Forlì Introduzione ai Libri Sapienziali e al Libro dei Salmi
Forlì Introduzione ai Libri Sapienziali e al Libro dei Salmi
Forlì Introduzione ai Libri Sapienziali e al Libro dei Salmi
Create successful ePaper yourself
Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.
ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE<br />
“S. Apollinare” – Forlì<br />
<strong>Introduzione</strong><br />
<strong>ai</strong> <strong>Libri</strong> <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong><br />
e <strong>al</strong> <strong>Libro</strong> <strong>dei</strong> S<strong>al</strong>mi<br />
a cura di<br />
GIUSEPPE DE CARLO<br />
ad uso degli studenti
Il materi<strong>al</strong>e contenuto in questo volume è ad uso esclusivo degli studenti che frequentano il<br />
Corso di Antico Testamento su <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e S<strong>al</strong>mi presso l’Istituto Superiore di Scienze<br />
Religiose “S. Apollinare” di Forlì. Non è materi<strong>al</strong>e origin<strong>al</strong>e, ma quasi tutto è preso integr<strong>al</strong>mente<br />
da <strong>al</strong>tri autori che hanno studiato a fondo la materia: a suo luogo vengono puntu<strong>al</strong>mente<br />
indicate le parti prese da ciascuno. Il lavoro redazion<strong>al</strong>e mira a dare a tutto il materi<strong>al</strong>e unità<br />
sistematica per una presentazione introduttiva tendenzi<strong>al</strong>mente completa <strong>al</strong>la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e<br />
e <strong>al</strong> S<strong>al</strong>terio.
Prima Parte<br />
LIBRI SAPIENZIALI<br />
INTRODUZIONE<br />
ALLA TRADIZIONE SAPIENZIALE BIBLICA<br />
INTRODUZIONE<br />
AI SINGOLI LIBRI SAPIENZIALI:<br />
– Proverbi<br />
– Giobbe<br />
– Qohelet<br />
– Cantico <strong>dei</strong> Cantici<br />
– Siracide<br />
– Sapienza
INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE SAPIENZALE BIBLICA*<br />
INTRODUZIONE<br />
La sapienza è un fenomeno che ritroviamo in tutti i popoli e in tutti i tempi. Eppure, fino a<br />
qu<strong>al</strong>che decennio fa, la sapienza biblica è stata poco presa in considerazione. I padri della<br />
chiesa ne hanno parlato poco, come pure i grandi teologi del Medioevo, mentre i grandi commentatori<br />
del XVI e XVII sec. se ne sono interessati maggiormente, seguiti, nel XIX sec., d<strong>ai</strong><br />
fondatori dell’esegesi storico-critica moderna, pur senza raggiungere la ripresa di interesse<br />
della nostra epoca. La ragione di questa scarsa considerazione per la corrente sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />
si spiega in parte con il fatto che la cultura occident<strong>al</strong>e, in cui il cristianesimo si è innanzitutto<br />
sviluppato, ha accordato un’attenzione maggiore <strong>al</strong>la filosofia e <strong>al</strong>le scienze, mentre la<br />
sapienza popolare, che anche in Occidente si esprime in proverbi e <strong>al</strong>tre forme, è rimasta <strong>al</strong>lo<br />
stadio di trasmissione puramente or<strong>al</strong>e, cosicché in Occidente i proverbi non hanno <strong>al</strong>tra funzione<br />
che di ornare lo stile. La situazione è cambiata con la scoperta, a partire d<strong>al</strong> XIX sec.,<br />
delle letterature sapienzi<strong>al</strong>i della Mesopotamia e soprattutto dell’Egitto, fino ad <strong>al</strong>lora sconosciute.<br />
La loro affinità con la sapienza biblica fu un’autentica rivelazione. Inoltre la scoperta,<br />
soprattutto nel XX sec., delle sapienze or<strong>al</strong>i africane, la cui messa per iscritto si rivela sempre<br />
più urgente, ha accresciuto ulteriormente l’interesse attu<strong>al</strong>e per la sapienza biblica, di cui esse<br />
potrebbero illuminare <strong>al</strong>cuni aspetti, in particolare l’origine, la funzione e il significato. Anche<br />
la figura della Sapienza personificata (sempre con la S m<strong>ai</strong>uscola), che la chiesa non ha m<strong>ai</strong><br />
dimenticato del tutto a motivo del suo legame con la cristologia, ha beneficiato, a partire da<br />
ricerche rinnovate d<strong>al</strong>le scoperte recenti, di spiegazioni sempre più precise, la cui portata teologica<br />
e spiritu<strong>al</strong>e non è certamente trascurabile 1 .<br />
1. TERMINOLOGIA<br />
I termini saggezza o sapienza, saggio o sapienzi<strong>al</strong>e, derivano, in un modo o in un <strong>al</strong>tro, d<strong>ai</strong><br />
vocaboli latini sapientia, sapiens che a loro volta si rifanno <strong>al</strong> verbo sapere: gustare, percepire,<br />
comprendere, assaporare.<br />
Nella Vulgata sapientia e sapiens rendono o traducono di solito i termini greci della versione<br />
<strong>dei</strong> Settanta e del NT sophía e sophós, la cui radice è di etimologia sconosciuta.<br />
Nei Settanta questi termini greci rendono gener<strong>al</strong>mente le parole ebr<strong>ai</strong>che derivanti d<strong>al</strong>la<br />
radice ˙km, presente nella maggior parte delle lingue semitiche: ˙okmah, sapienza, e ˙akam,<br />
saggio.<br />
Nella Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca, la radice ˙km viene usata 318 volte, <strong>al</strong>le qu<strong>al</strong>i bisogna aggiungere<br />
un’<strong>al</strong>tra cinquantina di casi nei frammenti ebr<strong>ai</strong>ci del Sir. Di fatto i vocaboli ˙akam e ˙okmah<br />
sono utilizzati soprattutto nei libri sapienzi<strong>al</strong>i: Gb, Pr, Qo, Sir. Nei Settanta, comprendendo il<br />
libro della Sapienza, avviene lo stesso per i vocaboli greci sophós e sophía.<br />
Nel NT sophía viene usato 50 volte e 20 sophós, con una concentrazione particolare in<br />
1Cor 1–3.<br />
Accanto a questi termini fondament<strong>al</strong>i, l’ebr<strong>ai</strong>co e il greco utilizzano anche <strong>al</strong>tri vocaboli,<br />
che si avvicinano come significato. Così troviamo ad es. i seguenti binomi: sapienza e sapere<br />
(da‘at, gnôsis: Pr 2,6; 30,3; Qo 1,16-17; 2,21-26; 9,10; Col 2,3), sapienza e intelligenza (bînah<br />
o tebûnah, sýnesis: Dt 4,6; Pr 24,3; Sir 14,20; Is 29,14; Ger 51,15; Col 1,9), sapienza e<br />
educazione (mûsar, p<strong>ai</strong>deía: Pr 1,2.7; 15,33). Il fatto che la traduzione non renda sempre <strong>al</strong>lo<br />
stesso modo i termini ebr<strong>ai</strong>ci denota una certa fluidità nel vocabolario. Questa osservazione è<br />
corroborata da <strong>al</strong>cuni testi che accumulano termini di cui non è facile stabilire con precisione<br />
* M. GILBERT, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 1988, 1427-1442.<br />
1<br />
Cfr. J. VILCHEZ LINDEZ, Storia della ricerca sulla letteratura sapienzi<strong>al</strong>e, in L. ALONSO SCHÖKEL – J. VIL-<br />
CHEZ LINDEZ, I Proverbi (Commenti Biblici), Roma 1988, 43-93.
<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 5<br />
il senso specifico. Ad es.: « Per conoscere sapienza e disciplina (mûsar)... per apprendere destrezza<br />
e acutezza (mûsar hasekel)... per dare <strong>ai</strong> giovanetti la prudenza (‘ormah), <strong>al</strong> giovane<br />
scienza (da‘at) e assennatezza (mezimmah)... » (Pr 1,2-4); «Io, sapienza, abito insieme <strong>al</strong>la<br />
prudenza (‘ormah), ho trovato la scienza <strong>dei</strong> consigli (da‘at mezimmôt), ...a me il consiglio<br />
(‘eßah) e l’abilità (tûšijah), io sono l’intelligenza (bînah), a me la forza (gebûrah)» (Pr<br />
8,12.14); «In lui [Dio] risiede la sapienza e la forza (gebûrah), sue sono la perspicacia (‘eßah)<br />
e la prudenza (tebûnah)» (Gb 12,13); «Spirito di sapienza e di discernimento (bînah), spirito<br />
di consiglio (‘eßah) e di fortezza (gebûrah), spirito di conoscenza (da‘at) e di timore del Signore»<br />
(Is 11,2).<br />
In maniera molto gener<strong>al</strong>e si può dire, <strong>al</strong>la luce di questa terminologia, che la sapienza si<br />
acquisisce attraverso un’educazione progressiva, mira ad una comprensione profonda e penetrante<br />
del re<strong>al</strong>e, porta ad un ‘saper fare’, ad un ‘saper vivere’ da cui i v<strong>al</strong>ori mor<strong>al</strong>i, come ad<br />
es. il coraggio, e religiosi, come il timore di Dio, non sono esclusi. In questo la sapienza biblica<br />
non si distingue affatto d<strong>al</strong>la sapienza di ogni popolo e di ogni tempo.<br />
La sapienza si rivolge agli ingenui, a gente infantile (peta’îm: Pr 1,4.22.32). Si tratta di persone<br />
semplici, che manifestano leggerezza e che sono dunque suscettibili di essere influenzate<br />
d<strong>al</strong> bene o d<strong>al</strong> m<strong>al</strong>e (Pr 9,4.16). Colui che ha poca sapienza è uno stolto, un ottuso (kesîl: Pr<br />
26,1-12); parla a vanvera; di lui non ci si può fidare e non conclude nulla. È un essere pieno di<br />
meschinità, vile, ignobile (nab<strong>al</strong>: Pr 17,7.21; Sir 4,2); agisce senza pensare, sconsideratamente;<br />
i suoi modi sono sconvenienti (Pr 30,32); è un insensato, un pazzo (’ewîl: Pr 10,8.14.21) e d<strong>al</strong><br />
suo parlare lo si capisce. Sir 21,11–22,18 traccia un quadro gustoso dello stolto.<br />
2. LE FORME DI ESPRESSIONE<br />
Anche le forme attraverso le qu<strong>al</strong>i la sapienza si esprime sono le stesse dovunque. Nella<br />
Bibbia troviamo la forma dell’adagio: «Qu<strong>al</strong>e la madre, t<strong>al</strong>e la figlia» (Ez 16,44); «Pelle per<br />
pelle» (Gb 2,4); «Medico, cura te stesso» (Lc 4,23); incontriamo <strong>dei</strong> proverbi: «D<strong>ai</strong> m<strong>al</strong>vagi<br />
esce m<strong>al</strong>vagità!» (1Sam 24,14); «Chi indossa le armi non si vanti come chi le depone» (1Re<br />
20,11: quattro parole in ebr<strong>ai</strong>co); o ancora: «I padri hanno mangiato l’agresto e i denti <strong>dei</strong> figli<br />
si sono <strong>al</strong>legati» (Ger 31,29; Ez 18,2). Accanto a queste forme semplici c’è poi l’enigma, come<br />
quello proposto da Sansone: «Da colui che mangia è venuto fuori cibo. D<strong>al</strong> forte è uscito<br />
qu<strong>al</strong>cosa di dolce» (Gdc 14,14); oppure la favola, come quella di Iotam (Gdc 9,7-15) o quella<br />
di Ioas: «Il cardo del Libano mandò a dire <strong>al</strong> cedro del Libano: “Concedi tua figlia in sposa a<br />
mio figlio”. Ma passarono le bestie selvagge del Libano e c<strong>al</strong>pestarono il cardo» (2Re 14,9).<br />
Troviamo ancora il proverbio numerico, soprattutto in Pr 30,15-33, o la parabola, come quella<br />
narrata da Natan a Davide (2Sam 12,1-4). T<strong>al</strong>volta il testo si sviluppa in forma di racconto,<br />
come la narrazione in prosa che apre e chiude Gb; lo sviluppo può apparire anche in forma di<br />
discorso molto elaborato come ad esempio in Pr 2, o addirittura in forma di di<strong>al</strong>ogo, come il<br />
poema di Gb. Tutte queste espressioni sapienzi<strong>al</strong>i, brevi o lunghe, sono chiamate d<strong>al</strong>la Bibbia<br />
ebr<strong>ai</strong>ca maš<strong>al</strong>.<br />
3. SAPIENZE DEL VICINO ORIENTE ANTICO NON BIBLICO<br />
Contrariamente a quanto si pensava <strong>al</strong>l’inizio del secolo scorso, la sapienza biblica non è la<br />
più antica. Essa si inserisce <strong>al</strong>l’interno di una corrente che ha le sue radici in Mesopotamia e<br />
in Egitto, dove i saggi, come del resto quelli della Bibbia, misero per iscritto i loro insegnamenti.<br />
Questa messa in iscritto costituisce una delle caratteristiche fondament<strong>al</strong>i della sapienza<br />
del Vicino Oriente Antico.
6 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />
3.1. LE LISTE<br />
La prima tappa di questa sapienza scritta è stata probabilmente la composizione di liste dette<br />
onomastica: <strong>al</strong>lo scopo di comporre un inventario del loro universo, gli autori di queste liste<br />
enumeravano, per categorie, gli esseri e le cose che li circondavano e potevano essere loro<br />
di utilità. Così fecero i sumeri e gli egiziani. La Bibbia attribuisce a S<strong>al</strong>omone questa stessa<br />
attività che segna l’inizio della ricerca scientifica: «Trattò degli <strong>al</strong>beri, d<strong>al</strong> cedro che si trova<br />
sul Libano sino <strong>al</strong>l’issopo che spunta d<strong>al</strong> muro; dissertò anche sul bestiame e sui volatili, sui<br />
rettili e sui pesci» (1Re 5,13).<br />
3.2. LE ANTICHE RACCOLTE DI SENTENZE<br />
La sapienza mesopotamica e quella egiziana sono conosciute soprattutto per le raccolte che<br />
l’archeologia moderna ha permesso di scoprire. Vi troviamo innanzitutto delle istruzioni trasmesse<br />
solitamente da un re <strong>al</strong> suo erede o da uno scriba <strong>al</strong> proprio figlio. Queste istruzioni<br />
sono composte ordinariamente da proverbi che indicano il comportamento da tenere per riuscire<br />
nella vita o nel lavoro. Il testo più antico proviene d<strong>ai</strong> sumeri e sono le Istruzioni di Shuruppak.<br />
Questo testo ris<strong>al</strong>e probabilmente <strong>al</strong>la metà del III millennio e se ne può seguire la<br />
trasmissione, m<strong>al</strong>grado i molti cambiamenti, fin verso l’anno 1000 a.C. In Egitto troviamo le<br />
Istruzioni del vizir Ptah-Hotep <strong>al</strong> figlio, ris<strong>al</strong>enti ugu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>la metà del III millennio; del<br />
XXII sec. a.C. sono le Istruzioni del re <strong>al</strong> figlio Merikare; quelle dello scriba Ani <strong>al</strong> figlio ris<strong>al</strong>irebbero<br />
<strong>al</strong>la metà del II millennio. Le Istruzioni dello scriba Amenemope <strong>al</strong> figlio, la cui datazione<br />
oscilla tra il 1000 e il 600 a.C., potrebbero aver influenzato l’autore della collezione<br />
biblica di Pr 22,17–24,22; infine l’insegnamento di Onkh-Sheshonq-qy sarebbe databile <strong>al</strong> V<br />
sec. a.C. Le raccolte di proverbi biblici (Pr 10–31) si inscrivono in questa corrente sumerica<br />
ed egiziana di cui abbiamo ricordato i princip<strong>al</strong>i testimoni.<br />
3.3. ALTRI TESTI<br />
3.3.1. Testi anteriori <strong>al</strong>la Bibbia<br />
La Mesopotamia e l’Egitto hanno tramandato anche <strong>dei</strong> testi sapienzi<strong>al</strong>i in cui il discorso<br />
ha un respiro più ampio e strutturato e che contengono riflessioni sul senso della vita e della<br />
morte, sulla sofferenza e <strong>al</strong>tri problemi umani. In Egitto 2 , la Disputa sul suicidio tra un uomo<br />
disperato e la sua anima ris<strong>al</strong>irebbe <strong>al</strong>la fine del III millennio; dell’inizio del II millennio sarebbe<br />
invece la Novella del contadino loquace che reclama giustizia e la Satira <strong>dei</strong> mestieri,<br />
in cui Khety fa <strong>al</strong> proprio figlio Pepy l’elogio, per contrasto, del mestiere di scriba. Questo<br />
contrasto si ritrova, molto più tardi, in Sir 38,24–39,11. Anche in Mesopotamia troviamo delle<br />
favole, tra cui quella, in accadico, del Tamarisco e della P<strong>al</strong>ma, ris<strong>al</strong>ente <strong>al</strong> 1700-1600 a.C. Il<br />
monologo accadico conosciuto – d<strong>al</strong>le prime parole del testo – come Ludlul bel nemeqi, “Voglio<br />
celebrare il signore della sapienza”, presenta un giusto sofferente paragonabile a Giobbe,<br />
e ris<strong>al</strong>irebbe agli anni 1500-1200 a.C. Anche il Di<strong>al</strong>ogo pessimistico tra un padrone e il suo<br />
servo, che approva sempre i progetti più contraddittori del primo, è scritto in accadico e non<br />
deve essere di molto anteriore <strong>al</strong>l’anno 1000 3 .<br />
2 Cfr. J. LÉVÊQUE, Testi sapienzi<strong>al</strong>i dell’Antico Egitto, in L’Antico Testamento e le culture del tempo, Roma<br />
1990, 393-497; A. ROCCATI (ed.), Sapienza Egizia. La letteratura educativa in Egitto durante il II millennio a.C.,<br />
Brescia 1994; G.E. BRYCE, A Legacy of Wisdom. The Egyptian Contribution to the Wisdom of Israel,<br />
Lewinsburg-London 1979.<br />
3 Fonte princip<strong>al</strong>e per i testi sapienzi<strong>al</strong>i del Vicino Oriente Antico resta J.B. PRITCHARD, Ancient Near Eastern<br />
Texts Relating to the Old Testament, Princeton 1968 3 , con supplemento; vedi G.R. CASTELLINO, Testi<br />
sumerici e accadici, Torino 1977, 471-515; M. CIMOSA, L’ambiente storico-cultur<strong>al</strong>e delle Scritture Ebr<strong>ai</strong>che,<br />
Bologna 2000.
<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 7<br />
3.3.2. Testi contemporanei <strong>al</strong>l’AT<br />
Nel I millennio avranno una grande risonanza due opere. La prima viene d<strong>al</strong>la Grecia: Le<br />
opere e i giorni, di Esiodo (VIII sec. a.C.), è un poema didattico in cui sono es<strong>al</strong>tati i v<strong>al</strong>ori<br />
del lavoro. Molti accostamenti sono possibili tra questa opera e la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e del<br />
Vicino Oriente Antico. La seconda è il romanzo di Achikar, opera probabilmente aram<strong>ai</strong>ca<br />
(VI-V sec. a.C.), di cui si sono ritrovati lunghi frammenti presso la comunità ebr<strong>ai</strong>ca di Elefantina<br />
in Egitto. Il greco Esopo e Tb (1,21-22; 14,10) vi si ricollegano. Ministro di Sennacherib<br />
e di Assarhaddon, Achikar narra come, a causa degli intrighi del nipote che egli aveva<br />
formato <strong>al</strong>la sapienza degli scribi, egli sarebbe morto se l’uffici<strong>al</strong>e che lo aveva arrestato non<br />
avesse accettato di nasconderlo. Tornato nelle grazie del re, ottenne di castigare lui stesso il<br />
nipote. L’insegnamento che Achikar trasmette a quest’ultimo è simile a quello di tutte le raccolte<br />
antiche del genere: severa educazione <strong>dei</strong> figli, obbedienza <strong>al</strong> re, difficoltà nei rapporti<br />
umani, prudenza nelle parole e anche qu<strong>al</strong>che favola.<br />
3.3.3. Testi dell’inizio dell’era cristiana<br />
Al di fuori della Bibbia, <strong>al</strong>l’inizio dell’era cristiana, videro la luce anche <strong>al</strong>tri testi sapienzi<strong>al</strong>i.<br />
Nel giud<strong>ai</strong>smo ellenistico troviamo le Sentenze di Focilide (fine del I sec. a.C. o inizio<br />
del I sec. d.C.) e 3Esd 3,1–5,6 (racconto posteriore a Dan e anteriore a Giuseppe Flavio); nel<br />
giud<strong>ai</strong>smo p<strong>al</strong>estinese i Pirqê ’Abôt, “Sentenze <strong>dei</strong> Padri” (nella Mišnah e quindi anteriori <strong>al</strong>la<br />
fine del II sec. d.C.); nel cristianesimo, le Due Vie (questa raccolta di origine giud<strong>ai</strong>ca si ritrova<br />
nella Didaché 2,2–6,1, nella Lettera di Barnaba 18-20 e nella Dottrina <strong>dei</strong> Dodici Apostoli),<br />
le Sentenze di Sesto (di origine pagana e la cui redazione cristiana ris<strong>al</strong>e <strong>al</strong> II sec. d.C.) e<br />
gli Insegnamenti di Silvano (a cav<strong>al</strong>lo tra il II e il III sec. d.C.). Anche in Egitto, nel I sec.<br />
d.C., troviamo una sapienza in demotico, conservata d<strong>al</strong> Papiro Insinger.<br />
3.4. COS’È LA SAPIENZA?<br />
Per illuminare il concetto biblico di sapienza possono essere utili due confronti. Nel<br />
pantheon egiziano classico la dea Ma’at, figlia del dio Ra, è raffigurata come una ragazzina accovacciata,<br />
ricoperta di una lunga veste, avente in testa un velo sormontato da una lunga piuma<br />
e in mano una croce ansata simbolo della vita (ankh, in egiziano). Alcuni avori del p<strong>al</strong>azzo re<strong>al</strong>e<br />
di Samaria provano che nel IX sec. la dea era conosciuta anche lì. Ma’at assicura l’ordine cosmico<br />
e l’armonia nei rapporti umani attraverso la giustizia e la bontà verso i poveri. Amata da<br />
Ra, essa porta <strong>al</strong>la vita colui che la venera: il suo ruolo presso i responsabili della società è di<br />
aprirli <strong>al</strong>la verità e <strong>al</strong>la giustizia soprattutto verso i più sprovveduti. La figura della Sapienza in<br />
Pr 8 è forse parzi<strong>al</strong>mente ispirata a quella di Ma’at, ma non senza che una purificazione radic<strong>al</strong>e<br />
sia stata operata: la Sapienza non è una dea. Negli ultimi secoli prima dell’era cristiana la dea<br />
Iside assunse la maggior parte delle prerogative di Ma’at e il suo culto si diffuse nel mondo ellenistico.<br />
È possibile che Sir 24 e Sap 7–9, parlando nuovamente della Sapienza, a loro volta si<br />
ispirino un po’ <strong>al</strong>la figura di Iside, ma senza fare della Sapienza una dea.<br />
Nella Grecia antica, agli occhi <strong>dei</strong> sette Saggi, la sapienza è un’arte di vivere piena di equilibrio,<br />
una capacità a pronunciarsi con avvedutezza sui problemi tanto della vita quotidiana<br />
quanto della politica. Contro i sofisti Socrate affermò più tardi la nobiltà della sapienza, che <strong>ai</strong><br />
suoi occhi è divina: con la pratica della virtù l’uomo deve diventarne l’amico. Ma Platone ridusse<br />
la sapienza <strong>al</strong>l’ambito intellettu<strong>al</strong>e: attraverso la contemplazione essa permette la conoscenza<br />
intuitiva delle idee divine, in particolare il bene e il bello. Aristotele invece distinse la<br />
sapienza, sophía, che è conoscenza delle cause prime e <strong>dei</strong> princìpi – da identificarsi quindi<br />
con la filosofia – d<strong>al</strong>la prudenza, phrónēsis, sapienza pratica nella linea <strong>dei</strong> sette Saggi. Più<br />
tardi lo stoicismo fece della sapienza «la scienza delle cose divine e umane» (cfr. pure 4Mac<br />
1,16): re<strong>al</strong>tà divina, essa si identifica con la ragione univers<strong>al</strong>e ed è l’ide<strong>al</strong>e che l’uomo può<br />
raggiungere attraverso la filosofia e la pratica della virtù. Il saggio re<strong>al</strong>izza questa sapienza i-
8 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />
de<strong>al</strong>e, unica virtù. Ma a causa della difficoltà a conseguire questa sapienza perfetta gli stoici si<br />
applicarono sempre di più <strong>al</strong>la phrónēsis, sapienza pratica, frutto della virtù. Parlando di<br />
phrónēsis e insistendo sul suo aspetto virtuoso, Sap 3,15; 4,9; 6,15.24; 7,7; 8,6-7 si muove<br />
nell’ambito del pensiero greco.<br />
3.5. LA BIBBIA E LE SAPIENZE PAGANE<br />
Questa serie di contatti, nell’ambito sapienzi<strong>al</strong>e, tra la Bibbia e le culture circostanti non fa<br />
che continuare una lunga tradizione. Spesso un riferimento <strong>al</strong>la sapienza pagana serve a dimostrare<br />
la superiorità della sapienza biblica. È il caso di Giuseppe (Gen 41), di Mosè (Es 7,8–<br />
9,12), di S<strong>al</strong>omone (1Re 5,10-11; 10,1-13), di Daniele (Dan 2; 4), che hanno la meglio sui<br />
saggi pagani. I profeti a loro volta sottolineano i limiti della sapienza <strong>dei</strong> popoli pagani (Is<br />
19,3.11-12; 44,25; 47,8-15; Ger 49,7 = Abd 8; Ger 50,35-36; 51,57; Ez 28,1-19): loro bersaglio<br />
sono quasi sempre l’Egitto, Babilonia o Edom. In Egitto e a Babilonia i saggi sono spesso<br />
considerati come <strong>dei</strong> maghi, mentre la sapienza di Tiro, secondo Ez 28, sta nella sua abilità ad<br />
arricchirsi con il commercio marittimo. Ma la Bibbia non nutre solo disprezzo per la sapienza<br />
<strong>dei</strong> pagani. Si intuisce in 1Re 5,9-14 quanto la sapienza s<strong>al</strong>omonica debba a quella delle grandi<br />
culture circostanti. Più ancora: Pr 30,1-14 ha conservato i proverbi di Agur e Pr 31,1-9<br />
quelli che Lemuel ha imparato d<strong>al</strong>la madre; ora questi due sapienti non sono di origine israelita.<br />
Il caso di Giobbe è più sottile, perché nemmeno Giobbe è israelita: è del paese di Uz (Gb<br />
1,1), da loc<strong>al</strong>izzare probabilmente in Transgiordania. Questa finzione serve a dimostrare il carattere<br />
univers<strong>al</strong>e della risposta biblica <strong>al</strong> problema posto d<strong>al</strong>la sofferenza del giusto. In un caso<br />
<strong>al</strong>meno la sapienza biblica si annetterà la sapienza pagana: Achikar è considerato in Tb<br />
1,21 come nipote del vecchio Tobi, a riprova del grande rispetto che nel giud<strong>ai</strong>smo si nutriva<br />
per la sapienza di Achikar. Un rispetto an<strong>al</strong>ogo spiega perché Pr 22,17–24,22 dipenda d<strong>al</strong>le<br />
Istruzioni di Amenemope. Tutto ciò conduce a pensare che la Bibbia fosse cosciente tanto<br />
dell’influenza che la sapienza pagana esercitava sulla propria, quanto della differenza che separava<br />
la propria sapienza da quella <strong>dei</strong> pagani, ed anche dell’univers<strong>al</strong>ità tipica di ogni autentica<br />
sapienza.<br />
4. LA SAPIENZA BIBLICA<br />
4.1. I LIBRI SAPIENZIALI<br />
Nella Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca i libri propriamente sapienzi<strong>al</strong>i si trovano tra gli Agiografi o Scritti<br />
(Ketubîm): si tratta di Pr, Gb, Qo; quest’ultimo fa parte della sottosezione <strong>dei</strong> Cinque Rotoli<br />
(Megillôt). Nei Settanta troviamo inoltre l’opera di Ben Sira o Siracide o Ecclesiastico (di cui<br />
da circa un secolo è stata ritrovata una parte importante del testo ebr<strong>ai</strong>co) e infine Sap. Nel<br />
NT possiamo considerare libro sapienzi<strong>al</strong>e la lettera di Giacomo.<br />
4.2. NEGLI ALTRI LIBRI BIBLICI<br />
4.2.1. Nell’AT<br />
La corrente sapienzi<strong>al</strong>e biblica si manifesta anche in <strong>al</strong>tri testi. Prendiamo innanzitutto<br />
quelli in cui il fatto è più esplicito. Alcuni s<strong>al</strong>mi sono detti sapienzi<strong>al</strong>i o didattici; i commentatori<br />
però non si accordano sulla loro scelta soprattutto a causa della difficoltà di determinarne<br />
il genere letterario e il rapporto con il culto. Vengono considerati t<strong>al</strong>i, ad es., i s<strong>al</strong>mi che cantano<br />
la bellezza della tôrah (S<strong>al</strong> 1; 19b; 119), quelli che semplicemente formulano un insegnamento<br />
(S<strong>al</strong> 37; 91; 112; 127), quelli che riflettono sulla sorte dell’essere umano (S<strong>al</strong> 49;<br />
73, che viene accostato a Gb; 90). In maniera più esplicita Bar 3,9–4,4 è una esortazione a restar<br />
fedeli <strong>al</strong>la Sapienza, identificata con la tôrah. Alcuni racconti, le cui apparenze storiche<br />
possono ingannare, sono didattici e potrebbero ricollegarsi a quelli che leggiamo in Gb 1–2 e
<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 9<br />
42 o in Achikar: sono soprattutto Rt, Gi, Tb, Gdt, Est e Susanna (Dan 13). Questi testi hanno<br />
pure <strong>dei</strong> legami con i midrašim. In <strong>al</strong>tri testi o in <strong>al</strong>tre correnti l’influsso sapienzi<strong>al</strong>e è riconosciuto<br />
o controverso. Il racconto J del giardino dell’Eden (Gen 2–3) ha <strong>dei</strong> tratti sapienzi<strong>al</strong>i 4 .<br />
Le opinioni sono divise quanto <strong>al</strong>l’influenza sapienzi<strong>al</strong>e su Dt e Am. G. von Rad ha pensato di<br />
poter ricollegare l’apoc<strong>al</strong>ittica non già <strong>al</strong> profetismo bensì <strong>al</strong>le correnti sapienzi<strong>al</strong>i; tuttavia solo<br />
Sap integra bene, sia pure tardivamente, sapienza e apoc<strong>al</strong>ittica. Alcuni testi brevi denotano<br />
una forte tendenza sapienzi<strong>al</strong>e: per es. Ct 8,6-11; 1Sam 25, in cui Abig<strong>ai</strong>l pone rimedio <strong>al</strong>la<br />
stupidità del marito; 2Sam 14, dove vediamo la saggia donna di Tekoa perorare la riabilitazione<br />
di Ass<strong>al</strong>onne. L’importanza <strong>dei</strong> saggi appare anche nelle critiche che i profeti – Is<strong>ai</strong>a e Geremia<br />
in particolare – hanno formulato nei confronti di <strong>al</strong>cuni di loro: <strong>al</strong>lora è la saggezza di<br />
corte, i consiglieri reg<strong>al</strong>i che vengono presi di mira (Is 3,1-3; 5,21; 29,14; 30,1; Ger 8,8-9;<br />
9,11.22-23). Queste critiche riprendono spesso quelle che Pr rivolgeva a coloro che confidano<br />
solo nella propria saggezza (Pr 26,12; 28,11) o nelle proprie forze (Pr 21,31). D’<strong>al</strong>tra parte<br />
testi come Is 9,1-6; 11,1-5 sul re-messia ricordano per certi aspetti l’insegnamento <strong>dei</strong> saggi di<br />
Pr sull’esercizio della funzione reg<strong>al</strong>e (Pr 20,28; 29,14).<br />
4.2.2. Nel NT: Gesù maestro di sapienza<br />
Nel NT troviamo, accanto a Gc, un certo numero di testi che parlano della sapienza di Dio<br />
o che, a proposito di Gesù, ricorrono ad espressioni che l’AT utilizza per parlare della Sapienza.<br />
Fermiamoci per ora a ciò che, nell’insegnamento di Gesù, prende una forma sapienzi<strong>al</strong>e.<br />
Non si può infatti negare che molti discorsi di Gesù erano simili a quelli <strong>dei</strong> saggi. Del resto<br />
gli abitanti di Nazaret se ne sono resi conto, arrivando addirittura a considerare Gesù superiore<br />
agli scribi (cfr. Mt 7,28-29): «Donde viene a costui questa sapienza?» (Mt 13,54).<br />
La cosa si nota nelle parabole. Anche i maestri d’Israele dell’epoca di Gesù, che d’<strong>al</strong>tronde si<br />
chiamavano saggi, utilizzavano la parabola soprattutto per spiegare <strong>ai</strong> discepoli il senso di un<br />
testo della Scrittura. Così, per spiegare il banchetto della Sapienza in Pr 9,1-6, si diceva: «E<br />
come un re che si costruì un p<strong>al</strong>azzo e che, per inaugurarlo, diede un banchetto...» (Toseftah,<br />
Sanhedrin 8,9). Oppure, per spiegare perché nel deserto gli ebrei non ricevettero solo una volta<br />
<strong>al</strong>l’anno la loro razione di manna, si diceva: «Un re diede <strong>al</strong> proprio figlio il necessario per<br />
l’intero anno e il figlio si accontentò di presentarsi davanti <strong>al</strong> padre una volta <strong>al</strong>l’anno. Allora il<br />
padre decise di dargli il necessario giorno per giorno ed è così che il figlio fu costretto a visitare<br />
il padre ogni giorno» (T<strong>al</strong>mud Babli Joma 17a). T<strong>al</strong>volta la parabola rabbinica chiarisce un punto<br />
dottrin<strong>al</strong>e: «Alla domanda se i morti risuscitano nudi o vestiti, R. Meir rispose: “Se il grano<br />
di frumento messo nudo nella terra riappare con una moltitudine di vestiti, i giusti che sono sepolti<br />
con i loro abiti non dovrebbero risorgere vestiti?”» (T<strong>al</strong>mud Babli, Sanhedrin 50b).<br />
Si intuisce facilmente la portata pedagogica delle parabole che prendono spunto d<strong>al</strong>la vita<br />
quotidiana in P<strong>al</strong>estina: tanto i maestri in Israele quanto Gesù parlano di pastore e di pecore,<br />
di vigna, di compera o di vendita, di monetina smarrita, di casa da costruire, di tesoro dato in<br />
consegna o in prestito, ecc., e i personaggi abitu<strong>al</strong>i sono un re, un padre e un figlio, un padrone<br />
e un servo, una mass<strong>ai</strong>a, ecc. Quando Gesù parla in parabole, si rivolge <strong>al</strong>la folla (Mt<br />
13,34), prende spunto d<strong>al</strong>la vita rur<strong>al</strong>e e campestre e i suoi temi si riferiscono <strong>al</strong> regno di Dio<br />
o <strong>al</strong>la sua stessa persona, <strong>al</strong>la sua missione, oppure <strong>al</strong>l’atteggiamento di colui che ascolta<br />
l’appello di Dio.<br />
Oltre <strong>al</strong>le parabole, anche molti discorsi di Gesù hanno un taglio sapienzi<strong>al</strong>e. È il caso in<br />
particolare del discorso sul monte (Mt 5–7) o del discorso sul pane di vita (Gv 6). Accanto a<br />
queste composizioni ampie troviamo pure, attribuite a Gesù, delle formulazioni sapienzi<strong>al</strong>i di<br />
vario tipo. Sono delle massime come: «Tutti quelli che mettono mano <strong>al</strong>la spada, di spada pe-<br />
4 Cfr. A. VANEL, Sagesse (courant de), in DBS XII, Paris 1989, 23-27 e L. MAZZINGHI, Qu<strong>al</strong>e fondamento<br />
biblico per il “peccato origin<strong>al</strong>e”? Un bilancio ermeneutico: l’Antico Testamento, in I. SANNA (ed.), Questioni<br />
sul peccato origin<strong>al</strong>e, Padova 1995, 61-140.
