strong>la madre<br />

<strong>del</strong> bambino morto, che poteva comunque terminare<br />

in - ECAS poiché questa terminazione è<br />

presente nell’onomastica romana schiavile 36 .<br />

Secundus e sua moglie erano schiavi di C.<br />

Fadenus Bassus, probabilmente lo stesso personaggio<br />

<strong>del</strong> quale si è discusso nel commento<br />

<strong>del</strong>l’epigrafe precedente, per cui l’epigrafe può<br />

essere datata nella prima metà <strong>del</strong> I sec. d.C.<br />

3) Cascia e dintorni<br />

Come si è detto, probabilmente in epoca<br />

romana il territorio <strong>del</strong>l’attuale cittadina di<br />

Cascia apparteneva a quello di Nursia (Norcia),<br />

non essendo Cascia presente nelle fonti <strong>del</strong>la<br />

letteratura classica. Il territorio era però abitato,<br />

come attestano numerosi ritrovamenti, soprattutto<br />

quelli legati alla presenza di un tempio etrusco-italico<br />

in località Villa San Silvestro 37 .<br />

3.1) CIL IX, 4627 (Figg. 7-9).<br />

L’epigrafe fu rinvenuta nell’ingresso <strong>del</strong>la<br />

chiesa di Santa Anatolia, ma già nell’Ottocento<br />

era irreperibile 38 . Nel Corpus Inscriptionum<br />

Latinarum di questa iscrizione si riportano due<br />

versioni, su due colonne, la prima a sinistra<br />

<strong>del</strong>l’Holstenius (Fig. 7) 39 , il quale affermò anche<br />

che l’epigrafe era fratturata nella parte inferiore,<br />

e la seconda, a destra, <strong>del</strong> Gudius (Fig. 8) 40 .


Fig. 7 - CIL IX, 4627 (lato sinistro).<br />

Inoltre il Sordini, nel volume di Notizie degli<br />

Scavi di Antichità pubblicato nel 1893, riporta<br />

un’altra versione <strong>del</strong>la stessa epigrafe, differente<br />

dalla prime due, ma più simile a quella <strong>del</strong><br />

Gudius (Fig. 9) 41 . Tra le versione <strong>del</strong> Sordini e<br />

quelle <strong>del</strong> Corpus Inscriptionum Latinarum si<br />

contano dieci anni di differenza, essendo il IX<br />

volume <strong>del</strong> Corpus pubblicato nel 1883.<br />

In questa sede si segue la versione <strong>del</strong><br />

Sordini poiché si ritiene che sia quella più verosimile,<br />

<strong>del</strong>la quale comunque si riportano due<br />

trascrizioni, diverse.<br />

1a Trascrizione:<br />

T(iti) FADENI [—-] T(iti) F(ilii)<br />

[—-] CATIANI T(iti) F(ilii)<br />

T(iti) [—-]<br />

C(aii) [—-]<br />

L(ucii) | FA[—-]<br />

T(itii) [·····]AERAR(i) [—-]<br />

Fig. 8 - CIL IX, 4627 (lato destro).<br />

Fig. 9 - da Sordini 1893,<br />

p. 381, n. 42.<br />

1a Traduzione<br />

Di Tito Fadeno, figlio di Tito, di Catiano, figlio di Tito,<br />

di Tito [—-], di Caio [—-], di Lucio Fa[—-], di Tito [—<br />

-]erario.<br />

SALTERNUM<br />

- 18 -<br />

2a Trascrizione:<br />

T(iti) FADENI [—-] T(iti) F(ilii)<br />

[—-] CATIANI T(iti) F(ilii)<br />

T(iti) [—-]<br />

C(aii) [—-]<br />

L(ucii)<br />

FA[—-]<br />

T(itii) [·····] AERAR[—-]<br />

2a Traduzione<br />

Di Tito Fadeno, figlio di Tito, di Catiano, figlio di Tito,<br />

di Tito [—-], di Caio [—-], di Lucio Fa[—-], di Tito [—-<br />

]erario.<br />

Le parole nell’epigrafe sono divise da un<br />

punto di forma rotonda, molto usuale nell’epigrafia<br />

latina 42 .<br />

L’epigrafe presenta numerosi problemi di lettura:<br />

sembra riportare una lista di nomi, in caso<br />

genitivo. Il primo nome sembra essere quello di<br />

T. Fadenus, seguito da uno spazio la cui presenza<br />

non è chiara poiché ci aspetteremmo subito il<br />

patronimico <strong>del</strong> personaggio e cioè Titi filus, che<br />

invece è riportato alla fine <strong>del</strong>la prima riga.<br />

La seconda riga potrebbe iniziare con il cognomen<br />

<strong>del</strong> primo personaggio, seguito dal gentilizio<br />

<strong>del</strong> secondo personaggio che era Catianus, un<br />

gentilizio attestato nell’onomastica romana 43 .<br />

Al gentilizio <strong>del</strong> secondo personaggio segue,<br />

sulla stessa riga, il suo patronimico e cioè Titi<br />

filius.<br />

Nelle righe terza e quarta sono probabilmente<br />

riportati i praenomina Titus e Caius, mentre nel<br />

quinto è riportato il praenomen Lucius di un personaggio<br />

il cui gentilizio inizia con le lettere FA,<br />

che potrebbe essere anch’egli un Fadenus, ma<br />

molti sono i gentilizi che iniziano con queste due<br />

lettere 44 .<br />

Veniamo infine all’ultima riga che differenzia<br />

le due trascrizioni sopra riportate da chi scrive. La<br />

prima parte <strong>del</strong>la riga è la stessa per entrambe le<br />

trascrizioni e sembra iniziare con le lettere Titi,<br />

genitivo <strong>del</strong> praenomen Titus.<br />

La differenza tra le due trascrizioni è posta nell’interpretazione<br />

<strong>del</strong>le lettere seguenti. Infatti<br />

dopo il probabile praenomen c’è uno spazio nel<br />

quale ci aspetteremmo il gentilizio al quale<br />

apparterrebbero le lettere “AERAR”.


In tal caso ci troveremmo di fronte ad un<br />

gentilizio che al caso nominativo avrebbe almeno<br />

dodici lettere, non essendo possibile stabilire<br />

quanto in realtà fosse lunga questa parola,<br />

poiché dopo la “T” <strong>del</strong> praenomen <strong>del</strong> personaggio<br />

ricordato nell’epigrafe c’è uno spazio<br />

con un puntino nel centro, che è quello di divisione<br />

tra il praenomen ed il gentilizio, come per<br />

i personaggi riportati nel primo e nel quinto<br />

rigo 45 ; successivamente c’è un altro spazio dove<br />

potrebbero essere collocate cinque lettere che<br />

vanno sommate alle cinque che leggiamo e cioè<br />

AERAR, alle quali andrebbe aggiunta la terminazione<br />

in –i <strong>del</strong> gentilizio al genitivo <strong>del</strong> nostro<br />

personaggio, come al genitivo sembrano essere<br />

i gentilizi dei personaggi riportati nella prima e<br />

nella seconda riga <strong>del</strong>l’epigrafe.<br />

Questa ipotesi potrebbe corrispondere al<br />

vero poiché nell’onomastica romana esistono<br />

gentilizi che al caso nominativo sono formati da<br />

dodici ma anche da più lettere 46 .<br />

Nella seconda trascrizione invece le lettere<br />

AERAR non sono considerate come parte <strong>del</strong><br />

gentilizio <strong>del</strong> personaggio riportato nell’epigrafe,<br />

ma come facenti parte di un’altra parola che<br />

potrebbe essere la parola AERAR, che indicherebbe<br />

l’erario, cioè il tesoro pubblico 47 , ma di cui<br />

non conosciamo il caso e quindi la desinenza<br />

con la quale la parola terminava.<br />

In questa seconda ipotesi quindi, il gentilizio<br />

<strong>del</strong> personaggio riportato andrebbe posto tra il<br />

suo praenomen e le lettere AERAR e quindi ci troveremmo<br />

di fronte ad un gentilizio che al caso<br />

genitivo era composto da cinque lettere, e che<br />

quindi al caso nominativo ne era composto da sei.<br />

Questa ipotesi potrebbe corrispondere al<br />

vero poiché nell’onomastica romana esistono<br />

gentilizi che al caso nominativo sono composti<br />

da sei lettere 48 .<br />

In questa ipotesi infine, dopo il gentilizio <strong>del</strong><br />

personaggio nominato, non sarebbe riportato il<br />

patronimico poiché lo spazio tra il praenomen e<br />

la parola AERAR sarebbe occupato totalmente<br />

da un gentilizio, in caso genitivo, composto da<br />

cinque lettere.<br />

A causa <strong>del</strong>l’esiguità <strong>del</strong> testo e <strong>del</strong>la difficoltà<br />

di trascrizione, non è possibile ipotizzare una<br />

datazione per questa epigrafe.<br />

VINCENZA IORIO<br />

- 19 -<br />

Fig. 10 - da SORDINI 1893,<br />

pp. 378-379, n. 35.<br />

3.2) Sordini 1893, pp. 378-379, n. 35 (Fig. 10).<br />

Le notizie relative a questa epigrafe sono<br />

riportate dal Sordini che così scrive 49 : “Cippo di<br />

travertino, di m 1,35x0,72 nel podere <strong>del</strong> sig.<br />

Caroli-Franceschini presso la Via di Malignano di<br />

Cascia…fu trovata nel 1764, nel piano di Padule,<br />

nel luogo dove era l’antica collegiata di San<br />

Panfilo e fu trasportata nel casale <strong>del</strong> sig. Luigi<br />

Franceschini, dove serve di piedistallo alla tracanna”.<br />

In questa sede si propongono due trascrizioni<br />

con le relative traduzioni poiché il testo,<br />

alla sesta riga, pone problemi di lettura.<br />

1a Trascrizione:<br />

D(iis) M(anibus)<br />

C(aio) VEDINACO<br />

DEXTRO MIL(iti) CHOR(tis)<br />

II PRAETOR(iae) OPTIONI<br />

CARCARIS MIL(itavit) A(nnis) XIIII<br />

V(ixit) A(nnis) XXXVII M(ensibus) IIII<br />

M(arcus) IULIUS SECUNDUS<br />

PATER FIL(io) PIENTISSIMO<br />

EQUITI AUGUSTOR(um) ET<br />

FADENAE SEMELINI MA(tri) SUIS B(ene) M(erenti) F(ecit)<br />

ET SIBI<br />

Fig. 11 - da SORDINI 1893,<br />

p. 381, n. 46.<br />

1a Traduzione<br />

Agli Dei Mani. A Caio Vedinaco Destro, soldato <strong>del</strong>la<br />

seconda coorte pretoria, soldato scelto <strong>del</strong> carcere.<br />

Militò per quattordici anni, visse trentasette anni e quattro<br />

mesi, Marco Iulio Secondo, padre, al figlio pietosissimo,<br />

cavaliere degli Augusti ed a Fadena Semelinis, sua<br />

madre, ben meritevole, fece e per i suoi.


2a Trascrizione:<br />

D(iis) M(anibus)<br />

C(aio) VEDINACO<br />

DEXTRO MIL(iti) CHOR(tis)<br />

II PRAETOR(iae) OPTIONI<br />

CARCARIS MIL(itavit) A(nnis) XIIII<br />

V(ixit) A(nnis) XXXVII M(ensibus) II (iebus) II<br />

M(arcus) IULIUS SECUNDUS<br />

PATER FIL(io) PIENTISSIMO<br />

EQUITI AUGUSTOR(um) ET<br />

FADENAE SEMELINI MA(tri) SUIS B(ene) M(erenti) F(ecit)<br />

ET SIBI<br />

2a Traduzione<br />

Agli Dei Mani. A Caio Vedinaco Destro, soldato <strong>del</strong>la<br />

seconda coorte pretoria, soldato scelto <strong>del</strong> carcere.<br />

Militò per quattordici anni, visse trentasette anni, due<br />

mesi e due giorni, Marco Iulio Secondo, padre, al figlio<br />

pietosissimo, cavaliere degli Augusti ed a Fadena<br />

Semelinis, sua madre, ben meritevole, fece e per i suoi.<br />

Le parole nell’epigrafe sono divise da un<br />

punto di forma rotonda, molto usuale nell’epigrafia<br />

latina 50 .<br />

Il senso <strong>del</strong>l’epigrafe, di carattere sepolcrale, è<br />

molto chiaro ma, oltre ai problemi di lettura, c’è<br />

un errore grammaticale (suius al posto di eius). Si<br />

tratta di un’epigrafe sepolcrale relativa ad una<br />

tomba che M. Iulius Secundus fece costruire per<br />

C. Vedinacus Dexter, morto all’età di trentasette<br />

anni durante il suo quattordicesimo anno di servizio<br />

militare, e per Fadena Semelinis.<br />

Nell’iscrizione M. Iulius Secundus indica C.<br />

Vedinacus Dexter come suo figlio, ma probabilmente<br />

doveva trattarsi di un figlio che la moglie<br />

doveva aver avuto da un precedente matrimonio,<br />

poiché se i due personaggi fossero stati padre e<br />

figlio naturali avrebbero dovuto avere lo stesso<br />

gentilizio, mentre hanno due gentilizi differenti:<br />

quello <strong>del</strong> primo è Iulius e quello <strong>del</strong> secondo<br />

Vedinacus. Quindi, quando M. Iulius Secundus<br />

sposò sua moglie questa doveva essere vedova<br />

ed avere almeno un figlio, e cioè C. Vedinacus<br />

Dexter, al quale M. Iulius Secundus si affezionò<br />

moltissimo, tanto da considerarlo come figlio proprio,<br />

così come lo indica nell’epigrafe.<br />

Dalla lettura <strong>del</strong>l’epigrafe inoltre non è possi-<br />

SALTERNUM<br />

- 20 -<br />

bile stabilire bene quale età Caius Vedinacus<br />

Dexter avesse quando morì e per questo motivo<br />

si propongono due trascrizioni e due traduzioni.<br />

L’unico dato certo sono gli anni, cioè trentasette,<br />

leggibili in entrambe le trascrizioni, mentre<br />

non è possibile stabilire bene i mesi che<br />

potrebbero essere quattro 51 o due 52 , a seconda<br />

<strong>del</strong>l’interpretazione che si dà all’ultima parte<br />

<strong>del</strong>la sesta riga <strong>del</strong>l’epigrafe.<br />

Il problema nasce in particolare dai quattro<br />

segni che seguono la lettera “M”, cioè mensibus;<br />

tali segni infatti possono essere intesi come il<br />

numerale quattro e quindi leggeremmo “mesi<br />

quattro” 53 oppure i primi due, come il numerale<br />

due e gli ultimi due come un altro numerale<br />

due, ma questa volta riferito ai giorni e quindi<br />

leggeremmo “mesi due e giorni due” 54 .<br />

Nel primo caso lo spazio lasciato tra le prime<br />

due asticelle e le seconde due asticelle <strong>del</strong><br />

numerale sarebbe puramente casuale 55 , nel<br />

secondo caso invece dopo le prime due asticelle,<br />

nello spazio che segue, il lapicida avrebbe<br />

dimenticato di apporre la lettera D(iebus) 56 .<br />

Un altro problema riguarda Fadena<br />

Semelinis, poiché nell’epigrafe è indicata come<br />

madre, ma non è possibile stabilire se essa fosse<br />

la madre di C. Vedinacus Dexter, e quindi la<br />

moglie di M. Iulius Secundus, oppure fosse la<br />

madre di M. Iulius Secundus, e quindi la nonna<br />

di C. Vedinacus Dexter.<br />

Infine, dalla lettura <strong>del</strong>l’epigrafe, apprendiamo<br />

che C.Vedinacus Dexter aveva ricoperto<br />

alcune cariche durante il suo servizio militare ed<br />

in particolare era stato un soldato <strong>del</strong>la seconda<br />

coorte pretoria, cioè la guardia <strong>del</strong> corpo dei<br />

generali 57 , un optio carcaris, cioè un soldato<br />

scelto, aiutante dei centurioni, 58 preposto alla<br />

sorveglianza <strong>del</strong> carcere 59 ed eques singularis<br />

Augusti, appartenente quindi al corpo di guardia<br />

a cavallo personale <strong>del</strong>l’imperatore, istituito probabilmente<br />

già durante l’impero di Nerva e rimasto<br />

attivo forse fino a Costantino 60 .<br />

Per quanto riguarda l’onomastica dei personaggi<br />

citati nell’epigrafe, Vedinacus è un gentilizio<br />

poco attestato nell’onomastica romana 61 ,<br />

mentre non lo è Iulius 62 .<br />

Ben attestati sono anche i cognomina dei<br />

personaggi maschili <strong>del</strong>l’epigrafe e cioè Dexter


che potrebbe essere relativo alla prudenza <strong>del</strong>l’intelletto<br />

63 e Secundus che invece si riferisce<br />

all’ordine di nascita tra i figli 64 .<br />

Probabilmente M. Iulius Secundus era un<br />

liberto, poiché il suo cognomen è diffuso come<br />

nome di schiavi 65 ; uno schiavo infatti quando<br />

diventava liberto assumeva il praenomen ed il<br />

nomen <strong>del</strong> patrono o <strong>del</strong>la patrona che lo<br />

aveva liberato e quello che era stato il suo<br />

nome da schiavo diventava il suo cognomen di<br />

liberto 66 .<br />

Nell’onomastica romana non è attestato<br />

invece il cognomen <strong>del</strong> personaggio femminile<br />

<strong>del</strong>l’epigrafe, Semelinis, probabilmente di provenienza<br />

greca, da accostare a Semele, che la<br />

mitologia greca indica come figlia di Cadmo e<br />

madre di Bacco 67 e che nell’onomastica romana<br />

è attestato come cognomen 68 .<br />

Per l’onomastica dei personaggi e per la presenza<br />

<strong>del</strong> corpo degli equites Augusti è possibile<br />

ipotizzare che l’epigrafe si dati alla fine <strong>del</strong><br />

I sec. d.C.<br />

3.3) Sordini 1893, p. 381, n. 46 (Fig. 11).<br />

Le notizie relative a questa epigrafe sono<br />

riportate dal Sordini che così scrive 69 : “Cippo di<br />

travertino di m. 0,80x0,68x0,25, murato in un<br />

gradino, a destra di chi entra, nella chiesa di s.<br />

Maria di Roccadervi alla Cerasola. Ivi stesso la<br />

vide e ne trasse copia il Franceschini”.<br />

Trascrizione:<br />

D(iis) <br />

C(aius) <br />

C(aio) FADEN(o)<br />

FORTUNA[to]<br />

PATRI PATRO<br />

NO BENE MER[en]<br />

TI V(ixit) AN(nis) LXXX<br />

SIBI ET<br />

POSTERI<br />

QE SUIS<br />

Traduzione<br />

Agli Dei Mani. Caio Fadeno, a Caio Fadeno Fortunato,<br />

padre (e) patrono, ben meritevole. Visse ottanta anni,<br />

per sé e per i suoi posteri.<br />

VINCENZA IORIO<br />

- 21 -<br />

Le parole nell’epigrafe sono divise da un<br />

punto di forma rotonda, molto usuale nell’epigrafia<br />

latina 70 .<br />

L’epigrafe, di carattere sepolcrale, pone problemi<br />

di lettura, inoltre non si conserva per intero ed<br />

in particolare non si conserva la sua parte sinistra.<br />

Nella prima riga <strong>del</strong>l’epigrafe, dopo la lettera<br />

D(iis) doveva esserci la M(anibus) 71 in quella<br />

parte <strong>del</strong>l’epigrafe che non si è conservata.<br />

Nell’epigrafe sembrano essere indicati due<br />

personaggi maschili, il primo nella seconda riga<br />

ed il secondo nella terza riga.<br />

Il nome <strong>del</strong> personaggio riportato nella<br />

seconda riga dovrebbe essere quello <strong>del</strong> dedicante<br />

e quindi dovremmo leggere, in caso nominativo,<br />

il suo praenomen ed il suo gentilizio;<br />

probabilmente questo personaggio non aveva il<br />

cognomen, che si sarebbe dovuto trovare nella<br />

riga successiva, dove invece si trovano già gli<br />

elementi onomastici <strong>del</strong> secondo personaggio.<br />

Inoltre nel ricopiare il nome <strong>del</strong> primo personaggio<br />

probabilmente sono stati commessi errori;<br />

infatti se il suo praenomen è chiaro e cioè,<br />

Caius, non lo è il suo gentilizio.<br />

Chi scrive ipotizza che il gentilizio <strong>del</strong> personaggio<br />

potese essere stato Fadenus poiché nelle<br />

righe successive <strong>del</strong>l’epigrafe è riportato Caius<br />

Fadenus Fortunatus, indicato come padre e<br />

patrono e che morì ad ottanta anni, un’età molto<br />

avanzata in epoca romana.<br />

Se l’ipotesi che qui si propone è giusta, dei<br />

due personaggi menzionati, il primo era il liberto<br />

ed il secondo il patrono e quindi entrambi<br />

dovevano avere lo stesso praenomen e gentilizio<br />

e cioè Caius Fadenus.<br />

Il liberto Caius Fadenus costruì quindi la<br />

tomba per il proprio patrono, che chiama affettuosamente<br />

anche “padre” forse perché lo aveva<br />

anche adottato, per se stesso e per i suoi posteri.<br />

Il cognomen Fortunatus <strong>del</strong> patrono è un<br />

cognomen molto attestato nell’onomastica romana<br />

ed è un nome di tipo augurale 72 .<br />

Per l’onomastica dei personaggi è possibile<br />

ipotizzare che l’epigrafe sia stata scolpita alla<br />

fine <strong>del</strong> I sec. d.C.


REGIO V<br />

4) Interamna Praettutorium.<br />

L’antica Intermna Praettutorium o<br />

Interamnia Praettutorium corrisponde all’attuale<br />

Teramo e la città è ricordata nelle fonti letterarie<br />

73 . La prima parte <strong>del</strong> nome <strong>del</strong>la città deriva<br />

dal fatto che era posta tra due fiumi (Interamnes),<br />

mentre la seconda deriva dal fatto che<br />

era la località più importante <strong>del</strong>l’Ager<br />

Praettutorum 74 .<br />

Fig. 12 - CIL IX, 5104.<br />

4.1) CIL IX, 5104 (Fig. 12)<br />

Non si conosce la provenienza <strong>del</strong>l’epigrafe<br />

che comunque si trovava nel Museo Delfico di<br />

Teramo e che è di tipo sepolcrale. L’epigrafe,<br />

come è presentata nel Corpus Inscriptionum<br />

Latinarum, è in realtà composta da due frammenti<br />

che rappresentano la sua parte iniziale e<br />

la sua parte finale. Dovrebbe però esistere almeno<br />

un terzo frammento che doveva essere posto<br />

tra i primi due.<br />

L’epigrafe pone qualche problema di lettura,<br />

per cui si propongono due trascrizioni e due traduzioni.<br />

1a Trascrizione:<br />

P(ublius) FADE[us] [—-] [—-]RUS SIBI ET<br />

FA[denae] [—-]E PATRON(ae)<br />

FA[dena] [—-]AE MATRI<br />

FERO(niae) [—-]AE UXOR(i)<br />

SP(urio) (f)AD(eno) [—-]EROT L(ucii)<br />

[—-]<br />

SALTERNUM<br />

- 22 -<br />

1a Traduzione<br />

Publio Fadeno [—-] [—-]rus per sé (e) per Fadena [—-<br />

]e, patrona (e) per Fadena [—-]ae madre (e) per<br />

Feronia [—-]ae, moglie, per Spurio Fadeno [—-]erote<br />

L(ucii)<br />

2a Trascrizione:<br />

P(ublius) FADE[us] [—-] [—-]RUS SIBI ET<br />

FA[denae] [—-]E PATRON(ae)<br />

FA[dena] [—-]AE MATRI<br />

FERO(niae) [—-]AE UXOR(i)<br />

SP(urio) (f)AD(eno) EROT L(ucii)<br />

[—-]<br />

2a Traduzione<br />

Publio Fadeno [—-] [—-]rus per sé (e) per Fadena [—-<br />

]e, patrona (e) per Fadena [—-]ae madre (e) per<br />

Feronia [—-]ae, moglie (e) per Spurio Fadeno Erote<br />

L(ucii)<br />

Le parole nell’epigrafe sono divise da un<br />

punto di forma rotonda, molto usuale nell’epigrafia<br />

latina 75 .<br />

L’epigrafe è di tipo sepolcrale e la sua lettura<br />

pone qualche problema nell’ultima riga. Nella<br />

prima riga è riportato il prenome P(ublius) ed il<br />

gentilizio Fade(nus) di colui che ha fatto costruire<br />

la tomba per sé e per le persone che sono<br />

elencate nelle righe successive.<br />

Nella seconda riga è probabilmente riportata<br />

la patrona di P. Fadenus poiché nella parte finale<br />

<strong>del</strong>la riga si leggono le lettere “PATRON” e<br />

poiché precedentemente a queste si legge “E”,<br />

questa ultima lettera molto probabilmente appartiene<br />

al cognomen in caso dativo terminante in -<br />

ae e quindi femminile. La presenza <strong>del</strong>la patrona<br />

di P. Fadenus nella seconda riga <strong>del</strong>l’epigrafe è<br />

anche attestata dalle prime lettere che si leggono,<br />

cioè “FAD” da integrare probabilmente con<br />

Fadenae, poiché essendo questa la padrona di P.<br />

Fadenus, i due personaggi devono avere lo stesso<br />

gentilizio; quando uno schiavo diventava<br />

liberto, assumeva il gentilizio <strong>del</strong> patrono o <strong>del</strong>la<br />

patrona che lo aveva liberato 76 .<br />

Alla terza riga <strong>del</strong>l’epigrafe sono riportati il<br />

nomen e il cognomen <strong>del</strong>la madre di P. Fadenus,<br />

mentre il suo gentilizio inizia con le lettere “FA”


quindi probabilmente era anch’essa una Fadena,<br />

per cui madre e figlio erano liberti <strong>del</strong>la stessa<br />

gens Fadena. In realtà però il gentilizio <strong>del</strong>la<br />

donna potrebbe anche essere un altro poiché<br />

molti sono i gentilizi attestati nell’onomastica<br />

romana che iniziano con le lettere “FA” 77 .<br />

Nella quarta riga <strong>del</strong>l’epigrafe sono riportati il<br />

nomen <strong>del</strong>la moglie di P. Fadenus, Feronia e la<br />

terminazione in –ae <strong>del</strong> suo cognomen.<br />

Il gentilizio Feronius è attestato nell’onomastica<br />

romana 78 ed ad Interamnia Praettutiorum<br />

ricorre anche in un’altra epigrafe 79 . Questo gentilizio<br />

si riallaccia alla dea Feronia, molto venerata<br />

tra le popolazioni <strong>del</strong>l’Italia centrale e protettrice<br />

dei liberti 80 .<br />

Anche nell’ultima riga <strong>del</strong>l’epigrafe, la quinta,<br />

sembra essere riportato il nome di un altro personaggio<br />

il quale probabilmente apparteneva<br />

anch’egli alla gens Fadena. Il praenomen <strong>del</strong><br />

personaggio era Sp(urius), il suo gentilizio iniziava<br />

con le lettere “FAD” e perciò probabilmente<br />

era anch’egli un Fadenus ed il suo cognomen<br />

potrebbe terminare in –erote 81 o essere Erote 82 . Il<br />

cognomen Erotis è attestato nell’onomastica<br />

romana 83 , per cui nella trascrizione Erote potrebbe<br />

essere sbagliata l’ultima lettera che dovrebbe<br />

essere la terminazione <strong>del</strong> dativo in –i e quindi<br />

è possibile che in realtà fosse scritto Eroti.<br />

L’ultima lettera che si legge nella quinta riga<br />

e una “L”, forse l’abbreviazione <strong>del</strong> praenomen<br />

Lucius e quindi l’epigrafe doveva continuare<br />

riportando in una riga successiva la parola libertus<br />

o filius.<br />

Per l’onomastica dei personaggi è possibile<br />

ipotizzare che l’epigrafe si dati nel I sec. d.C.<br />

5) Pausulae<br />

Si tratta di una località oggi nei pressi di<br />

Corridonia, in provincia di Macerata, che è ricordata<br />

da Plinio 84 come località <strong>del</strong> Piceno 85 .<br />

5.1) CIL IX, 5796 (Fig. 13).<br />

L’epigrafe proviene dalla località S. Claudio e,<br />

nel 1852, Ernesto Tambroni la spedì al<br />

Raffaellio.<br />

VINCENZA IORIO<br />

- 23 -<br />

Trascrizione:<br />

MEM(oria)<br />

C(aii) FADENI SE<br />

CUNDINI QUI<br />

VIX(it) AN(nis) XXXVI<br />

FADENUS EPIC<br />

TETUS FRATRI<br />

PIENTISSI(mo)<br />

Traduzione<br />

In memoria di Caio Fadeno Secondino che visse trentasei<br />

anni, Fadeno Epicteto al fratello piissimo.<br />

Fig. 13 - CIL IX, 5796.<br />

Le parole nell’epigrafe sono divise da un<br />

punto di forma rotonda, molto usuale nell’epigrafia<br />

latina 86 .<br />

La traduzione <strong>del</strong>l’epigrafe non pone problemi.<br />

Si tratta infatti di un’epigrafe sepolcrale nella<br />

quale Fadenus Epictetus dedica il sepolcro al fratello<br />

C. Fadenus Secundinus che visse trentasei<br />

anni.<br />

Il cognomen Secundinus è attestato nell’onomastica<br />

romana e deriva dal cognomen<br />

Secundus che si riferisce all’ordine di nascita tra<br />

i figli 87 .<br />

Di origine greca è invece il cognomen <strong>del</strong><br />

secondo personaggio <strong>del</strong>l’epigrafe, Epictetus,<br />

che deriva dall’aggettivo greco piktëtoß, che<br />

significa “di nuovo acquisto”, “aggiunto” 88 .<br />

Per l’assenza <strong>del</strong> praenomen di Fadenus<br />

Epictetus, l’epigrafe si potrebbe datare nel II sec.<br />

d.C., quando il praenomen comincia a non essere<br />

più utilizzato 89 .<br />

6) Roma<br />

Le epigrafi latine che riguardano Roma sono


accolte nel volume VI <strong>del</strong> Corpus Inscriptionum<br />

Latinarum. In particolare, l’epigrafe che qui si<br />

prende in considerazione è presente in CIL VI<br />

Pars III, dove sono raccolte le iscrizioni sepolcrali<br />

di Roma.<br />

Fig. 14 - CIL VI, 17647<br />

6.1) CIL VI, 17647 (Fig. 14).<br />

Non sappiamo in realtà se questa epigrafe sia<br />

stata veramente rinvenuta a Roma, ma questa è<br />

l’opinione di E. Bormann, G. Henzen ed Ch.<br />

Huelsen che hanno curato il volume CIL VI Pars<br />

III, pubblicato a Berlino nel 1886.<br />

Infatti per quanto riguarda l’epigrafe che qui<br />

si prende in considerazione, nel CIL VI Pars III<br />

si riporta quanto segue: “Tavola di marmo di origine,<br />

come sembra, urbana, si trovava a Parigi<br />

nel museo <strong>del</strong> comandante Blacas”. L’epigrafe<br />

fu descritta dal Mommsen.<br />

Trascrizione:<br />

FADENA C(aii) L(iberta) LAIS<br />

SIBI ET SUIS<br />

C(aio) PHELGINATI C(aii) L(iberto)<br />

PHAMPHILO VIRO SUO<br />

Traduzione<br />

Fadena Lais, liberta di Caio, per sé e per i suoi e per<br />

Caio Felginate Panfilo, liberto di Caio, suo marito.<br />

Le parole nell’epigrafe sono divise da un<br />

punto di forma rotonda, molto usuale nell’epigrafia<br />

latina 90 .<br />

SALTERNUM<br />

- 24 -<br />

La traduzione <strong>del</strong>l’epigrafe non pone problemi.<br />

Nella prima riga è menzionata una liberta,<br />

Fadena Lais che costruisce un sepolcro per sé,<br />

per i suoi e per suo marito C. Phelginas<br />

Pamphilus, anch’egli un liberto.<br />

Lais, il cognomen di Fadena, deriva dalla lingua<br />

greca ed era proprio <strong>del</strong>le etere 91 ; dalla lingua<br />

greca derivano anche il gentilizio<br />

Phelginas 92 ed il cognomen Pamphilus <strong>del</strong> marito<br />

di Fadena Lais 93 .<br />

Per il formulario e l’onomastica dei personaggi<br />

riportati nell’epigrafe, questa potrebbe essere<br />

datata nel I sec. d.C. La datazione inoltre potrebbe<br />

essere confermata anche dal modo di rendere<br />

la lettera I <strong>del</strong>la parola SVIS nel secondo rigo,<br />

essendo questa più lunga rispetto alle altre,<br />

fenomeno abbastanza frequente nelle epigrafi<br />

che datano tra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C. 94<br />

Tenendo presente le trascrizioni e le traduzioni<br />

proposte, diciotto quindi sono i personaggi<br />

<strong>del</strong>la gens Fadena attestati a Roma, nella<br />

Regio IV e nella Regio V ed in particolare undici<br />

nella Regio IV, sei nella Regio V ed uno a Roma<br />

(Fadena Lais).<br />

Per quanto riguarda più precisamente le città<br />

antiche <strong>del</strong>la Regio IV e nella Regio V dove i personaggi<br />

<strong>del</strong>la gens Fadena erano presenti,<br />

abbiamo il seguente schema:<br />

REGIO IV:<br />

1) Foruli:<br />

CIL IX 4408:<br />

1.1) C. Fadenus<br />

1.2) Fadena<br />

1.3) Q. Fadenus<br />

2) Nursia ed Ager Nursinus:<br />

CIL IX 4550 = AE, 1950, n. 89; 1989, n. 204;<br />

1996, n. 529 a-f ; Suppl. It. XIII, n. 19.<br />

2.1) C. Fadenus Bassus (probabilmente si<br />

tratta <strong>del</strong>lo stesso C. Fadenus Bassus riportato in<br />

CIL IX 4594)<br />

2.2) Q. Fadenus<br />

2.3) Fadena Maxima<br />

CIL IX 4627:<br />

2.4) T. Fadenus


2.5) L. Fadenus<br />

Sordini 1893, pp. 378-379, n. 35:<br />

2.6) Fadena Semelinis<br />

Sordini 1893, p. 381, n. 46:<br />

2.7) C.Fadenus<br />

2.8) C.Fadenus Fortunatus<br />

REGIO V:<br />

3) Interamna Praettutorium:<br />

CIL IX 5104.<br />

3.1) P. Fadenus Bassus<br />

3.2) Fadena<br />

3.3) Fadena<br />

3.4) Sp. Fadenus<br />

4) Pasulae:<br />

CIL IX 5796.<br />

4.1) C. Fadenus Secundinus<br />

4.2) Fadenus Epictetus<br />

Le epigrafi qui analizzate confermano la tesi<br />

<strong>del</strong> Camodeca sull’origine nursina <strong>del</strong>la gens<br />

Fadena.<br />

La gens Fadena forse non doveva essere una<br />

gens molto antica poiché, come si è visto, le epigrafi<br />

che attestano i suoi esponenti si datano a<br />

partire dalla fine <strong>del</strong> I sec. a.C.; inoltre si tratta<br />

di una gens appartenente all’aristocrazia locale, i<br />

cui esponenti principali furono probabilmente<br />

quelli riportati in CIL IX 4550, cioè C. Fadenus<br />

Bassus e suo padre Q. Fadenus, i quali avevano<br />

ricoperto importanti cariche amministrative a<br />

Nursia.<br />

Forse all’interno <strong>del</strong>la gens Fadena, i suddetti<br />

personaggi furono gli unici a ricoprire cariche<br />

importanti, poiché degli altri esponenti di questa<br />

gens attestati nelle epigrafi esaminate sono ricordati<br />

solo i lori nomi senza il cursus honorum,<br />

cosa che ci testimonia che essi probabilmente<br />

non dovettero ricoprire alcuna carica.<br />

Anche se non si tratta di una gens numerosa,<br />

molti però dovettero essere i suoi liberti e quindi<br />

si presuppone che i Fadeni dovettero avere<br />

molti interessi economici nei quali i loro liberti<br />

erano coinvolti.<br />

Inoltre, gli esponenti di questa gens non<br />

dovettero avere rapporti con gentes i cui espo-<br />

VINCENZA IORIO<br />

- 25 -<br />

nenti ricoprirono importanti cariche nel mondo<br />

romano poiché, come si è visto dall’analisi <strong>del</strong>le<br />

epigrafi, questi contrassero matrimoni con esponenti<br />

di gentes poco attestate nell’onomastica<br />

romana, come la gens Seiena 95 , la gens<br />

Petillena 96 , la gens Feronia 97 e la gens<br />

Phelginas 98 , mentre in un solo caso il matrimonio<br />

fu contratto con un personaggio appartenente<br />

ad una gens importante <strong>del</strong> mondo romano<br />

e cioè la gens Iulia 99 .<br />

Dall’Italia centrale, la gens Fadena si spostò<br />

poi in quella settentrionale e probabilmente lì<br />

cambiò leggermente il proprio gentilizio che da<br />

Fadenus diventò Fadienus; si tratta comunque<br />

di un cambiamento linguistico ben attestato nell’onomastica<br />

romana 100 .<br />

Non sappiamo però perché avvenne questo<br />

cambiamento, forse per meglio adattare la pronuncia<br />

<strong>del</strong> loro gentilizio alla fonetica <strong>del</strong>l’idioma<br />

parlato nell’area dove la gens Fadena si trasferì.<br />

Per quanto riguarda poi l’area <strong>del</strong>l’Italia settentrionale<br />

dove la gens Fadena si trasferì, lo<br />

Scarano Ussani ipotizza che sia quella <strong>del</strong>l’Italia<br />

nord-occidentale 101 , dove quindi il suo gentilizio<br />

diventò Fadienus, poiché in questa area sono<br />

attestati esponenti di questa gens databili non<br />

anteriormente all’età augustea.<br />

In particolare si tratta di esponenti attestati a<br />

Placentia 102 , ad Augusta Taurinorum 103 , a San<br />

Massimo di Collegno (TO), un vicus <strong>del</strong>la stessa<br />

Augusta Taurinorum 104 , mentre da Dertona (l’attuale<br />

Tortona), proveniva un esponente di questa<br />

gens, ricordato in un’epigrafe rinvenuta a<br />

Iader, l’attuale Zara 105 .<br />

La gens Fadiena è attestata comunque anche<br />

nell’Italia nord-orientale, ed in particolare nel<br />

Polesine, poiché suoi esponenti sono presenti a<br />

Stienta (RO), quindi sempre nell’area <strong>del</strong> <strong>del</strong>ta<br />

padano 106 .<br />

Dall’Italia nord-occidentale, i Fadieni si<br />

sarebbero quindi spostati verso quella nordorientale<br />

ed in particolare nella zona tra Stienta<br />

e Gambulaga di Portomaggiore (FE), dove è<br />

stato rinvenuto quello che fino ad ora è il loro<br />

maggiore sepolcreto.<br />

Per quanto riguarda l’epoca in cui avvenne il<br />

trasferimento di esponenti <strong>del</strong>la gens Fadena


dall’Italia centrale a quella settentrionale, questa<br />

deve essere posta prima <strong>del</strong>l’età augustea poiché,<br />

come si è detto, le epigrafi rinvenute nell’Italia<br />

settentrionale relative alla gens Fadiena, si datano<br />

non anteriormente a questa età.<br />

Non tutta però la gens Fadena lasciò l’Italia<br />

centrale poiché, come si è visto dall’analisi <strong>del</strong>le<br />

epigrafi, l’attestazione dei suoi esponenti in que-<br />

NOTE<br />

1 Con quest’articolo si dà inizio ad uno studio relativo alle<br />

attestazioni <strong>del</strong>la gens Falena, <strong>del</strong>la gens Fadiena e <strong>del</strong>la<br />

gens Fadia nel mondo romano.<br />

2 SOLIN – SALOMIES 1994, p. 76; CAMODECA 2006, p. 21.<br />

3 Cor<strong>del</strong>la – CRINITI 1988, p. 54.<br />

4 SOLIN – SALOMIES 1994, p. 76.<br />

5 BERTI 2006.<br />

6 Personaggi <strong>del</strong>la gens Fadiena e Fadena non sono infatti<br />

presenti nella prima edizione <strong>del</strong>la Prosopographia Imperii<br />

Romani: l’eventuale presenza dei loro gentilizi avrebbe<br />

dovuto essere riportata nel primo volume, dove sono raccolti<br />

tutti i personaggi compresi tra la lettera A e la lettera<br />

L, ed in particolare dopo Fabulla e prima di L. Fadius<br />

Gallus (cfr. PIR, 1897, p. 54). Tale mancanza si nota anche<br />

nella editio altera <strong>del</strong>la Prosopographia Imperii Romani,<br />

nella quale gli eventuali suddetti gentilizi avrebbe dovuto<br />

essere riportati nel quinto volume, dove sono raccolti tutti<br />

i personaggi compresi tra la lettera D e la lettera F, ed in<br />

particolare dopo Fabullus e prima di Fadilla (cfr. PIR,<br />

1943, p. 115).<br />

7 BERTI 1984, pp. 79-201; 2006, pp. 1-3.<br />

8 CORNELIO CASSAI 1997, pp. 33-65; DESANTIS 1997, pp. 15-31;<br />

BERTI 2006, pp. 3-4.<br />

9 CORNELIO CASSAI 1988, pp. 219-235; BERTI 2006, p. 4.<br />

10 DE DONNO 2006, pp. 49-54; NEGRELLI 2006, pp. 55-68.<br />

11 CAMODECA 2006, pp. 21-28.<br />

12 Plinio il Vecchio (PLIN. N. H., III, 12) riporta che nella<br />

Regio IV abitavano le seguenti etnie: Aequiculani,<br />

Albenses, Frentani, Marrucini, Marsi, Paeligni, Sabini,<br />

Samnites e Vestini.<br />

13 Plinio il Vecchio (PLIN. N. H., III, 12) riporta che nella<br />

Regio V abitavano le seguenti etnie: Piceni e Praetutii.<br />

14 Augusto divise quella che allora era considerata Italia in<br />

10 regiones (cfr. LO CASCIO, 1991, pp. 131-133).<br />

15 Il IX volume <strong>del</strong> Corpus Inscriptionum Latinarum fu<br />

edito a cura di T. MOMMSEN nel 1883.<br />

16 In questa sede si prendono in considerazione solo epigrafi<br />

nelle quali la lettura <strong>del</strong> gentilizio Fadenus è sicura, per<br />

cui non si esamina l’iscrizione CIL IX 3374, proveniente<br />

dalla Regio IV, nella quale sono riportate le lettere FAD che<br />

potrebbero appartenere al gentilizio Fadenus ma potrebbero<br />

appartenere anche al gentilizio Fadius, quest’ultimo ben<br />

SALTERNUM<br />

- 26 -<br />

sta area è databile fino al II sec. d.C.<br />

È auspicabile quindi il prosieguo degli scavi<br />

nel territorio <strong>del</strong> <strong>del</strong>ta <strong>del</strong> Po, poiché questi<br />

potrebbero offrirci ulteriori informazioni su una<br />

gens che dall’Italia centrale si spostò in quella<br />

settentrionale partecipando così a quell’importante<br />

fenomeno che fu la romanizzazione <strong>del</strong>le<br />

zone <strong>del</strong>l’Italia settentrionale.<br />

attestato (cfr. SOLIN – SALOMIES, 1994, p. 76). Per lo stesso<br />

motivo non si esamina l’iscrizione riportata in CORDELLA –<br />

CRINITI 1982, p. 65, nella quale la lettura sicura riguarda<br />

solo le lettere EN precedute da un’altra lettera che potrebbe<br />

essere D e quindi si potrebbe leggere [Fa]den[us]; l’esiguità<br />

<strong>del</strong>le lettere però non permette alcuna certezza.<br />

17 LIV. XVI 11, 11; XXVI, 12; SIL ITAL. VIII 415; STRABO V, 228;<br />

VERG. AEN. VII 714.<br />

18 Per una bibliografia su Foruli, cfr. MAU, s.v. Foruli, c. 55.<br />

19 CALABI LIMENTANI 1985, p. 157.<br />

20 CALABI LIMENTANI 1985, p. 149.<br />

21 SOLIN – SALOMIES 1994, p. 166.<br />

22 CALABI LIMENTANI 1985, p. 156.<br />

23 DIO XLVIII 13; PLIN. N. H. III 12; PLUT. SERT. II; PTOL. III 1,<br />

55; SERV. AD AEN. VII 715; SIL ITAL. VIII 418.<br />

24 Per una bibliografia su Nursia (Norcia), cfr. CIOTTI, s.v.<br />

Norcia, p. 544; Manconi, s.v. Norcia, pp. 42-44; PHILIPP, s.v.<br />

Nursia, cc. 1489-1490.<br />

25 CALABI LIMENTANI 1985, p. 149.<br />

26 Suppl. It. XIII 19.<br />

27 SOLIN – SALOMIES 1994, p. 142.<br />

28 CORDELLA – CRINITI 1982, p. 60; 1988, p. 54.<br />

29 KAJANTO 1982, p. 244.<br />

30 KAJANTO 1982, p. 275.<br />

31 CALABI LIMENTANI 1985, p. 149.<br />

32 CALABI LIMENTANI 1985, p. 202.<br />

33 CALABI LIMENTANI 1985, p. 202.<br />

34 SOLIN 1996, pp. 149-150.<br />

35 KAJANTO 1982, p. 292.<br />

36 SOLIN 1996, p. 656.<br />

37 CIOTTI, s.v. Cascia, pp. 400-401.<br />

38 CORDELLA – CRINITI 1988, p. 134.<br />

39 Cfr. 1a Trascrizione.<br />

40 Cfr. 2a Trascrizione.<br />

41 SORDINI 1893, pp. 381, n. 42<br />

42 CALABI LIMENTANI 1985, p. 149.<br />

43 SOLIN – SALOMIES 1994, p. 311.<br />

44 SOLIN – SALOMIES 1994, pp. 76-77.<br />

45 Come si è detto, è un segno molto usato nell’epigrafia latina<br />

per dividere le parole (cfr. CALABI LIMENTANI, 1985, p. 149).<br />

46 È questo il caso, ad esempio, di gentilizi come<br />

Abrupaternius, Blaesidienus, Cabdollonius, Demincilonius,<br />

Fagifulanius, Gallatronius, Haldauvonius, Instumennius,


Lacutulanius, Maetilianus, Navicularius, Ocbrotsinius,<br />

Pescennedius, Quintilianus, Rucletianius, Sallustucius,<br />

Taemulentius, Venicotenius, ecc…, cfr. SOLIN – SALOMIES<br />

1994, pp. 3, 35, 39, 67, 76, 85, 90, 97, 100, 110, 125, 130,<br />

141, 153, 157, 161, 180, 201.<br />

47 TLL, s.v. aerarium, cc. 1055-1059.<br />

48 È questo il caso, ad esempio, di gentilizi come Abbius,<br />

Babius, Cacius, Damius, Eienus, Fabius, Gabius, Halinus,<br />

Ialius, Labius, Maccus, Nacius, Occius, Pacius, Rabius,<br />

Sabius, Tadius, Ubcius, Vabius ecc…, cfr. SOLIN – SALOMIES<br />

1994, pp. 3, 30, 39, 66, 76, 90, 95, 100, 109, 124, 130, 135,<br />

153, 159, 180, 193, 196.<br />

49 SORDINI 1893, pp. 378-379, n. 35<br />

50 CALABI LIMENTANI 1985, p. 149.<br />

51 Cfr. 1a Trascrizione.<br />

52 Cfr. 2a Trascrizione.<br />

53 Cfr. 1a Trascrizione.<br />

54 Cfr. 2a Trascrizione.<br />

55 Cfr. 1a Trascrizione.<br />

56 Cfr. 2a Trascrizione.<br />

57 LE BOHEC 1990, pp. 20, 47, 59, 66, 104, 132, 203-204, 210,<br />

238; TLL, s.v. cohors, cc. 1549-1559; s.v. praetorianus – a -<br />

um, cc. 1066-1067.<br />

58 LE BOHEC 1990, pp. 44-45, 49-51, 53-55, 57, 119; TLL, s.v.<br />

optio, cc. 823-824.<br />

59 Il sostantivo carcar riportato nell’epigrafe è una variante<br />

di carcer, cfr. TLL, s.v. carcar, cc. 433-438.<br />

60 LE BOHEC 1990, pp. 23, 59, 66, 105, 131; BARTOCCINI, s.v.<br />

Equites singulares, pp. 2144-2153.<br />

61 SOLIN – SALOMIES 1994, p. 199.<br />

62 SOLIN – SALOMIES 1994, p. 98.<br />

63 KAJANTO 1982, p. 250.<br />

64 KAJANTO 1982, p. 292.<br />

65 SOLIN 1996, pp. 149-150.<br />

66 CALABI LIMENTANI 1985, p. 161.<br />

67 PARIBENI, s.v. Semele, pp. 189-190.<br />

68 SOLIN 2003, p. 604.<br />

69 SORDINI 1893, p. 381, n. 46.<br />

70 CALABI LIMENTANI 1985, p. 149.<br />

71 Sulla presenza <strong>del</strong>la formula D. M. nelle iscrizioni sepolcrali,<br />

cfr. CALABI LIMENTANI 1985, p. 202.<br />

72 KAJANTO 1982, p. 273.<br />

73 FRONT. p. 18; PTOL. III 1, 58.<br />

74 LA REGINA, s.v. Teramo, pp. 712-713; PHILIPP, s.v.<br />

Interamnia, cc. 1602-1603; SOMMELLA, s.v. Teramo, pp. 665-<br />

666.<br />

75 CALABI LIMENTANI 1985, p. 149.<br />

76 CALABI LIMENTANI 1985, p. 161.<br />

VINCENZA IORIO<br />

- 27 -<br />

77<br />

SOLIN – SALOMIES 1994, pp. 76-77.<br />

78<br />

SOLIN – SALOMIES 1994, p. 78.<br />

79 CIL IX 5140.<br />

80<br />

AEBISCHER, 1934, pp. 5-23.<br />

81 Cfr. 1a Trascrizione.<br />

82 Cfr. 2a Trascrizione.<br />

83<br />

SOLIN 2003, p. 361.<br />

84<br />

PLIN. N. H. III 13, 111.<br />

85<br />

ALFIERI, s.v. Pausulae, p. 998; BANTI, s.v. Pausulae, cc.<br />

2426-2428.<br />

86<br />

CALABI LIMENTANI 1985, p. 149.<br />

87<br />

KAJANTO 1982, p. 292.<br />

88 TLG, s.v. piktëtoß, c. 1660.<br />

89 CALABI LIMENTANI 1985, p. 156.<br />

90 CALABI LIMENTANI 1985, p. 149.<br />

91 SOLIN, 2003, pp. 274, 1451.<br />

92 SOLIN – SALOMIES 1994, p. 162.<br />

93 SOLIN 2003, pp. 134.<br />

94 CALABI LIMENTANI 1985, p. 148.<br />

95 CIL IX 4408.<br />

96 CIL IX 4550= AE, 1950, n. 89; 1989, n. 204; 1996, n. 529<br />

a-f ; Suppl. It. XIII, n. 19.<br />

97 CIL IX 5104.<br />

98 CIL VI 17647.<br />

99 SORDINI 1893, pp. 378-379, n. 35.<br />

100 È questo il caso, ad esempio, di gentes come la Aberrinia<br />

e la Aberrina, la Babrenia e la Babrena, la Caecinia e la<br />

Caecina, la Dativia e la Dativa, la Eitia e la Eita, la<br />

Faiania e la Faiana, la Gabinia e la Gabina, la Helenia e<br />

la Helena, la Iassia e la Iassa, la Labenia e la Labena, la<br />

Maccia e la Macca, la Naeriania e la Naeriana, la<br />

Octavenia e la Octavena, la Pacenia e la Pacena, la<br />

Quintinia e la Quintina, la Raiania e la Raiana, la Sabellia<br />

e la Sabella, la Tamsinia e la Tamsina, la Ultenia e la<br />

Ultena, la Vagellania e la Vagellana, ecc…, cfr. SOLIN –<br />

SALOMIES 1994, pp. 3, 30, 39, 67, 72, 76, 84, 91, 95, 99, 109,<br />

124, 130, 135, 153, 159, 181, 194, 196.<br />

101 SCARANO USSANI 2006, pp. 29-40. L’area <strong>del</strong>l’Italia nordoccidentale<br />

per la provenienza dei Fadieni <strong>del</strong>la necropoli<br />

di Gambulaga potrebbe essere confermata anche da una<br />

parte <strong>del</strong> vasellame da mensa vitreo rinvenuto nelle tombe<br />

(cfr. MARCHIONI 2006, p. 150).<br />

102 CIL XI 1217.<br />

103 CIL V 7002.<br />

104 CRESCI MARRONE – CULASSO GASTALDI 1984, pp. 170-172.<br />

105 CIL III 2915.<br />

106 CIL V 2469.


SALTERNUM<br />

ABBREVIAZIONI<br />

AE: Année Épigraphique.<br />

EAA: Enciclopedia <strong>del</strong>l’Arte Antica.<br />

RE: Real-Encyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft, PIR 1897: Prosopographia Imperii Romani saec. I.II.III, I,<br />

Berolini, 1897.<br />

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BIBLIOGRAFIA<br />

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Banti, s.v. Pausulae: L. Banti, “Pausulae”, in RE, XVIII, 4, cc.<br />

2426-2428.<br />

Bartoccini, s.v. Equites Singulares: R. Barroccini, “Equites<br />

Singulares”, in E. De Ruggiero (a cura di), Dizionario<br />

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2153.<br />

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BERTI 1997: F. Berti (a cura di), Percorsi di archeologia,<br />

Migliarino, 1997.<br />

BERTI 2006: F. Berti (a cura di), Mors inmatura. I Fadieni e il<br />

loro sepolcro, Firenze, 2006.<br />

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romana nel territorio di Ferrara”, in Berti 2006, pp. 1-8.<br />

Calabi Limentani 1985: I. Calabi Limentani Epigrafia latina,<br />

Milano-Varese, 1985.<br />

Camodeca 2006: G. Camodeca, “Le iscrizioni funerarie dei<br />

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Ciotti, s.v. Cascia: U. Ciotti, “Cascia”, in EAA, II, pp. 400-401.<br />

Ciotti, s.v. Norcia: U. Ciotti, “Norcia”, in EAA, V, p. 544.<br />

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di Norcia e dintorni, Spoleto, 1982.<br />

Cor<strong>del</strong>la – Criniti 1988: R. Cor<strong>del</strong>la – N. Criniti, Nuove iscrizioni<br />

latine di Norcia, Cascia e Valnerina, Spoleto, 1988.<br />

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Bondeno ed il suo territorio dalle origini al Rinascimento,<br />

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Cornelio Cassai 1997: C. Cornelio Cassai, “1955-1995: la necropoli<br />

romana <strong>del</strong>la Vallona di Ostellato a quarant’anni dal ritrovamento”,<br />

in Berti 1997, pp. 33-65.<br />

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E. Culasso Gastaldi, “Epigraphica Subalpina (S. Massimo di<br />

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LXXXII, 1984, pp. 166-174.<br />

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Verginee (Gambulaga): da un rinvenimento fortuito a una<br />

prima indagine archeologica. La campagna di scavo 2002”, in<br />

Berti 2006, pp. 49-54.<br />

Desantis 1997: P. Desantis, “Per una carta archeologica <strong>del</strong><br />

territorio di Ostellato: appunti preliminari”, in Berti 1997,<br />

pp. 15-31.<br />

- 28 -<br />

Kajanto 1965: I. Kajanto, The Latin Cognomina, Roma, 1982.<br />

La Regina, s.v. Teramo: A. La Regina, “Teramo”, in EAA, VII,<br />

pp. 712-713.<br />

Le Bohec 1990: Y. Le Bohec, L’Armée Romaine, Paris, 1990.<br />

Lo Cascio 1991: E. Lo Cascio, “Le tecniche <strong>del</strong>l’amministrazione”,<br />

in AA. VV., Storia di Roma, II, Torino, 1991, pp. 116-<br />

192.<br />

Manconi, s.v. Norcia: D. Manconi, “Norcia”, in EAA, Secondo<br />

Supplemento, IV, pp. 42-44.<br />

Marchioni 2006: M. Marchioni, “I vetri”, in Berti 2006, pp.<br />

147-158<br />

Mau, s.v. Foruli: A. Mau, “Foruli”, in RE, VII, 1-2, c. 55.<br />

Negrelli 2006: C. Negrelli, “Lo scavo: campagna 2005”, in<br />

Berti 2006, pp. 55-68.<br />

Paribeni, s.v. Semele: E. Paribeni, “Semele”, in EAA, VII, pp.<br />

189-190.<br />

Philipp, s.v. Interamnia: H. Philipp, “Interamnia”, in RE, IX,<br />

1-2, cc. 1602-1603.<br />

Philipp, s.v. Nursia: H. Philipp, “Nursia”, in RE, XVII, 2, cc.<br />

1489-1490.<br />

Scarano Ussari 2006: V. Scarano Ussari, “I Fadieni nel <strong>del</strong>ta<br />

padano”, in Berti 2006, pp. 29-40.<br />

Solin, 1996: H. Solin, Die Stadtrömischen Sklavennaman.<br />

Ein Namenbuch, Stuttgart, 1996.<br />

Solin 2003: H. Solin, Die Griechischen Personennamen in<br />

Rom. Ein Namenbuch, Berlin – New York, 2003.<br />

Solin – Salomies 1994: H. Solin – O. Salomies, Repertorium<br />

nominum gentilium et cognominum Latinorum, Hildesheim<br />

– Zürich – New York, 1994.<br />

Sommella, s.v. Teramo: P. Sommella, “Teramo”, in EAA,<br />

Secondo Supplemento, V, pp. 665-666.<br />

Sordini 1893: G. Sordini, “Cascia – Notizie intorno alle scoperte<br />

di antichità avvenute in Cascia, ed iscrizioni antiche<br />

trovate in Cascia e nel suo territorio”, Notizie degli Scavi di<br />

Antichità, 1893, pp. 362-383.<br />

TLG, s.v. piktëtoß: Thesaurus Linguae Graecae, s.v. piktëtoß,<br />

III, c. 1660.<br />

TLL, s.v. aerarium: Thesaurus Linguae Latinae, s.v. aerarium,<br />

I, cc. 1055-1059.<br />

TLL, s.v. carcar: Thesaurus Linguae Latinae, s.v. carcar, III,<br />

cc. 433-438.<br />

TLL, s.v. cohors: Thesaurus Linguae Latinae, s.v. cohors, III,<br />

cc. 1549-1559.<br />

TLL, s.v. optio: Thesaurus Linguae Latinae, s.v. optio, IX.II,<br />

cc. 823-824.<br />

TLL, s.v. praetorianus: Thesaurus Linguae Latinae, s.v. praetorianus<br />

– a - um, X.II, cc. 1066-1067.


Quella <strong>del</strong> titolo è un’espressione in cui<br />

anche coloro che hanno una conoscenza non<br />

molto profonda <strong>del</strong>la civiltà e <strong>del</strong>la cultura<br />

romana avvertono tutto l’orgoglio dei cives, i<br />

cittadini, di sentirsi parte di Roma, membri di<br />

quella società di uomini liberi che costituiscono<br />

la res publica. Un’espressione questa che<br />

sostanzialmente ha il significato <strong>del</strong>la convergenza<br />

degli interessi <strong>del</strong>l’intera collettività attraverso<br />

quelli di tutti i singoli individui che la<br />

compongono. Il perseguimento e la difesa di<br />

questi comportano un insieme di diritti e di<br />

doveri commisurati al peso sociale <strong>del</strong>l’individuo.<br />

Colui che dispone di mezzi più consistenti<br />

e che ottiene o può ottenere, per nascita o<br />

per censo, onori più elevati ha per contropartita<br />

doveri maggiori e più onerosi. E’ il principio<br />

definito <strong>del</strong>la “uguaglianza geometrica” differente<br />

da quello <strong>del</strong>la “uguaglianza aritmetica”,<br />

al quale noi siamo abituati, in cui i diritti ed i<br />

doveri sono gli stessi per tutti. Non c’interessa<br />

qui discutere <strong>del</strong>la bontà dei due sistemi e di<br />

quale sia il migliore, sta di fatto che quello<br />

adottato a Roma ha funzionato abbastanza<br />

bene fino ai primi decenni <strong>del</strong> I sec. a.C., finchè<br />

onori ed oneri sono rimasti in sostanziale<br />

equilibrio. Nel momento in cui questo si è alterato,<br />

la situazione si è complicata sempre di<br />

più, al punto che, alla fine <strong>del</strong>la Repubblica e<br />

con l’inizio <strong>del</strong>l’Impero, le cose sono cambiate<br />

completamente. Il cittadino non era più quello<br />

che era stato in precedenza, ma solamente un<br />

suddito, talvolta blandito e viziato, ma senza<br />

più alcun peso effettivo nella vita pubblica.<br />

Tuttavia i privilegi fondamentali <strong>del</strong> singolo,<br />

connessi con la cittadinanza, restavano inalterati.<br />

È noto l’episodio di Paolo di Tarso, che,<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

Civis Romanus sum<br />

- 29 -<br />

Alessandro Algardi,<br />

Decapitazione di San Paolo.<br />

San Paolo Maggiore - Bologna.<br />

arrestato perché cristiano, stava per essere sottoposto<br />

a tortura: la sua rivendicazione d’appartenenza<br />

alla cittadinanza romana sospese<br />

ogni procedimento contro di lui; fu condotto a<br />

Roma per essere giudicato e qui, ritenuto colpevole,<br />

fu condannato a morte per decapitazione,<br />

come si conveniva ad un cittadino romano.<br />

Così, fu sottratto alle umiliazioni ed ai tormenti<br />

che normalmente in tali circostanze erano<br />

riservati ai non cittadini. La sua affermazione<br />

comportava ciò che giuridicamente si definiva<br />

provocatio ad Cesarem, evoluzione <strong>del</strong>la provocatio<br />

ad populum, ovvero il diritto <strong>del</strong> cittadino<br />

romano di essere giudicato a Roma dal<br />

popolo romano, che in epoca imperiale era<br />

rappresentato dall’Imperatore, e non da altri<br />

magistrati periferici come invece accadeva ai<br />

“peregrini”, a coloro cioè che cittadini romani<br />

non erano.<br />

Durante la Repubblica dunque i cives, che<br />

fossero senatori o no, intervenivano energicamente<br />

nella vita pubblica, naturalmente sempre<br />

in proporzione al loro peso sociale, mentre<br />

sotto l’Impero quasi tutte le facoltà decisionali<br />

erano rimesse all’Imperatore.


