10.07.2015 Views

RELAZIONE PROFESSOR MARCALETTI DON DUILIO BONIFAZI Il ...

RELAZIONE PROFESSOR MARCALETTI DON DUILIO BONIFAZI Il ...

RELAZIONE PROFESSOR MARCALETTI DON DUILIO BONIFAZI Il ...

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

<strong>RELAZIONE</strong> <strong>PROFESSOR</strong> <strong>MARCALETTI</strong><strong>DON</strong> <strong>DUILIO</strong> <strong>BONIFAZI</strong><strong>Il</strong> Prof. Martelletti insegna sociologia all'università Cattolica di Milano e si sta interessando specificamente diproblematiche attinenti il lavoro, la famiglia, la donna nel lavoro. In questo settore è già un esperto ma sta diventandouno che potrà dare in futuro anche dei contributi estremamente validi.Prof. <strong>MARCALETTI</strong>Vi ringrazio, mi scuso per avervi fatto attendere, riordino le idee partendo da due spunti come solitamente preferiscofare diciamo che derivano dall'ordine del senso comune, mi piacerebbe partire inquadrando la riflessione di questa serada un paio di elementi, il primo dei quali sono andato a recuperare un po’ nella memoria tra le cose che ho letto, apartire da quello che si vede nei quotidiani, che si legge. Ricordo penso più di un anno fa, forse un anno e mezzo fa, uneditoriale del professor Luciano Gallino, Università di Torino, grande esperto dei problemi del lavoro, delladisoccupazione, recentemente si è occupato del cosiddetto declino industriale italiano. In questo articolo di fondonarrava quella che può essere un po’ una favola, o una parabola del Co.Co.Co. Collaboratore Coordinato Continuativo,che è una classica forma contrattuale della flessibilità in Italia e raccontava di questo giovane inquadrato alla primaesperienza lavorativa con un contratto di collaborazione continuata e continuativa presso una multinazionaleinformatica e narrava un po’ le vicende di questo giovane che si affacciava al mondo del lavoro e arrivando la mattinain ufficio doveva arrivare un po’ prima degli altri, non poteva entrare nel cortile e mettere la macchina nel cortiledell'azienda perché non era un dipendente, e quindi non aveva tesserino, arrivava al lavoro un po’ prima per farsi notare,per farsi vedere, non poteva mai staccare e guardava con un po’ di invidia i colleghi regolarmente assunti a tempoindeterminato che a metà mattina potevano permettersi un caffè alla macchinetta anche perché avevano le chiavi dellamacchinetta del caffè, in cui discutevano di come avrebbero utilizzato la tredicesima o la quattordicesima per levacanze, per le ferie, programmando le loro vacanze e le ferie. Questa è la vicenda normale di un lavoratore flessibileinserito in questo modo nelle aziende, fianco a fianco a lavoratori che sono inquadrati in modo diverso, più stabile, piùcontinuativo, e tutto sommato questo ragazzo fa questa esperienza, arriva ad essere chiamato per il rinnovo del suocontratto e vede proporsi a propria volta un inquadramento di quelli che denotano un indice di sicurezza, inquadrato atempo pieno, indeterminato, come gli altri lavoratori; si trova quindi a passare dall’altra parte e passando dall'altra partetutto sommato si vede mentre fa la pausa caffè e chiacchiera con i colleghi alla macchinetta vede gli altri collaboratoricoordinati e continuativi del gruppo di cui faceva parte lui fino a pochi mesi prima e tutto sommato rimpiange un po’ ilfatto che comunque era molto più attaccato prima al suo lavoro; arrivava prima, staccava dopo gli altri perché inqualche modo doveva farsi notare, però il suo lavoro forse era più legato a degli obiettivi, mentre ora con uninquadramento stabile ha perso un po’ di quello smalto, ha perso un po’ di quell’entusiasmo che all’inizio locaratterizzava. Questa è una parabola per dire come sta cambiando oggi il senso del lavoro, un giovane che si affaccia:precarietà, instabilità, contratti che non danno tutte le garanzie, però probabilmente anche un entusiasmo, un carico, unaresponsabilità, una voglia di dimostrare, sentire proprio il lavoro. Dall’altra parte una stabilità certo che dà tantesicurezze però in qualche caso può un po’ allontanare da questo entusiasmo rispetto al lavoro.Un secondo spunto di ordine comune, mi è venuto oggi mentre scendevo in macchina ascoltando la radio per sentire levarie informazioni sul traffico, ad un certo punto hanno trasmesso l’ultima canzone di Antonello Venditti; c’è una strofadove dice: mi chiamo Laura, più o meno, sono laureata, dopo mille concorsi faccio l’impiegata, vivo con i genitori conuna sola pensione e in questo modo crescono comunque Luca l’unico mio grande amore, si presume che sia il figlio.


Secondo elemento, seconda coordinata non c’è solo un lavoro che cambia, ci sono delle famiglie che cambiano, ed è disenso comune, lo ascoltiamo dalle canzoni; una giovane con un figlio che vive con i genitori che hanno una solapensione, né un lavoro che non corrisponde agli studi anche per i quali si è impegnata, sui quali ha puntato per il suofuturo e questo io penso che siano due coordinate di senso comune che possiamo leggere o ascoltare quotidianamenteche però ci aiutano ad inquadrare i temi di questa sera, io penso anche che ci aiutino ad individuare quelle profondetrasformazioni sul fronte dei lavori, dei mestieri, delle professioni ma anche sul fronte della famiglia che interessa iopenso in un percorso, in una serie di incontri sulla dottrina sociale della chiesa. Interessano perché ci sono appuntoprofonde trasformazioni sul versante del senso attribuito oggi al lavoro, sul piano quindi più di ordine culturale, maproprio per questo al centro della riflessione della dottrina sociale della chiesa almeno da un secolo a questa parte. Cheposto ha il lavoro nella vita delle persone e a livello di aggregati sociali. Appunto rispetto alle integrazioni che talitrasformazioni comportano sul piano socio-economico a livello di istituzioni sociali, poi ovviamente sulle ripercussioniconcrete che hanno nella vita dei singoli soggetti, singoli intesi come famiglie e singoli intesi come individui. Per talemotivo oggi una riflessione sul tema del lavoro non può essere scissa da una riflessione sul tema della famiglia oquantomeno sul rapporto che ha nella funzione che la famiglia svolge rispetto al lavoro e soprattutto una riflessione diquesto tipo nel momento in cui stiamo affrontando un percorso sulla dottrina sociale della chiesa non tenere presentequelli che sono le aree di confine, i temi emergenti, quegli ambiti più sfumati o oggi si usa dire opachi della riflessionesulla famiglia e sul lavoro. Quindi mettiamo a fuoco questa sera, cerchiamo per lo meno dato che sono opachi, non èche potremmo fare chissà quanto, però di fermarci su questo confine, andare a cogliere quali sono gli ambiti che oggicostituiscono maggiormente un problema, si collocano fra il vecchio e il nuovo, comportano diversi spezzoni, ditradizione ma anche di innovazione. Quindi il tema è proprio questo: lavoro, famiglia, vulnerabilità sociale. Si tratta diquestioni da questo punto di vista sono ampie e complesse, ciascuna di essa ovviamente richiederebbe un ampiodibattito, un’ampia riflessione e discussione, mentre questa sera ci accontenteremo solo di pochi elementi anche un po’buttati lì. Esistono poi anche degli evidenti ostacoli almeno dal punto di vista mio che sono un sociologo, nell’affrontareinsieme queste dimensioni perché ci sono ostacoli di ordine disciplinare, la sociologia dei processi economici e dellavoro, la sociologia della famiglia è un’altra cosa. La sociologia appunto dell'esclusione sociale attinente a questi temiè un ulteriore ambito disciplinare e questo si traduce non tanto nel fatto che poi tra colleghi non ci si parli, o che leindagini non si richiamino fra di loro, ma rimanda a problemi anche di tipo metodologico soprattutto, per cui le indaginici sono, le ricerche ci sono, i dati ci sono, in particolare l’ISTAT sulla forza lavoro offre un grosso contributo, c’èl’indagine multiscopo sulle famiglie sempre promosso dall'ISTAT, ci sono le indagini della commissione di inchiestasulla povertà e l’esclusione sociale in Italia che ogni anno fa un rapporto, ci sono i dati della Banca d’Italia sui bilancidelle famiglie italiane. <strong>Il</strong> problema è mettere insieme questi dati che partano dallo studio di soggetti differenti, cheutilizzano definizione e concetti differenti e proprio a questo livello si arriva quasi a scontri di ordine epistemologico.Pensate al problema di dire cos’è un disoccupato. A seconda di come lo guardo e a livello comunitario si guarda in unmodo, in Italia lo si guarda in un altro, in Francia lo si guarda in un altro, cambiano i numeri, cambiano le quantità,cambiano le politiche. Che cos’è oggi un lavoratore flessibile o un lavoratore precario; ci sono si usa dire, c’è unosventagliamento oramai contrattuale che rende anche difficile le definizioni, quanto uno deve lavorare, quando èconsiderata povera una famiglia, poi lo vedremo e recupereremo anche questi elementi. Si arriva quindi a scontrarsi conuna serie di problemi di questo tipo, che dobbiamo tenere comunque sullo sfondo, quindi sullo sfondo di questodibattito sui tipi di indicatori più adatti per inquadrare il tema del lavoro, della famiglia, del rapporto lavoro famiglia edella vulnerabilità sociale che ne deriva, questa difficoltà di conciliare i dati e gli elementi dobbiamo tenerla sullosfondo, diciamo che per usare un’espressione sintetica: lavorare per costruire indici sintetici che possano rappresentare