10 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />
riranno» (Mt 26,52); «Chi vuole s<strong>al</strong>vare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25); «C’è più felicità<br />
a dare che a ricevere» (At 20,35). Possono assumere una connotazione person<strong>al</strong>e: «Chi<br />
non è contro di noi è per noi» (Mc 9,40), o diventare delle esortazioni: «Lascia che i morti<br />
seppelliscano i loro morti» (Mt 8,22), oppure: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio<br />
quello che è di Dio» (Mt 22,21).<br />
5. ORIGINE DELLA SAPIENZA IN ISRAELE 5<br />
5.1. SALOMONE MODELLO DEI SAGGI<br />
La Bibbia collega la fioritura della sapienza in Israele <strong>al</strong>la persona del re S<strong>al</strong>omone (972-<br />
932). Alla morte di Davide, che fu il creatore di un autentico impero, il riunificatore delle dodici<br />
tribù, il conquistatore, il suo giovane erede S<strong>al</strong>omone domandò a Dio, fin d<strong>al</strong>l’inizio del<br />
suo regno, «un cuore saggio e perspicace» per governare (1Re 3,4-15; 2Cr 1,3-12). La sapienza<br />
di S<strong>al</strong>omone si manifestò nelle sue qu<strong>al</strong>ità di giudice (1Re 3,15-28: il famoso giudizio di<br />
S<strong>al</strong>omone), nelle capacità di amministratore (1Re 4,1–5,8), di costruttore del tempio (1Re<br />
5,15–8,66). Organizzò i lavori pubblici (1Re 9,15-24) e il commercio con l’estero (1Re 9,26–<br />
10,13: la visita della regina di Saba), accumulando un’enorme fortuna (1Re 10,14-25). Ma il<br />
regno di S<strong>al</strong>omone non fu senza ombre: l’oppressione del popolo in funzione <strong>dei</strong> suoi progetti,<br />
il fasto della corte e soprattutto la sua infedeltà religiosa gli procurarono <strong>dei</strong> nemici, tanto<br />
che <strong>al</strong>la sua morte il regno si divise. Possiamo supporre che un’attività del genere da parte di<br />
S<strong>al</strong>omone abbia richiesto <strong>al</strong>lo stato l’organizzazione di una specie di scuola superiore di amministrazione,<br />
in cui tutti i membri degli organismi stat<strong>al</strong>i ricevessero una formazione adeguata,<br />
in particolare sul piano cultur<strong>al</strong>e. L’accoglienza delle culture straniere fu probabilmente<br />
uno <strong>dei</strong> motivi del successo della politica del re. Aveva sposato in prime nozze la figlia del faraone<br />
(1Re 3,1; 9,16; 11,1) e si può pensare che la cultura egiziana abbia fatto il suo ingresso<br />
a Gerus<strong>al</strong>emme coi bagagli della giovane regina. Si può pensare anche che la lingua accadica,<br />
e forse anche il sumerico, fossero conosciuti nelle <strong>al</strong>te sfere dello stato, per necessità diplomatica<br />
e formazione cultur<strong>al</strong>e. L’attività letteraria fu verosimilmente favorita negli stessi ambienti.<br />
L’autore detto correntemente J scrisse probabilmente sotto S<strong>al</strong>omone la sua storia delle origini;<br />
il racconto così profondamente umano della successione a Davide (2Sam 13ss) fu redatto,<br />
sembra, da un testimone, familiare <strong>al</strong>la corte. I proverbi di Pr 10,1–22,16 e il fondo originario<br />
di Pr 25–29 sono attribuiti a S<strong>al</strong>omone: in re<strong>al</strong>tà potrebbe trattarsi piuttosto di raccolte<br />
compilate dagli scribi e d<strong>ai</strong> saggi su indicazioni del re. Del resto 1Re 5,12-13 attribuisce a S<strong>al</strong>omone<br />
«tremila proverbi e i suoi carmi furono mille e cinque. Trattò degli <strong>al</strong>beri, d<strong>al</strong> cedro<br />
che si trova sul Libano, sino <strong>al</strong>l’issopo che spunta d<strong>al</strong> muro; dissertò anche sul bestiame e sui<br />
volatili, sui rettili e sui pesci». Dobbiamo probabilmente vedere in questi ultimi riferimenti<br />
degli onomastica, specie di lessici re<strong>al</strong>izzati essi pure su indicazioni del re. Il patrocinio di S<strong>al</strong>omone<br />
doveva continuare a lungo dopo di lui, se gli viene attribuito il Ct, se <strong>dei</strong> suoi panni si<br />
riveste Qo, se i S<strong>al</strong> 72 e 127 (in rapporto con 1Re 3,14-15) portano il suo nome e Sap lo mette<br />
ancora in scena. S<strong>al</strong>omone è dunque diventato una figura ide<strong>al</strong>e (cfr. anche Mt 6,29; Lc 12,27;<br />
Mt 12,42). Ci si può d’<strong>al</strong>tronde domandare se già 1Re 3–11 e 2Cr 1–9 non abbiano risentito di<br />
questa tendenza <strong>al</strong>l’ide<strong>al</strong>izzazione. Ad ogni modo, la Bibbia attribuisce <strong>al</strong>la corte re<strong>al</strong>e un ruolo<br />
determinante nello sviluppo della corrente sapienzi<strong>al</strong>e in Israele. Questo ruolo si rinnoverà<br />
sotto il regno di Ezechia (Pr 25,1).<br />
5<br />
Sull’ambiente vit<strong>al</strong>e della sapienza israelita cfr. V. MORLA ASENSIO, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong><br />
<strong>al</strong>lo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 49-54.
5.2. SCRIBI E SCUOLE<br />
<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 11<br />
Gli scribi del re, ricordati in Pr 25,1 o che 1Re 5,13 lascia supporre, non sono da identificarsi<br />
puramente e semplicemente con i suoi consiglieri politici. Leggendo i proverbi delle raccolte<br />
s<strong>al</strong>omoniche si intuisce che certi scribi avevano un’<strong>al</strong>tra funzione di importanza capit<strong>al</strong>e<br />
per l’avvenire dello stato: quella di preparare la gioventù maschile meglio dotata a prendere<br />
un domani il cambio nella responsabilità dell’amministrazione, della diplomazia e del governo.<br />
Bisognava insegnare a questi giovani ciò che rende l’uomo equilibrato e completo, e innanzitutto<br />
il comportamento corretto a corte (Pr 16,10-15; 25,2-7). Che questa formazione<br />
fosse impartita a <strong>dei</strong> giovani, lo si può dedurre d<strong>al</strong> fatto che troviamo nei proverbi (come in Pr<br />
27,11) il vocativo “figlio mio”.<br />
5.3. ORIGINE POPOLARE DELLA SAPIENZA<br />
La maggior parte <strong>dei</strong> proverbi antichi non ha niente a che vedere con la vita di corte. Un<br />
gran numero di proverbi riuniti nelle raccolte s<strong>al</strong>omoniche proviene sicuramente d<strong>al</strong>la campagna<br />
o d<strong>ai</strong> villaggi e il loro contenuto lo testimonia; ad es.: «Se non ci sono buoi la greppia è<br />
vuota; nella forza del giovenco c’è abbondanza di prodotti» (Pr 14,4). In questo l’origine della<br />
sapienza in Israele non differisce da quella di tutti gli <strong>al</strong>tri popoli. Le testimonianze antiche,<br />
anteriori a S<strong>al</strong>omone, confermano questo dato. In Israele, come dappertutto, la sapienza proverbi<strong>al</strong>e<br />
è di origine popolare e si trasmette in famiglia, come avverrà ancora molto più tardi<br />
con Tobia (Tb 4,3-21). S<strong>al</strong>omone e i suoi scribi non hanno fatto <strong>al</strong>tro che raccogliere questa<br />
saggezza popolare antica, organizzarla e metterla per iscritto, s<strong>al</strong>vo a modificare qua e là la<br />
formulazione origin<strong>al</strong>e per farla meglio entrare nei quadri previsti per la raccolta. La sapienza<br />
proverbi<strong>al</strong>e non è solo l’opera di artigiani abili nel loro mestiere (cfr. Es 31,31; 2Cr 2,12); è<br />
più di questo. Un proverbio infatti è una espressione armoniosa – piacevole da ascoltare e da<br />
dire, concisa <strong>al</strong> massimo e che richiede riflessione per essere ben compresa – di una verità<br />
comprensibile a tutti e che sintetizza una lunga esperienza di osservazione degli uomini e delle<br />
cose. Un proverbio è il frutto di una lunga maturazione e l’osservazione ne è la base. La ripetizione<br />
di uno stesso fenomeno fu osservata da spiriti pazienti e perspicaci, rimasti quasi<br />
sempre anonimi, forse perché usciti d<strong>al</strong> popolino, e ciò ha permesso loro di scoprire il principio<br />
gener<strong>al</strong>e che regge questa molteplicità. Inoltre questa gente osservatrice è riuscita a condensare<br />
la propria scoperta in una formula breve e stringata, trasmessa dapprima or<strong>al</strong>mente,<br />
come avviene ancor oggi nell’Africa nera. È solo a questo punto che è intervenuta l’azione<br />
degli scribi di corte o <strong>dei</strong> circoli intellettu<strong>al</strong>i. E questa messa per iscritto fin d<strong>al</strong>la più remota<br />
antichità è caratteristica delle culture del Vicino Oriente Antico. In Israele questa stesura <strong>dei</strong><br />
proverbi in raccolte organizzate, come si faceva anche in Mesopotamia e in Egitto, conobbe<br />
un avvenire ancora migliore, d<strong>al</strong> momento che queste raccolte furono accettate come t<strong>al</strong>i e<br />
trasmesse fedelmente lungo i secoli fino a noi. Così si conservava la tradizione, che <strong>al</strong>la fine<br />
acquistò un carattere religioso, d<strong>al</strong> momento che Pr fa parte della Bibbia, è parola di Dio.<br />
6. IL FINE DELLA SAPIENZA<br />
Il fine primo della sapienza è di comprendere, è il sapere. Il mondo in cui vivevano gli antichi<br />
sfuggiva loro molto più che a noi, che beneficiamo di secoli di osservazione e di an<strong>al</strong>isi<br />
che arrivano fino <strong>al</strong>le scienze contemporanee in tutti i campi. Il primo scopo <strong>dei</strong> saggi era,<br />
ovviamente, quello di conoscere questo mondo in tutta la sua complessità: il mondo fisico, il<br />
mondo degli anim<strong>al</strong>i e soprattutto quello dell’uomo con il suo comportamento, le sue tendenze<br />
e le sue capacità. Essi erano convinti quanto noi che l’uomo, di fronte <strong>al</strong>la molteplicità <strong>dei</strong><br />
fenomeni e <strong>al</strong>la loro varietà, è capace di mettere il dito su ciò che è permanente, che si verifica<br />
sempre: in definitiva su una legge che governa il re<strong>al</strong>e fin nei dettagli. Quindi erano implicitamente<br />
convinti quanto noi che il re<strong>al</strong>e è governato da leggi precise e stabili. Intendevano<br />
conoscere il senso del re<strong>al</strong>e in cui ammettevano l’esistenza di un ordine. T<strong>al</strong>e sforzo non era
12 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />
certamente privo di esitazioni, di insuccessi, di contraddizioni; ma un po’ <strong>al</strong>la volta le cose si<br />
chiarivano.<br />
Apparentemente l’opera <strong>dei</strong> saggi era essenzi<strong>al</strong>mente profana. Ma l’uomo antico non pensava,<br />
come noi, che bisognasse distinguere o addirittura separare nettamente il mondo profano<br />
d<strong>al</strong> religioso: per loro il re<strong>al</strong>e costituiva un tutt’uno, il profano si mescolava <strong>al</strong> religioso e viceversa.<br />
Per questo nella loro ricerca si interessavano anche <strong>al</strong> comportamento mor<strong>al</strong>e dell’<br />
uomo e <strong>ai</strong> v<strong>al</strong>ori religiosi ammessi nella loro società. Ma lo facevano da saggi, da osservatori<br />
attenti e imparzi<strong>al</strong>i di questa parte del re<strong>al</strong>e, più che da difensori di tradizioni etiche e teologiche<br />
di cui i sacerdoti e i profeti avevano, con il re, la responsabilità.<br />
Tuttavia la scoperta e la formulazione delle leggi che reggono il re<strong>al</strong>e non era per loro uno<br />
scopo a sé stante. I saggi cercavano ciò che poteva <strong>ai</strong>utare l’essere umano ad orientarsi in questo<br />
mondo, a meglio vivere e a meglio agire. L’obiettivo della loro sapienza era il ‘saper vivere’,<br />
il ‘saper fare’. Una miglior conoscenza del re<strong>al</strong>e poteva certamente <strong>ai</strong>utare a riuscire nella<br />
vita, a equilibrarla e a darle armonia e felicità. E la ricerca di ciò non era né edonismo né egoismo,<br />
perché i saggi avevano capito che la felicità dell’uomo passava attraverso l’azione virtuosa<br />
e la rinuncia a se stessi. Anche l’agire mor<strong>al</strong>e e religioso aveva delle leggi e delle conseguenze.<br />
Trasmessa or<strong>al</strong>mente o per iscritto, ma soprattutto in quest’ultimo modo, la sapienza antica<br />
governava le attività della società e regolava i comportamenti e le controversie che sorgevano<br />
tra le persone o i gruppi. Nell’Africa nera i proverbi hanno ancora questa funzione, mentre nel<br />
mondo occident<strong>al</strong>e sono ridotti solitamente a semplici infiorettature stilistiche che ornano il<br />
discorso o lo scritto. Proprio perché aveva questa funzione regolatrice della società, la sapienza<br />
antica doveva essere trasmessa <strong>al</strong>la gioventù, nella cui formazione occupava una parte importante.<br />
Attraverso di essa i giovani imparavano i princìpi del comportamento e quanto poteva<br />
dare pienezza ed equilibrio <strong>al</strong>la loro vita. E tutto ciò era estremamente importante per quella<br />
parte della gioventù che doveva essere preparata ad assumere nella società i posti di responsabilità.<br />
Quella <strong>dei</strong> saggi era dunque un’opera di formazione e di educazione, e questo comportò<br />
ben presto il nascere di una scuola o accademia sotto la direzione di un maestro di sapienza.<br />
7. L’ATTEGGIAMENTO DEI SAGGI<br />
7.1. IL CONSIGLIO<br />
Il saggio non è né capo né sacerdote né profeta. Non comanda né in nome dello stato né in<br />
nome di Dio. Propone ciò che gli sembra di aver scoperto, espone ciò che sa, indica la via che<br />
secondo lui conduce <strong>al</strong>la pienezza di vita e sconsiglia quella che, in base <strong>al</strong>la propria esperienza,<br />
porta <strong>al</strong> f<strong>al</strong>limento. Il suo discorso descrive, indica, consiglia, suggerisce ma non comanda.<br />
7.2. I LIMITI DELLA SAPIENZA<br />
D’<strong>al</strong>tra parte il saggio percepisce i limiti del proprio sapere e della propria esperienza, d<strong>al</strong><br />
momento che sa di non essere padrone della re<strong>al</strong>tà e <strong>dei</strong> cuori cui si rivolge. E poi vuole anche<br />
ricordare i limiti di ogni sapere umano, perché essi pure fanno parte della sua conoscenza.<br />
Non c’è nulla di peggio di un uomo convinto di sapere tutto: «Vedi uno che si crede di essere<br />
saggio? C’è da sperare più d<strong>al</strong>lo stolto che da lui» (Pr 26,12). Molte cose ci sfuggono, ma esse<br />
sono nelle mani di colui che tutto governa; l’uomo propone e Dio dispone, dice il nostro<br />
proverbio: «All’uomo i progetti del cuore, ma d<strong>al</strong> Signore la risposta della lingua» (Pr 16,1).<br />
Ecco ancora due esempi più concreti: «La casa e la ricchezza si ereditano dagli avi: ma dono<br />
del Signore è una moglie intelligente» (Pr 19,14); «Si equipaggia il cav<strong>al</strong>lo per il giorno della<br />
lotta; ma <strong>al</strong> Signore appartiene la s<strong>al</strong>vezza» (Pr 21,31). L’uomo non è nemmeno sicuro che il
<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 13<br />
suo agire sia giusto: «Tutte le vie dell’uomo sono pure <strong>ai</strong> suoi occhi, ma chi esamina gli spiriti<br />
è il Signore» (Pr 16,2; 21‚2). Il saggio sa infatti che in definitiva noi siamo nelle mani di Dio:<br />
«D<strong>al</strong> Signore sono ordinati i passi dell’uomo: come può dunque l’uomo conoscere la sua via?»<br />
(Pr 20,24). La nostra sapienza, <strong>al</strong> limite, sta nel negare se stessa: «Non c’è sapienza né intelligenza<br />
né consiglio di fronte <strong>al</strong> Signore» (Pr 21,30).<br />
7.3. LA SAPIENZA DI DO<br />
Di qui ad affermare la sapienza stessa di Dio il passo era breve. Tuttavia, <strong>al</strong> contrario della<br />
Mesopotamia e dell’Egitto, Israele esitò a lungo prima di attribuire a YHWH la sapienza. La<br />
ragione va cercata probabilmente nel fatto che la sapienza appariva come una qu<strong>al</strong>ità profondamente<br />
umana. Eppure la donna di Tekoa, che andò a perorare davanti a Davide la causa di<br />
Ass<strong>al</strong>onne, riconobbe che il re aveva la sapienza dell’angelo di Dio (2Sam 14,20). È da Dio<br />
che S<strong>al</strong>omone ricevette la sapienza (1Re 3,12), come un tempo gli artigiani dell’esodo (Es<br />
31,3) tutta la loro abilità, e la stessa sapienza di S<strong>al</strong>omone venne percepita come una sapienza<br />
divina (1Re 3,28; 10,24). Ma probabilmente i testi che es<strong>al</strong>tano l’erede di Davide sono meno<br />
antichi di una frase di Is<strong>ai</strong>a a proposito di YHWH, quando il profeta criticava i consiglieri reg<strong>al</strong>i:<br />
«Anch’egli [il Signore] è saggio e causerà il disastro, non ritira le sue parole» (Is 31,2). Già<br />
prima dell’esilio si affermava che il re-messia sarebbe stato rivestito dello Spirito di YHWH,<br />
«spirito di sapienza e di discernimento...» (Is 11,2). Probabilmente però è solo dopo la distruzione<br />
di Gerus<strong>al</strong>emme (586), durante e dopo l’esilio (586-539), che <strong>al</strong>cuni rari testi affermarono<br />
esplicitamente la sapienza di Dio: «Egli ha fatto la terra con la sua potenza, ha stabilito il<br />
mondo con la sua sapienza e con la sua intelligenza ha steso i cieli» (Ger 10,12; 51,15; cfr. Pr<br />
3,19); «Quanto sono numerose le tue opere, o Signore! Tutte le h<strong>ai</strong> fatte con sapienza» (S<strong>al</strong><br />
104,24); e soprattutto: «In lui risiede la sapienza e la forza, sue sono la perspicacia e la prudenza»<br />
(Gb 12,13). Questa corrente andrà via via sviluppandosi.<br />
7.4. IL PROBLEMA DELLA RETRIBUZIONE<br />
È in definitiva in rapporto a Dio che i saggi affronteranno i grandi enigmi dell’esistenza<br />
umana. Senza dubbio <strong>al</strong>cuni proverbi antichi presentano delle <strong>al</strong>lusioni a una vita religiosa e<br />
mor<strong>al</strong>e in rapporto con YHWH: «Chi cammina nella sua rettitudine ha il timor di Dio, chi perverte<br />
la sua strada lo disprezza» (Pr 14,2); «Chi opprime il povero disonora il suo creatore, lo<br />
glorifica chi ha pietà dell’umile» (Pr 14,31); «Molti cercano i favori del capo, ma viene d<strong>al</strong><br />
Signore la sorte di ciascuno» (Pr 29,26). L’introduzione <strong>al</strong> libro <strong>dei</strong> Proverbi (Pr 1–9), che ris<strong>al</strong>e<br />
probabilmente <strong>al</strong> ritorno d<strong>al</strong>l’esilio, si fa più religiosa ed è lì che troviamo messo in evidenza<br />
il principio ben conosciuto: «L’inizio della sapienza è il timore del Signore» (Pr 9,10;<br />
cfr. Pr 1,7; S<strong>al</strong> 111,10; Sir 1,14). Ma questa introduzione, come del resto gli antichi proverbi,<br />
non mette in dubbio l’idea che Dio favorisce l’uomo giusto: «Il Signore non fa morire di fame<br />
un giusto, ma reprime l’ingordigia degli empi» (Pr 10,3) e «M<strong>al</strong>edizione del Signore sulla casa<br />
dell’empio, mentre benedice la dimora <strong>dei</strong> giusti» (Pr 3,33). L’evidenza di ciò che avviene<br />
sulla terra doveva far insorgere Gb e Qo contro questa dottrina classica. Fu la grande crisi della<br />
sapienza biblica: non è vero, dicono Gb e Qo, che quaggiù la felicità ricompensa la virtù e<br />
il vizio produce sventure durante questa vita. Questo problema della retribuzione individu<strong>al</strong>e<br />
non trova soluzione nemmeno nel Sir, per il qu<strong>al</strong>e tutto si conclude con la morte. Eppure scrive:<br />
«Chi teme il Signore si troverà bene <strong>al</strong>la fine, nel giorno della sua morte sarà benedetto»<br />
(Sir 1,11). Ma non possiamo dedurre da questo testo, conosciuto solo nella sua versione greca,<br />
che Ben Sira attendesse una retribuzione dopo la morte. Nei libri sapienzi<strong>al</strong>i della Bibbia questa<br />
soluzione appare solo in Sap: «Le anime <strong>dei</strong> giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento<br />
le toccherà» (Sap 3,1; cfr. anche 3,13.15; 5,15), la loro sofferenza durante questa vita è<br />
una prova (Sap 3,5-6), la loro sterilità accettata virtuosamente avrà il suo frutto nell’<strong>al</strong>dilà
14 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />
(Sap 3,13-15). Solo questa fede in una retribuzione dopo la morte ridà serenità <strong>al</strong>la sapienza<br />
biblica.<br />
7.5. UNA RIFLESSIONE SULLA STORIA DELLA SALVEZZA<br />
Per giungere a questa dottrina l’autore di Sap integra nella sua riflessione l’esperienza storica<br />
di Israele. Già la riflessione di Pr 1–9 faceva eco <strong>al</strong>l’insegnamento di Dt e Ger. Qohelet si<br />
identificava a S<strong>al</strong>omone, giudicando la sua opera <strong>al</strong>la fine di una vita fastosa. Più esplicitamente<br />
Sir 16,24–17,14 e soprattutto Sir 44–49 rileggevano tutta la storia della s<strong>al</strong>vezza <strong>al</strong> modo<br />
di un saggio. Sap 7–9 riproponeva <strong>ai</strong> giovani l’esempio di S<strong>al</strong>omone; Sap 10–19 rileggeva<br />
gli eventi centr<strong>al</strong>i di Israele cominciando dagli eroi di Gen e soffermandosi a lungo sugli eventi<br />
dell’esodo. In tutti i casi, il patrimonio spiritu<strong>al</strong>e di Israele era fonte di insegnamento per<br />
il saggio. Per Sap, in particolare, l’esodo testimoniava come Dio protegge il giusto contro gli<br />
empi, servendosi delle forze del cosmo. Ciò che Dio fece un tempo, lo farà ancora in futuro.<br />
Rileggendo in questo modo la storia santa i saggi inauguravano modestamente quella che potremmo<br />
chiamare già una filosofia della storia.<br />
8. LA PERSONIFICAZIONE DELLA SAPIENZA NELL’AT 6<br />
8.1. I TESTI<br />
Alcuni testi sapienzi<strong>al</strong>i dell’AT emergono in modo speci<strong>al</strong>e per il fatto che non parlano<br />
semplicemente della sapienza umana, e neppure della sapienza di Dio – nel senso che Dio sarebbe<br />
un saggio – ma perché danno <strong>al</strong>la Sapienza una configurazione, una personificazione il<br />
cui significato è controverso. Questi testi hanno un’importanza teologica t<strong>al</strong>e da richiamare la<br />
nostra attenzione.<br />
8.1.1. Gb 28<br />
Considerata da molti esegeti come un’aggiunta del IV o III sec., questa pagina si inserisce<br />
tra il di<strong>al</strong>ogo <strong>dei</strong> tre amici con Giobbe (Gb 4–27) e l’apologia fin<strong>al</strong>e di quest’ultimo (Gb 29–<br />
31). Poema sapienzi<strong>al</strong>e di un afflato evidente, Gb 28 pone la questione radic<strong>al</strong>e: «Ma la sapienza<br />
donde viene?» (Gb 28,12.20). Gli sforzi dell’uomo per scavare la terra e la roccia <strong>al</strong>la<br />
ricerca <strong>dei</strong> met<strong>al</strong>li non permettono di scoprirne la strada. Così pure la ricchezza non può servire<br />
da moneta di scambio per acquistarla. È che la Sapienza «è nascosta agli occhi di ogni vivente»<br />
(Gb 28,21). «Dio solo ne ha conosciuto la via» (Gb 28,23) quando organizzò<br />
l’universo; fu <strong>al</strong>lora che egli la vide, la scrutò (Gb 28,27). Un ultimo versetto, probabilmente<br />
ancora più tardivo, aggiunge: «...Dicendo <strong>al</strong>l’uomo: “Ecco, temere Dio, questa è sapienza”»<br />
(Gb 28,28). Così l’attività industri<strong>al</strong>e o commerci<strong>al</strong>e non conduce di per sé <strong>al</strong>la Sapienza. Di<br />
tutto ciò gli scambi tra Giobbe e i suoi amici non avevano detto nulla, eppure tutti i loro sforzi<br />
erano tesi a spiegare il perché della sofferenza di Giobbe. La loro ricerca di sapienza umana<br />
assomigliava in un certo modo <strong>al</strong>lo sforzo industri<strong>al</strong>e e commerci<strong>al</strong>e, ma senza successo, poiché<br />
il mistero restava intatto: quello della sofferenza dell’uomo e quello della giustizia di Dio.<br />
Nella sua forma origin<strong>al</strong>e, il poema intendeva ricordare tanto <strong>al</strong> lettore quanto <strong>ai</strong> partecipanti<br />
<strong>ai</strong> di<strong>al</strong>oghi precedenti che l’uomo è incapace di risolvere da solo il problema sollevato. La soluzione<br />
non è <strong>al</strong>la sua portata, resta di esclusivo dominio divino. Ma è qui che la Sapienza acquista<br />
rilievo, perché appare distinta da Dio e distinta d<strong>al</strong> mondo, ed è in funzione di essa che<br />
6 Sulla sapienza personificata cfr. R.E. MURPHY, L’<strong>al</strong>bero della vita. Una esplorazione della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e<br />
biblica, Brescia 1993, 171-191; M. GILBERT-J.N. ALETTI, La sapienza e Gesù Cristo, Torino 1982; G.<br />
SEGALLA, Le figure mediatrici di Israele tra il III e il I secolo a.C. La storia di Israele tra guida sapienzi<strong>al</strong>e e<br />
attrazione escatologica, in G.L. PRATO (ed.), Israele <strong>al</strong>la ricerca di identità tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C., in<br />
RStB (1989/1) 13-65.