Statua di patrizio<br />

(il cosiddetto “Patrizio Barberini”)<br />

che tiene in mano i busti dei suoi<br />

antenati (I secolo a.C.).<br />

Nella Roma repubblicana ogni cittadino, tra<br />

quelli che per la loro posizione nella comunità<br />

potevano aspirarvi, era geloso <strong>del</strong> suo diritto di<br />

seguire il cursus honorum, la carriera <strong>del</strong>le cariche<br />

pubbliche che poteva portarlo fino a quella<br />

più elevata e di maggior prestigio, il consolato.<br />

Lungi dal comportare vantaggi di carattere economico,<br />

l’accesso alle magistrature, almeno in<br />

teoria, rappresentava un onore, ma anche un<br />

onere notevole. La consuetudine, soprattutto<br />

nella tarda Repubblica, imponeva a colui che<br />

era stato eletto di offrire ai concittadini spettacoli<br />

circensi, o d’altro genere, quando non addirittura<br />

la costruzione a proprie spese di edifici<br />

pubblici a vantaggio <strong>del</strong>la città. Molti si impegnavano<br />

in attività simili ancora prima di essere<br />

eletti o di presentare la propria candidatura, allo<br />

scopo di guadagnarsi la benevolenza degli elettori,<br />

tanto forte era il desiderio di raggiungere il<br />

prestigio connesso con le magistrature. A questo<br />

proposito si deve ricordare che Cicerone fece<br />

approvare una legge che introdusse, per coloro<br />

che intendevano presentare la propria candidatura<br />

a qualche funzione statale, il divieto di allestire<br />

giochi circensi nei due anni precedenti la<br />

tornata elettorale. Era un tentativo, <strong>del</strong> resto<br />

facilmente aggirabile, di ridurre l’effetto <strong>del</strong>la<br />

disparità economica fra i concorrenti nella competizione<br />

politica.<br />

SALTERNUM<br />

- 30 -<br />

È importante notare che, sia pure con il<br />

secondo fine di acquisire presso i concittadini<br />

dei meriti da sfruttare in un momento successivo<br />

a scopi politici, la sollecitudine e l’impegno<br />

dei Romani nell’abbellire la città con la costruzione<br />

di edifici, portici, basiliche ed altro erano<br />

molto vivi e ciò accadeva non solo a Roma, ma<br />

anche nelle altre località <strong>del</strong>l’Impero di una<br />

certa importanza. Abbiamo molteplici esempi di<br />

restauri di edifici, o di costruzioni ex novo,<br />

finanziate, nel corso degli anni, da personaggi<br />

<strong>del</strong>le varie città soggette a Roma anche se appartenenti<br />

a ceti di non grande rilievo. Se così non<br />

fosse stato non si vedrebbero tante imponenti<br />

rovine ancora presenti ovunque siano arrivate le<br />

aquile romane.<br />

Come si vede, l’esborso di denaro per candidarsi<br />

alle più alte cariche <strong>del</strong>lo stato era particolarmente<br />

oneroso. Infatti, se osserviamo i nomi<br />

dei consoli che si sono succeduti nel periodo<br />

repubblicano, fino alla fine <strong>del</strong> II sec. a.C, vediamo<br />

che appartengono quasi tutti ad un numero<br />

ristretto di gentes, una quindicina. Il seguito di<br />

popolarità e di clientele era conseguenza <strong>del</strong><br />

potere economico <strong>del</strong>la famiglia cui apparteneva<br />

l’aspirante magistrato.<br />

L’impegno richiesto dalle funzioni pubbliche<br />

era gravoso. Marco Terenzio Varrone, reatino,<br />

(116-27 a.C.), personaggio eminente per erudizione,<br />

nella sua opera De Lingua Latina (6.46)<br />

scrive testualmente: curare a cura dictum. Cura<br />

quod cor urat. (Curare si dice da cura. Cura perché<br />

brucia il cuore). Da questo stesso etimo fa<br />

derivare anche Curia. È noto che le etimologie<br />

varroniane sono piuttosto bizzarre e fantasiose e<br />

perciò il più <strong>del</strong>le volte non possono essere<br />

prese per buone, nondimeno la spiegazione fornita<br />

dallo studioso latino, pure se errata, è idonea<br />

a darci un’idea <strong>del</strong>l’impegno, anche emotivo,<br />

che i cives mettevano nello svolgimento dei<br />

compiti connessi con l’attività di magistrato e<br />

con le responsabilità che ne derivavano e quali<br />

preoccupazioni avessero di ben figurare di fronte<br />

ai concittadini. Lo stesso concetto, con le stesse<br />

parole, è ripetuto, più di due secoli dopo, da<br />

Sesto Pompeo Festo, che evidentemente segue<br />

Varrone e ne ritiene valida la spiegazione, nel<br />

suo lavoro De Verborum Significatu. Non posso-


no esservi dubbi perciò che gli incarichi di governo<br />

fossero molto gravosi e che gli onori avevano<br />

un prezzo molto alto, da pagarsi in termini di attività,<br />

di apprensione e di sforzo costante.<br />

Sarà proprio il peso rilevante <strong>del</strong>le prestazioni<br />

gravanti sugli eletti, unito alla perdita di potere<br />

e conseguentemente d’autorevolezza, che in<br />

epoca imperiale finirà per disamorare sempre di<br />

più strati progressivamente più vasti <strong>del</strong>la popolazione<br />

dall’impegnarsi nel cursus honorum.<br />

Divenire tribuno, console o altro significava<br />

solamente impegnare il proprio nome in una<br />

carica che era diventata priva di valore effettivo,<br />

mentre le spese connesse con la funzione o,<br />

meglio, con la non funzione, restavano sempre<br />

molto rilevanti. In proposito vale la pena ricordare<br />

l’acuta osservazione che fece, intorno al<br />

1780, lo storico inglese Edward Gibbon: “Il consolato<br />

in età repubblicana fu una realtà, con<br />

Augusto divenne un’ombra, con Diocleziano un<br />

nome”. Ma fino a quando le cariche pubbliche<br />

avevano avuto un vero valore, la gara si faceva<br />

accanita e i concorrenti si adoperavano in ogni<br />

modo per ottenere la vittoria, ricorrendo spesso<br />

anche a mezzi che stavano ai limiti <strong>del</strong>la legalità,<br />

e qualche volta anche superandola, tanto era<br />

il desiderio di emergere e di ottenere quegli<br />

onori e quella considerazione che il popolo<br />

romano riconosceva ai suoi magistrati.<br />

È stata ventilata l’ipotesi, forse non <strong>del</strong> tutto<br />

peregrina, che il Senato, al fine di distruggere<br />

Cesare, comprendendo di non averne la forza<br />

né il coraggio, gli abbia consapevolmente riversato<br />

addosso una montagna d’onori al fine di stimolare<br />

contro di lui il sospetto e soprattutto la<br />

gelosia e l’invidia di tutti coloro che, a torto o a<br />

ragione, ritenevano di esserne stati defraudati.<br />

Una maligna, sottile astuzia che non poteva<br />

suscitare il risentimento <strong>del</strong> destinatario di siffatte<br />

attenzioni, ma che doveva inesorabilmente<br />

portarlo alla rovina 1 .<br />

A ben vedere, gelosie e sospetti si accompagnano<br />

sistematicamente nelle società connotate<br />

da un forte sentimento di libertà a quelle personalità<br />

che, pur meritevoli, emergono eccessivamente<br />

al di sopra <strong>del</strong>la massa dei concittadini; in<br />

altri termini: va bene buoni e bravi, ma non<br />

troppo.<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 31 -<br />

Rilievo che raffigura la cavalcata dei giovani (dall’Austria).<br />

Busto d’argento<br />

raffigurante un<br />

patrizio (da<br />

Vaison-Francia).<br />

Prima di Cesare aveva fatto l’esperienza di<br />

questi sentimenti Scipione l’Africano, costretto a<br />

lasciare Roma in un volontario semiesilio al fine<br />

di placare la tempesta che Catone, forse per<br />

dispetto, si era caparbiamente impegnato ad<br />

addensare su di lui e su suo fratello Lucio, ventilando<br />

il dubbio che avessero tenuto per sé una<br />

parte <strong>del</strong> denaro riscosso come contributo risarcitorio<br />

da Antioco. Catone riuscì, in ogni modo, ad<br />

ottenere che Lucio Scipione Asiatico, fratello<br />

<strong>del</strong>l’Africano, che nel frattempo era deceduto<br />

(183 a.C.), fosse radiato dalla lista dei cavalieri. Il<br />

livore nutrito da Catone non doveva essere sfuggito<br />

ai contemporanei e il ricordo di quegli avvenimenti<br />

persistette nel tempo. Infatti, circa tre<br />

secoli dopo, Plutarco, nella vita di M. Catone,<br />

commentava: “Sembrò averlo fatto in spregio alla<br />

memoria di Scipione Africano”.


Un console sul carro circondato da quattro cavalieri; pannello dalla<br />

basilica di Giunio Basso (331 d.C. ca.) Roma.<br />

Eppure l’integrità di colui che aveva salvato<br />

Roma, sconfiggendo Annibale a Zama, era ben<br />

al di sopra di ogni sospetto. Riflettendo su questo<br />

comportamento che getta un’ombra poco<br />

edificante sulla figura di M. Porcio Catone, si è<br />

detto: “Forse obbediva ad un senso vivo <strong>del</strong><br />

dovere, ma non è escluso che tale nobile sentimento<br />

<strong>del</strong>l’homo novus fosse esasperato dalla<br />

gelosia contadinesca verso chi apparteneva ad<br />

illustri casate patrizie.” 2 . Ma ancora in precedenza<br />

era accaduto a Furio Camillo, colui che aveva<br />

conquistato Veio, di essere accusato di aver<br />

tenuto per sé una parte <strong>del</strong> bottino. Tutto questo<br />

non avveniva solo a Roma; pensiamo a ciò<br />

che accadde a coloro che ebbero il merito di salvare<br />

la Grecia dall’invasore persiano: Temistocle<br />

fu costretto a riparare in esilio proprio presso<br />

quei Persiani che aveva così aspramente combattuto<br />

e vinto. Pausania, il generale spartano<br />

che aveva sbaragliato e distrutto l’esercito nemico<br />

a Platea, fu accusato di tradimento e fatto<br />

morire. Gli scavi archeologici ci hanno restituito<br />

degli óstraka (frammenti di coccio) recanti<br />

graffito il nome di Aristide, esiliato con quella<br />

procedura che è ricordata appunto con il nome<br />

di “ostracismo”, perché aveva il “difetto” di essere<br />

troppo giusto e onesto. Certamente la libertà<br />

è bella, ma anche pericolosa; Leonida in<br />

fondo poteva dirsi fortunato per non avere<br />

dovuto fare l’esperienza <strong>del</strong>l’ingratitudine dei<br />

concittadini. Nil de mortuis nisi bonum (dei<br />

morti si dice solo bene).<br />

Parrebbe che a Roma, così come ad Atene, si<br />

sia attuato uno sforzo collettivo e costante per<br />

SALTERNUM<br />

- 32 -<br />

impedire che qualcuno arrivasse ad emergere<br />

eccessivamente sopra la massa degli altri. Ed<br />

invero quando ciò accadde fu la fine <strong>del</strong>la<br />

Repubblica. Non è un caso che il grande storico<br />

<strong>del</strong>la Roma antica, Teodoro Mommsen, ponga la<br />

nascita <strong>del</strong>la monarchia non dopo le battaglie di<br />

Farsalo e di Tapso, “…essa può datare la sua esistenza<br />

dal momento in cui Pompeo e Cesare,<br />

uniti, fondarono il potere autocratico e rovesciarono<br />

la costituzione aristocratica fino allora<br />

vigente” 3 .<br />

La funzione senatoriale era, normalmente, a<br />

vita, fatta salva la decadenza per motivi molto<br />

gravi, ma quelle di console, di edile e tutte le<br />

altre erano di durata annuale; addirittura semestrale<br />

quella, molto rara, di dittatore. Scopo evidente<br />

di questi limiti temporali era di evitare che<br />

un magistrato, con un maggior tempo a disposizione,<br />

potesse crearsi un seguito o addirittura un<br />

potere personale che si estendesse più in là<br />

<strong>del</strong>la durata <strong>del</strong>la magistratura.<br />

Tutto ciò era possibile ovviamente perché<br />

alle origini <strong>del</strong>lo stato repubblicano non si<br />

avvertiva ancora l’esigenza di sviluppare politiche<br />

di così ampio respiro da richiedere dei<br />

tempi che andassero al di là di quelli necessari<br />

all’ordinaria amministrazione. Per la continuità<br />

di un eventuale disegno politico era bastevole<br />

l’azione <strong>del</strong> Senato e l’appartenenza a quel consesso<br />

era a vita.<br />

Essere cittadini romani era la condizione<br />

essenziale per rivestire le cariche pubbliche, per<br />

i sacerdozi maggiori, per servire nell’esercito<br />

anche come semplice legionario. In nome <strong>del</strong>l’uguaglianza<br />

geometrica a cui si è accennato in<br />

precedenza, per queste incombenze si partiva<br />

dall’alto: alle magistrature ed ai sacerdozi più<br />

prestigiosi si accedeva partendo dagli strati<br />

sociali più elevati, ma così si procedeva anche<br />

per la chiamata alle armi. Teoricamente tutti<br />

coloro che godevano <strong>del</strong>la cittadinanza potevano<br />

esercitare il diritto e il dovere di essere soldati,<br />

di essere eletti alle cariche pubbliche o<br />

essere elettori, ma anche in questo caso vigeva<br />

il principio che la precedenza, nel bene e nel<br />

male, doveva essere riservata a coloro che avevano<br />

più da perdere nell’eventualità che non<br />

tutto andasse per il meglio; in fondo erano quel-


li che, sia per dignitas, sia per interesse economico,<br />

erano i più motivati ad impegnarsi al massimo<br />

<strong>del</strong>le loro energie per raggiungere un risultato<br />

che poi sarebbe stato utile all’intera collettività.<br />

Che il peso per il buon funzionamento <strong>del</strong>lo<br />

stato gravasse soprattutto sulle classi più abbienti<br />

è dimostrato dal fatto che, nel corso <strong>del</strong>la<br />

guerra annibalica, fu chiesto ai cittadini di sottoscrivere<br />

un prestito alla res publica, rimborsabile<br />

in tre rate, per fare fronte alle spese belliche.<br />

Nel 204 a.C. il Senato <strong>del</strong>iberò il pagamento<br />

<strong>del</strong>la prima rata <strong>del</strong> prestito. La seconda fu restituita<br />

due anni dopo, ma la terza, che doveva<br />

essere resa dopo cinque anni dalla prima, a<br />

causa <strong>del</strong>la guerra macedonica, scoppiata nel<br />

frattempo, fu liquidata solo nel 196, dopo la battaglia<br />

di Cinocefale. È evidente che l’onere economico<br />

ricadeva sulle classi più abbienti, che<br />

erano anche quelle che avevano potuto sostenere<br />

le finanze statali.<br />

Bisognava avere un patrimonio valutabile<br />

almeno ad un milione di sesterzi per accedere al<br />

Senato e ad almeno quattrocentomila per essere<br />

iscritti nella classe dei Cavalieri; questo era certamente<br />

un privilegio per coloro che potevano<br />

vantare una sostanza cospicua. Per contro,<br />

quando i consoli procedevano alla leva per formare<br />

le legioni che dovevano affrontare qualche<br />

nemico, la scelta degli uomini da arruolare per<br />

la guerra iniziava dai più facoltosi, perciò le classi<br />

meno abbienti erano quasi sempre escluse dai<br />

pericoli <strong>del</strong>la milizia se non in casi assolutamente<br />

eccezionali, così come accadde durante la<br />

guerra annibalica. In quella circostanza vennero<br />

perfino riscattati a spese <strong>del</strong>lo Stato circa ottomila<br />

schiavi che dichiararono la propria disponibilità<br />

ad arruolarsi in difesa di Roma. Ma si trattava<br />

di una situazione di particolare emergenza,<br />

che proprio per questo è rimasta memorabile.<br />

Fu Caio Mario il primo ad accogliere stabilmente<br />

nell’esercito i capite censi a preferenza<br />

<strong>del</strong>le altre classi sociali, con il risultato che quei<br />

soldati, altrimenti nullatenenti, combattevano<br />

più per i loro interessi, il bottino e il soldo, che<br />

per quelli <strong>del</strong>la collettività. In tal modo le legioni<br />

furono da allora in poi legate soprattutto ai<br />

loro generali piuttosto che alla res publica.<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 33 -<br />

L’area di più<br />

arcaica<br />

occupazione <strong>del</strong><br />

Foro, fra la Curia e<br />

le pendici <strong>del</strong><br />

Campidoglio,<br />

prende il nome di<br />

comitium: qui<br />

avevano luogo le<br />

assemblee<br />

cittadine.<br />

L’innovazione mariana dunque risolse dal solo<br />

punto di vista numerico il problema di avere<br />

disponibile per la milizia un numero maggiore<br />

di cittadini, ma ebbe conseguenze devastanti<br />

per lo Stato, perché fu all’origine <strong>del</strong>le guerre<br />

civili e degli scontri tra generali che portarono<br />

alla fine <strong>del</strong>la Repubblica. E gli effetti negativi<br />

continuarono durante l’Impero, crescendo in<br />

modo esponenziale quando gli arruolamenti<br />

compresero sempre meno i cittadini romani e<br />

sempre più uomini dalle origini più disparate,<br />

con la conseguenza di portare al principato elementi<br />

discussi come Eliogabalo o Massimino il<br />

Trace, voluti non dal popolo romano ma dai soldati,<br />

allettati solo dai vantaggi economici che<br />

dall’uno o dall’altro aspirante all’imperio erano<br />

stati promessi. Naturalmente quei soldati, quasi<br />

totalmente privi di ogni senso <strong>del</strong> dovere e di<br />

fe<strong>del</strong>tà alla res publica, non si facevano scrupolo<br />

di massacrare ferocemente quegli stessi personaggi<br />

che avevano precedentemente elevato<br />

alla dignità imperiale qualora non avessero soddisfatto<br />

le aspettative.<br />

È possibile che Caio Mario, uomo di origini<br />

provinciali e assolutamente non nobili, con la<br />

sua innovazione abbia voluto scardinare a proprio<br />

vantaggio la prevalenza <strong>del</strong>la nobiltà nell’organizzazione<br />

statale. Molto difficilmente<br />

sarebbe riuscito in altro modo a divenire console<br />

per ben sette volte, pure se le sue qualità di<br />

generale erano fuori <strong>del</strong> comune.<br />

Anche quando si procedeva all’elezione dei<br />

magistrati cittadini ci si regolava in un modo<br />

molto simile a quello che si adottava per la leva<br />

militare prima <strong>del</strong>la riforma mariana.<br />

La società romana, pur non disponendo di un<br />

esercito permanente, almeno durante il periodo<br />

repubblicano, era strutturata militarmente<br />

appunto perché ogni cittadino era un potenzia-


Dipinto ottocentesco riferito a un episodio verificatosi in senato nel<br />

279 a.C., che vide l’anziano Appio Claudio, ormai cieco, esortare i<br />

senatori a respingere le offerte di pace <strong>del</strong> re epirota Pirro.<br />

le soldato. Tutti i cittadini erano divisi in tribù<br />

che dalle tre originarie (Ramnes, Titii, Luceri)<br />

erano salite nel corso degli anni a trentacinque<br />

di cui quattro urbanae e trentuno rusticae. In<br />

questa veste partecipavano ai Comitia Tributa<br />

per eleggere i magistrati minori (edili, questori,<br />

tribuni militari) ma anche per votare le leggi<br />

proposte dai tribuni (una magistratura che deriva<br />

il proprio nome da tribus). Accanto e al di<br />

sopra di questi esistevano i Comitia centuriata,<br />

di chiara derivazione militare che erano l’assemblea<br />

più importante <strong>del</strong>lo stato romano e che<br />

Cicerone definisce comitiatus maximus.<br />

Quando dovevano riunirsi, la convocazione era<br />

bandita nel Foro, ma le operazioni di voto avvenivano<br />

al di fuori <strong>del</strong> Pomerium. Appare qui<br />

evidente l’origine militare <strong>del</strong>l’istituzione, perché<br />

l’accesso all’interno <strong>del</strong> pomerio (il sacro perimetro<br />

cittadino) era interdetto ai militari in attività<br />

di servizio. Inoltre, in quella circostanza<br />

doveva esporsi sulla rocca <strong>del</strong> Campidoglio il<br />

signum,cioè la bandiera di colore rosso indicante<br />

che le legioni erano in armi. Le centurie furono<br />

stabilite in numero di centonovantatre, di cui<br />

le prime diciotto erano di equites: queste comprendevano<br />

coloro che appartenevano al vecchio<br />

patriziato che nell’esercito militavano col<br />

cavallo fornito dallo stato, equites equo publico,<br />

integrati da plebei che disponessero di un censo<br />

almeno quattro volte superiore a quello occorrente<br />

per essere iscritti nella categoria dei combattenti<br />

a piedi, pedites. Le altre centurie comprendevano<br />

i rimanenti cittadini, suddivisi in<br />

cinque classi patrimoniali che arrivavano fino ai<br />

capite censi, cioè ai liberi privi di patrimonio<br />

censiti solo come individui. Naturalmente le<br />

varie fasi <strong>del</strong>la cerimonia erano accompagnate<br />

SALTERNUM<br />

- 34 -<br />

da riti religiosi che i Romani osservavano scrupolosamente.<br />

Il cerimoniale era anche certamente<br />

differente in base ai motivi di convocazione<br />

dei comitia, se di carattere legislativo,<br />

elettorale o giudiziario. La mentalità spiccatamente<br />

razionale dei Romani li portava a cogliere<br />

quelle differenze, anche sottili, che ad altri<br />

sarebbero sembrate irrilevanti.<br />

La tradizione vuole che i Comitia centuriata<br />

siano stati introdotti nella struttura statale di<br />

Roma da Servio Tullio intorno alla metà <strong>del</strong> VI<br />

secolo a.C. Ciò è possibile, ma naturalmente<br />

non certo. Cicerone, Livio e Dionigi di<br />

Alicarnasso narrano che quel re, quando creò le<br />

centurie, stabilì anche l’ordine in cui dovevano<br />

esprimere il loro voto allorché erano consultate.<br />

Le assemblee di cittadini, e per i Comitia centuriata<br />

e per i Comitia tributa, non potevano<br />

mai convocarsi autonomamente né si riunivano<br />

a date fisse, ma solo quando erano chiamate a<br />

<strong>del</strong>iberare, con un sì o con un no, su un preciso<br />

quesito che doveva essere posto da un magistrato<br />

giuridicamente abilitato a proporlo. Il tutto<br />

era regolato da norme di legge aventi un’origine<br />

sacra che erano intese ad evitare qualsiasi forma<br />

di abuso. Al cittadino non era consentito di decidere<br />

l’argomento su cui <strong>del</strong>iberare; egli poteva<br />

solo accettare o respingere la proposta <strong>del</strong> magistrato<br />

al quale la legge attribuiva la competenza<br />

sulla materia da esaminare.<br />

In ogni caso si votava per tribù o per centurie,<br />

iniziando da quelle che comprendevano le<br />

classi più abbienti per scendere via via a quelle<br />

più povere. Le operazioni di voto s’interrompevano<br />

allorché si era raggiunta la maggioranza<br />

<strong>del</strong>le tribù o <strong>del</strong>le centurie in un senso o in<br />

quello opposto. Cicerone, nella Pro Flacco,<br />

difende il sistema romano di votazione, rilevando<br />

la decadenza <strong>del</strong>la Grecia, che aveva pure<br />

avuto un passato glorioso, causata a suo giudizio,<br />

da «… un solo vizio: la libertà illimitata e la<br />

licenza <strong>del</strong>le sue assemblee. Uomini incompetenti<br />

in tutto, rozzi ed ignoranti, si adunavano nel<br />

teatro, decidevano inutili guerre, assegnavano il<br />

governo a uomini faziosi ed esiliavano i cittadini<br />

che avevano servito al meglio la patria».<br />

È chiaro che in questo sistema il censo aveva<br />

un’importanza fondamentale, perciò ogni cin


que anni avveniva il censimento: tutti coloro che<br />

godevano <strong>del</strong>la cittadinanza dovevano presentarsi<br />

a Roma per dichiarare ufficialmente le loro<br />

sostanze, la composizione <strong>del</strong>la familia (moglie,<br />

figli, servi) ed ogni altra notizia utile alla loro<br />

esatta collocazione nel quadro generale <strong>del</strong><br />

popolo romano. Nel caso che qualcuno non lo<br />

facesse o che fornisse una dichiarazione mendace<br />

avrebbe corso il rischio di vedersi confiscare<br />

tutti i beni e di essere venduto come schiavo. La<br />

gravità <strong>del</strong>la pena per i non adempienti a quel<br />

dovere è la prova <strong>del</strong>la rilevanza che i Romani<br />

davano alla conoscenza ufficiale di come era<br />

strutturata la loro società.<br />

Le operazioni <strong>del</strong> censimento erano presiedute<br />

e dirette da due magistrati appositamente<br />

eletti, scelti fra coloro che già avevano precedentemente<br />

fornito prova di serietà e di probità<br />

assolute. Quando dovevano valutare i meno<br />

abbienti, in genere si limitavano alla registrazione<br />

dei beni posseduti, ma quando esaminavano<br />

coloro che per la posizione economica erano<br />

anche automaticamente possibili candidati alle<br />

magistrature più elevate l’esame si faceva più<br />

puntiglioso e si estendeva non più alla sola persona<br />

ed alla sua famiglia, ma anche al suo modo<br />

di essere nella vita privata o addirittura familiare.<br />

Un uomo dal comportamento non irreprensibile<br />

o poco oculato nella conduzione degli<br />

affari, tollerante di una condotta sconveniente<br />

dei figli o <strong>del</strong>la moglie, poteva essere declassato<br />

nella scala sociale in modo irreparabile.<br />

Uno di questi magistrati valutatori, che è<br />

rimasto famoso, fu proprio Marco Porcio<br />

Catone, detto appunto “il censore”, lo stesso che<br />

abbiamo visto accanirsi contro gli Scipioni, fustigatore<br />

dei costumi licenziosi che si andavano<br />

diffondendo. Egli non accettava neppure che i<br />

Romani si dedicassero allo studio <strong>del</strong> greco che,<br />

a suo modo di vedere, era destinato a corrompere<br />

i sacri costumi degli antenati.<br />

Catone ostentò sempre, mentendo, di ignorare<br />

la lingua greca, che invece conosceva benissimo,<br />

e si accanì contro gli Scipioni che coltivavano<br />

con passione la cultura ellenica.<br />

È evidente che lo status di cittadino comportava<br />

oneri anche gravosi, nondimeno era una<br />

condizione ambita al punto che i socii italici, che<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 35 -<br />

Ricostruzione<br />

di un littore di età<br />

repubblicana Roma.<br />

Museo <strong>del</strong>la Civiltà<br />

Romana.<br />

erano stati alleati fe<strong>del</strong>i di Roma durante la guerra<br />

annibalica e che successivamente avevano<br />

fornito armati per le truppe ausiliarie nel corso<br />

<strong>del</strong>le varie guerre, presero nuovamente le armi<br />

per rivendicare quel riconoscimento che stimavano<br />

di avere ben meritato con il loro precedente<br />

comportamento. Il conflitto, ricordato come la<br />

Guerra Sociale, iniziato nel 91 a.C., si concluse<br />

nell’89 a.C. con la sconfitta definitiva degli insorti<br />

per mano di Lucio Cornelio Silla, che aveva<br />

ricondotto all’ordine quasi tutta la Campania e<br />

che quindi vi fece dedurre dal nipote Publio<br />

alcune colonie, fra queste una a Pompei, dei<br />

suoi veterani. Fu un provvedimento non eccessivamente<br />

punitivo, però ci si rese conto che la<br />

concessione <strong>del</strong>la cittadinanza era una misura<br />

non più procrastinabile, perciò nello stesso<br />

anno 89 a. C. fu accordato a tutti gli italici liberi,<br />

con solo qualche eccezione, quel riconoscimento<br />

che appena due anni prima aveva porta-


Ricostruzione<br />

di un cavaliere<br />

romano <strong>del</strong> I<br />

sec. d.C.<br />

Roma,<br />

Museo<br />

<strong>del</strong>la Civiltà<br />

Romana.<br />

to all’assassinio <strong>del</strong> tribuno Livio Druso, che per<br />

primo aveva osato proporlo. Da questi eventi<br />

emerge chiaramente quanto la cittadinanza fosse<br />

importante sia per chi già la possedeva, sia per<br />

chi ambiva ad ottenerla.<br />

I Romani erano discretamente generosi a<br />

concedere questo stato di privilegio a singoli<br />

individui: lo dimostra il fatto che un gran numero<br />

di ex schiavi, i liberti, erano accolti senza<br />

troppi problemi tra i cives, anche se con qualche<br />

limitazione, che però scompariva per i loro figli;<br />

al contrario erano molto restii a concederlo ad<br />

intere comunità. Evidentemente ciò accadeva<br />

perché il singolo individuo veniva ad essere<br />

come diluito nell’insieme <strong>del</strong>la popolazione,<br />

mentre coloro che appartenevano già ad una<br />

comunità omogenea erano adusi a proprie leggi<br />

e consuetudini e per questo, se accolti collettivamente,<br />

potevano in qualche modo inquinare<br />

quelle romane. Si deve anche osservare che lo<br />

schiavo liberato, il “liberto”, era ammesso a<br />

godere dei diritti civili, ma per poterne usufruire<br />

doveva entrare a fare parte di una familia,<br />

che era quella <strong>del</strong>l’ex padrone, prenderne il<br />

SALTERNUM<br />

- 36 -<br />

nome ed adottarne i culti familiari. In questo<br />

modo il padrone, divenuto patrono, veniva ad<br />

essere in qualche modo garante <strong>del</strong> successivo<br />

comportamento <strong>del</strong> suo ex schiavo.<br />

Sarà Cesare che, al suo ritorno a Roma dopo<br />

la vittoria su Pompeo ed i pompeiani, supererà<br />

quella diffidenza verso gli stranieri e concederà<br />

la cittadinanza ad intere regioni, così alla Gallia<br />

Cisalpina, alla città di Gades e all’intera legione<br />

V Alaudae, reclutata totalmente fra i Galli transalpini;<br />

ma non bisogna dimenticare che Cesare<br />

aveva bisogno di crearsi un seguito personale<br />

per consolidare anche politicamente la sua vittoria.<br />

Bisognerà attendere il 212 d.C. per vedere<br />

l’imperatore Caracalla emanare una “costituzione”<br />

che, con poche eccezioni, estendeva la cittadinanza<br />

a tutti gli uomini liberi <strong>del</strong>l’Impero.<br />

Poiché fra gli oneri che gravavano sul cittadino<br />

c’era anche quello di pagare le tasse di successione,<br />

gli avversari di Caracalla sostennero che<br />

lo scopo recondito <strong>del</strong>la sua costituzione era di<br />

assicurare a Roma i proventi di quell’imposta.<br />

Fra i vantaggi di essere cittadini c’era senza<br />

dubbio quello di potere usufruire <strong>del</strong>le distribuzioni<br />

di grano a prezzo calmierato o anche a<br />

titolo gratuito. Questa forma di elargizione, nata<br />

in un primo momento per alleviare i disagi che<br />

sorgevano in periodi di carestia, finì per divenire<br />

costante, con notevole gravame economico<br />

per le finanze statali. Da provvedimento episodico<br />

quale era stato in precedenza, fu con Gaio<br />

Gracco (lex Sempronia frumentaria, 123 a.C.)<br />

che si giunse a renderlo permanente, anche se<br />

le resistenze ad una misura chiaramente demagogica<br />

furono molte. Cicerone (Tusc., III, 48)<br />

racconta che Lucio Calpurnio Pisone si era battuto<br />

aspramente contro l’approvazione <strong>del</strong>la<br />

legge, ma che quando si giunse alla distribuzione<br />

<strong>del</strong> grano si presentò con gli altri per prelevare<br />

la sua quota. Gaio Gracco vedendolo tra la<br />

folla gli chiese innanzi a tutti, con evidente<br />

intento ironico, perché rivendicasse i benefici di<br />

una legge che aveva osteggiato e quegli rispose:<br />

«Avrei preferito, Gracco, che tu non distribuissi i<br />

miei beni, ma se lo fai voglio la mia parte».<br />

La riottosità dei Romani a concedere la cittadinanza<br />

ad intere popolazioni nel loro comples


so era giustificata da alcuni episodi che ci illuminano<br />

su quanto talvolta potessero essere inaffidabili<br />

coloro che bussavano alla porta <strong>del</strong>l’Urbe.<br />

Nel 216 a.C. dopo la disastrosa sconfitta dei<br />

Romani a Canne, mentre a Roma si diffondeva<br />

la preoccupazione, i Capuani sollecitarono la<br />

cittadinanza pretendendo anche che uno dei<br />

due consoli dovesse essere campano, ma contemporaneamente,<br />

di nascosto, si preparavano<br />

alla sedizione ed all’alleanza con Annibale. Tito<br />

Livio (XXIII, 6,6-7) ci racconta che essi inviarono<br />

un’ambasceria a Roma con siffatte proposte,<br />

affermando con una certa arroganza che questo<br />

era il prezzo da loro richiesto per l’aiuto che<br />

avrebbero fornito. Era chiaro che si erano convinti<br />

che i Romani in quella circostanza terribile<br />

avrebbero accettato qualsiasi condizione, anche<br />

la più gravosa che fosse stata loro offerta, pur di<br />

uscire da una situazione a dir poco drammatica.<br />

Ma non avevano capito nulla <strong>del</strong>l’orgoglio e <strong>del</strong>l’animo<br />

romano. Il tentativo di ricatto fu respinto<br />

con sdegno e gli ambasciatori furono letteralmente<br />

cacciati dal Senato. Qualche anno dopo,<br />

il 211 a.C. il pretore Claudio Nerone, lo stesso<br />

che al Metauro aveva vinto e ucciso Asdrubale,<br />

fratello di Annibale, conquistò Capua che nel<br />

frattempo si era data al Cartaginese ed i Capuani<br />

pagarono a caro prezzo il loro precedente comportamento.<br />

Una via di mezzo era già stata trovata con la<br />

concessione ad alcune città di una forma ridotta<br />

di cittadinanza, la civitas sine suffragio, una<br />

soluzione che escludeva quei cittadini dal diritto<br />

di voto, per cui in realtà con questo accorgimento<br />

quelle comunità erano poste in uno stato<br />

di dipendenza, non avendo alcuna voce in capitolo.<br />

Il primo caso fu quello <strong>del</strong>l’etrusca Caere,<br />

che ebbe questo riconoscimento come ringraziamento<br />

per l’aiuto fornito al tempo <strong>del</strong>l’invasione<br />

dei Galli nel 390 a.C. I cives sine suffragio tuttavia<br />

godevano degli stessi vantaggi di tutti gli altri<br />

e di una uguale protezione da parte <strong>del</strong>la legge;<br />

erano solamente esclusi dall’elettorato attivo e<br />

passivo per quanto concerneva le cariche <strong>del</strong>la<br />

res publica.<br />

Non deve sembrare eccessiva la resistenza<br />

dei Romani ad accordare la cittadinanza ad intere<br />

comunità di estranei: era ispirata dall’esigen-<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 37 -<br />

za di difendere la propria identità politica, sociale<br />

e religiosa da forze che potevano alterarla.<br />

Infatti, come si è detto, si mostrarono sempre<br />

piuttosto liberali nel concederla a singoli individui.<br />

In fondo nel mondo greco la concessione<br />

<strong>del</strong>la cittadinanza era ancora più difficile.<br />

Accantoniamo pure il caso di Sparta per la sua<br />

particolarissima costituzione, ma Atene non era<br />

certamente più generosa in questo senso e l’identica<br />

cosa si può dire <strong>del</strong>le altre città greche,<br />

tutte gelose custodi di se stesse. Va anzi ricordato<br />

che una legge ateniese <strong>del</strong> 451/450 a.C., forse<br />

ispirata da Pericle, stabilì che non potevano<br />

essere cittadini di Atene coloro che non fossero<br />

figli di genitori già entrambi cittadini. Come<br />

curiosità aggiungeremo che di questa legge fu<br />

vittima lo stesso Pericle, perché il figlio che lui<br />

ebbe da Aspasia, donna di Mileto, poté ottenere<br />

la cittadinanza solo in virtù di una speciale <strong>del</strong>ibera<br />

popolare dopo la morte degli altri due figli<br />

che lo statista aveva avuto dalla prima moglie.<br />

Quanto fosse ambita la cittadinanza romana<br />

lo dimostra il fatto che molti Latini, che pure si<br />

trovavano in uno stato di privilegio rispetto agli<br />

altri Italici, pur di ottenerla ricorrevano a dei sotterfugi,<br />

come quello di vendere se stessi o i propri<br />

figli a dei cittadini romani compiacenti, che<br />

subito dopo la vendita li affrancavano, rendendoli<br />

così, sia pure come liberti, cittadini a loro<br />

volta. Questa procedura creava dei problemi alle<br />

città da cui quelle persone provenivano perché,<br />

mentre quelli si sottraevano all’obbligo di pagare<br />

i tributi, le città d’origine erano costrette<br />

comunque a farvi fronte poiché le imposte<br />

erano già state in precedenza calcolate e concordate<br />

con Roma. Il Senato, riconoscendo la validità<br />

<strong>del</strong>le lamentele di alcune città latine ordinò<br />

al console in carica di presentare una legge che<br />

obbligasse tutti i Latini iscritti nel censo a tornare<br />

nelle città di provenienza. Così furono rimandati<br />

indietro dodicimila Latini (T. Livio, XXXIX,<br />

3,4).<br />

Accanto ai cives sine suffragio ed in una posizione<br />

più elevata c’erano i cives optimo iure,<br />

cioè i cittadini tali a tutti gli effetti, che votavano<br />

e potevano essere votati. Erano questi coloro<br />

che più degli altri potevano affermare con orgoglio:<br />

civis romanus sum. Anche se di origini


modeste, quando si trovavano in territori soggetti<br />

a Roma erano in una posizione di privilegio,<br />

appartenevano al popolo dominante, erano sottratti<br />

alle leggi ed ai tribunali locali, dovevano<br />

rendere conto <strong>del</strong> proprio operato solo ai magistrati<br />

ed al popolo romano. Abusavano di siffatta<br />

situazione? Forse non tanto quanto si pensa<br />

comunemente. In genere quando alcuni episodi<br />

o personaggi come Verre in Sicilia (propretore<br />

dal 73 al 71 a.C.) sono ricordati, è perché non<br />

rientrano nella consuetudine. Indubbiamente le<br />

orazioni di Cicerone, le Verrinae, hanno contribuito<br />

a dare a quegli avvenimenti un rilievo letterario<br />

e quindi una risonanza che altrimenti<br />

forse non avrebbero avuto, ma Verre era un<br />

magistrato, non un comune cittadino e anzi fra i<br />

capi di accusa che gli furono mossi c’era anche<br />

quello di non aver rispettato i diritti di alcuni cittadini<br />

romani. È risaputo che a Roma non si era<br />

teneri con gli autori di certi abusi, come è dimostrato<br />

dal fatto che Verre, dopo la prima orazione<br />

di Cicerone, non attese la fine <strong>del</strong> dibattimento<br />

ma preferì andare volontariamente in esilio,<br />

evitando guai peggiori.<br />

In ogni caso il crimen repetundarum contemplava<br />

le eventuali malversazioni che potevano<br />

essere commesse dai magistrati romani in<br />

danno di singoli o di intere comunità nelle provincie<br />

loro assegnate. Diverse furono le leggi<br />

che furono promulgate in proposito: la lex Acilia<br />

<strong>del</strong> 123 a.C. prevedeva per questo reato una<br />

sanzione pecuniaria pari al doppio <strong>del</strong> valore di<br />

quanto estorto. Questa sanzione fu poi confermata<br />

dalla lex Servilia <strong>del</strong> 111 a.C., dalla lex<br />

Cornelia <strong>del</strong>l’81 e dalla lex Iulia <strong>del</strong> 59 a.C.. Il<br />

susseguirsi di siffatte leggi, se da un lato evidenzia<br />

la volontà <strong>del</strong>lo Stato di stroncare gli abusi,<br />

dall’altro rivela che la tentazione di impinguare<br />

le tasche era comunque forte.<br />

Abbiamo affermato che in età imperiale si<br />

diffuse sempre più il rifiuto di impegnarsi nelle<br />

cariche pubbliche. Questo fenomeno era certamente<br />

negativo per lo stato romano ed era perciò<br />

necessario porvi riparo in qualche modo.<br />

Augusto, secondo quanto ricorda Svetonio 4 ,<br />

introdusse dei nova officia in modo da coinvolgere<br />

nell’attività di governo il maggior numero<br />

possibile di cittadini e farli partecipi <strong>del</strong>le<br />

SALTERNUM<br />

- 38 -<br />

responsabilità connesse alla pubblica amministrazione<br />

<strong>del</strong>egandoli alla cura <strong>del</strong>le opere pubbliche,<br />

<strong>del</strong>le vie, <strong>del</strong>le acque, <strong>del</strong>l’alveo <strong>del</strong><br />

Tevere, alla distribuzione di grano al popolo.<br />

Istituì anche la prefettura <strong>del</strong>la città, un triumvirato<br />

per la nomina dei senatori ed ancora altre<br />

funzioni, ma tutte di carattere amministrativo e<br />

con poca o nulla rilevanza politica. Gli incarichi<br />

di importanza vitale nella gestione <strong>del</strong>la res<br />

publica restavano nelle mani <strong>del</strong>l’Imperatore e<br />

di poche altre persone a lui vicine e di accertata<br />

fe<strong>del</strong>tà.<br />

La formazione di quella comunità di cives che<br />

va sotto il nome di civitas è in qualche modo<br />

avvolta nelle nebbie di un tempo antico. Si è<br />

avanzata l’ipotesi da parte di alcuni studiosi che<br />

sia stata una forma evolutiva di alcune strutture<br />

sociali caratteristiche dei popoli indoeuropei 5 .<br />

Naturalmente al riguardo mancano <strong>del</strong>le prove<br />

certe e pertanto si deve fare ricorso ad indizi<br />

tratti da quanto conosciamo <strong>del</strong>la vita e dei<br />

costumi religiosi e militari <strong>del</strong>la società romana.<br />

Come tutti sanno, fin dalle origini il popolo<br />

romano era costituito da due classi di cittadini: i<br />

patrizi ed i plebei. La derivazione <strong>del</strong> termine<br />

“patrizio” da pater è più che evidente. I Patres<br />

erano i capifamiglia (Paterfamilias) che, riuniti<br />

in assemblea, discutevano i problemi <strong>del</strong>la collettività<br />

arcaica e prendevano insieme le decisioni<br />

che ritenevano più opportune. L’espressione<br />

rimase e si consolidò col passare <strong>del</strong> tempo<br />

assumendo un significato politico. Patres o<br />

Patres conscripti erano chiamati i senatori,<br />

riunendo in un unico termine i Patres, d’origine<br />

patrizia, ed i Conscripti, ovvero i senatori d’origine<br />

plebea. La parola plebe, con l’aggettivo<br />

corrispondente plebeo, sembra invece che si<br />

possa far risalire etimologicamente ad un termine<br />

arcaico d’origine indoeuropea (radice ples)<br />

affine al greco plêqoß significante la moltitudine,<br />

la massa dei cittadini, quelli, in altri termini,<br />

che non avevano rilevanza politica.<br />

Era inevitabile che la separazione <strong>del</strong> popolo<br />

in due classi, una dominante e l’altra sottomessa,<br />

dovesse avere la conseguenza di determinare<br />

attriti e scontri, di cui la leggenda di Menenio<br />

Agrippa e <strong>del</strong> suo famoso apologo è una lontana<br />

eco. Senza alcun dubbio ci furono tentativi di


secessione da parte <strong>del</strong>la plebe, rientrati in<br />

seguito ad accordi fra le parti. Il primo, che risale<br />

al 494 a.C., vide i secessionisti ritirarsi fuori<br />

<strong>del</strong>le mura cittadine, sull’Aventino, ove risiedeva<br />

una comunità di mercanti greci adusi ad idee e<br />

costumi democratici. Questi movimenti popolari<br />

non rimasero senza effetto, ma portarono alla<br />

pubblicazione di leggi scritte su tavole bronzee,<br />

esposte al pubblico in modo che tutti potessero<br />

leggerle e farvi riferimento. Leggi dette “<strong>del</strong>le XII<br />

Tavole” (451 a.C.). Seguirono altri attriti, altre<br />

trattative ed altre leggi, fra le quali è importante<br />

ricordare le leges Liciniae Sextiae <strong>del</strong> 367 a.C.<br />

che avevano decretato una divisione dei poteri<br />

fra le due classi sociali, stabilendo l’attribuzione<br />

<strong>del</strong>le cariche pubbliche in modo bilanciato: un<br />

console patrizio ed uno plebeo, alternanza nelle<br />

altre magistrature, ecc.<br />

L’aspetto più importante <strong>del</strong>la questione è<br />

tuttavia il fatto che per i Romani non c’era alcun<br />

dubbio che la loro società, così com’era, risalisse<br />

alla mitica fondazione <strong>del</strong>l’Urbe e ciò dimostra<br />

quanto fosse sentita l’appartenenza alla civitas.<br />

Seguendo Tito Livio (I, 13,4), si può arguire<br />

che quel concetto si sia formato allorché i<br />

Romani e i Sabini, facendo la pace, fusero in<br />

una sola “le due città” ed insieme assunsero il<br />

nome di Quiriti.<br />

Come accade molto frequentemente, anche<br />

questo mito contiene un fondo di verità. Infatti,<br />

la parola civitas è l’equivalente romano <strong>del</strong>la<br />

parola greca politeía. Tuttavia, mentre il significato<br />

originario di quest’ultima è legato all’altra<br />

parola póliß, che letteralmente significherebbe<br />

“citta<strong>del</strong>la”, la parola latina etimologicamente si<br />

riallaccia ad una radice indoeuropea che ha il<br />

significato di “famiglia, amico, ospite”, legato<br />

cioè alle persone ed ai rapporti fra queste e non<br />

a <strong>del</strong>le strutture architettoniche.<br />

Continuando nell’esposizione <strong>del</strong>l’indagine<br />

etimologica si può affermare al di là di ogni<br />

dubbio che il nome di Quiriti si può fare derivare<br />

da co-uiri “uomini che si uniscono” e lo stesso<br />

vale per Curia. Con queste considerazioni<br />

PIETRO CRIVELLI<br />

- 39 -<br />

Ricostruzione<br />

di una <strong>del</strong>le XII tavole.<br />

Roma, Museo <strong>del</strong>la Civiltà<br />

Romana.<br />

siamo arrivati al momento <strong>del</strong>la formazione o,<br />

se si preferisce, <strong>del</strong>la fondazione di Roma.<br />

Un’aggregazione di uomini che insieme si<br />

danno <strong>del</strong>le leggi e regolano la vita <strong>del</strong>la loro<br />

società guardando sia all’interno che all’esterno<br />

di essa, riservando a se stessi, come è naturale,<br />

dei privilegi che non sono riconosciuti agli estranei.<br />

In conclusione, bisognerà osservare che il<br />

prestigio e la struttura mentale, prima ancora<br />

che politica, dei Romani determinò il formarsi di<br />

una “nazione” italiana, il confluire verso un<br />

unico centro politico e culturale dei popoli che<br />

vivevano nella penisola, l’aspirazione a sentirsi<br />

tutti cives romani. La stessa guerra sociale <strong>del</strong> 91<br />

a.C. fu una guerra intrapresa dai socii italici per<br />

ottenere il diritto di unirsi a Roma. Una guerra<br />

“per” e non “contro” Roma. Un modo energico<br />

per fare conoscere il proprio desiderio di confluire<br />

nella romanità. È importante avere presente<br />

che in siffatto impulso centripeto furono progressivamente<br />

coinvolte anche quelle città greche<br />

<strong>del</strong>l’Italia meridionale e <strong>del</strong>la Sicilia che<br />

pure avevano in atto ed alle spalle una tradizione<br />

culturale di prim’ordine. Molte di quelle città,<br />

pur continuando a vivere alla greca nella quotidianità,<br />

utilizzando il greco come lingua locale,<br />

ebbero strutture politiche tipicamente romane,<br />

mostrando altresì una effettiva adesione alla<br />

romanità.


NOTE<br />

1<br />

F.DUPONT, La vita quotidiana nella Roma repubblicana,<br />

Laterza, Bari 2000, p.12<br />

2 G. CORRADI, Le grandi conquiste mediterranee, Ed.<br />

Cappelli, Bologna, 1945, passim.<br />

3 T. MOMMSEN, Storia di Roma, Berlino, 1854-1856 cap. X,<br />

p. 42.<br />

SALTERNUM<br />

- 40 -<br />

4 SVETONIO, Aug. XXXVII<br />

5 R.E.PALMER, The Archaic Community of the Romans,<br />

Cambridge, 1970. Citato da CLAUDE NICOLET in Il Mestiere di<br />

Cittadino nell’antica Roma, Roma 1992, p. 31.


WALTER FALAPPA<br />

La città romana di Suasa (Ancona)<br />

La presentazione di questo sito sarà divisa<br />

in due parti: questa prima parte<br />

riguarda la storia <strong>del</strong> ritrovamento, la<br />

presentazione <strong>del</strong>le prime fasi di scavo e la<br />

descrizione dei ritrovamenti dei materiali all’interno<br />

<strong>del</strong>la domus dei Coiiedi, su cui si sono<br />

concentrate le forze vista l’imponenza <strong>del</strong> ritrovamento<br />

<strong>del</strong>la domus.<br />

La seconda parte tratterà <strong>del</strong>le procedure<br />

adottate nelle fasi di scavo ai fini conservativi, i<br />

metodi, gli interventi di prima necessità, la situazione<br />

al momento <strong>del</strong>lo scavo e le problematiche<br />

<strong>del</strong>la messa in luce dei materiali.<br />

Si farà anche una analisi <strong>del</strong>le metodologie<br />

ed un accenno a come il volontariato può collaborare<br />

con le diverse strutture operanti a Suasa<br />

sulla base di una esperienza condotta a maggio<br />

2007 dal <strong>Gruppo</strong> <strong>Archeologico</strong> Ferrarese.<br />

Introduzione al sito archeologico.<br />

Direzione dei lavori:<br />

PIER LUIGI DALL’AGLIO, SANDRO DE MARIA<br />

I resti <strong>del</strong>la città romana di Suasa sorgono<br />

lungo la valle <strong>del</strong> Cesano all’altezza di Pian<br />

Volpello.<br />

La città antica, menzionata dagli autori latini<br />

tra i centri <strong>del</strong>la stessa regio <strong>del</strong>la divisione<br />

Augustea (che comprende l’Umbria e le Marche<br />

meridionali), (Fig. 1) fu oggetto di interesse da<br />

parte di importanti studiosi locali. Tra questi<br />

possiamo ricordare Vincenzo Maria Cimarelli<br />

che descrisse alcuni ruderi ancora visibili nel<br />

1642, a cui si aggiunse, alla metà <strong>del</strong> secolo<br />

appena trascorso, la solerte opera di recupero di<br />

oggetti di varia provenienza da parte di Gello<br />

- 41 -<br />

Fig. 1 - Territorio <strong>del</strong>le Marche.<br />

Si noti come le valli abbiano un andamento a pettine verso il mare.<br />

Fig. 2 - La RegioVI<br />

<strong>del</strong>la divisione<br />

Augustea.<br />

Giorni. Questi reperti, assieme agli altri necessari<br />

a ricostruire la storia <strong>del</strong> territorio, erano conservati<br />

nel vicino museo di S. Lorenzo in Campo<br />

(in fase di ristrutturazione), mentre quelli provenienti<br />

dall’area urbana si trovano nel Museo di<br />

Castelleone di Suasa.


Fig. 3 - La via Flaminia.<br />

Fig. 4 - La<br />

viabilità dei<br />

diverticoli nella<br />

valle <strong>del</strong> Cesano.<br />

La viabilità: l’abitato di Suasa si è formato<br />

negli ultimi decenni <strong>del</strong> III secolo a.C. sul fondovalle<br />

alla destra <strong>del</strong> Cesano (Fig. 2), dopo che<br />

il plebiscito promosso da Gaio Flaminio nel 232<br />

a.C. stabilì la necessità di distribuzione di terra ai<br />

coloni romani anche in questo territorio. Poiché<br />

la viabilità <strong>del</strong> sistema stradale legato alla<br />

Flaminia venne attuata nel 220 a.C. sul fianco<br />

sinistro <strong>del</strong>la valle (Fig. 3), si ritiene che a quel<br />

tempo il primo insediamento dovesse già esiste-<br />

SALTERNUM<br />

Fig. 5 - Veduta aerea <strong>del</strong>la città di Suasa. Figg. 6 - 7 - Pianta<br />

<strong>del</strong>la città di Suasa.<br />

- 42 -<br />

re, altrimenti l’abitato sarebbe stato attratto dall’importante<br />

via di transito posta sull’altro lato<br />

(Fig. 4).<br />

La presenza di coloni all’interno di un denso<br />

popolamento rurale rese necessaria la creazione<br />

di luoghi adatti per il commercio e l’amministrazione<br />

<strong>del</strong>la giustizia da parte di un prefetto.<br />

Suasa si strutturò dunque prima come Prefettura<br />

e poi si ampliò fino a diventare, dopo il 49 a.C.,<br />

Municipio retto da duoviri. Proprio in questo<br />

momento si pone lo sviluppo <strong>del</strong>la città con<br />

spazi pubblici adeguati e aree abitative all’interno<br />

di un sistema urbano regolare e pianificato<br />

(Figg. 5-6), di cui ci sono giunte significative<br />

tracce. Nel corso <strong>del</strong> II e III secolo d.C. crebbe<br />

a cavallo <strong>del</strong>l’asse stradale basolato che percorre<br />

ancor oggi Pian Volpello, con edifici pubblici<br />

privati di grande impegno edilizio, taluni ben<br />

noti dai recenti scavi: una grande piazza porticata<br />

sul lato settentrionale, l’anfiteatro sul lato<br />

meridionale, il teatro, forse le terme (Fig. 7), il<br />

sistema idrico di approvvigionamento, diverse<br />

abitazioni private, talvolta sontuose come la<br />

domus dei Coiiedi.<br />

Gli edifici principali<br />

L’area di abitazioni posta a Est <strong>del</strong>la strada<br />

principale rappresenta la parte più cospicua <strong>del</strong>l’area<br />

archeologica già musealizzata, che comprende<br />

una grande domus di età imperiale e<br />

un’abitazione più piccola di età repubblicana.<br />

La domus dei Coiiedi prende nome dalla<br />

importante famiglia che ne fu proprietaria, nota<br />

per mezzo di epigrafi gemelle a quella rinvenuta<br />

nel corso <strong>del</strong>lo<br />

scavo.<br />

La dimora fu edificata<br />

nel II d.C. su<br />

un’originale casa ad<br />

atrio di metà <strong>del</strong> I<br />

a.C., di cui rimase in<br />

uso il sistema di<br />

ingresso, mentre il<br />

nuovo atrio (A) fu<br />

spostato a Est. Il<br />

vano di maggior<br />

rilievo era l’oecus


tricliniare (G), pavimentato in opus sectile con<br />

vista sul giardino retrostante, mentre in un piccolo<br />

quartiere autonomo, con una diaeta (AF)<br />

e due cubicula (AK e AN), fu ricavata nel III d.C.<br />

più a Sud. Il settore sud-occidentale era occupato<br />

dal quartiere termale e da alcuni vani di servizio<br />

(Fig. 8).<br />

I resti <strong>del</strong>l’abitato repubblicano sono stati<br />

individuati anche nell’area a ridosso <strong>del</strong> muro<br />

perimetrale sud, dove si trovano intatte alcune<br />

strutture <strong>del</strong> II a.C.<br />

La situazione <strong>del</strong>la domus dei Coiiedi<br />

Gli scavi iniziati nel 1988, incentrati particolarmente<br />

nell’area <strong>del</strong>la domus dei Coiiedi, è<br />

stata interamente indagata e l’espansione complessiva<br />

comporta un fronte sulla strada di m.<br />

33,50 e un’estensione all’interno di circa m. 103,<br />

per una superficie complessiva assai rilevante di<br />

quasi 3.500 mq (Fig. 9).<br />

(PIER LUIGI DALL’AGLIO, SANDRO DE MARIA,<br />

ENRICO GIORNI, BEPPE LEPORE, MIRCO ZACCARIA,<br />

Scavi e Ricerche <strong>del</strong> Dipartimento di<br />

Archeologia, University Press Bologna: 1977,<br />

pp. 55-67).<br />

Durante le prime campagne di scavo effettuate<br />

dall’allora Istituto di Archeologia <strong>del</strong>l’Università<br />

di Bologna, oggi Dipartimento di Archeologia,<br />

(1988-1992), è emersa una rilevante presenza di<br />

intonaci dipinti, che accompagnano, con rifacimenti<br />

e nuove stesure, le diverse fasi edilizie <strong>del</strong><br />

complesso.<br />

Le pitture possono essere raggruppate in tre<br />

categorie, distinte a seconda <strong>del</strong>la situazione di<br />

rinvenimento e <strong>del</strong>lo stato di conservazione: frammenti<br />

isolati, zoccolature, stati di crollo (Fig. 10).<br />

1. Frammenti isolati.<br />

Frammenti di intonaco dipinto di ridotte<br />

dimensioni sono stai rinvenuti in tutta l’area di<br />

scavo,variamente distribuiti nei vani <strong>del</strong>le diverse<br />

unità stratigrafiche.<br />

La provenienza di tali lacerti nel sistema<br />

decorativo di una parete (o soffitto) <strong>del</strong>l’ambiente<br />

di ritrovamento è spesso incerta, poiché i<br />

frammenti non appartengono a strati di crollo<br />

definiti, ma vengono in luce talvolta frammisti a<br />

WALTER FALAPPA<br />

- 43 -<br />

Fig. 8 - Pianta <strong>del</strong>la domus dei Coiiedi.<br />

Fig. 10 - Situazione planimetrica dei crolli.<br />

Fig. 9 - Pianta <strong>del</strong>la domus di<br />

Coiiedi. Prima fase: domus<br />

tardo-repubblicana ad atrio.<br />

Seconda fase: grande domus<br />

degli inizi <strong>del</strong> II sec. d.C.<br />

(3.000 mq).<br />

materiali all’interno di strati di abbandono di<br />

fosse agricole.<br />

Degno di nota è, poi, il ritrovamento di alcuni<br />

frammenti di intonaco dipinto all’interno di<br />

sondaggi eseguiti al di sotto <strong>del</strong>la fase edilizia


medio-imperiale: essi sono stati riutilizzati come<br />

materiale di riempimento e attestano l’esistenza<br />

di una fase pittorica precedente a quella <strong>del</strong> rifacimento<br />

degli inizi <strong>del</strong> II sec. d.C.<br />

Fig. 11 - Ambiente G.<br />

Fig. 12 -Zoccolo <strong>del</strong>l’ambiente C.<br />

Fig. 13 - In questo dettaglio si evidenziano i numeri di stati preparatori<br />

degli intonaci che rispondono ai canoni scritti da Vitruvio.<br />

Gli stati di intonaco sono 5; fra il primo ed il secondo si evidenzia una<br />

infiltrazione argillosa.<br />

L’ultimo strato (intonachino), di soli 0,2 - 0,5 mm è poco visibile ed è lo<br />

strato su cui si ancora la pellicola pittorica.<br />

SALTERNUM<br />

- 44 -<br />

2. Zoccolature.<br />

In tutta l’area di scavo i resti <strong>del</strong>le pareti conservano<br />

una parte, più o meno ampia, <strong>del</strong> rivestimento<br />

dipinto. Si tratta <strong>del</strong>la parte bassa <strong>del</strong>la<br />

decorazione, a contatto col pavimento. Essa si<br />

presenta in due varianti: come vasta campitura<br />

monocroma oppure come imitazione di crustae<br />

marmoree, variamente ripartite da bande di<br />

separazione.<br />

L’osservazione di queste porzioni di pittura<br />

ha permesso di trarre diverse indicazioni utili:<br />

l’ordine di stesura, il numero e la composizione<br />

degli strati preparatori ed il rapporto tra la pavimentazione<br />

e la decorazione parietale; infine ha<br />

permesso di verificare l’applicazione di una<br />

norma raccomandata da Vitruvio (VII, 4) per<br />

preservare l’intonaco dalle infiltrazioni di umidità:<br />

infatti nei vani C, E e G il primo strato aderente<br />

alla muratura è costituito da cocciopesto<br />

spesso 1,5-2 cm, che, nella sua impermeabilità,<br />

assolve alla funzione ricordata da Vitruvio (Figg.<br />

11-12-13).<br />

3. Strati di crollo.<br />

Diversi ambienti <strong>del</strong>l’edificio hanno restituito<br />

interi strati di crollo <strong>del</strong>le pitture parietali, talora<br />

ancora in posizione di caduta, talora manomessi<br />

durante le fasi di frequentazioni successive<br />

all’abbandono <strong>del</strong>la domus. Semplificando, possiamo<br />

distinguere diverse categorie, che tuttavia<br />

presentano un elemento in comune: l’assenza (o<br />

la minima presenza) dei materiali <strong>del</strong> crollo<br />

<strong>del</strong>le coperture e dei muri (laterizi, tegole,<br />

coppi, chiodi <strong>del</strong>le travature, ecc…).<br />

Questo fenomeno è dovuto, probabilmente,<br />

alla massiccia operazione di spoglio <strong>del</strong>le strutture<br />

avvenuta nelle fasi successive all’abbandono<br />

<strong>del</strong>la domus, al fine di recuperare materiali<br />

riutilizzabili (Figg. 14-15-16).<br />

Un primo tipo di crollo si può definire “pluristratificato”:<br />

si tratta di un accumulo d’intonaco<br />

dipinto disposto su diversi strati sovrapposti fino<br />

all’altezza massima di 60-70 cm. Gli esempi più<br />

consistenti sono stati rinvenuti nell’ala Q e nell’atrio<br />

B, ma presentano alcune differenze: l’ala<br />

Q ha restituito il crollo <strong>del</strong>la decorazione di tre<br />

pareti, variamente mescolato, ma sostanzialmente<br />

in posizione di caduta, se si esclude l’azione


Fig. 14.<br />

distruttrice di alcune fosse agricole che, attraversando<br />

lo scavo in senso est-ovest, hanno intaccato<br />

gli strati più superficiali <strong>del</strong> crollo. Il crollo<br />

<strong>del</strong>l’atrio B, invece è relativo ad una sola parete<br />

dipinta (quella orientale), per di più manomessa<br />

durante la fase di abbandono <strong>del</strong>la dimora, in<br />

cui le placche dipinte sono state ammassate in<br />

un angolo <strong>del</strong> vano per permettere il passaggio<br />

verso il giardino (Fig. 17).<br />

Un secondo tipo si può individuare nei crolli<br />

cosi detti “planari”: l’intonaco crollato si presenta<br />

come un unico strato, direttamente a contatto<br />

col pavimento e occupa per lo più l’intera<br />

estensione <strong>del</strong> vano. E’ il caso dei vani O (il cui<br />

intonaco completamente bianco si può riferire al<br />

soffitto) e AF (in cui l’intonaco è riferibile alla<br />

parete sud <strong>del</strong>l’ambiente) (Fig. 18).<br />

Nel crollo cosiddetto “a fisarmonica” l’intonaco<br />

si è staccato dal supporto murario, ammassandosi<br />

alla base <strong>del</strong>la parete in strati disposti<br />

con la superficie dipinta alternatamente verso<br />

l’alto e verso il basso.<br />

E’ il caso dei vani G e AK (Figg. 19-20-21-22-23).<br />

Nei vani <strong>del</strong> settore sud <strong>del</strong>la domus<br />

(BA,BB,BC) sono stati recuperati i crolli e alcune<br />

strutture murarie intere: in questo caso il<br />

muro ha conservato il rivestimento pittorico su<br />

entrambe le facce, relative a due vani comunicanti.<br />

In questo settore (portico ovest <strong>del</strong> peristilio)<br />

sono state recuperate, inoltre, ampie porzioni<br />

<strong>del</strong>le colonne in laterizi, col rivestimento in<br />

WALTER FALAPPA<br />

- 45 -<br />

Fig. 16 - Ambiente A. Si notino le fosse.<br />

Fig. 15.<br />

Fig. 17.<br />

Fig. 18.


stucco modanato e dipinto (Figg. 24-25).<br />

Un ultimo tipo di crollo si può definire<br />

“misto”: si tratta di vani che hanno restituito<br />

macerie dei muri in cui sono mescolati frammenti<br />

di intonaco dipinto (vano AQ e AO).<br />

Conclusioni<br />

Sin dal primo anno di scavo si è resa necessaria<br />

una scheda analitica che potesse riassumere,<br />

in maniera il più possibile sintetica, tali differenti<br />

situazioni di rinvenimento. La scheda è stata elaborata<br />

dall’équipe che opera a Suasa. Questa<br />

scheda è stata messa a punto considerando e<br />

ampliando – in base alle mutate esigenze – alcune<br />

proposte precedenti e già utilizzate (Fig. 26).<br />

La scheda è stata concepita in modo tale da<br />

permetterne l’uso in una casistica il più possibile<br />

ampia: essa è composta di otto sezioni distinte,<br />

disposte in ordine “cronologico”, così che la<br />

scheda possa accompagnare la pittura durante<br />

tutte le fasi di lavorazione, dal recupero al<br />

Fig. 19.<br />

Fig. 20 - Crollo omogeneo esteso.<br />

SALTERNUM<br />

- 46 -<br />

restauro. La prima sezione riguarda le generalità<br />

e permette l’identificazione <strong>del</strong> frammento<br />

(località, anno, unità stratigrafica, etc.).<br />

La seconda riguarda la situazione di rinvenimento:<br />

sono riportati almeno tre casi: “crollo”,<br />

“parete” e “isolato”. Per ognuna di queste situazioni<br />

sono suggerite diverse condizioni conservative<br />

(“difetti di coesione”, “di adesione”, “fratture”,<br />

“incrostazioni”, etc.). Si prosegue poi coi<br />

primi interventi, effettuati direttamente sullo<br />

scavo (“pulitura”, “consolidamento”, “velatura”,<br />

etc.). La sezione successiva riguarda la stratigrafia:<br />

in primo luogo si riportano i dati generali<br />

<strong>del</strong>l’intero frammento (spessore e numero degli<br />

strati, misure), poi si procede ad una descrizione<br />

analitica dei singoli strati, a partire dall’intonachino.<br />

Una sezione a parte è dedicata alla pellicola<br />

pittorica, con un ampio spazio riservato<br />

alla descrizione verbale, da sostituire eventualmente<br />

con il disegno oppure con la fotografia<br />

<strong>del</strong>la decorazione dipinta.<br />

Fig. 21 - Crollo omogeneo composto.<br />

Fig. 22 - Crollo omogeneo frammentato.


Fig. 23 - Esempio di un’altra situazione simile nella prima unità si scavo,<br />

si noti come il crollo omogeneo sia caduto a fisarmonica su se stesso<br />

nello stesso ambiente<br />

I due settori successivi possono essere compilati<br />

solo quando lo studio è in una fase avanzata:<br />

l’interpretazione, con riferimento ad una<br />

datazione e ai confronti con decorazioni note e<br />

il restauro. L’ultima sezione chiude la scheda<br />

con i riferimenti alla documentazione: disegni,<br />

fotografie e piante.<br />

Ogni voce <strong>del</strong>la scheda può essere compilata<br />

semplicemente barrando una casella desiderata,<br />

mentre lo spazio restante permette di specificare<br />

meglio il dato riportato (materiali usati, percentuali,<br />

note, etc.).<br />

(PIER LUIGI DALL’AGLIO, SANDRO DE MARIA,<br />

ENRICO GIORNI, GIUSEPPE LEPORE, MIRCO ZACCARIA,<br />

Functional and spatial analysis of wall painting,<br />

Amsterdam, 8-12 sept., edit. by ERIK M.<br />

MORORMAN 1992, pp. 205 -211).<br />

*L’articolo è composto di vari stralci di documenti ufficiali<br />

di convegni internazionali sulla pittura romana e su<br />

documenti prodotti dal Dipartimento di Archeologia<br />

<strong>del</strong>l’Università di Bologna .<br />

Gli autori sono S. DE MARIA, P. L. DALL’AGLIO, G. LEPORE,<br />

E. GIORGI eM. ZACCARIA.<br />

WALTER FALAPPA<br />

- 47 -<br />

Fig. 24 - Ambienti A e B<br />

Fig. 25.<br />

Fig. 26 - Uno dei metodi per una prima schedatura quello di rilievi 1:1 e<br />

rodotti a tavole disegno in vari formati, che illustrano lo stato <strong>del</strong> crollo<br />

in ciascuna unità di scavo.