questi fenomeni vale una carriera, vale una carriera universitaria accademica, si può dedicare tranquillamente per unavita a cercare di costruire l’indice di povertà, cioè da che cosa è fatta la povertà, cosa entra dentro la definizione dipovertà. Però noi questa sera siamo qua a non a discutere di questi problemi, ma ad affrontare la tematica del posto dilavoro e delle disuguaglianze. Io parto da un inquadramento, che dice e cerca di dire quale posto oggi si può considerareabbia il lavoro ancora nella vita delle persone, nel costruire la società e questo da alcuni anni significa parlare dellasocietà post-pordista, o post-tellurista, ovvero di una società in cui è venuto meno quello che era un modello diequilibrio definito società salariale sostanzialmente, o anche compromesso di metà secolo che ha caratterizzato i 30 anniin particolare della fine del secondo conflitto mondiale fino alla metà degli anni Settanta, fino alla crisi petrolifera di persé. Questo modello comportava la piena occupazione maschile, e quindi con occupazione garantita, tutelata e dall’altrolato quindi un modello di sicurezza sociale che faceva perno sempre sul maschio adulto lavoratore da un lato e sullafamiglia dall'altro, quale soggetto in cui sostanzialmente opera la parte femminile, trova la moglie con compiti di cura,di assistenza, con compiti anche eventualmente di supplenza. Quindi lavoro maschile garantito, pieno di occupazione daun lato e ovviamente famiglia, garantita, assistita, curata dalla parte femminile. Questo ha creato un certo paradosso chela professoressa Chiara Saraceno di Torino sempre definisce: il paradosso del welfare familiaristico. Quindi un modellodi stato sociale che si fonda proprio sul ruolo della famiglia e in particolare sul ruolo della donna nella famiglia qualetutrice dei compiti di cura, delle solidarietà e questo lo possiamo vedere ovviamente in rapporto all’educazione dei figli,alla cura degli anziani, dei parenti, della cerchia più stretta ma anche in quella più allargata. Per cui un sistema disicurezza sociale che centra la sua attenzione sulla famiglia in cui c’è un maschio che lavora, che è tutelato e dall'altrolato c’è una donna che assume questi compiti. A partire dalla metà degli anni Settanta questo modello è andato in crisi,così come il modello produttivo che stava dietro, questa idea, nel senso la grande fabbrica, il lavoro operaio. Questomodello è andato in crisi, sono emerse spinte notevoli che ancora oggi interessano la nostra società, i sistemi produttivi,la terziarizzazione, quindi l’espansione nel settore dei servizi, le spinte globali sulla competitività che rende necessario,che spingono le aziende a modificare la loro struttura per essere più competitive sul mercato. Questo ha determinato lacrisi della società e la fine della società salariale, in cui appunto per il modello di cui si diceva, il problema principaleera quello delle disuguaglianze, nel senso che produciamo un certo tipo di ricchezze e il problema era come dividerequeste ricchezze, fra gli imprenditori, fra la classe lavoratrice, fra le famiglie. Un noto e autorevole sociologo tedesco,però ormai britannico di adozione, Arf Darendorf, è abbastanza convinto, quindi ci mette un po’ una dose dipessimismo, che questa società salariale sia definitivamente chiusa, anzi che il lavoro abbia perso il suo primato, abbiaperso il suo posto nella vita delle persone, nel caratterizzare il senso della vita delle persone. Infatti cita nel suo ultimosaggio pubblicato in Italia: “la società del lavoro ha toccato i suoi limiti, il tipo e la quantità di lavoro non sono piùsufficienti a strutturare la società. E con ciò il lavoro perde anche la sua capacità di strutturare la vita individuale”,quindi il lavoro per qualità e per quantità non è più sufficiente da un lato e non è più in grado di dare forma alla vitaindividuale e sociale, ha perso questo ruolo, ha perso questa funzione, non è più il lavoro che organizza i tempi, i modidel vivere, che condiziona le strutture familiari. Non è più realistico partire dal presupposto che la preparazione allavoro, il suo esercizio, le vacanze per riprendere a lavorare e il pensionamento come meritato premio per una vita dilavoro, siano elementi costitutivi della nostra vita, non c’è più questa linearità tra percorsi di formazione e carrieraprofessionale, quindi per Darendorf siamo veramente alla fine di questa società, qualcosa di nuovo sta nascendo anchese difficile da inquadrare, ma soprattutto la crisi di questo modello di società ha pesanti ripercussioni sul tema, adesempio, dell’educazione, quindi cosa vuol dire appunto studiare, prepararsi ad una professione oggi, sul tema deltempo libero con il nuovo lavoro flessibile che impiega le persone nelle sere ad esempio, con orari diversi, il sabato e ladomenica, durante le feste, cosa significa vivere il tempo libero, cosa significa la cessazione dell’attività lavorativa,