<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 15<br />
Dio ha fatto ordine nel mondo. Dobbiamo <strong>al</strong>lora pensare che la Sapienza fosse intesa come<br />
un’astrazione dell’ordine cosmico, come il piano concepito da Dio e da lui messo in opera<br />
nell’organizzazione dell’universo? La cosa è ben possibile. Più tardi, tuttavia, l’ultimo versetto<br />
orientò verso un atteggiamento complementare da parte dell’uomo: a quest’ultimo non resta<br />
che venerare Dio, senza conoscere <strong>al</strong>tra sapienza, senza capire nulla oltre a questo. Il mistero<br />
di Dio e della Sapienza rimaneva intatto, ma l’uomo si sottomette attraverso una sapienza<br />
più umile.<br />
8.1.2. Pr 8–9<br />
Pr 1–9 introduce, probabilmente dopo l’esilio, le raccolte di antichi proverbi. Per tre volte<br />
la Sapienza entra in scena. Come Pr 1,20-33, ma in modo positivo, Pr 8 fa parlare la Sapienza<br />
<strong>al</strong>le porte della città, là dove la gente si riunisce per gli affari o semplicemente per incontrarsi<br />
(Pr 8,1-3). Il suo discorso è teso a giustificare l’ascolto che essa richiede a tutti. Innanzitutto<br />
ciò che ha da dire darà loro la chiave del discernimento e del ‘saper fare’, perché essa è portatrice<br />
della verità e della giustizia; es<strong>al</strong>ta dunque le qu<strong>al</strong>ità del proprio messaggio, senza tuttavia<br />
esplicitarlo (Pr 8,4-11). D’<strong>al</strong>tra parte è la Sapienza che assicura l’armonia nelle relazioni<br />
umane, accordando <strong>ai</strong> responsabili di governare saggiamente (Pr 8,12-21). Anche quando<br />
YHWH organizzò il cosmo, essa era accanto a lui come figlia primogenita, generata prima di<br />
ogni <strong>al</strong>tra opera (Pr 8,22-31). Ecco perché la Sapienza rinnova l’invito a prestarle ascolto per<br />
poter conoscere la beatitudine e la vita (Pr 8,32-36). Come la dea egiziana Ma’at, la Sapienza<br />
assicura l’ordine nella società, senza di essa non ci sarebbe nemmeno l’ordine nel cosmo, essa<br />
è verità e giustizia. Ma, a differenza di Ma’at, la Sapienza non è dea: essa viene da YHWH, la<br />
sua felicità sta nel vivere <strong>al</strong>la presenza di lui, trova la sua delizia nello stare con gli uomini.<br />
Simboleggia l’ordine soci<strong>al</strong>e, l’ordine cosmico e l’equilibrio person<strong>al</strong>e di ciascuno. Tuttavia<br />
Pr 8 non fa che spiegare le ragioni fondament<strong>al</strong>i per cui la Sapienza domanda di essere ascoltata.<br />
Infatti Pr 8 fa parte dell’introduzione a Pr 10–31: è lì, in quelle raccolte di proverbi, che<br />
si trova il contenuto del suo messaggio. Quindi Pr 8 lascia intendere che i proverbi riuniti nelle<br />
raccolte provengono da lei e che accoglierli è accogliere lei stessa: è il primo tentativo che<br />
la Bibbia fa per spiegare perché Pr 10–31 sono, come noi diciamo, ispirati.<br />
Pr 9,1-6 riprende, con l’immagine del banchetto, lo stesso messaggio. Avendo costruito il<br />
suo p<strong>al</strong>azzo la Sapienza, come un re che inaugura il proprio regno, invita tutti, e soprattutto<br />
quelli che ne hanno bisogno, a partecipare <strong>al</strong>la festa preparata nel suo p<strong>al</strong>azzo d<strong>al</strong>le sette colonne.<br />
Anche questa fin<strong>al</strong>e dell’introduzione <strong>al</strong>le sette raccolte di proverbi antichi vuol dire<br />
che è la Sapienza stessa ad avere in qu<strong>al</strong>che modo costruito la raccolta di Pr. Tutti sono invitati<br />
a consumare questo cibo, questa sapienza tradizion<strong>al</strong>e, a farla propria, per trovarvi la vita<br />
e la comprensione del re<strong>al</strong>e.<br />
8.1.3. Sir<br />
Già nella prima pagina della sua opera Ben Sira, verso il 200 a.C., pone la Sapienza: «Tutta<br />
la sapienza viene d<strong>al</strong> Signore, e con lui rimane per sempre» (Sir 1,1). La sapienza umana viene<br />
da Dio, di cui la Sapienza condivide l’esistenza. Questa Sapienza di Dio è sua creatura (Sir<br />
1,4); lui, «il solo sapiente» (Sir 1,6[8]; cfr. Rm 16,27), «l’ha riversata in tutte le sue opere, su<br />
ogni carne » (Sir 1,7-8[9-10] che completa Gb 28,27 attraverso Gl 3,1). La Sapienza non è <strong>al</strong>la<br />
portata degli sforzi dell’uomo (Sir 1,5[6]), è dono di Dio che «l’ha dispensata a quanti lo<br />
amano» (Sir 1,8[10]). In 4,11-19 Ben Sira sottolinea il ruolo educatore della Sapienza; questa,<br />
secondo il testo ebr<strong>ai</strong>co, tiene addirittura un discorso: farà passare il discepolo attraverso la<br />
prova, ma, così dice, «chi mi presta orecchio fisserà la sua dimora <strong>al</strong>l’interno del mio padiglione<br />
» (Sir 4,15). Sir 6,24-31 riprende il tema dell’educazione: il discepolo si sottometta <strong>al</strong><br />
giogo della Sapienza o, meglio, la insegua come si caccia la selvaggina: «Una volta afferrata,<br />
non la abbandonare. Alla fine otterr<strong>ai</strong> il suo riposo, si muterà per te in godimento» (Sir 6,27-<br />
28): Ben Sira parla dunque di rapporti di amore tra la Sapienza e il discepolo. Ma Sir 15,1 dà
16 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />
la chiave di lettura che Sir 24 svilupperà: «Chi prende in mano la tôrah, raggiunge la Sapienza».<br />
Infatti Sir 24, di cui manca il testo ebr<strong>ai</strong>co, propone un grande discorso della Sapienza,<br />
pronunciato probabilmente durante un’assemblea liturgica. La Sapienza ricorda che, uscita<br />
d<strong>al</strong>la bocca di Dio come sua parola creatrice e regnante su tutto l’universo, ha cercato dove<br />
stabilirsi. Il Signore le ha detto di stabilirsi in Giacobbe. A partire d<strong>al</strong> tempio di Sion essa si è<br />
progressivamente sviluppata, come un <strong>al</strong>bero di vita, fino a coprire tutta la terra santa; ha<br />
messo rami, dato fiori e profumo ed infine invita i suoi ascoltatori a gustare i suoi frutti.<br />
Ben Sira dà immediatamente la chiave di questo discorso: «Tutto ciò... è la legge» (Sir<br />
24,23), cioè la rivelazione, più che i codici di leggi o lo stesso Pentateuco. Questa rivelazione<br />
di Dio è stata fatta ad Israele, <strong>al</strong> suo interno si è sviluppata ed ogni figlio d’Israele deve nutrirsene,<br />
secondo l’invito di Dt 8,3 a nutrirsi della parola di Dio. In questo caso, più che in Pr<br />
9,1-6, è tutto il patrimonio religioso e spiritu<strong>al</strong>e, che Israele ha ricevuto da Dio, ad essere visto<br />
come Sapienza venuta da Dio (cfr. Dt 4,6; Esd 7,14.25).<br />
8.1.4. Bar 3,9–4,4<br />
Un’esortazione rivolta <strong>al</strong>la diaspora giud<strong>ai</strong>ca e di poco posteriore a Ben Sira riprende insieme<br />
i temi di Gb 28 e di Sir 24: la via della Sapienza è sconosciuta <strong>al</strong>l’uomo, solo Dio può<br />
rivelargliela. L’esortazione (3,9-14; 4,2-4) inquadra una domanda e la sua risposta. La domanda<br />
riprende quella di Gb 28: «Chi ha scoperto il suo luogo [della Sapienza]?» (Bar 3,15).<br />
La risposta è dapprima negativa (Bar 3,16-31): né i potenti né gli artisti né i loro discendenti<br />
né i saggi del Vicino Oriente pagano e nemmeno i giganti antidiluviani hanno conosciuto la<br />
via che conduce <strong>al</strong>la Sapienza. Viene quindi la risposta positiva: Dio solo, Signore supremo<br />
del cosmo, l’ha conosciuta e l’ha anche indicata ad Israele (Bar 3,31-38). L’autore chiude la<br />
sua risposta, come Sir 24,23, fornendo la chiave: la Sapienza è la tôrah, rivelata ad Israele.<br />
8.1.5. Sap 6–9<br />
Rileggendo 1Re 3,4-15, il racconto della preghiera di S<strong>al</strong>omone a Gabaon, l’autore, sulla<br />
soglia dell’era cristiana, inquadra la sua riflessione sulla Sapienza (Sap 7,22–8,1) con una evocazione<br />
della figura di S<strong>al</strong>omone ide<strong>al</strong>izzata <strong>al</strong> punto da poter essere identificata con ogni<br />
giovane lettore in ricerca della Sapienza: essa non può essere ottenuta da Dio che con la preghiera<br />
(Sap 7,7; 8,21; 9). Questo comporta che la si preferisca a tutti i beni (Sap 7,8-10) e la si<br />
ami come un uomo ama la propria moglie (Sap 8,2-18), e sarà essa a colmare il saggio di tutti<br />
i beni di cui è madre (Sap 7,11-12.21; 8,5-6). L’autore chiarisce tre aspetti della Sapienza: la<br />
sua natura è di una purezza t<strong>al</strong>e da penetrare ogni cosa fino <strong>al</strong> più profondo, in vista del bene<br />
(Sap 7,22-24); la sua origine è in Dio di cui è l’es<strong>al</strong>tazione, l’effluvio, l’irradiazione, lo specchio,<br />
l’immagine, e questo indica quanto la Sapienza dipenda da Dio da cui è inseparabile<br />
(Sap 7,25-26); la sua attività è tanto di ordine cosmico quanto di ordine mor<strong>al</strong>e e spiritu<strong>al</strong>e:<br />
essa governa l’universo in maniera benevola animandolo con la sua presenza e forma i santi<br />
(Sap 7,27–8,1). Un messaggio del genere va oltre i testi precedenti, completandone il senso.<br />
La Sapienza non è più inaccessibile, poiché la preghiera permette di ottenerla; non è più solo<br />
la tôrah, la rivelazione storica, ma è vista come una presenza interiore <strong>al</strong> cuore di chi<br />
l’accoglie; non è una semplice immagine dell’ordine del mondo, d<strong>al</strong> momento che l’autore,<br />
riferendosi ad una dottrina degli stoici, vede in essa la presenza stessa di Dio nel mondo.<br />
8.2. INTERPRETAZIONE<br />
In questi testi, soprattutto Pr 8–9; Sir 24; Sap 7–8, la Sapienza appare personificata. Come<br />
intendere questa personificazione? Il problema fondament<strong>al</strong>e è quello del rapporto di Dio con<br />
il mondo e gli uomini. Può la fede d’Israele concepire degli esseri intermediari? Parlando del<br />
Lógos, Filone lo pensava. Possiamo anche noi fare della Sapienza un intermediario o addirittura<br />
una persona? Attu<strong>al</strong>mente sono sempre più rari gli autori che propendono per questa so-
<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 17<br />
luzione. Ugu<strong>al</strong>mente non convince più la soluzione che fa della Sapienza un’ipostasi, perché<br />
in un modo o in un <strong>al</strong>tro un’ipostasi esige rispetto a Dio un’autonomia che i nostri testi non<br />
accordano <strong>al</strong>la Sapienza. Altri hanno preferito parlare di personificazione poetica di un attributo<br />
o di una virtù di Dio. Ma i nostri testi dicono di più, perché la Sapienza è generata da Dio<br />
(Pr 8,22), è sua creatura (Sir 24,8-9), si distingue da lui ma non può esistere senza di lui né<br />
separata da lui (Sap 7,25-26). Il problema di fondo è di sapere come esprimere trascendenza e<br />
immanenza divina. La Sapienza esprime, soprattutto in Sap 7–9, questa immanenza o presenza<br />
di Dio nel mondo e nelle anime <strong>dei</strong> giusti e, in quest’ultimo caso, non si è molto lontani d<strong>al</strong><br />
concetto cristiano di grazia. Ma questa presenza divina dà anche <strong>al</strong> mondo la sua coerenza<br />
(Sap 1,7), il suo senso, il suo significato. È a questa idea che potremmo ricondurre il concetto<br />
di ordine del mondo, utilizzato a proposito di Pr 8,22-31, a meno di vedervi il progetto creatore<br />
e anche s<strong>al</strong>vatore di Dio, progetto considerato anteriore <strong>al</strong>la sua messa in opera. Dio si rende<br />
presente <strong>al</strong>la storia e particolarmente <strong>al</strong>la storia di Israele; e questa presenza noi la chiamiamo<br />
rivelazione, secondo il disegno origin<strong>al</strong>e di Dio. Così bisogna intendere, nel senso più<br />
pieno, il termine tôrah usato da Sir 24,23 e Bar 4,1.<br />
9. GESÙ E LA SAPIENZA NEL NT<br />
9.1. NEI VANGELI SINOTTICI<br />
Abbiamo visto sopra che, nel suo insegnamento, Gesù si esprimeva spesso come i saggi.<br />
Ma <strong>al</strong>cuni testi del NT, a cominciare d<strong>ai</strong> vangeli sinottici, vanno oltre, attribuendo a Gesù ciò<br />
che l’AT attribuisce <strong>al</strong>la Sapienza. Leggiamo in Mt 11,28-30: «Venite a me, voi tutti che siete<br />
affaticati e stanchi, ed io vi darò sollievo. Portate su di voi il mio giogo e imparate da me che<br />
sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è soave<br />
e leggero è il mio peso». Gesù parla come il saggio di Sir 51,23-26: «Avvicinatevi a me, o<br />
ignoranti, fermatevi nella mia casa per istruirvi..., sottomettete il collo <strong>al</strong> suo giogo [della Sapienza]»;<br />
ma in Sir 6,24-25.28 la medesima immagine del giogo è più esplicitamente applicata<br />
<strong>al</strong>l’insegnamento della Sapienza stessa: «Introduci i piedi nei suoi ceppi ed il collo nei suoi<br />
lacci. Abbassa le tue sp<strong>al</strong>le per caricartela, non infastidirti per i suoi legami... Alla fine otterr<strong>ai</strong><br />
il suo riposo, si muterà per te in godimento ». In Mt 12,42 (e Lc 11,31) leggiamo: «La regina<br />
del sud risorgerà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; poiché venne<br />
d<strong>al</strong>l’estremità della terra ad ascoltare la sapienza di S<strong>al</strong>omone; eppure c’è qui qu<strong>al</strong>cosa di più<br />
di S<strong>al</strong>omone». Ora, S<strong>al</strong>omone esprimeva una Sapienza ricevuta da Dio; possiamo dunque<br />
pensare che in Gesù si esprime una Sapienza più grande, la Sapienza stessa di Dio. Prevedendo<br />
la persecuzione <strong>dei</strong> suoi Gesù dice, secondo Mt 23,34: «Ecco che io mando a voi profeti,<br />
sapienti e scribi... », mentre Lc 11,49 scrive: «La Sapienza di Dio ha detto: “Manderò loro...”».<br />
Per Mt, Gesù ha autorità sui saggi, mentre in Lc la Sapienza di Dio sembra essere Gesù<br />
stesso che, in conclusione, fa proprie le parole della Sapienza di Dio: «Sì, ve lo ripeto...»<br />
(Lc 11,51). In Mt 11,19 leggiamo infine: «Alla Sapienza è stata resa giustizia d<strong>al</strong>le sue opere»;<br />
ora queste opere della Sapienza sono probabilmente le «opere del Cristo» (Mt 11,2). Questi<br />
testi, che dipendono probabilmente d<strong>al</strong>la stessa fonte comune a Mt e Lc (la fonte Q), sono<br />
molto discussi. Non affermano in modo esplicito che Gesù è la Sapienza, lo suggeriscono solamente.<br />
9.2. IN PAOLO<br />
Sono da prendere in considerazione soprattutto due testi che nuovamente assimilano Gesù<br />
<strong>al</strong>la Sapienza dell’AT.
18 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />
9.2.1. 1Cor 1–3<br />
Di fronte <strong>al</strong>le divisioni di una comunità avida di bei discorsi, Paolo proclama il Cristo crocifisso,<br />
scand<strong>al</strong>o per gli uni e follia per gli <strong>al</strong>tri ma potenza di Dio e sapienza di Dio (1Cor<br />
1,23-24); Dio infatti ha scelto ciò che è follia nel mondo per confondere i sapienti (1Cor<br />
1,27). La Sapienza di Dio è di andare <strong>al</strong> contrario delle pretese umane: s<strong>al</strong>vandoci per mezzo<br />
di un messia crocifisso, Dio ha manifestato la profondità della sua Sapienza. Paolo dunque<br />
non identifica Gesù con la Sapienza, ma vede nel mistero della croce la manifestazione della<br />
Sapienza di Dio: per i discepoli di Gesù, il Crocifisso diventa autentica Sapienza di Dio; la<br />
croce fa parte integrante della Sapienza s<strong>al</strong>vifica di Dio (1Cor 1,30; 2,7).<br />
9.2.2. Col 1,15-20<br />
La prima parte di questo inno (1,15-18a) ricorre, per parlare del Cristo Gesù – il Figlio<br />
prediletto del Padre, che ci s<strong>al</strong>va (Col 1,13) –, ad <strong>al</strong>cune espressioni che nell’AT sono attribuite<br />
<strong>al</strong>la Sapienza: «Egli è l’immagine del Dio invisibile» (cfr. Sap 7,26; Eb 1,3); «primogenito»<br />
(cfr. Pr 8,22); «in lui sono stati creati tutti gli esseri» (cfr. Pr 3,19; 8,30-31 [TM]; S<strong>al</strong> 104,24;<br />
Ger 10,12; Sap 7,21; 8,4-5; 9,2); «egli esiste prima di tutti» (cfr. Pr 8,22-25; Sir 1,4; 24,9; Sap<br />
9,9); «tutti in lui hanno consistenza» (cfr. Sap 1,7).<br />
9.3. IN GIOVANNI<br />
Gv 1 propone una dottrina simile: «Il Verbo era in principio presso Dio. Tutto per mezzo di<br />
lui fu fatto e senza di lui non fu fatto assolutamente nulla di ciò che è stato fatto. In lui era la<br />
vita» (Gv 1,2-4). Anche i testi dell’AT (cfr. Pr 8,22ss; Sir 24,3.9; Sap 9,1-2) parlavano della<br />
preesistenza della Sapienza: ma ancora una volta non vi è nessuna identificazione esplicita tra<br />
Gesù e la Sapienza. Così pure il discorso sul pane di vita (Gv 6,26-58) può essere compreso<br />
correttamente solo <strong>al</strong>la luce <strong>dei</strong> testi che paragonano il discorso della Sapienza ad un banchetto<br />
imbandito (Pr 9,1-6; Sir 24,19-21); questo v<strong>al</strong>e soprattutto per Gv 6,35-50: il messaggio di<br />
Gesù viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to e nutre come la Sapienza, come la parola di Dio (Dt 8,3; Sap 16,26), e<br />
questo v<strong>al</strong>e anche per Gv 4,13-14 (cfr. Sir 24,21); 7,37-38.<br />
9.4. INTERPRETAZIONE<br />
Perché questa discrezione del NT che m<strong>ai</strong> identifica in modo esplicito Gesù con la Sapienza,<br />
pur attribuendogli molto di quello che i testi dell’AT attribuivano <strong>al</strong>la Sapienza? La ragione<br />
è probabilmente questa: Gesù supera infinitamente la Sapienza qu<strong>al</strong>e potevano conoscerla i<br />
saggi dell’AT; la rivelazione del NT è <strong>al</strong>lo stesso tempo in continuità e in rottura con quella<br />
dell’AT; se il NT avesse semplicemente identificato Gesù con la Sapienza, avrebbe potuto<br />
mascherare la rottura.<br />
È solo in epoca successiva <strong>al</strong> NT che Gesù sarà esplicitamente detto Sapienza di Dio. Questo<br />
titolo cristologico è rimasto lungo tutto il corso della storia cristiana. Citiamo <strong>al</strong>cuni <strong>dei</strong><br />
testimoni più significativi: nel III sec. Origene, nel suo trattato Sui princìpi (I,2, PG 11, 130-<br />
145), sviluppa il suo discorso su Cristo fondandosi princip<strong>al</strong>mente su Sap 7,25-26. Il beato<br />
Enrico Suso (1295-1366) redasse verso il 1335 il suo <strong>Libro</strong> della Sapienza eterna in cui medita<br />
princip<strong>al</strong>mente sulla croce di Cristo. Verso il 1700, Louis-Marie Grignon de Montfort scrisse<br />
un breve trattato su La Sapienza eterna, in cui, sulla base di quasi tutti i testi scritturistici<br />
che abbiamo ricordato, «spiega semplicemente ciò che è la Sapienza, prima della sua incarnazione,<br />
durante l’incarnazione e dopo l’incarnazione e i mezzi per ottenerla e conservarla» (n.<br />
7). La liturgia romana, fin d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to Medioevo, rilegge Pr 8,22ss e Sir 24,3-12 per le feste della<br />
Vergine Maria, ma è per vedere nella madre di Dio, inseparabile d<strong>al</strong> suo Figlio, non la Sapienza,<br />
bensì il luogo in cui la Sapienza si stabilì <strong>al</strong> momento della sua incarnazione.<br />
D’<strong>al</strong>tra parte, continuando il movimento già avviato esplicitamente da Sir 24,23 e Bar 4,1,<br />
il giud<strong>ai</strong>smo riconosce nella tôrah la Sapienza di Dio. Il cristiano per parte sua proclama, nel-
<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 19<br />
la fede, che Dio si è rivelato pienamente in Gesù, presenza di Dio tra gli uomini, Emmanuele,<br />
ed è per questo che Gesù è detto Sapienza di Dio 7 .<br />
BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />
CRENSHAW, J.L., Old Testament Wisdom. An Introduction, Atlanta 1981.<br />
Questo noto e prestigioso esperto della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e biblica offre un’opera esemplare,<br />
suggestiva e matura. Dopo una prima parte dedicata <strong>al</strong> mondo della sapienza e <strong>al</strong>la tradizione<br />
sapienzi<strong>al</strong>e, egli affronta la presentazione <strong>dei</strong> libri sapienzi<strong>al</strong>i includendo anche i s<strong>al</strong>mi<br />
didasc<strong>al</strong>ici. Due capitoli fin<strong>al</strong>i sull’eredità della sapienza, con eccellenti suggestioni, e sulla<br />
letteratura sapienzi<strong>al</strong>e egiziana e mesopotamica concludono quest’ottimo lavoro.<br />
CRENSHAW, J.L. (ed.), Studies in Ancient Israelite Wisdom, New York 1976.<br />
Si tratta di una compilazione con traduzione <strong>dei</strong> testi originariamente non in inglese <strong>dei</strong><br />
migliori articoli, a giudizio dell’editore, sulla sapienza pubblicati fino <strong>al</strong>la data di edizione.<br />
Apre il volume un eccellente prolegomenon, in cui il curatore presenta un compendio molto<br />
ben elaborato <strong>dei</strong> contenuti della tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica. L’opera comprende ventisette<br />
articoli firmati, tra gli <strong>al</strong>tri, da Alonso Schökel, Alt, Crenshaw, Di Lella, Fohrer, Gordis,<br />
Murphy, Skehan, Terrien, von Rad, Whybray, Zimmerli, ecc.<br />
DUESBERG, H. – FRANSEN, I., Les scribes inspirés, Paris 2 1966.<br />
È un lavoro eccellente divenuto meritatamente un classico. Opera completa ed erudita, presenta<br />
un esame approfondito della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e d’Israele, cui si aggiunge una esposizione<br />
della sapienza d’Egitto e della Mesopotamia, oltre a due capitoli fin<strong>al</strong>i sul «pessimismo<br />
ispirato» e «i misteri s<strong>al</strong>vifici della sapienza». L’opera conserva la propria grande utilità<br />
m<strong>al</strong>grado la farraginosità degli autori e <strong>al</strong>cune opinioni datate.<br />
GAMMIE, J.G. – PERDUE, L.G. (edd.), The Sage in Israel and the Ancient Near East, Winona<br />
Lake 1990.<br />
Il libro è un’ampia opera collettiva <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e hanno contribuito i migliori speci<strong>al</strong>isti statunitensi<br />
in letteratura sapienzi<strong>al</strong>e. Consta di sei parti: 1. il sapiente nella letteratura del Vicino<br />
Oriente Antico (sei contributi); 2. sedi soci<strong>al</strong>i e funzioni <strong>dei</strong> sapienti (nove contributi); 3. il<br />
sapiente nella letteratura sapienzi<strong>al</strong>e della Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca (sei contributi); 4. il sapiente in <strong>al</strong>tri<br />
testi biblici (quattro contributi); 5. il sapiente tra l’epoca precedente la chiusura del canone ebr<strong>ai</strong>co<br />
e il periodo postbiblico (otto contributi); 6. l’universo simbolico del sapiente (tre contributi).<br />
Una ricca bibliografia e quattro ampi indici chiudono quest’opera indispensabile.<br />
GESE, H., Lehre und Wirklichkeit in der <strong>al</strong>ten Weisheit, Tübingen 1958.<br />
Nella prima parte del libro, già divenuto un classico, intitolata «L’insegnamento sapienzi<strong>al</strong>e<br />
come tentativo d’interpretazione del mondo come ordine», l’autore mette a confronto la<br />
dottrina della maat degli insegnamenti egiziani con la percezione del mondo come ordine espressa<br />
particolarmente d<strong>ai</strong> Proverbi. La seconda parte è dedicata <strong>al</strong> libro di Giobbe, del qu<strong>al</strong>e<br />
l’autore cerca di dedurre il genere d’appartenenza e lo scopo sulla base di un’an<strong>al</strong>isi dell’an<strong>al</strong>oga<br />
letteratura sumero-accadica.<br />
7 Una sintesi teologica delle tradizioni sapienzi<strong>al</strong>i in G. VON RAD, La sapienza in Israele, Torino 1975. Sintesi<br />
più recenti: J.L. CRENSHAW, In Search of Divine Presente: Some Remarks Preliminaıy to a Theology of Wisdom,<br />
in Review and Expositor 74 (1977) 353-369 e soprattutto M. GILBERT, Qu’en est-il de la sagesse? ?, in J.<br />
TRUBLET (ed.), La sagesse biblique de l’Ancien au Nouveau Testament, Paris 1995, 19-60; cfr. anche R.E.<br />
MURPHY, L’<strong>al</strong>bero della vita, 145-170; F. FESTORAZZI, Riflessione sapienzi<strong>al</strong>e (antropologia ed escarologia), in<br />
Dizionario Teologico Interdisciplinare, 3, Torino 1977, 88-102 e L. MAZZINGHI, Sapienza, in G. BARBAGLIO - G.<br />
BOF - S. DIANICH (edd.), Teologia (Dizionari San Paolo), Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 2002, 1473-1491.
20 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />
MURPHY, R.E., Wisdom Literature (FOTL 13), Grand Rapids 1981.<br />
È il volume XIII, primo in ordine di pubblicazione, della prestigiosa collana «The Forms of<br />
the Old Testament Literature» edita a cura di R. Knierim e G.M. Tucker. Purtroppo, ma in ossequio<br />
<strong>al</strong> canone protestante, l’opera non comprende il Siracide e la Sapienza; in compenso<br />
sono presenti Rut, Ester e il Cantico (!). La presentazione <strong>dei</strong> diversi libri biblici segue gener<strong>al</strong>mente<br />
uno stesso schema: 1. il libro in sé (struttura, genere, ambiente vit<strong>al</strong>e, intenzione); 2.<br />
singole unità, in cui vengono esposte le caratteristiche di ciascuna pericope (struttura, genere,<br />
ambiente vit<strong>al</strong>e e intenzione). Non si tratta quindi di un commento ma di uno studio strettamente<br />
form<strong>al</strong>e.<br />
PREUSS, H.D., Einführung in die <strong>al</strong>ttestamentliche Weisheitsliteratur, Stuttgart 1987.<br />
È un’introduzione molto aggiornata <strong>al</strong>la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e. Alla presentazione tradizion<strong>al</strong>e<br />
<strong>dei</strong> cinque libri sapienzi<strong>al</strong>i Preuss aggiunge due capitoli su «il pensiero sapienzi<strong>al</strong>e <strong>al</strong><br />
di fuori della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e» e «ruolo teologico della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e<br />
dell’Antico Testamento».<br />
SHEPPARD, G.T., Wisdom as a Hermeneutic<strong>al</strong> Construct (BZAW 151), Berlin-New York 1980.<br />
Tenendo conto dell’indubbio influsso esercitato d<strong>al</strong>la sapienza sull’intero corpus della<br />
Scrittura, l’autore si propone di esaminare la funzione letteraria e teologica della sapienza nel<br />
periodo esilico e postesilico. Partendo d<strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi del materi<strong>al</strong>e sapienzi<strong>al</strong>e canonico ed extracanonico,<br />
egli giunge <strong>al</strong>la conclusione che nel processo di «redazione canonica» di <strong>al</strong>cune<br />
parti dell’Antico Testamento si osserva un’interpretazione in senso sapienzi<strong>al</strong>e di tradizioni<br />
originariamente non sapienzi<strong>al</strong>i.<br />
SCHMID, H.H., Wesen und Geschichte der Weisheit, Berlin 1966.<br />
Secondo quanto afferma nell’introduzione dell’opera, l’autore cerca di stemperare le accuse<br />
rivolte <strong>al</strong>la sapienza di essere «utilitaristica, eudemonistica, razion<strong>al</strong>istica, originariamente<br />
profana, solo tardivamente religiosa, astorica e atempor<strong>al</strong>e» (p. 3). In vista di ciò si propone<br />
una ricerca suddivisa in tre parti: 1. Egitto: fonti, struttura fondament<strong>al</strong>e della sapienza egiziana,<br />
storia della sapienza nel contesto della storia dell’Egitto; 2. Mesopotamia: fonti, storia della<br />
sapienza nel periodo sumerico, la sapienza del periodo accadico, la crisi della sapienza; 3.<br />
Israele: teologizzazione della sapienza, antropologizzazione della sapienza, elementi antichi<br />
presenti nella forma storico-sapienzi<strong>al</strong>e tarda della sapienza israelitica. L’opera si conclude<br />
con una cinquantina di pagine dedicate <strong>al</strong>le fonti sapienzi<strong>al</strong>i egiziane e mesopotamiche. Opera<br />
classica, imprescindibile.<br />
VON RAD, G., La sapienza in Israele, Torino 1975 (1 a rist. Genova 1990; 3 a rist. 1995).<br />
È senza dubbio il miglior compendio tematico della sapienza israelitica composto finora.<br />
L’autore non segue la presentazione convenzion<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> libri sapienzi<strong>al</strong>i – soltanto <strong>al</strong>la fine le<br />
dedica un capitolo – ma approfondisce lo studio della visione del mondo e dell’uomo <strong>dei</strong> sapienti<br />
d’Israele. La riflessione è profonda ed equilibrata. Von Rad ha assunto tutto lo spirito<br />
umanistico necessario per affrontare la riflessione umanistica dell’Antico Testamento.<br />
WESTERMANN, C., Wurzeln der Weisheit. Die ältesten Sprüche Israels und anderer Völker,<br />
Göttingen 1990.<br />
Come suggerisce il sottotitolo, l’opera è incentrata essenzi<strong>al</strong>mente sul libro <strong>dei</strong> Proverbi.<br />
Westermann studia le forme proverbi<strong>al</strong>i meramente espositive o dichiarative (Aussagesprüche),<br />
le istruzioni imperative e i poemi, e infine il passaggio d<strong>al</strong> detto sapienzi<strong>al</strong>e (Weisheitsspruch)<br />
<strong>al</strong> poema didasc<strong>al</strong>ico (Lehrgedicht). L’autore dedica un capitolo <strong>ai</strong> detti sapienzi<strong>al</strong>i<br />
attribuiti a Gesù e un <strong>al</strong>tro <strong>al</strong> rapporto Dio-uomo nell’antica sapienza proverbi<strong>al</strong>e. L’opera<br />
termina con un’appendice sulla letteratura proverbi<strong>al</strong>e di Sumer, Egitto, di <strong>al</strong>tri popoli africani<br />
e di Sumatra.
<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 21<br />
WHYBRAY, R.N., The Intellectu<strong>al</strong> Tradition in the Old Testament (BZAW 135), Berlin-New<br />
York 1974.<br />
L’opera è essenzi<strong>al</strong>mente uno studio sulla terminologia della sapienza nell’Antico Testamento,<br />
in particolare sui lessemi ˙ākām e ˙okmâ. L’autore intende raggiungere il nucleo essenzi<strong>al</strong>e<br />
di ciò che intende l’Antico Testamento quando parla di «sapienti» e «sapienza». Anche<br />
se <strong>al</strong>cune sue conclusioni sono state duramente criticate, l’opera ha tracciato un solco importante<br />
per ulteriori approfondimenti più rigorosi sul piano metodologico.<br />
Bibliografia in it<strong>al</strong>iano [a cura di L. MAZZINGHI, in Parole di Vita, 48/6 (2003) 43]<br />
Anzitutto l’opera fondament<strong>al</strong>e già ricordata, di livello molto elevato, ma ancora davvero<br />
molto importante per la comprensione della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e biblica, di G. VON RAD, La<br />
sapienza in Israele, il cui origin<strong>al</strong>e tedesco è del 1970, e più volte ristampato in It<strong>al</strong>ia da Marietti<br />
(TO) a partire d<strong>al</strong> 1975.<br />
A un primo livello, di carattere divulgativo, ma <strong>al</strong>lo stesso tempo serio e documentato, può<br />
essere utile leggere il testo di A. NICCACCI, La casa della sapienza. Voci e volti della sapienza<br />
biblica, San Paolo, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 1990, che insiste molto sul rapporto tra la sapienza<br />
biblica e la sapienza <strong>dei</strong> popoli vicini. Utilissimo è il libro recente di M. GILBERT, La Sapienza<br />
del cielo. Proverbi, Giobbe, Qohèlet, Siracide, Sapienza, San Paolo, Cinisello B<strong>al</strong>samo<br />
(MI) 2005.<br />
Utile è anche il libretto di M. GILBERT - J.-N. ALETTI, La sapienza e Gesù Cristo (Bibbiaoggi<br />
21), Gribaudi, Torino 1987, con uno sguardo anche <strong>al</strong> Nuovo Testamento.<br />
A un secondo livello, più impegnativo, segn<strong>al</strong>o prima di tutto la voce «Sapienza» curata da<br />
M. GILBERT nel Nuovo dizionario di teologia biblica, Paoline, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 1998,<br />
1427-1442, oltre a due testi di studio, R.E. MURPHY, L’<strong>al</strong>bero della vita. Una esplorazione<br />
della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e biblica, Queriniana, Brescia 1993, t<strong>al</strong>ora un po’ pesante, e il più<br />
completo manu<strong>al</strong>e curato da V. MORLA ASENSIO, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i ed <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong><br />
<strong>al</strong>lo studio della Bibbia 5), P<strong>ai</strong><strong>dei</strong>a, Brescia 1997.<br />
Una panoramica glob<strong>al</strong>e, di taglio teologico, sulla letteratura sapienzi<strong>al</strong>e biblica è contenuta<br />
nella voce curata da L. MAZZINGHI, «Sapienza», in G. BARBAGLIO - G. BOF - S. DIANICH<br />
(edd.), Teologia (Dizionari San Paolo), San Paolo, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 2002, 1473-1491.<br />
Per completare questo quadro, ricordo <strong>al</strong>cuni testi di taglio divulgativo e <strong>al</strong>lo stesso tempo<br />
di carattere spiritu<strong>al</strong>e, che provano ad indicare <strong>al</strong>cune conseguenze per la vita <strong>dei</strong> credenti che<br />
scaturiscono d<strong>al</strong> metodo esperienzi<strong>al</strong>e proprio <strong>dei</strong> saggi di Israele; si tratta dell’opera di E.<br />
BEAUCAMP, I sapienti d’Israele o il problema dell’impegno, Paoline, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI)<br />
1991, e del libretto di G. DE CARLO, «Ti indico la via». La ricerca della sapienza come itinerario<br />
formativo, EDB, Bologna 2003.
1. PRESENTAZIONE D’INSIEME<br />
1.1. IL CONTESTO<br />
PROVERBI *<br />
Il lungo periodo dell’esilio in Babilonia, nel VI secolo a.C., per i deportati di Gerus<strong>al</strong>emme<br />
e di Giuda era stato il tempo della presa di coscienza e della conversione. Li accompagnavano<br />
sul difficile cammino i sacerdoti e i profeti. Fra questi c’erano Ezechiele e il secondo Is<strong>ai</strong>a.<br />
Dopo che nel 538 Ciro aveva autorizzato il ritorno <strong>al</strong> loro paese, la comunità, progressivamente<br />
rimpatriata, si mise a s<strong>al</strong>vare d<strong>al</strong>la rovina tutto quel che ancora era possibile. Si cominciò<br />
così a recuperare, sistemandolo, tutto il patrimonio letterario e religioso ricevuto dagli avi.<br />
Fu in quell’epoca che assunse la sua forma definitiva il Pentateuco, la Legge mos<strong>ai</strong>ca, cosiddetta<br />
poiché Mosè ne è la figura dominante. Lo stesso si fece con i profeti, fin<strong>al</strong>mente riconosciuti<br />
come t<strong>al</strong>i e accettati, i cui scritti, raccolti e riletti, vennero posti sotto il nome d’ognuno.<br />
Fra i re, di cui una narrazione ricordava fatti e gesta (1Sam – 2Re), l’attenzione si concentrò<br />
soprattutto su Davide e S<strong>al</strong>omone. Il nome del primo venne unito <strong>ai</strong> S<strong>al</strong>mi, mentre sotto il<br />
nome del secondo, il sapiente per eccellenza, secondo la narrazione di 1Re 3, si mise l’insieme<br />
della sapienza che fu possibile recuperare e organizzare; fu così che venne costituito il libro<br />
<strong>dei</strong> Proverbi, che ebbe per titolo: «Proverbi di S<strong>al</strong>omone, figlio di Davide, re d’Israele»<br />
(Pr 1,1).<br />
1.2. LA STRUTTURA DEL LIBRO<br />
Dopo una lunga introduzione (Pr 1–9), composta per l’occasione, furono inserite sette collezioni<br />
di proverbi; a mo’ di conclusione, si pose il ritratto della «donna forte» (Pr 31,10-31),<br />
anch’esso tracciato d<strong>ai</strong> redattori nel tempo dopo l’esilio.<br />
La differenza di stile fra le sette collezioni e la loro cornice (introduzione e conclusione)<br />
s<strong>al</strong>ta agli occhi. La cornice, su cui torneremo, è fatta di lunghi testi, mentre le sette collezioni<br />
raccolgono il più delle volte semplici proverbi o detti sapienzi<strong>al</strong>i, appena un poco elaborati.<br />
Ecco la lista delle sette collezioni:<br />
«Proverbi di S<strong>al</strong>omone» (Pr 10,1–22,16),<br />
«Parole di sapienti» (Pr 22,17–24,22),<br />
«Anche queste sono parole <strong>dei</strong> sapienti» (Pr 24,23-34),<br />
«Ecco ancora <strong>dei</strong> proverbi di S<strong>al</strong>omone, trascritti dagli uomini di Ezechia, re di Giuda» (Pr 25–29),<br />
«Parole di Agùr, figlio di Jakè, da Massa...» (Pr 30,1-14),<br />
una collezione senza titolo di proverbi numerici (Pr 30,15-33),<br />
«Parole di Lemuèl, re di Massa, che gli insegnò sua madre» (Pr 31,1-9).<br />
Questa lista permette molte osservazioni. Sei collezioni hanno un titolo, messo in testa.<br />
Soltanto quella <strong>dei</strong> proverbi numerici non ha titolo, ma anche l’antica versione greca <strong>dei</strong> Settanta,<br />
che la colloca in <strong>al</strong>tro punto, ne rivendica l’autonomia. Il fatto di maggiore importanza è<br />
il rilievo che vien dato <strong>ai</strong> proverbi attribuiti direttamente o indirettamente a S<strong>al</strong>omone. Essi<br />
costituiscono l’intel<strong>ai</strong>atura di tutto l’insieme, sia per l’ampiezza delle due collezioni – prendono<br />
i tre quarti del tot<strong>al</strong>e – sia per il posto attribuito <strong>al</strong>la prima, la più lunga, che così giustifica<br />
il titolo del libro. Viene anche precisato che la seconda collezione s<strong>al</strong>omonica aveva già<br />
ricevuto una sistemazione prima dell’esilio, <strong>ai</strong> tempi del re Ezechia (716-687). Quanto <strong>al</strong>le<br />
collezioni minori, le prime due vengono d<strong>ai</strong> sapienti, mentre le due ultime che hanno un titolo<br />
non sono d’origine israelitica: i loro autori, Agùr e Lemuèl, erano d’una tribù del nord dell’<br />
Arabia; inserendole, la Bibbia accoglieva una sapienza straniera. Infine, tutte le collezioni mi-<br />
* M. GILBERT, La Sapienza del cielo, Cinisello B<strong>al</strong>samo 2005, 17-58.