BIANCA<br />

CANCELLARE


VINCENZO INTORCIA<br />

L’Arco <strong>del</strong> Sacramento in Benevento<br />

Delle vicende attraverso i secoli che hanno<br />

interessato l’Arco <strong>del</strong> Sacramento e il sito sul<br />

quale insiste e come essi si mostrano al presente<br />

Nell’articolo pubblicato sul precedente<br />

numero <strong>del</strong>la rivista Sal(t)ernum<br />

riguardante l’Arco <strong>del</strong> Sacramento in<br />

Benevento si sono date le coordinate circa la<br />

descrizione <strong>del</strong> monumento, l’epoca di costruzione<br />

e le sue funzioni urbanistiche nella città<br />

romana. Nel presente contributo si cercherà<br />

invece di mettere in luce le trasformazioni accorse<br />

al monumento nel corso dei secoli dagli albori<br />

<strong>del</strong>l’età medievale fino ai nostri giorni.<br />

Dopo la caduta <strong>del</strong>l’Impero romano d’Occidente,<br />

l’Italia fu sconvolta dalla guerra grecogotica<br />

(535-553). In questo frangente le mura<br />

romane di Benevento furono rase al suolo nel<br />

545 da Totila, il quale, secondo Procopio di<br />

Cesarea, espugnò la città che si era data a<br />

Belisario. Sulla traccia <strong>del</strong> De Nicastro, che attribuì<br />

a Narsete l’epigrafe dedicata all’eminente<br />

personaggio che provvide al restauro <strong>del</strong>la città, 1<br />

gli storici locali seguirono questa tradizione<br />

secentesca, come fa l’Isernia che indica sempre<br />

il generale bizantino quale autore <strong>del</strong> restauro<br />

<strong>del</strong>la cinta difensiva, precisando che le nuove<br />

mura furono ricostruite in un perimetro assai<br />

ristretto che toccava l’Arco <strong>del</strong> Sacramento. 2<br />

Secondo l’ipotesi più verosimile e oggi largamente<br />

condivisa, la cinta muraria fu ricostruita al<br />

tempo <strong>del</strong> primo duca longobardo Zottone, o al<br />

massimo nei primi anni <strong>del</strong> governo di Arechi I. 3<br />

In effetti le condizioni di indigenza provocate<br />

dalle guerre fecero sì che l’abitato <strong>del</strong>la<br />

Benevento longobarda si restringesse lasciando<br />

fuori dal nuovo perimetro le zone occidentali e<br />

l’area <strong>del</strong> Teatro.<br />

2 A PARTE<br />

- 49 -<br />

Benevento. Il piano<br />

particolareggiato Zevi-Rossi<br />

per la sistemazione <strong>del</strong>’area<br />

<strong>del</strong> Duomo e <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento (1988-89).<br />

Così, come all’altro capo <strong>del</strong>la città, nella<br />

zona settentrionale, l’Arco di Traiano andava a<br />

costituire la Porta Aurea, anche l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento, raggiunto dalle mura, diveniva l’ingresso<br />

a meridione. Questa funzione la mantenne<br />

però fino all’addizione <strong>del</strong>la cinta muraria<br />

promossa da Arechi II (758-787), la civitas nova,<br />

che permise alla città longobarda di recuperare<br />

all’abitato la zona <strong>del</strong> Teatro. A Sud <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento, allora, si andò sviluppando il quartiere<br />

medievale “Triggio”.<br />

Da questo momento comunque, per la scarsità<br />

di documenti e di reperti, il percorso che si<br />

può tracciare <strong>del</strong>le vicende <strong>del</strong>l’Arco attraverso i<br />

secoli è reso difficile da molte zone d’ombra.


Benevento.Veduta area <strong>del</strong>l’area <strong>del</strong> Duomo con in evidenza la zona a Ovest<br />

<strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento (1985).<br />

Benevento. Lavori di restauro per lo svuotamento <strong>del</strong> fornice <strong>del</strong>l’arco romano ad<br />

Ovest <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento (2005).<br />

Può darsi che già al tempo <strong>del</strong>la guerra<br />

greco-gotica, o con l’arrivo dei Longobardi, per<br />

le vicende belliche o durante i saccheggi, l’Arco<br />

<strong>del</strong> Sacramento avesse perso la sua decorazione<br />

marmorea, visto che invece, quando si diede<br />

una prima sistemazione <strong>del</strong>la città, all’atto di<br />

divenire Port’Aurea, le sculture <strong>del</strong>l’Arco di<br />

Traiano furono accuratamente conservate integre.<br />

Diversamente, non credo che la dispersione<br />

<strong>del</strong> paramento decorativo sia da imputarsi ad<br />

uno stato di incuria e di abbandono, poiché la<br />

zona in questione non fu lasciata in disuso dalla<br />

nuova città longobarda, e anzi un episodio<br />

monumentale come l’Arco <strong>del</strong> Sacramento<br />

sarebbe risultato molto gradito ai Longobardi<br />

per nobilitare un ingresso cittadino, così come<br />

fu fatto con l’Arco di Traiano. C’è da considerare,<br />

inoltre, che probabilmente molte strutture<br />

romane siano giunte alle soglie <strong>del</strong> Medioevo<br />

già in stato di parziale degrado, incoraggiando-<br />

SALTERNUM<br />

- 50 -<br />

ne così l’adattamento a nuovi usi o lo sfruttamento<br />

quali cave di materiale da costruzione.<br />

Mentre il centro <strong>del</strong>la Benevento longobarda<br />

si andò spostando verso Oriente attorno al<br />

Piano di Corte, la zona <strong>del</strong>l’antico Foro e<br />

<strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento rimase comunque viva,<br />

caratterizzandosi per numerosi edifici religiosi.<br />

Qui, infatti, forse sulle strutture <strong>del</strong> Tempio di<br />

Iside, sorse la prima Cattedrale consacrata alla<br />

Vergine. E in questa zona in epoca medievale<br />

sono documentate l’ecclesia S. Jacobi a Foro e<br />

l’ecclesia S. Stephani de monialibus de Foro. 4<br />

Secondo l’uso consueto <strong>del</strong>l’epoca, probabilmente<br />

le chiese e gli edifici longobardi furono<br />

costruiti sfruttando anche le imponenti cave di<br />

ottimo materiale a buon mercato e già lavorato<br />

fornito dalle vestigia <strong>del</strong>le strutture romane:<br />

adattamenti a nuovi usi o reiterate spoliazioni.<br />

Ma oltre che una funzione meramente costruttiva,<br />

i pezzi provenienti dagli edifici romani potevano<br />

assolvere anche un altro ufficio. La pratica<br />

diffusa nel Medioevo di riutilizzare i marmi e le<br />

pietre già decorate e scolpite dei monumenti<br />

romani con funzioni di ornamento e di nobilitazione<br />

dei propri edifici, può anche aver giocato<br />

a favore <strong>del</strong>la perdita <strong>del</strong>le sculture <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento. In effetti sia nella cinta muraria, sia<br />

negli edifici religiosi, negli edifici di rappresentanza<br />

<strong>del</strong> potere longobardo come nelle case<br />

civili, si possono notare molti resti e frammenti<br />

d’arte classica. Nella peggiore <strong>del</strong>le ipotesi,<br />

sarebbe da considerare anche la possibilità che<br />

le sculture <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento siano andate<br />

a finire nelle fornaci per produrre <strong>del</strong>la buona<br />

calce. La Port’Arsa che si trova nelle vicinanze,<br />

tra l’altro, era conosciuta anche con il nome di<br />

Porta <strong>del</strong>le Calcare 5 , appunto per la presenza in<br />

quel sito di tali attività produttive. Né, infine, è<br />

da sottovalutare l’eventualità che la perdita <strong>del</strong>la<br />

decorazione <strong>del</strong>l’Arco sia avvenuta in seguito ad<br />

uno dei tanti sismi che colpirono la città di<br />

Benevento a cominciare dal primo che ci è stato<br />

tramandato, nel 369 d.C., di cui ci informa<br />

Aurelio Simmaco, o quello violentissimo <strong>del</strong>l’11<br />

ottobre 1125, che, narra il cronista Falcone,<br />

rovesciò al suolo anche le mura <strong>del</strong>la città diroccando<br />

le torri e le case in modo da non sembrare<br />

più umane abitazioni. 6


Quel che è probabile, comunque, in mancanza<br />

di dati certi, è che la perdita dei rilievi marmorei<br />

<strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento sia avvenuta<br />

abbastanza presto nei tempi 7 : in un certo senso<br />

è proprio la carenza di notizie documentarie che<br />

induce a pensare che l’attenzione verso il monumento<br />

sia stata poco rilevante in ragione <strong>del</strong>lo<br />

spoglio <strong>del</strong>le sculture ab antiquo; di conseguenza,<br />

neanche il nome <strong>del</strong>l’importante personalità<br />

a cui l’Arco era dedicato fu tramandato attraverso<br />

i secoli.<br />

Nel Seicento cominciano un po’ a dissiparsi<br />

le nebbie nelle quali è avvolto il percorso storico<br />

<strong>del</strong> nostro monumento fino ai giorni nostri, e<br />

abbiamo la prima notizia di un intervento<br />

sull’Arco <strong>del</strong> Sacramento trasmessa dal<br />

Meomartini, il quale scrive:<br />

“fo avvertire che il grosso <strong>del</strong>la muratura che<br />

oggi si eleva al di sopra degli stilobati non è tutto<br />

antico, e che una parte, cioè quella che guarda<br />

a settentrione, è moderna, essendovi stata<br />

aggiunta dal Cardinale Arcivescovo Agostino<br />

Oregio … sulla serraglia <strong>del</strong>l’archivolto settentrionale<br />

esiste ancora il suo stemma, scolpito su<br />

di una pietra rettangolare, la quale misura m.<br />

0.40 x 0.60. Sulla cartella sottoposta allo scudo<br />

vi è l’iscrizione: AVG. CARD. ORECIVS<br />

ARCHPVS. BNVS.<br />

Nelle due sezioni si vede preciso il distacco tra<br />

la muratura aggiunta e l’antica che si appartiene<br />

proprio al monumento, come si scorge pure<br />

bene che l’archivolto sulla facciata settentrionale,<br />

costituito di ventisette cunei di tufo trachitico<br />

intercalati con un filare di mattoni, sia di epoca<br />

moderna. Di modo che l’aggiunzione è stata<br />

praticata non solo nelle pilastrate, ma ben anche<br />

nel volto”. 8<br />

L’Arcivescovo Agostino Oregio resse<br />

l’Arcidiocesi di Benevento dal 1633 al 1635, 9 un<br />

tempo piuttosto breve, e i suoi biografi si soffermano<br />

più sulle sue sottigliezze teologiche che<br />

sugli interventi edilizi promossi. La notizia riferita<br />

dal Meomartini non ha trovato ancora un<br />

fonte documentaria d’archivio, e allo stato attuale<br />

<strong>del</strong> monumento non sono purtroppo più visibili,<br />

perché asportati, né le aggiunte nell’archivolto<br />

né lo stemma <strong>del</strong>l’Arcivescovo con l’iscrizione<br />

di cui faceva fede sempre il Meomartini.<br />

VINCENZO INTORCIA<br />

- 51 -<br />

In una rarissima foto <strong>del</strong>la facciata settentrionale<br />

<strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento prima degli interventi<br />

<strong>del</strong> secondo dopoguerra <strong>del</strong> Novecento, è<br />

però ancora visibile la decorazione <strong>del</strong>l’archivolto,<br />

mentre non risulta più in situ lo stemma<br />

<strong>del</strong>l’Arcivescovo con l’iscrizione.<br />

Non si sa con certezza se i terremoti di fine<br />

Seicento e di inizio Settecento arrecarono danni<br />

al monumento e in quale misura. È probabile,<br />

però, che in conseguenza <strong>del</strong>le ricostruzioni cit-<br />

Benevento. Pianta per il progetto di recupero e la valorizzazione <strong>del</strong>l’area nodale<br />

<strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento (2000).<br />

Benevento.Arco romano ad Ovest <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento (1985).<br />

tadine successive al 1702 e di quelle promosse<br />

dall’Orsini nel palazzo Arcivescovile, l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento venisse completamente inglobato<br />

da case d’abitazione e dall’ampliamento<br />

<strong>del</strong>l’Episcopio. 10<br />

La prima fonte 11 che ci mostra una descrizione<br />

attendibile <strong>del</strong>l’Arco è un’incisione ad acquaforte<br />

rinforzata a bulino eseguita da Pierre<br />

Gabriel Berthauld (1748-1819) 12 su disegno di<br />

De Pres ed inserita con il nome di Vue d’une


Benevento. Arco <strong>del</strong> Sacramento, incisione ad acquaforte rinforzata e bulino di<br />

Pierre Gabriel Berthauld (1781-1785).<br />

Benevento. Arco <strong>del</strong> Sacramento,“Arco antico in Benevento, incisione ad<br />

acquaforte o bulino di Luigi Rossini (fine XIX secolo).<br />

ancienne Porte de Benevent nel Voyage pittoresque<br />

ou description des Royaumes de Naples et de<br />

Sicile di Richard de Saint-Non, edito a Parigi tra<br />

il 1781 e il 1785. Che l’incisione sia una veduta<br />

dal vero e non un’opera di fantasia, è confermato<br />

almeno da tre ordini di fattori. Innanzitutto,<br />

dal confronto tra le costruzioni descritte e le<br />

indicazioni topografiche rinvenibili nelle mappe<br />

<strong>del</strong>l’epoca che andremo a presentare. In secondo<br />

luogo, la veduta <strong>del</strong> Berthauld appare assolutamente<br />

veritiera se confrontata con un’altra<br />

incisione di Luigi Rossini <strong>del</strong> 1839 e con le<br />

prime fotografie disponibili di fine Ottocento.<br />

Infine, non c’è motivo di dubitare <strong>del</strong>l’attendibilità<br />

<strong>del</strong>la veduta per il semplice fatto che anche<br />

le altre incisioni contenute nel Voyage <strong>del</strong> Saint-<br />

Non, come la veduta <strong>del</strong> Teatro Romano incisa<br />

sempre dallo stesso Berthauld, risultano precise<br />

e obiettive.<br />

La Vue d’un ancienne Porte de Benevent 13 è<br />

presa dallo slargo oggi intitolato a Manfredi di<br />

SALTERNUM<br />

- 52 -<br />

Svevia, e ci mostra, quindi, la facciata meridionale<br />

<strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento. La decorazione<br />

marmorea risulta ormai inesistente. Nel pilastro<br />

orientale sono riconoscibili i blocchi di pietra<br />

degli stilobati, mentre l’incavo <strong>del</strong>la nicchia è<br />

stato riempito. Il pilastro è subito collegato a<br />

destra senza soluzione di continuità con la fabbrica<br />

<strong>del</strong> Palazzo arcivescovile. Il pilastro occidentale,<br />

invece, risulta completamente occultato<br />

da un’abitazione a due piani, dove in corrispondenza<br />

<strong>del</strong>la pilastrata vi è una veranda con il<br />

tetto che termina all’altezza <strong>del</strong>l’imposta <strong>del</strong> fornice.<br />

Fortunatamente la veduta è di ampio respiro,<br />

e possiamo scorgere l’Arco in tutta la sua<br />

altezza che si staglia sul cielo. Al di sopra <strong>del</strong>l’archivolto,<br />

infatti, si elevano ben due piani,<br />

appartenenti e collegati con l’Episcopio, coperti<br />

con un tetto di tegole dove si intravedono due<br />

camini. In corrispondenza <strong>del</strong>la linea mediana<br />

con la chiave di volta <strong>del</strong>l’archivolto, in ciascuno<br />

dei due piani è aperta una finestra. Dunque<br />

l’attico <strong>del</strong>l’Arco romano, dove si trovava un<br />

seconda arcata, risulta completamente inglobato,<br />

mentre sopra di esso è stato elevato un altro<br />

piano. Guardando il primo piano subito al di<br />

sopra <strong>del</strong>l’archivolto:<br />

“vien fatto di scorgere sulla sinistra, in alto,<br />

verso il cantone sud-ovest, un blocco di muratura<br />

a getto, lungo m. 3.00, altrettanto alto e sporgente<br />

di m. 1.10 dal vivo <strong>del</strong>la pilastrata.<br />

Sebbene questa muratura sia antica, non la si<br />

può affatto ritenere coeva <strong>del</strong> monumento che<br />

stiamo esaminando; vi fu aggiunta in processo<br />

di tempo, per collegare probabilmente quest’arco<br />

a qualche fortilizio innalzato colà presso per<br />

difesa <strong>del</strong>la città”. 14<br />

Vedremo poi cosa ci dice Meomartini, al suo<br />

tempo, di questi vani che si innalzano al di<br />

sopra <strong>del</strong> fornice. Sempre ad Occidente, poco<br />

sotto quel blocco di muratura ora descritto e al<br />

di sopra dei tetti <strong>del</strong>le abitazioni, si può osservare<br />

un tratto di muro che si ammorsa sul cantone<br />

esterno <strong>del</strong>l’Arco; questo pezzo è probabilmente<br />

parte <strong>del</strong>la prima cinta di murazione medievale<br />

che raggiunse l’Arco quando divenne porta<br />

cittadina.<br />

Conducendo lo sguardo sotto l’arcata, si vede<br />

bene che la strada continua con un muro rettili


neo fino ad un pontile. All’epoca la via si chiamava<br />

Chiaviche Vecchie, poiché vicino si trovava<br />

probabilmente il macello, e, come mostra la<br />

seppure un po’ schematica 15 Pianta <strong>del</strong>la pontificia<br />

città di Benevento <strong>del</strong>ineata da Liborio<br />

Pizzella e incisa dall’Aloia entro il 1764, l’Arco<br />

<strong>del</strong> Sacramento si trovava effettivamente stretto<br />

da costruzioni sia ad Oriente che ad Occidente.<br />

La Topografia <strong>del</strong>la Pontificia Città di<br />

Benevento umiliata alla Santità D.N.S. Papa Pio<br />

Sesto dai Consoli <strong>del</strong>la medesima redatta dall’architetto<br />

Saverio Casselli e incisa da Carlo<br />

Antonini intorno il 1781, è praticamente coeva<br />

all’incisione <strong>del</strong> Berthauld, e in maniera <strong>del</strong> tutto<br />

attendibile riporta sulla mappa la pianta reale<br />

degli edifici <strong>del</strong>la città. Si nota perfettamente la<br />

linea <strong>del</strong> cardo romano che costeggia ad Occidente<br />

la fabbrica <strong>del</strong> Duomo. Qui l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento è individuabile dal tratteggio di due<br />

linee che corrispondono all’identificazione di un<br />

passaggio voltato. Ad Est lo vediamo congiunto<br />

con l’Episcopio, e ad Ovest è <strong>del</strong>ineata la pianta<br />

dei fabbricati che abbiamo visto riprodotti<br />

nell’incisione. Dietro l’Arco <strong>del</strong> Sacramento, ad<br />

Occidente, troviamo uno slargo chiuso ad Est<br />

verso via Chianche Vecchie da un muro che<br />

abbiamo osservato essere anche nell’incisione;<br />

risalendo la via, infine, si possono notare segnati<br />

anche gli altri pontili.<br />

Nel 1839, all’interno <strong>del</strong> Viaggio pittoresco da<br />

Roma a Napoli di Luigi Rossini (1790-1857), 16<br />

troviamo l’Arco <strong>del</strong> Sacramento raffigurato in<br />

un’incisione ad acquaforte e bulino dal titolo<br />

Arco antico in Benevento/creduto avanzi di<br />

terme. L’incisione di Rossini (che ritrae sempre<br />

la facciata meridionale) mostra notevoli somiglianze<br />

con quella di Berthauld, confermando<br />

che la situazione <strong>del</strong> monumento è rimasta nell’arco<br />

di tempo trascorso sostanzialmente la stessa.<br />

La veduta riguarda sempre la facciata meridionale<br />

<strong>del</strong> monumento. Ad Occidente notiamo<br />

ancora la veranda <strong>del</strong>l’abitazione che si sovrappone<br />

al pilastro ovest <strong>del</strong>l’Arco, e al di sopra <strong>del</strong><br />

tetto <strong>del</strong>la dimora si scorge sempre il collegamento<br />

con il muro di cinta di matrice medievale.<br />

Ad Oriente l’Arco è sempre collegato con il<br />

Palazzo arcivescovile. I blocchi degli stilobati<br />

sotto il fornice e <strong>del</strong> pilastro orientale si mostra-<br />

VINCENZO INTORCIA<br />

- 53 -<br />

no già consunti e si possono osservare i resti<br />

<strong>del</strong>le cornici <strong>del</strong>la decorazione originaria<br />

<strong>del</strong>l’Arco che praticamente sono quelle che<br />

vediamo anche al presente. Il chiaroscuro <strong>del</strong><br />

tratteggio <strong>del</strong>l’artista mostra che la superficie<br />

<strong>del</strong>la muratura <strong>del</strong>l’Arco lascia osservare la sua<br />

struttura di mattoni nell’arcata principale e nelle<br />

arcate <strong>del</strong>le nicchie laterali; anche da alcuni tratti<br />

<strong>del</strong> monumento si intravede l’opera in laterizi,<br />

Benevento. Progetto di<br />

recupero e la<br />

valorizzazione <strong>del</strong>l’area<br />

nodale <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento (2000).<br />

Benevento. Plastico per il progetto di<br />

recupero e la valorizzazione <strong>del</strong>l’area<br />

nodale <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento<br />

(2000).<br />

mentre altri tratti sono intonacati. Purtroppo dall’incisione<br />

di Rossini non è possibile seguire lo<br />

sviluppo in altezza <strong>del</strong>le fabbricazioni che si elevano<br />

alla sommità <strong>del</strong> fornice, (anche se queste<br />

si lasciano ancora intuire), ma come vedremo<br />

nello scritto e nelle foto di Meomartini, l’attico<br />

<strong>del</strong>l’Arco è ancora occupato da due piani di<br />

costruzione. Risalendo il cardo/via <strong>del</strong><br />

Sacramento notiamo che ad Ovest, lì dove nell’incisione<br />

di Berthauld vi era un muro rettilineo,<br />

adesso la zona è occupata dal prospetto laterale<br />

di un edificio. In fondo poi si scorge sempre un<br />

passaggio voltato. Nella Mappa originale <strong>del</strong>la<br />

città di Benevento realizzata sotto la direzione di


Benevento. L’arco <strong>del</strong> Sacramento dopo i bombardamenti <strong>del</strong> 1943.<br />

Benevento.Area ad Occidente <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento con i resti dei pilastri <strong>del</strong><br />

palazzo residenziale, iniziato a costruire e poi bloccato nel 1946.<br />

Luigi Mazzarini nel 1823 (quindi di pochi anni<br />

antecedente l’incisione di Rossini), si nota, difatti,<br />

che la zona libera ad Occidente <strong>del</strong>l’Arco è<br />

stata coperta dalla mole di un nuovo fabbricato,<br />

l’Ospedale femminile di S. Gaetano.<br />

La profonda trasformazione urbanistica che<br />

interessa Benevento nei primi decenni dopo<br />

l’Unità d’Italia, 17 nell’ambito <strong>del</strong> centro storico,<br />

si concentra soprattutto lungo l’asse <strong>del</strong>la vecchia<br />

via Magistrale, ora diventata Corso<br />

Garibaldi, e ne fanno le spese ampi tratti <strong>del</strong><br />

circuito <strong>del</strong>le antiche mura, ma per quanto<br />

riguarda la zona <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento, l’area<br />

rimase dunque pressoché inalterata secondo<br />

la sistemazione settecentesca post-terremoto.<br />

Nel 1889, ne I monumenti e le opere d’arte<br />

<strong>del</strong>la città di Benevento, Almerico Meomartini,<br />

che fu il primo studioso ad interessarsi <strong>del</strong>la<br />

costruzione romana, così introduceva la descrizione<br />

<strong>del</strong> monumento: “di fronte alla casa <strong>del</strong>la<br />

famiglia Torre, trovasi quest’arco, il quale pre-<br />

SALTERNUM<br />

- 54 -<br />

sentemente è serrato in mezzo, ad occidente dall’ospedale<br />

di S. Gaetano e da basse case <strong>del</strong>l’avvocato<br />

Ferdinando Torre, ad oriente dalle fabbriche<br />

<strong>del</strong>l’episcopio; per la qual cosa, ove non vi<br />

fosse un quadrivio dinanzi la facciata meridionale,<br />

tutto l’antico edifizio sarebbe occultato alla<br />

vista”. 18<br />

Tenendo presenti le indicazioni sin qui offerte<br />

dallo studioso su come si presentava l’Arco<br />

alla fine <strong>del</strong>l’Ottocento, leggiamo cosa egli ci<br />

riferisce a proposito <strong>del</strong>la zona <strong>del</strong>l’attico:<br />

“Allorquando io rilevai i disegni di questo<br />

monumento potei discendere nel vuoto sotto questa<br />

volto [si riferisce al secondo arco presente<br />

nella zona <strong>del</strong>l’attico] per una botola che vi esisteva<br />

in un fianco, sotto la cucina <strong>del</strong>l’episcopio;<br />

ma ora vi si può pervenire dal vicino ospedale di<br />

San Gaetano, al quale questo vuoto è stato<br />

aggregato da un paio di anni per concessione<br />

temporanea <strong>del</strong> nostro Emin. Arcivescovo<br />

[Cardinale Camillo Siciliano Di Rende], che ne<br />

aveva il possesso. Al presente tal vuoto è stato<br />

ridotto ad uso di stanza, ed è stata aperta una<br />

finestra nel muro meridionale…oggi l’interno è<br />

stato pure intonacato a nuovo; ma allorquando<br />

io vi penetrai la prima fiata vi era un intonaco<br />

antico su porzione <strong>del</strong>le pareti con avanzi di pitture<br />

e molte iscrizioni graffite. Supposi che fosse<br />

servito di prigione in una certa epoca, e vi siano<br />

fatti discendere i condannati per la botola per la<br />

quale io vi discesi”. 19<br />

Dunque, per esperienza verificata personale,<br />

il Meomartini ci conferma che ai suoi tempi, al<br />

di sopra <strong>del</strong>l’archivolto principale <strong>del</strong>l’Arco, esistevano<br />

ancora ulteriori due piani di costruzione<br />

di proprietà <strong>del</strong>l’Arcivescovato. Nel primo era<br />

stato ricavato un ambiente abitabile, mentre ai<br />

giorni nostri, che l’Arco è stato liberato, si può<br />

notare il volto dove questa stanza era stata adattata.<br />

Nel secondo piano, invece, trovava posto<br />

una cucina <strong>del</strong> palazzo Arcivescovile, ma questo<br />

ambiente dopo i bombardamenti <strong>del</strong>la seconda<br />

guerra mondiale non è più esistente. La botola<br />

attraverso la quale era disceso il Meomartini,<br />

seppure sussistesse ancora ai giorni nostri, non<br />

potrebbe essere più visibile, visto che l’attico<br />

<strong>del</strong>l’Arco è stato consolidato con uno strato di<br />

cemento. Per il passaggio menzionato che colle-


gava l’ambiente sotto il secondo archivolto<br />

<strong>del</strong>l’Arco all’Ospedale di San Gaetano (dunque<br />

fungeva da collegamento diretto di servizio tra<br />

l’ospedale e il palazzo <strong>del</strong>l’Arcivescovo), diversamente,<br />

è possibile accertarne l’esistenza, visto<br />

che attualmente alla costruzione romana non è<br />

addossato più alcun edificio. Ed infatti, alla sommità<br />

<strong>del</strong> pilastro occidentale, si può tutt’oggi<br />

scorgere questo varco aperto nell’attico.<br />

Rispetto all’incisione di fine Settecento, dopo<br />

circa un secolo, non si registrano per il nostro<br />

Arco sostanziali cambiamenti. Una foto pubblicata<br />

da Meomartini nel volume Benevento con<br />

144 illustrazioni edito a Bergamo nel 1909,<br />

mostra che al di sopra <strong>del</strong>l’archivolto sussistono<br />

sempre due piani, e più specificamente sembra<br />

che la muratura sia sensibilmente aumentata in<br />

altezza. C’è la finestra descritta da Meomartini, e<br />

salendo ancora si scorge una seconda finestra<br />

sulla sinistra. Mentre tra le due finestre, ad Occidente,<br />

si osserva pure bene e ancora esistente il<br />

blocco di muratura che fuoriesce dalla struttura<br />

che si è già in precedenza esaminato. La porzione<br />

al di sopra <strong>del</strong> fornice risulta quasi completamente<br />

intonacata, viceversa nelle zone laterali<br />

<strong>del</strong>l’Arco affiora la struttura primigenia di mattoni.<br />

Anche in alcune fotografie di fine Ottocento<br />

e di inizio Novecento che riguardano la porzione<br />

inferiore <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento si evince<br />

che la situazione non mostra sostanziali cambiamenti.<br />

Ad Occidente si vede sempre la casa <strong>del</strong>l’avvocato<br />

Torre, e le linee <strong>del</strong>l’archivolto e degli<br />

archi <strong>del</strong>le edicole sono individuabili dalla<br />

muratura in laterizi, così come si osservano<br />

anche i blocchi in cinque filari sovrapposti agli<br />

stilobati. Sussistono ancora qualche pezzo <strong>del</strong>le<br />

piccole cornici d’imposta al di sopra <strong>del</strong>la cimasa<br />

degli stilobati e all’inizio <strong>del</strong>la curvatura <strong>del</strong><br />

fornice. La nicchia destra è riempita di legante<br />

misto a pietrisco in opera incerta. Dalla fotografia<br />

si nota anche che l’illuminazione elettrica sta<br />

sostituendo le lampade a petrolio. Via Carlo<br />

Torre è ormai un suggestivo e stretto vicolo<br />

dove salendo si osserva il bel pontile sovrastato<br />

ormai da una considerevole porzione di muratura.<br />

Il contesto architettonico <strong>del</strong>la zona <strong>del</strong>l’Arco<br />

<strong>del</strong> Sacramento risulta stabile, 20 quindi, nelle sue<br />

VINCENZO INTORCIA<br />

- 55 -<br />

caratteristiche principali fino ai bombardamenti<br />

anglo-americani che colpiscono Benevento nell’agosto<br />

e nel settembre <strong>del</strong> 1943, nel corso <strong>del</strong>la<br />

campagna di liberazione dal nazi-fascismo. Il<br />

Piano regolatore redatto da Luigi Piccinato nel<br />

1932 non prevedeva alterazioni rilevanti nella<br />

zona <strong>del</strong> centro storico e si pose comunque in<br />

maniera sostanzialmente eccentrica, per la considerazione<br />

deputata all’edilizia storica rispetto<br />

ai progetti in parte eseguiti in parte paventati<br />

dalla retorica <strong>del</strong> regime fascista, risultando tuttavia<br />

ineffettivo per l’ostracismo politico e l’avvento<br />

<strong>del</strong>la guerra; mentre neanche gli invocati<br />

interventi di risanamento <strong>del</strong>l’edilizia storica <strong>del</strong><br />

quartiere “Triggio”, subito a Sud <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento, ritenuta dall’ing. Antonio Fabrizio<br />

“meschine casupole”, furono mai attuati. 21<br />

L’area compresa tra piazza Orsini e piazza<br />

Cardinal Pacca fu una <strong>del</strong>le zone più colpite nel<br />

secondo conflitto bellico. Ad eccezione <strong>del</strong> campanile<br />

e <strong>del</strong>la facciata, il Duomo è completamente<br />

distrutto, altrettanto il Palazzo arcivescovile.<br />

Nello spazio ad Ovest <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento<br />

una profonda ferita si apre nel tessuto edilizio. Le<br />

case e l’Ospedale femminile di San Gaetano vengono<br />

rasi al suolo. Tra le macerie affiorano, dopo<br />

che erano stati coperti dalle abitazioni, i resti<br />

<strong>del</strong>le costruzioni romane <strong>del</strong>l’area <strong>del</strong> Foro.<br />

Agli inizi degli anni Cinquanta, dall’allora<br />

Sovrintendente A. De Franciscis, fu condotta una<br />

prima campagna di scavi: “Nella zona tra il<br />

Duomo ed il fiume Calore, dove attraverso gli<br />

eventi bellici s’erano rivelati numerosi ruderi<br />

antichi, si è sterrata un’area limitata prospiciente<br />

il fianco <strong>del</strong> Duomo. Son venuti in luce i resti<br />

di un grandioso edificio, probabilmente termale,<br />

d’età romana imperiale, che comprende in particolare<br />

una grande aula rettangolare con pilastri<br />

in muratura addossati alle pareti e con tracce<br />

di un doppio pavimento; una seconda aula,<br />

anch’essa con tracce di doppio pavimento e una<br />

suspensura; un’aula rettangolare col piano leggermente<br />

sopraelevato rispetto alle precedenti,<br />

con ingressi sui quattro lati, tracce <strong>del</strong>la volta ed<br />

elementi di un piano superiore, e con vasche<br />

quadrate nel pavimento, ma forse costituenti un<br />

rifacimento posteriore; infine una sala poligonale<br />

solo in parte esplorata, probabilmente a pian-


ta esagonale con vasca rivestita di lastre di<br />

marmo nel pavimento. Essendo i ruderi enucleati<br />

in abitazioni medievali e moderne, lo scavo ha<br />

dato scarsi reperti di materiale vario. Tra questi<br />

si nota qualche base e qualche mozzo di colonna<br />

ed un capitello corinzio, probabilmente pertinenti<br />

alla decorazione <strong>del</strong>l’edificio”. 22<br />

I complessi romani riportati in luce non furono<br />

però oggetto di un restauro dai criteri scientifici<br />

con la conseguente conservazione e valorizzazione<br />

dei ruderi emersi, né fino ai giorni<br />

nostri sono stati completamente liberati dalle<br />

abitazioni che ne incastellavano le strutture.<br />

Furono consolidati in fretta e qua e là furono<br />

eretti dei barbacani in tufo per puntellarli e preservarli<br />

da ulteriori demolizioni. Nell’area più a<br />

Sud subito ad Occidente <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento, è stato inoltre rinvenuto un secondo<br />

Arco romano, in posizione obliqua rispetto il<br />

nostro monumento, completamente inglobato in<br />

un’abitazione. Ad esso si ammorsa un tratto<br />

<strong>del</strong>la prima cinta difensiva longobarda in opus<br />

incertum. È possibile però osservare di questo<br />

altro Arco romano la struttura in opera di mattoni<br />

molto simile a quella <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento, e dal terreno affiorano due filari dei<br />

blocchi <strong>del</strong> basamento. Probabilmente questo<br />

Arco costituì un secondo ingresso da Sud all’area<br />

<strong>del</strong> Foro.<br />

Venendo adesso alla situazione <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento, si deve purtroppo registrare che<br />

nessun resoconto e relazione degli interventi<br />

subiti dal monumento è stata mai pubblicata<br />

dalla Soprintendenza. Dal materiale fotografico<br />

a disposizione è però possibile dedurre alcune<br />

conclusioni di come siano andate le vicende. È<br />

verosimile che l’Arco <strong>del</strong> Sacramento sia stato<br />

interessato a più riprese da restauri nel corso dei<br />

primi tre decenni dopo i bombardamenti. In un<br />

primo momento è infatti probabile che sia stato<br />

soltanto liberato, insieme all’area sulla quale<br />

insiste, dalle macerie <strong>del</strong>la guerra. Le prime fotografie<br />

di cui si è in possesso risalgono alla fine<br />

degli anni Cinquanta o agli inizi degli anni<br />

Sessanta. Alle spalle <strong>del</strong>l’Arco si vede già ricostruito<br />

il palazzo Arcivescovile edificato, insieme<br />

al Duomo, su progetto <strong>del</strong>l’architetto romano<br />

Paolo Rossi De Paoli, a partire dal 1952. 23 A<br />

SALTERNUM<br />

- 56 -<br />

monte <strong>del</strong>la zona è già stato costruito il palazzo<br />

(ex Upim), mentre ancora non sono stati innalzati<br />

gli altri edifici che come vedremo circonderanno<br />

l’area dalla metà degli anni Sessanta.<br />

L’Arco <strong>del</strong> Sacramento si presenta completamente<br />

isolato sia dalla fabbrica <strong>del</strong> vecchio<br />

Episcopio sia dalle case e dall’ospedale ad Occidente.<br />

Il pilastro ovest sulla facciata meridionale<br />

mostra di essere stato sventrato al momento<br />

<strong>del</strong>la liberazione dalle abitazioni, ed alcuni suoi<br />

blocchi giacciono ancora riversi sul terreno. I<br />

parallelepipedi <strong>del</strong>lo stilobate occidentale nel<br />

cantone esterno, invece, si presentano in buone<br />

condizioni poiché qui, probabilmente, la muratura<br />

<strong>del</strong>le abitazioni vi era solamente addossata.<br />

Si conservano bene lo zoccolo e la cimasa <strong>del</strong><br />

pilastro, e sono venute alla luce un pezzo <strong>del</strong>la<br />

piccola cornice di marmo che decorava l’Arco e<br />

più in su il solco da essa lasciata. Le nicchie<br />

sulle pilastrate sono state interamente svuotate,<br />

e l’arco non mostra più alcuna traccia di intonaco<br />

sulla muratura a vista di mattoni. Nella zona<br />

<strong>del</strong>l’attico il secondo arco di scarico è stato liberato<br />

dalle abitazioni ricavate sin dal Settecento,<br />

e alla sommità <strong>del</strong>l’archivolto è stato liberato dal<br />

secondo ambiente un tempo adibito a cucina<br />

<strong>del</strong>l’Episcopio. A destra <strong>del</strong> pilastro orientale<br />

<strong>del</strong>l’Arco è inoltre venuta allo scoperto una<br />

parte di muratura romana con due ordini di<br />

archi in mattoni che si ammorsa direttamente nel<br />

cantone <strong>del</strong> pilastro, e ad Est si congiunge con<br />

un'altra muraglia sempre romana di grossi blocchi<br />

di parallelepipedi di struttura pseudisodoma.<br />

24<br />

I profili generali murari <strong>del</strong>l’Arco, dunque, si<br />

mostrano abbastanza consunti, segno che dalla<br />

prima fase di liberazione <strong>del</strong>la struttura ancora<br />

non si è passati alla fase di consolidamento <strong>del</strong>la<br />

muratura. Faccio inoltre notare che sulla superficie<br />

<strong>del</strong> monumento sono cresciuti abbondantemente<br />

cespugli di vegetazione spontanea, indice,<br />

questo, che forse già da qualche anno l’Arco<br />

è stato interessato dal primo intervento.<br />

Nel volume di F. Romano edito nel 1968,<br />

all’interno di un paragrafo dedicato all’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento si legge la seguente informazione:<br />

“L’Arco, inferiore a quello di Traiano solo per<br />

le dimensioni e per le sculture, ultimamente è


stato oggetto di una frettolosa riparazione non<br />

secondo le regole <strong>del</strong> restauro dei monumenti.<br />

Per la piena valorizzazione <strong>del</strong> monumento è<br />

opportuno che si proceda alla sistemazione <strong>del</strong>la<br />

zona”. 25<br />

La fotografia a corredo <strong>del</strong> paragrafo, <strong>del</strong>la<br />

fine degli anni Sessanta (l’area <strong>del</strong> Sacramento si<br />

presenta difatti aggredita dalla mole dei palazzi<br />

moderni), ci mostra una situazione <strong>del</strong>le strutture<br />

<strong>del</strong>l’Arco molto diversa rispetto a quanto si<br />

poteva osservare nell’immediato dopoguerra. Il<br />

monumento, infatti, è stato interessato da un<br />

intervento volto al rafforzamento <strong>del</strong>le murature.<br />

Per quanto riguarda la facciata meridionale,<br />

nello stilobate Ovest, quello più danneggiato,<br />

nell’ultimo filare di pietre, in corrispondenza<br />

con l’apertura <strong>del</strong>l’edicola, il vuoto presente è<br />

stato colmato con una fascia di cemento. La stessa<br />

cosa si ripete alla base <strong>del</strong>l’altra nicchia nel<br />

pilastro orientale. Ma ad osservare bene tutta la<br />

muratura, si nota che un po’ in ogni punto dove<br />

la superficie in laterizi era disgregata, i fori sono<br />

stati riempiti con getti di cemento. Soprattutto in<br />

corrispondenza <strong>del</strong>l’imposta dei volti <strong>del</strong>le edicole,<br />

dove correvano le cornici marmoree, i solchi<br />

lasciati dalla loro asportazione sono stati<br />

ricoperti sempre con materiale cementizio. Un<br />

uso altrettanto abbondante se ne è fatto anche<br />

nella facciata settentrionale, nella corona <strong>del</strong> fornice,<br />

nei pilastri <strong>del</strong>le nicchie ed in modo veramente<br />

copioso nell’attico. Uno strato spesso di<br />

cemento, infine, ricopre come una fodera la<br />

sommità <strong>del</strong>l’attico e la spalla di muratura sopra<br />

la nicchia orientale. Riguardo il fronte settentrionale<br />

<strong>del</strong>l’Arco vi è da notare che qui <strong>del</strong>la decorazione<br />

marmorea originaria permangono attualmente<br />

una colonna sulla pilastrata occidentale<br />

(rifissata alla muratura in modo molto approssimativo),<br />

e due pezzi <strong>del</strong> fregio alla sommità di<br />

essa che lasciano intuire come fosse costituita la<br />

trabeazione. Lo spigolo nord-est <strong>del</strong> pilastro<br />

orientale, inoltre, ha perso i suoi blocchi calcarei<br />

<strong>del</strong> dado e <strong>del</strong>la cimasa, e salendo con lo<br />

sguardo si incontra nell’attico il passaggio che<br />

collegava l’ambiente installato nel secondo arco<br />

di scarico all’Ospedale di S. Gaetano.<br />

Il consolidamento <strong>del</strong>la muratura, però, non<br />

si è limitato solo a getti di cemento: soprattutto<br />

VINCENZO INTORCIA<br />

- 57 -<br />

ai lati <strong>del</strong>l’archivolto e nell’attico <strong>del</strong>la facciata<br />

meridionale, i profili <strong>del</strong>l’Arco sono stati ripristinati<br />

con <strong>del</strong> pietrisco di piccola grandezza <strong>del</strong><br />

tipo ad opus incertum. La medesima soluzione<br />

si osserva, in maniera più limitata, alla sommità<br />

<strong>del</strong>l’attico <strong>del</strong> fronte settentrionale. Ora, data la<br />

evidente disparità dei due metodi adottati, sembrerebbe<br />

quasi di trovarsi di fronte a due distinti<br />

interventi di restauro. Ad ogni modo se risulta<br />

<strong>del</strong> tutto accettabile la scelta di ripristinare le<br />

linee di inviluppo <strong>del</strong>l’Arco con la differenziazione<br />

però dei materiali e <strong>del</strong>l’opera muraria in<br />

pietrisco rispetto all’opera originale in laterizi<br />

<strong>del</strong>l’Arco (e questa soluzione rende subito evidenti<br />

gli inserti come opera moderna ma non<br />

fortemente dissonante nei confronti <strong>del</strong>l’opera<br />

antica, secondo i corretti principi <strong>del</strong> restauro<br />

dei monumenti che mirano anzitutto a consolidare<br />

la struttura per trasmetterla al futuro nel<br />

rispetto <strong>del</strong>l’istanza estetica <strong>del</strong> monumento,<br />

senza commettere un falso artistico e un falso<br />

storico) appare al contrario <strong>del</strong> tutto approssimativa,<br />

superficiale, poco decorosa e irrispettosa,<br />

la rappezzatura <strong>del</strong>le chiazze di cemento,<br />

che sembra essere stato applicato in maniera<br />

frettolosa, senza alcun riguardo per l’estetica <strong>del</strong><br />

monumento.<br />

Ma il fattore che ha compromesso maggiormente<br />

una corretta conservazione <strong>del</strong>l’area<br />

monumentale <strong>del</strong>l’Arco fu lo sviluppo urbanistico<br />

<strong>del</strong> dopoguerra. Il Piano di Ricostruzione<br />

post-bellica <strong>del</strong> 1947, 26 infatti, che rimase in<br />

sostanza in vigore fino all’approvazione <strong>del</strong><br />

Piano Regolatore <strong>del</strong> 1970, 27 consentì un’elevata<br />

proliferazione <strong>del</strong>le volumetrie nell’edificazione<br />

dei nuovi edifici, anche per quelli subentranti<br />

sul suolo <strong>del</strong>le abitazioni distrutte nel centro storico.<br />

Così nel corso degli anni Cinquanta e<br />

Sessanta vediamo sorgere nell’intorno <strong>del</strong><br />

Duomo e <strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento tutta una<br />

serie di costruzioni che superano costantemente<br />

i sette piani di altezza. I caratteri architettonici e<br />

ambientali <strong>del</strong>l’area storica di via Carlo Torre<br />

sono stati in questo modo irrimediabilmente<br />

compromessi. Scomparsa quasi <strong>del</strong> tutto l’edilizia<br />

minore prebellica che, seppur priva di specifici<br />

caratteri monumentali, garantiva comunque<br />

una compatta armonia <strong>del</strong>l’insieme <strong>del</strong> costruito,


l’area <strong>del</strong>l’Arco è soffocata dall’arroganza speculativa<br />

<strong>del</strong>le costruzioni moderne. Né il Piano<br />

regolatore di Luigi Piccinato <strong>del</strong> 1958, 28 che prevedeva<br />

una più contenuta e tipologicamente<br />

corretta ricostruzione edilizia, insieme all’individuazione<br />

di diverse aree di salvaguardia nel<br />

centro storico soprattutto quella nella zona <strong>del</strong><br />

Teatro, riuscì ad invertire la tendenza, perché<br />

prima osteggiato e poi reso ineffettivo dal ‘partito<br />

dei costruttori’.<br />

Ma la vicenda che di più ha pregiudicato i<br />

valori storici <strong>del</strong>l’area fu la concessione di una<br />

licenza edilizia per una costruzione a soli pochi<br />

metri ad Ovest <strong>del</strong>l’Arco, nel cuore <strong>del</strong>la zona di<br />

grande rilevanza archeologica: “A seguito di una<br />

edificazione avviata alla fine degli anni ’60 in<br />

attuazione di un superficiale Piano di<br />

Ricostruzione, l’area si presenta, ad una lettura<br />

aerea, nettamente divisa in due parti…la parte<br />

più vicina all’Arco <strong>del</strong> Sacramento è stata interessata,<br />

a partire dai primi anni ’60, da una<br />

campagna di scavi archeologici che una poco<br />

esigente (rispetto agli attuali criteri conservativi)<br />

Soprintendenza archeologica ritenne all’epoca<br />

di poter concludere senza necessità di preservare<br />

alcuna struttura. Sull’area di tale scavo venne<br />

avviata la costruzione di un grande (circa<br />

14.000 metri cubi) edificio residenziale. Di tale<br />

edificio, interrotto per la decadenza <strong>del</strong>la<br />

Licenza Edilizia fortunatamente non rinnovata,<br />

restano oggi le fondazioni e gli imponenti pilastri”.<br />

29<br />

Dunque sull’area <strong>del</strong>l’antico Foro romano fu<br />

prima concessa, e poi avallata finanche dal giudizio<br />

<strong>del</strong>la Soprintendenza competente la<br />

costruzione di un edificio di sette piani.<br />

SALTERNUM<br />

- 58 -<br />

Nel 1970, però, il Comune aveva approvato il<br />

nuovo Piano Regolatore e all’atto <strong>del</strong>la richiesta<br />

<strong>del</strong> rinnovo <strong>del</strong>la Licenza Edilizia presentò il suo<br />

diniego. Purtroppo, nel frattempo, il getto <strong>del</strong>le<br />

fondazioni era già stato effettuato, ed erano stati<br />

innalzati una serie di pilastri in cemento armato.<br />

In attesa che se ne decidesse il nuovo destino,<br />

l’intera area di via Carlo Torre fu lasciata al<br />

degrado e assalita dallo sviluppo spontaneo<br />

<strong>del</strong>la vegetazione, completamente in abbandono<br />

per oltre un trentennio.<br />

Il Piano Particolareggiato <strong>del</strong> centro storico in<br />

attuazione al P.G.R. <strong>del</strong> Settanta, redatto da Bruno<br />

Zevi e Sara Rossi, che prevedeva un progetto di<br />

massima per la riqualificazione <strong>del</strong>l’area, vide la<br />

sua stesura, infatti, solo nel 1978, 30 per essere<br />

però ritirato nel 1982 a seguito <strong>del</strong>le urgenti problematiche<br />

urbanistiche emerse dopo il terremoto<br />

<strong>del</strong> 1980 che colpì la città di Benevento. Nel<br />

1985 si decise così la redazione di una Variante<br />

Generale al Piano Regolatore, che comportò la<br />

progettazione di ulteriori Piani Particolareggiati,<br />

affidati sempre al gruppo Zevi-Rossi, approvati<br />

nel 1989. 31 La zona ad Ovest <strong>del</strong> Duomo viene<br />

quindi indicata come area interessata ad un Piano<br />

di Recupero in base alle prescrizioni <strong>del</strong> piano<br />

particolareggiato <strong>del</strong> 1989. Solo alle soglie <strong>del</strong><br />

Duemila si giunti però al bando di un “Concorso<br />

nazionale di progettazione per il recupero e la<br />

valorizzazione <strong>del</strong>l’area nodale Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento” per tentare di offrire una decorosa<br />

sistemazione ad una <strong>del</strong>le più importanti zone,<br />

carica di memorie, <strong>del</strong> tessuto urbanistico e <strong>del</strong><br />

patrimonio storico-artistico di Benevento.


NOTE<br />

1 R. GARRUCCI, 1875, pp. 78-79.<br />

2 E. ISERNIA, 1895, p. 424 vol. I, p. 145 vol. II; D. PETROCCIA, in<br />

F. ROMANO, 1968, p. 115.<br />

3 M. ROTILI, 1986, pp. 86-87.<br />

4 A ZAZO, Le chiese parrocchiali di Benevento <strong>del</strong> XII-XIV<br />

secolo, in “Samnium” 1959, n. 1/2, p. 98.<br />

5 S. BORGIA, 1769, ristampa fotomeccanica 1968, vol. II. p. 420,<br />

6 D. PETROCCIA, 1968, p. 130.<br />

7 Un’indicazione in proposito potrebbe essere fornita dalla<br />

pietra sicuramente non appartenente alla costruzione originaria<br />

sullo stilobate ovest, nel fronte nord, posta alla sommità<br />

<strong>del</strong> dado, con il lato verso l’esterno che presenta la raffigurazione<br />

di un vaso da cui fuoriescono dei tralci. Come<br />

argomentato, infatti, l’Arco in epoca romana dovette certamente<br />

essere rivestito da lastre di marmo, la qual cosa, quindi,<br />

fa escludere che tale blocco si trovasse in opera originariamente<br />

al di sotto <strong>del</strong>la fodera marmorea, né la consuetudine<br />

costruttiva dei romani, che per queste costruzioni usavano<br />

materiale tutto prodotto ex novo, induce a pensare<br />

contrariamente. Si deve perciò concludere che già in epoca<br />

medievale, l’Arco <strong>del</strong> Sacramento, già spoglio di parte <strong>del</strong><br />

suo rivestimento, fu interessato da un intervento di consolidamento<br />

e sistemazione <strong>del</strong>le sue strutture che portò alla<br />

collocazione sullo stilobate di questo blocco.<br />

8 A. MEOMARTINI, 1889, p. 224.<br />

9 M. TURDEK, 1965; “Cardinale Agostino Oregio <strong>del</strong> tit. di S.<br />

Sisto, Arcivescovo LVI eletto da papa Urbano VIII a’ 17 di<br />

novembre 1633. Ne prese il possesso a’ 16 di dicembre <strong>del</strong>lo<br />

stesso anno. Sedette un anno, mesi sette, giorni 25. Morì in<br />

Benevento a’ 12 di luglio 1635; P. SARNELLI, 1691, p. 151.<br />

10 Il lungo episcopato (1686-1724) a Benevento di frate<br />

Vincenzo Maria Orsini <strong>del</strong>l’ordine dei Predicatori, lascia un<br />

impronta sulla città <strong>del</strong>la sua forte personalità, <strong>del</strong> magistero<br />

<strong>del</strong>la Chiesa e, soprattutto, segna il volto di un notevole<br />

cambiamento nel tessuto urbano e nei suoi monumenti. G.<br />

GIORDANO, L’impegno missionario <strong>del</strong> card. V. M. Orsini,<br />

Benevento 1982, p. 29; per una fonte diretta vedi: I primi<br />

diari beneventani <strong>del</strong> card. V.M.Orsini, a cura di G.<br />

GIORDANO, Benevento 1984. La prova di gran lunga più difficile<br />

e gravosa per il cardinale Orsini e per Benevento furono<br />

i terremoti distruttori <strong>del</strong> 5 giugno 1688 e <strong>del</strong> 14 marzo<br />

1702, che rovinarono in macerie copiosa parte <strong>del</strong> costruito.<br />

Lo stesso Orsini, sorpreso nel suo palazzo e fortunosamente<br />

scampato ai crolli, lo vediamo subito affaccendarsi tra i detriti<br />

e, per la ricostruzione, attingere al suo patrimonio personale<br />

di famiglia, chiamare in città gli architetti: Raguzzini,<br />

Buratti e Nauclerio. Gli eventi sismici arrecano gravi danni e<br />

aprono ferite in vari punti di Benevento, in particolare nell’area<br />

che ci interessa, dov’è sito l’Arco <strong>del</strong> Sacramento, notevoli<br />

guasti vengono riportati dalla Cattedrale e dal palazzo<br />

vescovile. L’Orsini, che non ama il fasto barocco dei superflui<br />

ornamenti, degli apparati teatrali, nella ricostruzione<br />

sembra già orientato verso quella semplificazione e sobrietà<br />

<strong>del</strong>le architetture e decorazioni che nel giro di pochi anni<br />

spingeranno, soprattutto con anticipo a Roma, le forme <strong>del</strong><br />

Barocco non verso l’evanescenza <strong>del</strong> Rococò, ma nel solco<br />

<strong>del</strong>la stagione neoclassica. Applica, quindi, alle strutture<br />

danneggiate e nelle ricostruzioni quella sua particolare visione<br />

<strong>del</strong> ‘restauro’ che si concretizza: “nel ridurre la proporzione<br />

degli edifici alla simmetria <strong>del</strong>lo spazio”. Una pratica, non<br />

bisogna dimenticare, dettata anche dalle necessità economi-<br />

VINCENZO INTORCIA<br />

- 59 -<br />

che. Di questo tono sono proprio gli interventi che porteranno<br />

all’abbattimento di una <strong>del</strong>le navate <strong>del</strong>la Cattedrale, precisamente<br />

quella retrostante il campanile, e la ricostruzione<br />

<strong>del</strong> palazzo arcivescovile alla chiesa contiguo. S. BASILE,<br />

Restauri settecenteschi a Benevento, in “Samnium”, Napoli n.<br />

3/4, 1970.<br />

11 Dalla fine <strong>del</strong> Settecento e soprattutto nel corso<br />

<strong>del</strong>l’Ottocento, l’Italia è la meta prediletta di viaggiatori, artisti,<br />

uomini di cultura. Al di là di personaggi molto conosciuti<br />

come Goethe o Stendhal, è tutta la società europea di certa<br />

una certa cultura <strong>del</strong>l’epoca ad essere attratta dalle bellezze<br />

artistiche e dal patrimonio storico <strong>del</strong> nostro Paese. Così, da<br />

autodidatti, o alla fine dei corsi di studi alle accademie <strong>del</strong>le<br />

belle arti di tutta Europa, i giovani venivano in Italia per<br />

quello che fu detto il grand tour <strong>del</strong>la cultura, tappa ormai<br />

quasi obbligata di una completa formazione. Le soste principali<br />

erano naturalmente le città di Roma, Napoli, Milano,<br />

Firenze, Genova, Bologna, Venezia, e i viaggiatori affascinati<br />

dai paesaggi naturali e artistici lasciavano spesso nei loro<br />

diari i resoconti <strong>del</strong>le impareggiabili bellezze visitate. Anche<br />

numerosi artisti si spostavano, attratti dalle opere <strong>del</strong>l’antichità,<br />

diffondendo, tramite i loro quaderni di vedute e di<br />

‘viaggi pittoreschi’, l’immagine dei luoghi osservati. In tutto<br />

questo pellegrinaggio di ‘turisti’ (sicuramente più coscienti e<br />

preparati dei loro corrispettivi contemporanei), la città di<br />

Benevento, pur non essendo al centro dei percorsi principali,<br />

attirava anch’essa numerosi artisti italiani e stranieri. Da<br />

Luigi Vanvitelli a Carlo Labruzzi, da Gian Paolo Pannini a<br />

Jean Du Plessys Berteaux, Saverio Casselli, Achille Vianelli,<br />

Nicola Palizzi, fino al grande Giovan Battista Piranesi, soprattutto<br />

richiamati dal maestoso esempio <strong>del</strong>l’Arco di Traiano,<br />

ma affascinati poi anche dagli altri monumenti quali il<br />

Teatro, il Ponte Leproso, i Santi Quaranta, e da aspetti caratteristici<br />

<strong>del</strong>le vie di Benevento che seducevano la curiosità<br />

<strong>del</strong> loro occhio, ci lasciarono stupendi disegni e testimonianze<br />

<strong>del</strong>la città <strong>del</strong>l’epoca (cfr. G. ANIELLO, 1982).<br />

12 Artista abilissimo nello schizzo e nella veduta, venne a<br />

Roma al seguito <strong>del</strong> conte Tessè. Collaborò, così, largamente<br />

al Voyage pittoresque <strong>del</strong> Saint-Non. A 69 anni, per incarico<br />

di Napoleone, diresse la pubblicazione di una monumentale<br />

opera dedicata all’Egitto. E. GALASSO (a cura di), 1965, p. 23<br />

13 Il nome suggerisce che ormai nel Settecento il monumento<br />

non veniva già più considerato nelle sue caratteristiche<br />

originali di arco onorario, ma secondo la funzione urbanistica<br />

storica di porta <strong>del</strong>la città medievale.<br />

14 A. MEOMARTINI, 1889, pp. 234-235.<br />

15 In questa pianta, infatti, le sagome degli edifici sono <strong>del</strong>ineati<br />

in maniera schematica secondo i loro contorni di massima,<br />

non seguendo una misurazione reale poi riportata<br />

sulla mappa in scala. Per le maggiori emergenze monumentali<br />

invece si ricorre ad una rappresentazione degli edifici in<br />

alzato, ma la raffigurazione assume più una valenza descrittiva<br />

non seguendo le regole <strong>del</strong>la prospettiva. Tuttavia, nel<br />

suo complesso, la Pianta <strong>del</strong> Piazzella <strong>del</strong>inea un’attendibile<br />

viabilità <strong>del</strong>la città pontificia di Benevento, dei suoi contorni<br />

dentro le mura e <strong>del</strong>la posizione dei maggiori edifici.<br />

16 Formatosi a Bologna e a Roma, operò quale architetto in<br />

molte città italiane, collaborando con il Canova nei disegni<br />

per la chiesa di Possagno. Gli studi prospettici per la basilica<br />

di S. Pietro a Roma furono i suoi primi tentativi nel campo<br />

<strong>del</strong>l’incisione, dove in breve tempo acquistò larga fama. Le<br />

stampe di soggetto beneventano, comprese nella raccolta Gli


archi di trionfo degli antichi Romani (1836) e nel Viaggio<br />

pittoresco da Roma a Napoli (1839) mostrano l’influsso di<br />

Piranesi. E. GALASSO (a cura di), 1965, p. 24.<br />

17 M. BOSCIA- F. BOVE, in F. ROMANO, 1968, p. 153.<br />

18 A. MEOMARTINI, 1889, p. 219.<br />

19 A. MEOMARTINI, 1889, pp. 231-232.<br />

20 Devo però riportare in nota il commento ad una fotografia<br />

<strong>del</strong>l’Arco <strong>del</strong> Sacramento che suscita alcuni interrogativi non<br />

facili da risolvere nella scarsità <strong>del</strong>le informazioni a disposizione.<br />

A pagina 204 <strong>del</strong> volume di F. ROMANO, <strong>del</strong> 1968, è<br />

infatti pubblicata un’immagine <strong>del</strong>l’Arco con una didascalia<br />

che reca genericamente: “L’Arco <strong>del</strong> Sacramento nell’anteguerra”.<br />

Il commento non specifica null’altro e non mi è<br />

stato possibile trovare gli estremi cronologici di detta fotografia.<br />

Intanto questa è l’unica immagine un po’ indietro nel<br />

tempo che mostra la facciata settentrionale <strong>del</strong>l’Arco, e purtroppo<br />

appare non di buona qualità ed è abbastanza sfocata.<br />

Come detto in precedenza qui si notano ancora le decorazioni<br />

nelle pilastrate e nell’archivolto fatte eseguire probabilmente<br />

dal vescovo Oregio (1633-1635). Le perplessità<br />

nascono però dal fatto che da un confronto tra la suddetta<br />

fotografia e le foto di fine Ottocento e di inizio Novecento<br />

che si è adesso esaminate, la situazione <strong>del</strong>l’Arco appare<br />

molto diversa tra i due termini di paragone. Se si prende per<br />

buona la didascalia <strong>del</strong>la foto di Romano, bisognerebbe<br />

necessariamente concludere invece che la zona e l’Arco <strong>del</strong><br />

Sacramento hanno subito profondi mutamenti. Innanzitutto<br />

l’Arco mostra di aver perso al di sopra <strong>del</strong> fornice i due piani<br />

di costruzione ancora sussistenti fino agli inizi <strong>del</strong><br />

Novecento. I contorni est e ovest sono inoltre liberi e non<br />

più completamente inglobati nelle fabbriche <strong>del</strong>l’Episcopio e<br />

<strong>del</strong>l’Ospedale. In via Carlo Torre non si vedono più i prospetti<br />

degli edifici che si congiungevano all’Arco, come<br />

mostrano diversamente le vedute sotto il fornice <strong>del</strong>le foto<br />

antecedenti, e al posto di queste costruzioni vi sono due<br />

muri rettilinei. L’atmosfera <strong>del</strong>la strada appare dunque libera<br />

e ariosa, in netto contrasto con le indicazioni sin qui accumulate.<br />

Si sarebbe quindi indotti a considerare che tra le due<br />

guerre siano intervenuti profondi mutamenti. Ma l’entità<br />

stessa dei cambiamenti a mio avviso non giustifica la collocazione<br />

<strong>del</strong>l’immagine tra i due conflitti bellici mondiali.<br />

Sono invece propenso a credere che la foto riproduca una<br />

situazione già posteriore ai bombardamenti, che spiegherebbero<br />

meglio le variazioni. Come esporrò nelle pagine<br />

seguenti, sono convinto che l’Arco <strong>del</strong> Sacramento fu interessato<br />

non da uno, ma da più interventi di restauro nel<br />

corso <strong>del</strong>la fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta<br />

<strong>del</strong> Novecento. L’immagine di Romano potrebbe allora testimoniare<br />

una situazione intermedia in questi due decenni,<br />

SALTERNUM<br />

- 60 -<br />

una situazione in evoluzione dunque, in progresso, come a<br />

mio parere suggerisce il fatto che nella zona <strong>del</strong>l’attico è presente<br />

una piccola apertura che poi verrà chiusa in concomitanza<br />

con lo svuotamento <strong>del</strong> secondo arco; inoltre, la sommità<br />

<strong>del</strong>l’attico mostra già un contorno netto e deciso non<br />

facilmente ipotizzabile se non in seguito ad un restauro di<br />

chiusura <strong>del</strong>l’alto <strong>del</strong>l’Arco per preservarlo dalle infiltrazioni<br />

degli agenti atmosferici. Infine, il Palazzo arcivescovile, che<br />

prima risultava a filo con la muratura interna <strong>del</strong> pilastro<br />

orientale, non si vede più poiché dopo i bombardamenti che<br />

lo distrussero fu ricostruito leggermente più indietro rispetto<br />

al piano <strong>del</strong> profilo stradale e quello spazio, che adesso nella<br />

foto di Romano è chiuso da un muretto, verrà infine serrato<br />

da una ringhiera per <strong>del</strong>imitare l’accesso alle proprietà <strong>del</strong>la<br />

chiesa, così come è possibile vedere ai giorni nostri.<br />

21 A. BOSCO-P. IADICCIO, in F. ROMANO, 1968, p. 168; G.<br />

VERGINEO, 1985, p. 290; A. FABRIZIO, La bonifica <strong>del</strong> Triggio e<br />

lo scoprimento <strong>del</strong> Teatro Romano, “Il Sannio Fascista”, VII,<br />

n.11, 18 gennaio 1935, p. 3.<br />

22 A DE FRANCISCIS, Benevento. Scavi in “Fasti Archeologici”,<br />

1953, vol. VI, 4573, pp. 346-347.<br />

23 A. JELARDI, 2000, p. 77. La consacrazione <strong>del</strong> nuovo Duomo<br />

avvenne nel 1965.<br />

24 Tale porzione adiacente all’Arco era stata già osservata dal<br />

Meomartini che scriveva: “Da un contiguo sotterraneo <strong>del</strong>l’episcopio<br />

ebbi l’opportunità di osservare che la parete orientale<br />

<strong>del</strong>la pilastrata <strong>del</strong> nostro monumento è libera dalle fabbriche<br />

<strong>del</strong>l’episcopio stesso, essendovi un profondo vuoto<br />

(serve di pozzo nero), ed è rivestita tutta di mattoni. Di là<br />

ebbi occasione di scovrire che parallelamente a detta parete<br />

esiste ancora una muraglia romana, di grossi parallelepipedi<br />

calcarei di struttura pseudisodoma, la quale verrebbe tutta<br />

in luce, ove si demolisse appena il cantone sud-ovest <strong>del</strong><br />

muro <strong>del</strong> giardino <strong>del</strong>l’episcopio, dove al presente esiste una<br />

fontana pubblica”. A. MEOMARTINI, 1889, p. 232. Il cantone<br />

esterno <strong>del</strong> pilastro orientale è, infatti, in buono stato di conservazione<br />

dopo la liberazione poiché, come abbiamo adesso<br />

visto, qui il vecchio palazzo Arcivescovile lasciava un<br />

vuoto.<br />

25 F. ROMANO, 1968, p. 204.<br />

26 A. BOSCO-P. IADICCIO, in F. ROMANO, 1968. p. 169.<br />

27 Ibidem, p. 172.<br />

28 A. JELARDI, 2000, p. 85.<br />

29 G. IADICICCO, P. PALMIERI (a cura di), 2000, p. 15.<br />

30 Quando la zona fu finalmente sottoposta a vincolo urbanistico<br />

ai sensi <strong>del</strong>la legge 1089 <strong>del</strong> 1939. G. IADICICCO, P.<br />

PALMIERI (a cura di), 2000, p. 15.<br />

31 F. BENCARDINO, 1991, p. 84.


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A. JELARDI, Benevento antica e moderna, architettura e<br />

urbanistica dall’Unità d’Italia, Benevento 2000.