pensiamo al tema oggi ampiamente dibattuto delle tensioni e di quanti giovani di oggi possono aspirare a un domani, adavere il giusto premio della loro vita di lavoro. Pensiamo anche al tema appunto della disoccupazione, cosa è il lavoro ecosa non è lavoro, quindi per Darendorf il lavoro ha perso il primo posto quale elemento che può strutturare la vita degliindividui e della società nel suo complesso. Di più appunto ci sono delle ripercussioni a cascata, la disuguaglianza oggiquindi non è più un problema di come in una società strutturata sul lavoro a tempo pieno, sul lavoro nella fabbrica e conla famiglia in cui la donna svolge un ruolo di cura, si allocano le risorse in questo sistema, la disuguaglianza oggipresenta fattori economici e sociali inediti, il problema non è più di come ridistribuire le risorse in questo modellostabile ma si tratta di affrontare una questione che ha molte dimensioni, perché riguarda appunto il grado di occupazionedelle famiglie ad esempio, dei loro membri, chi è occupato, chi no, chi lo è in forma stabile, chi in forma precaria, chi èdisoccupato, chi sta studiando, chi fa la casalinga, chi si assume i ruoli di cura. C’è un problema relativo al redditodisponibile e quindi anche quale tipi di forme, di reddito compongono le risorse familiari, ci sono redditi derivantiappunto dalla ridistribuzione del welfare, ci sono condizioni generali di vita, ci sono sistemi in forma di organizzazionifamiliari differenti. Tutto questo oggi concorre a distinguere, a differenziare, quindi a porre disuguaglianze fra unafamiglia e l’altra, e quindi questo ha ripercussioni grosse sul tema del lavoro, non si possono considerare in mododisgiunto. Soprattutto oggi che stanno emergendo situazioni di stagnazione, quindi se la distribuzione delle risorse unavolta potevano in base espansiva dell’economia essere sempre più inclusive spingere dentro sempre più membri, oggic’è un problema di accesso alle risorse che stanno diventando sempre più scarse appunto; oggi si parla del problema dicome affrontare il tema previdenziale, si parla di come accedere a tutti quei servizi a quelle risorse che mette adisposizione lo stato sociale, e non è più quindi solo una questione di distribuzione, è una questione che i criteri selettividiventano più stringenti, c’è sempre meno possibilità, ci sono sempre più fasce, mette a rischio nella possibilità diaccedere, quindi non si parla più tanto di disuguaglianze, se si va a scorrere la letteratura sociologica su questi teminegli anni Settanta, nei primi anni Ottanta si parlava ancora e si discuteva sulle classi sociali in Italia. Oggi questeriflessioni non sono più ripercorse nel guardare la società appunto non ci si struttura più per classe, non è più il singoloproblema solo di fonte di reddito per cui c’è la borghesia, la piccola-media borghesia, quella relativamente autonoma, iproletari eccetera, ma si tratta di un problema di esclusione sociale. Questo è un passaggio fondamentale, a metà deglianni Novanta soprattutto sulla spinta dei sociologi francesi si è messa un po’ al centro la problematica del canale diaccesso, non è quindi più un problema di come si fotografa una società nel momento in cui ridistribuisce, ma significainterpretare questo tema dal punto di vista più dinamico, dei movimenti; cioè quali sono i percorsi, le possibilità, icanali, gli accessi delle persone al sistema delle distribuzione della ricchezza. Quindi non si fa riferimento appunto agruppi di persone che sono esclusi, si fa riferimento a quali sono i processi che portano all’esclusione, non si parla piùdei poveri, ma si parla appunto dei processi che generano esclusione sociale, in particolare questo tema e convienesoffermarci un po’ su questo punto che è anche il passaggio un po’ più critico, sostanzialmente rimanda ad unaquestione di inserimento oppure di non inserimento in una rete, che è composta da due elementi principali. Quando siparla di esclusione sociale oggi si fa riferimento all’essere appunto inseriti in modo stabile oppure precario, in quelli chesono i criteri che ancora integrano, fanno da integratori e determinano il risanamento in una società che sono il lavoro,da un lato, e la famiglia o ,comunque, le reti sociali più ampie, dall’altro lato. <strong>Il</strong> sociologo francese Castell appuntoindividua pensate ad una mappa con due direzioni, da un lato il vettore che fa riferimento al lavoro e dall’altro quelloche fa riferimento alla famiglia. Quindi ci sono possibilità di inserimento stabile nel lavoro, possibilità di inserimentostabile in una rete relazionale rappresentata dalla famiglia, intesa nel suo senso più allargato, man mano che ci siallontana in entrambe le direzioni si arriva in aree che sono sempre più caratterizzate a un inserimento precario, tantosul fronte lavorativo quanto ad esempio sul fronte del legame familiare. In questo senso Castell dice che: i processi di


qualsiasi circostanza e in qualsiasi situazione agisce per massimizzare la sua utilità. Però appunto ci si dimenticava neldefinire l’homo economicus di questo aspetto relazionale, questi concetti ci aiutano appunto a superare questi problemiper dire che oggi il soggetto comunque va considerato all’interno delle reti delle relazioni sociali di cui fa parte, in cuirientra. E quindi in questo senso ci si è progressivamente spostati dal problema appunto di analizzare la povertà, alproblema dell'inserimento più o meno stabile, o più o meno precario in queste reti in cui, ovviamente, abbiamo visto illavoro e la famiglia costituiscono due poli fondamentali. In questo senso appunto non si parla più di povertà ma si parladi vulnerabilità sociale ovvero di un insieme di condizioni che portano i soggetti ad essere più o meno esposti a deirischi, in particolare Costanzo Aranci disegna quasi un triangolo come uno spazio sociale in cui sono comprese quelliche sono i rischi e appunto la vulnerabilità ai quali soggetti e le loro famiglie sono esposti, ovvero per un vertice unadisponibilità di risorse di basa limitate ad esempio, per un altro verso c’è la scarsa integrazione appunto nelle reti socialie, per un terzo vertice, le limitate capacità di fronteggiate le situazioni di difficoltà, come abbiamo detto prima dovuteanche a livelli di acquisività inferiore di alcuni soggetti, non so in rapporto all’istruzione, in rapporto ai mezzi diinformazione, alla partecipazione alla vita sociale e politica. Quindi la vulnerabilità diventa, in questo approccio, comeuno spazio sociale e non designa più una esposizione o un percorso secondo il quale si arriva per forza a situazioni dipovertà, o di bisogno estreme. Non ci sono più ambiti preparatori, diventa proprio un essere vulnerabili, un essereparticolarmente esposti ad alcuni problemi che potranno manifestarsi oppure no. Questo significa rileggere ilfunzionamento della nostra società dal punto di vista del lavoro e dal punto di vista delle strutture familiari, di comequeste si combinano, di come queste interagiscono, ragionando appunto in termini di vulnerabilità sociale, significaampliare il discorso quindi non fissare l’attenzione solo su alcune categorie di soggetti, ma avere una prospettivadinamica, per cui vulnerabili, probabilmente, sono tutte quelle situazioni più precarie. Partiamo, comunque, colconsiderare alcuni dati, ci sono ricerche per comparare a livello internazionali quelle che sono le situazioni dei singolipaesi che identificano, mostrano come in Italia più che in altri stati la vulnerabilità sociale e in particolare l’esposizionee i rischi che questa comporta riguarda di più le famiglie con figli. Ma il rapporto annuale, che vi citavo, sulle politichecontro le povertà ad esclusione sociale, è un resoconto che cerca di individuare qual è la soglia o il livello al di sopra eal sotto della quale ci si può considerare non poveri, oppure poveri. Quindi individua un livello relativo di povertà, chista sotto è considerato povero e chi sta sopra non lo è. Per determinare questo livello vengono utilizzati degli indicatori,come dicevo prima, in particolare si guarda al reddito delle famiglie e alla capacità di spesa e si divide per il numero dimembri. Ci sono dei criteri per ponderare tutti i lavori, i dati sono abbastanza significativi, non li commentiamo peròpraticamente in quest’ottica il rapporto segnala che in Italia sono al di sotto della linea di povertà il 15% delle famigliecon figli; in particolare il 16,4% delle famiglie con due figli minori e il 25% di quelle con tre figli minori, nel 2001. Vidicevo ciascuno sviluppa poi indicatori di indagine per sé, l’ISTAT nel 2002 ha fatto un rapporto sulla povertà che nondiscosta di molto, in particolare identifica 2.456.000 famiglie in Italia che vivono al di sotto della soglia di povertàrelativa; 2.456.000 famiglie per un totale di 7.145.000 individui. Significa praticamente l’11% del totale delle famiglie,1 su 10, con incidenze superiori al Sud, dove si arriva al 22,4% e decisamente inferiore al Centro e al Nord: 6,7 e 5%.Anche in questo caso più o meno le cifre e le percentuali rispecchiano quelle descritte dalla indagine del 2001 dellaCommissione, 12,8% sono le famiglie al di sotto della linea di povertà con minori; in particolare il 15% delle famigliecon due figli e il 25,9% di quelle con tre figli. Questi dati li lasciamo un po’ anche perché vi dicevo dobbiamo solo daredegli accenni, però già solo su questi si potrebbe fare una serie di incontri. Ci domandiamo in particolare, quali sono lecause che determinano questi elementi di povertà, da cosa sono determinati i rischi di esclusione sociale? A dispetto diquanto molti commentatori della situazione del nostro paese tendono a sottolineare, in Italia non c’è un rapporto direttoad esempio fra la disoccupazione e povertà. Uno degli elementi che di solito si individua per definire le situazioni come