Proverbi 23<br />
nori presentano <strong>dei</strong> testi più elaborati del semplice proverbio, che invece perlopiù ricorre, in<br />
forma di distico, nelle due collezioni s<strong>al</strong>omoniche.<br />
1.3. IL RUOLO DI SALOMONE<br />
Nella leggendaria narrazione della vita di S<strong>al</strong>omone si legge questo passo: «Egli parlò delle<br />
piante, d<strong>al</strong> cedro che sta in Libano <strong>al</strong>l’issopo che cresce sui muri; parlò anche <strong>dei</strong> quadrupedi,<br />
degli uccelli, <strong>dei</strong> rettili e <strong>dei</strong> pesci» (1Re 5,13). Cosa significa? Secondo la Bibbia, è a<br />
Davide che le dodici tribù d’Israele debbono la loro costituzione in un solo Stato. Davide il<br />
v<strong>al</strong>oroso, figura affascinante, più conquistatore che amministratore. Fu <strong>al</strong> suo figlio e successore<br />
S<strong>al</strong>omone che toccò invece il compito d’organizzarlo, quello Stato, di creare un’amministrazione,<br />
stabilire delle relazioni internazion<strong>al</strong>i e costruire il tempio. Ciò che Davide creò e<br />
inaugurò, S<strong>al</strong>omone consolidò, e la pace assecondò i suoi piani. Si può anche ritenere che sia<br />
stato lui a fare un primo inventario di ciò che il nuovo Stato, una volta affermatosi, aveva a<br />
disposizione. Ma <strong>al</strong>lora il passo che abbiamo citato diventa chiaro: S<strong>al</strong>omone fece censire tutta<br />
la flora e la fauna del paese. Progetto probabilmente utilitaristico, ma che fu anche, <strong>al</strong>la<br />
maniera di quei prospetti sempre in uso <strong>ai</strong> nostri giorni che descrivono tutti i fiori o tutti i funghi<br />
delle nostre regioni, un tentativo di cat<strong>al</strong>ogazione. Le grandi civiltà confinanti, in Egitto e<br />
in Mesopotamia, facevano simili rilevamenti, che erano scienza bella e buona, ma con i qu<strong>al</strong>i<br />
si prendeva pure conoscenza dell’ambiente natur<strong>al</strong>e. E sarebbe anche abbastanza norm<strong>al</strong>e che<br />
non sia stato proprio S<strong>al</strong>omone a farli direttamente, ma ne abbia incaricato l’amministrazione,<br />
composta di persone competenti da lui nominate.<br />
Per<strong>al</strong>tro, la narrazione della venuta a Gerus<strong>al</strong>emme della regina di Saba (1Re 10,1-13) deve<br />
riferirsi a un qu<strong>al</strong>che accordo, concluso fra lei e S<strong>al</strong>omone, di autorizzazione <strong>al</strong> passaggio di<br />
carovane. Ebbene, le relazioni internazion<strong>al</strong>i suppongono, in coloro che le stabiliscono e le<br />
praticano, una cultura aperta agli <strong>al</strong>tri. Non possiamo immaginarci che il piccolo Stato ebr<strong>ai</strong>co<br />
potesse sopravvivere in mezzo a grandi nazioni d<strong>al</strong>le civiltà già multisecolari senza che a Gerus<strong>al</strong>emme<br />
qu<strong>al</strong>cuno non si preoccupasse di ricavare tutto il beneficio che si poteva d<strong>al</strong>le culture<br />
dominanti dell’epoca. Se così non fosse stato, un’amministrazione centr<strong>al</strong>e sarebbe stata<br />
destinata <strong>al</strong> f<strong>al</strong>limento nei suoi rapporti con i potenti vicini. Anche se la Bibbia non lo dice,<br />
<strong>al</strong>la corte di Gerus<strong>al</strong>emme dovevano esserci persone che conoscevano le lingue e le culture<br />
<strong>dei</strong> vicini. Per metterla sul ridere, qu<strong>al</strong>e lingua usò S<strong>al</strong>omone per chiacchierare con la regina<br />
di Saba o la propria affascinante moglie, figlia del faraone? Ebbene, da secoli una gran parte<br />
delle culture del Vicino Oriente Antico era di tipo sapienzi<strong>al</strong>e. E anche sotto quest’aspetto –<br />
proprio come oggi si tenta, e con successo, di farlo in Africa, prima che sia troppo tardi e il<br />
patrimonio autoctono sparisca sotto la pressione della cultura moderna –, la corte di Gerus<strong>al</strong>emme<br />
dovette preoccuparsi di s<strong>al</strong>vaguardare, mettendola per scritto, nero su bianco, quella<br />
sapienza, fino a quel momento solamente popolare e or<strong>al</strong>e, come fra tutti i popoli. Anche la<br />
sapienza d’Israele andava inserita nel concerto delle <strong>al</strong>tre sapienze medio-orient<strong>al</strong>i fiorenti da<br />
tempo. Che sia stato S<strong>al</strong>omone l’ideatore di quel processo, è quel che la Bibbia suggerisce,<br />
appunto mettendo sotto il suo nome due raccolte di proverbi e anche dichiarando che pronunciò<br />
tremila proverbi (1Re 5,12).<br />
Ma «si presta soltanto <strong>ai</strong> ricchi», dice un nostro proverbio. E anche supponendo che S<strong>al</strong>omone<br />
sia veramente stato, storicamente parlando, <strong>al</strong>l’origine delle raccolte a lui attribuite, è<br />
ragionevole pensare che la raccolta materi<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> proverbi sia stata fatta, per suo ordine, da<br />
persone della sua corte, come più tardi avverrà sotto Ezechia (Pr 25,1): questo re avrebbe fatto<br />
raccogliere il patrimonio sapienzi<strong>al</strong>e portato a Gerus<strong>al</strong>emme dagli scampati della città di<br />
Samaria, distrutta nel 722 dagli Assiri. In ogni caso, la raccolta si fece, possiamo supporre, in<br />
tutti gli ambienti in cui la sapienza proverbi<strong>al</strong>e veniva trasmessa, cioè prima di tutto nelle famiglie,<br />
ma anche in campagna e nelle città e <strong>al</strong>la corte. Una volta fatta la raccolta, bisognava<br />
ancora metterla in bella forma, e un simile lavoro suppone gente del mestiere, i sapienti appunto.<br />
Il tutto, a servizio della volontà reg<strong>al</strong>e.
24 Proverbi<br />
Eppure, se la narrazione biblica della vita di S<strong>al</strong>omone è più leggendaria che storica, possiamo<br />
chiederci fino a che punto abbiamo il diritto d’attribuire a S<strong>al</strong>omone la paternità del<br />
progetto. In ogni caso è chiaro che furono i sapienti dell’epoca posteriore <strong>al</strong>l’esilio a dare <strong>al</strong><br />
libro <strong>dei</strong> Proverbi, e quindi anche <strong>al</strong>le raccolte cosiddette s<strong>al</strong>omoniche che esso trasmette, la<br />
forma definitiva che conosciamo oggi. Lo fecero utilizzando raccolte più antiche, <strong>al</strong>cune delle<br />
qu<strong>al</strong>i potevano ris<strong>al</strong>ire anche <strong>al</strong>l’inizio dell’epoca <strong>dei</strong> re? Chi potrà m<strong>ai</strong> provarlo? Sulla questione,<br />
gli esegeti sono divisi.<br />
Resta il fatto che la superiore sapienza di S<strong>al</strong>omone è rimasta nella tradizione. La Bibbia<br />
ebr<strong>ai</strong>ca gli attribuisce anche il Cantico <strong>dei</strong> cantici; anche l’anonimo autore che si presenta<br />
come il Qohelet si farà passare per S<strong>al</strong>omone; e <strong>al</strong>trettanto farà, nella Bibbia greca <strong>dei</strong> Settanta,<br />
l’anonimo autore del libro della Sapienza.<br />
1.4. DALL’ELABORAZIONE D’UN PROVERBIO ALLA RACCOLTA<br />
Un proverbio ha sempre dietro di sé una lunga preistoria. Ogni proverbio è anonimo. Il<br />
nome di chi per primo lo formulò resta sconosciuto, e tuttavia i proverbi sono il bene comune<br />
d’ogni cultura. Ma prima d’arrivare a quel punto, ci dovette essere una persona d’acuto spirito<br />
d’osservazione. Il legame tra un fatto e un <strong>al</strong>tro o la loro concomitanza o an<strong>al</strong>ogia deve aver<br />
c<strong>al</strong>amitato l’attenzione d’un osservatore sagace. Una volta risvegliata la curiosità, l’osservatore<br />
avrà poi voluto accertarsi della solidità del rapporto intuito, un rapporto che poteva avere<br />
per esempio la v<strong>al</strong>idità che c’è fra causa ed effetto. Solamente la ripetuta osservazione in medesime<br />
circostanze poteva confermare l’osservatore e dare <strong>al</strong>l’intuito rapporto la solidità d’un<br />
principio. Da quel momento esso potrà perciò applicarsi ad <strong>al</strong>tre situazioni in cui si osserverà<br />
sia il primo fatto che il secondo e collegarli fra loro.<br />
Ancora oggi, qu<strong>al</strong>siasi ricerca scientifica procede <strong>al</strong>la stessa maniera. Ma quanti presupposti,<br />
per una simile impresa! D<strong>al</strong> punto di vista dell’osservatore, più che curiosità e pazienza ci<br />
vuole fiducia nell’intelligenza umana. D<strong>al</strong>la molteplicità di osservazioni simili, questa può<br />
trarre un principio gener<strong>al</strong>e che le governa. Ma ciò suppone anche l’implicita convinzione, <strong>al</strong>trettanto<br />
s<strong>al</strong>da, che non tutto nel mondo è disordine e caos, ma che il mondo si mantiene, in<br />
una sua coerenza, in ordine. Il principio gener<strong>al</strong>e che spiega molteplici osservazioni simili non<br />
è che una parzi<strong>al</strong>e messa in luce di quell’ordine. Se nel mondo non ci fosse ordine, nessuna<br />
affermazione di carattere gener<strong>al</strong>e si potrebbe fare. Ogni scienza implica questa medesima<br />
convinzione che un ordine c’è, nel mondo, e che l’intelligenza umana può conoscerlo.<br />
Ma una volta conosciuto il principio che governa una molteplicità di fatti simili, bisogna<br />
ancora formularlo. Nel nostro caso, si tratta cioè di tradurre quel che è stato scoperto in una<br />
formula chiara e che colpisca l’immaginazione. E tutto si deve dire in maniera che il principio<br />
scoperto si possa utilizzare in future situazioni identiche, e nello stesso tempo esprimerlo il<br />
più sobriamente possibile – i proverbi eliminano tutte le parole inutili – e anche in maniera<br />
che suoni bene <strong>al</strong>l’orecchio: perché il proverbio prima si dice, poi si ripete e si capisce. Qui è<br />
l’arte a contare; è la condizione perché il proverbio si diffonda in una cultura e si trasmetta. In<br />
effetti, un proverbio si ripete perché esprime in maniera gradevole, condensata e spesso caustica<br />
una verità univers<strong>al</strong>e.<br />
Alla base di questa tappa c’è, nel sapiente, la certezza che ogni intelligenza umana può trar<br />
profitto e perfino gustare il frutto del travaglio della sua intelligenza. In questa sua certezza<br />
egli rimarca la fiducia che ha nell’intelligenza d’ognuno, e con ciò stesso afferma l’univers<strong>al</strong>ità<br />
della capacità presente in ogni uomo di conoscere delle verità.<br />
E ciò fino <strong>al</strong> giorno in cui, passando d<strong>al</strong>l’or<strong>al</strong>ità <strong>al</strong>la scrittura, la codificazione di proverbi<br />
in una collezione ne assicurerà la trasmissione da una generazione <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra per una via più sicura.<br />
E tuttavia, questo passaggio modifica il ruolo del proverbio. Perché, fino a quando lo si<br />
usava or<strong>al</strong>mente, si poteva farlo soltanto <strong>al</strong> momento giusto, in una situazione in cui doveva<br />
produrre effetto, per <strong>ai</strong>utare a prendere una decisione corretta. Ricordo quanto fui colpito il<br />
giorno in cui, durante un consiglio di famiglia per risolvere una drammatica situazione, mia
Proverbi 25<br />
madre, che perlopiù interveniva ben poco, si limitò semplicemente a citare questo proverbio:<br />
«Pena di denaro non uccide», e quello ci <strong>ai</strong>utò ad affrontare con maggiore serenità il problema.<br />
Dei casi così son rari, in Occidente, ma essi fanno ben intuire tutta la potenza d’un proverbio,<br />
maturo frutto d’una tradizione, nel dirimere questo o quel caso concreto. Ma quando i<br />
proverbi vengono riuniti in collezioni scritte, soprattutto poi quando le collezioni sono antiche,<br />
essi perdono ogni contatto con il contesto in cui avevano un senso immediato per diventare<br />
letteratura. Questa terza tappa è quella del nostro libro <strong>dei</strong> Proverbi. Possiamo ben cogliere<br />
tutta la differenza mettendo a confronto le collezioni di questo libro con il proverbio «I padri<br />
mangiarono uva acerba e i denti <strong>dei</strong> figli si <strong>al</strong>legarono» che Geremia (Ger 31,29) ed Ezechiele<br />
(Ez 18,2) commentarono in precise situazioni concrete.<br />
Altri problemi li pone l’organizzazione letteraria <strong>dei</strong> proverbi. Si può infatti riunirli seguendo<br />
ad esempio l’ordine <strong>al</strong>fabetico della prima parola – come capita per certe raccolte di<br />
proverbi africani –, magari poi <strong>al</strong>legando in appendice un indice tematico. Si può anche organizzarli<br />
d<strong>al</strong>l’inizio per temi. Le collezioni del libro <strong>dei</strong> Proverbi, che danno l’impressione<br />
d’averli giustapposti senza criteri, potrebbero in re<strong>al</strong>tà averli disposti secondo un ordine ben<br />
più preciso di quanto si pensi. In t<strong>al</strong> caso, è possibile che quella sistemazione abbia avuto un<br />
fine pedagogico: sistemati in sequenza, i proverbi avrebbero formulato, in forza del loro accostamento,<br />
un insegnamento che nessuno d’essi conteneva da solo nelle tappe precedenti. Raccolti<br />
per scritto e organizzati in piccoli gruppi, i proverbi potevano da quel momento servire<br />
<strong>al</strong>l’educazione e <strong>al</strong>la formazione.<br />
1.4.1. Un esempio: Pr 10,28–11,7<br />
Da una decina d’anni, <strong>al</strong>cuni esegeti si son dati a studiare l’organizzazione <strong>dei</strong> proverbi<br />
della prima collezione s<strong>al</strong>omonica. Già si sapeva che essa è fatta di due parti: Pr 10–15 e Pr<br />
16,1–22,16. È sulla prima di queste parti che si è concentrata l’attenzione. Ecco per esempio<br />
come Ruth Scor<strong>al</strong>ick 1 divide Pr 10–15 in cinque sezioni, che cominciano rispettivamente in<br />
Pr 10,1; 11,8; 12,14; 13,14 e 14,28. In una ricerca del genere non si deve certo far conto della<br />
numerazione <strong>dei</strong> capitoli, che ris<strong>al</strong>e <strong>al</strong> Medioevo, o <strong>dei</strong> versetti, che è del XVI secolo e non ha<br />
uno scopo scientifico migliore che quello del vostro numero di telefono; questa ripartizione è<br />
un puro espediente per rintracciare i vari passi. Nel suo minuzioso studio, Ruth Scor<strong>al</strong>ick si<br />
basa soprattutto sulle riprese di versetti in punti del testo lontani fra loro e su <strong>al</strong>tri indizi letterari.<br />
Ella addirittura divide quella che per lei è la prima sezione in <strong>al</strong>tre cinque sotto-sezioni,<br />
che cominciano rispettivamente <strong>ai</strong> versetti 1.6.13.22.28 di Pr 10. Lì in effetti c’è una ripresa<br />
di Pr 10,2b e Pr 11,4b: «ma la giustizia fa scampare <strong>al</strong>la morte»; il fatto poi che tre parole<br />
chiave si trovino sia in Pr 10,28 che in Pr 11,7 giustifica l’opzione di chiudere la prima sezione<br />
a Pr 11,7:<br />
«L’attesa <strong>dei</strong> giusti non è che gioia,<br />
la speranza <strong>dei</strong> cattivi perirà» (Pr 10,28).<br />
«La speranza del cattivo perisce con la sua morte,<br />
l’aspettativa delle ricchezze è annientata» (Pr 11,7).<br />
Questi due versetti formano un’inclusione che mette in rilievo la conclusione della sezione<br />
che comincia con Pr 10,1: essa è tutta incentrata sulla f<strong>al</strong>lace fiducia che il cattivo ripone nella<br />
ricchezza e nel potere, oggetti di cupidigia, a costo anche di menzogna e inganno. È<br />
l’antitesi di quanto affermava il doppione di Pr 10,2b e Pr 11,4b.<br />
1 Einzelspruch und Sammlung. Komposition im Buch der Sprichwörter Kapitel 10–15 (Beihefte zur Zeitschrift<br />
für die <strong>al</strong>ttestamentliche Wissenschaft 232), Berlin-New York 1995.
26 Proverbi<br />
Su questa base, di cui qui riportiamo soltanto l’essenzi<strong>al</strong>e, Hans Winfried Jüngling 2 an<strong>al</strong>izzò,<br />
nel 1999, la struttura interna di quella conclusione. Egli ci vede due piccoli insiemi: Pr<br />
10,29-32 e Pr 11,1-6. Ciascuno comincia con un proverbio che cita il nome di YHWH:<br />
«La via di YHWH è un bastione, per l’uomo integro; per i m<strong>al</strong>fattori è una rovina» (Pr 10,29).<br />
«Abominio, per YHWH, la bilancia f<strong>al</strong>sa, ma il peso giusto gli piace» (Pr 11,1).<br />
Il primo insieme continua con tre proverbi sul giusto:<br />
«M<strong>ai</strong> il giusto vacillerà,<br />
ma i m<strong>al</strong>vagi non abiteranno la terra.<br />
La bocca del giusto dice la sapienza,<br />
la lingua del m<strong>al</strong>vagio verrà estirpata.<br />
Le labbra del giusto conoscono la benevolenza,<br />
la bocca <strong>dei</strong> m<strong>al</strong>vagi, la perversità» (Pr 10,30-32).<br />
Il secondo insieme riprende dapprima i due temi dell’integrità (Pr 10,29) e della sapienza<br />
(Pr 10,31):<br />
«Comp<strong>ai</strong>a l’insolenza, verrà il disonore;<br />
ma negli umili si trova la sapienza.<br />
La loro integrità guida gli uomini retti;<br />
la loro perversità porta i traditori <strong>al</strong>la rovina» (Pr 11,2-3).<br />
Seguono <strong>al</strong>lora tre proverbi sulla giustizia e non più, come nel primo insieme, sui giusti:<br />
«Nel giorno del furore la ricchezza sarà inutile,<br />
ma la giustizia fa scampare <strong>al</strong>la morte.<br />
La giustizia dell’uomo integro gli spiana la via,<br />
il m<strong>al</strong>vagio soccombe nella sua m<strong>al</strong>vagità.<br />
La loro giustizia s<strong>al</strong>va gli uomini retti,<br />
i traditori cadono per la loro cupidigia» (Pr 11,4-6).<br />
Lasciamo <strong>al</strong> lettore di continuare le sue osservazioni sui vari proverbi che riprendono il<br />
tema princip<strong>al</strong>e di tutta la sezione. A me pare che questa proposta di lettura, di cui abbiamo<br />
presentato soltanto l’argomentazione fondament<strong>al</strong>e, sia abbastanza convincente. Quanto <strong>al</strong>la<br />
datazione di questi proverbi, il conflitto fra giusti e m<strong>al</strong>vagi è di tutti i tempi, anche quelli <strong>dei</strong><br />
re dell’antico Israele! Gli esegeti dovranno ancora continuare a indagare, dato che fin qui non<br />
c’è proprio nessun vero accordo su questi raggruppamenti in sezioni significative. L’esempio<br />
qui riportato ha semplicemente cercato di mostrare cosa potrebbe venirne, da simili ricerche.<br />
1.5. GLI ARGOMENTI AFFRONTATI<br />
I sapienti del libro <strong>dei</strong> Proverbi non si occuparono di scienza natur<strong>al</strong>e. Quando capita loro<br />
d’accennare a fenomeni atmosferici o del mondo anim<strong>al</strong>e, è a titolo di contesto o di confronto.<br />
Al centro delle loro riflessioni e delle loro indagini c’è l’uomo, in se stesso e in tutte le sue relazioni,<br />
compresa quella con Dio. Del cosmo e degli anim<strong>al</strong>i essi trattano per la loro somiglianza<br />
e vicinanza con gli esseri umani. E anche questo significa affermare, una volta di più,<br />
la coerenza del mondo. «Non c’è nebbia d’estate, non c’è pioggia <strong>al</strong>la mietitura, e neppure situazione<br />
onorevole per lo stupido. Il passero fugge via, la rondine s’invola; <strong>al</strong>lo stesso modo,<br />
la m<strong>al</strong>edizione gratuita non ha effetto» (Pr 26,1-2).<br />
È soprattutto l’uomo a interessare i sapienti <strong>dei</strong> Proverbi. E soprattutto sulle sue relazioni si<br />
sono concentrati. A cominciare – ma quest’ordine non pretende d’essere quello della frequenza<br />
né dell’importanza – d<strong>al</strong>le relazioni con l’autorità, in particolare il re (Pr 16,10-15; 25,2-7).<br />
Poi <strong>al</strong>l’interno della famiglia, a riguardo della sposa e della severa educazione <strong>dei</strong> figli. La<br />
presenza <strong>dei</strong> poveri nella società e il contrasto della ricchezza: i sapienti costatano, ma sanno<br />
2 «Proverbi e l’origine della tradizione sapienzi<strong>al</strong>e in Israele», in G. BELLIA - A. PASSARO (a cura di), <strong>Libro</strong><br />
<strong>dei</strong> Proverbi. Tradizione, redazione, teologia, Cas<strong>al</strong>e Monferrato 1999, 35-54.
Proverbi 27<br />
anche incoraggiare ad <strong>ai</strong>utare i miseri. Alcune categorie di persone vengono giudicate negativamente,<br />
come i pigri (Pr 26,13-16). Spesso i sapienti mettono in opposizione il sapiente e lo<br />
stupido, il secondo <strong>dei</strong> qu<strong>al</strong>i è ben poco affidabile, per mancanza d’educazione e d’autocontrollo;<br />
qui è spesso la parola a far da criterio: è una parola scervellata, oppure frutto di riflessione?<br />
Chi schernisce è ancora peggio, perché, sbr<strong>ai</strong>tando, si fa gioco di tutto: è impermeabile<br />
a ogni sapienza. E ancora più marcato è lo scarto fra il sapiente o il giusto e il m<strong>al</strong>vagio,<br />
prova che per questi maestri il comportamento mor<strong>al</strong>e rientrava nelle loro an<strong>al</strong>isi, come abbiamo<br />
visto a proposito di Pr 10,29–11,6.<br />
Siccome lo scopo <strong>dei</strong> sapienti è mostrare le vie della felicità, della maturazione person<strong>al</strong>e e<br />
del successo nella vita, essi tendevano – anche troppo – a vedere un rapporto di causa ed effetto<br />
fra la buona educazione o la virtù e una buona riuscita nella vita. Nel suo Topaze, Marcel<br />
Pagnol mette in scena un maestro di scuola che insegna <strong>ai</strong> suoi giovani scolari: «I beni m<strong>al</strong>amente<br />
acquisiti non danno profitto». È un proverbio che viene d<strong>al</strong> nostro libro biblico, precisamente<br />
Pr 10,2. Un certo numero di noti episodi della nostra epoca tenderebbe a confermarlo.<br />
E tuttavia, a prenderlo per un principio univers<strong>al</strong>e, le obiezioni di Giobbe hanno una certa<br />
pertinenza: vi sono persone che godono un lusso che si sono procurate con la fraudolenza. I<br />
sapienti si limitano sempre <strong>al</strong>la vita di quaggiù, dato che essi non hanno <strong>al</strong>tra prospettiva d’un<br />
<strong>al</strong>dilà che vada oltre il cupo sheòl in cui scendono tutti i defunti. L’idea d’una retribuzione<br />
impregna i sapienti. È il rapporto di causa ed effetto. Ma in questo contesto d’acquisizione<br />
fraudolenta, l’effetto si mostrerà smentito da t<strong>al</strong>uni fatti. A meno di dirci che le comunità umane<br />
dell’epoca erano il più delle volte di piccole dimensioni e l’anonimato delle nostre<br />
grandi città era <strong>al</strong>lora ignoto. Come potrebbe accadere, in un contesto tanto diverso d<strong>al</strong> nostro,<br />
che colui il qu<strong>al</strong>e disonestamente si arricchisce non desti <strong>dei</strong> sospetti che finiranno per rovinarlo?<br />
Perché i sapienti non sono degli ingenui. Il loro sapere è limitato, e ammetterlo, per essi, è<br />
già un vero sapere. «Vedi un uomo che si prende per un sapiente? C’è più speranza per un insensato»<br />
(Pr 26,12). Uno <strong>dei</strong> proverbi numerici ammette i limiti del sapere <strong>dei</strong> sapienti (Pr<br />
30,18-19). Anzi, di più ancora – <strong>al</strong>la maniera del nostro proverbio «L’uomo propone e Dio dispone»<br />
–, essi affermano che fra il progetto dell’uomo e la sua effettiva re<strong>al</strong>izzazione c’è un<br />
abisso d’imponderabili su cui l’uomo non ha <strong>al</strong>cuna presa, ed è qui che essi videro il ruolo di<br />
Dio, del Dio d’Israele nell’esercizio della sua sovranità univers<strong>al</strong>e. «All’uomo i progetti del<br />
cuore; da YHWH viene la risposta» (Pr 16,1). «Il cuore dell’uomo delibera la propria via, ma<br />
YHWH rende sicuri i suoi passi» (Pr 16,9). Queste osservazioni gener<strong>al</strong>i trovano a volte applicazioni<br />
concrete. Per esempio: «Una casa e <strong>dei</strong> beni sono eredità paterna, ma YHWH dà una<br />
donna di senno» (Pr 19,14): la propria felicità, l’uomo non la costruisce solamente su beni<br />
materi<strong>al</strong>i che eredita, ma ancora meglio la costruisce nell’armonia coniug<strong>al</strong>e; eppure, è sicuro<br />
che l’avrà, il giorno in cui si sceglie la sua sposa? Allo stesso modo, «si equipaggia il cav<strong>al</strong>lo<br />
per il giorno della battaglia, ma a Dio appartiene la vittoria» (Pr 21,31): si ha un bel prepararsi,<br />
e anche seriamente, <strong>al</strong>lo scontro, <strong>al</strong>la prova, l’esito resta sempre incerto: a chi toccherà la<br />
vittoria? È Dio a decidere. Qui una sapienza incredula avrebbe parlato di caso. Il sapiente biblico,<br />
invece, vede il suo Dio come il sovrano <strong>dei</strong> destini. A ben guardare, siamo noi i padroni<br />
delle nostre vite? Non è le<strong>al</strong>e ammettere quanto esse sfuggano <strong>al</strong> nostro controllo? «YHWH dirige<br />
i passi dell’uomo: come potrà l’uomo capire il suo destino?» (Pr 20,24). La distanza è t<strong>al</strong>e,<br />
fra la nostra sapienza e l’azione di Dio nelle nostre vite, che è prudente ripetere il proverbio:<br />
«Non c’è sapienza né intelligenza né consiglio che tenga di fronte a Dio» (Pr 21,30).<br />
Insomma, i sapienti <strong>dei</strong> Proverbi non esitano a mettersi «di fronte a YHWH». Qu<strong>al</strong> era il loro<br />
atteggiamento religioso? Una prima serie di proverbi a questo riguardo compare nella prima<br />
raccolta s<strong>al</strong>omonica: in essi si dice ciò che per YHWH è abominio. Abominio è una parola<br />
ben forte. In Deuteronomio implica l’esclusione d<strong>al</strong>la comunità, ma soprattutto sottolinea la<br />
tot<strong>al</strong>e incompatibilità fra il Dio d’Israele e ogni forma di comportamento depravato. Il Dio<br />
d’Israele è chiamato con il suo nome, ma ciò non significa che i sapienti vedano in lui soltanto
28 Proverbi<br />
il Dio della storica rivelazione fatta a Israele. Niente rimanda esplicitamente a essa. La ragione<br />
è che il Dio del loro popolo, agli occhi <strong>dei</strong> sapienti è anche il padrone assoluto dell’universo,<br />
<strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e niente sfugge di quel che c’è nel cuore dell’uomo. Ciò che per lui è abominevole<br />
sono l’orgoglio (Pr 16,5), i progetti e le macchinazioni perfide (Pr 11,20;15,26), la menzogna<br />
(Pr 12,22), le bilance f<strong>al</strong>se (Pr 11,1; 20,23), l’offerta cultu<strong>al</strong>e degli empi (Pr 15,8).<br />
L’atto mor<strong>al</strong>e, anche in quello che può avere di più intimo, non è dunque affatto separabile d<strong>al</strong><br />
suo rapporto fondament<strong>al</strong>e con la religione.<br />
Alcuni proverbi affermano che il modo di trattare il povero riguarda anche il suo Creatore:<br />
«Opprimere il povero è oltraggiare chi l’ha fatto; essere buono con l’infelice, invece l’onora»<br />
(Pr 14,31; vedi anche Pr 17,5; 19,17). Gesù sarà <strong>al</strong>trettanto chiaro: Mt 25,40.<br />
Un’<strong>al</strong>tra espressione dell’atteggiamento religioso si legge in tutto il libro <strong>dei</strong> Proverbi: il<br />
timore di Dio, eccetto nella seconda raccolta s<strong>al</strong>omonica e nelle raccolte complementari di Pr<br />
30,1–31,9. Ogni volta che l’espressione compare, potrebbe anche trattarsi di testi del tempo<br />
posteriore <strong>al</strong>l’esilio, il che lascerebbe intendere che l’importanza del timore del Signore sarebbe<br />
una scoperta piuttosto recente <strong>dei</strong> sapienti. Ma che scoperta! Perché il timore del Signore<br />
pare essere proprio l’atteggiamento di fondo che l’uomo deve tenere dinanzi a Dio. Per timore<br />
non dobbiamo intendere paura, come se la differenza fra l’Antico Testamento e il Nuovo<br />
fosse che il primo teme il suo Dio, mentre il secondo l’ama. Questo genere d’opposizioni è<br />
m<strong>al</strong>sano: non ha nessun serio fondamento. Del resto, vedremo che i sapienti d’Israele fanno<br />
procedere di pari passo timore e amore del Signore. Il timore del Signore è piuttosto simile <strong>al</strong>lo<br />
stato che descriveva Ignazio di Loyola nel suo Diario spiritu<strong>al</strong>e dopo un momento di tensione<br />
intempestiva: «Dammi l’umiltà amante, e il rispetto e la venerazione». Forse è quest’ultima<br />
parola a esprimere <strong>al</strong> meglio il senso del timore del Signore: venerare qu<strong>al</strong>cuno è un atteggiamento<br />
di fondo nei suoi riguardi; implica il rispetto e l’umiltà, ma anche l’amore, e ciò<br />
farebbe sì che per niente <strong>al</strong> mondo io potrei fare qu<strong>al</strong>cosa che dispiaccia o ferisca colui d<strong>al</strong><br />
qu<strong>al</strong>e ammetto di ricevere o aver ricevuto così tanto. Il legame fra il timore di Dio e l’agire<br />
buono è in re<strong>al</strong>tà indicato da questo o quel proverbio (Pr 15,33; 22,4). È il timore di Dio che<br />
spinge a evitare il m<strong>al</strong>e (Pr 16,6) e a camminare nella rettitudine (Pr 14,2): esso è <strong>al</strong>la base<br />
d’una retta condotta mor<strong>al</strong>e. È vero, è caparra di felicità e di benedizione (Pr 10,27; 14,26-27;<br />
19,23; 22,4; 23,17-18), ma a chi ne vive, esso basta (Pr 15,16).<br />
I sapienti avevano anche scoperto che c’è un rapporto fra la sapienza e il timore di Dio: «Il<br />
timore del Signore è una scuola di sapienza» (Pr 15,33). Il prologo del libro <strong>dei</strong> Proverbi fa<br />
ancora un passo in più, spiegando che «il timore del Signore è principio di sapere» (Pr 1,7),<br />
«inizio della sapienza» (Pr 9,10), il suo punto di partenza. Non si dà sapienza autentica, se<br />
l’uomo non si mette anzitutto nel timore del Signore, che <strong>al</strong>tro non è se non «la conoscenza di<br />
Dio» (Pr 2,5), cioè il fatto di riconoscerlo per quel che è. Il rifiuto d’ogni forma di m<strong>al</strong>e nel<br />
nostro agire (Pr 1,29; 8,13) ne è la conseguenza. I sapienti avevano insomma preso coscienza<br />
che ogni vera sapienza non sarebbe possibile se non sulla base d’un radic<strong>al</strong>e atteggiamento religioso<br />
d’umiltà e di venerazione dinanzi <strong>al</strong> mistero divino. Atteggiamento di disponibilità,<br />
d’apertura e d’accoglienza, che rende l’uomo permeabile a ciò che sta più in <strong>al</strong>to di lui.<br />
1.5.1. L’impatto delle sapienze straniere<br />
Di per sé, ogni sapienza è univers<strong>al</strong>e, internazion<strong>al</strong>e, e già abbiamo detto quanto la scoperta,<br />
nel XX secolo, delle sapienze del Vicino Oriente Antico abbia rinnovato lo studio <strong>dei</strong> libri<br />
sapienzi<strong>al</strong>i dell’Antico Testamento. Qui lo faremo vedere a proposito di Pr 22,17–23,14, dove<br />
le an<strong>al</strong>ogie con la sapienza egiziana di Amenemope vengono riconosciute da tutti. Se la Bibbia<br />
può, senza dirlo esplicitamente, subire l’influenza d’una sapienza straniera, può anche pretendere<br />
di far propria l’una o l’<strong>al</strong>tra. È il caso anche <strong>dei</strong> proverbi attribuiti ad Agùr (30,1-14) e<br />
a Lemuèl (31,1-9). Che son poi i passi di cui tratteremo adesso.