BIANCA<br />

CANCELLARE


CARLO EBANISTA<br />

La cristianizzazione <strong>del</strong>le aree funerarie nella tarda<br />

antichità: il caso di Cimitile/Nola<br />

Le necropoli di Nola<br />

Sebbene non manchino testimonianze di<br />

sepolcreti nella zona orientale <strong>del</strong>l’attuale<br />

centro urbano di Nola, le principali<br />

aree cimiteriali sorgevano a Nord-Ovest <strong>del</strong>l’abitato<br />

romano 1 . In via S. Massimo, tanto per<br />

segnalare i rinvenimenti di età tardoantica, sono<br />

state scoperte sepolture in anfora e alla cappuccina<br />

che hanno restituito monete di III-IV secolo<br />

d.C. 2 , mentre in via Anfiteatro Laterizio, presso<br />

la necropoli preromana, è stato individuato<br />

uno scarico contenente numerosissimi frammenti<br />

ceramici databili tra il II e il IV secolo d.C. 3 .<br />

Nella località Torricelle, che prende il nome dai<br />

due mausolei visibili ad Ovest <strong>del</strong>la città 4 (fig. 1),<br />

la necropoli sembra disporsi ai lati di un percorso<br />

stradale con orientamento nord-sud che<br />

mostra segni di usura e ricalca forse un percorso<br />

più antico: oltre a tombe ad inumazione di<br />

prima e media età imperiale, sono venute alla<br />

luce sepolture infantili in anfore, a cassa di tufo,<br />

a fossa semplice o alla cappuccina; in uno dei<br />

sarcofagi tufacei, ai piedi <strong>del</strong>la defunta, era<br />

deposto un gruzzolo di dieci sesterzi <strong>del</strong>la prima<br />

metà <strong>del</strong> III secolo d.C. 5 .<br />

Nel suburbio settentrionale, in corrispondenza<br />

<strong>del</strong>l’attuale territorio comunale di Cimitile, è<br />

stata individuata un’area cimiteriale costituita da<br />

una quindicina di mausolei in opus vittatum<br />

mixtum e da tombe sub divo 6 (fig. 2). Le sepolture<br />

in laterizi si succedevano con ordine perfetto<br />

in lunghe <strong>file</strong> all’aperto o serrate entro locali<br />

in gruppi ordinati 7 . I mausolei, che oltre alle<br />

tombe terragne accoglievano arcosoli e sarcofagi<br />

in marmo, corrispondevano in prevalenza ad<br />

unità familiari, destinate purtroppo a rimanere<br />

senza nome perché non si conosce la prove-<br />

- 63 -<br />

Fig. 1 - Nola, località Torricelle. Mausoleo funerario di età romana.<br />

Fig. 2 - Cimitile,<br />

l’area sepolcrale<br />

alla fine <strong>del</strong> III secolo,<br />

pianta ricostruttiva.<br />

nienza esatta <strong>del</strong>le iscrizioni 8 . La presenza di<br />

un’urna cineraria strigilata (fig. 3) risalente al I-<br />

II d.C. potrebbe costituire un utile elemento<br />

datante, qualora ne fosse accertata con sicurezza<br />

la pertinenza al sepolcreto 9 . Analoga considerazione<br />

va fatta per le due lastre di fregio-architrave<br />

con raffigurazioni d’armi anch’esse sistemate<br />

nell’Antiquarium (primo trentennio <strong>del</strong> II<br />

secolo d.C.), laddove fosse provata la loro<br />

appartenenza ad un mausoleo funerario 10 .<br />

L’assoluta predominanza <strong>del</strong>le inumazioni<br />

rispetto al rito <strong>del</strong>l’incinerazione, attestato soltanto<br />

dall’urna (per la quale non si può esclude-


Fig. 3 - Cimitile.<br />

Antiquarium, urna<br />

strigilata.<br />

re <strong>del</strong> tutto la provenienza da un’altra area cimiteriale)<br />

e da tre nicchie (non è chiaro se effettivamente<br />

destinate a cinerari) esistenti nel mausoleo<br />

7, sembrerebbe indicare che il sepolcreto<br />

sorse nel III secolo d.C. 11 . Nella necropoli di<br />

Porto all’Isola Sacra, ad esempio, a partire dai<br />

primi decenni <strong>del</strong> II secolo è documentata la<br />

compresenza dei riti <strong>del</strong>l’incinerazione e <strong>del</strong>l’inumazione,<br />

mentre dal secolo successivo si assistette<br />

alla graduale scomparsa <strong>del</strong>le nicchie per<br />

urne cinerarie e alla massiccia diffusione <strong>del</strong>le<br />

inumazioni 12 . I due sarcofagi marmorei con<br />

scene mitologiche tuttora conservati a Cimitile<br />

(fig. 4) attestano la presenza nel cimitero di strati<br />

sociali privilegiati, almeno sotto il profilo eco-<br />

Fig. 4 - Cimitile. Antiquarium, sarcofago con mito di Endimione.<br />

SALTERNUM<br />

- 64 -<br />

nomico 13 . Non va escluso che questa necropoli,<br />

ubicata a circa 1,5 km a Nord <strong>del</strong>la città romana,<br />

sia sorta in relazione alla popolazione residente<br />

nelle adiacenti ville rustiche; è noto, infatti, che<br />

soprattutto nelle aree più lontane dalle città in<br />

età imperiale si trovavano piccoli sepolcreti relativi<br />

per lo più a ville o fattorie che si estendevano<br />

direttamente sulle strade di passaggio o nelle<br />

immediate vicinanze <strong>del</strong>la villa di pertinenza 14 .<br />

La tomba di S. Felice e la cristianizzazione<br />

<strong>del</strong>la necropoli settentrionale<br />

Alla fine <strong>del</strong> III secolo d.C. nella necropoli a<br />

Nord di Nola fu seppellito il sacerdote Felice,<br />

morto il 14 gennaio di un anno a noi sconosciuto;<br />

prestigioso esponente <strong>del</strong>la locale comunità<br />

cristiana, Felice aveva amministrato la Chiesa<br />

nolana durante l’assenza forzata <strong>del</strong> vescovo<br />

Massimo, rinunciando però a succedergli nella<br />

carica 15 . Qualche decennio prima <strong>del</strong>la deposizione<br />

di S. Felice si era formato un nucleo di<br />

deposizioni cristiane con tombe ornate di affreschi<br />

16 . Le scene veterotestamentarie dipinte nel<br />

mausoleo 13 nella seconda metà <strong>del</strong> III secolo<br />

indicano, infatti, l’appartenenza <strong>del</strong>l’ambiente<br />

funerario a membri <strong>del</strong>la comunità cristiana 17 .


Paolino di Nola nel carme 18, composto per<br />

il 14 gennaio 400, riferisce che S. Felice fu seppellito<br />

in una solitaria e profumata campagna,<br />

ma non fornisce indicazioni sulla tipologia <strong>del</strong>la<br />

sepoltura 18 . Gli scavi hanno invece appurato che<br />

il santo fu inumato in una tomba terragna in<br />

laterizi (usm 892) nell’ambito <strong>del</strong>la preesistente<br />

necropoli 19 (fig. 2). La sepoltura, orientata secondo<br />

l’asse est-ovest, fu costruita sul terreno vergine,<br />

a breve distanza dal mausoleo 1. Il fondo<br />

venne costituito da quattro mattoni: sull’esemplare<br />

situato più ad Ovest fu realizzato il cuscino<br />

funebre in malta con incavo centrale per<br />

accogliere il capo <strong>del</strong> defunto. Per la copertura<br />

s’impiegarono tre grossi laterizi decorati, sul<br />

piatto inferiore, da una sorta di T (con il tratto<br />

orizzontale leggermente ricurvo) realizzata con<br />

la pressione <strong>del</strong> dito sull’argilla ancora fresca. La<br />

circostanza che la sepoltura 892 fu impiantata<br />

sul terreno vergine potrebbe giustificare, in un<br />

certo senso, quanto Paolino dice a proposito<br />

<strong>del</strong>la deposizione di S. Felice in una solitaria<br />

campagna 20 .<br />

S. Felice, come hanno accertato gli scavi, fu<br />

deposto a Sud di una tomba con orientamento<br />

est-ovest (usm 893), impiantata sul terreno vergine;<br />

realizzata anch’essa in laterizi, la sepoltura<br />

venne completamente rivestita all’interno da<br />

lastre di marmo 21 . Il rivestimento marmoreo indica<br />

che si tratta di un sepoltura privilegiata, relativa<br />

ad un esponente di rilievo <strong>del</strong>la societas<br />

christiana di Nola; non va escluso che possa<br />

trattarsi <strong>del</strong> vescovo Massimo, contemporaneo<br />

di S. Felice. A Nord <strong>del</strong>la tomba 893 è stata scoperta<br />

la forma 894, rivestita di marmo e impiantata<br />

quasi alla stessa quota <strong>del</strong> sepolcro di S.<br />

Felice; è stato supposto che questa tomba sia<br />

appartenuta al vescovo Quinto, successore di<br />

Massimo sulla cattedra nolana 22 .<br />

Nei primi anni <strong>del</strong> IV secolo, anteriormente<br />

alla pace religiosa, le sepolture 892, 893 e 894<br />

furono racchiuse da un piccolo edificio quadrato<br />

(mausoleo A), cui si accedeva da Sud in rapporto<br />

alla strada che giungeva da Nola.<br />

Realizzato in opus vittatum mixtum, l’ambiente<br />

era rivestito all’esterno da un intonaco dipinto in<br />

rosso; all’interno, invece, le pareti erano affrescate<br />

con un motivo ad imitazione <strong>del</strong>l’opus sec-<br />

CARLO EBANISTA<br />

- 65 -<br />

Fig. 5 - Lastra<br />

con i due fori e il<br />

crioforo sulla tomba<br />

di S. Felice.<br />

Fig. 6 - Il mausoleo A, ricostruzione assonometrica.<br />

tile 23 . Qualche tempo dopo la costruzione <strong>del</strong><br />

mausoleo A, la tomba di S. Felice venne interessata<br />

da un intervento volto a consentire alla<br />

comunità cristiana una più adeguata venerazione<br />

24 . L’operazione comportò l’innalzamento <strong>del</strong><br />

calpestio e la parziale distruzione <strong>del</strong>l’affresco: i<br />

due laterizi, che coprivano la parte occidentale<br />

<strong>del</strong>la tomba, furono incavati e sfondati per sistemarvi<br />

un vaso marmoreo a corpo troncoconico<br />

terminante con un puntale. Il recipiente, che<br />

venne a trovarsi pressappoco all’altezza <strong>del</strong> torace<br />

<strong>del</strong> defunto, fu murato tra due strati di malta<br />

con interposto piano di laterizi. Su questo con-


Fig. 8 - Epigrafe di un diacono morto nel 541.<br />

Fig. 7 -<br />

Cimitile.<br />

L’area<br />

sepolcrale<br />

alla fine <strong>del</strong> III<br />

secolo, pianta<br />

ricostruttiva.<br />

Fig. 9 - Ricostruzione assonometrica <strong>del</strong>l’aula ad corpus e <strong>del</strong> mausoleo<br />

15 (prima metà <strong>del</strong> IV secolo).<br />

glomerato e sull’orlo <strong>del</strong> vaso, pressappoco in<br />

quota con la soglia <strong>del</strong> mausoleo A, venne sistemata<br />

una lastra marmorea di reimpiego (fig. 5)<br />

che in origine doveva essere inquadrata, su<br />

almeno tre lati, da una cornice con fregio vegetale,<br />

da un listello e da un kyma lesbio. Il fregio<br />

che decorava verosimilmente il quarto lato <strong>del</strong>la<br />

SALTERNUM<br />

- 66 -<br />

lastra (quello attualmente rivolto verso Sud)<br />

dovette scomparire in occasione <strong>del</strong> reimpiego,<br />

allorché il marmo fu tagliato fino ad assumere<br />

una larghezza di 81 cm. Nel campo centrale<br />

venne scolpito a rilievo un personaggio stante<br />

che indossa una corta tunica e reca un animale<br />

(pecora?) all’altezza <strong>del</strong> torace. Alcuni indizi<br />

sembrano suggerire che la raffigurazione, riconoscibile<br />

come l’immagine <strong>del</strong> Buon Pastore, sia<br />

stata scolpita in occasione <strong>del</strong> reimpiego e che,<br />

quindi, non facesse parte <strong>del</strong>l’originaria decorazione.<br />

In occasione <strong>del</strong> riutilizzo, ad Ovest <strong>del</strong><br />

crioforo ma sempre all’interno <strong>del</strong> campo centrale<br />

<strong>del</strong>la lastra, furono praticati due fori circolari<br />

di diverso diametro. Quello meridionale<br />

venne fatto corrispondere al sottostante vaso ed<br />

era chiuso da un tappo marmoreo circolare.<br />

L’altro foro intercettò il vaso solo parzialmente,<br />

tanto che per metterlo in comunicazione con il<br />

recipiente si dovette tagliarne l’orlo; tutt’intorno<br />

venne ricavato un leggero avvallamento in corrispondenza<br />

<strong>del</strong> quale furono praticati quattro<br />

piccoli incassi destinati ad alloggiare un coperchio<br />

metallico o una grata.<br />

La lastra con i due fori ha permesso di identificare<br />

la sottostante sepoltura 892 con la tomba<br />

di S. Felice. Il primo riferimento al marmo che<br />

copriva il venerato sepolcro ricorre nel carme<br />

18 25 (scritto per il 14 gennaio 400), ove Paolino<br />

di Nola racconta che i fe<strong>del</strong>i cospargevano di<br />

profumo di nardo la tomba e ne traevano<br />

unguenti resi salutari dal contatto 26 , secondo l’usanza<br />

descritta anche dal contemporaneo<br />

Prudenzio. I due foramina sono descritti nel<br />

carme 21, composto per il 14 gennaio 407, nel<br />

quale Paolino narra la ricognizione <strong>del</strong> sepolcro<br />

di S. Felice 27 ; l’iniziativa fu originata dal desiderio<br />

di comprendere il motivo per cui i vasetti<br />

calati nei due fori <strong>del</strong>la lastra, invece di trarre<br />

fuori il nardo che vi era stato versato, trascinavano<br />

su sabbia, polvere, ossicini, cocci e calcinacci<br />

28 . La presenza dei foramina e la loro posizione<br />

rispetto alla tomba sottostante rinviano<br />

alla consuetudine, diffusa in ambito pagano ma<br />

anche tra i cristiani, di versare nelle tombe latte,<br />

miele, vino, sostanze aromatiche attraverso fori<br />

o tubuli (metallici oppure fittili) che terminavano<br />

in corrispondenza <strong>del</strong> capo <strong>del</strong> defunto.


La sistemazione <strong>del</strong>la tomba di S. Felice a<br />

Cimitile documenta un precoce caso di reimpiego<br />

di spolia; la lastra, databile forse al I secolo<br />

d.C., venne prelevata da un monumento abbandonato.<br />

Il riutilizzo lascia intuire un discreto<br />

impegno finanziario da parte <strong>del</strong>la comunità cristiana<br />

di Nola e nello specifico di quella élite<br />

colta, ma praticamente anonima, attiva in campo<br />

edilizio prima <strong>del</strong>l’arrivo di Paolino 29 . L’uso <strong>del</strong><br />

marmo, sia pure di reimpiego, indica una certa<br />

disponibilità economica e il desiderio di conferire<br />

pregio alla tomba di S. Felice. Rilavorata<br />

accuratamente per ricavare l’immagine <strong>del</strong> Buon<br />

Pastore e i fori, la lastra venne adattata con<br />

attenzione al contesto funerario e al sottostante<br />

vaso, onde allestire al meglio il dispositivo cultuale<br />

(fig. 6). Se l’orlo arrotondato dei fori sembra<br />

finalizzato a facilitare l’introduzione <strong>del</strong>le<br />

essenze odorose e dei vascula, la fuoriuscita di<br />

sabbia, polvere, ossicini, cocci e calcinacci<br />

segnalata da Paolino nel carme 21 indica che<br />

almeno uno di essi fosse lasciato aperto o, piuttosto,<br />

che fosse protetto soltanto da una grata<br />

che permetteva l’infiltrazione di sporcizia e altro.<br />

Le sepolture ad sanctos e la trasformazione<br />

<strong>del</strong>la prassi funeraria<br />

Nel panorama funerario tardoantico l’elemento<br />

nuovo è, senza dubbio, rappresentato dalle<br />

tombe dei martiri, ma un’altra significativa innovazione<br />

è costituita dalla costruzione <strong>del</strong>le aule<br />

di culto capaci di appagare il desiderio dei più<br />

di ottenere una sepoltura ad sanctos, oltre che<br />

di accogliere i fe<strong>del</strong>i nelle celebrazioni annuali 30 .<br />

Le inumazioni usufruivano, grazie alla vicinanza<br />

alla tomba venerata, <strong>del</strong>l’energia salvifica attribuita<br />

alla presenza <strong>del</strong> corpo santo 31 . Il sepolcro<br />

di S. Felice rientra a pieno titolo in questa prassi<br />

dal momento che funzionò da polo di attrazione<br />

<strong>del</strong>le sepolture e determinò una massiccia<br />

e disordinata sovrapposizione di tombe cristiane<br />

in tutti gli spazi disponibili, sia all’interno degli<br />

ambienti funerari sia al loro esterno 32 .<br />

Già anteriormente alla pace religiosa <strong>del</strong> 313<br />

d.C. due sepolture ad sanctos (usm 926, 927)<br />

furono impiantate nello stesso mausoleo A, al di<br />

CARLO EBANISTA<br />

- 67 -<br />

sopra rispettivamente <strong>del</strong>le tombe 893 e 894, di<br />

cui conservarono l’orientamento. Solo lo spazio<br />

occupato dal sepolcro di S. Felice venne lasciato<br />

libero per il riguardo dovuto e per consentire<br />

le pratiche devozionali 33 . Ben più numerose<br />

furono le sepolture ad sanctos sistemate, agli<br />

inizi <strong>del</strong> IV secolo, nei mausolei B e C che prospettavano<br />

sul piazzale antistante l’edificio funerario<br />

A 34 (fig. 7). L’ambiente B, che è coevo al<br />

mausoleo A, ospitò sei inumazioni orientate<br />

Nord-Sud e disposte su tre strati. Il mausoleo C,<br />

cui si accedeva da Sud, accolse forse nove<br />

tombe; al di sopra <strong>del</strong>le coperture, costituite da<br />

laterizi alloggiati nelle pareti <strong>del</strong>l’ambiente, iniziava<br />

la decorazione a fresco che alla base presentava<br />

un motivo vegetale analogo a quello<br />

che ornava il mausoleo B. Il desiderio di essere<br />

deposti presso il sepolcro di S. Felice diede<br />

luogo all’affollamento di inumazioni anche all’esterno<br />

dei mausolei. Nel piazzale antistante gli<br />

ambienti A e B, ad esempio, vennero sistemati<br />

due sarcofagi ricavati da un unico blocco di<br />

tufo, ma con due distinti coperchi 35 . Anche negli<br />

altri edifici funerari <strong>del</strong>la necropoli, ubicati a<br />

maggiore distanza dalla tomba di S. Felice, le<br />

sepolture occuparono tutti gli spazi disponibili.<br />

Diversamente da quanto era accaduto in precedenza,<br />

allorché le tombe terragne sfruttavano<br />

razionalmente lo spazio, le sepolture finirono<br />

per occupare disordinatamente l’interno (raggiungendo<br />

talora quasi le volte) e l’esterno degli<br />

ambienti funerari. Queste sepolture ‘disordinate’<br />

sono databili per lo più al IV secolo, quando la<br />

necropoli, costellata sempre più di tombe cristiane<br />

sin dalla fine <strong>del</strong> secolo precedente, perse<br />

forse già dall’epoca <strong>del</strong>la pace religiosa il suo<br />

carattere privato o famigliare accentuando quello<br />

comunitario 36 . Questo cambiamento è certamente<br />

all’origine <strong>del</strong>l’addensarsi <strong>del</strong>le sepolture<br />

negli edifici funerari e nelle loro vicinanze,<br />

secondo una prassi ricorrente nelle aree cimiteriali<br />

cristiane. In relazione a questo fenomeno<br />

faccio rilevare, tanto per citare qualche esempio,<br />

le stringenti analogie con quanto avvenne nella<br />

necropoli <strong>del</strong>la via Laurentina ad Ostia 37 o nell’area<br />

cimiteriale di età imperiale ubicata nel suburbio<br />

orientale di Pozzuoli. In quest’ultimo caso<br />

negli ambienti funerari, entro il IV secolo, furo-


no realizzate <strong>del</strong>le sepolture «in fossa terragna o<br />

in cassa di muratura di tufo e copertura di tegole,<br />

che spesso riempivano gli edifici sino al livello<br />

d’imposta <strong>del</strong>le volte» 38 , senza che ci fossero<br />

«più risorse economiche sufficienti ad erigere<br />

nuove costruzioni» 39 .<br />

Sebbene fuori contesto, le epigrafi cristiane<br />

forniscono utili elementi datanti sull’utilizzo<br />

funerario <strong>del</strong>la necropoli di Cimitile. Tra le iscrizioni<br />

recanti la data consolare, la più antica è<br />

quella di Serbilla deceduta nel 359 40 , mentre la<br />

più recente è dedicata ad una diciottenne di<br />

nome Urbica 41 († 567). La gran parte <strong>del</strong>le epigrafi<br />

appartiene al V-VI secolo, a testimonianza<br />

<strong>del</strong>la modesta frequenza d’inumazioni di riguardo<br />

presso la tomba di S. Felice per buona parte<br />

<strong>del</strong> IV secolo 42 . Nell’interessante varietà di personaggi<br />

cui fanno riferimento le iscrizioni troviamo,<br />

oltre a rappresentanti <strong>del</strong> clero (fig. 8), vergini<br />

consacrate, personalità <strong>del</strong>la vita cittadina e<br />

<strong>del</strong>la pubblica amministrazione 43 .<br />

1<br />

EBANISTA, 2005, pp. 317-320.<br />

2<br />

POZZI PAOLINI, 1987, pp. 567-568; POZZI PAOLINI, 1988, pp. 722-723;<br />

POZZI PAOLINI, 1989-90, p. 629; SAMPAOLO, 1990, p. 54.<br />

3<br />

SAMPAOLO, 1984, p. 507.<br />

4 Le più antiche attestazioni dei due monumenti sono dovute agli<br />

eruditi locali (LEONE, 1514, c. 12v; REMONDINI, 1747, pp. 106-107); i<br />

resti di un terzo monumento funerario di età augustea sono stati<br />

scoperti in via traversa S. Agata, nei pressi di uno dei mausolei da<br />

sempre in vista (ZEVI, 2004, p. 907).<br />

5<br />

ALBORE LIVADIE - MASTROLORENZO - VECCHIO, 1988, p. 79; DE CARO,<br />

1999a, p. 840.<br />

6<br />

EBANISTA, 2003, pp. 49-111.<br />

7<br />

CHIERICI, 1957, p. 107.<br />

8<br />

TESTINI, 1985, p. 341.<br />

9<br />

EBANISTA, 2003, pp. 61-63, fig. 11.<br />

10<br />

PENSABENE, 2003, p. 163.<br />

11<br />

EBANISTA, 2003, p. 58.<br />

12<br />

CALZA, 1940, p. 68; BALDASSARRE, 1980, p. 127; PAVOLINI, 1983, p.<br />

262; TAGLIETTI, 2001, p. 149.<br />

13<br />

EBANISTA, 2003, pp. 64-68, figg. 12-13.<br />

14<br />

EBANISTA, 2003, p. 558.<br />

15<br />

EBANISTA, 2006, pp. 17-18.<br />

16<br />

TESTINI, 1985, p. 339.<br />

17<br />

KOROL, 1987, p. 177.<br />

18<br />

PAUL. NOL. carm. 18, 131-137.<br />

19<br />

EBANISTA, 2006, pp. 23-24, figg. 4-7.<br />

20<br />

EBANISTA, 2003, pp. 49, 101.<br />

21<br />

EBANISTA, 2006, pp. 24-27, figg. 4-5, 8.<br />

22<br />

EBANISTA, 2006, pp. 27-28, figg. 4-5, 9.<br />

23<br />

EBANISTA, 2003, pp. 98-99.<br />

24<br />

EBANISTA, 2006, pp. 31-37, figg. 11-15.<br />

25<br />

PAUL. NOL. carm. 18, 92-93 (Ecce vides tumulum sacra martyris<br />

ossa tegentem | et tacitum obtento servari marmore corpus).<br />

26<br />

PAUL. NOL. carm. 18, 38-39 (Martyris hi tumulum studeant perfundere<br />

nardo, | ut medicata pio referant unguenta sepulchro).<br />

27<br />

PAUL. NOL. carm. 21, 558-642; cfr. EBANISTA, 2003, p. 135.<br />

28<br />

PAUL. NOL. carm. 21, 590-600 (Ista superficies tabulae gemino patet<br />

SALTERNUM<br />

- 68 -<br />

Nessuna memoria, invece, è rimasta <strong>del</strong>la<br />

massa anonima dei devoti <strong>del</strong> santo, se si eccettua<br />

la preziosa testimonianza dei graffiti 44 che<br />

alcuni pellegrini tracciarono all’esterno <strong>del</strong>la<br />

chiesa (fig. 9) eretta dai Nolani, nella prima metà<br />

<strong>del</strong> IV secolo, sulla tomba di S. Felice, a seguito<br />

<strong>del</strong>la demolizione dei mausolei A, B e C 45 . L’area<br />

cimiteriale si stava intanto trasformando in un<br />

grandioso e frequentatissimo santuario, grazie<br />

soprattutto alla fervente attività di Paolino di<br />

Nola che vi si stabilì alla fine <strong>del</strong> IV secolo.<br />

Presso il complesso martiriale, collegato a Nola<br />

da una strada lastricata, sorse un villaggio che<br />

Paolino ricorda per la prima volta nel 399-400.<br />

Dall’originaria destinazione sepolcrale, il santuario<br />

e l’abitato derivarono la denominazione di<br />

Cimiterium che nell’altomedioevo si affiancò a<br />

quella ben più antica di Nola; attestato per la<br />

prima volta nell’839, il toponimo si trasformò nel<br />

corso dei secoli in Cimitino e quindi in Cimitile 46 .<br />

ore | praebens infuso subiecta foramina nardi. | Quae cineris<br />

sancti veniens a sede reposta | sanctificat medicans arcana spiritus<br />

aura, | haec subito infusos solito sibi more liquores | vascula de<br />

tumulo terra subeunte biberunt, | quique loco dederant nardum,<br />

exhaurire parantes, | ut sibi iam ferrent, mira novitate repletis | pro<br />

nardo vasculis cumulum erumpentis harenae | inveniunt pavidique<br />

manus cum pulvere multo | faucibus a tumuli retrahunt), 605-<br />

608 (pulvis ... | quem manus e tumulo per aperta foramina promptum<br />

| hauserat et varia concretum sorde ferebat | cum ossiculis<br />

simul et testis cum rudere mixtis).<br />

29 TESTINI, 1985, p. 365.<br />

30 PANI ERMINI, 1989, p. 845; ARIÈS, 1992, pp. 37-45; DELLE ROSE, 1993,<br />

p. 772.<br />

31 L’orientamento canonico <strong>del</strong>le tombe scomparve quando il culto<br />

dei martiri provocò nei cimiteri il formarsi di poli di attrazione intorno<br />

ai quali sorsero sepolcri e mausolei; è proprio la presenza di<br />

edifici-fulcro di carattere monumentale, verso i quali convergono le<br />

sepolture, che più colpisce nei cimiteri sub divo <strong>del</strong>l’epoca <strong>del</strong>la<br />

pace e che distingue nettamente l’urbanistica <strong>del</strong>le necropoli cristiane<br />

da quella <strong>del</strong>le antiche aree pagane (FASOLA - FIOCCHI NICOLAI,<br />

1989, p. 1175).<br />

32 EBANISTA, 2003, pp. 59-60, 558.<br />

33 EBANISTA, 2003, p. 107.<br />

34 EBANISTA, 2003, pp. 97-98, 558-559, fig. 23.<br />

35 EBANISTA, 2003, p. 111, fig. 27 (usm 919-920).<br />

36 TESTINI, 1978, p. 168.<br />

37 PAROLI, 1993, p. 155.<br />

38 GIALANELLA - DI GIOVANNI, 2001, p. 166.<br />

39 DE CARO, 1999b, p. 226, tav. X n. 1.<br />

40 CIL,X/1, p. 152, n. 1338.<br />

41 CIL, X/1, p. 154, n. 1361.<br />

42 TESTINI, 1985, p. 368.<br />

43 TESTINI, 1985, pp. 367-370.<br />

44 FERRUA, 1965; EBANISTA, 2003, pp. 124-126, fig. 37; LAMBERT, 2004,<br />

p. 61, fig. 18; GALANTE, 2005; EBANISTA, 2006, pp. 52-53, fig. 27.<br />

45 EBANISTA, 2003, pp. 118-158; EBANISTA, 2006, pp. 49-51, figg. 24-25.<br />

46 EBANISTA, 2003, pp. 556-558; EBANISTA, 2005, pp. 350-357.


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STEFANIA DE MAJO<br />

Il commercio <strong>del</strong>l’allume in età romana:<br />

un monopolio dimenticato<br />

‘La grande storia ha per lungo tempo ignorato<br />

l’allume, protagonista assai discreto <strong>del</strong>le<br />

vicende umane, così come ha lungamente trascurato<br />

il grano, l’olio e, in generale, tutto ciò<br />

che è indispensabile alla vita quotidiana: <strong>del</strong><br />

resto è soltanto quando il fornaio non ha più il<br />

pane che si parla di lui. Contadini, artigiani e<br />

operai sono più necessari alla vita degli uomini<br />

che non tutti i Carlo V, ma si tratta di gente<br />

modesta che non ama parlare di sé’ (DELUMEAU,<br />

1962, p. 301).<br />

La bellissima riflessione di Jean<br />

Delumeau, calzante perfettamente con<br />

qualsiasi periodo storico, è in particolar<br />

modo riferita, nel discorso specifico <strong>del</strong>l’allume,<br />

all’età moderna, ma sarebbe, a mio parere,<br />

ancor più appropriata per l’età antica. Se è vero<br />

che quelle classi sociali che hanno permesso a<br />

tutte le altre di esistere e di fare la storia al posto<br />

loro sono state poco considerate dalla storia di<br />

tutti i tempi, è anche vero che gli scrittori greci<br />

e romani sono stati i più inclementi. Esaltato nel<br />

1540 come ‘non meno utile per i tintori che il<br />

pane per l’uomo’ 1 , l’allume non ritrova la stessa<br />

popolarità nel mondo antico se non in pochi<br />

autori. Giuseppe Nenci denuncia a ragione<br />

come l’allume sia “il grande dimenticato nella<br />

storia <strong>del</strong>l’economia antica” 2 , eppure esso ha<br />

ricoperto un ruolo tale, per la molteplicità di usi<br />

cui si prestava, da essere un prodotto non solo<br />

utile ma indispensabile.<br />

Ma che cos’è l’allume?<br />

Alla luce <strong>del</strong>la chimica moderna, quello che<br />

Plinio definisce un ‘sale sudato dalla terra’ 3 è un<br />

solfato doppio di alluminio e potassio (K 2 SO 4 .<br />

- 71 -<br />

Fig. 1 - Anfora tipo Richborough 527-<br />

Lipari 2b (da TYERS 1996*).<br />

Al 2 (SO 4 ) 3 . 24H2 O) che assume il nome di<br />

‘‘allume di rocca’’ quando si presenta sotto<br />

forma vetrosa. Attualmente viene impiegato nell’industria<br />

<strong>del</strong>la carta per la sbiancatura e la collatura,<br />

per la depurazione <strong>del</strong>l’acqua, come<br />

emostatico dopobarba, come antiodorante (lo<br />

troviamo di frequente in vendita sulle bancarelle<br />

sotto il nome di ‘cristallo di potassio’), nell’agricoltura<br />

biologica per la conservazione <strong>del</strong>le<br />

banane durante l’immagazzinamento, come<br />

ignifugo per vernici e prodotti antincendio.<br />

Nelle fonti antiche è indicato di frequente<br />

come medicinale utilizzato per scongiurare mali<br />

diversi grazie alle sue proprietà astringenti, antisettiche,<br />

lenitive. Era poi utilizzato come impregnante<br />

in strutture architettoniche lignee,<br />

soprattutto in ambito bellico, per proteggerle<br />

dagli incendi; nella lavorazione dei metalli 4 e per<br />

la conservazione <strong>del</strong>l’uva e <strong>del</strong> vino. L’allume<br />

però trovava il suo maggiore impiego in ambito<br />

artigianale come mordente nella tintura dei tessuti<br />

e nella concia <strong>del</strong>le pelli, essendo, se non<br />

l’unica, la migliore sostanza atta a questo scopo<br />

fino all’introduzione <strong>del</strong> tannino nell’Ottocento.


Fig. 2 - Alcuni tipi di allume nativo (da SINGER 1948, p. 235).<br />

Riflettere su quali e quanto svariati usi trovavano<br />

prodotti quali cuoio (dall’abbigliamento alla<br />

costruzione di barche, alla fabbricazione di<br />

scudi e contenitori) e lana (‘frutto straordinario<br />

<strong>del</strong> bestiame [...] come la pecora ci dà il suo frutto<br />

per le vesti, così la capra il pelo per usi nautici,<br />

per macchine da guerra, e per vasi fabbrili’) 5 ,<br />

aiuta a comprendere ancor di più il peso anzi, la<br />

necessità <strong>del</strong>l’allume nell’economia antica.<br />

Il termine greco στυπτηρíα (στúφειν =<br />

restringere) è indicativo <strong>del</strong>la caratteristica per la<br />

quale era meglio nota questa sostanza (‘Summa<br />

omnium generum vis astringendo, unde nomen<br />

Graecis’ 6 ; τοúνοµα παρωνóµασται τêß sτúφει 7 ),<br />

mentre la falsa etimologia latina di ‘alumen…a<br />

lumine quod lumine coloribus praestat tingendis’<br />

di Isidoro di Siviglia 8 proviene dalla proprietà<br />

di rendere le sostanze coloranti insolubili<br />

nelle fibre e più brillanti. In effetti l’origine <strong>del</strong><br />

termine latino non è chiara e secondo alcuni<br />

potrebbe derivare, insieme con bitumen, da una<br />

lingua non indoeuropea. Il primo autore in cui<br />

si trova questo termine è Varrone, il quale lo<br />

associa allo zolfo 9 .<br />

SALTERNUM<br />

- 72 -<br />

Il monopolio eoliano<br />

L’informazione di maggior rilievo che riusciamo<br />

ad acquisire dalle fonti antiche è che l’allume<br />

era un prodotto di monopolio, dunque un<br />

prodotto indispensabile e raro. Indispensabile<br />

perché legato ad un artigianato volto a produrre<br />

beni di prima necessità (lana e pelli). Raro per<br />

quantità ma soprattutto qualità. Formato soprattutto<br />

dall’azione fumarolica o idrotermale, l’allume<br />

è potenzialmente presente in tutte le zone<br />

vulcaniche ma in forme spesso molto impure. Le<br />

terre alluminose di Pozzuoli, ad esempio, sono<br />

conosciute in età romana (ne fa menzione<br />

Vitruvio 10 ) ma non sfruttabili in ambito artigianale<br />

perché le frequenti impurità avrebbero macchiato<br />

i tessuti. Era invece la piccola isola di<br />

Lipari a produrre l’allume più puro e a rifornire<br />

tutto l’Occidente romano 11 detenendo un vero e<br />

proprio monopolio. Preziose sono state per l’individuazione<br />

<strong>del</strong>l’isola le testimonianze di<br />

Strabone 12 e soprattutto di Diodoro Siculo: “ E<br />

quest’isola (Lipari) possiede miniere di allume,<br />

da cui i Liparesi e i Romani traggono grandi<br />

profitti. Dal momento che l’allume non si trova<br />

da nessuna parte nel mondo abitato ed è di<br />

grande utilità, essi ne detengono il monopolio e<br />

possono alzarne il prezzo traendo un incredibile<br />

guadagno” 13 . A livello archeologico però non<br />

esisteva alcuna conferma di quanto affermato<br />

dai due storici fino alla scoperta nel 1993 <strong>del</strong>la<br />

prima ed unica fornace di anfore da allume, le<br />

cosiddette Richborough 527, in contrada<br />

Portinenti a Lipari, anfore rimaste per decenni<br />

senza patria né contenuto 14 (Fig. 1). La loro<br />

incredibile diffusione, che copre tutti i paesi<br />

<strong>del</strong>l’Occidente romano e non solo, rappresenta<br />

l’unica testimonianza materiale <strong>del</strong> monopolio<br />

esercitato da Lipari, permettendoci di seguire le<br />

rotte commerciali di un bene deperibile e finora<br />

ignorato.<br />

Una ulteriore conferma che si trattasse proprio<br />

di allume e non di un altro prodotto è costituta<br />

da una testimonianza proveniente dalla<br />

necropoli romana di Lipari. Si tratta di un’iscrizione<br />

marmorea ormai perduta, appartenente al<br />

basamento di un monumento dedicato al ‘procurator<br />

Cornelius Masutus Tiberii Caesaris<br />

Augusti et Iuliae Augustae’ 15 . Questi non poteva


certo essere l’amministratore di un latifondo<br />

imperiale in un’isola di 9x4 km e non coltivabile<br />

per più <strong>del</strong>la metà. Seppure la rimanente<br />

parte è ricordata sia da Strabone che da Diodoro<br />

per la particolare fertilità, i prodotti potevano<br />

essere sufficienti per il consumo locale, non<br />

certo per avviare una rete commerciale nel<br />

Mediterraneo. Più logico sarebbe dunque pensare<br />

che questo Cornelio Masuto amministrasse le<br />

cave di zolfo e allume.<br />

E’ probabile che l’allume eoliano fosse sfruttato<br />

sin dalla preistoria insieme con l’ossidiana.<br />

E’ invece quasi certo che questo era un importante<br />

motivo di richiamo per le popolazioni<br />

micenee che, tra XVI e IX secolo a.C., hanno<br />

lasciato ampie tracce di frequentazione commerciale<br />

in Sicilia e Italia meridionale.<br />

Nonostante l’interesse che l’allume ha risvegliato<br />

negli studi degli ultimissimi anni, restano<br />

ancora diversi aspetti da comprendere, soprattutto<br />

per quanto riguarda i metodi di estrazione<br />

e lavorazione in età antica. Per le epoche successive<br />

siamo infatti più fortunati.<br />

L’età medievale e moderna: l’allume artificiale<br />

A partire dall’età medievale la storia <strong>del</strong>l’allume<br />

comincia ad essere meno oscura; compare<br />

spesso in trattati tecnici e appunti artigiani.<br />

In opere quali le Compositiones varia ad tingenda<br />

musiva, ricette messe insieme all’inizio<br />

<strong>del</strong>l’800, la Mappae Clavicula, <strong>del</strong> 950 circa, l’opera<br />

<strong>del</strong> monaco Teofilo De diversis artibus o il<br />

De coloribus et artibus Romanorum attribuita<br />

ad Eraclio, l’allume è ingrediente fondamentale<br />

di numerose ricette. Per la proprietà di fissare i<br />

colori e quindi anche di ‘inaurare’, è citato in<br />

moltissimi scritti di alchimia araba e latina (‘gli<br />

alchemici e li parteliori molto se ne serveno,<br />

anzi senza esso le loro acque acutesar non posseno…’<br />

16 ). Non dobbiamo poi dimenticare<br />

quanto grande sia in età medievale la diffusione<br />

di libri miniati detti anche ‘alluminati’ o ‘illuminati’<br />

poiché la loro brillantezza era dovuta<br />

soprattutto a lacche alluminate (miscele di allume,<br />

zucchero e miele, incorporate in soluzioni<br />

di gomma arabica e chiara d’uovo) cosparse sui<br />

colori per fissarli e proteggerli. In più la pergamena<br />

(presumibilmente conciata all’allume),<br />

STEFANIA DE MAJO<br />

- 73 -<br />

Fig. 3<br />

VANNUCCIO<br />

BIRINGUCCIO,<br />

De la<br />

pirotechnia<br />

libri decem,<br />

1540.<br />

prima <strong>del</strong>la pittura, era impregnata di una<br />

soluzione di allume e piccole quantità di cinabro.<br />

L’allume liparota si esaurisce nell’VIII secolo<br />

circa a causa probabilmente di una violenta eruzione,<br />

costringendo l’intero mercato artigiano<br />

alla ricerca di altre cave. E’ di fondamentale<br />

importanza sottolineare che questo tipo di allume,<br />

detto naturale o nativo, era una cristallizzazione,<br />

una efflorescenza che non necessitava di<br />

una lavorazione complessa. Tuttavia aveva il<br />

grande svantaggio di trovarsi in natura in forme<br />

quasi sempre impure, mescolate con altre<br />

sostanze, e soprattutto di essere solubile in<br />

acqua, quindi facilmente deperibile. A partire<br />

dal X secolo si scopre nel Vicino Oriente il<br />

modo di ottenere allume da rocce comuni contenenti<br />

solfato di alluminio e zolfo (scisti piritici)<br />

mettendole a bollire con urina, che è una<br />

sostanza ammoniacale: si formava così allume di<br />

ammonio. In Asia Minore intanto si incominciava<br />

già da tempo a ricavare il prezioso mordente<br />

dal minerale di alunite che, dopo una lunga e<br />

complessa lavorazione, viene trasformato in<br />

allume, detto erroneamente artificiale, che gradualmente<br />

sostituisce quello naturale.


Fig. 4<br />

Lavorazione<br />

<strong>del</strong>l’alunite<br />

per ottenere<br />

allume<br />

(da GIORGIO<br />

AGRICOLA<br />

1556, p. 571<br />

ed. Hoover).<br />

Purtroppo l’Occidente non disponeva di<br />

minerale di alta qualità e dovette usufruire <strong>del</strong>le<br />

importazioni di allume da Oriente che, durante<br />

le Crociate, diventarono problematiche ma non<br />

cessarono mai <strong>del</strong> tutto. Dal 1275 l’allume orientale<br />

torna in auge grazie ai mercanti genovesi<br />

che estraggono e importano in Occidente il<br />

minerale da Focea e da Chio, dando vita ad un<br />

traffico esteso e redditizio, un vero e proprio<br />

monopolio. La conquista ottomana nel 1453<br />

andrà a colpire questi traffici in un momento di<br />

particolare sviluppo, i Genovesi perdono Focea,<br />

mentre la Maona di Chio è costretta a subire tributi<br />

sempre più pesanti, tanto da rendere, alla<br />

fine <strong>del</strong> XV secolo, raro e costoso l’allume orientale<br />

sui mercati occidentali. In una situazione<br />

così disperata la scoperta dei giacimenti laziali<br />

<strong>del</strong>la Tolfa fu provvidenziale. Le parole di<br />

Giovanni da Castro, commerciante e parente di<br />

Papa Pio II, all’indomani <strong>del</strong> felice rinvenimento<br />

sono significative:<br />

‘‘Oggi ti reco la vittoria sui Turchi. Essi estorcono<br />

ai Cristiani ogni anno più di trecentomila<br />

SALTERNUM<br />

- 74 -<br />

ducati, fornendoci l’allume con il quale tingiamo<br />

la lana nei diversi colori. E ciò perché l’allume<br />

non si trova presso i Latini se non in piccola<br />

quantità nell’isola d’Ischia, un tempo chiamata<br />

Aenaria, vicino a Pozzuoli, e nella grotta<br />

Liparea di Vulcano, che però fu a tal punto sfruttata<br />

dai Romani da essere quasi esaurita 17 ”<br />

E’ in questo contesto che si collocano due<br />

opere davvero interessanti per lo studio <strong>del</strong>l’allume<br />

poiché descrivono in maniera dettagliata il<br />

processo di lavorazione <strong>del</strong> minerali: Li diece<br />

libri de la pirotechnia 18 (1540) di Vannuccio<br />

Biringuccio e il De re metallica 19 (1556) di<br />

Giorgio Agricola, testimoni importanti di una<br />

pratica che per più di tre secoli, fino all’epoca<br />

industriale, non è mutata (Figg. 3-4).<br />

Sarebbe davvero interessante poter compensare<br />

la carenza di notizie che abbiamo sull’allume<br />

sfruttato in età antica con gli scritti successivi.<br />

Purtroppo ciò non è sempre possibile per un<br />

motivo molto semplice: l’allume di cui parlano<br />

Biringuccio e Agricola è sempre di tipo artificiale,<br />

derivato soprattutto da alunite. E’ più che<br />

probabile che in epoca romana non si conoscesse<br />

il modo di ricavare l’allume da questo minerale;<br />

mancano infatti tracce di strutture o testimonianze<br />

scritte di questa complessa lavorazione:<br />

‘Fu cosa cognita fin da gli antichi, ma non<br />

si vede per gli scrittori che usassero li modi per<br />

trovarlo e per estraerlo che usano li moderni, e<br />

materia che oltre alintrinseca e natural sua salsedine<br />

ha grandissima viscosità…’ 20 .<br />

Il ruolo <strong>del</strong>l’artigiano: una diversa prospettiva<br />

La conoscenza che abbiamo <strong>del</strong>l’allume in<br />

età romana è dovuta in gran parte ai ritrovamenti<br />

di anfore che, oltre a confermare quanto riportato<br />

dalle fonti, rappresentano l’unico fossileguida<br />

di una produzione e di un traffico commerciale<br />

di portata eccezionale, che ha contribuito<br />

alla studio <strong>del</strong>l’economia antica in generale,<br />

di Lipari in particolare e soprattutto <strong>del</strong>l’artigianato<br />

antico che tanto necessita di uscire dalla<br />

penombra. Tintori, lanaioli e pellai fanno parte<br />

di quella schiera di lavoratori che avendo prodotto<br />

beni deperibili sono destinati ad essere<br />

sottorappresentati fra le testimonianze archeologiche.<br />

Un aiuto proviene dalle strutture rimaste,


in pochi fortunati casi, intatte o quasi <strong>del</strong>le fulloniche,<br />

<strong>del</strong>le officine infectoriae e offectoriae di<br />

Pompei, di Ercolano, di Ostia, e <strong>del</strong>le uniche<br />

due officine coriariae presenti in Italia, quella<br />

<strong>del</strong>la Regio I di Pompei e quella di Sepino.<br />

Il mondo artigiano merita di ottenere il giusto<br />

riconoscimento per ciò che ha rappresentato<br />

all’interno <strong>del</strong>la società (in questo caso) antica.<br />

Lo studio <strong>del</strong>la cultura materiale sta in questo<br />

NOTE<br />

1 VANNUCCIO BIRINGUCCIO, 1540, VI, p. 13.<br />

2 G. NENCI 1982 , 183.<br />

3 Naturalis Historia, XXXV, 183.<br />

4 Di particolare interesse è l’uso <strong>del</strong>l’allume per la purificazione<br />

degli strati superficiali <strong>del</strong>le leghe d’oro o d’argento<br />

da altri metalli, in modo da far apparire, esternamente, una<br />

percentuale di metallo prezioso più alta. Questo procedimento<br />

(arricchimento superficiale <strong>del</strong>le leghe) era usato dai<br />

Romani in periodi di inflazione (tra il 63 e il 260 d.C.) per<br />

fabbricare i denarii d’argento con solo il 12-18 % di metallo<br />

prezioso.<br />

5 VARRONE, De re rustica, II, 11, 1.<br />

6 PLINIO, Naturalis Historia, XXXV,LII, 189.<br />

7 GALENO, De compositione medicamentorum secundum<br />

locos, p. 236 (ed. Kuhn).<br />

8 Etymologiae, XVI, 2, 2.<br />

9 De Lingua latina, V, 25.<br />

10 De Architectura, VIII, 4-5.<br />

11 Il mercato di allume orientale era probabilmente soddisfatto<br />

da un altro centro di produzione, l’isola di Milo. Oltre<br />

STEFANIA DE MAJO<br />

- 75 -<br />

senso continuando a dare grandi contributi,<br />

ricostruendo la storia dal punto di vista di chi<br />

l’ha vissuta senza poter tramandare altro ai<br />

posteri se non, quando possibile, i propri resti<br />

materiali. Le anfore di Lipari ci permettono di<br />

risalire ad un mezzo, l’allume, attraverso il quale<br />

si può indirettamente ‘spiare’ il mondo di un<br />

artigiano e il suo umile quanto indispensabile<br />

lavoro.<br />

ad essere menzionata nelle fonti insieme a Lipari, negli ultimissimi<br />

anni sono state scoperte anfore da allume di produzione<br />

melina che raggiungono anche le coste adriatiche<br />

<strong>del</strong>la nostra penisola. Tuttavia l’allume di Milo doveva essere<br />

di ottima qualità ma di scarsa quantità (Diodoro Siculo<br />

ne dà conferma), motivo per cui Lipari si trovò a sopperire<br />

anche al mercato orientale, anche non sappiamo ancora<br />

in che misura.<br />

12 “...στυπτηρíα µéταλλον éµπρósoδον” (Geografia, VI, 2,<br />

10).<br />

13<br />

DIODORO SICULO, V, 10, 2 .<br />

14 L’allume è solubile in acqua, motivo per cui non se ne è<br />

mai trovata traccia all’interno <strong>del</strong>le anfore.<br />

15 CIL X , 7489.<br />

16<br />

VANNUCCIO BIRINGUCCIO, 1540, VI.<br />

17<br />

PIO II, De la pirotechnia, Commentarii, VII, 12.<br />

18 VI, p. 12-14.<br />

19 De re metallica, XII, p. 564-572 (ed. Hoover).<br />

20 De la pirotechnia, VI.<br />

* www.intarch.ac.uk


BIBLIOGRAFIA<br />

AA.VV., 2006. L’Alun de Méditerranée, Actes du Colloque<br />

International (Naples/Lipari, 4-8 juin 2003), a cura di PH.<br />

BORGARD, J.P. BRUN, M. PICON. D’AURIA Ed., Napoli, 2006.<br />

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NENCI, G. VALLET, Bibliografia Topografica <strong>del</strong>la colonizzazione<br />

greca in Italia e nelle isole tirreniche IX, Pisa-Roma,<br />

pp. 164-185.<br />

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(XLVI, 1993-95), in Meligunìs Lipara X. Scoperte e scavi<br />

archeologici nell’area urbana e suburbana di Lipari,<br />

L’Erma Bretschneider, Roma, 2000, pp. 263-303.<br />

BORGARD PH., 2001. L'Alun de l'Occident romain: production<br />

et distribution des amphores Romaines de Lipari, 4<br />

vol., 30 cm. Th. doct,: Archéol,: Aix-Marseille 1, 2001.<br />

DELUMEAU J., 2003. L’allume di Roma. XV-XIX secolo. Ed.<br />

SALTERNUM<br />

- 76 -<br />

italiana de ‘L’alun de Rome’, 1962. Comunità Montana<br />

‘Monti <strong>del</strong>la Tolfa’, Allumiere (Roma), 2003.<br />

MANNONI T., GIANNICHEDDA E., 1996. Archeologia <strong>del</strong>la produzione,<br />

Einaudi, Torino, 1996, pp. xiii-xx.<br />

NENCI G., 1982. L’allume di Focea, in «Parola <strong>del</strong> Passato»,<br />

CCIV-CCVII, Napoli, 1982, pp . 183-188.<br />

PICON M., 2006. Des aluns naturels aux aluns artificiels et<br />

aux aluns de synthèse: matières premières gisements et procédés,<br />

in AA.VV., L’Alun de Méditerranée, pp. 13-38.<br />

SINGER C., 1948. The Earliest Chemical Industry. An Essay in<br />

the Historical Relations of Economics & Technology<br />

Illustrated from the Alum Trade. Chiswick Press, London,<br />

1948.


SOFIA LOVERDOU<br />

Il Diolco antico:<br />

speranze per un monumento indifeso<br />

Chi sta presso il limite occidentale <strong>del</strong><br />

Canale di Corinto diventa spesso testimone<br />

di una specie di tsunami: al<br />

passaggio di una grossa nave, dapprima l'acqua<br />

si ritira e, subito dopo, onde furiose si scagliano<br />

contro alcune pietre, che conservano a mala<br />

pena la loro forma originale. Sono i resti di un<br />

grande monumento, il Diolco antico.<br />

Il passaggio degli antichi Corinzi per l'istmo<br />

era una cosa nota. La loro città, ai piedi <strong>del</strong>la<br />

rocca <strong>del</strong>l'Acrocorinto, aveva il controllo <strong>del</strong><br />

commercio tra due terre, ed anche tra due mari.<br />

Chi desiderava evitare il terribile Capo Maléaß<br />

ed il giro <strong>del</strong> Peloponneso, non aveva che da<br />

avvicinarsi alla città “dei due mari” e affidarsi ai<br />

Corinzi. Era tale la prontezza dei Corinzi a superare<br />

quell'ostacolo naturale, che Aristofane ci<br />

scherza su nelle Qesmoforiáqusai. "Quando le<br />

donne scoprono che un uomo si è intromesso fra<br />

di loro, lui cerca di nascondere la ...prova <strong>del</strong><br />

suo sesso girandola ora davanti ora di dietro".<br />

"Hai qualche istmo là, buon uomo?" gli fa il giovane<br />

che aveva avvertito le donne <strong>del</strong>l'intruso.<br />

“Trascini (diélkeiß) quel tuo fallo su e giù più<br />

lesto dei Corinzi”. Anche se il riferimento a navi<br />

non è esplicito, si sa che quando la commedia<br />

fu presentata, ai tempi <strong>del</strong>la Guerra <strong>del</strong><br />

Peloponneso, intere flotte furono trasportate da<br />

una parte all'altra <strong>del</strong>l'Istmo, passando per il<br />

Diolco. Tucidide ci dà un primo riferimento relativo<br />

a tale trasporto nel 428 a.C. Ma anche per il<br />

411 a.C. (anno <strong>del</strong>la rappresentazione <strong>del</strong>le<br />

Qesmoforiáqusai) lo storico ci informa che gli<br />

Spartani mandarono dei rappresentanti nella<br />

zona <strong>del</strong>l'Istmo, per disporre un passaggio di<br />

navi verso il Golfo Saronico, allo scopo di procedere<br />

contro Chio. Per distrarre l'attenzione<br />

- 77 -<br />

Fig. 1 - Un maestoso monumento ridotto in bran<strong>del</strong>li. La stessa parte <strong>del</strong><br />

Diolco nel 1960 e nel 2006. Da notare, nella prima foto, la costruzione a<br />

destra. Data la prematura morte di Nikos Ver<strong>del</strong>is, il Diolco non è stato<br />

mai propriamente pubblicato, quindi molte informazioni vengono<br />

cancellate dall’erosione.<br />

Foto: En Athinais Archaiologiki Etairia (1960), S. Loverdou (2006).<br />

Fig. 2 - Il tracciato <strong>del</strong> Diolco, parzialmente portato alla luce, durante gli<br />

scavi. La piattaforma si estende nella zona in fondo, a destra.<br />

Foto: En Athinais Archaiologiki Etairia.<br />

degli Ateniesi, si decise anche di far passare<br />

dapprima metà <strong>del</strong>la flotta, e di farla partire<br />

subito. All'epoca di Aristofane e di Tucidide, il<br />

Diolco non era una novità. Le lettere <strong>del</strong>l'alfabeto<br />

corinzio che, durante gli scavi condotti tra il<br />

1956 ed il 1962 da Nikos Ver<strong>del</strong>is, furono trovate<br />

incise sulle sue pietre, anche se non permettono<br />

una datazione sicura fanno pensare ad


Fig. 3 - Il fronte <strong>del</strong>l’erosione negli ultimi mesi <strong>del</strong> 2005.Tutta una serie di<br />

blocchi è caduta nel periodo 2002 – 2005. L’erosione sta per attaccare<br />

l’intera zona <strong>del</strong> monumento anche lateralmente.<br />

Foto: S. Loverdou.<br />

Fig. 4 - Un primo atto di rispetto, messo in atto dalla Direzione per il<br />

Restauro dei Monumenti Antichi (DAAM) agli inizi di marzo 2007.<br />

Troppo poco, a giudicare dal fatto che l’erosione chiaramente prosegue.<br />

Foto: S. Loverdou.<br />

un'epoca di costruzione <strong>del</strong>la struttura intorno o<br />

poco dopo il 600 a.C., in una Corinto fiorente,<br />

governata da Periandro (VERDELIS 1956). Tutte le<br />

fonti che parlano <strong>del</strong>l'utilizzo <strong>del</strong> Diolco si riferiscono<br />

a navi da guerra. Molti studiosi ritengono,<br />

però, che il Diolco fosse usato anche per le<br />

navi mercantili: in questo caso, i due porti di<br />

Corinto servivano forse come luoghi di carico e<br />

scarico <strong>del</strong>le merci. Plinio non sembra riferirsi<br />

solo a navi militari quando menziona il difficile<br />

passaggio oltre Capo Maléaß per i natanti che,<br />

a causa <strong>del</strong>le loro dimensioni, non potevano<br />

oltrepassare l'Istmo. Le leggere liburnae di<br />

Ottaviano poterono invece essere trainate al di<br />

là <strong>del</strong>l'Istmo nel 31 a.C., quando, dopo la battaglia<br />

di Azio, il futuro imperatore inseguiva la<br />

flotta di Antonio (Dione Cassio). Le difficoltà di<br />

circumnavigare il Peloponneso, e le dimensioni<br />

<strong>del</strong>le navi, certamente spinsero Nerone a tenta-<br />

SALTERNUM<br />

- 78 -<br />

re quello che Periandro aveva sognato: la realizzazione<br />

di un canale. E non si sa se i lavori che<br />

l'imperatore iniziò nel 67 d.C. avessero lasciato<br />

il Diolco intatto. Non mancano testimonianze di<br />

navi che passavano sopra l'Istmo. Intorno all'880<br />

d.C., troviamo un generale di Bisanzio che arriva<br />

al porto di Kexréia e, nella stessa notte, fa<br />

trasportare le sue navi nell'altro mare, servendosi<br />

di numerosa manodopera (FRANTZIS). Ci si<br />

domanda se il Diolco fosse ancora funzionale<br />

quasi quindici secoli dopo la sua costruzione. Le<br />

fonti esistenti non riferiscono dettagli né sulla<br />

costruzione, né sull'uso <strong>del</strong> Diolco; Strabone,<br />

nel 30 d.C., è uno dei pochi che lo nomina, e<br />

non manca di informarci che il suo sbocco nel<br />

Golfo Saronico si trovava presso l'odierna<br />

Kalamáki, ad una distanza di 45 stadi dal porto<br />

di Kexréia. Nonostante vari indizi, non è chiaro<br />

il tracciato <strong>del</strong> Diolco: si ritiene che seguisse<br />

l'andamento <strong>del</strong> terreno, formando un'ampia<br />

curva dalla parte <strong>del</strong> Peloponneso (WERNER<br />

1997). Il suo sbocco vicino a Kalamáki non è<br />

ancora venuto alla luce. Pausania, nel II secolo<br />

d.C., non fa riferimenti al Diolco. Le ultime testimonianze<br />

<strong>del</strong> trasporto <strong>del</strong>le navi sopra l'Istmo<br />

risalgono alla metà <strong>del</strong> XII secolo con Edrisi, che<br />

riferisce (in francese): “Le piccole imbarcazioni<br />

(...) arrivano all'estremità <strong>del</strong> canale e vengono<br />

trainate per terra per sei miglia”. Parlando <strong>del</strong><br />

canale, Edrisi intende naturalmente il lungo<br />

golfo di Corinto, visto che il canale vero e proprio<br />

non fu scavato che alla fine <strong>del</strong> XIX secolo.<br />

Dopo di che, le fonti tacciono.<br />

RINVENIMENTO DEL DIOLCO<br />

Nel 1883, l'archeologo Habbo Gerhard<br />

Lolling ci dà notizie di tracce <strong>del</strong> Diolco in un<br />

luogo che doveva trovarsi all'estremità superiore<br />

<strong>del</strong>l'Istmo (LOLLING); nel 1913, l'etnologo scozzese<br />

J.G. Frazer parla di suoi possibili resti sulla<br />

via da Kalamáki a Corinto (FRAZER). Oggi questo<br />

luogo non si può più localizzare con esattezza.<br />

Le lastre di pietra cui H.N.Fowler si riferiva nel<br />

1932 (FOWLER), situate vicino all'ingresso occidentale<br />

<strong>del</strong> canale dalla parte <strong>del</strong> Peloponneso,<br />

sono invece chiaramente identificabili. Lo stesso<br />

vale per le tracce che, secondo lo stesso Fowler,<br />

erano state identificate dall'archeologo america


no Oscar Broneer, ai lati <strong>del</strong>la via che, da<br />

Corinto, portava al "passaggio" dove si traghettava<br />

tra le due sponde <strong>del</strong> Canale. Come si è<br />

potuto constatare durante gli scavi, le lastre visibili<br />

erano parte di una piattaforma che si estendeva<br />

prima, ed al lato, <strong>del</strong> tracciato vero e proprio<br />

<strong>del</strong> Diolco. Questa ampia struttura ha sofferto<br />

danni a metà degli anni quaranta, durante<br />

i lavori di riapertura <strong>del</strong> Canale dopo gli eventi<br />

<strong>del</strong>la seconda guerra mondiale (ELEFTHERIA,<br />

1956). Nel 1946, alcune pietre <strong>del</strong> Diolco vennero<br />

alla luce - e distrutte - durante l'apertura di<br />

una strada secondaria (VERDELIS 1956): esse<br />

erano situate alcune centinaia di metri più ad<br />

oriente, e dalla parte <strong>del</strong>l'Attica. Una di queste<br />

pietre, su cui è incisa la lettera X, venne trasferita<br />

al Museo di Corinto. Nel 1956, la scoperta<br />

accidentale di testimonianze <strong>del</strong> Diolco nell'area<br />

<strong>del</strong>la Scuola <strong>del</strong> Genio Militare diede l'avvio agli<br />

scavi. I lavori, effettuati lungo le due sponde <strong>del</strong><br />

canale fino al 1962, hanno portato alla luce<br />

un'ampia strada in blocchi di poros, larga da<br />

m.3,5 a quasi m.6. La lunghezza complessiva <strong>del</strong><br />

Diolco, di cui abbiamo conoscenza, è di m.1.100<br />

(VERDELIS 1962), mentre la parti conservate sono<br />

molto meno estese. La prima parte <strong>del</strong> tracciato<br />

proprio <strong>del</strong>la struttura (interrotta dopo circa 145<br />

metri dalla via che conduce al luogo <strong>del</strong> traghetto),<br />

era quasi parallela al canale odierno; e dopo<br />

circa 53 metri il tracciato riprendeva verso Est.<br />

Di questa porzione si conservavano 42 metri;<br />

seguiva un'interruzione di 15 metri, dopo di che<br />

l'antico tracciato si ritrovava lungo l'orlo <strong>del</strong><br />

canale. La porzione di Diolco, scavata in territorio<br />

attico, nel terreno <strong>del</strong>la Scuola <strong>del</strong> Genio, si<br />

estende invece per una lunghezza di 204 metri<br />

(VERDELIS 1960). Caratteristici, sulla superficie <strong>del</strong><br />

Diolco, i solchi lasciati dalle ruote dei veicoli<br />

con cui venivano effettuati i trasporti: essi sono<br />

molto più pronunciati nel settore occupato dalla<br />

Scuola <strong>del</strong> Genio. La distanza tra queste tracce<br />

parallele è di m.1,50. Altre tracce, meno profonde,<br />

sono presenti nello stesso settore: non è<br />

chiaro se si tratti di veicoli più stretti, o piuttosto<br />

se una traccia, a questa parallela, ricadeva al di<br />

fuori <strong>del</strong>l'area esplorata (RAEPSAET e TOLLEY).<br />

Torniamo però al limite occidentale <strong>del</strong> Diolco.<br />

Una possibile riproduzione <strong>del</strong> modo in cui le<br />

SOFIA LOVERDOU<br />

- 79 -<br />

navi venivano trasportate le vedrebbe dapprima<br />

trainate sull'ampia piattaforma, per essere poi<br />

portate su di una costruzione rettangolare, racchiusa<br />

da muretti su tre lati; ma questa costruzione<br />

costituisce un'aggiunta posteriore al tracciato<br />

originale <strong>del</strong> Diolco, il quale, come<br />

VERDELIS ha potuto constatare, prosegue sotto<br />

questa pavimentazione (Ver<strong>del</strong>is 1960). I primi<br />

resti visibili <strong>del</strong> tracciato <strong>del</strong> Diolco vero e pro-<br />

Fig. 5 - Alcuni dei blocchi con lettere incise, durante gli scavi. Oggi, la stessa<br />

parte <strong>del</strong> monumento è dislocata, quasi sempre sommersa e perennemente<br />

minacciata.Foto:En Athinais Archaiologiki Etairia (1960),S.Loverdou (2006).<br />

Fig. 6 - Alcuni dei blocchi con lettere incise, durante gli scavi.<br />

Foto: En Athinais Archaiologiki Etairia (1960), S. Loverdou (2006).<br />

prio dimostrano di essere stati costruiti con grande<br />

cura; essi non presentano solcature. Le lettere<br />

che troviamo incise sui blocchi, e che sono<br />

diffuse in altre parti <strong>del</strong>la struttura, qui sono frequentissime,<br />

anzi, alcuni blocchi ne portano più<br />

d'una. La porzione <strong>del</strong> Diolco che insiste sul terreno<br />

<strong>del</strong>la scuola <strong>del</strong> Genio è ancora da interpretare.<br />

Quasi alla metà <strong>del</strong> tracciato rinvenuto<br />

vi è una doppia serie di pietre che si estende per<br />

una quindicina di metri al di sopra <strong>del</strong> tracciatobase.