cause indice di povertà, è il fatto che non si abbia lavoro, uno o più membri della famiglia non hanno lavoro. In Italianon c’è, non è stato ancora dimostrato che esista una correlazione diretta fra disoccupazione e soglia di povertà. Inpassato era sufficiente che in famiglia ci fosse un percettore di stipendio certo, sicuro, fisso, poi se magari c’era nellafamiglia allargata anche qualcuno che percepiva un reddito da trasferimenti sociali, la pensione, allora da questo puntodi vista la famiglia poteva permettersi di avere al proprio interno anche elementi disoccupati ovvero c’era quella cheviene definita una familizzazione dei rischi sociali connessi alla disoccupazione. Quante delle nostre famiglie hannopotuto permettersi di far studiare i giovani, attendere il lavoro per il quale avevano studiato, permanere a lungoall’interno della famiglia proprio perché c’era qualcun altro che percepiva un reddito, più di uno, lo percepiva in modogarantito, e quindi questo ha determinato un certo modo di funzionare il nostro mercato del lavoro, per cui si è preferitodare sicurezza a chi il lavoro ce l’aveva, consolidare, tollerare un certo grado di disoccupazione, sapendo che comunquec’era una famiglia che copriva alle spalle. Questa è la familizzazione del rischio connesso alla disoccupazione, questo èil paradosso familiarista del welfare che è stato citato in precedenza; la Chiara Saraceno lo definiva in questo modo, chesi è sviluppato nel nostro paese, nel senso che la famiglia ha dimostrato di essere un validissimo ammortizzatore socialerispetto alla disoccupazione, ma ovviamente è la nostra esperienza, poi magari potremmo vedere qualche altro elementorispetto anche a tante altre cose, pensiamo al tema degli anziani. Quindi il rapporto famiglia-lavoro oggi lo possiamocomprendere in questo senso, riepilogo brevemente tutto il percorso fatto fino a questo punto sennò c’è il rischio diperdersi: un sistema che va in crisi, la società salariale abbiamo visto, un sistema che entra in crisi per svariate ragionisotto diverse spinte e che, comunque, determina alcune fratture con ripercussioni multiple. A partire da queste frattureabbiamo visto che mentre prima si poteva ragionare per compartimenti abbastanza stagni, per classi, per categorie dipersone che stavano dentro o meno, certi processi o certe dinamiche, oggi bisogna rileggere tutto in una chiave moltopiù complessa in cui rientrano più elementi, e soprattutto in cui gli individui e le famiglie non possono essere piùconsiderati come elementi immutabili. Vivono dinamiche e processi proprio perché inseriti in una rete, da questapossono entrare ed uscire in situazioni di maggiore o minore tutela del lavoro, e questo determina la loro esposizione omeno ai rischi, pensiamo per fare un esempio, alla famiglia nucleare, quindi una coppia, due giovani che si sposano,hanno entrambi un lavoro garantito, retribuito, fanno un mutuo per la casa, hanno un figlio, hanno due figli, quindidiciamo pur avendo una posizione di reddito garantita dal lavoro hanno alle spalle una serie di risorse che riescono acoprire le loro spese, ad un certo punto viene a mancare uno dei due coniugi, o l’unione va in crisi, a questo punto sideterminano dei problemi, perché magari il mutuo non si riesce più a coprirlo, oppure si perde anche semplicemente illavoro e si entra nella precarietà. Questo determina situazioni in cui si è esposti, si è vulnerabili ai rischi. Ho fatto unesempio un po’ così però spero che possa rendere l’idea. A questo punto, dunque, ci siamo detti: c’era una famiglia chegarantiva, ha garantito in questo modello di tenere, è riuscita a tollerare, ad ammortizzare i principali rischi,probabilmente se oggi parliamo di vulnerabilità sociale e io ho fatto proprio un esempio su una nuova famiglia, ci sonocondizioni che determinano il fatto che non più tutte le famiglie possono essere capaci di fare ancora da ammortizzatori,poi se è giusto o meno questo è tutto un altro discorso. Però anche questo vale tutta un’altra discussione. In particolareci sono diversi elementi che fanno supporre che la famiglia non riesca più a sostenere questa funzione diammortizzatore sociale dei rischi connessi alla disoccupazione, connessi alla malattia, connessi alla cura degli anziani,alla cura dei minori e così via, proprio perché intervengono anche cambiamenti nella composizione delle stessefamiglie. E’ proprio perché ci si sta abituando forse oggi a leggere meglio come stanno cambiando le famiglie, come stacambiando il lavoro. Soprattutto sta venendo meno un po’ quel fatto implicito che dicevo prima, cioè cosa consegnasoprattutto a partire dagli anni Ottanta la riflessione sul lavoro come elemento forte e determinante? Un diverso ruolodelle donne, una diversa partecipazione femminile al mercato del lavoro, questo negli ultimi vent’anni è stato