Proverbi 29<br />
1.5.1.1. Pr 22,17–23,14 e Amenemope<br />
Il manoscritto della Sapienza di Amenemope era stato portato d<strong>al</strong>l’Egitto <strong>al</strong> British Museum<br />
nel 1888 da Ernest A. T. W. Budge, ma venne pubblicato soltanto nel 1923. L’anno seguente<br />
Adolf Herman fece un elenco <strong>dei</strong> possibili accostamenti fra questo testo egiziano e Pr<br />
22,17s. Gli esegeti furono a lungo divisi sulla priorità da attribuire <strong>al</strong>l’uno o <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro <strong>dei</strong> due<br />
testi. Alcuni pensavano che fosse stata la raccolta biblica a influenzare l’autore egiziano; fino<br />
<strong>al</strong> giorno in cui, negli anni ’80, si scoprì un frammento di Amenemope che ris<strong>al</strong>iva probabilmente<br />
<strong>al</strong> XII secolo a.C. Diventò <strong>al</strong>lora evidente che non potevano essere stati i sapienti della<br />
Bibbia la fonte di quella Sapienza egiziana.<br />
Quel frammento, ben conservato, si compone di trenta sezioni, o «capitoli», preceduti da<br />
un’introduzione e seguiti da un colophon. Il tutto è scritto in forma di poesia, su ventotto fogli<br />
d’una ventina di versi ciascuno. L’autore, Amenemope, figlio di uno scriba, era intendente <strong>dei</strong><br />
possedimenti reg<strong>al</strong>i e incaricato, fra le <strong>al</strong>tre cose, <strong>dei</strong> cere<strong>al</strong>i e delle tasse. Il copista, che dice<br />
il suo nome, si chiamava Senu. Amenemope era pieno d’umanità. Mostra riserbo e autocontrollo.<br />
Trattando delle relazioni interperson<strong>al</strong>i, invita <strong>al</strong>l’onestà, ma anche <strong>al</strong>la generosità,<br />
<strong>al</strong>l’indulgenza, mentre gli ripugna la violenza, e così pure la voglia d’arricchire.<br />
Ebbene, <strong>al</strong>cuni passi della sapienza di Amenemope sono così simili a questo o quel proverbio<br />
della prima raccolta <strong>dei</strong> sapienti del libro <strong>dei</strong> Proverbi da far pensare a un’influenza del<br />
testo egiziano su quello biblico. Ecco <strong>al</strong>cuni esempi.<br />
Amenemope 3 comincia il suo insegnamento con queste parole:<br />
«Presta orecchio, ascolta questi consigli,<br />
applica il tuo cuore a capirli» (cap. 1, III, 9-10).<br />
Pr 22,17 fa <strong>al</strong>l’incirca lo stesso invito <strong>al</strong>l’inizio della raccolta. Il rispetto del povero (Pr<br />
22,22) viene raccomandato in un modo simile da Amenemope (cap. 2, IV, 4-5):<br />
«Guàrdati d<strong>al</strong> rubare a un infelice<br />
e d<strong>al</strong>l’irritarti con un debole».<br />
Evitare l’irascibile (Pr 22,24) è anche un consiglio d’Amenemope (cap. 9, XI,13-14):<br />
«Non fraternizzare con l’impulsivo;<br />
non fare conversazione con lui».<br />
Due volte i Proverbi chiedono di non «spostare il vecchio confine» che segna la parte <strong>dei</strong><br />
vari proprietari (Pr 22,28; 23,10). Lo stesso fa Amenemope (cap. 6, VII, 12-13; VIII, 9):<br />
«Non spostare i confini <strong>al</strong> bordo <strong>dei</strong> campi<br />
e non cambiare la posizione <strong>dei</strong> recinti».<br />
«Guàrdati d<strong>al</strong> distruggere i confini <strong>dei</strong> campi!».<br />
Pr 22,29 dice, d’un uomo che si presta, che egli entrerà <strong>al</strong> servizio del re. Amenemope<br />
conclude il suo insegnamento con questa osservazione (cap. 30, XXVII, 16-17):<br />
«Lo scriba esperto nel suo mestiere<br />
è degno d’essere uomo di corte».<br />
Pr 23,1-3 invita <strong>al</strong>la discrezione, quando si è a tavola con un grande personaggio. Amenemope<br />
dà lo stesso consiglio (cap. 23, XXIII, 13-18):<br />
«Non mangiare il pane in presenza d’un notabile<br />
e non portartelo <strong>al</strong>la bocca per primo.<br />
Se ti basta fingere di masticare,<br />
contèntati della tua s<strong>al</strong>iva...».<br />
Pr 23,4-5 sconsiglia di volersi arricchire, soprattutto in modo disonesto, e anche Amenemope<br />
diceva lo stesso (cap. 7, IX, 14-19):<br />
3 Alcuni testi di Amenemope si possono leggere in J. LEVÊQUE, Testi sapienzi<strong>al</strong>i dell’Antico Egitto, in<br />
L’Antico testamento e le culture del tempo, Roma 1990, 448-465.
30 Proverbi<br />
«Non stancarti per cercare l’abbondanza:<br />
quel che h<strong>ai</strong> ti basti.<br />
Se le ricchezze ti giungono per furto,<br />
non passeranno la notte con te.<br />
Al levar del sole non saranno più in casa tua:<br />
si vede il loro posto, ma esse non ci son più; [...]<br />
come le oche si son fatte delle <strong>al</strong>i<br />
e in cielo si sono involate».<br />
Questi accostamenti forse impressionano, però ognuna delle due sapienze mantiene le sue<br />
caratteristiche. Ma dobbiamo proprio intendere Pr 22,20 come un’<strong>al</strong>lusione a questa sapienza<br />
egiziana di «trenta capitoli» (Amenemope, cap. 30, XII, 7)? Il nostro testo ebr<strong>ai</strong>co non è chiaro,<br />
e quando si traduce: «non ho scritto per te trenta capitoli?» si fa un’ipotesi, non si formula<br />
una certezza. Tanto più che non c’è proprio accordo sul modo di dividere Pr 22,17–23,14 in<br />
trenta «capitoli».<br />
Inoltre, le due sapienze hanno un ordine diverso. Pr 22,17–23,14 non segue quello di Amenemope.<br />
E in più, questi dava consigli utili <strong>al</strong> funzionamento dello Stato. Quel che nell’uno<br />
era esplicito, nell’<strong>al</strong>tro diventa ass<strong>ai</strong> implicito, ma non assente.<br />
Il sapiente ebreo mantiene la sua origin<strong>al</strong>ità anche se s’ispira <strong>al</strong> collega egiziano. Questi elaborava<br />
con ampiezza il suo insegnamento; il sapiente biblico è più stringato, anche se poi<br />
aggiunge un testo sul rischio di prestare garanzia per <strong>al</strong>tri (Pr 22,26-27) che in Amenemope<br />
non c’era. L’uno e l’<strong>al</strong>tro sono religiosi e la citazione di YHWH in Pr 22,19.23 non deve stupire:<br />
l’acculturazione impone un adattamento <strong>al</strong>la propria credenza.<br />
Gli accostamenti non vanno più in là di Pr 23,11, mentre la prima raccolta <strong>dei</strong> sapienti biblici<br />
continua fino a Pr 24,22. In più, a partire da Pr 23,15 il testo dà un nuovo insegnamento<br />
in cui nulla fa pensare a un influsso di Amenemope. Influsso che poté invece farsi sentire in<br />
<strong>al</strong>tri passi del libro <strong>dei</strong> Proverbi. Un ben evidente esempio lo troviamo in Pr 15,16-17:<br />
«È meglio poco con il timore di Dio<br />
che molto con l’inquietudine.<br />
È meglio un piatto di legumi con l’affetto<br />
che un bue grasso con l’odio».<br />
Amenemope scriveva (cap. 6, IX, 5-9):<br />
«È meglio la povertà nella mano del dio<br />
che tante ricchezze in magazzino.<br />
È meglio un po’ di pane con la gioia nel cuore<br />
che delle ricchezze con tormenti».<br />
Che la sapienza di Amenemope abbia insomma avuto influenza sui sapienti d’Israele non si<br />
può negare. Ma questi ultimi non si sono m<strong>ai</strong> mostrati servili. La sapienza è internazion<strong>al</strong>e, e<br />
ciò lascia a ognuno il diritto d’essere egli stesso un sapiente origin<strong>al</strong>e e autentico.<br />
1.5.1.2. La preghiera di Agùr (Pr 30,7-9)<br />
Agùr non è personaggio noto da <strong>al</strong>tri testi. Sebbene il testo ebr<strong>ai</strong>co del titolo di questa raccolta<br />
(Pr 30,1-14), come di quella di Lemuèl, sia di difficile interpretazione, Agùr e Lemuèl<br />
appartenevano <strong>al</strong>la tribù di Massa. Questa è citata in Gen 25,14 tra i figli di Ismaele. Alcune<br />
iscrizioni assire parlano di essa a partire d<strong>al</strong> 734 a.C. e <strong>al</strong>tre segn<strong>al</strong>ano ancora la sua esistenza<br />
nel V secolo a.C. La si posiziona nel nord-ovest dell’Arabia, non lontano da Tema.<br />
I pochi proverbi messi sotto il nome di Agùr colpiscono per la loro discrezione e il loro rispetto<br />
<strong>dei</strong> deboli. L’insegnamento impressiona. Vi si legge, fra l’<strong>al</strong>tro, una bellissima preghiera,<br />
la sola trasmessa d<strong>ai</strong> Proverbi. Questo libro aveva riportato, nelle collezioni s<strong>al</strong>omoniche,<br />
appena tre proverbi sulla preghiera: Pr 15,8.29; 28,9. Affermavano che soltanto la preghiera<br />
del giusto, di colui che mette in pratica i precetti di rettitudine, viene ascoltata d<strong>al</strong> Signore.<br />
Escludevano l’efficacia del rito cultu<strong>al</strong>e quando non fosse accompagnato da un comportamento<br />
mor<strong>al</strong>e corretto e veramente religioso.
Ma ecco la preghiera attribuita ad Agùr (Pr 30,7-9):<br />
«Due cose da te imploro,<br />
e tu non rifiutarmele, prima che muoia:<br />
<strong>al</strong>lontana da me menzogna e f<strong>al</strong>sità,<br />
non darmi povertà né ricchezza,<br />
lasciami gustare la mia parte di pane,<br />
per timore che, colmato, mi volga <strong>al</strong>trove<br />
e dica: chi m<strong>ai</strong> è YHWH?<br />
oppure, indigente, rubi<br />
e me la prenda con il nome del mio Dio».<br />
Proverbi 31<br />
È veramente la preghiera d’un sapiente. Niente in essa fa una qu<strong>al</strong>che <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la storia<br />
sacra d’Israele, e per il buon motivo che è attribuita a uno straniero. E tuttavia, l’inserimento<br />
in un libro biblico fece sì che il nome del Dio d’Israele venisse citato.<br />
La costruzione di questa preghiera è quella <strong>dei</strong> proverbi numerici: l’orante chiede due cose.<br />
Ma subito sorge una difficoltà: qu<strong>al</strong>i sono, queste due cose? Il testo attu<strong>al</strong>e suppone che la<br />
prima richiesta sia evitare menzogna e f<strong>al</strong>sità. In t<strong>al</strong> caso, la seconda è <strong>al</strong>lora espressa in duplice<br />
maniera: negativamente, né povertà né ricchezza, e poi positivamente: soltanto la mia<br />
parte di pane. E tuttavia, si può esitare sull’autenticità della prima richiesta, così intesa: che<br />
c’entrano qui menzogna e f<strong>al</strong>sità? In re<strong>al</strong>tà, una preghiera d’an<strong>al</strong>oga struttura si trova nel libro<br />
di Giobbe (Gb 13,20-22):<br />
«Due cose soltanto concedimi,<br />
perché osi affrontare la tua presenza:<br />
scosta la tua mano che pesa su me<br />
e non spaventarmi con il tuo terrore,<br />
poi comincia a dibattere e io risponderò,<br />
o meglio, io parlerò e tu replicher<strong>ai</strong>».<br />
Qui abbiamo chiaramente due richieste complementari: negativamente, farla finita con<br />
l’oppressione, e poi, positivamente, avviare il dibattito. Ma <strong>al</strong>lora è possibile che in Pr 30,8 la<br />
frase «<strong>al</strong>lontana da me menzogna e f<strong>al</strong>sità», che appesantisce la preghiera e fa di tre stichi il<br />
versetto – ciò che è anorm<strong>al</strong>e –, sia un’antica aggiunta, non priva di senso, a ogni modo, come<br />
diremo. Se così fosse la preghiera di Agùr chiederebbe <strong>al</strong>lora due cose <strong>al</strong>trettanto complementari:<br />
scartare gli estremi e concedere proprio il giusto per vivere.<br />
Gli estremi di cui il sapiente si augura di non fare di persona l’esperienza sono la povertà e<br />
la ricchezza, cioè l’indigenza e il lusso. Perché sia l’una che l’<strong>al</strong>tro comportano <strong>dei</strong> rischi, di<br />
cui Agùr è ben conscio. Se fosse ricco, rischierebbe di dimenticare il Signore. Non è una tentazione<br />
perpetua? La ricchezza può bastare a tutto, per chi la possiede. Diventa un dio,<br />
«Mammona», diceva Gesù (Mt 6,24). Chi ci si attacca finirà per disprezzare Dio. La ricchezza<br />
dà potere; orgoglio e sufficienza non son lontani. Dio diventa un inutile sconosciuto. Così reagiva<br />
il faraone quando ritorse a Mosé: «Chi è YHWH?» (Es 5,2). E Giobbe farà dire <strong>ai</strong> ricchi<br />
senza fede né legge (Gb 21,15):<br />
«Cos’è Shadd<strong>ai</strong>, perché dobbiamo servirlo?<br />
Qu<strong>al</strong>e profitto ne abbiamo, a invocarlo?».<br />
La loro felicità, essi già la p<strong>al</strong>pano.<br />
Ma anche l’<strong>al</strong>tro estremo comporta <strong>dei</strong> rischi. La miseria spinge <strong>al</strong> furto. Anche se poi la<br />
nostra mor<strong>al</strong>e ammette che il poveraccio che ruba per sopravvivere, quando la sua vita è in<br />
gioco, non è di fatto colpevole: è la società ad averne la responsabilità, essa che l’abbandona.<br />
Nel profondo della sua angoscia, il povero può anche finire nella disperazione, o, peggio ancora,<br />
può prendersela con Dio che dà l’impressione di abbandonarlo lui pure. Un frammento<br />
del profeta Is<strong>ai</strong>a (8,21) descrive con queste parole la sorte di chi si ritrova il paese razziato:<br />
«Accadrà che la fame lo spingerà <strong>al</strong>la collera<br />
e <strong>al</strong>lora m<strong>al</strong>edirà il suo re e il suo Dio».
32 Proverbi<br />
La sposa di Giobbe non inviterà il marito, orm<strong>ai</strong> spogliato di tutto e colpito fin nella propria<br />
carne, a m<strong>al</strong>edire Dio (Gb 2,9)?<br />
Che uno sia ricchissimo o non abbia più nulla, è dunque grande il rischio che si <strong>al</strong>lontani<br />
da Dio. Forse è per questo che una glossa venne aggiunta: misconoscere il Signore quando si<br />
è diventati ricchi o m<strong>al</strong>edirlo nella miseria nera non è, per il credente, menzogna e f<strong>al</strong>sità? Per<br />
ciò Agùr chiede <strong>al</strong> suo Dio d’evitargli questi estremi, finché vive. A questa così lucida richiesta<br />
in negativo, Agùr ne oppone una seconda, positiva: «Lasciami gustare la mia parte di pane».<br />
Come non pensare a quell’<strong>al</strong>tra preghiera che Gesù insegna <strong>ai</strong> suoi discepoli: «Dacci oggi<br />
il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11)?<br />
Preghiera di sapiente, preghiera intelligente, perspicace, incisiva. Chi ardirà pronunciarla in<br />
tutta sincerità? Eppure, non sarebbe la via su cui il fossato sempre più profondo fra ricchi e<br />
poveri si ridurrebbe? Se il nostro sguardo si posa sull’attu<strong>al</strong>e situazione dell’intera umanità,<br />
l’urgenza d’una simile preghiera, per chi crede, è più che evidente.<br />
1.5.1.3. Le parole che Lemuèl ricevette da sua madre (Pr 31,1-9)<br />
È uno <strong>dei</strong> rari testi di cui la Bibbia attribuisce l’origine a una donna, per giunta straniera. È<br />
ragionevole supporre che Lemuèl, sconosciuto nel resto della Bibbia non meno di Agùr, appartenesse<br />
a quella medesima tribù di Massa, ma lui n’era il capo, il re. Sappiamo che la Bibbia<br />
stessa attribuisce <strong>al</strong>la madre del re un ruolo speci<strong>al</strong>e. Betsabèa ne è l’esempio tipico: è lei<br />
che intriga per far scegliere S<strong>al</strong>omone come successore di Davide (1Re 1,11-40).<br />
Qui è dunque la madre di Lemuèl che parla. Comincia con parole <strong>al</strong>quanto oscure,<br />
nell’ebr<strong>ai</strong>co: cosa significa per esempio l’espressione «figlio <strong>dei</strong> miei voti»? Si sarebbe forse<br />
ella impegnata, come Anna, la madre di Samuele, che, disperando d’avere una progenitura,<br />
promise, se fosse rimasta gravida, di consacrare <strong>al</strong> Signore il frutto delle sue viscere (1Sam<br />
1,11)? Qu<strong>al</strong>e sarebbe stato il voto della madre di Lemuèl, dato che quel suo figlio non fu, a<br />
ogni buon conto, un consacrato, bensì un detentore del potere?<br />
L’insegnamento di questa madre a suo figlio verte su due punti: non concedersi <strong>al</strong>le donne e<br />
non ubriacarsi. È curioso costatare che nella prima raccolta <strong>dei</strong> sapienti, nel punto in cui finisce<br />
l’influenza della sapienza di Amenemope, il testo, che comincia con solenni appelli del padre,<br />
cui poi si unisce anche la madre, si dilunghi sulle prime sui medesimi consigli (Pr 23,15-35).<br />
Il primo consiglio della madre di Lemuèl a suo figlio riguarda dunque le frequentazioni<br />
femminili. Ma qui il consiglio è per il principe: egli corre perfino maggiori rischi a lasciarsi<br />
andare <strong>al</strong>le sue passioni. Il testo ebr<strong>ai</strong>co non è chiaro, ma proprio di ciò pare trattarsi. La Bibbia<br />
ha sottolineato i disastrosi effetti della poligamia di S<strong>al</strong>omone (1Re 11,1-13; Nee 13,26;<br />
Sir 47,19). Si capisce che <strong>al</strong>la madre di Lemuèl una parola basta, su quest’argomento.<br />
L’<strong>al</strong>tro consiglio viene invece sviluppato in sorprendente maniera. La madre del principe –<br />
ella di nuovo richiama la sua pronta attenzione – l’invita pressantemente a non prender gusto<br />
<strong>al</strong> vino e <strong>al</strong>le bevande forti. Consiglio in negativo, come il primo, ma insistendo, questa volta,<br />
sulla sconvenienza, per un principe, d’ubriacarsi. E la ragione vien subito detta: se il re è in<br />
potere di quel che ha bevuto, rischia ass<strong>ai</strong> di non essere più un giudice equo. Il principe, lo<br />
sappiamo, esercitava la più <strong>al</strong>ta funzione giudiziaria. Fu per esempio nel suo famoso giudizio<br />
(1Re 3,16-28) che S<strong>al</strong>omone rivelò la sua saggezza. Il tribun<strong>al</strong>e del re è l’ultimo appello del<br />
povero. Un s<strong>al</strong>mo, l’unico attribuito a S<strong>al</strong>omone, dice (S<strong>al</strong> 72,4):<br />
«Con giustizia egli giudicherà il popolo minuto,<br />
s<strong>al</strong>verà i figli <strong>dei</strong> poveri,<br />
schiaccerà i loro carnefici».<br />
Se il re-giudice ha bevuto troppo, non ha più una visione netta della legge e per ciò stesso<br />
il suo giudizio, che è senza appello, verrà f<strong>al</strong>sato. Degli eccessi del principe, saranno i poveri<br />
a patire. S’intuisce, nell’origin<strong>al</strong>ità e verità della motivazione, la più affinata e <strong>al</strong>truistica sensibilità<br />
d’una donna.
Proverbi 33<br />
Dopo ciò, quella madre consiglia due comportamenti che contrastano, in un tono del tutto<br />
positivo, con il consiglio negativo di non ubriacarsi. Il primo è di stordire con una forte bevanda<br />
chi sta per morire, consiglio pieno d’amarezza: così dimenticherà la sua disgrazia. Questo<br />
testo perlomeno stupisce, ma in ebr<strong>ai</strong>co non è ĺimpido, perché il consiglio è formulato <strong>al</strong><br />
plur<strong>al</strong>e. «Procurate delle bevande forti...» non è detto a Lemuèl; si può quindi dubitare della<br />
sua autenticità. In più, non si può dire chi siano queste persone in punto di morte: <strong>dei</strong> condannati,<br />
dato che si sta parlando di processi, e si continuerà a parlarne sino <strong>al</strong>la fine del passo? In<br />
ogni caso, il pensiero non può non andare <strong>al</strong> gesto <strong>dei</strong> soldati <strong>al</strong>la passione di Gesù (Mt<br />
27,34). Se bisognasse prendere in conto un’applicazione più gener<strong>al</strong>e di questo consiglio di<br />
Pr 31,6, <strong>al</strong>lora si potrebbe parlare di cinismo e uno avrebbe tutto il diritto di scand<strong>al</strong>izzarsene.<br />
Conosciamo abbastanza i misfatti dell’<strong>al</strong>cool fra le popolazioni povere, senza lavoro e senza<br />
speranza. Ma io dubito che il testo abbia questo senso, soprattutto ricordando quanto gli abitanti<br />
del deserto rifuggano le bevande inebrianti.<br />
L’ultimo consiglio propone un <strong>al</strong>tro contrasto, basato questa volta sul fatto che, per bere,<br />
bisogna aprire la bocca: qui la bocca riceve la bevanda, mentre, con la parola che emette, essa<br />
dà. Donde l’insistenza di questo consiglio fin<strong>al</strong>e sul fatto d’aprire la bocca non più per ingurgitare<br />
vino ma per pronunciare <strong>dei</strong> giusti giudizi. Ciò suppone che il re-giudice sia sobrio. Il<br />
contrasto continua, poiché è in favore del muto, cioè uno che non può aprire la bocca per esporre<br />
la sua lamentela, che il re aprirà la sua per pronunciare il giudizio.<br />
Il testo presenta poi una frase che deve essere par<strong>al</strong>lela <strong>al</strong>la precedente, ma il suo senso è<br />
oscuro. Molti traducono: «per la causa di tutti gli abbandonati», ma è soltanto una delle tante<br />
ipotesi. Neanche l’antica versione greca <strong>dei</strong> Settanta pare aver saputo dare un senso a questo<br />
versetto. Il testo ebr<strong>ai</strong>co, che san Girolamo rende in latino quasi <strong>al</strong>la lettera, può tradursi: «per<br />
la causa <strong>dei</strong> figli del passaggio». Alcuni hanno pensato <strong>al</strong> passaggio d<strong>al</strong>la vita <strong>al</strong>la morte. Ma<br />
perché non tener conto del contesto? Lemuèl è re di Massa, e lì passano le carovane del deserto.<br />
Non necessariamente i carovanieri parlano la lingua di Massa, e spesso finiscono vittime di<br />
razzie o <strong>al</strong>tre m<strong>al</strong>versazioni. Perché la madre di Lemuèl non potrebbe sollecitare il figlio a curarsi<br />
di questa gente di passaggio, non in grado di spiegarsi sui fatti di cui è stata vittima? Si<br />
tratterebbe <strong>al</strong>lora della protezione degli stranieri di passaggio.<br />
Il consiglio finisce riprendendo la stessa idea di giudicare correttamente difendendo la causa<br />
del povero e dell’infelice. Questo appello positivo contrasta con ciò che accadrebbe se il re<br />
si desse <strong>al</strong> bere (Pr 31,5 ), e si armonizza con quello che tutto il Vicino Oriente Antico considerava<br />
il compito fondament<strong>al</strong>e del principe.<br />
Si sarà notato che questa raccolta non cita il nome di YHWH. Ma ciò non impedisce che il<br />
v<strong>al</strong>ore di quest’insegnamento sia ben <strong>al</strong>to. Chi assume delle responsabilità è tenuto verso se<br />
stesso a conservarsi degno di svolgere con correttezza la sua missione. Insegnamento sapienzi<strong>al</strong>e<br />
tipico, che il libro <strong>dei</strong> Proverbi <strong>al</strong>trove (vedi Pr 23,15-35) non contraddice. Ma qui è una<br />
madre che parla, una madre di più acuto sentimento <strong>al</strong>truistico.<br />
1.5.1.4. Conclusione<br />
In questi tre esempi, la sapienza straniera si rivela nella sua varietà e nella sua ricchezza. I<br />
sapienti d’Israele non la disprezzarono né la trascurarono. Vivere e pensare in ambiente chiuso<br />
non è veramente molto saggio, non è da sapiente. Al contrario, trovare quello che per noi è un<br />
bene dovunque esso stia significa riconoscere le ricchezze <strong>dei</strong> sapienti delle nazioni. È vero,<br />
la nostra conoscenza sulla maniera di procedere <strong>dei</strong> sapienti è limitata. Della madre di Lemuèl,<br />
si sono limitati a riprendere puramente e semplicemente l’insegnamento? Quel che è<br />
chiaro, è che la preghiera di Agùr venne invece adattata <strong>al</strong> contesto religioso d’Israele, dato<br />
che fa il nome di YHWH. Quanto <strong>al</strong>la sapienza di Amenemope, essa è sì la fonte di Pr 22,17–<br />
23,14, ma i sapienti biblici vi si sono ispirati con grande libertà. La ragione è che in Israele la<br />
sapienza, anche sotto l’influenza <strong>dei</strong> suoi vicini, si sviluppa in linea con i suoi doni specifici.
34 Proverbi<br />
2. IL PROLOGO (PR 1–9), L’EPILOGO (PR 31,10-31) E LA SAPIENZA<br />
È tempo d’affrontare la lunga introduzione del libro <strong>dei</strong> Proverbi. Se lo facciamo soltanto<br />
ora, è perché si tratta della parte più recente del libro. Deve essere opera degli editori dell’epoca<br />
posteriore <strong>al</strong>l’esilio.<br />
2.1. LE CARATTERISTICHE DEL PROLOGO 4<br />
Questo prologo si differenzia d<strong>al</strong>le sette collezioni che costituiscono il corpus del libro per<br />
<strong>al</strong>cune caratteristiche.<br />
Qui abbiamo <strong>dei</strong> discorsi molto più elaborati. Non se ne può comunque trarre la conclusione<br />
che <strong>al</strong> principio la sapienza si esprimesse con maggiore concisione e che i lunghi discorsi<br />
siano diventati possibili solamente più tardi. La sapienza straniera del Vicino Oriente Antico,<br />
per esempio quella di Amenemope, di cui abbiamo già parlato, proverebbe quanto si sbaglierebbe<br />
a pensarla così. Resta il fatto che nel libro <strong>dei</strong> Proverbi i testi lunghi si trovano soltanto<br />
in questo prologo e nella conclusione, cioè nel ritratto della «donna forte» (Pr 31,10-31).<br />
Più che in <strong>al</strong>tre parti del libro, in questa introduzione si scopre un’influenza <strong>dei</strong> profeti e<br />
del Deuteronomio. Per i profeti basta confrontare il primo discorso della Sapienza (Pr 1,20-<br />
33) con le invettive d’Is<strong>ai</strong>a (Is 65,2.12; 66,4) e di Geremia (Ger 6,19; 7,13; 11,11) per cogliere<br />
tutta la potenza di quella requisitoria, ben simile a quelle che aprono i libri d’Is<strong>ai</strong>a (1,10-20) e<br />
di Geremia (2,1-37), per esempio: qui la Sapienza assume la funzione del Signore che accusa<br />
il suo popolo d’infedeltà. E quando il lettore viene sollecitato a legarsi <strong>al</strong> collo e scriversi sul<br />
cuore i precetti (Pr 6,21; cfr. 3,3; 7,3 ), il pensiero evidentemente va a Dt 6,6-9; 30,14. Ma<br />
queste osservazioni non devono far credere che le collezioni proverbi<strong>al</strong>i raccolte nel resto del<br />
libro non abbiano <strong>al</strong>cun legame con l’insegnamento <strong>dei</strong> profeti d’Israele e di Giuda. Le attu<strong>al</strong>i<br />
ricerche proverebbero piuttosto il contrario, e si capisce, dato che anche le collezioni son state<br />
rimaneggiate d<strong>ai</strong> redattori che scrissero il prologo.<br />
I nove capitoli del prologo presentano due tipi di discorsi. Famosi sono soprattutto quelli in<br />
cui si fa parlare la Sapienza. A questo primo tipo di discorsi, che si comincia a incontrare ben<br />
presto nel prologo (Pr 1,20-33), bisogna anche aggiungere tutto il capitolo 8 e l’inizio del capitolo<br />
9, sulla fine dello stesso prologo. Torneremo su questi due famosi passi. L’<strong>al</strong>tro tipo di<br />
discorsi è pronunciato da un padre di famiglia che si rivolge <strong>al</strong> lettore chiamandolo «figlio<br />
mio», un’espressione che torna più d’una decina di volte (Pr 1,8.10.15; 2,1; 3,1.11.21;<br />
4,10.20; 5,1.20; 6,1.20; 7,1); t<strong>al</strong>ora si trova il plur<strong>al</strong>e «figli» (Pr 4,1; 5,7; 7,24). Il padre invita<br />
ad ascoltarlo (Pr 1,8; 4,1.10; 5,1.7; 7,24). Deve trattarsi d’un insegnamento dato in famiglia,<br />
considerando che accanto <strong>al</strong> padre viene citata anche la madre (Pr 1,8; 6,20). Il piano di questo<br />
prologo non è ancora stato chiarito. Partendo d<strong>al</strong> ripetuto invito «figlio mio», si è tentato<br />
di individuare una dozzina di discorsi paterni, ma senza grande successo. La difficoltà deriva<br />
probabilmente d<strong>al</strong> fatto che la redazione di questo prologo non è stata fatta di getto. Pare invece<br />
che si siano succedute più tappe redazion<strong>al</strong>i; <strong>al</strong>la stessa maniera si spiegano <strong>al</strong>cuni testi<br />
intrusi in Pr 6,1-19.<br />
Le raccomandazioni paterne vertono, in negativo, su due avvertimenti e, in positivo, su due<br />
consigli. Gli avvertimenti riguardano le cattive frequentazioni: i compagni poco raccomandabili<br />
(Pr 1,10-19; 2,12-15; 4,14-19), poi la straniera di vita m<strong>al</strong>vagia (Pr 2,16-19; 5,1-14.20;<br />
6,23-35; 7,1-27; 9,13-18); quest’ultima figura prende sempre più spazio a mano a mano che il<br />
prologo avanza. I due consigli, <strong>al</strong> di là <strong>dei</strong> pressanti appelli ad ascoltare l’insegnamento paterno,<br />
vertono sulla ricerca della sapienza (Pr 2,1-9; 3,1-18; 4,19) e sull’amore fedele che<br />
l’uomo deve avere per la sua sposa (Pr 5,15-19). Quest’ultimo breve testo basta come contr<strong>al</strong>tare<br />
agli estesi avvertimenti a riguardo della straniera che è bene evitare? I testi sulla Sapienza<br />
4 Sui capp. 1–9 di Pr si vedano i due studi recenti, che riproducono due tesi di dottorato: S. PINTO, “Ascolta<br />
figlio”. Autorità e antropologia dell’insegnamento in Proverbi 1–9, Roma 2006; M. SIGNORETTO, Metafora e didattica<br />
in Proverbi 1–9, Assisi 2006.