Fig. 7 - Lo smagliamento <strong>del</strong> Diolco porta alla luce anche caratteristiche<br />

nascoste, come una lettera incisa nella parte inferiore di un blocco. La<br />

presenza di lettere incise sul «rovescio» di alcune pietre era stato già<br />

notato da Werner. Foto: S. Loverdou.<br />

Fig.8 - Nikos Ver<strong>del</strong>is accanto alla prima parte rinvenuta <strong>del</strong> monumento.<br />

Il termine occidentale <strong>del</strong> Diolco è in fondo. Davanti a Ver<strong>del</strong>is, la strada<br />

che porta al «passaggio».<br />

Foto: archivio privato di Fivos Ver<strong>del</strong>is (figlio di Nikos Ver<strong>del</strong>is).<br />

A giudicare dall'assenza di solcature lungo<br />

questo tratto, e dal fatto che questa assenza continua<br />

anche oltre, Ver<strong>del</strong>is è <strong>del</strong> parere che questa<br />

struttura, originariamente, si estendesse per<br />

31 metri e suggerisce che essa, situata su una<br />

curva <strong>del</strong> tracciato, proteggesse i veicoli da<br />

eventuali sbandamenti (VERDELIS 1956); Raepsaet<br />

eTolley, che riportano, tra l'altro, una lunghezza<br />

inferiore, propongono invece che si tratti di<br />

una rampa di carico (RAEPSAET e TOLLEY). Inoltre,<br />

procedendo verso Oriente, venne alla luce una<br />

parte <strong>del</strong>la struttura con i solchi; ma questa parte<br />

è ora coperta, ragione per cui è visibile soltanto<br />

il tracciato generico. Un moderno parcheggio<br />

per i veicoli <strong>del</strong>la Scuola non è stato esplorato<br />

ed alcune tracce <strong>del</strong> Diolco sono venute alla<br />

luce anche al di fuori dei terreni <strong>del</strong>la Scuola.<br />

SALTERNUM<br />

- 80 -<br />

DISAVVENTURE RECENTI.<br />

Oggi, chi si reca nell'area <strong>del</strong> limite occidentale<br />

dei Diolco non vede la maestosa struttura<br />

venuta alla luce appena cinque decenni fa; questo<br />

documento di fama internazionale è ridotto<br />

a decine di metri di blocchi sconnessi, in parte<br />

anche sommersi o addirittura coperti da terreno<br />

in frana. Dapprima la terra, che al tempo degli<br />

scavi separava la struttura dal canale, ed in<br />

seguito la struttura stessa, sono state lasciate alla<br />

mercè <strong>del</strong>l'erosione, senza neppure un tentativo<br />

di salvaguardarla. Il Diolco aveva resistito per<br />

migliaia di anni per arrivare fino a noi; poi, in<br />

cinquant'anni, tanto scempio...Anche la piattaforma<br />

che si estendeva presso l'inizio <strong>del</strong> tracciato<br />

vero e proprio si è in gran parte dispersa;<br />

e questa era l'unica parte <strong>del</strong> tracciato che, all'epoca<br />

degli scavi, era a contatto con l'acqua. I<br />

dettagli <strong>del</strong> travaglio moderno <strong>del</strong> Diolco, come<br />

appaiono anche dai documenti, sono raccapriccianti:<br />

il monumento veniva dilaniato, non solo<br />

senza che nessuno si preoccupasse di proteggerlo,<br />

ma anche sotto false dichiarazioni di salvaguardia.<br />

Dopo cinquanta anni di abbandono,<br />

una comunicazione <strong>del</strong> Ministero <strong>del</strong>la Cultura<br />

informava così il Primo Ministro greco: "le onde<br />

hanno ormai cominciato ad erodere il substrato<br />

<strong>del</strong> monumento". Dopo decenni di quasi sistematica<br />

distruzione <strong>del</strong> Diolco, i servizi che<br />

avrebbero dovuto salvaguardarlo e non l'hanno<br />

fatto, trovavano per l'ennesima volta una "via<br />

d'uscita", descrivendo l'erosione come se fosse<br />

appena iniziata. Ma questo “teatro <strong>del</strong>l'illogico”<br />

potrebbe anche contenere <strong>del</strong>le buone notizie.<br />

Se queste arriveranno, il monumento verrà finalmente<br />

protetto e restaurato senza ulteriori indugi<br />

e senza ipocrisia, come chiede la petizione<br />

internazionale indirizzata al Primo Ministro<br />

greco. Contrariamente a quanto pensano (e<br />

forse sperano) alcuni, il Diolco è ancora vivo.<br />

Chi si è chinato sopra le sue ferite, ha sentito il<br />

suo respiro.


Fig. 9 - La piattaforma, unica parte <strong>del</strong> Diolco che era a contatto con<br />

l’acqua ai tempi degli scavi, nel suo stato attuale.<br />

Foto: S. Loverdou<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

ARISTOFANE: ARISTOFANE, Qesmoforiáqusai.<br />

ELEFTERIA 1956: La scoperta e l'importanza <strong>del</strong> Diolco di<br />

Corinto, articolo non firmato sul giornale “Elefteria”, 18<br />

agosto 1956.<br />

DIONE CASSIO: DIONE CASSIO, Storia Romana I, 1,5 (Augusto);<br />

EDRISI: EDRISI 1154 (Geographie), p.123.<br />

FOWLER: H.N. FOWLER, Diolcus, Nero's Canal, Kechreia, in<br />

“Corinth and the Corinthia, Corinth I”, pp. 49-71,<br />

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FRAZER: J.G. FRAZER, Pausanias III, p.5 (riportato in FOWLER,<br />

p.50).<br />

LOLLING 1883: H.G. LOLLING, in Griechenland Handbuch fur<br />

Reisende, Leipzig, 1883.<br />

PHRANTZIS: GEORGIUS PHRANTZES (o Phrantzis), e, 33 in Corp.<br />

Script. Hist. Byz, XX, ed. Becker, p.96.<br />

PLINIO: PLINIO, Naturalis Historia, IV, 10.<br />

SOFIA LOVERDOU<br />

Fig. 11 - Solchi scavati nel poros, che caratterizzano la parte orientale <strong>del</strong> Diolco (recinto<br />

<strong>del</strong>la Scuola <strong>del</strong> Genio). Condizioni al 1960 ed al 2006.<br />

Foto: archivio di Fivos Ver<strong>del</strong>is<br />

- 81 -<br />

Fig. 10 - I resti <strong>del</strong> Diolco, danneggiati dal passaggio di una grossa nave<br />

(agosto 2006).<br />

Foto: S. Loverdou<br />

Fig. 12 - Parte <strong>del</strong> Diolco come si presentava nel 1960.<br />

Oggi devastata dall’erosione.<br />

Foto:En Athinais Archaiologiki Etairia<br />

RAEPSET E TOLLEY: G.RAEPSAET e M. TOLLEY, “Le diolkos de l'Istme<br />

à Corinthe: son tracé, son fonctionnement.” in Bulletin de<br />

Corrispondence Hellenique 117, 1993, 233-261, C369; H,<br />

2, C335; H, 22, C380.<br />

STRABONE: STRABONE, Geografia, H, VI, 4.<br />

TUCIDIDE: TUCIDIDE, Storia, 15,1.<br />

VERDELIS 1956: N. VERDELIS, in Archaiologikà Chronikà, 1956;<br />

VERDELIS 1960: N.VERDELIS, Praktikà tes en Athinais<br />

Archaiologikis Etairias, pp.136-143.<br />

VERDELIS 1962: N. VERDELIS, Praktikà tes en Athinais<br />

Archaiologikis Etairias, pp.48-50.<br />

WERNER : W. WERNER, “The largest ship truckway in ancient<br />

times: the Diolkos of the Isthmus of Corinth, Greece, and<br />

early attemps to build a canal”, in The International Journal<br />

of Nautical Archaeology (1997) 26.2, 98-119, The Nautical<br />

Archaeology Society, 1997.


BIANCA<br />

CANCELLARE


Tu sì sei santa, tu sei in ogni tempo<br />

salvatrice <strong>del</strong>l’umana specie, tu, nella tua<br />

generosità, porgi sempre aiuto ai mortali,<br />

tu offri ai miseri in travaglio il dolce<br />

affetto che può avere una madre.<br />

(Apuleio, Metamorfosi, XI, 25)<br />

Il legame fra l’Egitto e Benevento, due<br />

mondi apparentemente estranei sia geograficamente<br />

che culturalmente, è rappresentato<br />

da una dea, anzi dalla dea per eccellenza<br />

<strong>del</strong> pantheon egizio: Iside, “una che sei tutte le<br />

cose”, come recita una celebre epigrafe capuana<br />

(CIL X 3800). Il culto <strong>del</strong>la grande divinità egizia<br />

si diffuse, nel corso <strong>del</strong> II sec. a.C., in tutto il bacino<br />

<strong>del</strong> Mediterraneo, approdando ai porti campani<br />

insieme ai mercanti italici che commerciavano<br />

con l’Egeo. Pozzuoli ha ospitato il primo Serapeo<br />

<strong>del</strong>la Penisola 1 , mentre Iside, sposa e paredra<br />

(divinità che forma una coppia divina o che<br />

generalmente si accompagna ad un’altra <strong>del</strong><br />

medesimo pantheon) di Serapide, in virtù forse<br />

<strong>del</strong>la maggiore antichità e <strong>del</strong> carattere fortemente<br />

soterico <strong>del</strong> suo culto, da “compagna” <strong>del</strong> dio<br />

tolemaico assurse presto al ruolo di protagonista<br />

e fulcro <strong>del</strong>l’attenzione dei fe<strong>del</strong>i; alla fine <strong>del</strong> II<br />

sec. a.C. la maggior parte dei templi sono dedicati<br />

a lei, mentre il culto <strong>del</strong> compagno è sovente<br />

ospitato in una piccola cella attigua al naòs,<br />

luogo in cui si trovava la statua <strong>del</strong>la dea, inaccessibile<br />

ai semplici fe<strong>del</strong>i.<br />

A Pompei si conserva l’unico Iseo pressoché<br />

integro, che nella sua prima fase costruttiva è di<br />

poco posteriore al Serapeo puteolano; contemporaneamente<br />

molte città <strong>del</strong>la Campania, come<br />

Cuma, Neapolis e Capua divennero importanti<br />

luoghi di culto per le divinità egizie, e il loro successo<br />

superò presto i confini campani, seguendo<br />

GIOVANNI VERGINEO<br />

L’Egitto a Benevento<br />

- 83 -<br />

le grandi rotte commerciali. Anche il Lazio<br />

(Praeneste, Ostia) accolse favorevolmente Iside e<br />

gli altri dei nilotici, e la stessa Roma, nonostante<br />

l’iniziale ostilità <strong>del</strong>la classe senatoria, dovrà alla<br />

fine cedere al fascino <strong>del</strong>la religione egizia.<br />

Non sappiamo se Benevento sia stata coinvolta<br />

dal grande moto di diffusione dei culti egizi iniziato<br />

nel II sec. a.C., poiché mancano in merito<br />

prove archeologiche o documentarie, tuttavia è<br />

molto probabile che questo si sia verificato,<br />

essendo la città un importante centro commerciale,<br />

nonché fondamentale snodo stradale lungo<br />

l’Appia, regina viarum, e punto di passaggio<br />

obbligato per il tragitto <strong>del</strong>le merci da Roma<br />

all’Oriente e viceversa.<br />

Durante il periodo imperiale, il successo dei<br />

culti isiaci fu dovuto, più che ai commerci o alle<br />

attività di proselitismo, alla volontà degli Imperatori.<br />

Se alcuni di essi, come Augusto e Tiberio,<br />

furono ostili, anzi nemici degli isiaci, pur non<br />

potendosi sottrarre all’incredibile fascino <strong>del</strong>la<br />

cultura egizia, percepibile ad esempio nella<br />

splendida decorazione <strong>del</strong>l’Aula Isiaca sul<br />

Palatino, altri principi furono ad essi estremamente<br />

favorevoli. La dinastia flavia 2 fu assai benevola<br />

nei confronti <strong>del</strong>le divinità egizie, favorendo la<br />

diffusione <strong>del</strong> loro culto ed edificando grandiosi<br />

santuari. Il legame fra i Flavi e l’Egitto fu sempre<br />

molto forte: Domiziano aveva nei confronti di<br />

Iside un debito di gratitudine, essendosi salvato<br />

dall’assalto dei vitelliani al Campidoglio travestendosi<br />

da sacerdote <strong>del</strong>la dea. Alla sua iniziativa si<br />

deve la ricostruzione <strong>del</strong>l’Iseo Campense (il tempio<br />

isiaco edificato a Roma nel I sec. a.C. ed ospitato<br />

nel Campo Marzio, al di fuori <strong>del</strong> pomerio)<br />

nonché l’edificazione <strong>del</strong> santuario di Iside a<br />

Benevento, che si data, grazie alle iscrizioni<br />

geroglifiche sui due obelischi in granito presenti


Fig. 2.<br />

Fig. 1.<br />

in città, all’ottavo anno <strong>del</strong> principato domizianeo,<br />

cioè all’88-89 d.C.. L’interesse <strong>del</strong>l’Imperatore<br />

allo sviluppo dei culti egizi era legato non<br />

tanto ad una personale propensione religiosa,<br />

quanto al desiderio di essere venerato come un<br />

monarca ellenistico, presentandosi al popolo<br />

romano come dominus et deus e sfruttando il<br />

carisma divino che la cultura egizia conferiva al<br />

sovrano. Ma il sovrano ricorse all’arte egizia<br />

anche per distinguere nettamente il tempio <strong>del</strong>la<br />

dea orientale dai santuari <strong>del</strong>le divinità tradizionali<br />

romane, di cui tentò di riportare in auge il<br />

culto, proseguendo la politica religiosa <strong>del</strong> padre.<br />

Sull’obelisco che il princeps flavio fece erigere a<br />

Roma, egli è definito “amato da Iside”, mentre gli<br />

obelischi beneventani, edificati in un periodo in<br />

cui l’imperatore aveva dato una svolta più marcatamente<br />

teocratica al principato, lo presentano<br />

SALTERNUM<br />

- 84 -<br />

come “figlio di Ra ”, al pari dei Faraoni. E’ per<br />

questo che il Müller interpreta le statue di falco<br />

beneventane come incarnazione di Domiziano in<br />

Horus 3 . Domiziano, quindi, da un lato conferisce<br />

nuova linfa vitale agli dèi nilotici, dall’altro, adottando<br />

per i loro templi i canoni <strong>del</strong>l’arte egizia,<br />

mira a far avvertire al popolo la differenza fra le<br />

religioni orientali e le divinità <strong>del</strong> pantheon romano.<br />

Il Malaise 4 rileva un altro elemento di notevole<br />

importanza: il legame che sotto i Flavi Iside<br />

presenta con gli eventi bellici. La dea viene molte<br />

volte avvicinata a Minerva, che compare al centro<br />

<strong>del</strong>l’Arcus ad Isis, innalzato dall’imperatore nei<br />

pressi <strong>del</strong>l’Iseo Campense. L’uguaglianza Iside =<br />

Neith (dea guerriera <strong>del</strong>la tradizione egizia) =<br />

Athena era già stata formulata all’epoca di<br />

Erodoto (V sec. a.C.) 5 e le prerogative di Iside-<br />

Athena guerriera sarebbero confluite, per volontà<br />

dei Flavi, nella figura di Minerva. Anche a<br />

Benevento la costruzione <strong>del</strong> tempio domizianeo<br />

è strettamente connessa all’impresa dacica, come<br />

testimoniano le iscrizioni degli obelischi, e vi<br />

sono molti elementi per ritenere che i Flavi abbiano<br />

creato un legame fra Iside-Minerva guerriera e<br />

le loro conquiste militari, come testimonia la vicinanza<br />

<strong>del</strong>l’Iseo Campense al tempio di Minerva<br />

Chalcidica in Roma.<br />

La maggior parte dei materiali conservati al<br />

Museo <strong>del</strong> Sannio sono pertinenti a questo edificio,<br />

ed è la loro qualità più che quantità a sorprendere<br />

il visitatore: Domiziano, infatti, volle<br />

edificare, decorare ed arredare il santuario beneventano<br />

secondo i canoni <strong>del</strong>l’arte egizia, utilizzando<br />

materiali come il granito rosa, il porfido<br />

rosso, l’anfibolite e facendo ricorso al repertorio<br />

iconografico faraonico per le opere all’interno <strong>del</strong><br />

luogo di culto. E’ per questo che è parso opportuno<br />

intitolare quest’articolo “L’Egitto a<br />

Benevento”, piuttosto che “I culti isiaci a<br />

Benevento”, poiché l’Egitto fu “fisicamente” presente<br />

nel capoluogo sannita dal I sec. d.C. almeno<br />

fino al III sec. d.C., e gli dèi nilotici furono<br />

venerati in atmosfere consone alle loro origini,<br />

anziché in templi simili a quelli <strong>del</strong>le altre divinità<br />

<strong>del</strong> pantheon greco- romano, come avveniva<br />

invece a Pozzuoli, Pompei, Napoli ed in molti<br />

altri contesti.


I materiali<br />

I reperti egizi presenti a Benevento 6 , circa cinquanta,<br />

possono essere divisi in quattro gruppi<br />

principali:<br />

1) Reperti di epoca faraonica, fabbricati in<br />

Egitto in tempi molto antichi e portati a<br />

Benevento in occasione (o in conseguenza) <strong>del</strong>l’edificazione<br />

<strong>del</strong> santuario. Essi sono: un frammento<br />

di statua <strong>del</strong> faraone Meri-shepses-Ra assiso<br />

in trono, <strong>del</strong>la XIII dinastia, datata al 1700 a.C.<br />

circa, che è il pezzo più antico presente in città;<br />

la statua-cubo <strong>del</strong>lo Scriba Reale Neferhotep (fig.<br />

1) <strong>del</strong>la XXII dinastia, datata alla seconda metà<br />

<strong>del</strong> IX sec. a.C.; due statue di Horus-falco <strong>del</strong>la<br />

XXX dinastia.<br />

2) Reperti di epoca tolemaica fabbricati in<br />

Egitto: una testa di Iside proveniente da Behbetel-Hagar<br />

(fig. 2), sul Delta <strong>del</strong> Nilo, forse un frammento<br />

<strong>del</strong>la statua venerata nel naòs; cinque<br />

<strong>del</strong>le dieci sfingi beneventane (fig. 3) oggi conservate<br />

in parte al Museo <strong>del</strong> Sannio ed in parte<br />

al Museo Barracco di Roma, e che probabilmente<br />

erano pertinenti ad un unico drómos, corridoio<br />

monumentale che fungeva da accesso al naòs, ai<br />

lati <strong>del</strong> quale trovavano collocazione le sfingi, le<br />

statue di faraone con “pilastro dorsale” e gli obelischi<br />

in granito.<br />

3) Reperti <strong>del</strong>la tarda epoca ellenistica di fabbricazione<br />

greca: frammento <strong>del</strong>la nave di Iside<br />

Pelagia (?) (fig. 4 ) e toro Apis (?) in marmo bianco.<br />

4) Reperti di epoca romana imperiale, alcuni<br />

fabbricati in Egitto, altri in Italia che testimoniano<br />

lo “stato di decadenza” <strong>del</strong>l’arte egizia nel I sec.<br />

<strong>del</strong>la nostra era: due obelischi in granito (fig. 5);<br />

le statue regali che riproducono Domiziano (fig.<br />

6) e Caracalla (?); la statua di Anubis (?); la coppia<br />

di sacerdoti con “vaso canopo” (fig. 7); il<br />

sacerdote con sistro, tre oranti inginocchiate e<br />

diverse statue di animali sacri (due cinocefali, tre<br />

falchi, le restanti cinque sfingi, fra cui due teste di<br />

faraone, tre leoni gradienti in granito rosa, di cui<br />

uno incastonato nel campanile <strong>del</strong>la Cattedrale, il<br />

toro Apis di viale S. Lorenzo ed il toro Apis in pietra<br />

scura). A questo gruppo appartengono anche<br />

l’elemento di decorazione architettonica con toro<br />

Apis e quattro frammenti di rilievo raffiguranti<br />

Iside alata, un ginocchio con parte <strong>del</strong> gonnelli-<br />

GIOVANNI VERGINEO<br />

- 85 -<br />

no tipico egizio (lo shendit), l’imperatore<br />

Domiziano in vesti faraoniche con le corone<br />

<strong>del</strong>l’Alto e <strong>del</strong> Basso Egitto (fig. 8), oggi perduto,<br />

Fig. 3.<br />

Fig. 4.<br />

Fig. 5.


Fig. 7.<br />

Fig. 6.<br />

e la sfinge alata acefala (fig. 9) riutilizzata nella<br />

costruzione <strong>del</strong> settecentesco Convento degli<br />

Scolopi, in p.zza Piano di Corte. Fanno inoltre<br />

parte di questo gruppo un’epigrafe in cui è menzionata<br />

Iside ed un’altra in cui si celebra la costruzione<br />

<strong>del</strong> Canopus 7 , anch’essa perduta. Grande<br />

interesse destano le opere “egittizzanti” fabbrica-<br />

SALTERNUM<br />

- 86 -<br />

te in Italia da artisti locali o romani, che testimoniano<br />

da un lato l’affezione <strong>del</strong>l’imperatore<br />

Domiziano alle forme ed ai materiali <strong>del</strong>la plastica<br />

faraonica, dall’altro la scarsa familiarità che<br />

avevano gli artisti italici con le forme ed i materiali<br />

tipici <strong>del</strong>l’arte egizia 8 .<br />

Uno degli oggetti più interessanti è la c.d. cista<br />

mystica (fig. 10), oggetto dal contenuto e dalla<br />

funzione misteriosi pertinente al tempio di “Iside<br />

Signora di Benevento”. Una cista analoga, in<br />

vimini, era portata in trionfo durante le processioni<br />

sacre assieme alle statue degli dèi e conteneva,<br />

secondo la testimonianza di Apuleio, i “<br />

sacri corredi, e nascondeva nell’intimo i misteri di<br />

quella sublime religione” 9 . Il Müller ritiene che la<br />

cista contenesse dei serpenti - visto che un rettile<br />

è appunto rappresentato sul coperchio - oppure<br />

il fallo <strong>del</strong> dio Osiride o un “vaso canopo”<br />

pieno di acqua lustrale 10 .<br />

L’ipotesi dei serpenti sembra tuttavia da scartare.<br />

In molte raffigurazioni la cista è accompagnata<br />

da due rettili 11 . L’uno, recante la corona <strong>del</strong><br />

Basso Egitto, è Agathodaimon; l’altro, con le<br />

corna bovine ed il disco solare di Isis-Hator sul<br />

capo, è Thermouthis. Agathodaimon era il patrono<br />

di Alessandria, venerato presso un heroon edificato<br />

in suo onore; è l’interpraetatio graeca<br />

(alessandrina) <strong>del</strong> dio egizio Psois, dio <strong>del</strong> destino<br />

che regge le sorti degli uomini e degli Stati.<br />

Thermouthis è invece la dea <strong>del</strong>la fertilità e <strong>del</strong>la<br />

vegetazione, che sovente accompagna il primo<br />

nelle raffigurazioni.<br />

Sul disco di una lucerna rinvenuta a Pozzuoli 12<br />

(fig. 11) è raffigurata Isis Panthea nell’atto di versare<br />

il contenuto di una patera all’interno di una<br />

cista, la quale è piena di frutti dalla forma tondeggiante,<br />

indistinguibili. In un rilievo conservato<br />

al Museo Egizio di Torino 13 (fig. 12) è possibile<br />

notare la medesima cista, questa volta accompagnata<br />

da entrambi i rettili, il cui contenuto è<br />

chiaramente rappresentato da una pigna. Resti di<br />

pigne e di altri frutti carbonizzati (datteri, fichi,<br />

castagne, noci, nocciole) sono stati rinvenuti nella<br />

fossa in muratura presso l’altare maggiore<br />

<strong>del</strong>l’Iseo di Pompei, destinata ad accogliere i resti<br />

di ciò che veniva bruciato durante i sacrifici 14 . E’<br />

quindi probabile che a ciò fosse destinata anche<br />

la cista beneventana.


I Santuari<br />

Hans Wolfgang Müller, l’egittologo tedesco<br />

che per primo ha portato alla ribalta internazionale<br />

l’importanza <strong>del</strong>le scoperte beneventane,<br />

sulla base dei materiali rinvenuti ipotizzò l’esistenza<br />

di tre santuari distinti 15 :<br />

1) Un santuario dedicato a Iside “Signora di<br />

Benevento”, costruito per volere <strong>del</strong>l’imperatore<br />

Domiziano nell’88-89 d.C., la cui esistenza è<br />

dimostrata, oltre che dal gran numero di opere<br />

egizie o egittizzanti, anche dalle epigrafi sui due<br />

obelischi. Nella ricostruzione <strong>del</strong> Müller questo<br />

edificio sarebbe stato eretto secondo i canoni <strong>del</strong>l’architettura<br />

e <strong>del</strong>l’arte egizia, rappresentando<br />

pertanto una vera e propria “enclave egizia” in<br />

territorio italico.<br />

2) Un Canopus dedicato al culto di Osiride-<br />

Canopo, divinità paredra di Iside-Menouthis<br />

venerata nella città nilotica di Canopo. A tale tempio<br />

sono riferibili un numero minore di opere, la<br />

cui datazione si colloca fra la metà <strong>del</strong> I e la<br />

seconda metà <strong>del</strong> II sec.d.C.. Un’iscrizione di<br />

carattere celebrativo, oggi perduta, ci informa che<br />

l’edificio è frutto <strong>del</strong>la munificenza di un privato,<br />

Umbrio Eudrasto, Patronus Coloniae<br />

Beneventanorum, cui il collegium Martensium<br />

Infraforanum dedica appunto l’epigrafe.<br />

3) Un tempio in cui era venerata Iside Pelagia,<br />

epiclesi 16 ellenistica <strong>del</strong>la dea molto diffusa in<br />

ambiente egeo dal II sec. a.C., e strettamente<br />

legata alla navigazione ed al commercio.<br />

L’esistenza di questo terzo edificio è testimoniata<br />

da un numero esiguo di reperti, e poggia sull’interpretazione<br />

<strong>del</strong> frammento di imbarcazione<br />

in marmo pario come parte <strong>del</strong>la statua di culto<br />

di Iside Pelagia. Tale ipotesi, come vedremo, è<br />

fortemente criticata da molti studiosi.<br />

Non essendo stata individuata la collocazione<br />

di nessuno dei tre templi, è possibile solo formulare<br />

ipotesi circa la loro architettura ed i loro arredi,<br />

partendo dallo studio dei reperti ad essi pertinenti.<br />

Riguardo al santuario di epoca domizianea,<br />

ciò che colpisce è l’uso di materiali e forme che<br />

rimandano immediatamente al mondo egizio.<br />

Allo stesso modo, le divinità non sono mai raffigurate<br />

nella loro interpraetatio graeca o romana<br />

(ovvero secondo tipi iconografici elaborati in<br />

GIOVANNI VERGINEO<br />

- 87 -<br />

Fig. 9.<br />

Fig. 10.<br />

Fig. 8.


Fig. 12.<br />

Fig. 11.<br />

contesti ellenistico-romani e più consoni ai canoni<br />

<strong>del</strong>l’arte “occidentale”); sono invece presentate<br />

secondo la più antica iconografia faraonica, che<br />

ignora le conquiste <strong>del</strong>l’arte greca. Questo elemento<br />

distingue le opere egizie beneventane da<br />

quelle rinvenute in molti contesti campani, come<br />

Pozzuoli o Pompei. La città flegrea, soprattutto,<br />

ospitava un importante tempio ellenistico dedicato<br />

alla divinità tolemaica Serapide, di cui si conserva<br />

al Museo Nazionale di Napoli una statua <strong>del</strong><br />

II sec. d.C. che, secondo l’ipotesi di molti studiosi,<br />

riprende il prototipo elaborato sotto Tolomeo<br />

I Sotér. Mentre nella zona costiera <strong>del</strong>la<br />

Campania, infatti, gli dèi egizi erano “giunti attraverso<br />

il mare” grazie soprattutto al contributo dei<br />

mercanti, a Benevento il tempio di Iside è frutto<br />

<strong>del</strong>la diretta volontà imperiale, eseguita mediante<br />

un “demiurgo” il cui nome appare più volte sugli<br />

obelischi: Rutilio Lupo. Pertanto è possibile inter-<br />

SALTERNUM<br />

- 88 -<br />

pretare il santuario beneventano come manifestazione<br />

<strong>del</strong>la stessa ideologia domizianea, volta<br />

all’autoesaltazione mediante l’uso di sculture e<br />

materiali che, richiamando il mondo degli antichi<br />

sovrani egizi, conferisse dignità divina allo stesso<br />

Princeps, nuovo Faraone.<br />

Dato il grande numero di sculture egizie, è<br />

ipotizzabile un coinvolgimento diretto <strong>del</strong>lo stesso<br />

imperatore nella decisione di importarle. Onde<br />

arricchire maggiormente il tempio, però, fu<br />

necessario anche far produrre molte opere, le<br />

quali sono qualitativamente inferiori alle più antiche,<br />

dato lo stato di decadenza <strong>del</strong>la stessa arte<br />

egizia in età flavia o la scarsa pratica degli scultori<br />

locali con le forme ed i materiali egizi 17 .<br />

I materiali rinvenuti inducono a pensare che il<br />

santuario di “Iside Signora di Benevento” (come è<br />

chiamata la dea sui due obelischi) fosse simile<br />

nella struttura agli antichi templi egizi <strong>del</strong>la Valle<br />

<strong>del</strong> Nilo, e la presenza di un così elevato numero<br />

di sfingi, alcune <strong>del</strong>le quali molto simili fra di<br />

loro, porta a ipotizzare l’esistenza di un drómos,<br />

ove queste opere potessero essere collocate. Al<br />

termine di tale corridoio erano posti i due obelischi,<br />

antico simbolo <strong>del</strong> dio Atoum ed ora recanti<br />

il nome di Domiziano identificato pienamente<br />

con Horus. Il naòs, imitando nella struttura i templi<br />

egizi, avrebbe potuto trovarsi al livello <strong>del</strong><br />

suolo, con una cella ipostila che introduce al<br />

sancta sanctorum.<br />

L’esistenza stessa <strong>del</strong> drómos induce a ritenere<br />

che il tempio isiaco a Benevento fosse integrato<br />

architettonicamente nel contesto urbanistico e<br />

collegato in modo “aperto” con il centro urbano,<br />

e non isolato dal suo peribolo dal resto <strong>del</strong>la città,<br />

come avviene invece a Pompei. Non è facile proporre<br />

una collocazione <strong>del</strong>le altre opere, ma è<br />

probabile che la statua di Domiziano si trovasse<br />

all’interno <strong>del</strong> tempio, come anche la statuetta di<br />

Caracalla. Il frammento <strong>del</strong>la testa di Iside, che<br />

potrebbe appartenere alla vera e propria statua di<br />

culto, si trovava certo all’interno <strong>del</strong>la cella, e<br />

forse era posizionata in modo da essere visibile<br />

anche dall’esterno, dato che i fe<strong>del</strong>i non potevano<br />

entrare nel luogo ove era il simulacro. La statua<br />

di Anubis probabilmente non era ospitata<br />

all’interno <strong>del</strong> naòs, ma in una <strong>del</strong>le nicchie ricavate<br />

nelle pareti esterne <strong>del</strong>la cella, ancora visibi-


li a Pompei e dinanzi ad ognuna <strong>del</strong>le quali era<br />

un altare. Le altre sculture provenienti dall’Egitto<br />

facevano parte <strong>del</strong>l’arredo <strong>del</strong> tempio; è probabile<br />

che non fossero posizionate nella cella ma in<br />

qualche altro luogo <strong>del</strong> santuario.<br />

La collocazione <strong>del</strong>l’Apis in pietra scura è<br />

anch’essa problematica: il toro avrebbe potuto<br />

essere venerato in uno spazio attiguo al tempio,<br />

in una cappella privata o forse nel naòs stesso,<br />

data l’assenza, a Benevento, di testimonianze <strong>del</strong><br />

culto di Serapide, che avrebbe potuto essere<br />

sostituito da Osiride (venerato nel Canopus) e,<br />

appunto, da Apis, cioè dalle due divinità cui deve<br />

il nome 18 . Il culto di Apis, data l’avversità dei<br />

Romani verso gli dèi zoomorfi, non ebbe mai<br />

grande successo in Italia, tuttavia il toro, che in<br />

Egitto incarnava il potere faraonico, venne ben<br />

presto collegato da Domiziano al potere imperiale,<br />

di cui divenne espressione. E’ significativo che<br />

durante il principato domizianeo siano state<br />

coniate molte monete alessandrine con l’immagine<br />

<strong>del</strong>l’animale, il cui legame con il sovrano era,<br />

in Egitto, una prassi consolidata. Apis era venerato<br />

nel tempio beneventano non perché godesse<br />

di particolare seguito fra i fe<strong>del</strong>i, ma perché simboleggiava<br />

la divinità <strong>del</strong> sovrano.<br />

Il Canopus è legato strettamente al foro cittadino<br />

dall’epigrafe <strong>del</strong> collegium dei Martenses<br />

Infraforani 19 , datata ad epoca adrianea (117- 138<br />

d.C.), in cui i membri <strong>del</strong>l’associazione ringraziano<br />

Umbrio Eudrastus, patronus coloniae per aver<br />

edificato il tempio “a solo propriis sumptibus”. Il<br />

culto di Osiride-Canopo nasce come “variante”<br />

<strong>del</strong> culto ellenistico di Osiride-Hydreios, ovvero<br />

di Osiride incarnato nell’acqua fecondatrice <strong>del</strong><br />

Nilo, conservata in appositi contenitori (hydreia)<br />

oggetto di venerazione. Il legame fra lo sposo di<br />

Iside e l’acqua <strong>del</strong> Nilo è antichissimo; già i Testi<br />

<strong>del</strong>le Piramidi identificano Osiride con il Nilo in<br />

piena e con il limo fecondatore. In ambito ellenistico<br />

il culto <strong>del</strong>l’acqua sacra verrà esteso anche<br />

al suo contenitore, che diventerà esso stesso<br />

oggetto di adorazione. Dall’isola di Delo la devozione<br />

verso il vaso, soprattutto nella sua variante<br />

“canopica”, passerà in Italia insieme a quella per<br />

gli dèi nilotici 20 . Nella città di Canopo, sul Delta<br />

<strong>del</strong> Nilo, l’acqua era venerata in particolari contenitori<br />

panciuti, con la testa <strong>del</strong> dio come coper-<br />

GIOVANNI VERGINEO<br />

- 89 -<br />

chio, chiamati “canopi”, i quali in epoca imperiale<br />

presero in Italia il posto <strong>del</strong>l’hydreion 21 .<br />

Tali vasi compaiono nelle due sculture beneventane<br />

di “sacerdoti con canopo”, opere di<br />

epoca adrianea prodotte in una bottega alessandrina.<br />

Esse facevano parte di un gruppo scultoreo<br />

completato dalla figura di sacerdote con abito<br />

frangiato, gruppo che rappresentava la celebrazione<br />

<strong>del</strong>l’atto principale <strong>del</strong> culto isiaco mattutino,<br />

ovvero l’esposizione <strong>del</strong> ritrovato Osiride<br />

sotto forma di “vaso canopo” davanti alla folla dei<br />

fe<strong>del</strong>i. Un confronto con tale raffigurazione è fornita<br />

da un affresco ercolanense, in cui è visibile il<br />

gruppo dei tre ministri (sacerdoti con canopo e<br />

sacerdote con abito frangiato) nell’atto di eseguire<br />

la cerimonia di apertura <strong>del</strong> tempio 22 . Il Müller<br />

colloca queste sculture all’interno <strong>del</strong> Canopus,<br />

che ospitava anche le tre statue di oranti inginocchiate,<br />

omogenee tipologicamente ma molto<br />

distanti cronologicamente: la più antica, infatti, è<br />

databile alla prima metà <strong>del</strong> I sec. d.C. mentre la<br />

più recente alla prima metà <strong>del</strong> II sec. d.C..<br />

Non è inoltre necessario ipotizzare l’esistenza<br />

di un edificio separato dall’Iseo domizianeo per<br />

ospitare il culto <strong>del</strong> “canopo”: una cappella adiacente<br />

al tempio avrebbe potuto svolgere tale funzione,<br />

anche perché durante il rito d’apertura <strong>del</strong><br />

naòs il sacerdote faceva libagioni versando da un<br />

vaso l’acqua sacra presa all’interno <strong>del</strong> santuario<br />

23 .<br />

Il collegamento stabilito dall’iscrizione <strong>del</strong> collegium<br />

Martensium Infraforanum tra il Canopus<br />

ed il foro non autorizza a ritenere che il tempio<br />

si trovasse al suo interno, anche se i culti isiaci,<br />

dato il loro legame con la classe mercantile, si sviluppano<br />

spesso in ambienti vicini al cuore cittadino,<br />

come è evidente dall’esempio di Pompei.<br />

L’ipotesi <strong>del</strong> Müller circa l’esistenza di un tempio<br />

isiaco più antico di quello domizianeo è basata<br />

sull’interpretazione di due controversi reperti:<br />

il frammento di imbarcazione interpretata come<br />

Iside Pelagia ed il toro in marmo bianco interpretato<br />

come Apis.<br />

La statua di Iside Pelagia è la più antica testimonianza<br />

a Benevento di un culto <strong>del</strong>la dea<br />

schiettamente ellenistico, diverso da quello introdotto<br />

da Domiziano che aveva invece carattere<br />

“faraonico”. Inoltre, il santuario di Iside Pelagia è


strettamente connesso al culto di Serapide, divinità<br />

creata dalla dinastia Lagide (l’ultima e la più<br />

longeva <strong>del</strong>l’Antico Egitto, che regnò dal 304 al<br />

30 a.C.) diffusamente venerata in ambito mediterraneo,<br />

specie fra i mercanti, ma di cui a<br />

Benevento non c’è traccia.<br />

La provenienza <strong>del</strong>l’opera da un contesto (alla<br />

base <strong>del</strong> muro longobardo settentrionale) in cui<br />

sono stati rinvenuti altri oggetti legati ai culti egizi<br />

non ne prova la pertinenza a tali culti; nello stesso<br />

luogo sono state portate alla luce anche statue<br />

di divinità romane.<br />

Lo stile e il materiale <strong>del</strong> manufatto sono<br />

molto diversi dalle altre sculture egizie; esse sono<br />

quasi sempre, infatti, realizzate in materiale “esotico”,<br />

come il granito di Assuan, la diorite, l’anfibolite,<br />

mentre lo stile è, nella maggior parte dei<br />

casi, egizio o comunque una imitazione <strong>del</strong>lo<br />

stile egizio. Al contrario, Bruneau crede che nemmeno<br />

il toro in marmo <strong>del</strong> Museo <strong>del</strong> Sannio sia<br />

da identificare con Apis 24 . A sfavore <strong>del</strong>l’identificazione<br />

<strong>del</strong>l’opera come Iside Pelagia gioca<br />

anche la posizione geografica di Benevento,<br />

alquanto distante dal mare.<br />

Se è probabile che la città ospitasse un culto<br />

isiaco già prima <strong>del</strong>la tarda epoca flavia, è dunque<br />

molto difficile pensare che si tratti <strong>del</strong> culto<br />

di Iside Pelagia; la sua festività annuale, il<br />

Navigium Isidis, era la cerimonia con cui si riapriva<br />

la navigazione estiva dopo la pausa invernale.<br />

Essa aveva luogo il 5 marzo, e ci è descritta in<br />

modo molto dettagliato da Apuleio, che ambienta<br />

proprio nel corso di questa festa la deuterometamorfosi<br />

di Lucio in forma umana.<br />

Anche se di certo gli interessi dei commercianti<br />

locali erano legati anche alla navigazione, risulta<br />

difficile collocare la processione <strong>del</strong> Navigium<br />

nel contesto beneventano.<br />

Il problema <strong>del</strong>la collocazione nell’ambito<br />

urbano dei santuari beneventani è stato sollevato<br />

fin dall’inizio <strong>del</strong> secolo scorso. Il Meomartini era<br />

convinto che l’Iseo si trovasse nei pressi <strong>del</strong><br />

Convento di S. Agostino, vista la grande quantità<br />

di reperti rinvenuti nelle vicinanze. Il Müller, che<br />

ipotizza invece l’esistenza di tre templi diversi,<br />

colloca il santuario domizianeo nel pressi <strong>del</strong>l’attuale<br />

Palazzo Arcivescovile, che si trovava all’incrocio<br />

fra la via Appia e la Latina, in una zona<br />

SALTERNUM<br />

- 90 -<br />

quindi di grande traffico nei pressi <strong>del</strong> foro.<br />

Nella stessa zona sono stati rinvenuti alcuni<br />

reperti di grande rilevanza, come i due obelischi,<br />

la statua-cubo <strong>del</strong>lo scriba reale Neferhotep ed il<br />

fregio con il toro Apis. Infine sono noti casi di<br />

“sostituzione” di luoghi di culto isiaci con luoghi<br />

di culto cristiani; la cattedrale di Benevento, originariamente<br />

dedicata a S. Maria, potrebbe sorgere<br />

sui resti <strong>del</strong>l’antico Iseo domizianeo 25 .<br />

Altra zona interessata da notevoli rinvenimenti<br />

è piazza Cardinal Pacca 26 , che molti studiosi<br />

sono concordi nel considerare la sede <strong>del</strong>l’antico<br />

foro, il quale si estendeva probabilmente sino<br />

all’odierna piazza Orsini 27 . Secondo il Müller è in<br />

quest’area che doveva sorgere il Canopus <strong>del</strong> collegium<br />

Martensium Infraforanum. A questo<br />

complesso apparterrebbero le due statue di<br />

sacerdoti con “vaso canopo” di epoca adrianea e<br />

la statua di sacerdote isiaco, datata all’età di<br />

Domiziano. La pertinenza <strong>del</strong> Canopus ad un collegio<br />

di militari, a mio avviso, conferma l’ipotesi<br />

formulata dal Malaise sulla relazione fra le imprese<br />

belliche <strong>del</strong>l’ultimo imperatore flavio ed Iside;<br />

anche i veterani <strong>del</strong> Canopus, in linea con la politica<br />

imperiale, avrebbero quindi scelto come divinità<br />

protettrice e rappresentativa <strong>del</strong> collegium<br />

non una divinità romana, ma la dea che<br />

Domiziano aveva collegato alle proprie conquiste.<br />

L’esistenza di un culto isiaco nella zona di<br />

piazza Cardinal Pacca, sia esso legato al tempio<br />

di Iside Pelagia, al santuario domizianeo o al<br />

Canopus, potrebbe essere suffragata anche dalla<br />

presenza – attestata per la prima volta nell’VIII<br />

sec. d.C. - di una chiesa dedicata a S. Stefano,<br />

oggi non più esistente 28 . Il legame fra il culto <strong>del</strong><br />

protomartire ed i luoghi in cui erano venerate le<br />

divinità egizie non è stato ancora chiarito, ma è<br />

provato che presso le antiche sedi di santuari<br />

isiaci è possibile trovare successivamente chiese<br />

dedicate a questo santo. Tale legame risulta evidente<br />

anche dall’analisi di altri contesti: il Müller<br />

osservò come a Roma nell’area occupata in<br />

epoca imperiale dall’Iseo Campense sia sorta<br />

poi la chiesa di S. Stefano <strong>del</strong> Cacco, ed anche<br />

a Verona si è avuta un’evoluzione analoga.<br />

Nemmeno Pozzuoli, ho notato, sfugge a questa<br />

norma: la lex parieti faciendo, infatti, è stata rin


venuta all’interno <strong>del</strong>la chiesa di S. Stefanino a<br />

Pontone, oggi non più esistente 29 .<br />

Basandosi ugualmente sull’ipotesi che le<br />

chiese dedicate al protomartire indichino una<br />

precedente frequentazione isiaca, altri studiosi<br />

sostengono che nei pressi di piazza Piano di<br />

Corte, dove un tempo sorgeva un’altra chiesa di<br />

S. Stefano in plano curie (sic), debba essere collocato<br />

almeno uno dei templi cittadini 30 .<br />

Ne sarebbero ulteriore prova il rinvenimento<br />

di un bassorilievo raffigurante una sfinge alata,<br />

elemento probabilmente collegabile ai culti isiaci<br />

cui si è conferita finora scarsa importanza 31 . Al<br />

piano terra di un edificio che affaccia sul lato<br />

nord <strong>del</strong>la piazza vi è inoltre una colonna frammentaria<br />

in granito rosso, di dimensioni minori<br />

rispetto a quelle usate per S. Sofia 32<br />

Nonostante siano state formulate molte ipotesi<br />

valide sulla collocazione dei templi isiaci,<br />

nessuna di esse può considerarsi definitiva; solo<br />

il Canopus, legato al foro dal nome <strong>del</strong> citato<br />

collegium, trova collocazione con molta probabilità<br />

nell’area di piazza Cardinal Pacca, che<br />

avrebbe potuto ospitare, secondo l’opinione <strong>del</strong><br />

Müller, anche uno dei santuari isiaci.<br />

Non c’è accordo fra gli studiosi nemmeno<br />

circa l’aspetto originario <strong>del</strong>l’edificio. Il Müller,<br />

che riteneva esistessero due edifici distinti per<br />

il culto di Iside Pelagia e di Iside “Signora di<br />

Benevento”, propone un’architettura in stile<br />

ellenistico-romano per il primo, paragonabile<br />

quindi ai templi di Pozzuoli e di Pompei, ed in<br />

stile egizio per il secondo, il mo<strong>del</strong>lo <strong>del</strong> quale<br />

sarebbe stato l’Iseo Campense. Un terzo edificio,<br />

separato dagli altri due, avrebbe ospitato il<br />

culto di Osiride-Canopo, ubicato nel foro 33 . La<br />

Pirelli, che considera l’edificio domizianeo un<br />

ampliamento <strong>del</strong> santuario preesistente e non<br />

un’alternativa ad esso, propende al contrario<br />

per attribuire alla sua architettura uno stile<br />

misto, influenzato dall’arte ellenistica ed egizia<br />

quanto a forme e decorazioni 34 . L’intervento<br />

domizianeo autorizza a pensare che, effettivamente,<br />

la struttura <strong>del</strong>l’edificio si rifacesse a<br />

quello in Roma; in tal caso l’Iseo beneventano<br />

avrebbe avuto una pianta simile a quella ricostruita<br />

dal Roullet per il santuario <strong>del</strong> Campo<br />

Marzio 35 .<br />

GIOVANNI VERGINEO<br />

- 91 -<br />

In sintesi, il contesto cultuale beneventano<br />

appare molto complesso, e non è possibile,<br />

ovviamente, chiarirne tutti gli aspetti. E’ certo che<br />

vi fu un grande interesse da parte <strong>del</strong>l’imperatore<br />

Domiziano a che il culto beneventano venisse<br />

ospitato in un santuario adatto, di notevoli<br />

dimensioni e arredato con elementi esotici il cui<br />

trasporto dall’Egitto o dalla Grecia fu certamente<br />

costoso.<br />

Le tracce <strong>del</strong> culto “imperiale” ed ufficiale<br />

sono numerose, mentre le testimonianze di devozione<br />

privata sono praticamente nulle; non è<br />

stato rinvenuto nemmeno un sistro o un ex voto.<br />

Tuttavia non credo che la religione isiaca abbia<br />

goduto di scarso seguito in Benevento. E’ vero<br />

che essa era strettamente legata all’imperatore ed<br />

alla dignità principesca, ma la decisione stessa di<br />

Domiziano di impiantare un santuario proprio in<br />

questa città è indicativa <strong>del</strong> successo di cui le<br />

divinità nilotiche già godevano. Inoltre, non c’è<br />

motivo di supporre che il capoluogo sannita, al<br />

centro di traffici commerciali di grande portata e<br />

collegata sia con la costa campana che con Roma,<br />

sia stata esclusa dal fenomeno di diffusione <strong>del</strong>la<br />

religione egizia che ha interessato in modo vario<br />

tutta la Penisola fra la metà <strong>del</strong> II e l’inizio <strong>del</strong> I<br />

sec. a.C.<br />

Il culto di Iside è attestato in città almeno fino<br />

al III sec. d.C.: il reperto più tardo, infatti, è la statuetta<br />

che ritrae l’imperatore Caracalla (che regna<br />

dal 211 al 217).<br />

La fine dei culti isiaci, in tutto il mondo romano,<br />

è parallela alla fine <strong>del</strong> Paganesimo: nel 391<br />

d.C. il patriarca cristiano Teofilo diede alle fiamme<br />

il Serapeo di Alessandria e distrusse la statua<br />

di Briasside. Poco dopo, in Campania, Paolino di<br />

Nola lanciava contro Iside ed i suoi fe<strong>del</strong>i un’invettiva<br />

feroce 36 .<br />

Non conosciamo il momento preciso in cui il<br />

Paganesimo ebbe fine in modo definitivo nel territorio<br />

beneventano. E’ probabile che questo sia<br />

avvenuto fra il V e VI sec.; durante la guerra <strong>del</strong><br />

535-553 la città venne colpita gravemente, ed è<br />

probabile che anche i templi pagani siano stati<br />

materialmente distrutti nel corso di questo conflitto,<br />

oppure abbattuti in seguito.<br />

In forma di superstizione popolare, però, è<br />

possibile che i culti isiaci siano sopravvissuti fino


al VII sec., se il vescovo Barbato chiese l’estirpazione<br />

di ogni culto idolatrico per salvare la città<br />

dall’assedio <strong>del</strong>l’imperatore Costante II (663) 37 . A<br />

seguito di tale richiesta il duca longobardo<br />

Grimoaldo munì il palazzo mediante la costruzione<br />

<strong>del</strong> muro nord, che fu eseguita in fretta ed alla<br />

base <strong>del</strong> quale, forse a dimostrazione <strong>del</strong> voto<br />

mantenuto, vennero gettate varie spoglie provenienti<br />

da antichi templi pagani, fra cui proprio<br />

molti dei più importanti reperti legati ad Iside; è<br />

molto probabile, quindi, che ancora nel VII seco-<br />

*Articolo tratto dalla Tesi di Laurea in Beni Culturali “L’Egitto<br />

a Benevento fra fonti letterarie e archeologia”, a.a. 2005-<br />

2006, Università degli Studi di Salerno (Relatore prof.ssa C.<br />

M. Lambert, Correlatore prof.ssa E. Mugione).<br />

NOTE<br />

1 Tempio di Serapide, dio che nel pantheon tolemaico prende<br />

il posto <strong>del</strong> “vecchio” sposo di Iside, Osiride, assumendone<br />

molti dei tratti iconografici. Serapide nasce come dio<br />

dei morti, ma ben presto diviene protettore dei mercanti e<br />

<strong>del</strong>la navigazione, ed il suo culto attecchisce nei grandi<br />

emporia <strong>del</strong> Mediterraneo come Delo, che ospitava ben tre<br />

Serapeia (BRUNEAU - DUCAT 2005, pp. 58-60; 277-279).<br />

2 Tale dinastia, che regnò dal 69 al 96 d.C., fu rappresentata<br />

da Vespasiano, Tito e Domiziano.<br />

3 Di diverso avviso il Malaise, che sottolinea l’avversione dei<br />

Romani verso le divinità zoomorfe (MALAISE 1972, pp. 295-<br />

305).<br />

4<br />

MALAISE 1972, pp. 295-305.<br />

5<br />

ERODOTO, Historiae, II, 28.<br />

6 La pertinenza dei materiali beneventani al santuario di<br />

epoca domizianea, al Canopus o al tempio più antico di<br />

Iside Pelagia è fondata esclusivamente su ipotesi di carattere<br />

tipologico, formulate per la prima volta dal Müller (MÜLLER<br />

1971) e poi accolte dalla maggior parte degli studiosi. Non è<br />

possibile tuttavia essere certi <strong>del</strong>l’attribuzione <strong>del</strong>le opere.<br />

7 Vedi infra.<br />

8 A questo gruppo appartengono tre <strong>del</strong>le sfingi rinvenute,<br />

due <strong>del</strong>le quali conservate al Museo Barracco di Roma (cat.<br />

nn. 39, 306).<br />

9<br />

APULEIO, Metamorfosi, XI, 11.<br />

10<br />

MÜLLER 1971, p. 99.<br />

11 Cfr. affresco da Ercolano conservato al Museo<br />

<strong>Archeologico</strong> Nazionale di Napoli, inv. 8848; Egittomania<br />

2006, p. 111, Tav. II.51, 1.74; ibidem p. 187, Tav. III.57.<br />

12 Cfr. TRAN TAM TINH 1973, pp. 69-70, Tav. XXXI, 40, 40 bis.<br />

13 Cfr. TRAN TAM TINH 1973, pp. 79-80, Tav. VII, 8.<br />

14 Cfr. TRAN TAM TINH 1964, p. 34.<br />

15<br />

MÜLLER 1971, pp. 27- 30.<br />

16 Particolare interpretazione di una determinata divinità,<br />

caratterizzata da certi attributi e rituali che la distinguono<br />

dalle altre. Nel caso di Iside, le epiclesi più note, oltre<br />

appunto a quella di Pelagia o Pharia, sono Isis -Fortuna o<br />

SALTERNUM<br />

- 92 -<br />

lo vi fosse un luogo in cui tali antichi simulacri<br />

erano conservati e forse oggetto di venerazione.<br />

Ancora nell’VIII sec. i resti <strong>del</strong> santuario domizianeo<br />

dovevano essere ben visibili in città, se<br />

Arechi II – o forse il suo predecessore Gisulfo II<br />

– nell’edificare la chiesa di S. Sofia utilizzò alcune<br />

monumentali colonne in granito rosa <strong>del</strong>l’antico<br />

tempio, che data la loro mole non poteva<br />

essere eccessivamente lontano dal cantiere <strong>del</strong><br />

nascente monastero.<br />

Tyche, in cui la dea è assimilata alla Fortuna; Isis-Regina,<br />

assimilabile a Iuno Regina e legata sovente alla figura <strong>del</strong>l’imperatore<br />

(spesso nella forma di Isis-Augusta), Isis-Venus,<br />

in cui la dea egizia è rivestita degli attributi di Venere. Molto<br />

diffuso è anche il tipo iconografico Isis-Lactans, con la dea<br />

nell’atto di allattare il figlio Horus.<br />

17 MÜLLER 1971, p. 22.<br />

18 Per l’interpretazione <strong>del</strong> nome Sarapis come fusione fra<br />

Osiris ed Apis, cfr. TURCAN 1989, pp. 76-77; MALAISE 1972, p.<br />

212.<br />

19 Associazione di veterani il cui stesso nome indica un collegamento<br />

con il foro cittadino (Torelli 2002, pp. 218-219).<br />

20 MALAISE 1972, pp. 206, 280, 307-311.<br />

21 Id, ibidem, p. 307.<br />

22 MÜLLER 1971, pp. 94-96; tuttavia, la statua di sacerdote n.<br />

286 appare anteriore alle altre due, forse di epoca domizianea.<br />

23 PIRELLI 2006, p. 134.<br />

24 “Dans l’état actuel de la statue, ne présente aucune des particularités<br />

auxquelles se reconnaît Apis”.<br />

BRUNEAU 1974, p.24.<br />

25 MÜLLER 1971, pp. 30-33.<br />

26 Nell’area sono stati trovati il frammento <strong>del</strong>la statua di<br />

faraone in trono ed il frammento <strong>del</strong> piccolo obelisco in<br />

marmo con pseudo-geroglifici.<br />

27 TORELLI 2002, pp. 109-110.<br />

28 ZAZO 1964, p. 25; nei pressi di piazza Piano di Corte esiste<br />

ancora un vicolo intitolato a S. Stefano. Esso porta ad una<br />

chiesa, sconsacrata, che corrisponde alla descrizione fornita<br />

dal lo Zazo e reca sull’ingresso la scritta “RESTAURATA<br />

ANNO 1690”.<br />

29 Egittomania 2006, p. 77.<br />

30 GALASSO 1968.<br />

31 Il rilievo è stato riutilizzato nella parete esterna <strong>del</strong> settecentesco<br />

Convento degli Scolopi.<br />

32 Vedi infra.<br />

33 MÜLLER 1971, pp. 27-30.<br />

34 PIRELLI 2006, pp. 129-136.<br />

35 Egittomania 2006, p. 136.<br />

36 Paolino, Carmina, XIX, 110-113, cit. in SANZI 2003, pp. 428-<br />

429.<br />

37 VERGINEO 1985, pp. 58-60, 64-67.


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Ottobre 2006 - 26 Febbraio 2007 (a cura di S. De Caro).<br />

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GIOVANNI VERGINEO<br />

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ZAZO 1964 - A. Zazo, Le chiese Parrocchiali di Benevento<br />

<strong>del</strong> XII-XVI secolo, in Ricerche e studi storici, VI, p. 31,<br />

Napoli.


BIANCA<br />

CANCELLARE


STEFANIA FIORE<br />

La Valle <strong>del</strong> Sabato<br />

tra Tarda Antichità e Medioevo<br />

Il fiume Sabato, uno dei principali affluenti<br />

<strong>del</strong> Calore irpino, lungo circa 50 Km,<br />

nasce ai piedi <strong>del</strong> massiccio <strong>del</strong>l’Accellica<br />

(1.660 m s.l.m.), ai confini <strong>del</strong>le province di<br />

Avellino e Salerno, e scorre nella vallata attraversando<br />

il territorio irpino per raggiungere infine<br />

Benevento. Il fiume, oggi ridotto ad un modesto<br />

ruscello a causa <strong>del</strong>la captazione <strong>del</strong>le acque, in<br />

antico doveva avere una portata maggiore e fu<br />

di vitale importanza per Abellinum ed il suo<br />

entroterra, poiché, grazie all’ampio sistema di<br />

percorsi naturali che raccordavano il territorio<br />

con le principali arterie <strong>del</strong>la regione e soprattutto<br />

con il Beneventano e il <strong>Salernitano</strong>, assicurò<br />

le comunicazioni e permise lo sviluppo di<br />

aree estreme poste in altura.<br />

Una <strong>del</strong>le principali traverse stradali era la<br />

Via antiqua maior che, passando per la colonia<br />

romana di Abellinum (oggi Atripalda), univa la<br />

Via Appia alla Regio – Capuam. Nel periodo<br />

Medievale a tale strada sarà preferita la Via<br />

Regia <strong>del</strong>le Puglie, fatto che favorì l’abbandono<br />

e il successivo degrado <strong>del</strong>le antiche vie consolari<br />

(Fig. 1) 1 .<br />

Il Sabato fu anche il fulcro dei primi insediamenti,<br />

per lo più sparsi nel fondovalle, fino alla<br />

dinamica occupazione dei Romani. A loro si<br />

deve la creazione in epoca sillana (88-80 a.C.)<br />

<strong>del</strong>la colonia di Abellinum che, posta lungo le<br />

maggiori direttrici, costituiva per i villaggi limitrofi<br />

il luogo dei mercati e <strong>del</strong>la vita associativa.<br />

In epoca imperiale si verificò un grande sviluppo<br />

edilizio soprattutto nella Civita, mentre nelle<br />

campagne si diffusero le ville rustiche, dove si<br />

svolgevano attività artigianali ed agricole. Nel<br />

corso <strong>del</strong>la tarda antichità e <strong>del</strong>l’altomedioevo<br />

queste terre divennero crocevia di apporti inno-<br />

- 95 -<br />

Fig. 1 - Sistema viario di epoca romana lungo la valle <strong>del</strong> Sabato.<br />

Fig. 2 – Atripalda (AV). Planimetria <strong>del</strong> quartiere di Capo la Torre. In<br />

evidenza le strutture murarie messe in luce, comprendenti i resti <strong>del</strong>la<br />

basilica paleocristiana <strong>del</strong> IV sec. d.C. e <strong>del</strong>l’edificio altomedievale a<br />

doppia abside (da FARIELLO SARNO 1996, p. 162).<br />

vativi, legati, in particolare, alla progressiva integrazione<br />

<strong>del</strong>le popolazioni allogene al sostrato<br />

culturale preesistente e al contestuale affermarsi<br />

<strong>del</strong> Cristianesimo, destinato a rivelarsi - qui<br />

come altrove - non solo determinante fattore di<br />

stabilità religiosa, ma anche elemento vitalizzante<br />

a livello insediativo.<br />

Le indagini archeologiche condotte dopo il<br />

sisma <strong>del</strong> 1980 nell’odierno quartiere di Capo la


Fig. 3 (come nel testo).Atripalda, Capo la Torre, planimetria <strong>del</strong>l’edificio<br />

absidato altomedievale, edificato sulla preesistente basilica<br />

paleocristiana.<br />

Fig. 4. Abellinum - Atripalda. Planimetria generale; al centro la Civita.<br />

Torre di Abellinum (Fig. 2) hanno riportato alla<br />

luce un cimitero paleocristiano (IV-VI d.C.) che<br />

si sviluppò intorno all’originaria cripta <strong>del</strong> santo<br />

martire Ippolisto (vissuto nel III sec. d.C.), con<br />

parte di una necropoli monumentale più antica,<br />

che ha restituito una fitta presenza di tombe<br />

disposte su più livelli, tra le quali si concentrano,<br />

nello strato superiore, quelle cristiane 2 .<br />

All’interno <strong>del</strong>la necropoli sono stati recuperati<br />

ampi resti monumentali, rivelatisi pertinenti<br />

ad una Basilica che ebbe forse anche il ruolo di<br />

chiesa episcopale. L’edificio basilicale, con<br />

SALTERNUM<br />

- 96 -<br />

orientamento Est-Ovest è riferibile, per l’impianto<br />

e la tipologia <strong>del</strong>le opere murarie in opus<br />

listatum, ai primi decenni <strong>del</strong> IV secolo d.C. ed<br />

è comparabile a numerosi monumenti edificati<br />

dopo l’Editto di Costantino (313 d.C.). Esso ha<br />

profondamente alterato il tessuto insediativo<br />

precedente, costituito da una necropoli pagana<br />

di età imperiale, cui vanno riferiti i numerosi<br />

elementi di spoglio reimpiegati nelle fondazioni<br />

3 .<br />

Le sepolture sono per la maggior parte corredate<br />

di iscrizioni che rappresentano un corpus di<br />

eccezionale valore, che si colloca tra il 357 ed il<br />

558 d.C 4 . Tali documenti attestano una diffusione<br />

<strong>del</strong> Cristianesimo relativamente tarda, ma<br />

profondamente radicata nel territorio soprattutto<br />

nel corso <strong>del</strong> V-VI secolo d.C 5 .<br />

Nel VI secolo d.C. l’area urbana <strong>del</strong>la Civita<br />

di Abellinum – già spopolatasi a causa <strong>del</strong> terremoto<br />

che si verificò nel 346 d.C., poi a causa<br />

<strong>del</strong>l’eruzione vesuviana datata tra il 472 d.C. e il<br />

507-511 d.C., e quindi a seguito <strong>del</strong>le invasioni<br />

barbariche – si contrasse e i suoi spazi furono<br />

rifunzionalizzati. La città fu in seguito abbandonata<br />

e non più ricostruita e la diocesi fu probabilmente<br />

soppressa: per il periodo che va dal VI<br />

al X secolo d.C. non si hanno più notizie circa i<br />

vescovi di Abellinum 6 .<br />

L’ultimo vescovo noto è Sabino, vissuto nel<br />

VI secolo d.C. e sepolto nello Speco di<br />

Atripalda, dove se ne conserva l’iscrizione metrica<br />

sul retro di un sarcofago reimpiegato 7 . Questo<br />

silenzio nella cronotassi vescovile viene da alcuni<br />

studiosi attribuito alla conquista e al dominio<br />

longobardo, che avrebbero provocato l’abbandono<br />

di Abellinum. La sede vescovile temporanea<br />

tra la seconda metà <strong>del</strong> VI secolo e il 663<br />

d.C. sarebbe stata la chiesa di San Johannis de<br />

Pratola (Pratola Serra, AV) che dista da<br />

Benevento 18 Km e da Abellinum circa 12 Km 8 .<br />

Tale chiesa, con orientamento Est-Ovest, fu<br />

scoperta nel 1981 sul pianoro “Pioppi” durante<br />

lo scavo di un settore (già adibito a magazzino),<br />

di una villa romana di II-III secolo d.C..<br />

L’edificio di culto era accompagnato da strutture<br />

riferibili ad un battistero con fonte a croce greca<br />

estradossa e da un sepolcreto, entrambi datati<br />

alla metà <strong>del</strong> VI secolo d.C.; i reperti archeolo-


gici rinvenuti in sepolture di epoca longobarda<br />

scavate all’interno <strong>del</strong>la chiesa si datano tra VI e<br />

VII secolo d.C.; sette croci in argento e una in<br />

oro e ricchi tessuti ricamati dimostrano che la<br />

costruzione fu voluta da classi agiate. La proposta<br />

di ritenere la chiesa di S. Giovanni di Pratola<br />

sede episcopale sarebbe avvalorata dalla natura<br />

<strong>del</strong>le strutture architettoniche, i cui resti lasciano<br />

intendere che in corrispondenza <strong>del</strong>l’arco trionfale<br />

vi fosse un triforium sorretto dal basamento<br />

<strong>del</strong>l’abside, dove poteva trovare posto un<br />

eventuale seggio vescovile.<br />

La rinascita <strong>del</strong>la sede episcopale <strong>del</strong>la<br />

Abellinum longobarda è documentata nel 969<br />

d.C., quando compare con il titolo di Sancta<br />

Maria sedis Abellinensis quale dipendenza<br />

<strong>del</strong>l’Arcivescovato di Benevento, con sede presso<br />

la collina “La Terra” (centro attuale di Avellino) 9 .<br />

Questa nuova sede venne ad assumere la<br />

giurisdizione ecclesiastica che in precedenza era<br />

stata svolta dalla basilica paleocristiana di Capo la<br />

Torre, le cui strutture in epoca altomedievale<br />

furono integrate da un edificio a doppia abside,<br />

con orientamento Nord-Sud, di cui ancora non è<br />

stata chiarita la funzione 10 (Fig. 3).<br />

Pochi sono i dati circa le dinamiche insediative<br />

longobarde in Abellinum, ma è appurato che<br />

i nuovi dominatori scelsero la collina “la Terra”,<br />

distante appena tre chilometri dall’antica colonia,<br />

per creare dapprima un abitato fortificato, poi<br />

una contea e una nuova sede episcopale (Figg. 4-<br />

5). La città ricoprirà dunque nel X secolo d.C. il<br />

ruolo di centro propulsore, fino a quando nel<br />

Medioevo si assisterà al moltiplicarsi di nuovi<br />

nuclei, attivi economicamente, politicamente e<br />

militarmente.<br />

Per quanto riguarda le campagne, in età tardoantica<br />

il fenomeno di abbandono dei centri<br />

era stato generale: il territorio, già disseminato di<br />

villae rusticae, durante il VI secolo risentì <strong>del</strong><br />

cedimento <strong>del</strong>l’economia, ma la vita non scomparve,<br />

riducendosi tuttavia alla sussistenza <strong>del</strong>la<br />

sola curtis. Con le distruzioni di Totila 11 (VI sec.<br />

d.C.) le genti abbandonarono le ville e cercarono<br />

riparo sui monti in posizioni naturalmente<br />

difese, secondo un fenomeno ampiamente<br />

documentato nella valle <strong>del</strong> Sabato, ma fu<br />

soprattutto a partire dal VII secolo d.C., durante<br />

STEFANIA FIORE<br />

- 97 -<br />

la prima costituzione <strong>del</strong> Ducato di Benevento,<br />

che la popolazione di Abellinum si andò disperdendo<br />

gradualmente nelle campagne lungo l’antica<br />

rete viaria, sviluppando una serie di nuovi e<br />

più sicuri insediamenti.<br />

In questo processo di riorganizzazione <strong>del</strong><br />

territorio, tra VI e IX secolo d.C., in piena espansione<br />

longobarda, si assiste alla costruzione di<br />

castra lungo tutta la valle <strong>del</strong> Sabato, fortificazioni<br />

che nei secoli successivi <strong>del</strong>imiteranno<br />

aree sulle quali si ergeranno dapprima i masti<br />

normanni, poi i castelli-residenza <strong>del</strong> periodo<br />

angioino-aragonese.<br />

fig. 5. Antica carta di Avellino.<br />

Fig. 6. Prata di Principato Ultra (AV). Pianta <strong>del</strong>la Basilica <strong>del</strong>la SS.<br />

Annunziata (da MUOLLO 2001, p. 23).<br />

Durante i primi secoli <strong>del</strong> Ducato di<br />

Benevento si assiste alla rivitalizzazione di luoghi<br />

già occupati in epoca imperiale, con la<br />

costruzione di basiliche con annessi cimiteri al<br />

posto <strong>del</strong>le ville rustiche, come abbiamo visto<br />

per Pratola Serra.