l’elemento più dirompente, cioè quello che è venuto a cambiare rispetto anche ai modelli precedenti, è che le donnecrescendo anche il loro livello di istruzione, mediamente, hanno iniziato a partecipare più massicciamente al mercatodel lavoro, quindi ad essere soggetti attivi. Pensate che all’inizio degli anni Settanta, nel 72 se non sbaglio, il livello dipartecipazione femminile al mercato del lavoro, ossia donne che lavoravano o donne disoccupate o comunque chestavano cercando una occupazione, era arrivato al 20% circa, quindi solo il 20% della popolazione femminile nel nostropaese, poco più, lavorava o era disponibile a cercare un lavoro. Oggi questo passo di attività si attesta, se non sbaglionel 2002, intorno al 46,7%, quindi, praticamente più che raddoppiato negli ultimi vent’anni, soprattutto a livelloculturale sembra venuto meno questo fatto che determinava il paradosso che si diceva prima, cioè le donne non sono piùdisposte ad accettare il fatto di essere, di avere un percettore di reddito garantito in famiglia e di occuparsi a tempoindeterminato e illimitato solo dei compiti di cura della famiglia. Tutte le trasformazioni hanno portato a minare anchequesto rapporto e soprattutto è venuto meno il fatto che il rischio economico sia solo associato alla capacità di quelloche viene chiamato il men bread winner, cioè il procacciatore di reddito di pane, che porta a casa i soldisostanzialmente, e questo io penso che sia anche un bene, si è capito che non basta più un solo stipendio, ce ne voglionoalmeno due e tanto meglio se entrambi questi stipendi derivano da un lavoro stabile e continuativo. Le indagini sullapartecipazione femminile al mercato del lavoro ce lo dicono, ne è stata una fatta di recente, ne abbiamo fatta una inLombardia sulle donne disoccupate, in cui emerge chiaramente che da parte femminile c’è un attaccamento e unamotivazione al lavoro che è pari a quella maschile, tanto più che alcune di queste donne disoccupate ed intervistate purein una situazione precaria, si dichiarano maldisposte ad accettare lavori flessibili, poco remunerativi, poco qualificanti equindi accettano piuttosto di rimanere disoccupate un po’ di più perché comunque alla fine vogliono arrivare ad avereuna occupazione con la O maiuscola. Da questo punto di vista, quindi, viene meno questo patto: mantenimento da unlato e dipendenza economica, però disponibilità illimitata ai lavori di cura, questo apre tutta una serie di problemi cherecuperiamo adesso nelle conclusioni. Questo determina il fatto che a partire anche dalla fine degli anni Settanta si parladi un grosso tema: partecipazione femminile al mercato del lavoro, tema della doppia presenza. Questo tema delladoppia presenza nel mondo e nelle responsabilità del lavoro, nel mondo e nelle responsabilità della famiglia, dal puntodi vista femminile è il grosso tema in discussione, tanto che oggi si parla delle forme di conciliazione e soprattutto sesono in atto tendenze per cui questo meccanismo si sta incrinando e sia anche la parte dell'universo maschile ci siaqualche segno di cedimento.Una recente indagine fatta a Milano dal sociologo Barbani sulla legge 53 del 2000, che consente i congedi parentalianche ai lavoratori maschi, ha evidenziato che sono stati il 17,5% dei lavoratori maschi a chiedere questo tipo dicongedo. <strong>Il</strong> lavoro ha ancora un posto e soprattutto lo ha sempre di più per l’universo femminile. Quale tipo di posto dilavoro in particolare per le moglie e per le madri? Questo è un altro tema molto grosso e lo riprendo proprio perché unpaio di settimane fa c’è stato un seminario promosso dall'ISTAT e dal CNEL proprio sul tema della partecipazione almercato del lavoro da parte delle donne e del rapporto con i tassi di natalità, quindi partecipazione femminile efecondità rilette insieme. Da questo punto di vista sono emersi dati interessati, in particolare quelli sulla fecondità,dicono che per il 2002 c’è stato praticamente un livello pari all’1,26 figli per donna, con 1,21 al Nord e 1,34 al Sud. Inparticolare a partire dagli anni Settanta si è visto un calo progressivo di questa cifra, oggi lo sappiamo, parliamo delleculle vuote in Italia, il paese con il più basso tasso di fertilità al mondo, soprattutto però questa indagine combinata,soffermandosi su questo lato della fecondità femminile, il passaggio dal primo al secondo figlio rappresenta unproblema mentre non c’è una preclusione in Italia quantomeno per avere almeno un figlio, questo significa che poicambiano, vedevamo prima la struttura delle famiglie però è un dato importante; il figlio unico si configura sempre dipiù appunto come modello familiare prevalente, soprattutto però l’aumento del tasso di partecipazione femminile al


mercato del lavoro e quindi le analisi combinate, andando a vedere le donne che lavorano, che sono alla ricerca di unlavoro rispetto alla fecondità, hanno mostrato che proprio la partecipazione maggiore delle potenziali madri nel mercatodel lavoro è nella fascia di età fra i 25 e i 40 anni, cioè le donne che lavorano e sono quelle più presenti sul mercato dellavoro sono quelle tra i 25 e i 49 anni, coincide proprio con la base procreativa. E questo è un elemento moltoimportante appunto che dice che non è l’avere un figlio che rappresenta un problema rispetto alla partecipazionefemminile nel mercato del lavoro, quindi se oggi il dibattito lo vogliamo impostare sul dire “il problema oggi è che cisono le culle vuote è perché le donne lavorano” non è vero, sono proprio le donne che rientrano in quella fascia in cuiovviamente sono concentrati gli anni della fecondità che maggiormente partecipano al mercato del lavoro e appuntol’occupazione non impedisce di fare il primo figlio. Le nascite avvengono soprattutto nelle famiglie con redditi piùelevati, in cui anche la donna ha un reddito più elevato e quindi il modello fra bassa fecondità e basso tasso dipartecipazione al mercato del lavoro femminile non è l’unico possibile, guardare a questo rapporto non è l’unico modo,si diceva prima se si guarda alle forme di conciliazione probabilmente si può ribaltare la percezione di senso comune, ledonne lavorano quindi non fanno figli, proprio perché se ci fossero delle forme che garantissero maggiormente il ruolodella donna, questa doppia presenza sul mercato del lavoro e nel lavoro di cura, probabilmente questo modelloscatterebbe in senso opposto, in particolare si parla spesso del part-time, si sa che è la forma preferita da un madre chenon vuole rinunciare ad essere protagonista sul lavoro e accudire i propri figli. Però ci sono anche forme che devonoprevedere una maggiore flessibilità non solo sul versante delle aziende, ma appunto sul versante delle lavoratrici.Questo quindi è un elemento, stavamo affrontando il tema se la famiglia riesce o meno a tenere, riesce o meno adammortizzare, sicuramente quindi il calo della fecondità è un dato però non va unicamente inteso, non c’è una viapreferenziale per leggerlo, bisogna scavare proprio per capire che ci sono delle dinamiche ma che possono essereappunto modificate. Di certo ovviamente il fatto che la famiglia ha presentato un ammortizzatore per i rischi divulnerabilità ha portato anche a un prolungarsi della permanenza dei figli in famiglia: 58,7% dei giovani fra i 18 e i 34vive con i genitori, quindi non siamo lontani dai due terzi dei giovani fra i 18 e i 34. Anche questo non è direttamenteconnesso al fatto di essere o meno disoccupati, perché di questi giovani che vivono ancora in famiglia, il 41,7% èoccupato, quindi la motivazione non è solo perché non si ha un lavoro. Sicuramente oggi il modello di tenuta dellafamiglia è messo anche in crisi, non solo dal calare della fecondità, non solo della permanenza prolungata dei figli, maanche dell’assommarsi dei compiti di cura e quindi vengono a determinarsi situazioni in cui magari una coppia digenitori ha a che fare con la figlia ma anche con la nipote. Io penso all’esperienza dei miei genitori che adesso hanno ache fare con il loro nipotino, però hanno in casa mia nonna, la grande anziana. Quindi si determinano articolazioni supiù generazioni rispetto ai compiti di cura che sono in questo caso molto impegnativi, nell’ottica della conciliazione. Ioa questo punto passerei a delle conclusioni in modo tale da arrivare a dare spazio anche al dibattito, spero sia statopossibile un po’ seguire perché ho cercato, come dicevo all’inizio, di mettere insieme i vari elementi, abbiamo vistocome questi fenomeni si presentino strettamente connessi, ma come sia difficile fotografarli perché mancano dei dati. Cisono dei segnali interessanti, ma sicuramente ci sono dei problemi che chiedono di essere affrontati, in particolareabbiamo visto, quello del posto di lavoro, sempre più flessibile, sempre più instabile e tuttavia c’è la necessità diarrivare a delle ricomposizioni da questo punto di vista, quindi comprendere se il lavoro che sembra aver perso un ruolocentrale poi effettivamente non risulta essere così poco importante, ma anzi per alcune categorie e non solo per loroabbiamo visto si afferma al contrario, quindi non è vero che il lavoro abbia perso il primo posto. <strong>Il</strong> racconto, la paraboladel collaboratore coordinato e continuativo che dicevo prima, dice che comunque anche all’interno dei lavori flessibilic’è molto attaccamento all’attività lavorativa, c’è molta autonomia, c’è molto più spazio per essere premiati, tanto piùche oggi a molti lavoratori si dice: la qualità di quello che la nostra azienda produce dipende da te, dipende dal tuo