Proverbi 35<br />
fanno da contrappunto a quelli che parlano della straniera, come le due descrizioni par<strong>al</strong>lele di<br />
Pr 9,1-6 e Pr 9,13-18 potrebbero far pensare? Per rispondere a queste domande dobbiamo rileggere<br />
Pr 8 e 9, insieme <strong>al</strong> ritratto fin<strong>al</strong>e della «donna forte» (Pr 31,10-31); ed è quello che<br />
ora faremo.<br />
2.2. IL DISCORSO DELLA SAPIENZA IN PR 8<br />
È un testo importante, ma difficile. Ha avuto degli echi sia nel giud<strong>ai</strong>smo che nel cristianesimo.<br />
Va perciò letto nel suo insieme, senza accontentarsi <strong>dei</strong> versetti più noti e più discussi<br />
(Pr 8,22-31). Bisognerebbe anche leggerlo nel suo contesto, in particolare confrontandolo con<br />
il capitolo 7 che descrive la donna tentatrice; ma noi non lo faremo, dato che il nostro scopo è<br />
quello di fermarci sui testi essenzi<strong>al</strong>i.<br />
2.2.1. La strutturazione e il contenuto del capitolo<br />
I primi tre versetti introducono <strong>al</strong> discorso della Sapienza (Pr 8,1-3), dandole un luogo. Vari<br />
motivi fanno pensare che l’autore non la collochi in più posti, ma in uno solo, cioè <strong>al</strong>la porta<br />
della città, dove convergono le strade esterne e quelle interne. Luogo d’obbligato passaggio<br />
e d’incontri, dove tante persone si ritrovano fianco a fianco per passare d<strong>al</strong>la porta, ma anche<br />
per commerciare, per conversare... È a questa variegata folla che si rivolge la Sapienza.<br />
Essa comincia con l’interpellare tutte queste persone, senza poi neanche farsi di loro una<br />
grande idea. Ma non sta lì proprio per quelli che, se pur non se ne rendono conto e perfino<br />
magari non se ne danno pensiero, hanno d’essa maggior bisogno?<br />
La prima parte del suo discorso (Pr 8,4-10) vanta la qu<strong>al</strong>ità delle proprie parole: son parole<br />
sincere, rette, franche; quel che essa ha da dire è insieme verità e giustizia; aborre il m<strong>al</strong>e, la<br />
f<strong>al</strong>sità, la perversità. Propone, in concreto, un sapere che v<strong>al</strong>e più della ricchezza. L’aggiunta<br />
del versetto 11 rincara su quest’ultima caratteristica. La Sapienza, insomma, giustifica l’ascolto<br />
che chiede con la qu<strong>al</strong>ità di ciò che propone e con il vantaggio che gli ascoltatori ne avranno<br />
per la loro vita. Va in particolare rimarcato che la Sapienza afferma il v<strong>al</strong>ore mor<strong>al</strong>e di quel<br />
che dice: essa ha ripugnanza per il m<strong>al</strong>e.<br />
La seconda parte del discorso (Pr 8,12-21) permette <strong>al</strong>la Sapienza di presentarsi. Fin<strong>al</strong>mente<br />
dice il suo nome (Pr 8,12), per descriversi come perfetta consigliera di re, intelligente, perspicace,<br />
ma anche coraggiosa (Pr 8,12-16). Guardando meglio, potrebbe stupire che la Sapienza,<br />
per giustificare l’ascolto di quelli che passano attraverso le porte della città, sottolinei<br />
la sua attività a corte. Ma ciò significa: ascoltatemi, perché anche il re m’ascolta, trovandoci<br />
tutto da guadagnare (Pr 8,15-16). Ma ciò ha un senso solamente quando il potere venga ass<strong>ai</strong><br />
positivamente apprezzato. E proprio questa è la ragione per cui a me pare che questo discorso<br />
della Sapienza non si sia potuto tenere dopo l’esilio, a meno che non si volesse dar atto <strong>al</strong>la<br />
sapienza di Ciro che mise fine <strong>al</strong>l’esilio babilonese. Per trovare un re amato in Israele bisogna<br />
infatti ris<strong>al</strong>ire ben indietro fino a Giosia, sulla fine del VII secolo, oppure <strong>al</strong> suo avo Ezechia,<br />
un secolo prima, a meno che non si voglia pensare addirittura a S<strong>al</strong>omone, visto che il prologo,<br />
come il libro, è posto sotto il suo nome. Ma comunque stiano le cose riguardo a S<strong>al</strong>omone,<br />
la nostra osservazione vorrebbe fondare l’ipotesi che Pr 8 è un testo più antico che i redattori<br />
del periodo posteriore <strong>al</strong>l’esilio inserirono nel loro prologo. Questa seconda parte del discorso<br />
(Pr 8,17-21) è una logica prosecuzione della prima, dato che elenca i vantaggi e i benefici<br />
che l’attività della Sapienza presso il potere reca a tutti, perché essa cammina sulla via<br />
della giustizia e sui sentieri della dirittura mor<strong>al</strong>e (Pr 8,20): anche i poveri e i piccoli ne traggono<br />
beneficio. Ma ciò suppone che fra essa e i beneficiari della sua azione ci sia una relazione<br />
d’amicizia fedele (Pr 8,17.21). Quanto <strong>al</strong> beneficio che se ne ricava, è di molto superiore<br />
<strong>al</strong>le ricchezze (Pr 8,19). Insomma, la Sapienza sostiene che, se nella società c’è pace e ordine,<br />
è a essa che lo si deve.<br />
Viene poi la terza parte del discorso (Pr 8,22-31), la più famosa. La Sapienza dà un nuovo<br />
argomento per l’ascolto che chiede <strong>al</strong>le persone. Argomento di peso, trattandosi della sua re-
36 Proverbi<br />
lazione con YHWH da tutta l’eternità e quando mise ordine nell’universo. Ma è a questo punto<br />
che le discussioni fra gli esegeti si fanno più vivaci, soprattutto sul senso da attribuire ad <strong>al</strong>cune<br />
parole di primaria importanza. L’interpretazione che io, insieme con <strong>al</strong>tri, qui propongo<br />
si basa sulla coerenza del testo.<br />
A differenza delle due precedenti, questa parte segue l’ordine cronologico, se così possiamo<br />
dire, della Sapienza stessa, della sua origine e del suo sviluppo. Si succedono quattro strofe.<br />
La prima strofa (Pr 8,22-23) mette avanti YHWH, ma in quanto origine della Sapienza: lui<br />
l’ha «generata» prima d’ogni cosa. Manteniamo la traduzione «generata», proprio come in<br />
Gen 14,19 si dice che Dio «generò il cielo e la terra». Evidentemente questi testi non suppongono<br />
nessuna attività sessu<strong>al</strong>e. È vero, la traduzione è discussa. Altri preferiscono «creata», in<br />
linea con l’antica versione greca <strong>dei</strong> Settanta; ma l’idea base del verbo ebr<strong>ai</strong>co qānāh, essendo<br />
quella d’acquisire, si può benissimo intenderlo nel senso di «acquisire per generazione». Ciò<br />
su cui Pr 8,22 insiste è l’assoluta priorità della Sapienza, la sua anteriorità e la relazione che la<br />
fa dipendere, per la sua stessa esistenza, da YHWH. Il versetto seguente, Pr 8,23, ripete questa<br />
medesima idea dell’assoluta anteriorità della Sapienza, anche in rapporto <strong>al</strong>le origini della terra.<br />
Ci si mette dunque prima d’ogni creazione del mondo. Ma questo versetto 23 aggiunge un<br />
nuovo verbo (nāsak, <strong>al</strong>la coniugazione niph<strong>al</strong>) che, insieme ad antiche traduzioni, come la<br />
Volgata, e <strong>al</strong>cuni esegeti moderni, io traduco: «sono stata tessuta». Gb 10,11 e S<strong>al</strong> 139,13 provano<br />
che la gestazione dell’embrione in seno <strong>al</strong>la madre la si concepiva come una confezione<br />
an<strong>al</strong>oga a quella della tessitura. È il secondo stadio dell’esistenza della Sapienza, la sua crescita.<br />
Di nuovo, è soltanto un’immagine: quando Giovanni (Gv 1,18) parla del Figlio che è<br />
«nel seno del Padre» ricorre <strong>al</strong>la medesima simbolica, volendo sottolineare la stretta relazione<br />
che fa dipendere il Figlio d<strong>al</strong> Padre in quanto t<strong>al</strong>e. Lo stesso in Pr 8,22-23: la Sapienza è tot<strong>al</strong>mente<br />
dipendente da YHWH, e lo è da tutta l’eternità, prima d’ogni cosa.<br />
La seconda strofa (Pr 8,24-26) accenna per due volte <strong>al</strong>la successiva tappa vissuta d<strong>al</strong>la<br />
Sapienza: «io venni partorita» (˙ôlāltî), traduzione incontestabile, che significa che fu YHWH<br />
a partorirla. Anche qui si tratta di un’immagine simbolica. La differenza d<strong>ai</strong> verbi precedenti è<br />
che quelli di Pr 8,22 suppongono piuttosto una misteriosa interiorità, mentre il parto indica<br />
l’esteriorità, la visibilità, in qu<strong>al</strong>che modo, rispetto a Dio. Anche gli Antichi vedevano un’opposizione<br />
fra parola interiore, che precede, e parola esteriore, pronunciata e udibile. In Pr<br />
8,24-26 l’esteriorità della Sapienza è ancora anteriore <strong>al</strong> mondo. Quest’ultimo viene descritto<br />
<strong>al</strong>la maniera d’una foto: in basso l’abisso e le sorgenti che ne fanno affiorare le acque, le montagne<br />
e le colline in <strong>al</strong>to, poi la terra dove abiterà l’uomo. Questo mondo ancora non esisteva,<br />
e la Sapienza era già stata partorita da YHWH.<br />
La terza strofa (Pr 8,27-30a) mostra la Sapienza <strong>al</strong> fianco di YHWH quando YHWH passò<br />
<strong>al</strong>l’azione. YHWH mise ordine nell’universo fissando <strong>al</strong> loro posto tutti gli elementi. Da quel<br />
momento tutto è s<strong>al</strong>damente stabilito: i verbi usati insistono su quest’idea. Ciò suppone che<br />
tutte le parti del mondo già esistessero. Per questo, qui non possiamo parlare di creazione del<br />
mondo, ma semplicemente della fissazione delle sue parti, che sembrano già esistere, ma<br />
senz’ordine, in quello che Gen 1,2 chiamerà il «tohu-bohu». Questa descrizione dell’attività di<br />
Dio implica una concezione della struttura dell’universo che non è più la nostra e non pretende<br />
affatto d’essere scientifica. Qui ha un ruolo la poesia. Allora ci si rappresentava la terra<br />
come un disco piatto, sopra il qu<strong>al</strong>e il cielo faceva da volta semisferica, posata sull’abisso<br />
<strong>al</strong>l’orizzonte; la terra stessa poggiava su colonne immerse nelle profondità dell’abisso. In questa<br />
semplicistica rappresentazione, la terra, di cui qui si descrive soltanto la cornice che la<br />
contiene, è <strong>al</strong> centro dell’universo. Ebbene, quando YHWH diede <strong>al</strong> mondo la sua stabile struttura,<br />
la Sapienza era là, <strong>al</strong> suo fianco. È qui, in Pr 8,30a, che troviamo, nel testo ebr<strong>ai</strong>co, quella<br />
parola ’amôn che tanto inchiostro ha già fatto scorrere: dobbiamo intenderla nel senso che<br />
la Sapienza era di fatto come l’architetto di tutta l’organizzazione? È il senso che il testo ebr<strong>ai</strong>co<br />
voc<strong>al</strong>izzato suggerisce e che molte traduzioni moderne accolgono. Ma i versetti prece-
Proverbi 37<br />
denti non hanno attribuito <strong>al</strong>la Sapienza nessuna attività nella messa in ordine del mondo: dicono<br />
che è soltanto YHWH ad agire. Per questo, con un’antica traduzione, <strong>al</strong>tri esegeti intendono<br />
quella parola ebr<strong>ai</strong>ca nel senso di «bambina», voc<strong>al</strong>izzando ’emûn: la Sapienza, ancora<br />
piccolina, assistette <strong>al</strong>l’attività organizzatrice di YHWH.<br />
Ma <strong>al</strong>lora, anche la quarta strofa (Pr 8,30b-31) si capisce meglio: una volta ben organizzato<br />
il mondo, la Sapienza, potremmo dire, è <strong>ai</strong> sette cieli, e si mette a giocare, a danzare davanti<br />
a YHWH sulla terra degli uomini. Fin lì descritta a fianco di YHWH, le ultime parole di questa<br />
strofa la collocano nello stesso tempo accanto agli umani che fanno la sua felicità.<br />
È così che la terza parte del discorso della Sapienza vuole giustificare l’ascolto che chiede:<br />
essa è di YHWH e si trovava <strong>al</strong> suo fianco quando YHWH ordinò stabilmente l’universo. Appare<br />
come l’ispiratrice della sua azione, già fin da prima che YHWH la progetti e l’intraprenda.<br />
Generata, tessuta, partorita e poi ancora bambina giocherellona, la Sapienza viene dunque descritta<br />
nella sua sequenza logica, in base <strong>al</strong>le tappe della sua crescita. Con la sua sola presenza,<br />
con i suoi giochi e la sua felicità, il bambino non è spesso una fonte d’ispirazione per le<br />
migliori azioni <strong>dei</strong> suoi genitori? Questa coerenza di immagini mi pare preferibile. Ma se t<strong>al</strong>i<br />
furono la storia e il ruolo della Sapienza <strong>al</strong>le origini accanto a YHWH, perché dunque coloro<br />
che ascoltano il suo discorso non dovrebbero accettare che quella medesima Sapienza che trova<br />
le sue delizie fra gli umani entri nella loro vita? Essa vi metterebbe ordine e stabilità. Questo,<br />
a me pare, è il senso della terza parte del discorso della Sapienza.<br />
E la Sapienza conclude (Pr 8,32-36) di nuovo rivolgendosi <strong>ai</strong> suoi ascoltatori. Gli argomenti<br />
che ha presentato giustificano adesso il suo rinnovato appello. Ma la Sapienza aggiunge<br />
anche la promessa della beatitudine: chi seguirà le sue vie, e per farlo si metterà fedelmente<br />
<strong>al</strong>la sua scuola, avrà parte <strong>al</strong>la vita e <strong>al</strong> favore di YHWH. Invece, chi rompe con essa fa torto a<br />
se stesso e <strong>al</strong>la fine della via troverà la morte.<br />
2.2.2. Chi dunque è la Sapienza?<br />
Una figura femminile? Evidentemente sì, dato che quel che la riguarda è detto <strong>al</strong> femminile.<br />
Ma potrebbe essere diversamente, d<strong>al</strong> momento che la parola «sapienza» è femminile in<br />
ebr<strong>ai</strong>co, in greco, in latino e nelle lingue moderne? Per<strong>al</strong>tro, la Bibbia riconosce ad <strong>al</strong>cune<br />
donne una profonda sapienza che le autorità ascoltano: per esempio la donna venuta da Tekòa<br />
a perorare davanti a Davide il ritorno di Ass<strong>al</strong>onne (2Sam 14,2-20). E tuttavia, nell’intero discorso<br />
della Sapienza non c’è nessun termine esplicito che la dica donna o figlia, neppure il<br />
termine di Pr 8,30a che ho tradotto con «bambina», ma che <strong>al</strong>la lettera è piuttosto «bebè». In<br />
Pr 8,35, soltanto il proverbio par<strong>al</strong>lelo di Pr 18,22 – «Chi trova una sposa trova la felicità e<br />
ottiene il favore di Dio» – può suggerire di vedere nella Sapienza una donna, ma è possibile<br />
soltanto per una certa qu<strong>al</strong> an<strong>al</strong>ogia testu<strong>al</strong>e.<br />
La Sapienza ha <strong>dei</strong> lineamenti d’un maestro di sapienza. Basta rileggere Pr 4 per convincersene:<br />
appello ad ascoltare, v<strong>al</strong>ore dell’insegnamento, citazione del padre di chi parla – per<br />
giustificare l’ordine impartito –, promesse di felicità e di successo. Ma il maestro è soltanto un<br />
intermediario: è la sapienza stessa che il discepolo viene invitato a procurarsi (Pr 4,5). Ebbene,<br />
in Pr 8 è la Sapienza in se stessa che bisogna ascoltare, amare, frequentare come il maestro<br />
in casa sua (Pr 8,34) e <strong>al</strong>la fine trovare.<br />
Rispetto <strong>ai</strong> profeti, la Sapienza di Pr 8 se ne differenzia. I profeti chiamano <strong>al</strong>l’ascolto, ma<br />
il loro messaggio e la missione che li giustifica hanno la loro origine in YHWH. Parlano in suo<br />
nome. In Pr 8 la Sapienza può giustificarsi per la sua relazione con YHWH, ma parla di propria<br />
iniziativa.<br />
Solamente i discorsi che la Bibbia attribuisce direttamente a YHWH hanno una pari autorità<br />
e una pari autonomia. Se ne trovano molti nel secondo Is<strong>ai</strong>a, per esempio Is 41. Tuttavia, in<br />
Pr 8 la Sapienza non è YHWH: la distinzione vien chiaramente colta a partire da Pr 8,22. In<br />
re<strong>al</strong>tà, è la terza parte del discorso della Sapienza in Pr 8,22-31 a sollevare le princip<strong>al</strong>i difficoltà<br />
per chi vuol precisare chi sia la Sapienza.
38 Proverbi<br />
Di qu<strong>al</strong>unque sorta siano stati gli antecedenti di questa figura in <strong>al</strong>tri popoli del Vicino Oriente<br />
Antico o anche in Israele – su questo punto gli esegeti sono ben lontani d<strong>al</strong>l’essere<br />
d’accordo –, la Sapienza di Pr 8 non è una dea. Essa è uscita da YHWH e l’accompagna quando<br />
organizza l’universo, ma non pretende d’essere una divinità. Niente nel testo di Pr 8 va in<br />
questo senso, e il monoteismo, orm<strong>ai</strong> chiaro in Israele a partire d<strong>al</strong> secondo Is<strong>ai</strong>a, avrebbe<br />
censurato una simile linea d’interpretazione; mentre la figura della Sapienza verrà ripresa con<br />
la medesima forza ancora nella Sapienza di S<strong>al</strong>omone.<br />
Forse nella Sapienza dobbiamo vedere la personificazione d’un attributo di YHWH. Is<strong>ai</strong>a<br />
aveva affermato che YHWH è sapiente (Is 31,2), e d<strong>al</strong> canto suo Pr 3,19 dice che YHWH fondò<br />
la terra mediante la sua sapienza. Allora, in Pr 8 si sarà personificata la sapienza di YHWH, ma<br />
in una maniera molto più esplicita di quando si personifica ad esempio la verità o la giustizia<br />
(S<strong>al</strong> 85,11-12). L’an<strong>al</strong>ogia, già ricordata, fra Sapienza e parola interiore ha forse qui un suo<br />
ruolo. La Sapienza sarebbe il piano di YHWH, il suo progetto stabilito da tutta l’eternità, prima<br />
che il tempo fosse. Quel progetto venne poi re<strong>al</strong>izzato quando il mondo ricevette da YHWH la<br />
sua struttura organizzata. Anche noi procediamo in questa maniera: chi vuole costruire una<br />
casa comincia con farsene il progetto e vederne la disposizione in testa, poi lo mette sulla carta;<br />
e quando la casa viene costruita, la si fa sulla base di quel progetto, sì che <strong>al</strong>la fine si può<br />
dire che il progetto si è concretizzato nella costruzione, che il progetto è stato re<strong>al</strong>izzato, senza<br />
che tuttavia esso sia stato cancellato d<strong>al</strong>la testa di chi l’ha immaginato. Potrebbe essere lo<br />
stesso per la Sapienza. Si spiega <strong>al</strong>lora perché essa è presente <strong>al</strong>l’organizzazione del mondo.<br />
Pr 8,27-29 in effetti fa vedere che c’è ordine e stabilità nell’universo: è opera di YHWH, ma la<br />
Sapienza era <strong>al</strong> suo fianco (8,27a.30a), proprio come il costruttore continuamente consulta il<br />
progetto. Possiamo <strong>al</strong>lora pensare che la Sapienza è il progetto di YHWH, progetto d’ordine<br />
nel mondo orm<strong>ai</strong> concretizzato nella re<strong>al</strong>tà stessa del mondo. La Sapienza è vista <strong>al</strong>lora come<br />
doppiamente distinta da YHWH e d<strong>al</strong> mondo, e nello stesso tempo doppiamente unita a YHWH<br />
– da cui è venuta – e <strong>al</strong> mondo, che non ha stabile struttura se non in forza d’essa, pur senza<br />
identificarsi con essa. L’ordine nel mondo è segno della presenza <strong>al</strong> mondo della Sapienza di<br />
YHWH.<br />
2.2.3. Perché la Sapienza così si giustifica?<br />
An<strong>al</strong>izzando l’argomentazione del discorso della Sapienza di Pr 8 abbiamo visto che essa<br />
dà <strong>al</strong> suo appello <strong>al</strong>l’ascolto una triplice giustificazione, che ogni volta implica l’idea d’ordine:<br />
nella vita person<strong>al</strong>e d’ognuno (Pr 8,4-10) – e questo è lo scopo stesso del discorso –, nella<br />
società (Pr 8,12-21) e nell’universo (Pr 8,22-31). Ma <strong>al</strong>lora, abbiamo tutto il diritto di chiederci:<br />
cos’è dunque che dobbiamo ascoltare? Parrebbe infatti che Pr 8 non sia che l’inizio del<br />
discorso della Sapienza. Perché, una volta convinto d<strong>al</strong>la triplice giustificazione data, chi legge<br />
o ascolta dovrebbe chiederle cosa deve ascoltare.<br />
Nessuna delle ammonizioni caratteristiche del prologo del libro ricompare in Pr 8 e, d’<strong>al</strong>tro<br />
canto, il discorso della Sapienza è quasi <strong>al</strong> termine del prologo, cioè poco prima che si aprano<br />
la prima collezione s<strong>al</strong>omonica (Pr 10,1–22,16) e le <strong>al</strong>tre. Non avrebbe dunque torto chi si<br />
chiedesse se Pr 8 non si proponga di giustificare l’accoglienza delle collezioni di proverbi che<br />
costituiscono il cuore del libro e il patrimonio sapienzi<strong>al</strong>e d’Israele. Ciò che d<strong>al</strong>la Sapienza<br />
stessa il lettore è invitato ad ascoltare sarebbe appunto quel patrimonio.<br />
Ma per ciò stesso, quel patrimonio, pura sapienza umana, riceve una più <strong>al</strong>ta dimensione:<br />
attraverso i sapienti dell’antico Israele, è la Sapienza stessa di YHWH che parla e insegna. Ciò<br />
che l’autore di Pr 8 avrebbe <strong>al</strong>lora scoperto è che, <strong>al</strong>la maniera <strong>dei</strong> profeti investiti dello Spirito<br />
del Signore, a quella stessa maniera i sapienti, senza averlo detto e senza averne, forse,<br />
neppure coscienza, furono i messaggeri della Sapienza divina perché ognuno fondi la sua vita<br />
sulla verità e sulla giustizia (Pr 8,7-8). Non sarebbe un modo per rivendicare <strong>al</strong>la sapienza <strong>dei</strong><br />
proverbi d’Israele ciò che la teologia cristiana chiama ispirazione? Fu la Sapienza di YHWH a<br />
muovere i sapienti autori delle collezioni cui il prologo del libro introduce. Una siffatta inter-
Proverbi 39<br />
pretazione suppone però che Pr 8 venga letto in tutto il suo contesto, che è il prologo e tutto<br />
quello cui esso introduce, cioè le collezioni di proverbi.<br />
Questo discorso di Pr ebbe degli echi nei libri sapienzi<strong>al</strong>i che vennero in seguito, ma anche<br />
nel Nuovo Testamento. Il prologo del vangelo giovanneo (Gv 1,1-3) e l’inno cristologico della<br />
lettera paolina <strong>ai</strong> Colossesi (Col 1,15-17) dissero del Cristo qu<strong>al</strong>cosa che Pr 8 diceva della<br />
Sapienza. A loro volta, anche i Padri della Chiesa rifletterono sul mistero cristologico e trinitario<br />
<strong>al</strong>lacciandosi anche a questo discorso della Sapienza, soprattutto Pr 8,22-31. Atanasio<br />
d’Alessandria scriveva, nel IV secolo, a riguardo del Cristo Gesù: «È il vero Figlio del Padre,<br />
per natura e per generazione, sostanza della sua sostanza, Sapienza unica generata, solo e vero<br />
Verbo di Dio; non è creatura né produzione, ma il vero generato d<strong>al</strong>la sostanza del Padre. Per<br />
questo è Dio vero, essendo consustanzi<strong>al</strong>e <strong>al</strong> Padre vero. (...) Da sempre egli era ed è, e m<strong>ai</strong><br />
“non era”. E siccome il Padre è eterno, eterno è anche il suo Verbo e la sua Sapienza» 5 .<br />
2.3. IL BANCHETTO DELLA SAPIENZA (PR 9,1-6)<br />
Pr 9 conclude il prologo che fa da introduzione <strong>al</strong>le collezioni di proverbi. Bisognerà riflettere<br />
sul senso che può avere la conclusione d’una introduzione. Inoltre, Pr 9 presenta due<br />
quadretti in forte contrasto fra loro: da una parte, quello della Sapienza che invita a un banchetto<br />
e, d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra, quello di «Donna Stoltezza» che invita anch’essa a casa sua (Pr 9,13-18).<br />
Qu<strong>al</strong> senso dare a inviti così diversi? Fra i due ritratti del dittico, <strong>al</strong>cuni versetti (Pr 9,7-12)<br />
sono sempre stati problematici per gli esegeti; ma noi qui non li tratteremo. Quanto <strong>ai</strong> due<br />
quadretti – della Sapienza e di Donna Stoltezza –, essi sono già stati preparati nei precedenti<br />
capitoli rispettivamente d<strong>ai</strong> due discorsi della Sapienza (Pr 1,20-33; 8); e dagli avvertimenti<br />
dati a riguardo della donna di vita m<strong>al</strong>vagia: quegli avvertimenti si sono moltiplicati e sono<br />
stati sviluppati nella seconda metà del prologo. Pr 9 riprende dunque <strong>dei</strong> temi già proposti:<br />
ma la loro ripresa <strong>al</strong>la fine del prologo potrebbe dare a questi temi un significato particolare?<br />
2.3.1. La Sapienza e il suo invito<br />
«La Sapienza ha costruito la sua casa». Già un proverbio delle collezioni affermava che «la<br />
sapienza costruisce la sua casa, ma la stoltezza con le sue mani l’abbatte» (Pr 14,1). L’idea di<br />
proporre un dittico <strong>al</strong>la fine del prologo venne forse suggerita <strong>ai</strong> redattori del periodo che seguì<br />
l’esilio proprio da quest’antico proverbio. C’è tuttavia una evidente differenza fra i due: il<br />
proverbio semplicemente dice che una casa si costruisce re<strong>al</strong>mente quando uno ci mette intelligenza<br />
e perspicacia, mentre basta un pizzico di stoltezza per insediarvi il disordine; invece,<br />
in Pr 9,1 non si tratta più di sapienza umana, ma della Sapienza in persona, come in Pr 1,20-<br />
33 e 8. La Sapienza ha dunque costruito la sua casa. Dev’essere un’immagine, che dovremo<br />
spiegare. A ogni buon conto, nulla vieta di pensare che si sia servita d’un costruttore con oper<strong>ai</strong>.<br />
Non diciamo ancora oggi: «Mi son fatto la casa per la famiglia», senza dover per forza escludere<br />
che uno sia ricorso <strong>al</strong>la collaborazione d’un architetto e d’<strong>al</strong>tri esperti? L’«io», come<br />
minimo, dice che quella casa di famiglia io l’ho voluta e ci ho messo i soldi.<br />
È grande, la casa della Sapienza. Si può dedurlo d<strong>al</strong> fatto che il testo precisa che essa ha<br />
squadrato, o inn<strong>al</strong>zato (ma poco importa), i suoi sette pilastri. Perché <strong>dei</strong> pilastri, e perché sette?<br />
È la cifra della perfezione, ma non spiega ancora tutto. Nell’antico Israele, la casa, come<br />
spesso accade ancora oggi in Medio Oriente, formava un recinto che dava sulla strada attraverso<br />
un’unica porta. Il recinto era composto d’un cortile, attorno <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e si trovavano varie<br />
stanze. Un primo piano permetteva <strong>al</strong>la famiglia di <strong>al</strong>loggiare più confortevolmente, mentre il<br />
pianoterra era occupato d<strong>al</strong> bestiame, minuto e grosso, e d<strong>ai</strong> vari magazzini. Il centro del recinto<br />
fungeva da cortile interno; lì era predisposto un focolare. Il cortile poteva essere coperto,<br />
<strong>al</strong>meno in parte: delle colonne sostenevano <strong>al</strong>lora il tetto. Nell’epoca reg<strong>al</strong>e d’Israele molte<br />
case avevano un cortile coperto, a due colonne, ma nelle case più ricche o importanti si ritro-<br />