Un altro esempio è dato da Prata di<br />

Principato Ultra (AV), che da questa dista circa<br />

1 Km: qui si assiste alla trasformazione di una<br />

<strong>del</strong>le cripte cimiteriali di età imperiale (II-III<br />

sec. d.C.) in chiesa dedicata alla SS. Annunziata<br />

(Figg. 6-7). Grazie agli scavi e al restauro storico-artistico<br />

condotto nel 1999 sono stati messi<br />

in evidenza elementi che consentono di assegnare<br />

la basilica all’età longobarda e di proporne<br />

la datazione tra la fine <strong>del</strong> VII e la prima<br />

metà <strong>del</strong>l’VIII secolo 12 .<br />

Altro sito interessato da queste trasformazioni<br />

è Altavilla Irpinia: sul Monte Toro, l’impianto altomedievale<br />

<strong>del</strong>la chiesetta di S. Martino s’inserisce<br />

su un precedente insediamento rurale romano<br />

costituito da una villa con annesse fornaci 13 .<br />

Fig. 7. Prata di Principato Ultra (AV). Basilica <strong>del</strong>la SS.Annunziata.<br />

Planimetria generale e sezione.<br />

Fig. 8. Prata di<br />

Principato<br />

Ultra (AV).<br />

Triphorium e<br />

deambulatorio<br />

<strong>del</strong>la Basilica.<br />

SALTERNUM<br />

- 98 -<br />

I dati ricavati dall’analisi sistematica <strong>del</strong>le<br />

dinamiche insediative <strong>del</strong>la valle <strong>del</strong> Sabato, pur<br />

essendo limitati per alcune zone, offrono un<br />

quadro d’insieme abbastanza ricco per il periodo<br />

pre-romano e romano, mentre esiguo è quello<br />

relativo alla tarda antichità e all’altomedioevo.<br />

Labili le tracce <strong>del</strong> periodo bizantino, che si<br />

scorgono nell’influsso di alcuni culti provenienti<br />

dall’Oriente e nell’arte figurativa, caratterizzata<br />

da un’iconografia marcatamente aulica 14 (Fig. 9).<br />

Per il periodo medievale gli elementi sono<br />

maggiori: numerosi paesi conservano ancor oggi<br />

gli impianti e la struttura abitativa originaria di<br />

tale epoca, tipicamente arroccata su colline o su<br />

speroni rocciosi dominati da castelli più o meno<br />

riconoscibili.<br />

Sul piano cultuale, i vescovi si fecero promotori<br />

<strong>del</strong>la devozione verso i santi locali, talvolta<br />

in sostituzione <strong>del</strong>le scelte operate in precedenza<br />

dalle élite politiche longobarde, particolarmente<br />

legate all’Angelo Michele e al Salvatore.<br />

Con i Normanni non si avrà una particolare<br />

attenzione per i culti estranei alle comunità -<br />

come avverrà invece con gli Angioini e gli<br />

Aragonesi - ma soltanto la promozione di nuove<br />

costruzioni o ricostruzioni di chiese per legittimare<br />

il loro potere e per stabilire intese con i<br />

dominati. Solo in un caso essi introdussero un<br />

culto che apparteneva alla propria tradizione e<br />

riguardò gli Oldoini, attestati in Irpinia nella<br />

seconda metà <strong>del</strong>l’XI secolo, in particolare a<br />

Candida e a Serra (frazione di Pratola).<br />

Tutto il comprensorio si presenta dunque<br />

ricco di testimonianze archeologiche che attestano<br />

una continuità insediativa iniziata nella preistoria<br />

e protrattasi sino ad oggi. Gli elementi che<br />

emergono da tale contesto permettono di impostare<br />

lo studio di diverse problematiche storiche,<br />

che attendono di essere oggetto di studi e di<br />

ulteriori indagini, affinché i fatti antichi, i monumenti<br />

superstiti e le tracce archeologiche relativi<br />

alla vita che lungo gli argini <strong>del</strong> fiume Sabato<br />

si è andata svolgendo diventino un patrimonio<br />

comune.


*Questo articolo sintetizza i risultati di una tesi di<br />

Laurea triennale in Scienze dei Beni Culturali,<br />

Università di Salerno a.a. 2005-2006 (Relatore:<br />

prof.ssa C. Lambert; Correlatore: prof. P.<br />

Peduto).<br />

NOTE<br />

1 Per la Via Antiqua Maior cfr. SCANDONE 1947,<br />

pp. 66-69; la Via Appia, detta “regina viarum”,<br />

fu costruita nel 312 a.C. dal console Appio<br />

Claudio, da cui prese il nome, e collegava Roma<br />

con Brindisi. La Via Regio-Capuam, detta anche<br />

Annia dal console Tito Annio Rufo, fu costruita<br />

nel 152 a.C.. Ad epoca medievale e moderna<br />

vanno ascritti i lavori <strong>del</strong>la Via Regia <strong>del</strong>le<br />

Puglie, iniziati nel 1270 e terminati solo nel 1585.<br />

2 L’originaria cripta va identificata con l’attuale<br />

ipogeo <strong>del</strong>la chiesa di S. Sabino o Specus<br />

Martyrum, in Atripalda. FARIELLO SARNO 1996, p.<br />

165; PESCATORI COLUCCI 2005, pp. 298-306.<br />

3 FARIELLO SARNO 1996b, p. 161.<br />

4 CIL, X, 1191; CIL, X, 1193; le iscrizioni abellinati sono state<br />

studiate da H. Solin e costituiranno un volume specifico<br />

<strong>del</strong>le Inscriptiones Christianae Italiae saeculo septimo antiquiores<br />

(ICI), di imminente pubblicazione. Alcune anticipazioni<br />

in SOLIN 1998, p. 483. Per la cristianizzazione <strong>del</strong>la<br />

regione cfr. LAMBERT 2004, cds.<br />

5 LAMBERT 2004, cds.<br />

6 La prima notizia certa sull’organizzazione diocesana di<br />

Abellinum risale al 499 d.C., quando il vescovo Timotheus<br />

partecipò al Sinodo Romano a favore di Papa Simmaco<br />

(498-514 d.C.) cui il partito bizantino aveva contrapposto<br />

l’antipapa Lorenzo che gli resistette fino all’anno 506 d.C.<br />

(UGHELLI 1721, p. 191). Sicuramente non attribuibile al<br />

presbyter Iohannis, citato nell’epigrafe funeraria CIL, X,<br />

1192 di Ajello <strong>del</strong> Sabato, il ruolo di ultimo vescovo di<br />

Abellinum voluto dallo Scandone e dal Mommsen; si tratta<br />

più probabilmente <strong>del</strong> sacerdote di una locale comunità<br />

rurale (in proposito, cfr. GAMBINO 1983, pp. 41-44; SOLIN<br />

1998, p. 472; LAMBERT 2004, cds; LAMBERT 2007, pp. 45; 52;<br />

67, fig. 1).<br />

STEFANIA FIORE<br />

Fig. 9. Prata di Principato Ultra (AV). Basilica <strong>del</strong>la SS.Annunziata, abside centrale:<br />

affresco <strong>del</strong>la Madonna orante tra due Santi (da MUOLLO 2001, p. 64).<br />

- 99 -<br />

7 CIL, X, 1194; LAMBERT C. 2007, pp. 43-45; 51-52; 69, fig. 3.<br />

8 Il 663 d.C. fu l’anno in cui il territorio <strong>del</strong> vasto Ducato<br />

beneventano fu totalmente ristrutturato da Grimoaldo (642-<br />

662 d.C. duca di Benevento; 662-671 d.C. re dei<br />

Longobardi) e da suo figlio Romualdo (671-687 d.C.) e<br />

venne contestualmente riorganizzata la diocesi di<br />

Benevento, che vide a sé annesse anche sedi molto lontane.<br />

L’ipotesi <strong>del</strong> trasferimento è in PEDUTO 1996, pp. 209-<br />

218.<br />

9<br />

PESCATORI COLUCCI 1996, p. 204.<br />

10<br />

FARIELLO SARNO 1996, p. 173.<br />

11 Totila, re degli Ostrogoti, durante la guerra greco-gotica<br />

(535-553 d.C.) distrusse tutte, o quasi tutte, le opere di difesa<br />

per impedire ai Bizantini la rioccupazione.<br />

12<br />

MUOLLO 2001, pp. 38-39.<br />

13<br />

FARIELLO SARNO 1987, pp. 171-179; PESCATORI COLUCCI 1996,<br />

p. 200.<br />

14 Un esempio è dato dagli affreschi <strong>del</strong>la Basilica di Prata<br />

Principato Ultra, per i quali cfr. MUOLLO 2001, pp. 49-62.


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tardo antiche ad Altavilla Irpina, in “L’Irpinia nella<br />

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Ajello <strong>del</strong> Sabato nel contesto <strong>del</strong>l’epigrafia cristiana avellinese,<br />

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Campania: il contributo <strong>del</strong>l’epigrafia, in Atti <strong>del</strong> IX<br />

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2004.<br />

LAMBERT 2007 - C. LAMBERT, Iscrizioni di vescovi e presbiteri<br />

nella Campania tardoantica ed altomedievale (secc. IV-<br />

VIII), in “Schola Salernitana”, Annali XI, 2006, Salerno,<br />

2007, pp. 31-70.<br />

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SALTERNUM<br />

- 100 -<br />

Archeologia e storia nel ducato longobardo di Benevento,<br />

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l’alta Valle <strong>del</strong> Sabato tra tardo-antico e alto Medioevo, in<br />

Storia illustrata di Avellino e <strong>del</strong>l’Irpinia, I, 1996, pp. 193-<br />

206.<br />

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Tuticum, Compsa, in Le città campane fra tarda antichità e<br />

alto medioevo (a cura di G. Vitolo), Salerno, 2005, pp. 283-<br />

311.<br />

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Avellino, in Epigrafia romana in area adriatica. Actes de la<br />

IX rencontre franco-italienne sur l’épigraphie du mond<br />

romain (Macerata, 1995), Macerata, 1998, pp. 471-484.<br />

SCANDONE 1947, F.SCANDONE Storia di Avellino, I, parte I,<br />

1947: Abellinum Romanum, Avellino, 1947.<br />

Storia illustrata di Avellino e <strong>del</strong>l’Irpinia 1996, (a cura) di<br />

G. Pescatori Colucci, E. Cuozzo, F. Barra, Pratola Serra,<br />

1996.<br />

UGHELLI 1721 - F. UGHELLI, Italia Sacra, vol. VIII, col. 191,<br />

Venezia, 1721.


ROSANNA BARONE<br />

Iconografia e scrittura nei mosaici<br />

<strong>del</strong>la Cattedrale di Salerno<br />

Nella seconda metà <strong>del</strong>l’XI secolo, grazie<br />

alla cooperazione <strong>del</strong>l’arcivescovo<br />

Alfano I e <strong>del</strong> duca Roberto il<br />

Guiscardo, in Salerno vennero poste le fondamenta<br />

e si diede forma alla Cattedrale romanica,<br />

che sarà consacrata a S. Matteo (fig. 1).<br />

I numerosi saggi dedicati al Duomo salernitano<br />

ne evidenziano principalmente il rapporto di<br />

filiazione dall’Abbazia di Montecassino, la valenza<br />

storica rivestita nell’età di trapasso dalla<br />

dominazione longobarda a quella normanna,<br />

nonché il valore <strong>del</strong>le opere d’arte scultoree che<br />

nel tempo contribuirono ad abbellirla. Gli studi<br />

in proposito sono numerosi e spesso di alto<br />

valore contenutistico: basti pensare all’amplissima<br />

bibliografia di Monsignor Arturo Carucci,<br />

che dedicò una vita di studi alla Cattedrale salernitana,<br />

ed al recente volume monografico di<br />

Antonio Braca 1 . In tutti questi scritti, di carattere<br />

descrittivo o di inquadramento <strong>del</strong> monumento<br />

nell’ambito <strong>del</strong>la cultura architettonica e storicoartistica<br />

<strong>del</strong> Medioevo nell’Italia meridionale,<br />

manca tuttavia una trattazione specifica sul rapporto<br />

architettura-decorazione musiva e, ancor<br />

più, sull’iconografia dei mosaici ed il loro legame<br />

con la scrittura epigrafica 2 .<br />

L’esame che si è condotto sulle decorazioni<br />

interne <strong>del</strong> Duomo di Salerno per indagare questo<br />

aspetto ha evidenziato, pur nella lacunosità<br />

<strong>del</strong>le parti conservate, uno stretto rapporto con<br />

la funzione didascalica <strong>del</strong>la scrittura, ridotta<br />

quasi esclusivamente a tituli esplicativi - quali i<br />

nomi dei personaggi - o a brevi passi biblici.<br />

La prima menzione sui mosaici <strong>del</strong>la<br />

Cattedrale è <strong>del</strong>l’arcivescovo M. A. Marsilio<br />

Colonna (1574-1581), il quale, nella descrizione<br />

<strong>del</strong>l’edificio, dopo aver ricordato che tre altari<br />

- 101 -<br />

Fig. 1 - Salerno, Duomo.<br />

Assonometria con localizzazione dei mosaici parietali.<br />

erano collocati “ad estremos parietes ad<br />

Orientem versus”, aggiunge che “hos vero parietes<br />

ultimos templi valde incunea miniati operis<br />

pictura convestit” 3 . Il muro orientale è indicato<br />

con il plurale “parietes”, che potrebbe significare<br />

“le absidi”, le quali rappresentano in effetti gli<br />

estremi <strong>del</strong>la cattedrale “ad Orientem versus” e<br />

che alla fine <strong>del</strong> secolo XVI erano rivestite sicuramente<br />

di mosaici e dotate di un altare. Il<br />

Colonna, immediatamente dopo, chiama però<br />

l’abside emispherium, precisando che il popolo<br />

le dava il nome di tribuna e non di parietes.<br />

Non si può escludere, pertanto, che l’intera<br />

parete orientale fosse rivestita di mosaici.<br />

Tale decorazione “ad Orientem versus” fu<br />

messa in opera tra la fine <strong>del</strong> secolo XI e la metà<br />

<strong>del</strong> secolo XII ed è oggi parzialmente superstite


Fig. 2 - Salerno, Duomo.Abside centrale ed arco trionfale.<br />

nell’abside di sinistra, in parte ripristinata in quella<br />

di destra 4 . L’abside centrale, dove l’originale è<br />

andato interamente perduto salvo che per ampi<br />

frammenti <strong>del</strong>l’arco trionfale 5 , è frutto <strong>del</strong> restauro<br />

<strong>del</strong> 1953, anno in cui, con l’approssimarsi <strong>del</strong>le<br />

celebrazioni millenarie <strong>del</strong>la traslazione in Salerno<br />

<strong>del</strong>le reliquie di San Matteo (954-1954), fu deciso<br />

di rivestire l’abside maggiore con nuovi mosaici,<br />

la cui composizione rivela il gusto <strong>del</strong> XX secolo<br />

(fig. 2). La Vergine vi campeggia in una mandorla<br />

dorata su fondo blu 6 ; nella parte inferiore un<br />

angelo in volo regge il libro <strong>del</strong> Vangelo aperto<br />

alla pagina iniziale di san Matteo. Ai lati <strong>del</strong>la<br />

Madonna vengono identificati, attraverso tituli,<br />

Alfano I (1015/20-1085), che fu l’ideatore e il<br />

direttore dei lavori nel Duomo salernitano e<br />

Gregorio VII (1020/1085) che lo consacrò nel<br />

1084 7 .<br />

Nella fascia sottostante si è inteso ricordare<br />

i Pontefici che hanno onorato Salerno con la<br />

propria presenza. Mancano tuttavia, strana-<br />

SALTERNUM<br />

- 102 -<br />

mente, Innocenzo II, che si trattenne a Salerno<br />

per più giorni nell’agosto <strong>del</strong> 1137, e Pio IX,<br />

che fu a Salerno nell’ottobre <strong>del</strong> 1849, né si<br />

conosce la ragione che ha fatto attribuire l’aureola<br />

e il titolo di “Santo” a ciascun Papa raffigurato,<br />

escludendo da questa arbitraria canonizzazione<br />

Clemente II e Alessandro III, che<br />

iniziano e chiudono la serie di questi Pontefici<br />

- santi solo nei mosaici salernitani; fanno eccezione<br />

Leone IX, unico effettivamente canonizzato<br />

dalla Chiesa, e Vittore III, il famoso<br />

Desiderio fondatore <strong>del</strong>l’Abbazia di Montecassino,<br />

ritenuto santo dai Benedettini. I singoli personaggi<br />

sono identificabili grazie ai tituli musivi.<br />

Alfano, il cui nome è trascritto per errata<br />

versione latina come Alphanus per Alfanus,<br />

regge con la mano un cartiglio con la scritta<br />

Laetare felix civitas / Laetare sanctis gaudiis. Il<br />

lettore, però, non troverà questi versi nei<br />

numerosi carmi <strong>del</strong> Vescovo poeta, perché<br />

sono opera di un ignoto epigono.


Finalità principalmente<br />

dedicatoria e celebrativa riveste<br />

invece il lungo testo sottostante<br />

8 , che pone l’edificio<br />

sotto la triplice protezione <strong>del</strong><br />

Cristo, <strong>del</strong>la Vergine e di S.<br />

Matteo, evidenziando al contempo<br />

il ruolo eminente<br />

<strong>del</strong>l’Arcivescovo Alfano I 9<br />

(fig. 3). La collocazione <strong>del</strong><br />

suo nome nei primi due versi<br />

<strong>del</strong>l’iscrizione musiva non<br />

può passare inosservata,<br />

riproponendosi come esaltazione<br />

<strong>del</strong>la figura <strong>del</strong> fondatore<br />

così come per Desiderio<br />

a Montecassino, il quale, proprio<br />

nel catino absidale, aveva a sua volta parafrasato<br />

la scritta di Costantino nella basilica di<br />

San Pietro in Vaticano. La presenza <strong>del</strong> solo<br />

nome di Alfano accompagnato alla preghiera<br />

indica l’esclusione dei laici dalla vita <strong>del</strong>la chiesa,<br />

una sottolineatura <strong>del</strong>la separazione dei ruoli<br />

e <strong>del</strong>le competenze sollecitata dalla Riforma<br />

<strong>del</strong>l’XI secolo. A differenza di Desiderio e di<br />

Costantino, nessun merito viene tuttavia rivendicato<br />

al Vescovo salernitano, il cui nome è invece<br />

“associato al programma teologico, che viene<br />

espresso nei versi successivi, con i dogmi<br />

<strong>del</strong>l’Incarnazione divina, dalla verginità mariana,<br />

<strong>del</strong>la Passione e <strong>del</strong>la Resurrezione, in altri termini<br />

la strada <strong>del</strong>la Salvezza” 10 . Ne emerge una figu-<br />

ROSANNA BARONE<br />

Fig. 3 - Salerno, Duomo.Abside centrale, particolare <strong>del</strong>l’iscrizione ai piedi <strong>del</strong>la teoria di Papi.<br />

- 103 -<br />

ra profondamente diversa e nuova rispetto ai<br />

suoi diretti mo<strong>del</strong>li, non legata ai fatti terreni e<br />

non collegata alle vicende materiali <strong>del</strong>la costruzione<br />

<strong>del</strong>l’edificio: non c’è una dedica al fondatore,<br />

ma una invocazione che ha l’arcivescovo<br />

per oggetto. Il secondo verso, dove si chiede che<br />

egli “sia per sempre beato” è particolarmente eloquente<br />

e poiché questo è uno status non concesso<br />

in vita, ma riconosciuto dalla Chiesa solo<br />

dopo la morte, da tali versi si possono trarre due<br />

indicazioni importanti: il personaggio va identificato<br />

inequivocabilmente con Alfano I ed il testo<br />

musivo è di sicuro postumo, poiché sarebbe<br />

stato singolare ed alquanto inopportuno che egli<br />

autocelebrasse in vita la propria beatitudine.<br />

Fig. 4 - Salerno, Duomo. Lunetta <strong>del</strong>la<br />

controfacciata con la raffigurazione di<br />

San Matteo.


Se ne evince dunque che le parti superstiti<br />

<strong>del</strong>la decorazione musiva, con le relative iscrizioni,<br />

si datano al XII secolo nella stesura originaria,<br />

anche se modificate nella forma a seguito<br />

<strong>del</strong> restauro.<br />

Nell’esame <strong>del</strong>la decorazione musiva <strong>del</strong>la<br />

Cattedrale va infine presa in considerazione la<br />

lunetta <strong>del</strong>la controfacciata, entro la quale campeggia<br />

la figura di S. Matteo; essa costituisce<br />

infatti un insieme cronologico omogeneo e riferibile<br />

con certezza al nucleo superstite <strong>del</strong>la fase<br />

decorativa più antica <strong>del</strong> Duomo (fig. 4).<br />

L’esame <strong>del</strong>le lettere, analizzate singolarmente<br />

nel tentativo di evidenziarne le variabili grafiche,<br />

*Articolo tratto dalla propria Tesi di Laurea in Beni<br />

Culturali: I mosaici <strong>del</strong> Duomo di Salerno: Iconografia e<br />

scrittura, Università degli Studi di Salerno, a.a. 2005-2006<br />

(Relatore: prof.ssa C. M. Lambert). Le foto n. 2-3-4-5<br />

(Archivio <strong>del</strong>la Soprintendenza per i Beni Ambientali,<br />

Architettonici, Artistici e Storici per le Province di Salerno e<br />

Avellino) sono state debitamente autorizzate. Per aver favorito<br />

la ricerca e l’acquisizione di tale materiale sono particolarmente<br />

riconoscente verso il sig. Vincenzo D’Antonio,<br />

Fotografo, e la sig.ra Amelia Storace. La figura n. 1 è una<br />

rielaborazione dalla Rivista “Bella Italia” n. 150, ott. 1998,<br />

p. 70.<br />

NOTE<br />

1 Le principali opere di monsignor A. Carucci, edite dal<br />

1922 al 2005 sono elencate in A. BRACA, Il Duomo di<br />

Salerno, architettura e culture artistiche <strong>del</strong> Medioevo e<br />

<strong>del</strong>l’Età Moderna, Salerno, 2003, testo cui si rimanda quale<br />

trattazione più aggiornata sul Duomo di Salerno, corredata<br />

inoltre da un ricco apparato fotografico.<br />

2 Nel panorama generale degli studi di epigrafia medievale,<br />

<strong>del</strong> resto, i contributi di tale genere sono ancora numericamente<br />

scarsi e limitati principalmente ad alcuni monumenti<br />

di età tardoantica-altomedievale <strong>del</strong>la città di Roma, o<br />

alle grandi costruzioni religiose normanne in Sicilia. In proposito<br />

cfr. rispettivamente P. BOSIO, Edifici di culto e produzione<br />

epigrafica (VI-IX secolo) in Ecclesiae Urbis, Atti <strong>del</strong><br />

congresso internazionale di studi sulle chiese di Roma, (IV<br />

- IX secolo) Roma 2000, Città <strong>del</strong> Vaticano, 2002 e G.<br />

CAVALLO - F. MAGISTRALE, Mezzogiorno normanno e scritture<br />

esposte, in Epigrafia medievale greca e latina ideologia e<br />

funzione, a cura di G. Cavallo - C. Mango, Spoleto, (Centro<br />

SALTERNUM<br />

- 104 -<br />

permette di trarre alcune conclusioni, pur nella<br />

consapevolezza <strong>del</strong>le peculiarità <strong>del</strong>la resa, legata<br />

alla materia prima e alle difficoltà intrinseche<br />

<strong>del</strong>la posa in opera <strong>del</strong>le tessere (fig. 5).<br />

I confronti paleografici con gli esempi scrittori<br />

su materiale morbido (pergamene) e duro<br />

(materiali lapidei), fatti salvi i limiti imposti dalla<br />

natura dei supporti e dalle differenti finalità di<br />

fruizione, consentono di confermare per questo<br />

specimen <strong>del</strong>la decorazione più antica la cronologia<br />

alla seconda metà <strong>del</strong>l’XI secolo, nota da<br />

altre fonti, ed un’attribuzione alla diretta committenza<br />

di Alfano I.<br />

Italiano di studi sull’alto medioevo), 1991, pp. 293-328.<br />

3 M. A. COLONNA, De vita et gestis Beati Matthaei Apostoli et<br />

Evangelistae, Napoli, 1580.<br />

4 L’abside di sinistra, in parte a mosaico e in parte ad affresco,<br />

raffigura il Battesimo di Gesù, cui assistono due schiere<br />

di angeli e cherubini. Nell’abside di destra, al centro di<br />

un luminoso fondo d’oro, campeggiano le immagini di san<br />

Michele e di san Matteo. A lato <strong>del</strong>l’Evangelista, divisi dall’arcata<br />

<strong>del</strong> finestrone absidale, sono raffigurati a sinistra<br />

Giovanni da Procida in ginocchio e i santi Fortunato e<br />

Giovanni; a destra i santi Giacomo e Lorenzo.<br />

L’identificazione di questi santi è affidata esclusivamente a<br />

tituli, peraltro frutto di restauro.<br />

5 J. SCHLOSSER, L’arte nel Medioevo, Torino, 1935.<br />

6 G. BERGAMO, Il Duomo di Salerno, Battipaglia, 1972.<br />

7 I due artefici <strong>del</strong>la edificazione <strong>del</strong> Duomo salernitano<br />

morirono entrambi nel 1085. Il papa fu sepolto presso il<br />

sepolcro di S. Matteo nella Basilica Inferiore e successivamente<br />

trasferito nella Basilica Superiore, a lato <strong>del</strong>la<br />

Cappella <strong>del</strong>le Crociate.<br />

8 E. KITZINGER, The first mosaic decoration of Salerno<br />

Cathedral in “Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik”,<br />

XXI, 1972, pp. 150-167. Il Kitzinger riporta che in una pubblicazione<br />

<strong>del</strong> 1580 si leggeva che “in Emispherio maiori”<br />

era collocata un’iscrizione musiva, la stessa che tutt’oggi è<br />

posta nell’abside maggiore sotto la teoria di Papi.<br />

9 La posizione e la funzione <strong>del</strong> testo trovano ampi riscontri<br />

nelle figurazioni absidali <strong>del</strong> Medioevo. In proposito cfr.<br />

P. BOSIO, Edifici di culto e produzione epigrafica (VI-IX<br />

secolo), cit., p. 284.<br />

10 A. BRACA, Il Duomo di Salerno, architettura e culture artistiche<br />

<strong>del</strong> Medioevo e <strong>del</strong>l’Età Moderna, cit. p. 115.


Fig. 5a.<br />

Fig. 5c.<br />

ROSANNA BARONE<br />

- 105 -<br />

Fig. 5b.<br />

Fig. 5d.


Fig. 5e.<br />

Fig. 5g.<br />

Fig. 5i.<br />

SALTERNUM<br />

Fig. 5f.<br />

Fig. 5h.


La chiesa di Sant’Ilario (fig.1), in base ai<br />

più recenti studi, potrebbe essere uno<br />

dei primi esempi di architettura altomedievale<br />

nel territorio beneventano, precedente<br />

anche alla costruzione <strong>del</strong>la nota chiesa di Santa<br />

Sofia, voluta da Arechi II nell’anno 758.<br />

L’edificio è noto con il nome di “Sant’ Ilario a<br />

port’Aurea” perché eretto nei pressi <strong>del</strong>l’arco di<br />

Traiano, inglobato in epoca longobarda nella<br />

nuova cinta muraria e divenuto la “porta Aurea”<br />

<strong>del</strong>la città (fig. 2).<br />

Problemi tuttora aperti sono l’attribuzione<br />

<strong>del</strong>la chiesa ad una matrice longobarda o bizantina<br />

e la sua datazione viene variamente collocata<br />

nel VII secolo, alla fine <strong>del</strong> VII – inizi VIII o<br />

perfino nell’XI secolo.<br />

La più antica fonte che permette di identificare<br />

nel modesto edificio superstite la chiesa di<br />

Sant’Ilario risale agli inizi <strong>del</strong> XII secolo: un<br />

documento datato al novembre 1110 attesta l’esistenza,<br />

fuori Port’Aurea, di un orto appartenente<br />

all’ecclesia vocabolo sancti ylari 1 . Questa<br />

cartula commutationis rappresenta il terminus<br />

ante quem per la fondazione <strong>del</strong>la piccola chiesa,<br />

ma l’attestazione di una presenza monastica<br />

in S.Ilario si ha solo nel dicembre 1148, in un<br />

documento in cui si legge:“In Nomine Domini,<br />

anno millesimo centesimo quadragesimo octavo<br />

a me Gaydo qui sum procurator et vicecomes<br />

Monasteri Sancti Ylari quod constructum est a<br />

foris prope Portam Auream …” 2 . Nei trent’anni<br />

tra la data <strong>del</strong> più antico documento relativo<br />

all’ecclesia e la prima attestazione <strong>del</strong> convento<br />

non è da escludere che un primo corpo di<br />

ambienti abitativi e di servizio si fosse già svilup-<br />

DANIELA VISCONTI<br />

La chiesa di Sant’Ilario a Benevento:<br />

un prototipo <strong>del</strong>l’architettura longobarda<br />

- 107 -<br />

Fig. 1 - Chiesa di Sant’Ilario, vista Sud – Ovest.<br />

Fig. 2 - Topografia di Benevento longobarda.<br />

pato intorno al Sant’Ilario (fig.3). Nei primi<br />

decenni <strong>del</strong> XIII secolo la chiesa appare attestata<br />

come dipendente dal monastero femminile di<br />

S.Paolo extra muros; nella prima metà <strong>del</strong> XV<br />

secolo essa era ormai semi-abbandonata e l’ultima<br />

attestazione compare nei decreti di una visita<br />

apostolica <strong>del</strong> 1581 3 . Prima <strong>del</strong> 1708 l’edificio<br />

venne adibito a casa colonica 4 e da allora divenne<br />

irriconoscibile e bisognerà attendere il 1802<br />

perché Emanuele Annecchini riconosca la chiesa<br />

e la citi nel suo inedito manoscritto “Breve<br />

Compendio Istorico <strong>del</strong>le principali notizie <strong>del</strong>la<br />

città di Benevento” 5 .


Fig. 3 - Veduta <strong>del</strong> monastero nel XVII secolo (da LEPORE 1995).<br />

Sull’identità <strong>del</strong>l’edificio, tuttavia, vi erano<br />

ancora perplessità, nate dalla lettura <strong>del</strong>la<br />

“Pianta Sofiana Orsina”, conservata nell’Archivio<br />

Storico Provinciale di Benevento (fol.7, n.2), che<br />

aveva fatto sorgere il dubbio che la struttura<br />

presso l’Arco di Traiano fosse l’antica chiesa di<br />

S.Pietro, a causa <strong>del</strong>le dimensioni pressocchè<br />

uguali. Anche quella piccola chiesa infatti era ad<br />

aula unica divisa in due campate, con una piccola<br />

abside semicircolare dove era stato ricavato<br />

un forno durante il suo uso abitativo. Fu Mario<br />

Rotili, in un suo intervento nel corso <strong>del</strong> III<br />

Congresso Internazionale di studi sull’Alto<br />

medioevo <strong>del</strong> 1956, a precisare, con convincenti<br />

argomenti, che si trattava proprio <strong>del</strong>l’antica<br />

chiesa di Sant’Ilario e non di quella di S.Pietro,<br />

che invece era situata nella contrada ad<br />

Caballum 6<br />

Durante gli interventi di consolidamento <strong>del</strong>l’edificio,<br />

eseguiti in seguito al terremoto <strong>del</strong><br />

1980, emersero elementi che resero indispensabili<br />

i primi scavi di emergenza (1981), nel corso<br />

dei quali vennero alla luce resti di costruzioni<br />

romane e alcune sepolture di età basso medievale,<br />

realizzate entro cassoni in muratura. Nel<br />

1986 furono pianificati gli scavi <strong>del</strong>l’interno, che<br />

misero in evidenza come la chiesa era stata<br />

costruita su un grossa struttura in opera laterizia,<br />

SALTERNUM<br />

- 108 -<br />

pertinente ad un complesso monumentale databile<br />

genericamente all’età imperiale. Nella tarda<br />

antichità si ebbe un primo parziale processo di<br />

obliterazione, sotto spessi strati di terreno di<br />

riporto. I vari livelli di riempimento hanno restituito<br />

materiali di età compresa tra il IV secolo<br />

a.C. ed il II secolo d.C. Nello spazio <strong>del</strong>la prima<br />

campata <strong>del</strong>la chiesa attuale fu rinvenuta una<br />

fossa granaria costituita da un’anfora di grandi<br />

dimensioni che conteneva statuette votive in terracotta<br />

(teste, bambini fasciati <strong>del</strong> tipo medio -<br />

italico) di difficile inquadramento cronologico 7 .<br />

L’abbandono potrebbe essere coinciso con il<br />

degrado strutturale determinato dai numerosi<br />

eventi sismici, come quello <strong>del</strong> 369 d.C., che<br />

provocò ingenti danni. Tra i secoli IV e V una<br />

parte degli antichi ambienti fu occupata da<br />

nuove murature, come la possente fondazione<br />

in opera cementizia ancor oggi visibile sotto<br />

l’angolo nord – orientale <strong>del</strong>la chiesa 8 , che sorse<br />

probabilmente tra la fine <strong>del</strong> VII e l’inizio<br />

<strong>del</strong>l’VIII secolo ed alla quale è forse pertinente<br />

un’area sepolcrale individuata nelle vicinanze 9 .<br />

L’utilizzo <strong>del</strong>le vecchie strutture influenzò l’orientamento<br />

e la planimetria <strong>del</strong>l’edificio di<br />

culto: l’aula rettangolare <strong>del</strong>la chiesa fu posizionata<br />

in modo tale da coincidere con il lato nord<br />

<strong>del</strong>l’antico ambiente rettangolare <strong>del</strong> II secolo<br />

d.C.<br />

Per la decorazione interna <strong>del</strong>l’edificio nel<br />

periodo altomedievale si dispone solo <strong>del</strong><br />

ritrovamento di 12 frammenti di stucco 10 ; quanto<br />

alla ceramica, se ne rinvennero frammenti<br />

databili al II secolo d.C. e alcuni pezzi dipinti “a<br />

bande strette”, riferibili ai secoli XIII e XIV,<br />

periodo cui vanno riferiti anche dei resti di<br />

intonaco affrescato. Ciò ha fatto supporre che la<br />

fase costruttiva <strong>del</strong>la chiesa abbia portato alla<br />

rimozione degli strati appartenenti ai secoli<br />

intermedi 11 .<br />

Nelle murature esterne invece è testimoniato<br />

il reimpiego di diversi elementi architettonici di<br />

età classica, a conferma di una pratica molto<br />

attestata nell’alto medioevo e che trova non<br />

poche conferme nel territorio beneventano 12 . In<br />

corrispondenza <strong>del</strong>l’angolo sud – ovest <strong>del</strong>l’accesso<br />

attuale e <strong>del</strong> portale maggiore, oggi murato,<br />

che sul lato sud si apriva verso la strada,


DANIELA VISCONTI<br />

Fig. 4 - Pianta e sezione <strong>del</strong>la chiesa di Sant’Ilario allo stato attuale (da G.AUSIELLO, Architettura medievale, tecniche costruttive in Campania, Napoli,<br />

1999, p. 53).<br />

compaiono due frammenti di architravi di età<br />

romana 13 e un’epigrafe. Oltre ai fregi, sempre di<br />

reimpiego, sono diversi blocchi squadrati, in calcare<br />

e marmo bianco, inseriti negli angoli e nei<br />

pilastrini interni, inquadrabili stilisticamente tra<br />

l’età tardo – repubblicana e l’età imperiale. Ad<br />

epoca successiva si possono attribuire i grandi<br />

blocchi di calcare di differente qualità, impiegati<br />

nella costruzione <strong>del</strong> plinto di fondazione <strong>del</strong><br />

pilastro centrale. L’epigrafe situata sul lato destro<br />

<strong>del</strong>l’ingresso occidentale <strong>del</strong>la chiesa, incisa su<br />

una lastra di calcare che reca ben visibili le tracce<br />

<strong>del</strong>l’usura, dovute presumibilmente alla sua<br />

precedente funzione di soglia, che l’hanno resa<br />

quasi illeggibile, è databile probabilmente ad età<br />

tardoantica 14 .<br />

Nell’età bassomedievale si assiste ad un<br />

ampliamento <strong>del</strong>le strutture <strong>del</strong> cenobio 15 : furono<br />

aggiunti due spazi porticati, uno di fronte<br />

all’ingresso ovest <strong>del</strong>la chiesa e l’altro lungo il<br />

lato nord; fu realizzata anche una struttura ipogea<br />

con archi di rinforzo, in cui è riconoscibile<br />

una cisterna, addossata alla fondazione <strong>del</strong>la<br />

- 109 -<br />

parete sud <strong>del</strong>la chiesa. Oltre ad essa sono state<br />

trovate anche tracce di molti pozzi per la captazione<br />

<strong>del</strong>l’acqua, probabilmente connessi ad usi<br />

agricoli.<br />

Uniche testimonianze antropologiche <strong>del</strong>la<br />

piccola comunità monastica sono le semplici<br />

sepolture terragne di età bassomedievale, che<br />

costituivano il nuovo sepolcreto situato lungo il<br />

muro perimetrale sud <strong>del</strong>la chiesa e che in parte<br />

si estendeva anche all’interno, lungo il lato nord<br />

<strong>del</strong>l’area conventuale - di cui peraltro non si<br />

conosce l’estensione - sostituendo definitivamente<br />

la zona sepolcrale precedente.<br />

Il monastero di Sant’Ilario non subì sostanziali<br />

modifiche fino al terremoto <strong>del</strong> 1688, che<br />

distrusse gran parte <strong>del</strong> complesso, portandolo<br />

al definitivo abbandono. La chiesa invece rimase<br />

intatta e si è conservata per i quattro secoli<br />

successivi, con l’aspetto di una piccola casa<br />

colonica 16 . E’ in questo lungo periodo che l’edificio<br />

subì <strong>del</strong>le trasformazioni finalizzate all’adeguamento<br />

a scopo residenziale 17 . Il terremoto<br />

<strong>del</strong> 1930 causò il crollo <strong>del</strong> tetto anteriore (che


Fig. 5 - Chiesa di Sant’Ilario. Planimetria <strong>del</strong>le evidenze architettoniche<br />

dal periodo romano ad oggi (da BURATTO 2003).<br />

Fig. 6 - Cupole <strong>del</strong>la<br />

chiesa di Sant’Ilario (da<br />

MA.ROTILI 1986).<br />

poi è stato ricostruito a capanna) e di parte <strong>del</strong>la<br />

parete occidentale. La struttura rimase tuttavia<br />

invariata fino al terremoto <strong>del</strong> 1980 cui seguirono<br />

gli interventi successivi, finalizzati a riportare<br />

la chiesa al suo aspetto originario.<br />

La chiesa di Sant’Ilario si presenta ad aula rettangolare<br />

monoabsidata, divisa in due campate.<br />

La copertura è formata da due cupole in asse, di<br />

altezza diversa, contenute entro tiburi separati e<br />

con tetto a padiglione. In ciascuna campata<br />

quattro pennacchi sostengono le cupole 18 . Sia<br />

l’arco che separa le campate che quelli laterali<br />

presentano una tessitura listata in tufo grigio e<br />

mattoni (fig. 4). Il paramento murario, in opus<br />

incertum, si avvale di materiale reperito in loco,<br />

conci calcarei di origine fluviale, rotondeggianti,<br />

SALTERNUM<br />

- 110 -<br />

ed elementi di spoglio, entrambi messi in opera<br />

senza alcun tipo di lavorazione<br />

L’utilizzo <strong>del</strong>le cupole spinse molti studiosi a<br />

sostenere che la chiesa fosse un esempio di<br />

architettura bizantina. Studi più approfonditi,<br />

incentrati soprattutto sull’analisi <strong>del</strong> paramento<br />

murario, hanno portato a datare il Sant’Ilario<br />

all’età longobarda 19 . L’impiego <strong>del</strong>la struttura<br />

cupolata si ritrova a Benevento anche in altre<br />

due chiese: S.Sofia e S.Pietro ad Caballum.<br />

In Campania ci sono anche altri edifici con<br />

copertura a cupola inquadrabili nel periodo tardoantico<br />

- altomedievale, come gli illustri esempi<br />

<strong>del</strong> battistero di S.Maria Maggiore a Nocera<br />

Superiore e quello di S. Giovanni in Fonte a<br />

Napoli, databili entrambi al VI sec. d.C. La chiesa<br />

di Sant’Ilario e quella di S.Pietro ad Caballum<br />

si differenziano tuttavia dagli altri esempi campani<br />

perché hanno <strong>del</strong>le caratteristiche strutturali,<br />

come i pennacchi e i tiburi staccati tra loro,<br />

che, associati, conferiscono a questi due edifici<br />

un segno di originalità, rendendole i prototipi<br />

meridionali <strong>del</strong> tipo di chiese con cupole in<br />

asse.<br />

In piena età romanica questa idea<br />

architettonica troverà eco nell’ambiente pugliese,<br />

dove la cupola, entro un involucro piramidale di<br />

pietra, diverrà motivo costante di molti edifici di<br />

culto. Il tempietto di Seppannibale (fig.7) presso<br />

Fasano (BR), è ritenuto una derivazione proprio<br />

<strong>del</strong>la chiesa di Sant’Ilario.<br />

La chiesetta è un edificio di piccole<br />

dimensioni, la cui abside è andata<br />

completamente distrutta. Lo spazio interno è<br />

suddiviso in tre navate; la centrale risulta<br />

qualificata dalla presenza di due cupolette <strong>del</strong>la<br />

stessa altezza, di sezione quasi parabolica,<br />

arricchite nei tamburi, oltre che da monofore, da<br />

quattro nicchie angolari, in parte ancora<br />

affrescate, che permettono il passaggio dalla<br />

pianta quadrata di base a quella circolare <strong>del</strong>le<br />

cupole. Gli studi più recenti la datano tra gli<br />

ultimi decenni <strong>del</strong>l’VIII secolo e i primi <strong>del</strong> IX<br />

secolo 20 . Un elemento a sostegno di questo<br />

confronto è rappresentato dalla viabilità antica<br />

che fu alla base di collegamenti vitali e duraturi<br />

tra il territorio campano e quello pugliese.<br />

Anche la chiesa di Seppannibale infatti, come


l’edificio beneventano, sorge negli immediati<br />

dintorni <strong>del</strong> tracciato medievale <strong>del</strong>la via Traiana<br />

ed è probabilmente proprio attraverso questa via<br />

di comunicazione che le maestranze<br />

longobarde, dal beneventano, importarono il<br />

proprio bagaglio di conoscenze anche in Puglia,<br />

dove per il IX e X secolo possono essere<br />

ricordatati altri due edifici qualificati dalla<br />

presenza di due cupole in asse, confrontabili<br />

con Seppannibale: S.Maria di Gallana e S.Pietro<br />

di Crepacore a Torre S. Susanna, presso Oria<br />

(Brindisi) 21 .<br />

Un’ulteriore caratteristica <strong>del</strong>la chiesa di<br />

Sant’Ilario è l’utilizzo di un particolare sistema di<br />

raccordo tra la pianta quadrata <strong>del</strong>l’edificio e<br />

quella circolare <strong>del</strong>le cupole, che si attua<br />

mediante l’inserimento di pennacchi angolari,<br />

soluzione tipicamente bizantina. Per quanto<br />

riguarda questo elemento è interessante il raffronto<br />

con il Battistero di S. Giovanni in Fonte a<br />

Napoli, <strong>del</strong>la fine <strong>del</strong> VI secolo, in cui si utilizza<br />

il pennacchio a cuffia.<br />

L’interno <strong>del</strong>l’edificio è caratterizzato dalla<br />

presenza di archi a tutto sesto e a sesto ribassato<br />

in tufo e mattoni. L’arco listato in tufo grigio<br />

alternato a mattoni si pone in posizione centrale<br />

nel raccordo dei due quadrati <strong>del</strong>la pianta, in<br />

alcuni archi di scarico <strong>del</strong>le pareti laterali, nei<br />

pennacchi di raccordo con le cupole, nella definizione<br />

<strong>del</strong> vano di ingresso e nelle tre piccole<br />

monofore che si aprono sul tiburio più alto. È<br />

uno dei più antichi esempi, in ambito altomedievale,<br />

di interposizione di elementi in laterizio tra<br />

due conci di tufo a cuneo, che anticipa il largo<br />

ed elegante uso che ne verrà fatto in S.Sofia.<br />

Per quanto riguarda il paramento murario<br />

(fig.8), in Benevento l’utilizzo di pietra calcarea<br />

arrotondata di origine fluviale, aggregata con<br />

malta, caratterizza anche alcuni tratti sia <strong>del</strong>la<br />

cinta <strong>del</strong> VI secolo, sia <strong>del</strong>la civitas nova <strong>del</strong><br />

secondo periodo longobardo (fig.9) e qualifica<br />

prevalentemente le cortine murarie <strong>del</strong>la Torre<br />

Catena. La tecnica costruttiva raffinata di tale<br />

struttura è contraddistinta dall’uso di conci più<br />

tondi e regolari, che garantiscono un risultato<br />

esteriore di grande uniformità e dall’uso di blocchi<br />

angolari di calcare per rafforzare gli spigoli<br />

(elemento che si ritrova anche in Sant’Ilario). La<br />

DANIELA VISCONTI<br />

- 111 -<br />

Fig. 7 -<br />

Tempietto di<br />

Seppannibale<br />

di Fasano<br />

(BR), (da<br />

BERTELLI<br />

1994).<br />

torre era in posizione molto avanzata rispetto al<br />

perimetro <strong>del</strong>le mura <strong>del</strong>l’VIII secolo, cosa che,<br />

insieme all’analisi <strong>del</strong>le tracce superstiti degli<br />

innesti murari, induce a stabilire la contemporaneità<br />

<strong>del</strong>la costruzione con la prima fortificazione<br />

longobarda <strong>del</strong> VI secolo.<br />

Fig. 8 - Chiesa di Sant’Ilario. Fregi riutilizzati nella muratura sud-est<br />

<strong>del</strong>l’edificio.<br />

Quello <strong>del</strong>la datazione è un problema che<br />

ancora non ha trovato una soluzione definitiva.<br />

Vari studiosi si sono pronunciati sulla questione,<br />

proponendo datazioni che si distribuiscono in<br />

un ampio arco temporale, che va dal VI all’XI<br />

secolo, ma la proposta che oggi gode di maggior<br />

favore è che l’edificazione <strong>del</strong>la chiesa sia<br />

da collocare nella metà <strong>del</strong> VII secolo, sulla base<br />

<strong>del</strong>le affinità con l’edificio di Seppannibale.<br />

Marcello Rotili data quest’ultimo all’VIII secolo<br />

in base alle caratteristiche paleografiche <strong>del</strong>l’iscrizione<br />

conservata nell’abside e ad un frammento<br />

di affresco con “l’annuncio di Zaccaria”.


Fig. 9 - Benevento. Cinta muraria <strong>del</strong> VI- VII secolo,Torre “De Simone”.<br />

Se dunque la chiesa pugliese può essere ritenuta<br />

di pochi decenni posteriore alla beneventana<br />

S.Sofia, S.Ilario, che di essa è considerata il prototipo,<br />

può quindi essere datata, se non alla fine<br />

<strong>del</strong> VII, almeno alla prima parte <strong>del</strong>l’VIII secolo 22 .<br />

SALTERNUM<br />

- 112 -<br />

Alcuni studiosi collocano l’edificio beneventano<br />

all’età protoromanica, anche per il fatto che<br />

la più antica notizia di Sant’Ilario si trova in un<br />

documento <strong>del</strong> 1148; la datazione all’XI secolo è<br />

però poco condivisibile, perché le murature di<br />

Sant’Ilario non sono confrontabili con esempi<br />

coevi.<br />

Allo stato attuale, si ritiene dunque verosimile<br />

l’attribuzione <strong>del</strong>l’edificio al periodo tra la fine<br />

<strong>del</strong> VI e l’inizio <strong>del</strong> VII secolo, principalmente<br />

per le caratteristiche architettoniche che – come<br />

si è visto – ricorrono anche in altre chiese databili<br />

all’VIII secolo e di cui l’edificio beneventano<br />

sembra essere il prototipo. In secondo luogo<br />

non va trascurata la dedica <strong>del</strong>la chiesa a S.Ilario<br />

di Poiters che, nato in Francia all’inizio <strong>del</strong> IV<br />

secolo, è ritenuto in Occidente il simbolo <strong>del</strong>la<br />

lotta <strong>del</strong> cattolicesimo contro l’arianesimo. Il<br />

fatto che il suo culto sia attestato soprattutto nel<br />

VI secolo potrebbe coincidere proprio con la<br />

lotta che nello stesso periodo i Romani cristiani<br />

intrapresero contro i Longobardi ariani e la<br />

costruzione di una chiesa dedicata a S. Ilario<br />

potrebbe alludere alla loro conversione 23 .


*Articolo tratto dalla tesi di Laurea in Beni Culturali, La<br />

Chiesa di Sant’Ilario a Benevento: fonti documentarie ed<br />

evidenze architettoniche, Università degli Studi di Salerno,<br />

a.a.2004-2005 (Relatore prof.ssa C.Lambert).<br />

NOTE<br />

1 C. LEPORE, Monasticon Beneventanum, in “Studi<br />

Beneventani”, Benevento, 1995, p. 71.<br />

2 Il documento è edito da STEFANO BORGIA in Memorie istoriche<br />

<strong>del</strong>la pontificia città di Benevento dal secolo VIII al secolo<br />

XVIII, vol. I, parte III, Roma 1769, pp.136 – 138. In esso è<br />

registrata la concessione per ventinove anni di una casa di<br />

proprietà <strong>del</strong>la curia da parte <strong>del</strong> cardinale Pietro, rettore pontificio<br />

<strong>del</strong>la città, a Guidone <strong>del</strong> fu Pietro, procuratore e<br />

visconte <strong>del</strong> monastero di Sant’Ilario situato presso la Porta<br />

Aurea.<br />

3 Il Lepore (C. LEPORE, Monasticon Beneventanum, cit., 71 –<br />

73) fornisce una esauriente documentazione sul periodo che<br />

va dalle prime menzioni fino all’abbandono <strong>del</strong>l’edificio. Al<br />

riguardo egli scrive: “Recensita come chiesa parrocchiale sul<br />

finire <strong>del</strong> secolo XII, nei primi decenni <strong>del</strong> secolo successivo<br />

appare attestata come grangia <strong>del</strong> monastero femminile di<br />

S.Paolo extra muros di Avellino e retta da monaci benedettini<br />

(…). Il 1° gennaio 1443 papa Eugenio IV unì una parte <strong>del</strong>le<br />

sue rendite alla mensa capitolare beneventana. Ciò nonostante<br />

la dipendenza da S.Paolo si perpetuò ancora per più d’un<br />

trentennio e cessò solo nel 1479. Unita definitivamente al<br />

Capitolo metropolitano nel 1504: il visitatore apostolico raccomandò<br />

che fosse risarcita, intonacata e riattata in breve tempo<br />

prescrivendo la demolizione <strong>del</strong> pulpito per il canto <strong>del</strong><br />

Vangelo e anche <strong>del</strong>le pareti che separavano l’altare maggiore<br />

da due piccoli altari laterali. Successivamente continuò ad<br />

essere ufficiata almeno fino al 1690, anno in cui risulta ancora<br />

registrata nell’inventario <strong>del</strong> beni capitolari”.<br />

4 Il foglio 85r <strong>del</strong> catalogo <strong>del</strong> 1713, contenente le piante dei<br />

beni <strong>del</strong> Rev.do Capitolo Metropolitano di Benevento, descrive<br />

la chiesa come “profanata”. In tale documento, conservato<br />

presso la Biblioteca Capitolare di Benevento, si legge: “Borgo<br />

di Port’Aurea possiede il Rev.do Capitolo nel sud.to Borgo la<br />

chiesa profanata di Sant’Ilario” (C. LEPORE, Monasticon<br />

Beneventanum, cit. pp.71 – 73).<br />

5 “(…) A mano sinistra uscendo da port’Aurea vi era anticamente<br />

la Badia di Sant’Ilario la quale nell’anno 1504 da papa<br />

Giulio II fu unita al Capitolo di Benevento”. (A. ANNECHINI,<br />

Breve compendio istorico <strong>del</strong>le principali notizie <strong>del</strong>la città di<br />

Benevento, Ms. LIV Archivio Storico Provinciale di Benevento,<br />

1802, p.49).<br />

6 “Ecclesia S.Petri ad Caballum, sita a lato <strong>del</strong> Trescene verso<br />

tramontana, annessa alla Commenda di S. Sofia, nella contrada<br />

ad Caballo” (M. ROTILI, La chiesa di Sant’Ilario a<br />

Port’Aurea a Benevento, in Atti <strong>del</strong> III Congresso<br />

Internazionale di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 1956, pp.<br />

525 - 531).<br />

7 D. GIAMPAOLA, Il restauro <strong>del</strong>l’arco di Traiano e il resoconto<br />

<strong>del</strong>l’attività di scavo a Benevento, in Atti <strong>del</strong> XXVII Convegno<br />

sulla Magna Grecia, Taranto – Paestum, 1987, Taranto 1998,<br />

p. 830.<br />

DANIELA VISCONTI<br />

- 113 -<br />

8 Si è supposta una funzione di carattere difensivo per la possente<br />

costruzione, ma gli elementi a disposizione non consentono<br />

di andare oltre l’ipotesi (A. BURATTO, L’anticamera<br />

<strong>del</strong>l’Imperatore, in “La provincia sannita di Benevento”,<br />

Benevento, anno XIII, n°2, 2003, p. 8).<br />

9 Si tratta di deposizioni realizzate in fosse terragne, ad eccezione<br />

di un unico esemplare dotato di cassa in muratura,<br />

realizzata con blocchi irregolari di tufo giallo.<br />

10 Di tali frammenti prese visione il prof. P. Peduto che ne<br />

osservò le affinità con analoghi frammenti trovati nella<br />

Langobardia Maior, e precisamente con quelli <strong>del</strong> Tempietto<br />

di Cividale <strong>del</strong> Friuli e con altri di S. Salvatore di Brescia (P.<br />

PEDUTO, La Campania, in R. FRANCOVICH (a cura di), La storia<br />

<strong>del</strong>l’Alto medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce <strong>del</strong>l’archeologia,<br />

Firenze, 1994, p. 293).<br />

11 M. ZAMPINO, Benevento, chiesa di Sant’Ilario, in Terremoto e<br />

restauro: dieci anni di esperienza, Soprintendenza dei<br />

B.A.A.A.S. per le Province di Caserta e Benevento (a cura di),<br />

Caserta 1991, p. 43.<br />

12 P. PENSABENE, A. LUPIA, Il reimpiego nel periodo longobardo<br />

a Benevento, in I longobardi dei ducati di Spoleto e<br />

Benevento - Atti <strong>del</strong> XVI Congresso internazionale di studi<br />

sull’Alto - medioevo, II, Spoleto, 2002, pp. 1555 - 1576.<br />

13 Uno dei due frammenti è di tipo ionico ed è parte di un<br />

fregio di cui si conservano altri elementi nel Museo <strong>del</strong><br />

Sannio. La decorazione è a motivi di animali fantastici entro<br />

due cornici orizzontali e si pensa sia ascrivibile alla fine <strong>del</strong><br />

periodo repubblicano o alla prima età augustea. L’altro<br />

frammento di fregio inserito come pietra d’angolo nella<br />

muratura <strong>del</strong>la facciata est ha un’ornamentazione più raffinata,<br />

con nastro a volute intervallato da fiori e palmette.<br />

14 F. BOVE, Città monastica beneventana in “Studi beneventani”,<br />

n° 6, Benevento, 1995, p. 186.<br />

15 Probabilmente a promuovere tale ingrandimento fu il<br />

convento avellinese di S.Paolo fuori le mura, a cui S.Ilario<br />

apparteneva.<br />

16 A. BURATTO, L’anticamera <strong>del</strong>l’Imperatore, cit., p. 10.<br />

17 L’edificio fu suddiviso in due livelli di abitazione mediante<br />

un solaio ligneo. Un forno fu localizzato nell’abside,<br />

dove fu aperta una porta. Infine le finestre <strong>del</strong>la facciata est<br />

vennero trasformate in porte di accesso al piano superiore,<br />

cui si arrivava a mezzo di due scale a giorno.<br />

18 La cupola più bassa è quella che copre lo spazio d’ingresso,<br />

mentre quella più alta è prossima all’abside e reca una<br />

monofora al centro di ognuno dei tre lati liberi <strong>del</strong> tiburio<br />

su cui è impostata (fig.6).<br />

19 A. VENDITTI, Architettura bizantina nell’Italia meridionale,<br />

Napoli, 1967, pp. 584 – 589.<br />

20 G. BERTELLI, Cultura longobarda nella cultura medievale,<br />

Il tempietto di Seppannibale, Bari, 1994, pp.28 – 32.<br />

21 G. BERTELLI, Cultura longobarda nella cultura medievale,<br />

cit. pp. 47 – 48.<br />

22 MA. ROTILI (Benevento romana e longobarda. L’immagine<br />

urbana, Napoli, 1986 pp. 182 – 183) posticipa quindi di<br />

qualche decennio la cronologia proposta dal padre.<br />

23 E. RAPISARDA, s.v Ilario di Poiters, in Enciclopedia<br />

Cattolica, vol. VI, Città <strong>del</strong> Vaticano, 1951, pp. 1614 – 1615.


BIANCA<br />

CANCELLARE


MARCO AMBROGI<br />

Monachesimo, fondazioni ecclesiastiche e sviluppo<br />

urbano nella Diano medioevale<br />

La cittadina di Teggiano, dall’alto di una<br />

terrazza protesa nel ferace Vallo di<br />

Diano, da secoli vigila il transito lungo<br />

l’antica Via Consolare Annia e controlla i valichi<br />

che alle sue spalle conducono verso il Cilento<br />

ed il mare di Paestum. La posizione di riguardo,<br />

scelta dagli antichi Lucani, ha costituito per<br />

secoli il vanto e la sicurezza di una città che ha<br />

saputo risollevarsi da distruzioni ed assedi, un’espressione<br />

geografica nata per motivi di controllo<br />

sugli attacchi esterni e per difesa dalle acque<br />

stagnanti <strong>del</strong> fondovalle tanagrino. Su quel pianoro<br />

i Romani elessero un fiorente municipium,<br />

dopo aver soggiogato la fierezza dei Lucani e<br />

dalle memorie latine <strong>del</strong>la civitas si sviluppò nel<br />

Medioevo uno dei borghi fortificati più importanti<br />

<strong>del</strong> Principato Citra.<br />

Teggiano, l’antica Diano medioevale, sonnecchiando<br />

nell’alto <strong>del</strong>la sua posizione strategica,<br />

ancora racconta, a chi sale per la via da<br />

Piedimonte o dalla strada a meridione, <strong>del</strong> suo<br />

glorioso passato, pregno di accadimenti storici,<br />

civili e militari, ma soprattutto di un mosaico<br />

ampio di storia religiosa, che ne ha decretato<br />

una sorta di “monte sacro”, in cui ancora permangono<br />

nella loro originalità chiese, monasteri,<br />

ruderi e cappelle, alcuni integri nel loro primitivo<br />

aspetto, altri menzionati solo nei documenti<br />

pergamenacei. La ricchezza artistica e<br />

monumentale <strong>del</strong>la Dianum medioevale affonda<br />

le sue radici storiche nell’alto Medioevo, in<br />

quel periodo in cui sulle vestigia <strong>del</strong> municipium<br />

di Tegianum si ricostituì l’assetto urbano<br />

di una nuova città, con l’insediamento dei<br />

monasteri italo-greci e di quelli benedettini sull’area<br />

interna alle mura, ma in posizione periferica.<br />

In quell’anello urbano si svilupperanno, nel<br />

- 115 -<br />

Fig. 1 - Teggiano dall’alto. Si noti l’ortogonalità degli assi cardo-decumanus.<br />

basso Medioevo, le strutture dei conventi mendicanti<br />

e degli ospedali, che oggi caratterizzano<br />

in modo originale l’impronta urbana <strong>del</strong> centro.<br />

Tegianum, il fiorente municipium, che<br />

Nerone considerava una <strong>del</strong>le colonie più rilevanti<br />

<strong>del</strong> primo Impero 1 , oggi si riconosce per lo<br />

più in pianta, dalla presenza <strong>del</strong>l’asse cardodecumanus,<br />

che equipartisce l’assetto urbano<br />

<strong>del</strong> pianoro in quattro quadranti, ognuno dei<br />

quali contrassegnato dalle sue chiese e dai suoi<br />

conventi. La parte più identificabile attualmente<br />

<strong>del</strong>l’impianto ortogonale <strong>del</strong>l’urbanistica romana<br />

di Teggiano è la piazza principale, su cui prospettano<br />

la cattedrale, il seggio ed il convento di<br />

San Francesco (attuale municipio), che nel suo<br />

proseguimento verso Sud, nella via che appellasi<br />

“discesa di Sant’Andrea”, allinea l’antico asse


Fig. 2 - Emergenze architettoniche di Teggiano romana: 1. Portello. 2.<br />

Foro.3.Barbacane o “posteruola”. 4. Porta <strong>del</strong>l’Annunziata. 5.Tempio. 6.<br />

Porta <strong>del</strong>le Pietà.<br />

<strong>del</strong> decumanus. A Nord, il “Portello” segna uno<br />

degli ingressi minori <strong>del</strong>la cittadina, in età romana<br />

e poi nel Medioevo, degradante su uno sperone<br />

roccioso molto ripido; dall’altro lato l’antica<br />

porta “<strong>del</strong>l’Annunziata”, costruita con grossi<br />

blocchi di calcare locale, riporta per analogia<br />

tipologica alle costruzioni di impianto lucano,<br />

pseudomegalitico, rendendo evidente che l’asse<br />

<strong>del</strong> cardo si formalizzò su un’urbanistica di più<br />

antica data. La via ortogonale alla piazza e all’asse<br />

appena descritto lo attraversa nel punto in cui<br />

si erge il seggio quattrocentesco e si <strong>del</strong>inea per<br />

la “salita Corpo di Cristo”, che conduce allo slargo<br />

<strong>del</strong> seminario, da un lato, e per la via “San<br />

Giorgio”, dall’altro, segnate agli estremi da punti<br />

in cui la memoria storica colloca altre due porte<br />

urbiche nella cinta muraria e di cui attualmente<br />

si riconosce solo il “Barbacane”, sul lato occidentale;<br />

la parte bassa <strong>del</strong>la torre di guardia di<br />

questa entrata minore è impostata su una base<br />

con grossi blocchi quadrangolari, in modo simile<br />

alla porta <strong>del</strong>l’Annunziata. Una porta collocabile<br />

cronologicamente all’epoca romana era sita<br />

nell’area <strong>del</strong>l’attuale convento <strong>del</strong>la Pietà 2 , mentre<br />

il centro latino individuava la presenza di<br />

edifici di importanza pubblica, tra cui è possibile<br />

ipotizzare un foro (sul posto <strong>del</strong>l’attuale via<br />

SALTERNUM<br />

- 116 -<br />

Roma ed in cui era collocata la mensa ponderaria,<br />

ora al Museo Diocesano), dei templi (si riconosce<br />

lo stilobate di uno di essi al di sotto <strong>del</strong><br />

portico <strong>del</strong>l’ex chiesa di San Pietro), una palestra<br />

e un teatro o odéon (da cui proverrebbe il telamone<br />

(?) nel Museo Diocesano di San Pietro, la<br />

cui iconografia, con le braccia dietro al collo, lo<br />

paragona ad altro simile <strong>del</strong> teatro di Pompei).<br />

Delle vestigia romane Teggiano conserva oggi<br />

numerose iscrizioni e le cosiddette imagines<br />

maiorum, alcune murate nella parete esterna<br />

<strong>del</strong> coro <strong>del</strong>la cattedrale ed altre presenti al<br />

Museo Diocesano. Alcuni storici hanno ipotizzato<br />

che la città romana ebbe un momento di gloria<br />

in età imperiale, considerato che in essa furono<br />

innalzati i monumenti a Galerio, Flavio<br />

Severo e Costantino, per opera dei decurioni e<br />

costituiti da basi con iscrizioni sormontate da<br />

statue 3 . Il pianoro <strong>del</strong>la civitas era racchiuso da<br />

una possente cinta muraria, ancora visibile nel<br />

‘600 e descritta dal cronista Luca Man<strong>del</strong>li, sulla<br />

quale si era <strong>del</strong>ineata con sovrapposizione la<br />

linea difensiva medioevale 4 .<br />

Dalla città retratta ai primi insediamenti<br />

monastici e agli ospedali di mendicità<br />

In età tardo antica ed alto medioevale, la città<br />

romana di Tegianum si contrasse al pari degli<br />

agglomerati antichi, come documentato altrove,<br />

finendo per ricompattarsi all’interno <strong>del</strong>le stesse<br />

mura: il fenomeno di restringimento urbano va<br />

sotto il nome di “città retratta” e riguarda le aree<br />

periferiche a ridosso dei circuiti murari, che vengono<br />

abbandonate per permettere alla scarsa<br />

popolazione <strong>del</strong>le città di origine romana di<br />

concentrarsi meglio al centro <strong>del</strong> nucleo antico.<br />

Ciò determina un’alta percentuale di suoli liberi,<br />

giardini e ruderi, sui quali verrà incentrato lo sviluppo<br />

successivo <strong>del</strong>la città, riguardante in<br />

modo particolare l’edilizia monastica e conventuale.<br />

Il monachesimo italo-greco preferì luoghi<br />

isolati e impervi, intorno ai quali poi sorsero<br />

agglomerati di piccoli borghi (come è documentato<br />

per il vicino paese di Sant’Arsenio), ma non<br />

disdegnò affatto gli antichi centri di tradizione<br />

latina (a Diano è documentata una via denominata<br />

dei Greci).