lavoro, cosa che una volta se pensiamo a come avvenivano i rapporti di lavoro non era assolutamente possibile. Quindic’è un lavoro che ha perso peso, ha perso significato nello strutturare alcune dinamiche ma che sicuramente ha ancoraun posto assegnato molto importante, e che va ricomposto, va ricostruito. C’è un sociologo Ares Accorner molto attentoa queste dinamiche che proporrebbe di costruire un’anagrafe dei lavori, che alla fine i giovani arrivano a mettereinsieme, nei vari spezzoni di lavoro in modo tale che siano garantiti come diritto di cittadinanza e di riconoscimento deivari mestieri che una persona ha fatto, anche se appunto in termini flessibili oggi bisogna abituarsi a fare un pezzoprima, alternarlo magari con un po’ di formazione, andare ad impiegarsi in un altro settore, fare diverse esperienze,magari trovare più continuità in un altro ambito però occorrono servizi che certifichino questi passaggi, noi veniamoancora da un modello di servizi per l’impiego, il collocamento obbligatorio, il collocamento molto rigido che non riescea tenere tracce di tutti questi spostamenti. Pensate oggi quando invece sarebbe importante per dei giovani. In secondoluogo penso, proprio perché il lavoro non sta perdendo il suo posto, che non occorra neanche demonizzare troppo laflessibilità da questo punto di vista, come fa Darendorf, magnificando un passato fatto di stabilità anche per tante coseche ho detto non era comunque vero per tutti ad esempio che in passato c’era maggiore stabilità. Forse oggi si è piùresponsabilizzati, il lavoro non ha perso il proprio posto. Un terzo elemento che ci consegna questa riflessione è il ruoloappunto delle donne, l’ho sottolineato, l’ho rimarcato, però appunto l’importanza che il lavoro riveste comeinvestimento esistenziale a livello femminile è oggi il dato che va assolutamente sottolineato. Questo tacendo tuttequelle che sono state le indagini sul fare impresa al femminile che è ancora di più consegnano questo dato esistenzialedi realizzazione. Non è sufficiente quindi proporre semplici rimedi, come estendere il part-time perché riguarda solo il16,7% delle donne, particolare delle madri, ma occorre appunto arrivare a considerare le molteplici dimensioni dellaconciliazione fra la vita di lavoro e la vita famigliare. Soprattutto però le indagini, in particolare quelle sul livello dipartecipazione delle madri nel mercato del lavoro, quindi rapporto tra fecondità e partecipazione femminile, mostranoche le donne che sono più in grado di conciliare questi due ambiti sono quelle si che hanno un reddito magari superioread altri, ma che la partecipazione a continuare a lavorare anche dopo la nascita dei figli è fortemente correlato al livellodi istruzione, più le donne sono istruite, più hanno chance, più hanno opportunità, quel temine che vi dicevo prima diDarendorf le chance di continuare a permanere sul mercato del lavoro. E’ necessario aumentare le proprie risorse, leproprie chance, gli elementi che si possono combinare per raggiungere il livello di benessere al quale ciascun individuoambisce e soprattutto al ricorso all’istruzione, che rispetto agli altri paesi dell’Unione Europea, in particolare per quantoriguarda la formazione nel lavoro, ci vede fortemente in ritardo.MODERATOREFrancesco, noi ti ringraziamo per quello che ci hai detto. Mi permetto questa volta di evidenziare un aspetto dellaproblematica che mi sembra un po’ più tipica della nostra regione marchigiana. Nella nostra regione, in particolare miriferisco alla Bassa marca, le donne lavorano tutte nel mondo calzaturiero. La donna normalmente esce di casa alle settee mezza della mattina, se ha il lavoro vicino a casa riesce una mezz’oretta a tornare a casa, poi deve ripartire;ufficialmente dovrebbe poter uscire alla sera alle cinque e mezza ma di fatto esce alle sei e mezza, alle sette e questadonna mi, ci dice: se io avessi un figlio come farei? Dovrei lasciare il posto di lavoro, a meno che non abbia una madrea cui delegare il proprio ruolo. Questo problema da noi è enorme. Nella nostra zona calzaturiera l’indice di natività è piùbasso di quello dell’1,7 che tu hai detto, ancora più basso. Ma c’è anche un altro fatto, c’è una situazione per cui ladonna 23-24enne che viene assunta deve firmare un pezzo di carta e abbiamo la documentazione, io a Fermo ho ladocumentazione, in cui firma in anticipo il suo autolicenziamento in caso di maternità. Quindi questo problema èconsiderato in questo momento uno dei problemi più gravi nella nostra regione, tanto è vero che viene chiesto di dare un