5 Contro gli Ariani, I, 9: Migne, Patrologia Graeca 26, 28C-29A.
40 Proverbi<br />
varono fino a sei e anche sette colonne di sostegno del tetto. La casa della Sapienza è dunque<br />
una dimora grande. È nel cortile, accanto <strong>al</strong> fuoco, che si riceve. La Sapienza può dunque accogliere<br />
molta gente.<br />
E in re<strong>al</strong>tà, darà un banchetto. Non un semplice spuntino, ma carne e vino, d<strong>ai</strong> suoi possedimenti,<br />
che sono bestiame e una vigna fuori città. Questo tipo di banchetto è comune ancora<br />
oggi, per le grandi feste, in tutto il bacino del Mediterraneo. La tavola è apparecchiata, e si<br />
può supporre che abbia trovato dell’<strong>ai</strong>uto per preparare tutto, dato che il testo parla di «ancelle»<br />
(Pr 9,3). Ma qu<strong>al</strong>e rapporto c’è fra il costruirsi la casa e l’offrire un banchetto? Non potrebbe<br />
trattarsi della festa per celebrare la fine della costruzione e inaugurare la nuova dimora?<br />
Non è una tradizione viva ancora <strong>ai</strong> nostri giorni? La casa rende visibile e pubblico l’insediamento<br />
della famiglia. Il p<strong>al</strong>azzo manifesta l’instaurazione del potere. Nel IX secolo a.C., il<br />
re assiro Assurnazirp<strong>al</strong> II inaugurò il suo p<strong>al</strong>azzo nella città di C<strong>al</strong>ah, che aveva riconquistato,<br />
con dieci giorni di celebrazioni, e ogni giorno cinquemila persone, di tutte le classi soci<strong>al</strong>i, erano<br />
invitate <strong>al</strong> reg<strong>al</strong>e banchetto! La Sapienza avrebbe fatto lo stesso: essa mandò le sue ancelle<br />
a chiamare gli invitati.<br />
Questi abitano nella città <strong>al</strong>ta. Se l’autore pensa a Gerus<strong>al</strong>emme, ed è verosimile – dato che<br />
i redattori del periodo immediatamente successivo <strong>al</strong>l’esilio sono con ogni probabilità della<br />
capit<strong>al</strong>e –, <strong>al</strong>lora la città <strong>al</strong>ta è il nuovo quartiere costruito sulla collina a ovest del tempio,<br />
quando lì si accolsero i profughi di Samaria che fuggivano davanti agli Assiri intorno <strong>al</strong> 722.<br />
È la città nuova di cui parla 2Re 22,14. Forse era un quartiere di nuovi ricchi, se dobbiamo<br />
credere a Safonia (Sof 1,10 e il suo contesto). Se così fosse, la Sapienza dimorerebbe nella città<br />
vecchia, in basso, l’antica città di Davide.<br />
Ebbene, quelli cui la Sapienza fa trasmettere il suo invito non sono <strong>dei</strong> parenti prossimi né<br />
degli amici, ma chiunque non abbia ancora un’educazione, giovani rozzi, meschinelli. Potranno<br />
anche essere tanti, ma il cortile d<strong>al</strong>le sette colonne riuscirà ad accoglierne decine. Eccoli<br />
dunque invitati <strong>al</strong> banchetto della Sapienza. Questa offre loro cibo e bevanda, e il lettore sa<br />
che ha preparato carne e vino. Credere che in Pr 9,5 essa non offra <strong>al</strong>tro che pane, invece di<br />
carne, non è capire che la parola ebr<strong>ai</strong>ca qui usata significa glob<strong>al</strong>mente cibo. Per questo, se<br />
noi, per indicare la città di cui sono originari Davide e Gesù diciamo Betlemme, la città del<br />
pane, in arabo la si chiama la città della carne! Pane o carne? Etimologicamente, il senso originario<br />
è cibo.<br />
E la Sapienza conclude il suo invito con una spiegazione: rispondere <strong>al</strong> suo appello significa<br />
rinunciare a comportarsi da sciocchi, a non fare più i bambini, ma accettare di vedersi adulti,<br />
insomma trovare la vita, e scendere <strong>al</strong>la sua dimora significa prendere la via dell’intelligenza.<br />
2.3.2. Il senso della parabola<br />
Questa parabola giunge <strong>al</strong> termine del prologo che apre sulle sette collezioni di proverbi<br />
raccolte d<strong>ai</strong> sapienti dopo l’esilio. Con la loro opera, essi hanno dunque costruito una grande<br />
dimora, d<strong>al</strong> fondo antico; ma i sapienti ben sanno che non è soltanto opera loro o <strong>dei</strong> loro predecessori:<br />
è anche opera di quel Signore che tutti quanti li ispirava. E si tratta di collezioni che<br />
offrono un vero festino a chi accetti di farsene dono: costui ci guadagnerà in saper fare e in<br />
saper vivere; ci guadagnerà, in una parola, una buona educazione.<br />
E per dirlo, niente di meglio, <strong>al</strong>la fine dell’introduzione, di questa parabola cui ognuno deve<br />
rispondere per se stesso: «Verr<strong>ai</strong> a nutrirti a questo festino?». Anche Dt 8,3, la cui eco si<br />
sente fin nella tentazione di Gesù nel deserto (Mt 4,4), dice che è la parola di Dio a nutrire veramente<br />
l’uomo, e anche Is 55,1-3a dice a sua volta che la parola profetica è un festino che dà<br />
la vita e a esso gli ascoltatori del profeta vengono per grazia invitati.<br />
Dobbiamo soltanto aggiungere che il ritratto par<strong>al</strong>lelo di Donna Stoltezza – soprattutto perché<br />
fa anch’essa un identico appello (Pr 9,16 e 9,4) – lascia capire che c’è da scegliere. Dt<br />
30,15-20 mette ognuno <strong>al</strong> punto d’incrocio fra due vie: una porta <strong>al</strong>la vita, <strong>al</strong>la felicità, l’<strong>al</strong>tra
Proverbi 41<br />
porta <strong>al</strong>la morte. L’introduzione del libro <strong>dei</strong> Proverbi termina con la medesima esigenza: devi<br />
scegliere; devi scegliere fra la Sapienza che ispirò i sapienti e mostra un cammino di vita e,<br />
d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra parte, Donna Stoltezza, simbolo dell’attrazione di tutte le sregolatezze che portano<br />
<strong>al</strong>la morte.<br />
2.3.3. La lettura cristiana<br />
Nell’ultima Cena, Gesù prese del pane e disse: «Questo è il mio corpo», e poi: «Questa è la<br />
coppa del mio sangue». La somiglianza con Pr 9,1-6 è così forte che spesso la parabola della<br />
Sapienza viene ripresa come cantico eucaristico. E con buona ragione. La seconda parte del<br />
discorso di Gesù a Cafarnao sul pane di vita (Gv 6,51-58) vi preparava, mostrando come esso<br />
porti a una scelta radic<strong>al</strong>e (Gv 6,60-69). Ma sulla scorta di Dt 8,3 e Is 55,1-3a, già la parola di<br />
Gesù, già il suo messaggio è cibo che dà la vita (Gv 6,26-50; vedi anche 4,13-14; 7,37).<br />
2.4. L’EPILOGO: IL RITRATTO DELLA DONNA FORTE (PR 31,10-31)<br />
Il ritratto della sposa e madre esemplare che conclude il libro <strong>dei</strong> Proverbi suscita molte<br />
problematiche. Come dobbiamo intenderlo, quel ritratto, se letto come brano a sé stante? È il<br />
ritratto d’una donna veramente esistita, oppure ide<strong>al</strong>izzata? Letto invece nel contesto del libro<br />
<strong>dei</strong> Proverbi, vi svolge una funzione particolare? Il prologo del libro (Pr 1–9) in effetti ha già<br />
descritto <strong>al</strong>tre figure femminili, perlopiù considerate delle figure ide<strong>al</strong>izzate oppure simboliche;<br />
fra esse, le princip<strong>al</strong>i sono la Sapienza e la donna di vita m<strong>al</strong>vagia; e neppure possiamo<br />
sottacere questa o quella <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la madre (Pr 1,8; 6,20). Il ritratto conclusivo della padrona<br />
di casa ha dunque un ruolo speci<strong>al</strong>e da svolgere, rispetto agli <strong>al</strong>tri ritratti femminili del prologo?<br />
Sono le domande cui tenteremo ora di rispondere.<br />
2.4.1. Alcune grandi donne dell’Antico Testamento<br />
Non è la prima volta che l’Antico Testamento presenta delle grandi donne. Già nella Genesi<br />
emergono le figure di Sara, Rebecca, Lia e Rachele. Al tempo dell’esodo troviamo Maria (o<br />
Miriam), la profetessa, sorella di Aronne. Poi venne Debora, <strong>al</strong> tempo <strong>dei</strong> Giudici; Rut, già<br />
anch’ella definita «donna forte» (Rt 3,11), e Anna, la madre di Samuele (1Sam 1,1–2,10);<br />
quindi Abig<strong>ai</strong>l, l’intelligente sposa del brut<strong>al</strong>e Nab<strong>al</strong> (1Sam 25), e soprattutto Betsabea, la<br />
madre di S<strong>al</strong>omone. Ci furono anche <strong>al</strong>tre regine, ma esse lasciarono un cattivo ricordo di sé,<br />
come Gezabèle, di Tiro, e sua figlia At<strong>al</strong>ìa, sulla metà del IX secolo. Al contrario, la Sunamita<br />
(2Re 4,8-37; 8,16), che ospitò Eliseo e il cui figlio venne riportato in vita d<strong>al</strong>la preghiera del<br />
profeta. Al tempo della riforma sotto Giosia, 2Re 22,14-20 fa ben ris<strong>al</strong>tare il ruolo che vi ebbe<br />
la profetessa Culda, di Gerus<strong>al</strong>emme.<br />
Dopo l’esilio e fino agli ultimi secoli che precedettero l’èra cristiana, ci si compiacque a<br />
tessere l’elogio di donne in brevi romanzi, come quelli dedicati a Sara, che divenne sposa di<br />
Tobia, a Giuditta e a Ester, che s<strong>al</strong>varono il loro popolo, a Susanna, liberata d<strong>al</strong>la lucidità di<br />
Daniele, <strong>al</strong>la madre <strong>dei</strong> sette figli (2Mac 7), senza poi dimenticare la giovane innamorata del<br />
Cantico <strong>dei</strong> cantici.<br />
Se abbiamo ricordato tutte queste figure, è soltanto per dire che Pr 31,10-31 non è l’unico<br />
testo dell’Antico Testamento ad aver saputo riconoscere e descrivere una donna eccezion<strong>al</strong>e.<br />
2.4.2. La donna forte di Pr 31,10-31<br />
2.4.2.1. L’elogio d’una donna<br />
Eppure, questo ritratto ha qu<strong>al</strong>cosa di particolare che lo rende unico nell’Antico Testamento.<br />
È un lungo poema tutto dedicato a una innominata. Anche Giuditta verrà cantata in un poema<br />
(Gdt 13,18-20; 15,9-10), ma più in breve e per un’azione di spicco, mentre la «donna forte»<br />
sembra essersi distinta per anni interi. Questo passo (Pr 31,10-31) è anche un poema <strong>al</strong>fa-
42 Proverbi<br />
betico: ogni versetto comincia con una parola la cui prima lettera corrisponde, un versetto dopo<br />
l’<strong>al</strong>tro, <strong>al</strong>le successive lettere dell’<strong>al</strong>fabeto. Nel testo ebr<strong>ai</strong>co, il primo versetto comincia<br />
con la lettera <strong>al</strong>ef e l’ultimo con la lettera tau. È un procedimento letterario caratteristico della<br />
poesia. Suo scopo è sottolineare una tot<strong>al</strong>ità, «d<strong>al</strong>l’a <strong>al</strong>la zeta», diremmo noi: può essere una<br />
lode (S<strong>al</strong> 111–112), una preghiera (S<strong>al</strong> 9–10), una meditazione (S<strong>al</strong> 37; 119), ma anche un oracolo<br />
profetico (Na 1,2-8, incompleto) oppure il grido d’un immenso dolore (Lam 1–4). In<br />
Pr 31, questo procedimento, che di per sé non è dunque caratteristicamente sapienzi<strong>al</strong>e, vuole<br />
sottolineare l’eccezion<strong>al</strong>e qu<strong>al</strong>ità della donna.<br />
È il ritratto d’una donna re<strong>al</strong>mente esistita, oppure si tratta d’una pura finzione dell’immaginario<br />
poetico? Gli esegeti divergono sulla risposta da dare, e la maggior parte delle nostre<br />
Bibbie moderne traduce tutti i verbi del poema dedicato a questa donna con presenti atempor<strong>al</strong>i<br />
o descrittivi, dunque senza riferimento a una persona concreta. In questo modo, <strong>al</strong>lora, si<br />
sottolinea soprattutto il carattere ide<strong>al</strong>izzato del ritratto, perfino sostenendo che una donna così,<br />
possiamo pur starne certi, non solamente è fuori del comune, ma non è neanche immaginabile<br />
che sia m<strong>ai</strong> re<strong>al</strong>mente esistita.<br />
Eppure, degli esegeti fanno notare – e a ragione, io credo – che tutti i verbi del poema si<br />
spiegano correttamente, a livello grammatic<strong>al</strong>e, se riferiti <strong>al</strong> passato, con <strong>al</strong>cune eccezioni,<br />
d’<strong>al</strong>tronde evidenti (Pr 31,10a.31). Si tratterebbe <strong>al</strong>lora d’un elogio funebre d’una sposa e<br />
madre, da poco scomparsa. In re<strong>al</strong>tà, noi conosciamo l’elogio funebre, di grande poesia, che<br />
Davide intonò in onore di Saul e di Gionata (2Sam 1,19-27). Il Vicino Oriente Antico, né più<br />
né meno della Bibbia, non ci ha lasciato nessun <strong>al</strong>tro elogio funebre d’una donna, ma un t<strong>al</strong><br />
silenzio è ben debole argomento, considerando lo stato delle nostre attu<strong>al</strong>i conoscenze. Resta<br />
il fatto che l’antichità latina, invece, ci ha trasmesso questo o quel testo an<strong>al</strong>ogo <strong>al</strong> nostro: si<br />
tratta di lunghi poemi, ritrovati su pietre tomb<strong>al</strong>i, che tessono l’elogio di questa o quella donna<br />
di cui si compiange il decesso, vantandone le qu<strong>al</strong>ità e virtù. De mortuis nihil nisi bene, dice<br />
la massima latina: «d’una persona deceduta, si parli soltanto bene», anche se ciò non vuol<br />
dire che non avesse difetti. Lo stesso potrebbe v<strong>al</strong>ere per la donna di Pr 31,10-31.<br />
Al Wolters 6 ha dimostrato che il nostro poema corrisponderebbe <strong>al</strong> genere letterario dell’inno,<br />
di cui anche i S<strong>al</strong>mi 111 e 112, ugu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>fabetici, sono <strong>dei</strong> buoni esempi. L’inno viene<br />
introdotto e concluso con brevi parole, mentre il corpus del poema si diffonde ampiamente sui<br />
motivi della lode: successo delle imprese compiute da colui di cui si tesse l’elogio e, in particolare,<br />
il suo senso della giustizia, l’<strong>ai</strong>uto prestato <strong>ai</strong> poveri, il buon ricordo che lascia. La<br />
conclusione non omette d’<strong>al</strong>ludere <strong>al</strong>la partecipazione d’<strong>al</strong>tri <strong>al</strong>l’elogio (S<strong>al</strong> 111,10; 112,9). I<br />
due s<strong>al</strong>mi cominciano con l’<strong>al</strong>leluia, «lodate YHWH!»; ebbene, Pr 31,31b adatta l’invito dicendo:<br />
«la si lodi», che in ebr<strong>ai</strong>co ha quasi lo stesso suono. All’interno del genere letterario<br />
della lode, l’elogio funebre potrebbe costituire una sorta di sottogenere.<br />
In questo caso, i primi tre versetti (Pr 31,10-12) farebbero da introduzione. Quella notevole<br />
donna fu un esempio raro, ma non inaudito: si vada <strong>al</strong> versetto 29. Chi non ha m<strong>ai</strong> incontrato<br />
delle donne straordinarie? Da sole v<strong>al</strong>gono più della ricchezza. Ricordiamo Madre Teresa, la<br />
fondatrice delle Missionarie della carità. I loro beni possono a volte essere frutto della loro fatica<br />
e della loro ingegnosità. La prima qu<strong>al</strong>ità della donna di cui il nostro testo tesse l’elogio<br />
fu l’armonia che l’univa <strong>al</strong> marito. Lui poteva contare su di lei, e lei non lo deluse m<strong>ai</strong>; nel<br />
senso che, responsabile degli affari della casa, quella sposa li ha fatti prosperare «tutti i giorni<br />
della sua vita», cioè fino <strong>al</strong>la morte, la cui causa non è detta.<br />
I quattro versetti che chiudono il poema (Pr 31,28-31) fanno da conclusione. Al marito adesso<br />
si uniscono i figli a cantare l’elogio di quella donna che chiamano beata. L’elogio si accentua:<br />
quella sposa, quella madre superava molte donne di cui si sarebbero potuti vantare i<br />
meriti e l’efficienza. Pia esagerazione, forse, ma comprensibile quando si piange una sposa o<br />
457.<br />
6 «Proverbs XXXI 10-31 as Heroic Hymn. A Form-critic<strong>al</strong> An<strong>al</strong>ysis», in Vetus Testamentum 38 (1988) 445-
Proverbi 43<br />
una madre ammirata quanto amata. V<strong>al</strong>eva più della ricchezza, dice l’inizio del poema; adesso<br />
si aggiunge che il suo v<strong>al</strong>ore non stava nella grazia o nella bellezza – ne aveva passato l’età –,<br />
ma nella sua intelligenza. O perlomeno così lessero i Settanta della traduzione greca (Pr<br />
31,30). Il testo ebr<strong>ai</strong>co, difficile da tradurre con esattezza, pare aggiungere o interpretare che<br />
quella donna viveva nel timore del Signore. È la sola nota religiosa dell’elogio. Dobbiamo<br />
soltanto più far osservare che l’ultimo versetto (Pr 31,31) probabilmente va corretto, modificando<br />
le voc<strong>al</strong>i del verbo inizi<strong>al</strong>e; non già: «datele una parte...», ma piuttosto: «celebratela<br />
per...», che è formula caratteristica d’un elogio; e che l’ultima frase si spinge addirittura a<br />
chiedere che quell’elogio divenga un atto pubblico, uffici<strong>al</strong>e, da affiggere «<strong>al</strong>le porte della città»,<br />
luogo delle assemblee e del Consiglio.<br />
2.4.2.2. Le ragioni dell’elogio<br />
La descrizione di questa notevole persona apre il corpus del poema (Pr 31,13-27). Qui sono<br />
esposte le ragioni dell’elogio.<br />
È evidente che si trattava d’una donna con la testa sul collo. Per descriverla, l’autore del<br />
poema non ha disposto i suoi versi come gli venivano, cercando unicamente di rispettare<br />
l’ordine <strong>al</strong>fabetico della loro prima lettera. Il suo poema è abbastanza ben congegnato. E ciò<br />
che tiene in unità la sua descrizione sono le precisazioni sul lavoro di quella donna. In effetti,<br />
ella dirigeva una piccola azienda familiare di tessitura. Selezionava le materie prime, la lana e<br />
il lino (Pr 31,13); per filarli, usava due strumenti, il fuso e quello che noi chiameremmo il<br />
rocchetto; ma la differenza fra i due termini ebr<strong>ai</strong>ci sta forse nel fatto che uno serviva per il<br />
filo semplice, mentre l’<strong>al</strong>tro assemblava due fili (Pr 31,19). Fabbricava tessuti, cuciva vestiti<br />
foderati (ma il senso è incerto), perché tutta la famiglia resistesse <strong>al</strong> freddo invern<strong>al</strong>e (Pr<br />
31,21), e <strong>al</strong>tri indumenti (Pr 31,22). I vestiti che lei preparava erano di qu<strong>al</strong>ità: fine lino egiziano<br />
d’un bianco perfetto – lo s’indossa direttamente sulla pelle –, mentre <strong>al</strong>tri venivano tinti<br />
con porpora rossa, che oggi sappiamo provenire da un mollusco delle spiagge di Tiro. Vestiti<br />
di lusso e pompa (Pr 31,22). Ma quella donna non si contentava di vestire i suoi; <strong>dei</strong> suoi tessuti<br />
faceva anche commercio; vendeva drappi e anche delle cinture multicolori ass<strong>ai</strong> apprezzate<br />
(Pr 31,24). Dirigeva insomma una fabbrica di tessitura che, d<strong>al</strong>la materia prima <strong>al</strong> prodotto<br />
finito, re<strong>al</strong>izzava tutte le tappe della lavorazione e vendeva direttamente <strong>al</strong> grossista fenicio.<br />
La nostra donna manager non aveva aperto un piccolo commercio di vendita <strong>al</strong> dettaglio.<br />
Il quadro è logico e coerente. È anche in perfetta sintonia con gli usi del tempo e del luogo.<br />
Da questo punto di vista, non è ide<strong>al</strong>istico, ma re<strong>al</strong>istico. Gli elementi che ordinano la descrizione<br />
vanno completati da <strong>al</strong>tri dati del testo. I versetti 19 e 20, a motivo della loro somiglianza<br />
e del loro contrasto, probabilmente dividono in due parti la descrizione. Potremmo,<br />
abbastanza <strong>al</strong>la lettera, tradurli così:<br />
«Slanciava le sue mani sul fuso<br />
e le sue p<strong>al</strong>me tenevano il rocchetto.<br />
Il suo p<strong>al</strong>mo porgeva <strong>al</strong> misero<br />
e le sue mani slanciava verso il povero».<br />
Il versetto 19 la descrive <strong>al</strong> lavoro, mentre il versetto 20 mostra la sua sollecitudine per i<br />
miseri. E in effetti, Pr 31,13-19 descrive le attività di questa dirigente, mentre Pr 31,20-27 ne<br />
sottolinea <strong>al</strong>cune qu<strong>al</strong>ità, in particolare il suo <strong>al</strong>truismo.<br />
Nella prima serie di versetti, Pr 31,13-19, ris<strong>al</strong>ta la sua impetuosa attività: si levava presto<br />
<strong>al</strong> mattino, prima di giorno, e di notte la sua lampada brillava; ma dev’essere un’iperbole, per<br />
dire che si coricava tardi. Ecco una che aveva bisogno di dormir poco! Inoltre, era lei a procurare<br />
a tutta la casa il cibo e anche il vino, perché, con i suoi fruttuosi commerci, aveva potuto<br />
comprare anche una vigna. Infine, i suoi conti li faceva a notte tarda, e poteva costatare il positivo<br />
bilancio della sua impresa, <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e collaborava di persona filando con il fuso.<br />
In compenso, la seconda parte, Pr 31,20-27, la mostra attenta agli <strong>al</strong>tri. I poveri erano i<br />
primi beneficiari della sua efficace bontà. Un tocco autenticamente biblico, che fa capire co-
44 Proverbi<br />
me il successo non avesse fatto imbozzolare quella fortunata donna in se stessa o nei suoi<br />
stretti familiari. Anche questi erano comunque oggetto della sua sollecitudine. Vestiti foderati<br />
per tutti d’inverno. Vestiti di rappresentanza, di cui doveva essere il marito il primo a trar beneficio.<br />
Lui faceva parte del Consiglio della città e in essa aveva un posto importante. Quel<br />
Consiglio, composto di note person<strong>al</strong>ità – gli Anziani –, doveva in concreto assicurare il buon<br />
ordine nelle faccende loc<strong>al</strong>i, discutere i progetti e decidere le controversie fra gli abitanti. Egli<br />
esercitava dunque un’importante funzione pubblica, mentre la sua sposa assicurava il buon<br />
andamento della casa e dell’impresa di famiglia. Segno della nostra epoca, c’è chi ha trovato<br />
scand<strong>al</strong>oso che facesse lavorare così tanto la moglie in casa, mentre lui se ne stava a far girare<br />
i pollici <strong>al</strong>le porte della città! Significa non tener conto delle re<strong>al</strong>i e a volte grandi responsabilità<br />
del marito. A ognuno il suo mestiere! C’è di più, se questo poema è veramente l’elogio<br />
funebre pronunciato d<strong>al</strong> marito (31,28): non sarebbe stato decoroso, se si fosse dilungato sulle<br />
proprie attività. Semplice questione di bon ton! Ma il poema torna <strong>al</strong>le qu<strong>al</strong>ità della defunta.<br />
Forza e dignità la caratterizzavano, e così pure la fiduciosa serenità nel futuro: non la minava<br />
l’ansietà. Ma, soprattutto, questa donna che stava appresso <strong>al</strong>l’intera organizzazione della sua<br />
impresa e che si faceva person<strong>al</strong>mente la pasta per il pane (Pr 31,27), parlava con sapienza a<br />
tutti quelli che abitavano o lavoravano nella sua casa: i suoi avvertimenti e i suoi consigli erano<br />
improntati a bontà (Pr 31,26).<br />
2.4.2.3. Questo ritratto completa il prologo (Pr 1–9)?<br />
La descrizione di questa donna esemplare ha fatto concretamente vedere come ella visse<br />
praticando una sapienza insieme industriosa e sollecita verso gli <strong>al</strong>tri, fin nel modo di parlar<br />
loro. Dobbiamo andar oltre e dare <strong>al</strong> ritratto una dimensione simbolica?<br />
Starebbe semplicemente a simboleggiare la Sapienza? Pr 8,22-31 ha descritto l’origine e<br />
l’infanzia della Sapienza; Pr 9,1-6 l’ha mostrata mentre inaugurava la sua casa. Pr 31,10-31 la<br />
descriverebbe pervenuta <strong>al</strong>la sua maturità di donna? Non si è riuscito a provarlo.<br />
Ma quel che resta vero è che questa sposa e madre ammirevole fu la concretizzazione di<br />
tutto l’ide<strong>al</strong>e della Sapienza. E poté esserlo solamente appropriandosi l’insegnamento <strong>dei</strong> sapienti<br />
e, soprattutto, poiché in qu<strong>al</strong>che modo abitava in lei, come nei sapienti, la Sapienza che<br />
viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to.<br />
Per questo si può capire come m<strong>ai</strong> gli editori del libro <strong>dei</strong> Proverbi abbiano collocato <strong>al</strong>la<br />
fine questo ritratto e anche abbiano precisato, nel testo ebr<strong>ai</strong>co, che la donna era abitata d<strong>al</strong><br />
timore di YHWH (31,30), una cosa che il prologo definiva il principio stesso della sapienza<br />
(1,7; 9,10).<br />
È vero, il prologo ha messo fra loro in fortissimo contrasto la donna di vita m<strong>al</strong>vagia descritta<br />
in Pr 7 e la Sapienza di Pr 8. Il dittico di Pr 9,1-6.13-18 ha ancor più accentuato il contrasto.<br />
Gli ammonimenti paterni che scandiscono il prologo mettevano in guardia d<strong>al</strong>la donna<br />
straniera, descritta qua e là in termini ass<strong>ai</strong> re<strong>al</strong>istici. Non bisognava che a quelle concrete descrizioni<br />
si offrisse, a mo’ di contrappunto, il ritratto <strong>al</strong>trettanto re<strong>al</strong>istico d’una donna esemplare<br />
agli occhi <strong>dei</strong> sapienti? La figura della Sapienza non poteva soddisfare del tutto una simile<br />
esigenza, perché la Sapienza non è una donna di questo mondo, ma la personificazione<br />
della sapienza divina.<br />
C’è sì Pr 5,15-19 a far da contrasto, con la raccomandazione d’evitare la straniera, che facilmente<br />
diventa tentatrice. Ma quei pochi versetti invitano soltanto a restare fedeli <strong>al</strong>la propria<br />
legittima sposa. Di questa, non vien data nessuna precisa descrizione, s<strong>al</strong>vo chiamarla «la<br />
donna della tua giovinezza» (Pr 5,18), «amabile cerbiatta e gazzella deliziosa» (Pr 5,19). E<br />
ciò fa pensare <strong>al</strong> Cantico <strong>dei</strong> cantici e confermerebbe la supposizione che l’invito paterno <strong>al</strong>la<br />
fedeltà verso la sposa legittima sia rivolta a giovani. Del resto, gli scarni accenni <strong>al</strong>la madre<br />
(Pr 1,8; 6,20) e <strong>al</strong> suo insegnamento sono fatti come en passant, senza la minima elaborazione.
Proverbi 45<br />
Mancava dunque, nel prologo, un ritratto in positivo d’una donna concreta che prendesse<br />
in contropiede il ritratto dell’adultera e della prostituta. T<strong>al</strong>e è il senso del ritratto qui dedicato<br />
<strong>al</strong>la «donna forte»: il prologo trova così un’eco.<br />
È per questa ragione che questo fin<strong>al</strong>e ritratto del libro <strong>dei</strong> Proverbi viene perlopiù considerato<br />
opera <strong>dei</strong> redattori del periodo successivo <strong>al</strong>l’esilio. E t<strong>al</strong>e conclusione ne comporta una<br />
seconda: questo ritratto va letto come complemento positivo del prologo: esso fa vedere come<br />
la Sapienza divina può animare una vita di tutti i giorni e fare da antidoto <strong>al</strong>la tentazione. Il<br />
libro finisce insomma con una nota d’ottimismo.<br />
CONCLUSIONE<br />
L’itinerario proposto in queste pagine avrà fatto intuire non soltanto la complessità del libro<br />
<strong>dei</strong> Proverbi, ma anche <strong>al</strong>cune delle sue ricchezze. Oltre a fornire <strong>dei</strong> dati gener<strong>al</strong>i utili per<br />
la comprensione del libro, ci siamo maggiormente dilungati su questo o quel passo più importante.<br />
Forse dobbiamo ancora un’ultima volta sottolineare che questo libro è una somma di<br />
documenti sapienzi<strong>al</strong>i d’origini quanto m<strong>ai</strong> diverse. Qui sono riuniti molti secoli di sapienza;<br />
gli autori furono molti e non tutti appartenevano <strong>al</strong> popolo d’Israele. E ciò fa del libro <strong>dei</strong><br />
Proverbi un compendio di stupenda varietà. È il libro fondament<strong>al</strong>e della sapienza d’Israele.<br />
Gli <strong>al</strong>tri libri sapienzi<strong>al</strong>i dell’Antico Testamento hanno infatti una propria unità interna che<br />
deriva loro d<strong>al</strong>l’unicità dell’autore, <strong>al</strong>meno per quanto concerne la parte essenzi<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> vari libri.<br />
BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />
Commenti<br />
ALONSO SCHÖKEL, L. - VÍLCHEZ LÍNDEZ, J., I Proverbi, Roma 1988.<br />
I numerosissimi meriti di questo commento lo collocano tra i tre migliori. Il libro si apre con una<br />
ampia introduzione <strong>al</strong> mondo della sapienza. Un’<strong>al</strong>tra introduzione specifica per i Proverbi e uno studio<br />
delle sue forme letterarie costituiscono il port<strong>al</strong>e d’accesso <strong>al</strong> commento vero e proprio. Prev<strong>al</strong>gono<br />
negli autori due virtù che ben si attagliano <strong>al</strong>l’oggetto del loro studio: l’ingegno e la perspicacia.<br />
Attraverso numerosi esempi comparativi tra le sentenze <strong>dei</strong> Proverbi e l’epigrammatica spagnola (studiati<br />
sotto il profilo della forma, dello stile e del contenuto) il lettore è condotto <strong>al</strong>la comprensione e<br />
<strong>al</strong>l’approfondimento di questo tipo di letteratura. Il lettore troverà una ricca scelta di par<strong>al</strong>leli tratti d<strong>al</strong>le<br />
paremiologia spagnola.<br />
BARUCQ, A., Le livre des Proverbes (SB), Paris 1964.<br />
Una breve introduzione di trenta pagine e una bibliografia sintetica introducono <strong>al</strong> commento. La<br />
forma espositiva varia in ragione dell’ampiezza e delle caratteristiche form<strong>al</strong>i del testo. Mentre per i<br />
capp. 1–9 e 30–31 l’autore commenta separatamente le varie unità, la forma gnomica <strong>dei</strong> capp. 10–29<br />
lo obbliga a cambiare il metodo espositivo. Così nelle diverse raccolte che compongono i capp. 10–29<br />
egli evita il commento delle singole massime a vantaggio <strong>dei</strong> luoghi comuni o degli elementi teologici<br />
della raccolta in oggetto. Questa scelta rende difficoltosa per il lettore la consultazione del commento a<br />
singoli proverbi.<br />
HUBBARD, D.A., Proverbs, D<strong>al</strong>las 1989.<br />
L’elemento più rilevante di quest’opera è la disposizione del commento. I capitoli che lo costituiscono<br />
coincidono in numero con i capitoli <strong>dei</strong> Proverbi; l’autore li commenta capitolo per capitolo, ma<br />
in modo origin<strong>al</strong>e. Di ciascun capitolo sottolinea i luoghi comuni più significativi, studiati <strong>al</strong>la luce di<br />
(e insieme a) sentenze identiche o an<strong>al</strong>oghe del resto <strong>dei</strong> Proverbi. Per evitare confusioni e consentire<br />
<strong>al</strong> lettore di trovare senza difficoltà il passo in cui un certo testo viene commentato <strong>al</strong>l’inizio del libro,<br />
viene proposta una tavola in cui ciascun versetto è affiancato d<strong>al</strong> capitolo e d<strong>al</strong>la pagina in cui viene<br />
trattato. Quest’opera, pur essendo di scarsa utilità per gli speci<strong>al</strong>isti, costituisce senza dubbio un importante<br />
contributo <strong>al</strong>la divulgazione di <strong>al</strong>to livello.
46 Proverbi<br />
MCKANE, W., Proverbs (OTL), London 1977.<br />
È probabilmente il miglior commento <strong>ai</strong> Proverbi d<strong>al</strong> punto di vista degli studi storico-form<strong>al</strong>i.<br />
L’introduzione è dedicata <strong>al</strong>la problematica di Pr 1–9, <strong>al</strong>la letteratura di sentenze <strong>dei</strong> Proverbi, <strong>al</strong> significato<br />
del termine māšāl e <strong>al</strong> testo greco <strong>dei</strong> LXX. La parte più origin<strong>al</strong>e e v<strong>al</strong>ida del libro, che occupa<br />
160 pagine, è incentrata sull’an<strong>al</strong>isi form<strong>al</strong>e delle istruzioni egiziane e assiro-babilonesi. La seconda<br />
parte del libro affronta il commento <strong>ai</strong> Proverbi propriamente detto.<br />
PLÖGER, O., Sprüche S<strong>al</strong>omos (Proverbia) (BK 17), Neukirchen/Vluyn 1984.<br />
Il prestigio e l’<strong>al</strong>to livello scientifico <strong>dei</strong> commenti del «Biblischer Kommentar» sono noti. L’opera<br />
di Plöger non delude le attese <strong>dei</strong> lettori. L’introduzione (pp. xiii-xxxvii) affronta con chiarezza e profondità<br />
la problematica gener<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> Proverbi; gli aspetti particolari e controversi sono trattati nel<br />
commento. Il contenuto dell’esposizione può risultare t<strong>al</strong>volta farraginoso e tedioso, perché l’autore si<br />
perde in dettagli poco o punto decisivi per la comprensione del testo. Tuttavia si tratta di un’opera eccellente,<br />
di consultazione obbligata per gli speci<strong>al</strong>isti.<br />
TOY, C.H., The Book o f Proverbs (ICC), Edinburgh 1948, rist. 1977.<br />
I commenti di questa collana sono caratterizzati d<strong>al</strong>l’eccellente (t<strong>al</strong>volta insuperabile) esame del testo<br />
e per la sobrietà e il rigore dell’esposizione. Il libro di Toy è superiore agli <strong>al</strong>tri della stessa collana<br />
proprio da questi punti di vista. Al contrario è scarso l’interesse per gli aspetti letterari e stilistici, il che<br />
per<strong>al</strong>tro non compromette la posizione privilegiata che questo libro occupa nelle biblioteche.<br />
Altri studi<br />
BOSTRÖM, L., The God of the Sages, Stockholm 1990.<br />
Il sottotitolo di questo libro restringe la portata del titolo: The Portray<strong>al</strong> o f God in the Book of Proverbs.<br />
Una introduzione dedicata <strong>al</strong>la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e e <strong>al</strong> libro <strong>dei</strong> Proverbi conduce il lettore<br />
sulla soglia delle due parti che formano il libro: i. teologia della creazione e ordine (teologia della creazione,<br />
Dio, retribuzione e ordine); ii. rapporto tra Dio e il mondo (il Signore come Dio supremo e<br />
come Dio person<strong>al</strong>e). Le an<strong>al</strong>isi <strong>dei</strong> testi biblici sono affiancate da costanti riferimenti <strong>al</strong>le letterature<br />
di sentenze <strong>dei</strong> paesi vicini a Israele.<br />
KAYATZ, CH., Studien zu Proverbien 1–9, Neukirchen/Vluyn 1966.<br />
Prima di procedere <strong>al</strong>la minuziosa an<strong>al</strong>isi <strong>dei</strong> capp. 1–9 <strong>dei</strong> Proverbi l’autrice dedica un’ampia introduzione<br />
<strong>ai</strong> risultati del metodo comparativo tra le letterature sapienzi<strong>al</strong>i di Israele e d’Egitto, in particolare<br />
per i luoghi comuni più discussi: problemi form<strong>al</strong>i, problemi di contenuto (rapporto azionerisultato;<br />
sapienza e timore di YHWH; processo d’ipostatizzazione). Le an<strong>al</strong>isi form<strong>al</strong>i del resto del libro<br />
attirano l’attenzione del lettore per la chiarezza espositiva, il rigore an<strong>al</strong>itico e le conclusioni sorprendenti.<br />
LANG, B., Die weisheitliche Lehrrede, Stuttgart 1972.<br />
L’opera è dedicata <strong>al</strong>le «istruzioni» del libro <strong>dei</strong> Proverbi. Dopo un’introduzione sui Proverbi nella<br />
critica biblica da Nicola di Lira a Adolf Erman, l’autore affronta le istruzioni d<strong>al</strong> punto di vista letterario<br />
(carattere, funzione ed epoca) ed esegetico (rapporto azione-risultato; pietà e religione; la «donna<br />
straniera»).<br />
LANG, B., Wisdom and the Book of Proverbs, New York 1986.<br />
Questo libro è la traduzione dell’origin<strong>al</strong>e tedesco Frau Weisheit (Donna Sapienza). Il sottotitolo<br />
indica la portata e i limiti del libro: A Hebrew Goddess Redefined. L’opera si compone di quattro capitoli:<br />
1. la Sapienza come maestro; 2. la Sapienza come dea; 3. la Sapienza personificata di fronte <strong>al</strong>la<br />
personificazione della stoltezza; 4. chi è Sapienza? L’opera nel suo insieme è di grande utilità se si esclude<br />
l’errore così frequentemente ripetuto di mettere in rapporto la Sapienza di Pr 1–9 con un corpus<br />
di elementi mitologici che portano a questa inaccettabile affermazione: «In Pr 1–9 scopriamo bei testi<br />
politeistici su una dea israelita. Questa dea, chiamata ˙okmâ (Sapienza o Intelligenza), fu solo in seguito<br />
considerata una semplice personificazione poetica riferita <strong>al</strong>la sapienza scolastica o <strong>al</strong>la sapienza<br />
di Dio stesso» (p. 129).<br />
STEIERT, F.-J., Die Weisheit Israels, ein Fremdkörper im Alten Testament?, Freiburg i.Br. 1990.<br />
L’autore si propone di riesaminare il libro <strong>dei</strong> Proverbi <strong>al</strong>la luce delle istruzioni egiziane, secondo<br />
quanto recita il sottotitolo dell’opera: Eine Untersuchung zum Buch der Sprüche auf dem Hintergrund
Proverbi 47<br />
des ägyptischen Weisheitslehre (Ricerca sul libro <strong>dei</strong> Proverbi sulla base della dottrina sapienzi<strong>al</strong>e egiziana).<br />
Nella prima parte, dedicata <strong>ai</strong> capp. 10–29, in cui si affronta il «locus teologico» della sapienza<br />
israelitica, l’autore passa in rassegna le proposte <strong>dei</strong> princip<strong>al</strong>i studiosi moderni sull’argomento<br />
per rileggerle secondo la prospettiva della sapienza egiziana. Il secondo capitolo è incentrato su Pr 1–<br />
9. È notevole lo studio <strong>dei</strong> rapporti Sapienza/maestro e Sapienza/YHWH.<br />
WHYBRAY, R.N., Wisdom in Proverbs (SBT 45), London 1965.<br />
Anche quest’opera è già un classico dedicato <strong>al</strong>lo studio di Pr 1–9 in rapporto con il problema della<br />
sapienza (I). Dopo un’an<strong>al</strong>isi del «<strong>Libro</strong> <strong>dei</strong> dieci discorsi» (II), l’autore lo compara con le istruzioni<br />
egiziane (III). La parte più interessante del libro studia l’evoluzione del concetto di sapienza in due fasi<br />
(IV). Un sintetico riepilogo riassume la ricerca dell’autore. Nonostante il tempo trascorso d<strong>al</strong>la pubblicazione<br />
e i recenti interventi critici su <strong>al</strong>cune sue idee, quest’opera è ancora una lettura utile e indispensabile.<br />
Inoltre, in it<strong>al</strong>iano, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />
BERNINI, G., Proverbi (NVB 19), Roma 1978.<br />
LAURENTINI, G., Proverbi, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la<br />
Bibbia 3), Bologna 1978, 377-404.<br />
RAVASI, G., Proverbi, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988, 1247-1257.<br />
BONORA, A., Proverbi-Sapienza: sapere e felicità (LoB 1.14), Brescia 1990<br />
MCCREESH, T.P., Proverbi, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 591-601.<br />
MORLA ASENSIO, V., Il libro <strong>dei</strong> Proverbi, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo<br />
studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 91-116.<br />
BONORA, A., Proverbi, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4),<br />
Torino-Leumann 1997, 47-56.<br />
MAZZINGHI, L., Il libro <strong>dei</strong> Proverbi (Guide spiritu<strong>al</strong>i <strong>al</strong>l’Antico Testamento), Roma 2003.<br />
PINTO, S., “Ascolta figlio”. Autorità e antropologia dell’insegnamento in Proverbi 1–9, Roma 2006.<br />
SIGNORETTO, M., Metafora e didattica in Proverbi 1–9, Assisi 2006.<br />
CIMOSA, M., Proverbi. Nuova versione, introduzione e commento (I libri biblici. Primo Testamento<br />
22), Milano 2007.<br />
Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 1/2003: «Il libro <strong>dei</strong> Proverbi».