In effetti l’abbazia di Grottaferrata possedeva<br />

alcune grancie in vari paesi <strong>del</strong>la Lucania, tra cui<br />

Diano 5 , per cui è possibile ipotizzare la presenza<br />

di cenobi o piccoli monasteri anche nel centro<br />

dianense, nel quale il toponimo di Santa<br />

Venera, attuale succorpo <strong>del</strong>la chiesa di<br />

Sant’Angelo, è di chiara ascendenza greca. I<br />

Benedettini, con l’avvento <strong>del</strong>l’età normanna e<br />

la predominanza territoriale dei monaci di<br />

Venosa e di Cava dei Tirreni, non fecero altro<br />

che sostituire i religiosi di rito italo-greco o<br />

affiancarvisi. Nella cittadina dianense il<br />

Macchiaroli colloca qualche fondazione benedettina<br />

tacendo su altre di derivazione greca;<br />

infatti, secondo il cronista ottocentesco, alla<br />

china orientale <strong>del</strong> borgo, esistevano ai suoi<br />

tempi <strong>del</strong>le vestigia di mura nella contrada di<br />

San Nicola 6 , ultimo ricordo <strong>del</strong> monastero benedettino<br />

omonimo 7 , mentre il ramo femminile<br />

<strong>del</strong>l’ordine <strong>del</strong> patriarca umbro aveva una sua<br />

sede nell’area <strong>del</strong>l’attuale chiesa <strong>del</strong>la SS. Pietà.<br />

Il San Nicola riportato da Macchiaroli potrebbe<br />

identificarsi con la dipendenza cavense di<br />

Scaulano (entrata nell’orbita <strong>del</strong>la SS. Trinità tra<br />

il 1116 ed il 1136) 8 , mentre sulla fondazione religiosa<br />

<strong>del</strong>la Pietà non abbiamo dati documentari<br />

che vanno oltre il 1311 9 . Il cenobio <strong>del</strong>le<br />

Benedettine occupò già nel corso <strong>del</strong> Duecento,<br />

con molta probabilità, un’area perimetrale <strong>del</strong>l’abitato,<br />

ma entro le mura romane, proprio in aderenza<br />

alla porta di ingresso alla città dal lato<br />

orientale. Infatti, in un documento <strong>del</strong> 1420 10 ,<br />

quando le monache erano ancora presenti nel<br />

monastero, si specifica, per un atto di un’abitazione,<br />

che questa si trova “in convicinio porte<br />

seu posterule Monialium”. Se osserviamo attentamente<br />

l’attuale planimetria <strong>del</strong>la chiesa <strong>del</strong>la<br />

SS. Pietà, <strong>del</strong>l’ordine degli Osservanti, che ricalcò<br />

in parte (la navata minore) l’assetto <strong>del</strong>la<br />

chiesa <strong>del</strong>le Benedettine, appare evidente che la<br />

prima cappella di sinistra, dalla pianta poligonale,<br />

altro non è che una <strong>del</strong>le due torri <strong>del</strong>l’antica<br />

porta, su cui si innestavano le mura e su cui<br />

le monache avevano edificato parte <strong>del</strong>l’edificio<br />

religioso <strong>del</strong> loro monastero.<br />

Esisteva in età medioevale a Diano un monastero<br />

intitolato a San Vito 11 , che non sappiamo a<br />

quale ordine appartenesse, ma che risulta già<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 117 -<br />

Fig. 3 - La porta <strong>del</strong>l’Annunziata in opera poligonale.<br />

Fig. 4 - Configurazione religiosa di Diano altomedievale: monasteri ed<br />

ospedali: 1. S. Giovanni de Hospitali (Gerosolimitani?). 2. Ospedale di S.<br />

Caterina. 3. Ospedale di S. Spirito. 4. Monastero <strong>del</strong>la SS.Annunziata<br />

(Celestini). 5. Ospedale di S. Nicola de Carranis (per le donne). 6.<br />

Monastero di S. Nicola (Scaulano, Benedettini). 7. Monastero di S.Vito<br />

(incerta localizzazione). 8. Ospedale di S.Antonio de Vienne (Antoniani).<br />

9. Monastero di S. Benedetto (femminile).<br />

vitale nel 1373. Il problema per il riconoscimento<br />

di questa fondazione è dato anche dalla presenza<br />

di più chiese dedicate al Santo, con appellativi<br />

diversi (tra essi figura spesso “alla<br />

Bucana”), di cui una di certo esistente al di fuori<br />

<strong>del</strong> perimetro murario <strong>del</strong>la città medioevale.<br />

Nel punto in cui la porta meridionale <strong>del</strong>la<br />

città 12 si apriva verso le prime lievi balze <strong>del</strong> pianoro<br />

su cui sorge Teggiano, ma entro il circuito<br />

difensivo di età romana, sorse nel secolo XIV o<br />

poco prima il monastero <strong>del</strong>la SS. Annunziata<br />

dei frati Celestini. Denominati così dal nome <strong>del</strong><br />

fondatore, fra Pietro da Morrone (1209-1296),


Fig. 5 - Ex Chiesa di Santo Spirito degli Ospitalieri.<br />

Fig. 6 - Frate Ospitaliere nell’affresco <strong>del</strong>la Cappella Franconi in San<br />

Pietro.<br />

eletto papa nel 1294, costituirono una riforma<br />

sotto la regola di San Benedetto, nata nel 1264,<br />

con forti connotazioni di eremitismo, povertà,<br />

austerità e centralizzazione. Ebbero discreto sviluppo<br />

in Italia, specialmente nel Meridione,<br />

favoriti dai regnanti Angioini 13 . Del ricordo che<br />

questi frati lasciarono nell’immaginario di<br />

Teggiano e dei suoi abitanti, ci è pervenuta<br />

soprattutto la foggia ed il colore <strong>del</strong>l’abito di San<br />

Cono, cittadino e patrono di Teggiano e diocesi,<br />

che pur facente parte <strong>del</strong>la congregazione benedettina<br />

cassinese (monastero di Cadossa a<br />

Montesano), è stato rappresentato nell’età<br />

moderna con l’abito dei Celestini. Paradosso evi-<br />

SALTERNUM<br />

- 118 -<br />

dente è che l’unica immagine più antica <strong>del</strong><br />

santo dianense, in abiti da benedettino, si trova<br />

proprio nella chiesa <strong>del</strong>l’Annunziata, nella parte<br />

chiusa <strong>del</strong>la navata destra. Il primo documento<br />

che possediamo sulla presenza dei monaci, che<br />

accolsero tra le loro fila anche un ramo <strong>del</strong>l’ordine<br />

francescano, i poveri eremiti di papa<br />

Celestino, aggregati nel 1294 all’ordine contemplativo<br />

ma dimoranti in romitaggi propri e indipendenti<br />

dalla giurisdizione <strong>del</strong>l’ordine 14 , è <strong>del</strong>l’anno<br />

1342 (7 dicembre), quando Marino di<br />

Ippolito, nobile di Diano, sceglie come luogo<br />

per la sua sepoltura Santa Maria Annunziata (il<br />

1504, data impressa sul portale di ingresso segna<br />

la seconda ricostruzione <strong>del</strong> sacro edificio), il<br />

cui cenobio era retto dall’abate Francesco de<br />

Galliciano 15 . Possediamo note circa la filiazione<br />

<strong>del</strong> monastero, dalla casa madre di Santo Spirito<br />

di Sulmona da un documento <strong>del</strong> 25 maggio<br />

1408 in cui si specifica la dipendenza <strong>del</strong>la casa<br />

di Diano dal monastero principale abruzzese,<br />

retto allora da frate Nicola di San Giuliano, abate<br />

<strong>del</strong>l’ordine dei Celestini 16 . Il monastero di Diano<br />

possedeva molti beni e proprietà, oltre ad alcuni<br />

edifici sacri, tra i quali figura una chiesa di<br />

Sant’Eustachio, che nel 1584 risulta cadente e in<br />

attesa di ricostruzione; la cappella, definita da<br />

tempo appartenente alla congregazione<br />

<strong>del</strong>l’Annunziata 17 , potrebbe anche identificarsi<br />

con l’antica parrocchia che in età medioevale<br />

curava spiritualmente una parte <strong>del</strong> territorio cittadino<br />

di Diano.<br />

Nel processo di insediamento degli ordini<br />

monastici italo-greci e benedettini, anche se in<br />

una fase tarda, sorsero i primi ricoveri di ospitalità<br />

urbana, dapprima, forse, in modo spontaneo,<br />

poi riassorbiti all’interno di congregazioni<br />

religiose votate all’accoglienza e al sostegno di<br />

poveri e mendicanti ammalati. Dalle fonti storiche<br />

18 apprendiamo che a Diano esistevano gli<br />

ospedali di San Nicola per le donne 19 , posto<br />

nelle vicinanze <strong>del</strong>la chiesa di Sant’Angelo (con<br />

fabbriche crollanti al tempo <strong>del</strong> Macchiaroli), di<br />

Santo Spirito (ancora esistente), di Santa<br />

Caterina alla “Postierla” o “Barbacane” (il<br />

Macchiaroli poteva ancora vederne le fabbriche<br />

<strong>del</strong> ricovero e <strong>del</strong>la piccola chiesa) e di<br />

Sant’Antonio di Vienne, alla china esterna con


ducente alla porta <strong>del</strong>la Pietà, extra muros. Gli<br />

ospedali di Sant’Antonio, di Santa Caterina<br />

(entrambi diruti) e di Santo Spirito, sono ricordati<br />

anche dal Man<strong>del</strong>li 20 . Per ciò che concerne il<br />

ricovero degli Ospitalieri di Santo Spirito (una<br />

casa era presente anche nella vicina Sala<br />

Consilina (SA) nel XVI sec.), la prima data che<br />

compare a conferma <strong>del</strong>la presenza in Diano<br />

<strong>del</strong>l’ordine è <strong>del</strong> 1309 (o 1310) 21 , esattamente il<br />

20 gennaio, quando fra Tommaso, precettore<br />

<strong>del</strong>l’ospedale, <strong>del</strong>la casa e <strong>del</strong>la chiesa di Santo<br />

Spirito, cede a Tommaso de Maliano un terreno<br />

lavorativo in cambio di un altro in Sassano. Il<br />

riferimento alla prima data sul cenobio dianense<br />

è messo in dubbio da un’affermazione di<br />

Vitolo, che considera esistente l’ospedale già nel<br />

XII secolo 22 . Gli Ospitalieri o Fratelli <strong>del</strong>la<br />

Colomba, ordine cittadino, furono fondati nel<br />

1175 da Guy di Montpellier nella sua città natale<br />

e la regola fu approvata nel 1198 da papa<br />

Innocenzo III, che affidò a loro in Roma l’ospedale<br />

di Santa Maria divenuto poi Santo Spirito<br />

(l’ordine fu sciolto nel 1847 da Pio IX). Le dipendenze<br />

erano state fondate con il motivo di assistere<br />

i poveri, gli infermi e i trovatelli. Sull’abito<br />

<strong>del</strong>l’ordine è bene soffermarsi, perché figura<br />

anche a Teggiano nell’affresco <strong>del</strong>la cappella<br />

Francone in San Pietro, giusto al di sopra <strong>del</strong><br />

corpo scolpito <strong>del</strong> soldato Bartolomeo (periodo<br />

di esecuzione: XIV sec.), dove una teoria di personaggi,<br />

tra cui una monaca benedettina ed un<br />

cavaliere di Malta 23 , fanno da ala all’immagine<br />

centrale <strong>del</strong> Cristo. Ebbene, l’ultima figura sul<br />

lato destro porta un abito bruno con una particolare<br />

croce bianca, che pare identificarsi proprio<br />

con la foggia <strong>del</strong>l’abito degli Ospitalieri 24 ,<br />

presenti nella città di Diano nel XIV secolo (già<br />

documentati). La regola <strong>del</strong>l’Ordine imponeva<br />

che tutti i religiosi dovessero portare il segno<br />

<strong>del</strong>la croce tanto sull’abito (sul petto), quanto<br />

sul mantello (a lato sinistro); nell’uno e nell’altro<br />

caso, esso doveva essere posto all’altezza <strong>del</strong><br />

cuore. Sia l’abito sia il mantello erano neri 25 . Le<br />

note <strong>del</strong>la presenza dei frati in Diano continuano<br />

per tutto il XV secolo 26 , segnando un’attività<br />

stabile e determinante per la comunità cittadina<br />

e per gli ospiti ed i forestieri che vi giungevano.<br />

Per questo già nel XVI secolo il centro di rico-<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 119 -<br />

Fig. 7 - Parrocchie di Diano in età medievale e moderna: 1. Plebana di S.<br />

Maria Assunta. 2. S. Matteo al Barbacane. 3. S. Eustacchio. 4. S. Barbara. 5.<br />

S.Agostino Abate. Parrocchie recenti: A. S.Andrea. B. S.Angelo. C. S.<br />

Pietro. D. S. Martino.<br />

Fig. 8 - Pianta <strong>del</strong>la Cattedrale di S. Maria: l’edificio medievale era<br />

simmetricamente invertito.<br />

vero conventuale è oggetto di un’ampia ristrutturazione<br />

dei suoi ambienti, considerando la<br />

presenza di uno stemma, sul prospetto sudorientale<br />

<strong>del</strong>l’edificio, che riporta la data <strong>del</strong><br />

1585. Il ricovero di Sant’Antonio de Vienne (la


Fig. 10 - La Chiesa di San Pietro nella sua prima fase costruttiva.<br />

Fig. 9 - La Chiesa di San Pietro nella fase costrutiva finale.<br />

cui protezione era invocata contro il morbo <strong>del</strong>l’herpes<br />

zoster), da non confondere con la parrocchia<br />

e con la chiesa attuale di Sant’Antuono,<br />

figura per la prima volta nel 1369 27 , ma già nel<br />

1482 il precettore <strong>del</strong>l’Ospedale di Sant’Antonio<br />

de Vienne di Napoli, conferisce al presbitero<br />

Nicola de Monsa la facoltà di reggere l’ospedale<br />

dianense, extra moenia 28 . L’ordine, il cui nome<br />

effettivo era: “canonici regolari di Sant’Agostino<br />

di Sant’Antonio”, prese il nome <strong>del</strong> grande abate<br />

omonimo, le cui reliquie giunsero in Occidente<br />

SALTERNUM<br />

- 120 -<br />

presso Vienne. L’Ordine fu eretto come canonicato<br />

regolare con bolla di Bonifacio VIII <strong>del</strong><br />

1297 e terminò il suo compito verso la fine <strong>del</strong><br />

XVIII secolo, allorché fu unito all’Ordine di<br />

Malta. La protezione dal cosiddetto “fuoco di<br />

Sant’Antonio” (ergotismo), dovuto all’ingestione<br />

<strong>del</strong> fungo <strong>del</strong>la segala cornuta, costituì il motivo<br />

per erigere una confraternita nell’XI secolo che<br />

divenne successivamente Ordine regolare. I<br />

canonici vestivano nel XIV secolo con una tunica<br />

ampia completa di burello nero con cappuccio.<br />

Una cintura di cuoio o un cordone per la<br />

vita ed un semplice mantello, oltre agli zoccoli<br />

robusti e pesanti, completavano la foggia <strong>del</strong>l’abito<br />

29 . E la reggenza dei presbiteri di<br />

Sant’Antuono, nei confronti <strong>del</strong>l’ospedale di<br />

Sant’Antonio de Vienne, continuò almeno fino<br />

alla prima metà <strong>del</strong> XVI secolo, se è vero che nel<br />

1536 Giovanni De Velasco, commissario generale<br />

e procuratore <strong>del</strong>l’Ordine di Sant’Antonio de<br />

Vienne per le province di Principato Citra e<br />

Ultra, conferì al sacerdote Federico Marresio,<br />

arciprete <strong>del</strong>la terra di Diano, il beneficio <strong>del</strong>la<br />

cappella di Sant’Antonio de Carbonibus in<br />

Diano, con l’obbligo di censo alla precettoria<br />

generale <strong>del</strong>l’ordine, dimorante nel monastero<br />

di Sant’Antonio extra muros di Napoli 30 . Allo<br />

stato attuale, pur avendo distinto i due edifici<br />

sacri, entrambi intitolati a Sant’Antonio Abate, l’identificazione<br />

certa tra i documenti afferenti<br />

all’uno o all’altro non è ben chiara e <strong>del</strong>ineata.<br />

Anche la presenza di un istituto religioso denominato<br />

San Giovanni de hospitali, che compare<br />

in un documento <strong>del</strong> 1397 31 , lascia supporre l’esistenza<br />

di un altro monastero (i<br />

Gerosolimitani?) o meglio ancora di un ulteriore<br />

ricovero per gli ammalati.<br />

La plebana di Santa Maria e le parrocchie<br />

antiche<br />

Nella piazza centrale <strong>del</strong>la cittadina si erge<br />

imponente la cattedrale di Santa Maria, punto di<br />

contatto tra l’espressione dignitaria ecclesiastica<br />

<strong>del</strong>le parrocchie antiche di Diano ed il titolo di<br />

ecclesia cattedralis, centro <strong>del</strong>la diocesi di<br />

Teggiano-Policastro. L’edificio risulta nelle cronache<br />

storiche, già nel 967 32 e nel 1132 (mese di<br />

dicembre) come chiesa plebana 33 e con molta


probabilità l’istituzione rientrava nella particolare<br />

cura spirituale dei vescovi caputaquensi, che<br />

non mancavano di celebrarvi frequentemente.<br />

Infatti, è documentato negli anni ’40 <strong>del</strong> XII<br />

secolo il presule Giovanni, che, dimorando a<br />

Diano lungamente, vi morì (1146) e venne<br />

sepolto proprio in Santa Maria, nella cona maggiore<br />

34 . Nel luglio <strong>del</strong>l’anno 1261, la chiesa era<br />

diruta nelle strutture <strong>del</strong>la navata maggiore ed in<br />

quelle laterali, per cui vennero raccolti alcuni<br />

proventi di vendite e offerte al fine di ricostruire<br />

il sacro edificio 35 . Con la scelta, caduta su<br />

Diano e Padula, da parte dei Sanseverino di<br />

Marsico, quali sedi predilette dei propri domini,<br />

l’antico edificio <strong>del</strong>la pieve dianense venne<br />

ingrandito ed abbellito con un programma edilizio<br />

e architettonico degno di nota, che denota la<br />

presenza di un artifex o magister dalle notevoli<br />

conoscenze nel campo <strong>del</strong>l’architettura. Quel<br />

progettista potrebbe essere Melchiorre da<br />

Montalbano, allievo <strong>del</strong> ben più celebre<br />

Bartolomeo da Foggia, autore <strong>del</strong>la cattedrale di<br />

Rapolla e qui a Teggiano <strong>del</strong> portale e <strong>del</strong> pulpito,<br />

datato 1271, presenti nella cattedrale di<br />

Santa Maria. La scultura dei due pezzi più antichi<br />

<strong>del</strong>la chiesa potrebbe essere il suggello o la<br />

firma alla conclusione dei lavori di restauro,<br />

voluti nella seconda metà <strong>del</strong> XIII secolo dalla<br />

nobile casata dei Sanseverino, su concessione<br />

dei regnanti angioini, grati ai nobili marsicensi<br />

per aver dato un degno contributo nella battaglia<br />

di Scurcola Marsicana, decisiva per le sorti<br />

positive degli Angiò, contro gli Svevi. Ma il programma<br />

di ricostruzione, da quanto evidenziato,<br />

si rese necessario anche per le cattive condizioni<br />

in cui versava l’edificio. La chiesa fu consacrata<br />

il 12 agosto <strong>del</strong> 1274 da tre vescovi: monsignor<br />

Gualtieri, <strong>del</strong>l’Ordine dei Predicatori, presule<br />

di Potenza, monsignor Luca dei frati Minori,<br />

reggente la diocesi di Acerno, e da monsignor<br />

Palermo di Muro Lucano 36 . È significativo riportare<br />

per tratti la descrizione <strong>del</strong>la consacrazione<br />

<strong>del</strong>la chiesa di Santa Maria, al fine di evidenziarne<br />

l’importanza religiosa e spirituale nella società<br />

<strong>del</strong> tempo: l’altare maggiore fu benedetto dal<br />

vescovo Gualtieri con le reliquie <strong>del</strong> legno <strong>del</strong>la<br />

Croce, di Santo Stefano, di San Matteo, <strong>del</strong> Santo<br />

Sepolcro e di altri corpi santi. L’altare <strong>del</strong>la parte<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 121 -<br />

destra fu dedicato dal vescovo di Muro Lucano<br />

a San Giacomo Apostolo, con il posizionamento<br />

<strong>del</strong>le reliquie <strong>del</strong>la “Mensa Domini” e di Santa<br />

Maria <strong>del</strong> Monte Calvario; l’altare di fronte, invece,<br />

fu dedicato dal vescovo di Acerno a San<br />

Nicola vescovo, con la deposizione <strong>del</strong>le reliquie<br />

<strong>del</strong> Beato Gennaro, di San Barbato, <strong>del</strong><br />

Beato Cono e <strong>del</strong>la Manna di San Nicola. Infine<br />

l’altare sotto il lettorino fu dedicato dal vescovo<br />

di Acerno alla “Vergine Dei Genitrix”, con la collocazione<br />

<strong>del</strong>le reliquie <strong>del</strong> beato Vincenzo martire,<br />

<strong>del</strong>la Manna <strong>del</strong>la Vergine, <strong>del</strong> dito di<br />

Sant’Anna e dei capelli di Santa Maria<br />

Maddalena. L’anno successivo, Pietro, vescovo<br />

di Capaccio, concesse 40 giorni di indulgenza<br />

per la festività <strong>del</strong>la Vergine Maria e l’anno 1276,<br />

Filippo, arcivescovo di Palermo, concesse nella<br />

festa <strong>del</strong>l’Assunta altri 40 giorni di indulgenza 37 .<br />

L’importanza <strong>del</strong>la chiesa di Santa Maria, quale<br />

centro religioso di una <strong>del</strong>le città fortificate più<br />

eminenti <strong>del</strong> territorio, risulta anche dalla presenza<br />

di una campana, ricordata ai tempi <strong>del</strong><br />

Macchiaroli 38 come la seconda più grande <strong>del</strong><br />

Principato Citra, dopo quella di San Matteo a<br />

Salerno; la chiesa dianense era retta poi da un<br />

abate, figura di spicco, che venne eletta successivamente<br />

anche per le altre parrocchiali di<br />

Diano. Un’interessante descrizione <strong>del</strong>la chiesa,<br />

prima che i restauri ottocenteschi ne sconvolgessero<br />

la planimetria e l’alzato, ci viene<br />

dall’Apprezzo <strong>del</strong> feudo <strong>del</strong>lo Stato di Diano di<br />

fine Seicento 39 :<br />

“Poco distante dal Castello vi è la chiesa<br />

Madre sotto il titolo di S. Maria <strong>del</strong>l’Assunta. In<br />

essa s’entra per porta lavorata attorno di pietra<br />

di taglio; consistente in tre navi di mediocre<br />

grandezza; la nave maggiore coverta a tetti con<br />

suo soffitto di tavole pintate, le navi piccole<br />

coverte a lamia con tetti sopra, in testa vi è la<br />

crociera medesimamente coverta a tetti con soffitto<br />

di tavole pintate, dove vi è il coro con suoi<br />

sedili di noce, avanti <strong>del</strong> quale mediante tre<br />

arcate di fabrica sostenute nel mezzo con due<br />

colonne di pietra viva <strong>del</strong> paese, in mezzo <strong>del</strong>le<br />

quali sta situato l’altare maggiore con cona<br />

grande di legname indorato anticha con statua<br />

<strong>del</strong>la Madonna Santissima nel mezzo, con due<br />

altre statue a’ fianchi, suoi quadri sopra rappre-


sentanti diversi Santi, vi è la sua custodia, et<br />

ornamenti.<br />

Al lato destro, e sinistro di detto altare maggiore<br />

vi sono due cappelle, una sotto il titolo <strong>del</strong>la<br />

Circoncisione con sua cona, e quadro grande, e<br />

l’altra <strong>del</strong>la Madonna Santissima <strong>del</strong> Rosario<br />

con quadro, a lato <strong>del</strong> quale altare in un stipo<br />

grande pintato conservano la statua di Nostra<br />

Signora <strong>del</strong> Rosario, quale portano in processione<br />

una volta l’anno nel giorno <strong>del</strong>la sua festa.<br />

Nelle due navi piccole vi sono cinque cappelle<br />

sotto il titolo di diversi Santi, due <strong>del</strong>le quali<br />

stanno sguarnite, e l’altre con li loro poveri<br />

ornamenti. Vi sono ancora due altre cappelle,<br />

seu altari, una sotto il pulpito, e l’altra sotto il lettorino<br />

formato di pietra viva all’antica. Vi sono<br />

similmente due organi dentro la detta crociera,<br />

a lato <strong>del</strong> detto coro, fonte battesimale, e confessionarij”.<br />

L’urbanizzazione <strong>del</strong>l’anello murario di Diano<br />

fu costituita non solo dagli insediamenti monastici<br />

e di ospitalità, ma anche da una serie non<br />

indifferente di parrocchie e di chiese, che hanno<br />

donato alla cittadina di Teggiano l’appellativo di<br />

“città dalle cinquanta chiese”, così come ricordano<br />

ancora molti anziani. L’alta presenza di luoghi<br />

sacri si può spiegare solo con il fenomeno<br />

<strong>del</strong>le aspettative ultraterrene dei fe<strong>del</strong>i ed il<br />

cosiddetto “timor di Dio”, che contribuirono a<br />

far sì che in molti testamenti (allo scopo <strong>del</strong>la<br />

salvezza <strong>del</strong>l’anima) i donanti lasciassero parte<br />

<strong>del</strong>l’eredità alle chiese, ai conventi ed agli ospedali.<br />

Il formulario unificato con cui sono stati<br />

redatti molti dei testamenti 40 <strong>del</strong>la Diano<br />

medioevale evidenzia le precise disposizioni per<br />

i riti funebri <strong>del</strong> donante e per le celebrazioni di<br />

messe, a cui seguono i lasciti alle chiese, ai conventi,<br />

alle confraternite e ai poveri. Trattasi di<br />

una condizione diffusa nella società medioevale<br />

e non solo, che riserva a ricchi e meno abbienti<br />

le stesse prerogative di poter beneficiare di<br />

preghiere ed invocazioni per l’anima <strong>del</strong> defunto.<br />

Allo stesso tempo dispensa ai luoghi beneficiari<br />

una serie considerevole di denaro, terreni o<br />

semplici oggetti, in grado di assommare i patrimoni<br />

sacri in un crescendo di fioritura economica<br />

e di benefici. Il ruolo strategico di posizionamento<br />

degli insediamenti monastici all’interno<br />

SALTERNUM<br />

- 122 -<br />

<strong>del</strong> circuito murario valse anche per le parrocchie.<br />

Infatti, oltre alla plebana di Santa Maria, le<br />

chiese con funzione di amministrazione parrocchiale<br />

più antiche ed operanti tra il IX ed il XIII<br />

secolo furono San Matteo, Sant’Eustachio, Santa<br />

Barbara e Sant’Antonio Abate 41 , <strong>del</strong>le quali se ne<br />

riescono attualmente a localizzare ben tre. San<br />

Matteo era posizionata nelle vicinanze <strong>del</strong><br />

“Barbacano”, di cui riportava l’appellativo e conservava,<br />

murata in una parete esterna, una lapide<br />

con iscrizione di età romana; la sua collocazione<br />

nel settore occidentale <strong>del</strong> nucleo antico<br />

la metteva in rapporti di vicinanza con la plebana,<br />

nella quale probabilmente confluirono i beni<br />

e le rendite di San Matteo al momento <strong>del</strong>la soppressione<br />

<strong>del</strong> beneficio parrocchiale. Ancora<br />

oggi una via che corre parallelamente al circuito<br />

murario nel settore <strong>del</strong>la “posteruola” (al<br />

Barbacane), si appella con il nome <strong>del</strong>l’apostolo<br />

ed evangelista. Sant’Eustachio invece non risulta<br />

al momento ben identificabile 42 , anche se un’equa<br />

partizione di influenze ecclesiastiche <strong>del</strong><br />

centro di Teggiano la porterebbe a collocarsi<br />

nelle vicinanze <strong>del</strong>la chiesa <strong>del</strong>l’Annunziata, ma<br />

nel settore occidentale (vedasi riferimento più<br />

avanti). Santa Barbara è riconoscibile nella piccola<br />

aula di culto situata alle spalle <strong>del</strong>la piazza<br />

dei Mori, alla giusta distanza tra la chiesa di<br />

Sant’Antuono e l’altra di San Martino. Infine<br />

Sant’Antonio Abate, volgarmente appellata<br />

Sant’Antuono, si trova alle spalle <strong>del</strong> castello dei<br />

Sanseverino ed è arricchita in facciata da un portale<br />

di età altomedioevale, costituito da un architrave<br />

con decorazioni, su cui è inciso anche il<br />

nome <strong>del</strong> suo artefice: Nicola de Selcia (“Hoc<br />

fieri fecit N. Nicolaus De Selcia). Il portale costituisce<br />

una <strong>del</strong>le opere d’arte lapidee sacre più<br />

antiche di Teggiano. Non possiamo accertare se<br />

le funzioni di parrocchia svolte dalle chiese<br />

menzionate siano principiate, come afferma il<br />

Macchiaroli 43 , nel IX secolo, avendo egli consultato<br />

antiche carte che affermavano la preminenza<br />

cronologica <strong>del</strong>le parrocchie citate rispetto a<br />

quelle <strong>del</strong> suo tempo, perché l’istituto parrocchiale,<br />

svolto dalla plebana di Santa Maria, ebbe<br />

di certo la sua preminenza almeno fino al XIII o<br />

XIV secolo 44 , ma per ciò che concerne l’esistenza<br />

di questi sacri luoghi in epoca anteriore alle


parrocchie, possiamo con molta probabilità<br />

affermarlo in modo chiaro. Nel tempo in cui<br />

Diano assurse a ruolo di guida <strong>del</strong>lo Stato che<br />

fino agli inizi <strong>del</strong> XIX secolo ne portò il nome,<br />

la saturazione <strong>del</strong>lo spazio all’interno <strong>del</strong> circuito<br />

murario e l’aumentata popolazione, nel centro<br />

e nei casali, contribuì a riorganizzare il sistema<br />

<strong>del</strong>le parrocchie dianensi, con la costituzione<br />

di quattro nuovi titoli: San Martino 45 , San<br />

Pietro, San Michele e Sant’Andrea 46 , che gradualmente<br />

si affiancarono alle vecchie parrocchie e<br />

poi andarono a sostituirle completamente, incamerandone<br />

i benefici e le prebende. Un’analisi<br />

attenta <strong>del</strong>la collocazione dei titoli parrocchiali<br />

integrali ci porta a comprendere che la vita religiosa<br />

<strong>del</strong>la cittadina nei secoli XIII e XIV fu<br />

alquanto ricca e fervida; infatti la disposizione<br />

<strong>del</strong>le chiese gerarchiche saturava uno spazio di<br />

influenze di benefici e di soggezioni spirituali,<br />

compresso e racchiuso dalle mura romane. Si<br />

comprende il perché i vecchi titoli siano stati<br />

soppressi a vantaggio <strong>del</strong>le nuove parrocchie,<br />

comunque riconoscendo il vertice di gerarchia<br />

alla primaziale di Santa Maria. La proliferazione<br />

dei luoghi di culto in epoca medioevale, costituiti<br />

da oratori privati e cappelle, completa il<br />

panorama religioso fin qui elencato, costituendo<br />

per la città di Diano una sorta di piccola<br />

Gerusalemme o “monte santo”: dai documenti<br />

pergamenacei traspare infatti una ricchezza di<br />

spiritualità costituita da una lunga serie di luoghi<br />

sacri e di confraternite, tra cui è da annoverare<br />

anche una di “Battenti”. Tra gli edifici religiosi<br />

<strong>del</strong>la cittadina medioevale più importanti figurano<br />

il Corpo di Cristo, la SS. Trinità al vicinato<br />

omonimo (con molta probabilità la chiesa fu<br />

riaccomodata dalle Benedettine sul finire <strong>del</strong><br />

‘400 47 , mutando il nome nel santo patriarca <strong>del</strong>l’ordine),<br />

San Mauro (vicina a San Matteo), San<br />

Giorgio (lungo la via omonima, parte <strong>del</strong> cardo<br />

romano), San Sebastiano (adiacente la chiesa di<br />

Sant’Andrea), Santa Venera (ora succorpo di<br />

Sant’Angelo), San Giuseppe 48 , ecc. Merita un’attenzione<br />

particolare la chiesa <strong>del</strong> Corpo di<br />

Cristo, allineata lungo la metà orientale <strong>del</strong><br />

cardo e ora ridotta a giardino, crollata a seguito<br />

<strong>del</strong> terremoto <strong>del</strong> 1857 insieme con l’adiacente<br />

Seggio, che doveva costituirne parte integrante.<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 123 -<br />

Fig. 11 - L’isolato <strong>del</strong>l’Annunziata; in basso a sinistra si riconosce la<br />

pianta <strong>del</strong>la Chiesa <strong>del</strong> Santo Spirito.<br />

L’attuale disposizione <strong>del</strong> portico ad archi, conosciuto<br />

come sedile <strong>del</strong>la città medioevale, è frutto<br />

di una ricostruzione tardo-ottocentesca 49 o <strong>del</strong><br />

XX secolo, che ne ha modificato l’orientamento,<br />

disponendo la fuga degli archi sulla via Corpo di<br />

Cristo, diversamente dalla posizione originaria,<br />

che invece si allineava sulla discesa di<br />

Sant’Andrea. Il portico antico, opera di Iacobello<br />

de Babino 50 <strong>del</strong> 1472, costituì quasi sicuramente<br />

lo spazio di accesso voltato alla chiesa <strong>del</strong><br />

Corpo di Cristo 51 , nel quale l’Universitas Civium<br />

dianense si riunì per discutere e dirimere i problemi<br />

e le cause civili dall’età medioevale<br />

all’Ottocento. Nel Medioevo fu frequente per le<br />

corporazioni e le assemblee civiche “adottare”<br />

una chiesa, per lo più degli ordini mendicanti,<br />

da eleggere quale luogo fisso per le riunioni: lo<br />

stesso accadde a Diano, con la chiesa <strong>del</strong> Corpo<br />

di Cristo, la quale oltre ad avere un elegante<br />

portico 52 , nel quale si poteva bene espletare la<br />

funzione di assemblea, si trovava proprio sulla


Fig. 12 - Diano in età basso medievale: 1. Convento dei Minori<br />

Conventuali. 2. Convento dei Minori Osservanti. 3. Convento degli<br />

Agostiniani.A. Cattedrale. B. Monastero dei Celestini. C. Monastero<br />

<strong>del</strong>le Benedettine. D. Seminario Diocesano.<br />

piazza principale <strong>del</strong>la città, non lontana dai<br />

simboli <strong>del</strong> potere civile, il castello, e religioso,<br />

la plebana di Santa Maria. La cospicua presenza<br />

di edifici religiosi in città era eguagliabile a quella<br />

<strong>del</strong>la campagna. Nelle borgate ai piedi dei<br />

monti, infatti, si enumeravano anche qui tante<br />

fondazioni ecclesiastiche: San Paolo, San<br />

Salvatore, Santa Maria Piccirella (fabbricata su<br />

un tempio pagano con frammenti lapidei di<br />

reimpiego), Santa Lucia, Sant’Elia, Madonna<br />

<strong>del</strong>la Misericordia, San Biagio, Sant’Antonio<br />

Abate, San Giovanni, San Vito (vi è più di una<br />

chiesa a lui dedicata), Madonna di Piedimonte,<br />

San Michele, San Rocco, Santa Caterina, San<br />

Silvestro e San Marco 53 . La tradizione popolare<br />

ricorda anche altri edifici, tra cui la cappella di<br />

San Cono (edificata forse sul luogo in cui esisteva<br />

la casa <strong>del</strong> santo) e quella <strong>del</strong> Salvatore. A<br />

queste facevano seguito numerose congreghe,<br />

di cui le più vicine a noi cronologicamente<br />

erano intitolate al SS. Rosario, ai defunti sacerdoti,<br />

al SS. Corpo di Cristo, al Purgatorio ed a<br />

Santa Margherita 54 .<br />

SALTERNUM<br />

- 124 -<br />

Gli ordini mendicanti e la saturazione <strong>del</strong>lo<br />

spazio urbano<br />

Nonostante la ricchezza <strong>del</strong>le fondazioni religiose<br />

ed ecclesiastiche presenti già nel XIII<br />

secolo all’interno <strong>del</strong>la cerchia muraria di Diano,<br />

l’insediamento dei nuovi Ordini mendicanti finì<br />

col saturare in modo completo lo spazio libero<br />

nell’anello esterno <strong>del</strong>la cittadina medioevale.<br />

Evidentemente le aree disponibili a fine<br />

Duecento in Diano non erano di certo numerose<br />

ed i frati Minori di San Francesco si attestarono<br />

nell’angolo nord occidentale <strong>del</strong>lo spazio<br />

urbano, nelle immediate vicinanze <strong>del</strong> castello<br />

normanno e <strong>del</strong>le sue appendici militari. Non<br />

abbiamo date certe sulla presenza dei Francescani<br />

in Diano, anche se la loro venuta nella cittadina<br />

si deve collocare nell’arco di tempo che<br />

va dall’ultimo quarto <strong>del</strong> XIII secolo agli inizi <strong>del</strong><br />

secolo successivo, in analogia con le dinamiche<br />

insediative dei Mendicanti attestate nel territorio<br />

<strong>del</strong>la Lucania. La fama di santità di Angelo<br />

Clareno, <strong>del</strong> ramo spirituale dei Francescani, che<br />

visse gli ultimi anni <strong>del</strong>la sua vita nel convento<br />

di Santa Maria <strong>del</strong>l’Aspro di Marsico Vetere,<br />

venendovi ivi sepolto, contribuì a raccogliere<br />

consensi favorevoli intorno al nuovo ordine dei<br />

seguaci di Francesco d’Assisi. Il portale <strong>del</strong>la<br />

chiesa dianense di San Francesco, che data al<br />

1307, segna la fine dei lavori di costruzione <strong>del</strong><br />

grande edificio religioso, dalla forma tipologica<br />

inequivocabile, analoga alle costruzioni minoritiche<br />

di seconda generazione. Quindi, possiamo<br />

ipotizzare che il programma costruttivo <strong>del</strong>la<br />

chiesa risalga perlomeno alla fine <strong>del</strong> Duecento.<br />

La cronologia <strong>del</strong>l’edilizia mendicante viene<br />

spesso divisa in tre periodi: la prima fase che va<br />

dal 1220 al 1240 circa con un primo insediamento<br />

e uso di piccole chiese o cappelle esistenti da<br />

parte dei frati Minori; una seconda fase (1240<br />

ca.-1270 ca.) con la costruzione <strong>del</strong>le prime<br />

chiese, di medie dimensioni; l’ultimo periodo,<br />

dal 1270 circa in poi (fino al XV secolo), con l’edificazione<br />

<strong>del</strong>le grandi aule sacre 55 . I primi<br />

documenti certi sulla presenza dei frati Minori in<br />

Diano sono <strong>del</strong> 28 settembre 1311 56 e <strong>del</strong> 4 aprile<br />

1321, quando Sarolo, figlio di Ruggero de<br />

Lisa, giacendo a letto ammalato, detta il suo ultimo<br />

testamento, a favore di varie chiese, tra cui


figura appunto San Francesco 57 . E la chiesa <strong>del</strong>l’Ordine<br />

diviene presto luogo sacro al centro<br />

<strong>del</strong>la vita religiosa e civile <strong>del</strong>la cittadina. Nel<br />

1322 58 un documento pergamenaceo attesta il<br />

deposito di un testamento redatto in atto pubblico<br />

presso i Frati Minori, che rileva l’uso frequente<br />

nell’età medioevale di affidare ai Frati mendicanti<br />

la garanzia di particolari privilegi o testamenti.<br />

Ben presto il convento dei Minori si<br />

avvalse <strong>del</strong>la figura di un procuratore in grado<br />

di gestire i rapporti con il mondo esterno negli<br />

affari di compravendita di beni: nel 1355 59 figura<br />

un tal Macciotto de Guglielmotto, giudice e procuratore<br />

di San Francesco, al tempo <strong>del</strong> guardianato<br />

di frate Antonio di Montella. Da una descrizione<br />

<strong>del</strong>l’Apprezzo <strong>del</strong> feudo, di fine Seicento,<br />

abbiamo anche un’ampia presentazione <strong>del</strong>la<br />

chiesa dei conventuali:<br />

“Vicino il Castello vi è il convento dei pp.<br />

Minori Conventuali di S. Francesco, nel quale vi<br />

sono due sacerdoti, e due laici; questi hanno la<br />

commodità <strong>del</strong>la chiesa, consistente in un vase<br />

grande coverto con intempiatura di legname in<br />

testa <strong>del</strong>la quale vi è l’altare maggiore isolato con<br />

custodia grande di legname pintata, et indorata<br />

con li suoi ornamenti di frasche e can<strong>del</strong>ieri, alli<br />

lati <strong>del</strong> quale per portelle intagliate, e lumeggiate<br />

d’oro s’entra nel coro anche coverto con intempiatura<br />

di legname simile, have li suoi sedini<br />

attorno lavorati di noce, e lettorino nel mezzo, a<br />

lato destro <strong>del</strong> quale vi è la sagristia piccola coverta<br />

anche con intempiatura di legname, dove vi<br />

sono li suoi stipi, e bancone dove si conservano<br />

tutte le soppelletili necessarie, come pianete, e<br />

paliotti di tutti colori, et ogn’altro; have altresì la<br />

croce, calici, patene, ingensiero, navetta, sicchietto<br />

et aspersorio, con la pisside, il tutto d’argento.<br />

Sopra <strong>del</strong> detto altare maggiore vi è l’architrave di<br />

legname lavorato, et indorato con Crocifisso pintato<br />

sopra tavola contornata con tutti ornamenti<br />

di pottini di rilievo indorati.<br />

In essa chiesa vi sono n. 8 cappelle sotto il titolo<br />

di diversi Santi, parte con cone di legname<br />

indorate, parte di stucco, una <strong>del</strong>le quali è sfondata<br />

coverta a lamia, con sedini attorno di<br />

castagno scorniciati; due <strong>del</strong>le dette cappelle<br />

sono patronate, una degl’heredi <strong>del</strong> quondam<br />

Herrico di Costanzo e l’altra degl’heredi <strong>del</strong><br />

MARCO AMBROGI<br />

- 125 -<br />

Fig. 13 - Assonometria <strong>del</strong>la Chiesa di S. Francesco in epoca medievale.<br />

Fig. 14 - Chiesa e convento <strong>del</strong>la SS. Pietà. Si noti la cappella poligonale a<br />

sinistra <strong>del</strong>la navatella: residuo <strong>del</strong>l’antica porta urbica.<br />

quondam Francesco Buonuomo; tutte le dette<br />

cappelle hanno li loro apparati necessarij, organo<br />

pulpito, confessionarij, et altro; have il suo<br />

campanile con tre campane. Vi è la commodità<br />

di due dormitorij, chiostro con due corritori con<br />

suoi pilastri isolati, refettorio, cocina dispenza,<br />

cellaro, et altro; vi è la commodità di un giardino<br />

grande…” 60


Fig. 15 - Scorcio <strong>del</strong>la parte absidale <strong>del</strong>la chiesa <strong>del</strong>la SS. Pietà.<br />

Fig. 16 - Settore nord-ovest <strong>del</strong>la cittadina di Teggiano, con il<br />

castello, il Convento di San Francesco e la Cattedrale.<br />

La configurazione <strong>del</strong>la chiesa descritta è<br />

ancora quella originaria, prima che la ristrutturazione<br />

in chiave barocca ne cambiasse l’aspetto<br />

interno. È presente ancora la cappella di San<br />

Marco, che si apriva sul lato sinistro, sede pro-<br />

SALTERNUM<br />

- 126 -<br />

babilmente di una confraternita, visto che la si<br />

descrive provvista di un coro.<br />

I Francescani non sono l’unico Ordine mendicante<br />

a stabilirsi in Diano, nella seconda metà<br />

<strong>del</strong> Trecento; nel settore orientale <strong>del</strong>la cittadina,<br />

che guarda verso Sala Consilina, gli Eremitani di<br />

Sant’Agostino iniziano a fabbricare il loro convento,<br />

terminando la chiesa nel 1370 61 , secondo<br />

quanto si rileva dalla data <strong>del</strong> portale di ingresso.<br />

La presenza dei Frati è documentata perlomeno<br />

al 1369, quando in un documento <strong>del</strong> 19<br />

dicembre 62 si fa menzione <strong>del</strong>la chiesa di<br />

Sant’Agostino. La dinamica insediativa di questo<br />

nuovo Ordine si può ipotizzare che segua quella<br />

dei Minori, con un iniziale stanziamento in<br />

ricoveri di fortuna e poi la costruzione di una<br />

grande chiesa con convento annesso. La nascita<br />

<strong>del</strong>l’Osservanza francescana, nel XIV secolo,<br />

determina la presenza in Diano di un nuovo<br />

convento, che avrà migliore sorte e fortuna<br />

rispetto al San Francesco, per la benevolenza<br />

<strong>del</strong>la famiglia dei Sanseverino nei suoi confronti.<br />

La posizione <strong>del</strong> nuovo convento francescano<br />

si attesterà alla porta orientale <strong>del</strong>la cittadina, nel<br />

sito che fino al 1471 63 era <strong>del</strong>le Benedettine, in<br />

collocazione strategica rispetto ai due conventi<br />

mendicanti già presenti dei Minori e degli<br />

Agostiniani. Fu per ordine di Sisto IV che le<br />

Benedettine di Diano dovettero trasferirsi al centro<br />

<strong>del</strong>la città 64 , e in conseguenza di ciò venne<br />

più facile alla famiglia dei Sanseverino 65 donare<br />

il luogo sacro ai Minori Osservanti, per il loro<br />

nuovo insediamento nella cerchia muraria. La<br />

piazza d’armi configurata sullo slargo davanti al<br />

monastero <strong>del</strong>le Benedettine e la vicinanza alle<br />

mura urbiche non garantivano alle monache la<br />

sicurezza di una vita contemplativa e di reclusione<br />

senza rischi, per cui la soluzione di spostarsi<br />

al vicinato <strong>del</strong>la Trinità risolse molti problemi di<br />

carattere politico, di mecenatismo e di sicurezza.<br />

La scelta dei Mendicanti di posizionarsi ai<br />

margini <strong>del</strong>la città medioevale orientò anche le<br />

espressioni edilizie dei conventi con le relative<br />

tipologie architettoniche, contribuendo a far sì<br />

che il cenobio divenisse un polo stesso di orientamento<br />

per l’espansione urbana. Il significato<br />

ed il valore <strong>del</strong> convento si espresse così in considerazione<br />

<strong>del</strong>l’importanza che assumeva per la


città scelta dai religiosi: il cenobio diveniva un<br />

luogo di relazioni comuni, quasi un’attrezzatura<br />

al servizio pubblico, utilizzato per la cittadinanza<br />

in diverse occasioni. Nelle chiese si tenevano<br />

assemblee, si rogavano atti notarili, ad esse facevano<br />

capo le comunità forestiere che vi fondavano<br />

le loro cappelle, ed in esse si usava seppellire<br />

i personaggi importanti <strong>del</strong>la politica,<br />

<strong>del</strong>l’economia e <strong>del</strong>la cultura 66 . Non solo, in caso<br />

di calamità naturali o belliche il convento offriva<br />

ospitalità come ospizio e ospedale con l’assistenza<br />

spirituale e materiale. L’insediamento dei<br />

ritiri dei Mendicanti era di frequente sollecitato<br />

da personaggi influenti e costituiva un evento<br />

positivo per tutta la comunità, di carattere spirituale,<br />

oltre a garantire anche una stabilità economica<br />

e sociale. Il convento diveniva così un simbolo<br />

<strong>del</strong>l’autorità insieme a quelli <strong>del</strong> potere<br />

comunale e vescovile. L’insediamento <strong>del</strong>la<br />

comunità, che spesso dava il nome al luogo<br />

stesso ove si attestava (nel corso <strong>del</strong> tempo),<br />

sfruttava la forma disponibile <strong>del</strong> lotto di terreno<br />

concesso o acquistato, formando le strutture<br />

secondo le condizioni <strong>del</strong> luogo, senza imporre<br />

direttive stilistiche e strutturali (agli inizi), tranne<br />

che per le chiese, che seguirono l’assetto tipologico<br />

degli Ordini contemplativi (i Cistercensi, in<br />

particolare, seguirono la tipologia <strong>del</strong>le grange)<br />

costruite con le proprie finanze e i propri mezzi<br />

manuali (i cosiddetti frati costruttori).<br />

Al lungo elenco di parrocchie, monasteri e<br />

ospedali di Diano fin qui menzionati, bisogna<br />

aggiungere anche altre istituzioni caritatevoli e<br />

religiose, tra le quali un posto di rilievo spetta<br />

alla dipendenza <strong>del</strong>l’Ordine Gerosolimitano,<br />

facente capo alla Commenda di San Giovanni in<br />

Fonte di Padula, documentata fino al 1722 67 . In<br />

effetti un luogo di culto dedicato a San Giovanni<br />

Gerosolimitano figura a Diano nel 1597 68 , mentre<br />

l’Ordine omonimo è presente nella cittadina<br />

con fra Giovanni de Adamo già nel 1352 69 . Come<br />

riferito in precedenza la sede <strong>del</strong>l’Ordine<br />

potrebbe essere quella di San Giovanni de<br />

hospitali, riportato dai documenti antichi e per il<br />

quale non sembra azzardato indicarne la sede<br />

nella cappella omonima posta su via Roma, di<br />

fronte alla Cattedrale, per la quale sembra certa<br />

la sua funzione di Battistero <strong>del</strong>la vicina Santa<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 127 -<br />

Fig. 17 - Vecchia fotografia <strong>del</strong> largo <strong>del</strong>la SS.Annunziata, con il<br />

monastero dei Celestini e l’Ospedale di S. Spirito (sulla sinistra).<br />

Maria. L’unica fondazione monastica che non<br />

ebbe seguito fu quella <strong>del</strong> monastero di Santa<br />

Chiara, al vicinato di Sant’Angelo, per il quale il<br />

nobile Giovanni Carrano aveva lasciato nel<br />

testamento l’ordine per gli eredi di innalzare le<br />

strutture <strong>del</strong> cenobio, che avrebbe dovuto accogliere<br />

4 o 5 monache 70 .<br />

Sul finire <strong>del</strong> ‘300 la società religiosa di Diano<br />

era molto vitale e arricchita anche dalla presenza<br />

di confraternite, tra le quali la posizione preminente<br />

era occupata di certo dal sodalizio dei<br />

Disciplinati, documentato nel 1396 71 , e da altre<br />

congreghe, afferenti alle chiese parrocchiali<br />

locali, tra cui figurano Santa Maria Maggiore, San<br />

Nicola e la SS. Annunziata 72 . La confraternita dei<br />

Disciplinati figura anche nell’anno 1397, ma con<br />

il nome di Battenti 73 , che rimanda alla tipica particolarità<br />

nelle processioni penitenziali dei membri<br />

di questo sodalizio di battersi il petto. In<br />

Campania già dal periodo medioevale è diffusa<br />

la presenza di questa congrega, che segna per<br />

Diano una ricchezza in termini religiosi esemplificativa<br />

<strong>del</strong>l’importanza <strong>del</strong>la cittadina assunta<br />

tra il periodo medioevale e quello moderno: per<br />

intenderci, dalla ricostruzione <strong>del</strong>la civitas rupta<br />

(la città retratta) al tramonto <strong>del</strong>la fortuna dei<br />

Sanseverino. Una particolarità finale per evidenziare<br />

con maggiore dettaglio la fortuna economica,<br />

sociale e religiosa di Diano in età medioevale<br />

e moderna è data dalla presenza di una sinagoga,<br />

sita nella località omonima sotto il paese<br />

attuale (distrutta per il passaggio di una strada)<br />

e di cui il ricordo di una fontana a mascherone<br />

di Gorgone, trasportata nell’ex chiesa <strong>del</strong> Corpo


di Cristo (ora non più esistente). L’unica testimonianza<br />

è resa visibile in passato <strong>del</strong>l’antico luogo<br />

di riunione <strong>del</strong>la colonia ebraica dianense.<br />

La presenza <strong>del</strong> luogo di culto ebraico a<br />

Diano è confermata anche dall’attività, agli inizi<br />

<strong>del</strong> XVI secolo, di un banco di pegni, tenuto dai<br />

NOTE<br />

1 A giudizio di Nerone, Pozzuoli, Anzio, Teggiano e Pompei<br />

erano colonie esemplari; il Mommsen nel suo Corpus<br />

Inscriptionum Latinarum, riporta che nella casa dei Vettii<br />

di Pompei esisteva un’iscrizione ora non più visibile che<br />

così recitava: Iudicis Aug(usti) felic(iter)! Puteolos Antium<br />

Tegeano Pompeios: hae sunt verae colonia(e); ARTURO<br />

DIDIER, Teggiano romana, Ricerche storiche, Salerno 1964,<br />

p. 6.<br />

2 Ivi, p. 13.<br />

3 A. DIDIER, Teggiano romana, op. cit., p. 4. Lo storico riferisce<br />

<strong>del</strong>la presenza di un’iscrizione murata nell’atrio laterale<br />

<strong>del</strong>la chiesa di San Giovanni a Napoli, risalente al II<br />

sec. d. C., in cui figura il genitivo plurale Tegianensium, a<br />

testimoniare la presenza e l’importanza <strong>del</strong>la colonia <strong>del</strong><br />

Vallo di Diano; op. cit., p. 7. Documenti già analizzati<br />

nell’Ottocento per la storia romana di Teggiano sono in<br />

Stefano Macchiaroli, Diano e l’omonima sua valle, Ricerche<br />

Storico-Archeologiche, Napoli 1868, Ristampa Anastatica<br />

con L’Ambone <strong>del</strong>la cattedrale di Diano, Napoli 1874,<br />

Teggiano 1995, p. 75 e segg. L’autore riferisce che le porte<br />

romane <strong>del</strong>la città, propriamente dette, erano quelle <strong>del</strong>la<br />

Pietà e <strong>del</strong>l’Annunziata, cit. p. 128. Gli ingressi ulteriori<br />

sono da intendere quindi come piccole porte o postierle.<br />

4 A. DIDIER, Teggiano romana, op. cit., p. 13. Nelle campagne<br />

di Teggiano esistono alcune vestigia che riconducono<br />

alla storia romana <strong>del</strong>la cittadina, tra cui è doveroso menzionare<br />

i ponti di San Marco e <strong>del</strong>l’Anca, nelle omonime<br />

località campestri, il mosaico posto alla base <strong>del</strong> campanile<br />

<strong>del</strong>la parrocchiale di San Marco e frammenti di iscrizioni<br />

e sculture disseminate nelle borgate rurali.<br />

5 R. ALAGGIO, Monachesimo e territorio nel Vallo di Diano,<br />

Salerno 2004, p. 84. I dati sono ripresi da A.S.S. (Archivio<br />

di Stato di Salerno), Fondo Corporazioni Religiose, busta<br />

15, Grancie di Grottaferrata a. 1710.<br />

SALTERNUM<br />

- 128 -<br />

fratelli Daniele e Michele (documentato nel<br />

1510), che prestavano denaro nella cittadina ed<br />

a Sala Consilina, Polla, Sassano, San Giacomo,<br />

Padula, Sanza e Laurino, ricevendone in pegno<br />

dei corrispettivi da restituire con il ritorno <strong>del</strong>la<br />

somma prestata, comprensiva di interessi 74 .<br />

6 I priorati di San Nicola e di Santa Maria di Diano, figurano<br />

nel Medioevo come dipendenze di Cava (R. ALAGGIO,<br />

Monachesimo…, op. cit., p. 83, estratto da P. GUILLAME,<br />

L’Abbaye de Cava, LXXX-LXXXIX).<br />

7 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., p. 168.<br />

8 G. VITOLO, “Dalla pieve rurale alla chiesa ricettizia”, in<br />

Storia <strong>del</strong> Vallo di Diano, Vol. II, Età medievale, Salerno<br />

1982, p. 147. L’autore afferma, a p. 151, che il San Nicola<br />

di Diano nel 1248 era officiato o dal priorato di<br />

Sant’Arsenio o da quello di San Pietro di Polla.<br />

9 A. DIDIER, Regesti <strong>del</strong>le pergamene di Teggiano (1197-<br />

1806), Salerno 2003, p. 10, doc. 22. Altri documenti relativi<br />

al monastero femminile di San Benedetto sono <strong>del</strong> 1349<br />

e <strong>del</strong> 1359, quando viene nominata suor Benedetta, quale<br />

rettrice e badessa <strong>del</strong> monastero; Ivi, pp. 34-35 e 53, doc.<br />

84 e 132.<br />

10 Ivi, p. 98, doc. 239.<br />

11 Il documento riferisce di una vendita a fra Marco<br />

Martusciello di una vigna nel luogo detto “Pastina”, indicativa<br />

<strong>del</strong> sistema di coltivazione in uso nel Cilento già<br />

nell’alto Medioevo. In un altro documento si parla <strong>del</strong>la<br />

chiesa di San Vito alla Bucana per la quale si lasciano 3<br />

tarì per la commissione <strong>del</strong>la statua <strong>del</strong> santo. (A.DIDIER,<br />

Regesti…, op. cit., pp. 34-35 e 69, doc. 84 e 168). La chiesa<br />

di San Vito “de capite Bucane” era suffraganea di<br />

Sant’Andrea già nel 1359 per cui probabilmente non poteva<br />

costituire il centro di un monastero. (Ivi, p. 52, doc.<br />

129).<br />

12 Mons. Sacco enumerava venticinque torri intramezzate<br />

alle mura, di cui la metà esistente al suo tempo. (A. SACCO,<br />

La Certosa di Padula, disegnata, descritta e narrata su<br />

documenti inediti, Ristampa Anastatica, Salerno 1982,<br />

Vol. II, p. 194).<br />

13 La sostanza <strong>del</strong>l’effimero, Gli abiti degli Ordini religiosi in<br />

Occidente, G. ROCCA (a cura di), Roma 2000, p. 202.