che comunque ha questa finestra da gestire che è di quattro mesi non di più, o se è di più a tutto svantaggio della donnalavoratrice. In un sistema poi che comporta come sapete in Francia le 35 ore, quindi anche in ogni caso uninquadramento a tempo pieno di un certo tipo, che lascia altri spazi, è un modello. E’ stato costruito questo modello conscelte molto difficili, molto discusse, molto faticose però è un modello che da questo punto di vista ha dei vantaggi,quindi soluzioni ovviamente non ne ho, però probabilmente guardare anche alle esperienze altrui potrebbe essere unacosa importante, sicuramente incentivare i servizi. Cosa succede? Che il modello familiaristico che vi dicevo prevedevai trasferimenti si dello stato sociale, ma soprattutto come trasferimenti diretti alla famiglia, senza sviluppare il settoredei servizi. A una famiglia, a una coppia di giovani sposi serve oggi un assegno una tantum per il figlio superiore alprimo che fanno o riuscire a trovare il posto presso l’asilo nido? Forse gli serve di più la seconda cosa se non hanno inonni che possono coprire. Quindi probabilmente piuttosto che assegni andrebbero fatti più asili nido, però questa è unamia opinione da un lato, quindi intervenire sul versante dei servizi reali offerti alle famiglie, soprattutto secondo aspettoe qua sarebbe interessante però ovviamente io conosco di più la realtà milanese non quella della bassa marchigiana,capire anche come intervengono poi tutte quelle situazioni che stanno al confine tra il lavoro emerso e il lavoro piùinformale, perché da questo punto di vista allora la situazione si complica ulteriormente, si aggrava. Per cuisostanzialmente trovare poi delle soluzioni diventa molto difficile. Un altro elemento forte che consegna la realtà equesto posso dire più milanese, è il fenomeno ad esempio delle badanti, ho qualche collega che solo dire badanti perchéesclude il fenomeno dell'immigrazione si stravolge, però è un fenomeno diffuso molto nelle grandi metropoli, masicuramente ce ne saranno chissà quante, anche qua. Che però dimostra come appunto vengano, si instauranomeccanismi sempre più perversi, per cui poi alla fine uno scarico dei problemi e dei rischi verso le fasce sempre piùdeboli, questo è un aspetto importante, cioè cosa significa? Significa che chi ha la possibilità paga qualcuno in modocontinuativo, ma non come un lavoro stipendiato, perché sa quel qualcuno ha bisogno di quel lavoro per assumere queiruoli di cura che non si è più in grado da soli di risolvere. Questa è una grossa polemica che c’è, ad esempio si sta unpo’ discutendo appunto anche in qualche sede in diocesi di Milano perché ovviamente il mondo cattolico incoraggiamolto da questo punto di vista, ovviamente se una donna straniera che cerca lavoro in Italia va al centro di ascolto dellaCaritas, va alle ACLI probabilmente gli trovano una famiglia che gli dia questo tipo di lavoro, però l’indaginesull’immigrazione in Lombardia mostra che le cattolicissime donne peruviane, sudamericane che sono quelle poi che sioccupano a Milano soprattutto di fare le badanti, sono quelle con più alto tasso di interruzione volontaria di gravidanzae quindi per risolvere il nostro problema della conciliazione fra vita familiare e lavoro, si scarica questo problema sullefasce più deboli. Paradossale questa situazione, magari non ci pensiamo neanche, però è un grosso problema, chiama incausa grosse responsabilità. Quindi dare risposte, dare risposte è molto impegnativo, però probabilmente qualche passoin più appunto lo dicevo e lo ripetevo in termini di promozione, di servizi reali, è forse la cosa più immediata che sipossa fare.MODERATORECitavi tu un caso di Monza mi pare? Dato che tu poi ti interessi particolarmente dei problemi della famiglia, quindi lostimolo è a mettere in campo anche socializzare la tua esperienza nel settore dei problemi familiari.GAETANONo, c’è questo progetto che credo sia un paio di anni che lavora al Forum della Lombardia, il comitato lombardo delleassociazioni familiari che ha coinvolto l’Unicamera, l’associazione industriali, l’istituto dell’Università Cattolica, quellodi determinare una situazione con maggiore compatibilità tra la maternità, avere figli e il mantenere il posto di lavoro, si


qui l’ho seguito un po’ all’inizio, quindi ci sono diversi progetti, in particolare per far carico alle imprese dell’onere dimettere le mamme che hanno avuto un figlio quindi si sono allontanate dal lavoro per un certo periodo, in pari, travirgolette, con chi invece è rimasto in azienda; adesso non so alla fine come sia stato declinato in maniera effettiva. Inrealtà poi in base a quello che ha detto adesso il relatore la specificazione secondo me è che probabilmente siamo in unasituazione per cui va bene dire aumentare i servizi alla persona, i servizi reali alla persona, credo che vada aggiunto peròin maniera flessibile, in maniera direi sussidiaria, cioè quindi facendo in modo che questi servizi vengano erogati inmaniera forse più informale possibile, cioè pensare di aprire un asilo nido oggi è un suicidio, non lo aprirebbe nessunoperché ha dei costi fissi tali per cui diventa ingestibile per qualunque amministrazione. Bisogna incentivare quelle coseper cui riferivo l’esperienza francese, cioè di persone che comunque guarderebbero i propri figli, o comunque hannouna, tra virgolette, professionalità in questo senso, e quindi mettono a disposizione in maniera direi meno strutturataquesta loro competenza.GIANLUCASono Gianluca e sono un diacono qui del seminario. Volevo chiedere un chiarimento sul concetto di vulnerabilità e sec’è rapporto con la tecnologia, cioè se questo non corrisponde alla mentalità tecnocratica, come dire, quel sottile mododi trasferire nelle nostre relazioni capitali sociali, quel modo di fare di inter recto dei cellulari, quel dire rapportitecnologici ecco. Grazie.DOMANDARiguardo all’occupazione al femminile io volevo dire che c’è una cosa che forse non è stata calcolata, detta, c’è unaparola che si chiama sacrificio. Noi per esempio ci siamo scambiati un attimo così siamo due mamme, abbiamotantissimo sacrificio, io ho lavorato 26 anni in una grandissima azienda nazionale, ho fatto un lavoro part-time, hodovuto combattere tantissimo per averlo, perché il part-time verticale, part-time orizzontale e comunque mi sembrachiedo scusa professor Bonifazi, che quello che lei ha detto delle donne che firmano, si tratti di lavoro sommerso perchénon è possibile, siamo al di fuori della legalità, ossia io ho fatto le mie maternità come la legge prevede, sono stata conlo stipendio come la moglie del professore a zero perché mi sono presa l’aspettativa, ho pagato le baby-sitter finoall’asilo, e poi il part-time per seguirli e così rinunciando alla carriera. Quindi però questo presuppone una parola cheoggi ai giovani di oggi, purtroppo compresa mia figlia, è sconosciuta, “sacrificio” e anche quella del partner che si deveadeguare poi a fare lavori domestici, se vuole la famiglia stia in piedi, perché altrimenti non è possibile, al di là degliasili nido che comunque adesso anche in Italia si stanno organizzando quartiere per quartiere, una mamma guarda ilproprio e guarda anche altri due o tre, pagando e poi anche il sistema delle badanti perché lavorando e avendoci anchedegli anziani in casa, ho fatto anche quella esperienza della badante mandata a sua volta dalla Caritas, per anni, e chepurtroppo anche quello è legalizzato e quindi io non mi sono sentita di sfruttare un’altra persona, di corrispondergliquello che era dovuto perché lei era venuta per quel motivo. Alla fine sennò si rimane single. Chiedo scusa, questo è ilnostro punto di vista. Grazie.DOMANDAA questo proposito mi veniva in mente, poi dopo faccio la domanda, che fra qualche anno se faremo delle indagini sulnuovo modello di uomo che sta in casa, noi vedremo che sarà totalmente cambiato. Ma la domanda che volevo fare eraun’altra. Io ricordo che nei primi anni Settanta dicevano alcuni sindacalisti: ma non vi rendete conto che la famiglia quicon questo sistema, perché c’era già stato il boom economico, la famiglia con questo sistema non ha respiro? Non ha


spazio? In effetti non si è potuto far nulla perché stiamo in un meccanismo che per modificarlo dovremmo modificare leattuali leggi economiche, dovemmo modificare gli assetti economici nazionali ma non sono nazionali, ma anche equindi è una cosa più grossa di noi, non riusciremo a fare più di tanto, mentre potremmo come diceva il professoresicuramente incidere su questioni, piccole questioni che poi possono diventare anche grosse di politica della famiglia alivello locale o a livello un po’ più grosso come quello regionale o nazionale se è possibile. La domanda invece chevolevo fare era questa, nell’attuare le regole che si stanno discutendo nel mondo del lavoro, soprattutto sulla precarietàdel lavoro, professore lei cosa ne pensa. A me sembra che siamo andati da un eccesso a quell’altro; prima si eraeccessivamente garantisti, forse c’è stato sempre un po’ di precarietà dappertutto, io ho una moglie che è precaria davent’anni quindi non ci sono problemi, dico si passa quindi da un eccesso a quell’altro. Adesso mi sembra che stiamopassando all’eccesso opposto, non dico che bisogna dire il garantismo assoluto perché io conosco bene cosa significaavere il garantismo, io sono il responsabile di un’azienda quindi so bene non ONLUS ma è un’azienda, so bene cosasignifica non poter dire a uno: guarda te bisogna che lavori; questo non gliene importa neanche meno di lavorare, se hadeciso di non lavorare non gli puoi fare nulla non è che c’è verso, però d’altra parte mi sembra che adesso con questenuove normative, la mentalità che sta acquisendo in questo settore mi sembra che diventi veramente preoccupante.RELATOREC’è la signora che vuole intervenire? Soltanto nel dibattito, però mi sembrava molto accalorata in quello che diceva. Misembra importante il tema della flessibilità del lavoro, la flessibilità. Io ricorderò sempre che uno degli ultimi discorsi diMartini a Milano fu proprio: attenti con questa flessibilità, che non diventi precarietà, che poi precarietà della persona èanche precarietà della famiglia, una famiglia che ha una forza lavoro precario diventa essa stessa, rischia di diventareessa stessa precaria.DOMANDAVolevo chiedere una cosa, cambio un po’ prospettiva. All’inizio si era parlato della profonda trasformazione nel lavoroe sul senso attribuito al lavoro e che praticamente il lavoro per quantità e qualità non identifica più l’identità di unapersona e allora io mi chiedevo: a livello dei giovani come stimolo dati ai ragazzi nella scuola. Viene ancora proposto illavoro come fine più che mezzo cioè come identificazione oppure sta cambiando il modo di parlarne, perché altrimentivengono fuori situazioni in cui qualcuno diventa frustrato per il lavoro che sta compiendo, perché non è in linea con leproprie aspettative, e invece magari non c’è una prospettiva più di lavoro come mezzo che possa aiutare a vivere.Perché io venendo un po’ dal mondo del lavoro vedo, ho visto queste frustrazioni, questi disagi, che in qualche manieraostacolano anche la vita sociale poi di un ragazzo che può avere anche più di 30 anni e quindi a questo punto c’èbisogno anche di cambiare un po’ l’atteggiamento con il quale viene proposto anche l’educazione il proporre ladomanda: cosa fare da grande, più cosa farai inteso come mestiere che poi ti identificherà più cosa farai e cosa sarai,perché altrimenti di fronte a questa cosa che ormai si è chiarita, che il lavoro non identifica più la personalità madall’altra parte c’è una situazione in cui al giovane viene proposto questo e poi alla fine c’è una schizofrenia chedifficilmente viene risolta. Grazie.<strong>MARCALETTI</strong>Spero di non aver dato l’impressione appunto di far passare l’idea di vulnerabilità sociale positiva. È positivo il fattoche consente magari di vedere più cose e di vederle in modo diverso, questo si è positivo, il concetto di vulnerabilitàsociale appunto rimanda non a quelle che potrebbero essere delle istantanee che scattiamo sulla società quindi


interpretare cosa sta avvenendo facendo come una fotografia, per cui se tu stai qua sei a posto, se tu sei dall’altra partevuol dire che rientri sei un po’ a rischio, se sei là in fondo vuol dire che sei fra quelli in stato di disagio ma significacomprendere il modo appunto diacronico come volgono le situazioni e in questo senso parlare di vulnerabilità. Siutilizza il termine vulnerabilità piuttosto che povertà perché non ci si riferisce solo a un elemento, la povertà abbiamovisto è strettamente legata alla misura del reddito o comunque al grado e alle forme con cui questo viene spesoall’interno di una famiglia per ciascun membro. La vulnerabilità sociale dipende da come è fatta la famiglia, quanti figliha, da come è distribuito il carico del lavoro in famiglia, quanti ci lavorano, quanti sono precari, se ci sono degli anzianida mantenere, dei figli piccoli da accudire, quindi il concetto di vulnerabilità sta nel dire: le situazioni sono molto piùcomplesse, sono inserite in una rete, mutano e cambiano, proprio per questo non si può dire che uno è sempre fermonello stesso punto e si può essere maggiormente o in modo minore esposti a dei rischi, quindi questa è l’idea e secondome in questo si è positivo, perché a questo punto si possono interpretare meglio le situazioni. Va da sé che c’è magari siun modo simbolico per vedere il fatto che tutto quello che sta avvenendo e che ci aiuta a cogliere che ogni singoloproblema di carattere sociale è inserito in una rete di relazione, ha tutto sommato a che vedere col fatto che ci siamoaccorti che tutto il mondo è collegato da un’unica rete, per cui come si dice, che il battito delle ali di una farfalla da unaparte determina una ripercussione dall’altra parte del pianeta. Sicuramente non sono anche queste cose del tutto nuovo,non è che la globalizzazione ce l’abbiamo dagli ultimi dieci anni, da quando se ne parla, però si tratta di processi cheanche grazie alle tecnologie ci hanno consentito di accorgerci di cose in cui forse prima non eravamo pienamentecoscienti. Sul sacrificio e anche sull’ultimo aspetto anche del lavoro come vocazione, io venendo da Milano,dall'Università Cattolica, qua lo posso dire, io sono anche abbastanza un lazzatiano da questo punto di vista per cuiovviamente l’impegno dell’uomo per la costruzione della città dell'uomo e quindi anche il lavoro come luogoovviamente rifacendoci alla lezione del concilio, è luogo di santificazione e quindi va da sé credo, e ancora a maggiorragione che il lavoro possa ancora strutturare la vita di una persona, ma vi dicevo Darendorf rientra nell’ambito deipessimisti. Sempre alla metà degli anni Novanta ci fu un famoso libro che vale la pena anche di leggere, di ungiornalista Rifkin intitolato proprio La fine del lavoro, è anche godibile appunto perché è un giornalista quindi scrive inmodo rigoroso, citando fatti ed avvenimenti però anche con uno stile che si può leggere, però rientra nella fascia deipessimisti, proprio di quelli che dicevano: la società andrà incontro, proprio perché ci sono le tecnologie, alla finedell'importanza del lavoro. Abbiamo visto che ci sono altri sociologi che sono convinti del contrario e ad esempioprendono proprio la flessibilità come spunto per dire: no, il lavoro è importante. Quanto più lo si può poi gestire inmodo flessibile tanto più diventa importante per le persone e continua a strutturare la loro identità e il loro modo direlazionarsi alla società. Sui sacrifici è anche questo, io penso che sia un ambito nuovo. Vi citavo prima la ricerca sullalegge 23, sui congedi parentali, in particolare quando questi sono presi dagli uomini ma è la stessa cosa di quandoalcuni anni fa una donna chiedeva il part-time, sono ambiti nuovi perché poi se ne parla ancora solo in termini nonscientifici.

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!