14 Ivi, p. 332.<br />

15 A. DIDIER, Regesti…, op. cit., p. 29, doc. 73.<br />

16 Ivi, p. 91, doc. 223.<br />

17 Ivi, p. 263, doc. 638. Il monastero aveva beni anche alla<br />

contrada Sinagoga, il cui toponimo indica la presenza di un<br />

edificio per il culto di una colonia di Ebrei, presente a<br />

Diano, che tra l’altro vi teneva anche un banco di pegni.<br />

18 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., pp. 168-169.<br />

19 Il ricovero dovrebbe coincidere con quello che si appellava<br />

“San Nicola de Carranis” e che figura in un documento<br />

<strong>del</strong> 1 aprile 1545, con Ferdinando Brittonio quale procuratore.<br />

(A. DIDIER, Regesti…, op. cit., p. 191, doc. 461). Nella<br />

descrizione <strong>del</strong>l’Apprezzo <strong>del</strong> feudo di fine Seicento, nella<br />

SS. Pietà era presente una cappella, dedicata a San<br />

Francesco, afferente all’Abbadia di San Nicola <strong>del</strong>la famiglia<br />

Carrani (A.DIDIER, Diano città antica e nobile,<br />

Documenti per la storia di Teggiano, Teggiano 1997, p.<br />

110).<br />

20 “La Lucania sconosciuta”, in A. DIDIER, Diano…, op. cit.,<br />

p. 82. Nel 1420 le chiese di Santa Barbara e Sant’Antonio<br />

dei Carboni risultano dirute (A. DIDIER, Regesti…, op. cit., p.<br />

98, doc. 239).<br />

21 A. DIDIER, Regesti…, op. cit., p. 9, doc. 21.<br />

22 G. VITOLO, “Dalla pieve…”, op. cit., p. 149, ripreso da P.<br />

De Angelis, L’Ospedale di Santo Spirito in Saxia e le sue<br />

filiali nel mondo, Roma 1958, p. 146.<br />

23 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., pp. 152-3.<br />

24 I contatti frequenti <strong>del</strong>l’ospedale dianense con quello<br />

gerarchico romano di Saxia, sono evidenti anche da riferimenti<br />

artistici, infatti Ercole Perillo, pittore nativo di Diano,<br />

affrescò tra il 1575 ed il 1582 i locali <strong>del</strong> ricovero romano<br />

e non è escluso che la presenza <strong>del</strong>l’artista nella città eterna<br />

sia stata favorita da una benevolenza personale <strong>del</strong> priore<br />

di Diano.<br />

25 La sostanza…, op. cit., p. 391.<br />

26 Nel 1408, il 14 novembre, fra Corrado de Trevio, precettore<br />

generale <strong>del</strong>l’Ospedale di Santo Spirito in Saxia di<br />

Roma, autorizza i frati <strong>del</strong>l’Ospedale di Santo Spirito di<br />

Diano ad amministrare i beni <strong>del</strong>l’ospedale stesso (A.<br />

DIDIER, Regesti…, op. cit., p. 92, doc. 227). Tra le fila <strong>del</strong>la<br />

comunità figurano nel XV secolo anche degli oblati, tale è<br />

fra Marino de Cineda nel 1409 (ivi, pp. 92-93, doc. 228).<br />

27 A. DIDIER, Regesti…, op. cit., pp. 65-66, doc. 163.<br />

28 Ivi, p. 130, doc. 320.<br />

29 La sostanza…, op. cit., pp. 252-253.<br />

30 A. DIDIER, Regesti…, op. cit., p. 174, doc. 421.<br />

31 Ivi, pp. 84-85, doc. 207.<br />

32 G. VITOLO, Dalla pieve…, op. cit., p. 131; trattasi <strong>del</strong> privilegio<br />

concesso da Giovanni XIII al vescovo di Paestum-<br />

Capaccio il 23 agosto ed in cui figurano le località di<br />

Matinianu Dianu, Sassanu e Atena, quali centri con altrettante<br />

pievi. Matunianu potrebbe essere la localizzazione<br />

<strong>del</strong>la chiesa di Santa Maria, sempre a Diano, distrutta in<br />

tempi antichi ed aggregata, prima <strong>del</strong> 1149, all’Abbazia<br />

<strong>del</strong>la Trinità di Cava (Ivi, p. 131, ripreso da C. CARLONE, I<br />

principi Guaimario e i monaci cavensi nel Vallo di Diano,<br />

in “Archivi e Cultura”, 10, 1976, pp. 47-60).<br />

33 G. VITOLO, Dalla pieve rurale…, op. cit., p. 130; Santa<br />

Maria era conosciuta come plebs dianensis. Vitolo riprende<br />

la nota dall’archivio <strong>del</strong>l’Abbazia <strong>del</strong>la Trinità di Cava,<br />

XXIII, 54. Più tardi il sacro edificio figura come ecclesia<br />

archipresbiteralis, nelle Rationes Decimarum Italiae, op.<br />

MARCO AMBROGI<br />

- 129 -<br />

cit., p. 131.<br />

34 A. TORTORELLA, La Chiesa di Teggiano-Policastro: alcune<br />

annotazioni storiografiche, in “Annuario 2004-2005”,<br />

Diocesi di Teggiano-Policastro, Castelcivita, 2004, pp. 21 e<br />

22.<br />

35 G. VITOLO, Dalla pieve rurale…, op. cit., p. 135.<br />

36 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., p. 134.<br />

37 Estratto dalle “Memorie Antiche”, raccolte da don Michele<br />

Cavallaro di Teggiano nel 1806, Archivio Vescovile di<br />

Teggiano, ciclostilato, a me pervenuto per mano <strong>del</strong> defunto<br />

e caro don Peppino Cataldo, archivista e bibliotecario<br />

<strong>del</strong>la diocesi.<br />

38 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., p. 133.<br />

39 A. DIDIER, Diano…, op. cit., pp. 104 e segg.<br />

40 A. DIDIER, Regesti…, op. cit.<br />

41 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., p. 165.<br />

42 Nei regesti dei documenti di Teggiano di A. Didier, la<br />

chiesa compare già in un documento <strong>del</strong> 1365 (doc. 157,<br />

p. 62-63), anche se la sua presenza è da ascrivere a data<br />

anteriore. Il culto è ben attestato anche nella vicina Sala<br />

Consilina, ove sussiste ancora l’edificio di culto.<br />

43 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., p. 165<br />

44 G. VITOLO, Dalla pieve …, op. cit., p. 136, documenta che<br />

nel febbraio <strong>del</strong> 1433 il vescovo caputaquense, Francesco<br />

Tomacello, affidò la cura <strong>del</strong>le parrocchie di Sant’Eustachio<br />

e <strong>del</strong> Salvatore all’abate ed ai canonici di Santa Maria. La<br />

discordanza tra i riferimenti di Macchiaroli e Vitolo riguarda<br />

in particolare la parrocchia <strong>del</strong> Salvatore, ulteriore fondazione<br />

ecclesiastica o identificabile con una <strong>del</strong>le altre tre<br />

parrocchie <strong>del</strong>la prima generazione a Diano<br />

45 Riedificata in forme più ampie per la munificenza <strong>del</strong>la<br />

famiglia Carrano, di cui si vedono impressi gli stemmi in<br />

più punti <strong>del</strong> sacro edificio, nell’anno 1526. A. Didier, “La<br />

società <strong>del</strong> Cilento e <strong>del</strong> Vallo di Diano nei secoli XV e XVI,<br />

in «Il Cilento ritrovato», La produzione artistica nell’antica<br />

diocesi di Capaccio, Napoli 1990, p. 36.<br />

46 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., p. 169.<br />

47 Figura ancora in costruzione a fine Seicento l’attuale chiesa<br />

di San Benedetto, secondo la descrizione <strong>del</strong>l’Apprezzo<br />

<strong>del</strong> feudo (A. DIDIER, Diano…, op. cit., p. 109); stando a ciò<br />

la chiesa preesistente alla ricostruzione potrebbe essere<br />

appunto la SS. Trinità.<br />

48 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., pp. 166 e segg.<br />

49 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., p. 131, riferisce <strong>del</strong> crollo<br />

<strong>del</strong> sedile nel 1857, specificando che al suo tempo<br />

(quando compose lo scritto) esisteva il solo spazio.<br />

50 Sepolto nella chiesa <strong>del</strong>la SS. Pietà, in cui se ne riconosce<br />

la lapide terragna, avanti alla cappella dei duchi di Diano,<br />

a forma di torre con pianta centrica poligonale e coperta<br />

con volta ad ombrello.<br />

51 Nello spazio <strong>del</strong> giardino che occupa l’area di sedime<br />

<strong>del</strong>la chiesa è collocata una notevole scultura in pietra raffigurante<br />

un Cristo o un Eterno Padre in mandorla, richiamo<br />

al titolo <strong>del</strong> sacro luogo. Anche il SACCO, La certosa…,<br />

op. cit., Vol. III, p. 106, specifica che Teggiano ai suoi<br />

tempi (considerando il periodo <strong>del</strong>la prima stesura dei<br />

volumi, la fine <strong>del</strong>l’Ottocento), possedeva quattro portici:<br />

di San Martino, <strong>del</strong>la Pietà, <strong>del</strong>l’Annunziata e <strong>del</strong> Corpo di<br />

Cristo, profanato.<br />

52 Al centro <strong>del</strong> timpano sommitale vi fu collocato lo stemma<br />

<strong>del</strong>la città, costituito da una stella a cinque punte con<br />

coda, dove i cinque cunei rappresentano gli altrettanti


casali <strong>del</strong>lo Stato di Diano: Sant’Arsenio, San Pietro, San<br />

Rufo, San Giacomo e Sassano.<br />

53 S. MACCHIAROLI, Diano…, op. cit., pp. 169-170.<br />

54 Ivi, p. 170.<br />

55 R. BONELLI, Nuovi sviluppi di ricerca sull’edilizia mendicante,<br />

in “Gli ordini mendicanti e la città”, a cura di J. RASPI<br />

SERRA, Milano 1990, p. 25.<br />

56 A. DIDIER, Regesti…, op. cit., p. 10, doc. 22.<br />

57 Ivi, p. 13, doc. 30.<br />

58 Ivi, p. 13, doc. 31.<br />

59 Ivi, p. 50-51, doc. 125.<br />

60 A. DIDIER, Diano…, op. cit., p. 111. La descrizione<br />

<strong>del</strong>l’Apprezzo presenta anche le chiese ed i conventi <strong>del</strong>la<br />

SS. Pietà e di Sant’Agostino, oltre agli altri luoghi sacri <strong>del</strong>la<br />

città.<br />

61 È di quella data la fondazione <strong>del</strong>la chiesa, da parte di<br />

Marino de Forza e <strong>del</strong> figlio Antonio, secondo A. SACCO, La<br />

Certosa…, op. cit., Vol. III, p. 93.<br />

62 A. DIDIER, Regesti…, op. cit., pp. 65-66, doc. 163. La fabbrica<br />

<strong>del</strong> convento è ancora in piedi nel dicembre <strong>del</strong> 1397,<br />

op. cit., pp. 84-85, doc. 207.<br />

63 È di quella data la donazione ai frati Minori, da parte dei<br />

Sanseverino (A. SACCO, La certosa…, op. cit., Vol. III, p. 94).<br />

SALTERNUM<br />

- 130 -<br />

64 Il riferimento è di L. MANDELLI, monaco agostiniano, originario<br />

di Diano, che compose negli anni ’70 <strong>del</strong> XVII secolo<br />

la sua opera: La Lucania sconosciuta (in A. DIDIER,<br />

Diano città antica…”, op. cit., p. 81).<br />

65 La tradizione storica lega a Roberto e Giovanna<br />

Sanseverino, nell’anno 1474, la fondazione <strong>del</strong>la SS. Pietà.<br />

A. DIDIER, La società…, op. cit., p. 36.<br />

66 Per una più ampia panoramica sull’insediamento dei francescani<br />

nel territorio si rimanda a: M. AMBROGI,<br />

L’architettura e l’urbanistica francescana nel Vallo di<br />

Diano, in “Il Francescanesimo nel Vallo di Diano”, Atti dei<br />

convegni di Atena Lucana, 28 dicembre 2002 e Polla, 4<br />

aprile 2003, Cava dei Tirreni 2003, pp. 53 e segg.<br />

67 R. ALAGGIO, Monachesimo…, op. cit., p. 132, nota 57.<br />

68 A. DIDIER, Regesti…, op. cit., pp. 298-299, doc. 724.<br />

69 Ivi, p. 45, doc. 110.<br />

70 A. DIDIER, “La società…”, op. cit., p. 36.<br />

71 G. VITOLO, “Dalla pieve…”, op. cit., p. 145 e nota 86.<br />

72 Ivi, p. 145.<br />

73 A. DIDIER, Regesti…, op. cit., p. 85, doc. 207.<br />

74 A. DIDIER, Un banco di pegni di ebrei a Teggiano agli inizi<br />

<strong>del</strong> Cinquecento, in “Rassegna Storica Salernitana”, Nuova<br />

Serie, n. 8, 1987, pp. 185 e ss.


LAURA MAGGIO<br />

Archeosud: notizie dagli scavi<br />

Nel leggere le notizie sui<br />

tanti avvenimenti legati<br />

all’ambito storico-archeologico<br />

<strong>del</strong> 2007, si rintracciano interessanti<br />

spunti che meritano di essere<br />

rimarcati e che coprono, quest’anno<br />

più di altri, l’intero arco cronologico<br />

degli studi di antichità. Intensa<br />

ci è apparsa principalmente l’attività<br />

di studio e restauro di complessi e di<br />

singoli reperti, tra cui risalta l’impegnativo<br />

progetto di valorizzazione<br />

<strong>del</strong> Parco di Veio e <strong>del</strong>le statue di<br />

Apollo ed Eracle, provenienti da<br />

Portonaccio e conservate presso il Museo di<br />

Villa Giulia, a Roma. Dalla stessa area etrusca<br />

proviene anche una nuova interessante tomba a<br />

camera, denominata “dei Leoni Ruggenti” dai<br />

soggetti <strong>del</strong>le pitture in essa rinvenute, databile<br />

verso la fine <strong>del</strong> VII a.C. Dovendo necessariamente<br />

operare una scelta si è preferito, però,<br />

approfondire la disamina di due rinvenimenti<br />

particolarmente interessanti, tanto da richiamare<br />

l’interesse degli studiosi in tutto il mondo.<br />

Per quanto concerne il Pleistocene inferiore<br />

(tra 1,3 ed 1,6 milioni di anni fa) sono proseguite<br />

infatti le ricerche presso Apricena (FG) dove,<br />

in una <strong>del</strong>le note cave di pietra calcarea locale,<br />

un consorzio di cinque Università italiane,<br />

Torino, Roma La Sapienza, Roma Tre, Ferrara e<br />

Firenze, ha evidenziato un nuovo possibile scenario<br />

sulle dinamiche <strong>del</strong> popolamento<br />

<strong>del</strong>l’Europa; esso non risulta essere più legato<br />

in maniera esclusiva ai processi migratori che<br />

dall’Africa settentrionale si sarebbero diretti<br />

verso la Spagna, raggiungendo di lì il continente<br />

europeo, ma piuttosto si è individuata una<br />

Fig. 1 - Apricena (FG), la cava<br />

Pirro (Foto Consorzio<br />

universitario).<br />

- 131 -<br />

diversa direttrice che, dall’Est<br />

<strong>del</strong>l’Africa, attraverso una sorta di<br />

passaggio a Levante, ha percorso il<br />

bacino <strong>del</strong> Mediterraneo, raggiungendo<br />

l’Italia meridionale e da lì il<br />

resto d’Europa. Infatti il recupero di<br />

diversi ciottoli e schegge di selce<br />

attesta la più antica presenza <strong>del</strong>l’uomo<br />

in Europa, comprovando il<br />

possesso di un bagaglio di conoscenze<br />

tecnologicamente complesse,<br />

tanto da saper produrre oggetti di<br />

grande utilità per la vita quotidiana.<br />

Una vasta eco l’ha riscossa, anche<br />

al di là <strong>del</strong>le pubblicazioni scientifiche e di settore,<br />

il rinvenimento in territorio cisgiordano, da<br />

parte <strong>del</strong>l’Università Ebraica di Gerusalemme,<br />

<strong>del</strong>la cosiddetta tomba di Erode il Grande.<br />

Si tratta di un complesso di edifici costruiti a<br />

partire dal 20 d.C. per eseguire le cerimonie<br />

funebri in memoria <strong>del</strong> “re dei Giudei”.<br />

L’ubicazione sulla “collina di Furedidis” era<br />

nota già dalle descrizioni <strong>del</strong>lo storico<br />

Giuseppe Flavio, ma il rinvenimento dei frammenti<br />

di un sarcofago con decorazione a rosette,<br />

entro l’area destinata ad un grande edificio<br />

circolare con podio ed alcune urne affini a<br />

coevi rinvenimenti di Petra, suggerisce l’esatta<br />

ubicazione <strong>del</strong> luogo, distrutto tra il 62 ed il 72<br />

d.C., in connessione con la rivolta dei Giudei<br />

contro i Romani.<br />

Sembra opportuno, infine, accennare ad<br />

alcune riflessioni legate all’acceso dibattito<br />

politico, e quindi culturale, attualmente in<br />

corso sulla figura istituzionale <strong>del</strong>l’archeologo<br />

in Italia, e sulle prospettive lavorative di chi<br />

oggi decide di intraprendere questa carriera.


Fig. 2 - I° congresso nazionale Associazione Nazionale Archeologi<br />

(Foto Laura Maggio).<br />

I concorsi pubblici sono sempre stati piuttosto<br />

ridotti, i giovani perlopiù assolvono un<br />

ruolo minimo e decisamente transitorio nel privato,<br />

affatto garantiti nei diritti essenziali, mentre<br />

i più adulti tendono a cambiar lavoro o ad<br />

affiancarlo ad altro, di fatto rinunciando non<br />

solo alle proprie aspirazioni ma anche e soprattutto<br />

a titoli di studio e professionali piuttosto<br />

elevati, accontentandosi di svolgere incarichi<br />

spesso di livello inferiore alla propria qualifica<br />

pur di vedere garantita una certa continuità<br />

lavorativa.<br />

La mancata pubblicazione di concorsi adeguatamente<br />

calibrati per sanare le gravi carenze<br />

d’organico <strong>del</strong>le Soprintendenze archeologiche,<br />

con la conseguente ineluttabile necessità di<br />

demandare sempre più spesso impegni e obblighi<br />

<strong>del</strong>lo Stato alle Università o a gruppi di<br />

volontari, di fatto negli anni ha ampliato una<br />

lacuna gravissima per l’Italia, dove i Beni Culturali<br />

restano una significativa ed imprescindibile<br />

risorsa economica.<br />

SALTERNUM<br />

- 132 -<br />

Ma il mancato ricambio di personale qualificato<br />

negli uffici periferici <strong>del</strong> Ministero promette<br />

di determinare nel tempo una dequalificazione<br />

dei futuri funzionari, che non potranno<br />

godere <strong>del</strong> privilegio di un contatto diretto con<br />

le esperienze maturate nel passato, non garantendo<br />

quindi alcuna continuità con il pregresso.<br />

In quest’ottica ha fatto molto discutere il<br />

bando di concorso per Dirigente archeologo<br />

promulgato dal Ministero per i Beni Culturali, in<br />

base al quale il titolo di studio richiesto per<br />

accedere ad una qualifica di così alto livello<br />

è…il diploma di laurea triennale!<br />

Già lo scorso marzo a Pompei la problematica<br />

era stata affrontata nel corso <strong>del</strong> I Congresso<br />

nazionale <strong>del</strong>la neonata Associazione<br />

Nazionale Archeologi, che vede raggruppati per<br />

la prima volta gli archeologi operanti in Italia al<br />

fine di ottenere il riconoscimento e la regolamentazione<br />

di questa professione. I Delegati<br />

giunti da tutt’Italia in quella sede hanno proposto<br />

una definizione <strong>del</strong>la nuova figura <strong>del</strong>l’archeologo<br />

alla luce <strong>del</strong>la riforma universitaria,<br />

suggerendo una ripartizione <strong>del</strong>le competenze<br />

specifiche in due livelli: quello <strong>del</strong>la laurea<br />

magistrale e quello <strong>del</strong>la specializzazione post<br />

lauream, che, insieme ad un congruo curriculum<br />

professionale devono corrispondere a mansioni<br />

distinte e direttamente proporzionali ai<br />

titoli conseguiti.<br />

---------------------------www.beniculturali.it<br />

www.archeologi.org<br />

www.patrimoniosos.it<br />

archeosud@yahoogroups.com


O. Bounegrou, Traffiquants et navigateus<br />

sur le Bas Danube et dans le Pont Gauche à<br />

l’époque romaine, Wiesbaden, 2006, pp. 197.<br />

Nella prospettiva <strong>del</strong>la storia economica<br />

antica, l’area occidentale <strong>del</strong><br />

Mar Nero va analizzata come un<br />

organismo complesso che funziona in collegamento<br />

con le zone adiacenti. In realtà, questo<br />

spazio era aperto su due fronti verso il bacino<br />

<strong>del</strong> Mediterraneo: attraverso la Dalmazia, con il<br />

mondo occidentale e, attraverso l’Egeo, verso il<br />

mondo orientale. In tutto ciò, la Propontide<br />

giocava un ruolo fondamentale, perché per il<br />

suo tramite si realizzava il collegamento tra i<br />

Balcani e l’Anatolia, e cioè tra Oriente e<br />

Occidente. In tale quadro di rapporti, il punto<br />

più estremo ad Occidente era rappresentato da<br />

Aquileia, ad Oriente troviamo Tomis sul Mar<br />

Nero, ed all’estremità meridionale c’era<br />

Tessalonica. Al di fuori di questo contesto, non<br />

va sottovalutata l’importanza di Nicomedia, in<br />

Bitinia, che rappresentava il punto di passaggio<br />

per la penetrazione in Anatolia.<br />

Le vie commerciali sopra <strong>del</strong>ineate poggiavano<br />

su una solida tradizione ellenistica, che<br />

funzionava in parallelo, senza apparente rivalità,<br />

con le istituzioni romane: le strutture <strong>del</strong>l’impero<br />

romano rappresentavano un prolungamento,<br />

su un piano superiore, <strong>del</strong> mo<strong>del</strong>lo<br />

economico di tradizione ellenistica.<br />

L’interesse dimostrato da Roma per l’area<br />

occidentale <strong>del</strong>le rive <strong>del</strong> Mar Nero era motivato<br />

dal contesto geopolitico <strong>del</strong>le tre provincie,<br />

la Mesia, la Tracia, la Dacia: provincie che vennero<br />

integrate abbastanza rapidamente nell’insieme<br />

generale <strong>del</strong>la vita economica <strong>del</strong>l’Impero<br />

romano.<br />

GABRIELLA D’HENRY - ALFREDO PLACHESI<br />

Recensioni<br />

- 133 -<br />

Fig. 1 -<br />

Colonna<br />

Traiana:<br />

l’Imperatore<br />

si imbarca<br />

per la<br />

seconda<br />

campagna<br />

dacica.<br />

Queste, in sintesi, sono le conclusioni esposte<br />

dallo storico rumeno O. Bounegrou, nel suo<br />

ottimo trattato Trafiquants et navigateurs sur le<br />

Bas Danube et dans le Pont Gauche à l’époque<br />

romaine, pubblicato a Wiesbaden nel 2006, nell’ambito<br />

<strong>del</strong>la collana “PHILIPPIKA”, Marburger<br />

altertumskundliche Abhandlungen, 9, e che noi<br />

abbiamo avuto la fortuna di poter esaminare per<br />

una recensione. Tanto più importante è questo<br />

contributo, in quanto abbiamo l’occasione di<br />

osservare un episodio <strong>del</strong>la conquista romana in<br />

Europa non dal punto di vista <strong>del</strong>l’Urbe, ma da<br />

quello di un’area periferica che è stata oggetto<br />

di conquista e che è la patria <strong>del</strong>lo studioso.<br />

Il volume, corredato da una ricca bibliografia,<br />

da indici analitici e dalla trascrizione di tutti i<br />

testi epigrafici che sono serviti di supporto alla<br />

ricerca, è suddiviso in diversi capitoli che verranno<br />

esaminati partitamente in questa sede.


Fig. 2 - M. BARATTA - P. FRACCARO, Atlante storico - fasc. primo: la Mesia,<br />

La Tracia e la Dacia in età imperiale romana.<br />

Nell’introduzione, lo studioso afferma che già<br />

nella seconda metà <strong>del</strong> II secolo a.C. alcuni<br />

avvenimenti storici sono alla base di quel processo<br />

di integrazione <strong>del</strong>lo spazio balcanico<br />

nelle strutture amministrative romane; ma, con<br />

la creazione graduale <strong>del</strong>le tre provincie, di<br />

Mesia, di Tracia e di Dacia, l’equilibrio si modifica,<br />

con il prolungamento <strong>del</strong>l’asse commerciale<br />

fino al Mar Nero.<br />

Con il primo capitolo, il Bounegrou fa un<br />

excursus storico, percorrendo la storia <strong>del</strong>la<br />

nascita <strong>del</strong>le provincie romane nell’area nordorientale,<br />

iniziando con l’istituzione <strong>del</strong>le provincie<br />

di Macedonia ed Illiria; quindi, in occasione<br />

<strong>del</strong>le guerre mitridatiche, l’interesse di Roma<br />

si sposta ancora più ad Est. Dapprima, l’area <strong>del</strong><br />

Basso Danubio era ancora scarsamente controllata;<br />

ma già Giulio Cesare, dopo la battaglia di<br />

Farsalo, avrebbe voluto espandersi in direzione<br />

<strong>del</strong> regno geto-dacico, però non ne ebbe il<br />

tempo. Con l’avvento di Augusto, l’interesse per<br />

queste terre si fa sempre più pressante, interesse<br />

che si concretizza nell’istituzione <strong>del</strong>le tre<br />

provincie: di Mesia, tra il 13 a.C. ed il 15 d.C.; di<br />

Tracia, il 46 d.C.; infine di Dacia, già nel corso<br />

<strong>del</strong> II secolo d.C.<br />

Il secondo capitolo (“Denominazione degli<br />

armatori nelle fonti letterarie ed epigrafiche greche<br />

e latine”) è, con il terzo, la parte più significativa<br />

<strong>del</strong> trattato. Anzitutto, lo studioso analizza<br />

i termini usati nelle fonti per indicare, sia in<br />

SALTERNUM<br />

- 134 -<br />

greco che in latino, i navigatori. Le<br />

nostre conoscenze sono ancora piuttosto<br />

sommarie su questo argomento, ma<br />

comuque lo storico fa un tentativo di<br />

decrittare alcuni termini, quali il greco<br />

naúklhroß, che probabilmente corrisponde,<br />

in linea di massima, al latino<br />

navicularius. Questo termine, in<br />

ambiente romano, indicava un imprenditore<br />

di trasporti marittimi, sottoposto<br />

ad un sistema corporativo e forse anche<br />

legato ad un servizio per l’annona,<br />

mentre il corrispettivo greco indicava<br />

probabilmente un imprenditore marittimo<br />

indipendente; difatti, i commercianti<br />

nel mondo greco-orientale non seguivano<br />

dei criteri rigorosi, le loro funzioni<br />

erano molto elastiche, e godevano di una<br />

notevole mobilità.<br />

Il terzo capitolo (“Denominazione dei mercanti<br />

nelle fonti letterarie ed epigrafiche greche<br />

e latine”), tratta <strong>del</strong>la terminologia degli operatori<br />

di commercio. In base alla documentazione<br />

scritta, sembrerebbe che il termine negotiatores,<br />

corrispondente in linea di massima al greco<br />

Émporoi, si riferisca ai grandi mercanti, quelli<br />

che praticavano il commercio sulle lunghe<br />

distanze. Invece, il termine mercatores, corrispondente<br />

al greco káphloi, indicava i commercianti<br />

al dettaglio. Ma con il passare dei secoli,<br />

questa distinzione si fa sempre più sfumata. Ad<br />

un’attenta analisi <strong>del</strong>le sfere di attività dei grandi<br />

mercanti, appare chiaro che la loro attestazione<br />

nella zona <strong>del</strong> Basso Danubio è essenziale<br />

per l’individuazione <strong>del</strong>le grandi linee commerciali,<br />

viste nel contesto <strong>del</strong>le aree economiche<br />

con cui le provincie danubiane erano in contatto.<br />

Un discorso a parte va fatto per i commercianti<br />

in dettaglio, a cui si possono avvicinare i<br />

venditori che erano anche produttori in proprio.<br />

In questo commercio di tipo locale era molto<br />

più forte la tradizione ellenistica di lunga durata;<br />

e ciò si può dedurre anche dalla loro presenza<br />

più numerosa in Tracia e nella Mesia<br />

Inferiore, che erano le zone in cui si sentiva più<br />

forte l’influsso greco-orientale; nella Mesia<br />

Superiore e nella Dacia, invece, i mo<strong>del</strong>li orga-


nizzativi romani erano prevalenti, anche se il<br />

controllo non era assoluto.<br />

Dai documenti, inoltre, si ricava la presenza<br />

di una particolare comunità, quella dei cives<br />

romani consistentes: di questa comunità, che<br />

compare già nel II secolo a.C., non si conosce<br />

bene la funzione. Lo studioso avanza l’ipotesi<br />

che si tratti di comunità italiche stabilite in<br />

Oriente, che erano in concorrenza con i mercanti<br />

orientali, ed avevano probabilmente anche un<br />

incarico di controllo da parte <strong>del</strong>le strutture<br />

romane; essi non erano quasi mai assimilati alla<br />

gente <strong>del</strong> luogo ed in un certo senso diffondevano<br />

la cultura latina; dovevano essere organizzati<br />

secondo un mo<strong>del</strong>lo corporativo ed agivano<br />

anche in zone rurali, forse allo scopo di attuare<br />

una politica di colonizzazione.<br />

Il quarto capitolo tratta di navigazione e di<br />

mezzi marittimi e fluviali di trasporto.<br />

Dal 1895, data <strong>del</strong>la scoperta <strong>del</strong> mosaico di<br />

Althiburus in Tunisia, su cui sono rappresentate<br />

ventiquattro navi, di cui ventidue con i nomi<br />

indicati a fianco, si conoscono i nomi di molte<br />

imbarcazioni antiche; anche le esplorazioni subacquee<br />

hanno dato il loro contributo, anche se<br />

su questo argomento ci sono ancora molti elementi<br />

oscuri.<br />

In ogni modo, le grandi navi a vela che avevano<br />

funzioni commerciali interprovinciali venivano<br />

chiamate corbitae; esse erano onerarie e,<br />

quando trasportavano cereali, venivano chiamate<br />

frumentariae; queste ultime erano al servizio<br />

<strong>del</strong>l’annona per recare approvigionamenti nelle<br />

città <strong>del</strong>l’Impero, e venivano sorvegliate da militari.<br />

Esse sono rappresentate su alcuni rilievi di<br />

Tomis e di Histria.<br />

Abbiamo pure la testimonianza <strong>del</strong>le naves<br />

lapidariae, che trasportavano pietre e marmi dalla<br />

cave <strong>del</strong> bacino egeo verso le aree danubiane.<br />

Navi più piccole servivano per il controllo dei<br />

porti, per il trasbordo di materiale dalle navi più<br />

grandi che restavano alla fonda, o anche per la<br />

pesca: esse venivano chiamate musculi, ed<br />

erano usate anche per scopi militari. Le scaphae<br />

erano invece imbarcazioni ausiliarie.<br />

Esiste la documentazione anche di navi a<br />

funzioni miste (le naves auctariae), che risalivano<br />

i corsi d’acqua, e spesso trasportavano anfo-<br />

GABRIELLA D’HENRY - ALFREDO PLACHESI<br />

- 135 -<br />

re, e di navi prettamente fluviali, cui forse accennano<br />

le imbarcazioni rappresentate numerose<br />

sulla Colonna Traiana.<br />

La presenza documentata di tutte queste navi<br />

prova l’intensità di scambi nei porti danubiani<br />

più importanti, Histria, Tomis, Callatis, Odessos,<br />

che si ponevano come punti di diffusione verso<br />

l’interno dei prodotti trasportati, e, con questi, di<br />

cultura materiale.<br />

Per quanto riguarda le basi navali, resti e<br />

tracce di porti si sono trovati a Callatis, Tomis,<br />

Histra; altri attracchi esistevano certamente<br />

lungo il corso <strong>del</strong> Basso Danubio, ma non ne è<br />

rimasta alcuna traccia: di essi, il più importante<br />

era quello di Noviodunum, situato vicino ad uno<br />

stanziamento militare.<br />

Nel sesto capitolo, lo studioso affronta il tema<br />

<strong>del</strong>l’organizzazione doganale.<br />

Anche su questo argomento non si sa ancora<br />

molto, ma se il rinvenimento ad Efeso di una<br />

lunga ed importante iscrizione, la lex Portori<br />

Asiae, battezzata per assonanza con il<br />

Monumentum Ancyranum di Augusto il<br />

Monumentum Ephesenum, ci fa capire qualcosa<br />

di più. Questo documento è estremamente lungo<br />

e si riferisce alla Provincia d’Asia; fu elaborato nel<br />

75 a.C, l’anno prima <strong>del</strong>la terza guerra mitridatica,<br />

e venne rivisto varie volte, fino al 62 d.C., in<br />

età neroniana. In esso si nominano i publicani,<br />

gli esattori <strong>del</strong>le tasse che erano localizzati sulla<br />

due rive <strong>del</strong> Bosforo, ed il centro doganale per la<br />

Propontide, che era situato presso lo stretto, a<br />

Calcedonia. Dal documento si ricava che il controllo<br />

romano in Asia Minore e nel bacino egeo<br />

era già molto forte nel I secolo a.C.; ma il suo<br />

regolamento rigido era anche un espediente politico,<br />

fatto per mettere in difficoltà Mitridate: nella<br />

zona <strong>del</strong> Bosforo non si applicava, infatti, alcuna<br />

esenzione doganale, che veniva applicata<br />

invece in altre realtà, come l’area danubiana. Da<br />

altre documentazioni si può dedurre, infine, che<br />

nella zona <strong>del</strong> Basso Danubio esisteva un organismo<br />

doganale autonomo.<br />

Copia <strong>del</strong> trattato <strong>del</strong> Bounegrou è depositata<br />

presso la Biblioteca <strong>del</strong> <strong>Gruppo</strong> <strong>Archeologico</strong> di<br />

Salerno, per permettere la lettura a chi volesse<br />

approfondire l’interessante argomento.


Adriano CAFFARO - Giuseppe<br />

FALANGA, Il libellus di Chicago.<br />

Un ricettario veneto di arte, artigianato<br />

e farmaceutica (secolo<br />

XV), ArciPostiglione, Salerno<br />

2005, pp. 175.<br />

Lo studio storico <strong>del</strong>le<br />

tecniche artistiche non<br />

può non considerare i<br />

fattori ideali e materiali che, in<br />

una data epoca, hanno determinato<br />

la genesi e la fortuna <strong>del</strong>l’opera<br />

d’arte. Tale considerazione<br />

ha un rilievo storiografico particolare,<br />

perché il “momento” teorico<br />

e quello pratico trovano<br />

nella trattazione storica <strong>del</strong>l’arte una forma<br />

spontanea di coniugazione, che può riflettere il<br />

naturale dispiegarsi <strong>del</strong>le vicende culturali.<br />

Nel XX secolo, la storia sociale <strong>del</strong>l’arte, alla<br />

luce <strong>del</strong>le acquisizioni scientifiche relative anche<br />

alla cultura materiale, ha inteso esprimere tale<br />

assunto in termini d’opportunità metodologica,<br />

invitando a considerare insieme all’interazione<br />

tra gli artisti, i mecenati, i committenti ed il pubblico<br />

anche l’altra importante tripartizione esistente<br />

tra la disponibilità di taluni materiali in<br />

un’area geografica, la competenza tecnica richiesta<br />

all’artista-artigiano nel lavorare la materia e le<br />

condizioni socio-economiche in cui il lavoro<br />

<strong>del</strong>l’arte poteva esprimersi al meglio.<br />

Questa considerazione ha permesso, insomma,<br />

di disegnare una fisionomia più nitida <strong>del</strong><br />

contesto dinamico in cui s’è realizzato il perfezionamento<br />

tecnico <strong>del</strong>la produzione artistica. È<br />

quanto tenta di dimostrare l’ultima impresa di<br />

studi che ha oggi il suo referente divulgativo<br />

nella collana “L’officina <strong>del</strong>l’arte”, ideata e diretta<br />

da Adriano Caffaro per le “Edizioni Arci<br />

Postiglione”. Lo studioso salernitano, da anni<br />

impegnato nella ricerca <strong>del</strong>le fonti letterarie <strong>del</strong>l’arte<br />

medievale e moderna, è andato a ritroso<br />

nel tempo lungo i sentieri <strong>del</strong>l’ermeneutica<br />

testuale per giungere a dischiudere ‘mondi’ inesplorati<br />

<strong>del</strong>l’arte e <strong>del</strong>l’artigianato. Capire come<br />

la conoscenza tecnica e l’ambiente sociale, in<br />

cui essa maturò, si sono entrambe sedimentate<br />

SALTERNUM<br />

- 136 -<br />

nelle tracce talvolta lacunose dei<br />

documenti letterari è la sfida sottesa<br />

a questo ambizioso progetto<br />

editoriale.<br />

L’ultimo volume in catalogo,<br />

scritto da Caffaro insieme a<br />

Giuseppe Falanga, segue questa<br />

luminosa scia di domande per<br />

darne una risposta. Si tratta de Il<br />

libellus di Chicago. Un ricettario<br />

veneto di arte, artigianato e farmaceutica<br />

(secolo XV), terzo<br />

numero <strong>del</strong>la nuova Collana<br />

inaugurata da entrambi gli storici<br />

con Il papiro di Leida. Un<br />

documento di tecnica artistica e<br />

artigianale <strong>del</strong> IV secolo d. C. e<br />

arricchita dal prezioso volume di Adriano<br />

Caffaro De clarea. Manuale medievale di tecnica<br />

<strong>del</strong>la miniatura (secolo XI).<br />

Il nuovo libro propone una lettura, per l’appunto<br />

“integrata”, di un testo latino quattrocentesco,<br />

presumibilmente composto in area veneta,<br />

in ambiente speziale, trascritto e pubblicato<br />

nel 1985 da Domenico Bommarito, ora migliorato<br />

nella trascrizione, tradotto in lingua italiana e<br />

commentato dai due studiosi salernitani. A testimoniare<br />

la dinamicità <strong>del</strong> contesto genetico <strong>del</strong>l’arte<br />

è, in questo caso, una fonte letteraria che<br />

potremmo definire “anfibia”, giacché essa vive<br />

<strong>del</strong>la duplice natura che oggi consente di associare<br />

un giudizio di valore all’originaria funzione<br />

pragmatica per cui il testo stesso fu redatto.<br />

Si tratta, infatti, di un “libellus”, ossia di un<br />

ricettario, in cui trovano spazio ben 90 prescrizioni<br />

il cui ambito applicativo non è invero di<br />

facile definizione, perché le nozioni raccolte<br />

nelle singole ricette fanno riferimento a campi<br />

disparati <strong>del</strong> sapere, oscillanti tra l’arte e l’artigianato,<br />

la cosmetica e la farmaceutica. Un esempio?<br />

La prima ricetta indica come rendere azzurra<br />

l’acqua, la seconda suggerisce come tingere i<br />

capelli di nero o rosso scuro. Tra un rigo e l’altro,<br />

la terza slitta nel campo <strong>del</strong>la miniatura ed<br />

indica come scrivere lettere d’oro, d’argento e di<br />

rame, seguita dalla quarta che riporta come far<br />

scomparire quelle lettere. La quinta ricetta arriva<br />

a suggerire in un sol tempo come cancellare le


lettere dalla pergamena e come sbiancare i<br />

denti! Con la sesta si passa a lucidare finestre...<br />

Insomma, la presenza simultanea di tecniche e<br />

materiali eterogenei risponde ad un ordine concettuale<br />

che, a quanto pare, non segmenta le<br />

competenze artigianali in attività specialistiche,<br />

bensì trattiene lo spettro <strong>del</strong>le contingenze in cui<br />

quelle competenze si misuravano ed affinavano<br />

nella pratica quotidiana <strong>del</strong> mestiere. Del resto,<br />

quest’ordine testuale tradisce una consuetudine<br />

che, pur variando nel tempo, non ha mai smarrito<br />

alcuni tratti tipici <strong>del</strong>la tradizione ricettaria.<br />

Basti guardare alla varietà <strong>del</strong>le materie naturali<br />

citate nel testo, recuperate in loco o importate<br />

dall’Oriente: dall’aloe al buon miele, dal fico<br />

all’allume saccarino, dall’incenso alla resina di<br />

lentisco, dal bolo armeno alla gomma amigdali-<br />

GABRIELLA D’HENRY - ALFREDO PLACHESI<br />

- 137 -<br />

na. Il più <strong>del</strong>le volte, però, sono materie che<br />

ritroviamo già sui deschi <strong>del</strong>le officine monastiche<br />

medievali. Per non parlare <strong>del</strong>le tecniche:<br />

quella di bollire le sostanze in aceto, ad esempio,<br />

era già nota a Plinio il Vecchio, agli alchimisti<br />

egizi <strong>del</strong>l’età tardo-antica, ai Romani e ai<br />

monaci artigiani <strong>del</strong>l’Europa medievale.<br />

L’edizione <strong>del</strong> libellus, curata da Caffaro e<br />

Falanga, è pregevole, quindi, per la corretta<br />

impostazione metodologica che non manca di<br />

integrare l’analisi dei contenuti specifici emergenti<br />

dal testo in una più ampia panoramica,<br />

che sovente dilata le proprie coordinate tanto in<br />

senso sincronico, con lo sguardo rivolto a ciò<br />

che c’è “dietro” la formula ricettaria, quanto in<br />

senso diacronico, allo scopo di ricostruire il filone<br />

evolutivo cui quel testo appartiene.


BIANCA<br />

CANCELLARE


CORINNA FUMO<br />

L’enigma degli avori medievali<br />

da Amalfi a Salerno<br />

La mostra “L'enigma degli avori medievali<br />

da Amalfi a Salerno” (20 Dicembre<br />

2007 - 30 Aprile 2008), cofinanziata dal<br />

Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dalla<br />

Regione Campania con fondi <strong>del</strong>l’Unione<br />

Europea, nasce da un'idea progettuale di rilevante<br />

interesse storico-artistico, che punta a<br />

ricostruire il tessuto figurativo <strong>del</strong>la lavorazione<br />

<strong>del</strong>l’avorio fra Amalfi e Salerno fra XI e XII secolo.<br />

Curata dal prof. Ferdinando Bologna d’intesa<br />

con la Soprintendenza per i B.A.P.P.S.A.E. di<br />

Salerno ed Avellino e giunta ormai ad un avanzato<br />

livello operativo, essa riunirà le non poche<br />

opere eburnee prodotte nella regione fra Amalfi<br />

e Salerno, due dei principali centri mediterranei<br />

di lavorazione <strong>del</strong>l’avorio, caratterizzati da un’elevata<br />

raffinatezza tecnica ed ideologica.<br />

Le sale <strong>del</strong> Museo Diocesano di Salerno, che<br />

per l’occasione saranno oggetto di una completa<br />

ristrutturazione, ospiteranno le varie sezioni<br />

<strong>del</strong> percorso espositivo, il cui nucleo principale<br />

verterà intorno alle pregevoli tavolette che compongono<br />

il ciclo Vetero - Neo Testamentario<br />

salernitano. Unico al mondo nel suo genere,<br />

questo insieme di 69 tavolette, narranti episodi<br />

biblici ed evangelici, rappresenta l’espressione<br />

di una fervente congiuntura culturale che, attraverso<br />

una profonda conoscenza <strong>del</strong>la teologia<br />

medievale e <strong>del</strong>l’iconografia paleocristiana, racchiude<br />

in sé elementi stilistici di assoluta novità<br />

in campo artistico, dove in maniera rinnovata<br />

trovano sintesi istanze di matrice carolingia,<br />

ottoniana e bizantina, con particolari riferimenti<br />

alla cultura islamica. Il risultato è stata una<br />

straordinaria e complessa opera di dimensione<br />

europea oltre che mediterranea.<br />

- 139 -<br />

Salerno. Museo Diocesano “San Matteo”.<br />

Tavoletta d’avorio: Visitazione; I Magi presso Erode (fine <strong>del</strong>l’XI sec.).<br />

A questa sezione si lega tutta una serie di<br />

pezzi che, anche se in maniera diversa, manifestano<br />

l’ampio raggio di influenza culturale <strong>del</strong>la<br />

bottega salernitana o comunque amalfitana e<br />

che nel corso dei secoli successivi sono andati<br />

ad arricchire le collezioni di diversi musei stra-


nieri. Proprio i Direttori di questi Musei, ben<br />

consapevoli <strong>del</strong>l’importanza culturale <strong>del</strong>l’evento,<br />

hanno permesso alle opere di essere nuovamente<br />

riunite insieme, anche solo temporaneamente.<br />

Fra questi pezzi, in particolare, rientrano nel<br />

ciclo <strong>del</strong> Vecchio Testamento la tavoletta con la<br />

Creazione degli uccelli, dei pesci e degli animali<br />

terrestri, segata in due parti, una <strong>del</strong>le quali conservata<br />

al Museo <strong>del</strong>le arti applicate di Budapest<br />

e l’altra al Metropolitan Museum of Art di New<br />

York. Notevoli pure i rilievi con il Fratricidio di<br />

Caino e Abele e l’ammonizione di Caino <strong>del</strong><br />

Museo <strong>del</strong> Louvre di Parigi e i due medaglioni<br />

quadrati raffiguranti i simboli degli evangelisti<br />

Matteo e Giovanni, i quali, insieme con la<br />

Visitazione, giungeranno dall’Hermitage di San<br />

Pietroburgo.<br />

Tavoletta eburnea. Creazione degli uccelli, dei pesci e degli animali terrestri.<br />

(Parte conservata a Budapest, Museo <strong>del</strong>le Arti Applicate).<br />

Astuccio d'avorio amalfitano. New York, Metropolitan Museum of Art.<br />

SALTERNUM<br />

- 140 -<br />

Nella sezione “amalfitana”, ossia quella<br />

dedicata ad opere attribuibili alla bottega di<br />

Amalfi, si collocano certamente la cassetta<br />

eburnea proveniente dall’Abbazia di Farfa, consegnata<br />

già alle cure dei Funzionari <strong>del</strong>la<br />

Soprintendenza per un intervento di restauro,<br />

nonché l’astuccio eburneo proveniente dal<br />

Dipartimento di Arti Islamiche <strong>del</strong> Metropolitan<br />

Museum of Art di New York, entrambe sicuramente<br />

commissionate da amalfitani. La prima,<br />

infatti, reca il nome di Mauro de Maurone<br />

Comite, ricco mercante amalfitano. Il secondo,<br />

invece, porta sui lati corti il nome di Manso<br />

figlio di Tauro.<br />

L’individuazione di una bottega amalfitana<br />

consente l’apertura di un filone di ricerca<br />

orientato verso l’arte saracena e fatimida, come<br />

si evince soprattutto dall’astuccio di New York<br />

e dall’olifante <strong>del</strong> Museo di Cluny di Parigi.<br />

Altre due cassette di avorio saranno presenti<br />

in mostra ed in particolare si tratta <strong>del</strong>la cassetta<br />

con figure di Santi <strong>del</strong> Victoria and Albert<br />

Museum di Londra e una cassetta con scene di<br />

caccia proveniente dalla Basilica di San<br />

Servatius di Maastricht.<br />

Nella complessa questione figurativa fra<br />

Amalfi e Salerno si collocano gli avori provenienti<br />

dal Museo <strong>del</strong> Castello Sforzesco di<br />

Milano, dal Victoria and Albert Museum di<br />

Londra (Sogno di San Giuseppe, la<br />

Presentazione al tempio, le Nozze di Cana) e<br />

da altri Musei, appartenenti alla cosiddetta<br />

Cattedra di Grado, nei quali si nota una forte<br />

tangenza iconografica con la serie evangelica<br />

di Salerno, che diventa addirittura identica<br />

nella Natività <strong>del</strong>la Dumbarton Oaks Collection<br />

di Washington.


Presenti alla mostra sono anche altri musei<br />

italiani, tra i quali il Museo <strong>del</strong> Bargello di<br />

Firenze e il Museo Civico medievale di<br />

Bologna. Nessuna notizia positiva è purtroppo<br />

giunta dai musei tedeschi, i quali sono custodi<br />

di opere che fino agli anni Cinquanta <strong>del</strong> secolo<br />

scorso erano parte integrante <strong>del</strong> ciclo di<br />

Salerno.<br />

Il repertorio figurativo è arricchito, inoltre,<br />

da altre sezioni nelle quali saranno esposti una<br />

serie di oggetti eburnei come gli olifanti, grandi<br />

corni d’avorio, completamente intarsiati,<br />

ricavati dalla zanna <strong>del</strong>l’elefante e usati a<br />

seconda dei casi come strumento musicale, di<br />

richiamo oppure come reliquiario. Notevoli<br />

sono gli olifanti prestati per questo evento:<br />

l’Olifante di Cluny (Francia), quello di Boston,<br />

l’Olifante <strong>del</strong> Tesoro <strong>del</strong>la Basilica <strong>del</strong> Pilar di<br />

Saragoza (Spagna) e l’ Olifante <strong>del</strong>l’Abbazia di<br />

Muri <strong>del</strong> Kunsthistorisches Museum di Vienna<br />

(Austria).<br />

Altri oggetti rilevanti che completano le<br />

varie sezioni sono un altarolo a tre ante raffigurante<br />

l’Ascensione di Cristo e numerosi<br />

Crocifissi, alcuni dei quali appartengono a collezionisti<br />

privati. La dimostrazione, invece, di<br />

quanto l’uso <strong>del</strong>l’avorio fosse attestato non solo<br />

in ambito religioso ma anche laico e ludico, è<br />

favorita dalla presenza di alcuni pezzi <strong>del</strong> gioco<br />

degli scacchi di provenienza italiana.<br />

Fanno da corollario alle opere di avorio, ma<br />

legati ideologicamente ad esse, dei documenti<br />

a stampa che arricchiscono la sezione <strong>del</strong>le<br />

fonti e <strong>del</strong>le ipotesi di ricostruzione, una porta<br />

di legno proveniente da Celano e due frammenti<br />

scultorei <strong>del</strong> Museo <strong>Archeologico</strong> di<br />

Venosa, il trono ligneo di Montevergine, che<br />

presentano evidenti similitudini con le decorazioni<br />

realizzate negli avori.<br />

Un anticipo <strong>del</strong>la mostra si è potuto avere<br />

nella recente manifestazione, tenutasi presso il<br />

Museo Diocesano, con la presentazione <strong>del</strong><br />

restauro e relativa esposizione <strong>del</strong>la cassetta<br />

eburnea di Farfa.<br />

L'opera costituisce un fondamentale tassello<br />

per gli sviluppi <strong>del</strong>la lavorazione eburnea nella<br />

regione, in quanto fu commissionata dal ricco<br />

e potente mercante amalfitano Mauro de<br />

CORINNA FUMO<br />

- 141 -<br />

Maurone. Quest'ultimo offrì il cofanetto-reliquiario<br />

all'abbazia di Farfa, in provincia di<br />

Rieti, noto santuario mariano.


BIANCA<br />

CANCELLARE


CORINNA FUMO<br />

La presentazione <strong>del</strong> restauro <strong>del</strong>la cassetta eburnea<br />

di Farfa al Museo Diocesano<br />

Dal 14 al 30 Settembre presso il Museo<br />

Diocesano di Salerno è stata esposta<br />

la celebre cassetta d’avorio di Farfa,<br />

dal nome <strong>del</strong>l’Abbazia benedettina in provincia<br />

di Rieti dov’è conservata. Si tratta di una straordinaria<br />

opera d’arte con la quale si dimostra la<br />

nascita di una bottega <strong>del</strong>l’avorio in costa<br />

d’Amalfi. Essa, infatti, fu commissionata dal<br />

potente mercante amalfitano Mauro, appartenente<br />

alla nobile famiglia dei Maurone Comites,<br />

il quale ha fatto incidere sui lati lunghi una preghiera<br />

alla Vergine, di protezione per sé e per i<br />

suoi sei figli di cui riporta il nome. La scritta epigrafica<br />

fornisce un terminus post quem non alla<br />

datazione <strong>del</strong>l’opera, in quanto al 1072 i figli di<br />

- 143 -<br />

Mauro, Giovanni e Mauro, risultano morti nella<br />

guerra con i Longobardi di Salerno. Il carattere<br />

mariano <strong>del</strong> cofanetto, forse una piccola urnareliquiario,<br />

si evince chiaramente anche dalle<br />

immagini scolpite a rilievo, fra le quali la più<br />

rappresentativa è quella <strong>del</strong>la Koimésis (la dormizione<br />

di Maria), raffigurata su tutto un lato<br />

lungo, e in coerenza con la Crocifissione e<br />

l’Ascensione di Cristo presenti sull’altro lato.<br />

Da un punto di vista storico-artistico la scritta<br />

inserisce l’opera a pieno titolo nel dibattito<br />

sull’esistenza di una bottega specializzata nella<br />

lavorazione <strong>del</strong>l’avorio ad Amalfi. Altro elemento<br />

che certamente radica in maniera inequivocabile<br />

la manifattura <strong>del</strong>la cassetta all’ambiente


amalfitano è la presenza, nella scena<br />

<strong>del</strong>l’Annuncio ai pastori, di un suonatore di<br />

liuto, strumento conosciuto solo in una città<br />

come Amalfi che, nell’XI secolo, era al centro<br />

dei commerci con l’Oriente bizantino. Si tratta di<br />

una <strong>del</strong>le principali scoperte venute fuori dallo<br />

studio che ha accompagnato la manifestazione.<br />

Il restauro <strong>del</strong>la cassetta è ancora in corso e<br />

viene effettuato dalla Soprintendenza per i<br />

B.A.P.P.S.A.E. di Salerno e Avellino in collaborazione<br />

con l’Opificio <strong>del</strong>le Pietre Dure di Firenze.<br />

Esso costituisce un raffinato anticipo <strong>del</strong>la<br />

SALTERNUM<br />

- 144 -<br />

Mostra internazionale “L'enigma degli avori<br />

medievali da Amalfi a Salerno”, prossima all’inaugurazione<br />

(20 Dicembre 2007).<br />

Sebbene il confronto con gli avori <strong>del</strong> nostro<br />

Museo Diocesano, di manifattura certamente più<br />

raffinata e intellettualmente più elevata, sia<br />

caratterizzato da un evidente divario, la cassetta<br />

di Farfa costituisce sicuramente l’avvio di un<br />

percorso tecnico e stilistico nell’area fra Amalfi e<br />

Salerno che trova nella materia eburnea un<br />

momento di espressione figurativa molto significativo.


ROSA ALBA TRUONO IANNONE<br />

Appunti di viaggio:<br />

Arzachena, tra antiche pietre megalitiche<br />

Nel territorio di Arzachena, tra i mirti, i<br />

ginepri ed i cisti <strong>del</strong>la sarda Gallura,<br />

misteriose e suggestive pietre granitiche<br />

si ergono in forma spettacolare a rappresentare<br />

due “tombe di giganti”: quelle di Li Lolghi e<br />

di Coddu Vecchju o Ecchju. Nomi e siti interessanti,<br />

che accendono curiosità e fantasie, siti che<br />

evocano usi e costumi dei primi abitanti di quell’isola<br />

meravigliosa che è la Sardegna. Avvolti<br />

dall’intenso profumo di lentisco e da un millenario<br />

silenzio, le pietre incantano lo spettatore<br />

attento, pronto a raccogliere il loro racconto<br />

affascinante sulla presenza, in quel luogo, di<br />

una grande civiltà autoctona, vitale nel periodo<br />

<strong>del</strong> bronzo. E i recinti megalitici, i cerchi magici<br />

di sapore più celtico che mediterraneo, accertano<br />

la confluenza nell’isola di popoli e civiltà<br />

provenienti da ogni dove, elementi che indicano<br />

nella Sardegna il “Reader’s Digest” <strong>del</strong>la storia<br />

antica mediterranea. Le tombe dei giganti di<br />

Li Lolghi e di Coddu Vecchju evocano rituali,<br />

consuetudini e comportamenti di antiche comunità;<br />

testimoniano un tipo di sepolcro collettivo,<br />

proprio <strong>del</strong>la civiltà nuragica. Dei due monumenti<br />

ciò che colpisce di più la vista <strong>del</strong> visitatore<br />

è la fronte: l’esedra, con i suoi quattordici<br />

lastroni infissi a coltello, di altezza decrescente<br />

verso i lati. Al centro campeggia un’alta stele,<br />

formata da un’unica lastra granitica e decorata<br />

da un bordo a bassorilievo, che divide la superficie<br />

in due parti. Questa grande lastra appare<br />

come un maestoso portale: l’ingresso alla vita<br />

ultraterrena. Quella di Coddu Vecchju è più<br />

slanciata, infatti è alta 4,40 metri e meno larga<br />

(1,90 metri) di quella di Li Lolghi. Essa è formata<br />

da due blocchi di granito sovrapposti.<br />

L’esedra, che attesta l’elaborazione sarda di un<br />

- 145 -<br />

Fig. 1 - Arzachena (Sassari), Coddu Ecchiu.<br />

Fig. 2 - Arzachena (Sassari), Li Lolghi.<br />

tipo tombale diffuso nel resto <strong>del</strong>l’Europa, era<br />

riservata al culto e alle offerte per i defunti. I<br />

due monumenti sono il risultato di due momenti<br />

costruttivi. Nel primo, risalente all’età <strong>del</strong><br />

Bronzo Antico (1800-1600 a.C.), venne realizzata<br />

la parte terminale che costituisce una allée<br />

couverte, ossia una tomba di forma allungata,<br />

formata da lastre verticali e coperta, inizialmente,<br />

da lastroni piani circondata da un recinto<br />

ellissoidale di pietre: il peristatile, con funzione<br />

di contenimento <strong>del</strong> tumulo che lo ricopriva. In


un secondo momento, alla fine <strong>del</strong> Bronzo<br />

Medio (1400 a.C.), si aggiunsero il lungo corridoio<br />

funerario e l’esedra. Il primo è costituito da<br />

lastroni infissi verticalmente nel terreno, integrati<br />

da muratura con in fondo una lastra orizzontale,<br />

una specie di ripiano per contenere oggetti<br />

di corredo. In corrispondenza di essa è l’unica<br />

lastra di copertura, attualmente conservata.<br />

Della parte più antica restano vasetti a peducci,<br />

ciotole troncoconiche, riferibili al Bronzo Antico<br />

SALTERNUM<br />

- 146 -<br />

(1800-1600 a.C.), mentre altri materiali <strong>del</strong> corridoio<br />

funerario e <strong>del</strong>l’esedra risalgono al periodo<br />

compreso tra il 1400 e il 1100 a.C. È da allora<br />

che ancora oggi nel silenzio <strong>del</strong>la profumata<br />

macchia mediterranea queste pietre, testimoni<br />

<strong>del</strong> passato, vivono. Le loro considerevoli<br />

dimensioni ci lasciano fantasticare e pensare,<br />

come nella credenza popolare, ai “giganti” che<br />

gli antichi credettero abitarvi e che oggi aleggiano<br />

come fantasmi misteriosi.


La nuova sede <strong>del</strong> Museo <strong>Archeologico</strong> Nazionale<br />

di Pontecagnano è stata realizzata con il proposito<br />

di dare una adeguata collocazione alla ricchissima<br />

raccolta di materiali archeologici portati<br />

alla luce nel corso degli ultimi quaranta anni nel<br />

territorio comunale, con una intensa e inarrestabile<br />

attività di ricerca che ha consentito di <strong>del</strong>ineare<br />

la forma e gli aspetti culturali di un grande<br />

insediamento. Con lo scavo sistematico <strong>del</strong>le<br />

necropoli, intrapreso da Bruno d’Agostino nel<br />

1962, si è aperto un nuovo capitolo <strong>del</strong>la storia<br />

antica <strong>del</strong>la Campania. Le vaste necropoli, che, a<br />

partire dalla fine <strong>del</strong> X - inizi <strong>del</strong> IX sec. a.C., si<br />

distribuiscono intorno ad un ampio spazio abitativo,<br />

sono la più eloquente testimonianza <strong>del</strong>l’espansione<br />

<strong>del</strong>le genti protoetrusche ed etrusche<br />

nell’Italia meridionale, in anticipo<br />

e poi in concomitanza con il processo<br />

di colonizzazione greca<br />

<strong>del</strong>la fascia costiera. Il grande centro<br />

di Pontecagnano costituisce la<br />

punta più avanzata di quella<br />

espansione e, almeno a partire<br />

dalla fine <strong>del</strong> VI sec. a.C., ebbe<br />

vere e proprie caratteristiche urbane.<br />

La notevole quantità di oggetti<br />

di importazione presenti nei<br />

corredi funerari, sia dal mondo<br />

greco e orientale sia da quello<br />

magnogreco e italico, ne testimoniano<br />

la funzione emporica e la<br />

ricchezza culturale.<br />

La realizzazione <strong>del</strong> nuovo<br />

Museo, che illustra in maniera<br />

rigorosamente scientifica, ma al<br />

tempo stesso suggestiva e attraente,<br />

l’evidenza restituita dall’antico<br />

GIULIANA TOCCO SCIARELLI<br />

Gli Etruschi di frontiera<br />

Pontecagnano (SA). Oinochoe d’argento<br />

con palmetta in lamina d’oro all’attacco<br />

<strong>del</strong>l’ansa, dalla tomba 928. Secondo<br />

quarto <strong>del</strong> VII sec. a.C.<br />

- 147 -<br />

Pontecagnano (SA). Museo <strong>Archeologico</strong> Nazionale. Kotyle eponima <strong>del</strong><br />

‘Pittore <strong>del</strong> Lupo Cattivo’, dalla tomba 865. Inizio <strong>del</strong> VI secolo a.C.<br />

insediamento, nasce da un’intensa e proficua collaborazione<br />

tra la Soprintendenza per i Beni<br />

Archeologici <strong>del</strong>le province di Salerno, Avellino e<br />

Benevento, l’Università degli Studi di Napoli<br />

‘l’Orientale’ e l’Università degli Studi di Salerno. Il<br />

Museo è stato realizzato per lotti funzionali, grazie<br />

ai finanziamenti assicurati in<br />

tutti questi anni dal Ministero per<br />

i Beni e le Attività Culturali e dalla<br />

Regione Campania, mentre il<br />

Comune di Pontecagnano ha<br />

acquisito il suolo sul quale sorge il<br />

nuovo edificio.<br />

Pontecagnano (SA).<br />

Coppa carenata<br />

d’impasto con l’ansa<br />

sormontata da due<br />

cavallini, dalla tomba<br />

575. Ultimo quarto<br />

<strong>del</strong>l’VIII secolo a.C.


BIANCA<br />

CANCELLARE


LAURA IBISCO<br />

Pesci, barche, pescatori nell’area mediterranea<br />

dal Medioevo all’età contemporanea<br />

Si è svolto dal 3 al 6<br />

ottobre, tra Fisciano,<br />

Vietri sul Mare e<br />

Cetara, il Convegno<br />

Internazionale Pesci, barche,<br />

pescatori nell’area mediterranea<br />

dal Medioevo all’età contemporanea<br />

inserito nell’ambito<br />

dei seminari permanenti <strong>del</strong>la<br />

SISE (Società Italiana degli<br />

Storici <strong>del</strong>l’Economia). Questo<br />

incontro segue quelli precedenti<br />

di Bosa (1994), Alghero-<br />

Cabras (2001) e Roma (2003) e<br />

ha aperto il confronto con aree<br />

geografiche diverse al fine di<br />

approfondire il momento <strong>del</strong>la<br />

comparazione storica. E’ stato scelto un ambito<br />

geografico molto vasto, comprendente l’intero<br />

Mediterraneo, partendo dall’area lusitana e<br />

marocchina, proprio per confrontare le diverse<br />

realtà storiche e storiografiche <strong>del</strong> settore<br />

peschiero.<br />

La pesca ha da sempre rappresentato una<br />

<strong>del</strong>le attività primarie <strong>del</strong>l’uomo sin dalle originarie<br />

forme di organizzazione economica ed è<br />

quindi possibile tracciare un continuum tra età e<br />

periodi anche distanti molti secoli tra di loro attraverso<br />

la ricostruzione di tecniche di pesca e di<br />

lavorazione, di tipologie <strong>del</strong>le imbarcazioni utilizzate,<br />

di strumenti di lavoro e di cicli biologici ed<br />

economici al contempo.<br />

- 149 -<br />

Al Convegno hanno partecipato<br />

31 relatori, di cui ben 13<br />

stranieri da Malta, Marocco,<br />

Portogallo, Spagna, Francia,<br />

Tunisia, Albania, Romania;<br />

hanno inoltre aderito alla<br />

Tavola Rotonda 8 relatori che<br />

hanno affrontato i temi più<br />

urgenti <strong>del</strong>la pesca italiana ed<br />

europea, evidenziando limiti e<br />

prospettive di questo settore<br />

che potrebbe costituire, in realtà,<br />

una risorsa di primaria<br />

importanza nei prossimi decenni<br />

da un punto di vista <strong>del</strong>l’alimentazione<br />

e <strong>del</strong>l’economia<br />

regionale così come avveniva<br />

nei secoli precedenti e come è emerso dalle relazioni<br />

storiche presentate.<br />

La pubblicazione degli Atti, prevista per il<br />

prossimo anno, permetterà di apprezzare l’apporto<br />

scientifico innovativo degli interventi succedutisi<br />

nelle 8 sessioni di studio. Durante le giornate<br />

di lavoro è stata allestita, a cura <strong>del</strong>l’Assessorato<br />

ai Beni e Attività Culturali <strong>del</strong>la Provincia di<br />

Salerno e <strong>del</strong>la Direzione Provinciale, la mostra<br />

Arti e Mestieri nell’antico Sud. Il Ceramista e il<br />

Pescatore, che ha permesso di ammirare numerosi<br />

oggetti di cultura materiale legati al mondo<br />

<strong>del</strong>la pesca nell’antichità e, ancora, altri reperti<br />

conservati e messi gentilmente a disposizione dal<br />

<strong>Gruppo</strong> Habitat di Vietri sul Mare.


BIANCA<br />

CANCELLARE


MONICA VISCIONE<br />

In ricordo di Antonella Fiammenghi<br />

È passato qualche mese dalla sua scomparsa,<br />

ma il vuoto che ha lasciato appare ancora incolmabile!<br />

È una perdita per l’Archeologia e per chi<br />

ha imparato ad apprezzarla per il suo infaticabile<br />

lavoro per la salvaguardia e la valorizzazione<br />

di Velia e tutto il Cilento.<br />

Fin dai suoi primi passi di Funzionario <strong>del</strong><br />

Ministero dei Beni Culturali, sul finire degli anni<br />

Settanta, aveva conquistato il cuore e la simpatia<br />

di tutti; nel corso <strong>del</strong>la sua lunga carriera<br />

aveva incrementato anche l’ammirazione e la<br />

gratitudine dei tanti giovani archeologi che<br />

hanno avuto la fortuna di completare la loro formazione<br />

sul campo con la sua guida, ma soprattutto<br />

aveva accresciuto la stima e la considerazione<br />

degli amministratori con i quali ha sempre<br />

concertato una politica di collaborazione per<br />

valorizzare l’inestimabile patrimonio archeologico<br />

presente nel Cilento. Antonella è stata per 20<br />

anni l’anima degli scavi di Elea-Velia, l’ideatrice<br />

<strong>del</strong> Parco <strong>Archeologico</strong>, l’attenta custode dei siti<br />

archeologici cilentani, da Agropoli a Sapri.<br />

- 151 -<br />

Al primo posto la salvaguardia <strong>del</strong> Cilento!<br />

Era una forza <strong>del</strong>la natura, la sua straordinaria<br />

vitalità era pari alla sua professionalità, al suo<br />

rigore scientifico; a lei si devono gli studi sulla<br />

fase arcaica di Agropoli, sulla necropoli di S.<br />

Marco di Castellabate, sull’abitato lucano di<br />

Caselle in Pittari, oltre che i numerosi approfondimenti<br />

su Velia.<br />

Era una entusiasta che infondeva entusiasmo,<br />

un paladino <strong>del</strong>la tutela instancabile, un vulcano<br />

di iniziative e di idee. Era una persona speciale!<br />

Il suo sorriso e la luce che brillava nei suoi occhi<br />

sono indimenticabili. Ci lascia in eredità un tesoro<br />

come Velia, la rete dei piccoli Musei <strong>del</strong><br />

Cilento, da Roccagloriosa a Palinuro, e i siti da<br />

Moio <strong>del</strong>la Civitella a Policastro a Caselle in<br />

Pittari, ma soprattutto resteranno come punto di<br />

riferimento la sua tenacia, la sua intelligenza e<br />

la sua capacità di non dimenticare mai il valore<br />

<strong>del</strong>l’amicizia e <strong>del</strong>l’amore verso gli altri.


Finito di stampare<br />

nel mese Novembre 2007<br />

da Arti Grafiche Sud, Salerno

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