1. GIOBBE NELLA STORIA<br />
GIOBBE *<br />
Quando si evoca il libro di Giobbe vengono fatte risuonare differenti armoniche, che variano<br />
in rapporto <strong>al</strong>l’uditorio o <strong>al</strong>l’ambiente. A volte, infatti, è il problema della sofferenza o lo<br />
scand<strong>al</strong>o del m<strong>al</strong>e nel mondo a provocare maggiormente la riflessione. In <strong>al</strong>tri casi, in sintonia<br />
con una lunga tradizione giud<strong>ai</strong>co-cristiana, emerge in modo specifico la questione della sofferenza<br />
dell’innocente; nel personaggio di Giobbe viene identificato il popolo di Israele perseguitato,<br />
o ancora, in ambito cristiano, la figura del Crocifisso del C<strong>al</strong>vario. Ai numerosi lettori<br />
contemporanei, che privilegiano una lettura incentrata sui di<strong>al</strong>oghi colmi di pathos del libro,<br />
Giobbe appare come l’uomo ribelle. Per <strong>al</strong>tri, più attenti <strong>al</strong>la «storia» del prologo e<br />
dell’epilogo, egli è il modello dell’uomo sottomesso <strong>al</strong> destino o <strong>al</strong>la volontà di Dio.<br />
Qu<strong>al</strong>unque sia stata la sua destinazione originaria, questo libro viene annoverato nella<br />
Scrittura fra i «libri sapienzi<strong>al</strong>i». Questo fatto va tenuto in considerazione <strong>ai</strong> fini di una corretta<br />
interpretazione. Infatti, mentre la Torāh e i Profeti dicono e interpretano la Parola che Dio<br />
rivolge <strong>al</strong>l’uomo, gli scritti sapienzi<strong>al</strong>i esprimono i sentimenti e i pensieri dell’uomo responsabile<br />
del mondo che è creato e che riceve un fine da Dio. La Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca colloca il libro di<br />
Giobbe dopo i S<strong>al</strong>mi e i Proverbi, con i qu<strong>al</strong>i forma un gruppo indivisibile, e prima del Cantico.<br />
La Bibbia greca e la Volgata latina lo situano immediatamente dopo i S<strong>al</strong>mi e prima <strong>dei</strong><br />
Proverbi. Nelle nostre traduzioni moderne Giobbe lo si trova <strong>al</strong>l’inizio <strong>dei</strong> libri sapienzi<strong>al</strong>i,<br />
prima del S<strong>al</strong>terio e <strong>dei</strong> Proverbi (Bibbia di Gerus<strong>al</strong>emme), o fra il S<strong>al</strong>terio e i Proverbi<br />
(TOB).<br />
Non si può leggere quest’opera senza porsi <strong>dei</strong> problemi essenzi<strong>al</strong>i: a che serve la vita umana<br />
se la sofferenza è inevitabile? Come si pone Dio di fronte <strong>al</strong> m<strong>al</strong>e dell’uomo? Se Dio è<br />
buono, perché la sofferenza? In nome di qu<strong>al</strong>e giustizia soffre l’innocente? Ha un senso la<br />
preghiera quando l’uomo è colpito d<strong>al</strong>l’afflizione e piomba nell’angoscia della morte?... In<br />
modo ancora più radic<strong>al</strong>e, questo scritto sapienzi<strong>al</strong>e suscita l’interrogativo supremo: «La sofferenza<br />
dell’uomo ha forse un senso: un significato o un orientamento, meglio, una fin<strong>al</strong>ità?».<br />
I grandi teologi non hanno ignorato questo libro: sant’Agostino (354-430), san Girolamo<br />
(342-419), sant’Ambrogio (333-397), per citarne solamente <strong>al</strong>cuni, lo hanno meditato e commentato.<br />
In particolare, si possono ricordare gli Scritti mor<strong>al</strong>i su Giobbe di Gregorio Magno<br />
(540-604); sviluppando il triplice senso della Scrittura (storico, <strong>al</strong>legorico e mor<strong>al</strong>e), egli si<br />
preoccupa di far percepire come la dottrina cristiana sia orientata <strong>al</strong>la pratica. San Tommaso<br />
ha scritto un commentario ricco e approfondito, che si propone di presentare una nozione esatta<br />
della provvidenza divina così come essa appare nella Sapienza di cui ci parlano i libri santi,<br />
e in modo singolare quello di Giobbe.<br />
La letteratura, lungo il corso <strong>dei</strong> secoli, si è ispirata a quest’opera: il XV secolo ci offre il<br />
bel Mistero della Pazienza di Giobbe, mentre Pasc<strong>al</strong>, Racine e Bossuet evidenziano più volentieri<br />
il suo carattere tragico. Gli scrittori moderni si sono lasciati afferrare da questa potente<br />
figura dell’uomo Giobbe, schiacciato arbitrariamente da m<strong>al</strong>i immeritati e che grida <strong>al</strong> mondo<br />
la sua ribellione contro una ingiustizia la cui stessa dismisura indica Dio come il grande responsabile.<br />
Citiamo il filosofo Søren Kierkegaard, lo psicologo C.G. Jung, il pensatore Philippe<br />
Nemo. Questo leggendario contestatore non è forse presente nella filigrana di grandi capolavori<br />
qu<strong>al</strong>i il Faust di Goethe, La peste d’Albert Camus, I fratelli Karamazov di Dostoevskij,<br />
i film di Bergman, qu<strong>al</strong>i Luci d’inverno o Sussurri e grida?<br />
* Cfr. J. LÉVÊQUE, <strong>Libro</strong> di Giobbe, in J. AUNEAU (ed.), I s<strong>al</strong>mi e gli <strong>al</strong>tri scritti (Piccola Enciclopedia Biblica<br />
5), Roma 1991, 89-114; D. SCAIOLA, Giobbe, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri<br />
scritti (Logos 4), Torino-Leumann 1997, 60-67; J. RADERMAKERS, Il libro di Giobbe. Dio, l’uomo e la sapienza,<br />
Bologna 1999, 11-15; W. VOGELS, Giobbe. L’uomo che ha parlato bene di Dio, Cinisello B<strong>al</strong>samo 2001.
Giobbe 49<br />
Da parte loro, i condannati di Auschwitz, così come gli uomini della resistenza del S<strong>al</strong>vador,<br />
vi hanno riconosciuto il volto del loro dolore e della loro ribellione, <strong>al</strong> punto che questa<br />
immagine dell’uomo piagato ma non vinto assilla gli spiriti <strong>dei</strong> sofferenti di sempre e di ogni<br />
luogo: il m<strong>al</strong>e dell’uomo, la sofferenza contro la qu<strong>al</strong>e egli si dibatte disperatamente hanno un<br />
senso o non è invece il segno dell’assurdo nel cuore della nostra umanità?<br />
M<strong>al</strong>grado l’incontestabile posta in gioco di t<strong>al</strong>e opera, la liturgia romana fa poco spazio a<br />
questo scritto sapienzi<strong>al</strong>e, lasciando <strong>al</strong> drammaturgo o <strong>al</strong> romanziere la cura di «rappresentare»<br />
il dramma che esso esprime. Due piccoli passi sono ripresi nel lezionario domenic<strong>al</strong>e: la<br />
5 a e la 12 a domenica nell’anno del ciclo B; si tratta di un lamento, tutto sommato poco incisivo,<br />
sul destino umano paragonato a un duro lavoro (7,1-7), e dell’inizio del discorso di Dio,<br />
che mostra la grandezza del suo progetto creatore (38,1-11). Per contro, l’antica liturgia <strong>dei</strong><br />
defunti citava una decina di passi del libro di Giobbe, culminando con l’annuncio velato della<br />
risurrezione in 19,25-27; quella uscita d<strong>al</strong> Vaticano II non ha seguito le sue orme. Ci si può dispiacere<br />
per questo. La 26 a settimana del Tempo ordinario presenta, ogni due anni, <strong>dei</strong> tratti<br />
significativi del prologo (1,6-22) e dell’epilogo (42,1-6.12-17), poi dell’angoscia (9,1-19) e<br />
della speranza (19,21-27) di Giobbe, e infine del discorso di Dio (38,1-3.12-21 e 40,3-5). Il<br />
martirologio romano poi, iscrive <strong>al</strong> 10 di maggio la festa di san Giobbe, «uomo di una ammirabile<br />
pazienza». Il suo culto lo si vede apparire nel IV secolo, a Bosra, <strong>al</strong>la frontiera fra<br />
l’Arabia e l’Idumea (cfr. Gen 36,33; Is 34,6; 63,1), ma la pellegrina spagnola Egeria situa la<br />
tomba del santo a Carneas, nell’Ausitide: riflesso di due antiche tradizioni divergenti. In occidente,<br />
il culto di san Giobbe si è fissato a Pavia, Bologna e Venezia, così come in Belgio, e<br />
particolarmente a Uccle. Lo si invoca contro la lebbra e l’elefantiasi.<br />
Il personaggio di Giobbe è rappresentato nell’arte <strong>dei</strong> primi secoli, ad esempio nelle catacombe<br />
romane di C<strong>al</strong>listo e Domitilla, nei sarcofagi di Giunio Basso <strong>al</strong> Museo Vaticano e a<br />
Lione. Lo si vede nelle miniature bizantine, poi, d<strong>al</strong> X secolo, nelle sculture romaniche a Ripoll<br />
in Cat<strong>al</strong>ogna, a Tolosa e ad Avignone; raffigura la passione e la risurrezione di Cristo. Si<br />
profila sui timpani di Reims e di Chartres (XIII sec.) e adorna i manoscritti <strong>dei</strong> Mor<strong>al</strong>ia di san<br />
Gregorio (Bibbia di Sauvigny a Moulins), poi, verso il XV secolo, i «libri delle ore», fra cui<br />
quello di Stefano Chev<strong>al</strong>ier, a Reims, o quello di Anna di Bretagna. Notiamo ancora le Bibbie<br />
fiamminghe del XVI secolo, in particolare quella di Willem Vorsterman (1528), che fa di<br />
Giobbe il patrono <strong>dei</strong> menestrelli, rappresentati d<strong>ai</strong> suoi amici che vengono a fargli una mattinata.<br />
Nella maggior parte di queste rappresentazioni, Giobbe appare come un modello di pazienza,<br />
che prefigura le sofferenze del Crocifisso. Nel rinascimento viene posto l’accento soprattutto<br />
sulle prove di Giobbe, torturato da satana, schernito da sua moglie e d<strong>ai</strong> suoi amici,<br />
come nella p<strong>al</strong>a di Van Orley a Bruxelles o in quelle di Dürer a Francoforte e a Colonia, e, d<strong>al</strong><br />
XVII secolo, nelle pitture di Lievens e di Rubens, <strong>al</strong> Museo del Louvre, e in quelle di Rembrandt<br />
e di La Tour (Epin<strong>al</strong>), di Murillo e di Ribera in Spagna, fino agli acquerelli per il libro<br />
di Giobbe di W. Blake (1825) o lo studio recente di Françoise Burtz a Lilla. Notiamo ancora<br />
la straziante statua dello scultore israeliano Nathan Rapoport posta <strong>al</strong>l’ingresso del memori<strong>al</strong>e<br />
di Yad Vashem a Gerus<strong>al</strong>emme.<br />
Anche l’islam fa spazio <strong>al</strong>la figura di Giobbe (’Ayyûb). Il Corano ne parla più volte e la<br />
versione di <strong>al</strong>-Kisâ’î, fra l’<strong>al</strong>tro, apporta numerosi dettagli leggendari che non comp<strong>ai</strong>ono nella<br />
Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca. Così la moglie di Giobbe, il cui ruolo è abbellito, sarebbe lei pure musulmana:<br />
simboleggia, in qu<strong>al</strong>che modo, la moglie fedele che non abbandona suo marito nell’avversità.<br />
La tradizione dell’islam presenta così il personaggio di Giobbe come il modello della<br />
pazienza nella prova, e anche come tipo del vero mistico.
50 Giobbe<br />
2. IL PERSONAGGIO DI GIOBBE<br />
Se si dà retta <strong>al</strong> T<strong>al</strong>mud di Babilonia, «Giobbe non è m<strong>ai</strong> esistito, e non è m<strong>ai</strong> stato creato.<br />
È solo una parabola» 1 . Così la tradizione giud<strong>ai</strong>ca considera prioritaria innanzitutto la questione<br />
della sofferenza, lasciando in secondo piano l’identità del sofferente. I libri sapienzi<strong>al</strong>i<br />
infatti, eliminano gener<strong>al</strong>mente gli aspetti concreti della storia per conservare soltanto il carattere<br />
umano univers<strong>al</strong>e di un problema o di un tema. Ora l’autore del libro di Giobbe situa il<br />
suo personaggio nel tempo – l’epoca patriarc<strong>al</strong>e – e nello spazio – in Edom o in Arabia. Questo<br />
indica la volontà di sottolineare la re<strong>al</strong>tà dell’eroe messo in scena e nello stesso tempo di<br />
mostrare che egli non si riduce a una figura emblematica. Se il lettore può riconoscere la sua<br />
person<strong>al</strong>e sofferenza o quella <strong>dei</strong> suoi parenti nel personaggio del libro, è perché quest’ultimo<br />
ha prima di tutto una consistenza storica: colpito lui stesso d<strong>al</strong>la sventura, riassume nella sua<br />
esistenza le sofferenze re<strong>al</strong>i di uomini e di donne della storia umana, nel senso in cui la storia,<br />
lungi d<strong>al</strong>l’essere imprigionata in individu<strong>al</strong>ità giustapposte, concerne tutti coloro che la vivono,<br />
e la cui testimonianza è consegnata nel libro.<br />
Il personaggio di Giobbe non è sconosciuto nella Bibbia. Come <strong>al</strong>tri, è testimone di una re<strong>al</strong>tà<br />
vit<strong>al</strong>e diventata esemplare. Due testi della Scrittura ne fanno menzione: l’uno, nel libro di<br />
Ezechiele, appartiene <strong>al</strong>l’Antico Testamento; l’<strong>al</strong>tro, nella Lettera di Giacomo, appartiene <strong>al</strong><br />
Nuovo Testamento.<br />
Il testo di Ez 14,12-23 parla del peccato e della responsabilità person<strong>al</strong>e:<br />
«Figlio dell’uomo, se un paese pecca contro di me e si rende infedele, io stendo la mano sopra di lui... anche<br />
se nel paese vivessero Noè, Daniele e Giobbe: come è vero che io vivo, dice il Signore Dio: non s<strong>al</strong>verebbero<br />
né figli né figlie, essi con la loro giustizia s<strong>al</strong>verebbero solo se stessi.<br />
Dice infatti il Signore Dio: Quando manderò contro Gerus<strong>al</strong>emme i miei quattro tremendi castighi: la spada,<br />
la fame, le bestie feroci e la peste, per estirpare da essa uomini e bestie, ecco, vi sarà in mezzo ad essi un residuo<br />
che si metterà in s<strong>al</strong>vo, con i figli e le figlie. Essi verranno da voi perché vediate la loro condotta e le<br />
loro opere e vi consoliate del m<strong>al</strong>e che ho mandato contro Gerus<strong>al</strong>emme, di quanto ho mandato contro di lei.<br />
Essi vi consoleranno quando vedrete la loro condotta e le loro opere e saprete che non invano ho fatto quello<br />
che ho fatto in mezzo a lei. Parola del Signore Dio».<br />
Il profeta fa <strong>al</strong>lusione a un peccato collettivo di infedeltà <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>leanza di Dio. Questi ha il<br />
dovere di infierire contro il paese attraverso i cataclismi ben noti: la violenza commessa contro<br />
l’<strong>al</strong>leanza richiede una violenza di compensazione contro le persone che hanno peccato;<br />
questa è la legge della retribuzione assegnata <strong>al</strong>la giustizia divina. Questa violenza si esercita<br />
con la carestia distruttrice, le bestie feroci, la guerra e la peste, cioè attraverso l’aggressività<br />
degli uomini e della natura: ritroveremo l’una e l’<strong>al</strong>tra nel prologo del libro di Giobbe. Ora il<br />
profeta suppone che abitino questo paese tre uomini esemplari: Noè, la figura del giusto per<br />
eccellenza (cfr. Gen 6,9), che ha attraversato il diluvio delle potenze del m<strong>al</strong>e; Daniele, presente<br />
nei testi fenici del II millennio ritrovati a Ugarit, è un esempio insigne di virtù e di sapienza<br />
nella sofferenza – da identificarsi senza dubbio con l’eroe del libro di Daniele (cfr.<br />
Dan 2,14ss) –, che sfida i fulmini di Nabucodonosor e interpreta i suoi sogni; e Giobbe, di cui<br />
il prologo ci descrive la pazienza e la sottomissione in mezzo <strong>al</strong>le prove. Ebbene, continua il<br />
profeta, questi tre uomini «con la loro giustizia s<strong>al</strong>veranno solo se stessi» (Ez 14,14.20), mentre<br />
i loro figli periranno, senza possibilità di intercessione paterna.<br />
Il profeta, come si vede, mette l’accento sulla responsabilità individu<strong>al</strong>e, dovendo ciascuno<br />
portare il peso e le conseguenze del proprio peccato, nel quadro di una giusta retribuzione, fino<br />
a sembrare escludere la partecipazione <strong>ai</strong> meriti <strong>dei</strong> propri padri. Tuttavia questi tre personaggi,<br />
che la loro giustizia person<strong>al</strong>e protegge, s<strong>al</strong>vando la loro vita, diventano per i loro contemporanei,<br />
grazie <strong>al</strong> profeta, una interpellanza e un invito <strong>al</strong>la conversione. L’applicazione<br />
che Ezechiele fa a Gerus<strong>al</strong>emme è significativa: m<strong>al</strong>grado l’irrompere <strong>dei</strong> quattro terribili flagelli,<br />
c’è un resto: <strong>dei</strong> sopravvissuti che hanno resistito <strong>al</strong> m<strong>al</strong>e e hanno retto grazie <strong>al</strong>la loro<br />
1 Trattato Baba Bathra 15 ab.
Giobbe 51<br />
perseveranza. Questi testimoni sono «consolazione» per i loro fratelli. Non c’è dunque soltanto<br />
una giustizia retributiva che castiga i m<strong>al</strong>vagi, ma esiste anche una azione consolatrice <strong>dei</strong><br />
giusti in rapporto <strong>ai</strong> loro contemporanei, segno della misericordia di Dio <strong>al</strong> di là della stretta<br />
retribuzione. E si intuisce che questa deve non solo invitare gli uomini <strong>al</strong> pentimento, ma aprirli<br />
anche <strong>al</strong>l’esatta comprensione dell’azione di Dio, ugu<strong>al</strong>mente responsabile.<br />
È difficile decidere se questo oracolo di Ezechiele è posteriore o anteriore <strong>al</strong> libro di Giobbe,<br />
e particolarmente <strong>al</strong> racconto del prologo. Ad ogni modo, questi due testi sembrano presentare<br />
una stessa teologia, ispirata da una riflessione sulla distruzione di Gerus<strong>al</strong>emme di cui<br />
fu testimone il profeta (cfr. Ez 24,15-27). Senza dubbio esisteva una «leggenda di Giobbe», un<br />
antico racconto tradizion<strong>al</strong>e utilizzato d<strong>al</strong> prologo del nostro scritto; è a questo che si riferirebbe<br />
l’oracolo di Ezechiele.<br />
Anche il Nuovo Testamento fa una <strong>al</strong>lusione a Giobbe, in Gc 5,11:<br />
«Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di<br />
Giobbe e conoscete la sorte fin<strong>al</strong>e che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di<br />
compassione».<br />
Si tratta qui dell’avvento del Signore che si attende come l’agricoltore che nutre la speranza<br />
che una bella mietitura verrà a ricompensarlo <strong>dei</strong> suoi sforzi. Il Signore viene per giudicare<br />
gli uomini, invitandoci fin d’ora ad assumere un atteggiamento di pazienza in mezzo ad una<br />
sofferenza paragonabile a quella <strong>dei</strong> profeti «che hanno parlato in nome del Signore». E<br />
l’autore cita il modello proverbi<strong>al</strong>e della costanza nella prova: Giobbe, prima di riprendere un<br />
versetto più volte ripetuto nella Bibbia d<strong>al</strong>l’apparizione del Dio di misericordia <strong>al</strong>la fine<br />
dell’episodio del vitello d’oro (cfr. Es 34,6; S<strong>al</strong> 103,8...); «perché il Signore è ricco di misericordia<br />
e di compassione». Giacomo parla qui di Giobbe per riferirsi <strong>al</strong>la misericordia e <strong>al</strong>la<br />
compassione di Dio nel tempo stesso in cui ricorda la sua pazienza e la sua perseveranza nella<br />
prova. Così Ezechiele sottolineava piuttosto la giustizia di Giobbe e il suo ruolo di consolatore<br />
per i suoi contemporanei. Giacomo lo considera soprattutto come un modello di costanza,<br />
nel qu<strong>al</strong>e si scopre qu<strong>al</strong>cosa della misericordia di Dio.<br />
Ma il passo della Lettera di Giacomo non finisce lì. Egli porta avanti la sua idea nella sua<br />
esortazione fin<strong>al</strong>e (Gc 5,13-20):<br />
«Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia s<strong>al</strong>meggi. Chi è m<strong>al</strong>ato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa<br />
e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede s<strong>al</strong>verà il<br />
m<strong>al</strong>ato: il Signore lo ri<strong>al</strong>zerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati<br />
gli uni agli <strong>al</strong>tri e pregate gli uni per gli <strong>al</strong>tri per essere guariti.<br />
Molto v<strong>al</strong>e la preghiera del giusto fatta con insistenza. Elia era un uomo della nostra stessa natura: pregò intensamente<br />
che non piovesse e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi pregò di nuovo e il cielo<br />
diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto.<br />
Fratelli miei, se uno di voi si <strong>al</strong>lontana d<strong>al</strong>la verità e un <strong>al</strong>tro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce<br />
un peccatore d<strong>al</strong>la sua via di errore, s<strong>al</strong>verà la sua anima d<strong>al</strong>la morte e coprirà una moltitudine di peccati».<br />
Così la preghiera della fede – conversazione con Dio – appare come rimedio <strong>al</strong>la sofferenza.<br />
Essa è accoglienza del perdono di Dio; conduce <strong>al</strong>la condivisione scambievole delle proprie<br />
debolezze e <strong>al</strong>la solidarietà nell’atto di guarigione. E dopo il modello di Giobbe, è quello<br />
di Elia, l’intercessore, che viene proposto <strong>al</strong>la nostra meditazione: la supplica fervente del<br />
giusto ha una sicura efficacia. E di nuovo il fin<strong>al</strong>e della lettera ritorna <strong>al</strong>l’intercessione e <strong>al</strong>la<br />
correzione fraterna che manifestano la solidarietà fra giusti e peccatori.<br />
Queste due menzioni scritturistiche di Giobbe ci dicono il modo in cui la tradizione giud<strong>ai</strong>co-cristiana<br />
considera il personaggio; ci aprono un cammino di interpretazione. Giobbe appare<br />
come il segno della presenza di Dio giusto e misericordioso. È modello di resistenza nella<br />
prova, e come t<strong>al</strong>e, la sua testimonianza per noi è insieme consolazione e mediazione. Ma è<br />
forse questa la visione che ci dà una prima lettura di Giobbe? Non appare piuttosto come il<br />
paradigma della contestazione e della ribellione? L’accettazione di questi contrasti fa parte<br />
dell’atto di lettura del libro nella Scrittura e nella Tradizione.
52 Giobbe<br />
3. PARALLELI EXTRA-BIBLICI<br />
La tematica del libro di Giobbe è trattata anche da <strong>al</strong>tri autori del Vicino Oriente Antico in<br />
testi che affrontano espressamente il tema dell’uomo davanti <strong>al</strong> dolore o il tema del «giusto<br />
sofferente».<br />
3.1. MESOPOTAMIA<br />
È la Mesopotamia che ha fornito finora i par<strong>al</strong>leli più convincenti <strong>al</strong> libro di Giobbe sul<br />
tema della sofferenza del giusto. Sembra che il mistero, irritante per la ragione umana, di un<br />
destino che sfugge a tutte le regole della giustizia, abbia fin d<strong>al</strong> principio intrigato gli abitanti<br />
della regione <strong>dei</strong> due fiumi d<strong>al</strong> momento che d<strong>al</strong>l’epoca proto-sumera attraverso l’epoca di<br />
Hammurabi, il periodo cassita, assiro e fino agli ultimi tempi <strong>dei</strong> Sargonidi, non è m<strong>ai</strong> venuto<br />
meno in Mesopotamia l’interesse per i problemi umani e teologici sollevati d<strong>al</strong>l’arbitrarietà<br />
del destino.<br />
3.1.1. Teodicea babilonese<br />
Tra i testi del mondo mesopotamico il più vicino a Giobbe per il genere letterario e la teologia<br />
soggiacente è la Teodicea babilonese 2 , una conversazione filosofica sul problema del<br />
m<strong>al</strong>e tra un uomo angosciato e il suo amico. Alla fine nessun intervento divino cambia la situazione<br />
del protagonista. Molto sviluppato in questo testo è il di<strong>al</strong>ogo e interessante è il cambiamento<br />
che avviene nell’amico: a partire da una posizione positiva e disponibile, poco a poco<br />
si indurisce fino ad attaccare il protagonista accusandolo di empietà. Ma anche per lui gli<br />
dèi finiranno per divenire enigmatici.<br />
Entrambi i personaggi subiscono un’evoluzione: il primo passa d<strong>al</strong> dubbio e d<strong>al</strong>la ribellione<br />
<strong>al</strong>l’accettazione, mentre l’<strong>al</strong>tro parte d<strong>al</strong>la certezza e arriva <strong>al</strong> mistero. I punti di contatto<br />
col libro di Giobbe sono: la forma di<strong>al</strong>ogata, l’ironia, la difesa della teologia tradizion<strong>al</strong>e. In<br />
entrambi i casi viene messa in discussione la giustizia degli dèi, il tono gener<strong>al</strong>e è pessimistico,<br />
ma la soluzione del conflitto si pone in Giobbe su un piano più elevato.<br />
3.1.2. Il «Giobbe sumerico»<br />
Il testo, noto anche come «Lamentazione di un uomo <strong>al</strong> suo dio», può essere suddiviso in<br />
cinque parti. Nella prima si invita a lodare la divinità e questo fornisce lo sfondo sul qu<strong>al</strong>e inserire<br />
la storia di un individuo innocente («non usa la sua forza per fare il m<strong>al</strong>e») che, colpito<br />
d<strong>al</strong>la sofferenza e d<strong>al</strong>la m<strong>al</strong>attia, si rivolge <strong>al</strong> suo dio (seconda parte). La sezione centr<strong>al</strong>e sviluppa<br />
il lamento del protagonista, f<strong>al</strong>samente accusato, perciò caduto in disgrazia presso il re,<br />
tradito da compagni e amici, senza che il suo dio intervenga. La causa di tutto questo potrebbe<br />
essere imputata <strong>al</strong>la colpa person<strong>al</strong>e. La quarta parte descrive il rovesciamento della situazione<br />
perché la divinità «cambiò la sofferenza dell’uomo in gioia» e il testo si chiude con una lode<br />
<strong>al</strong> dio.<br />
La tesi gener<strong>al</strong>e è che, quando si sperimenta la sofferenza, anche ingiustificata, bisogna ricorrere<br />
<strong>al</strong>la divinità; interessante è la relazione stabilita tra peccato e sofferenza: anche se il<br />
protagonista sembra essere un giusto, non è esente d<strong>al</strong>la situazione di colpa, comune <strong>al</strong>la condizione<br />
umana, e neanche da possibili colpe person<strong>al</strong>i. Rispetto a Giobbe, questo testo <strong>ai</strong>uta a<br />
comprendere le posizioni degli amici; però non viene posto il problema della teodicea perché<br />
il peccato spiega tutto.<br />
2 Conosciuta anche come «Poema acrostico» o «Di<strong>al</strong>ogo di un sofferente con il suo amico». Per il testo, variamente<br />
datato, vedi ANET, 601-604; G.R. CASTELLINO, Testi sumeri e accadici, Torino 1977, 493-500.
Giobbe 53<br />
3.1.3. «Voglio lodare il signore della sapienza»<br />
Si tratta di un ampio monologo 3 in cui il protagonista loda il suo dio Marduk per averlo liberato<br />
da tutte le sofferenze che gli erano capitate. Degna di nota è l’ambiv<strong>al</strong>enza di questa<br />
divinità che <strong>al</strong>terna momenti di collera a momenti di compassione. Il testo, pur descrivendo<br />
una situazione di angoscia simile a quella contenuta nel libro di Giobbe, appare fin d<strong>al</strong>l’inizio<br />
orientata verso la soluzione positiva («Voglio lodare») riducendo la tensione drammatica del<br />
poema. Dominante infatti nel testo non è la situazione di crisi nella qu<strong>al</strong>e si trova il protagonista<br />
e neanche l’enigma rappresentato d<strong>ai</strong> diversi atteggiamenti di Marduk, ma la gioia di aver<br />
ricuperato la s<strong>al</strong>ute e la fiducia nel dio.<br />
Ritroviamo qui la tesi fondament<strong>al</strong>e sostenuta d<strong>al</strong> «Giobbe sumerico»: nella sofferenza si<br />
deve ricorrere agli dèi e aspettare da essi la s<strong>al</strong>vezza. Pure in questo testo la teodicea non è un<br />
problema perché l’enigma, se c’è, consiste nel conoscere ciò che fa piacere <strong>al</strong>la divinità e che<br />
permette, di conseguenza, di essere liberati d<strong>al</strong>la punizione.<br />
In conclusione, da questo rapido confronto emerge la superiorità del libro di Giobbe: per la<br />
complessità della struttura, per l’estensione dell’opera, per la tensione drammatica e per la<br />
ricchezza della problematica; insieme è interessante notare che l’autore, in fondo, non ha creato<br />
nulla perché si è servito di temi e motivi già noti nell’ambiente cultur<strong>al</strong>e e religioso del Vicino<br />
Oriente Antico. Soprattutto ha saputo mantenere uniti due atteggiamenti diversi che si<br />
trovano nell’uno o nell’<strong>al</strong>tro testo rispetto <strong>al</strong> problema: il lamento («Giobbe sumerico») e il<br />
confronto intellettu<strong>al</strong>e (Teodicea babilonese). Giobbe inizia con il lamento, ma tiene desta anche,<br />
soprattutto nel di<strong>al</strong>ogo con gli amici, la ricerca intellettu<strong>al</strong>e.<br />
3.2. EGITTO<br />
3.2.1. Di<strong>al</strong>ogo di un disperato con la sua anima 4<br />
L’opera utilizza la forma del di<strong>al</strong>ogo tra un uomo stanco di vivere e la sua anima. Il protagonista,<br />
deluso soprattutto d<strong>al</strong>la corruzione della società, si sente solo e abbattuto, mentre la<br />
sua anima cerca di dissuaderlo d<strong>al</strong> commettere un gesto insano, temendo di non poter godere<br />
di riti funerari degni. Questo di<strong>al</strong>ogo non costituisce in senso stretto un precedente letterario<br />
del libro di Giobbe, anche se <strong>al</strong>cuni aspetti sono interessanti. In primo luogo l’uso del di<strong>al</strong>ogo,<br />
che darà origine in Mesopotamia <strong>al</strong>la figura dell’amico che discute, consola o intercede, un<br />
procedimento che avrà un grande sviluppo in Giobbe.<br />
Rilevante è poi la situazione complessiva di difficoltà e di disillusione in cui versa il protagonista<br />
e che genera in lui l’idea del suicidio come unica via di scampo (una soluzione che<br />
Giobbe, essendo un credente, non prenderà m<strong>ai</strong> in considerazione). A differenza di Giobbe,<br />
però, questo testo non si pone il problema della teodicea, non si sforza cioè di coniugare la<br />
sofferenza con la re<strong>al</strong>tà di un dio creatore e provvidente.<br />
La differenza tra Giobbe e la letteratura egiziana sul giusto sofferente appare particolarmente<br />
sensibile per quel che riguarda il pessimismo. È vero che l’Egitto ha conosciuto periodi<br />
di profonda depressione spiritu<strong>al</strong>e (per es. il Primo Periodo Intermedio), imputabili ad una difficile<br />
situazione politica e soci<strong>al</strong>e. L’Egiziano ha imparato <strong>al</strong>lora ad attendere tutto dagli dèi,<br />
sviluppando, <strong>al</strong>meno embrion<strong>al</strong>mente, una sorta di pietà person<strong>al</strong>e, di religione del povero.<br />
Resta però vero che, nonostante la situazione politica segnata da insicurezza e da sconvolgimenti<br />
soci<strong>al</strong>i abbia t<strong>al</strong>volta messo a dura prova l’ottimismo di fondo di questa cultura, favorendo<br />
l’emergere di un certo scetticismo, per esempio a proposito dell’efficacia delle pratiche<br />
funerarie, il pessimismo non raggiungerà m<strong>ai</strong> in Egitto la densità esistenzi<strong>al</strong>e e la violenza che<br />
rendono Giobbe così vero e la sua angoscia così umana. La teologia egiziana rimane inconsi-<br />
3 Spesso citato anche come Ludlul bel nemeqi; cfr. G.R. CASTELLINO, Testi sumeri e accadici, 478-492.<br />
4 ANET, 405-407; E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Torino 2 1969, 111-118.
54 Giobbe<br />
stente e rende impossibile la maturazione di un’esperienza di fede autentica, come pure il confronto<br />
decisivo tra la libertà umana e la volontà sovrana di un Dio creatore e provvidente univers<strong>al</strong>e.<br />
Le questioni e le soluzioni che toccavano il destino e la sofferenza affioravano nella<br />
riflessione individu<strong>al</strong>e e nella coscienza collettiva solo a livello dell’immaginario, senza apportare<br />
certezze né esigere convinzioni. Insomma, la religione egiziana resta troppo elementare,<br />
troppo amabile e noncurante per suscitare la crisi esistenzi<strong>al</strong>e che si legge in Giobbe.<br />
In conclusione, la leggenda primitiva di Giobbe, la forma del di<strong>al</strong>ogo con gli amici e lo<br />
scenario cultur<strong>al</strong>e di fondo del libro provengono d<strong>al</strong>la regione <strong>dei</strong> due fiumi; l’Egitto non ha<br />
fornito che delle immagini e <strong>dei</strong> generi letterari (la questione retorica e la confessione negativa),<br />
ma è soprattutto la Bibbia, in particolare le tradizioni sapienzi<strong>al</strong>i e s<strong>al</strong>miche (secondariamente<br />
quelle profetiche), che ha messo a disposizione dell’autore un patrimonio di immagini<br />
tradizion<strong>al</strong>i e ha creato l’atmosfera teologica che rende il dramma di Giobbe così origin<strong>al</strong>e.<br />
Si può <strong>al</strong>lora ritenere che il libro di Giobbe sia un crocevia in cui si incontrano la sapienza<br />
del Vicino Oriente Antico e quella di Israele. Là si incontrano e spesso si scontrano le tesi<br />
classiche sulla retribuzione e le domande angoscianti che provengono d<strong>al</strong>l’esperienza person<strong>al</strong>e.<br />
4. GENERE LETTERARIO<br />
Le opinioni sono molto varie: Giobbe è stato considerato rispettivamente un’epopea, una<br />
tragedia (o una commedia), una lamentazione, un’opera appartenente <strong>al</strong> genere sapienzi<strong>al</strong>e, a<br />
quello giudiziario, ecc.<br />
4.1. UN DRAMMA<br />
Tra i primi a considerare Giobbe una tragedia bisogna ricordare nel IV sec. d.C. Teodoro di<br />
Mopsuestia 5 ; l’idea venne poi riproposta <strong>al</strong>l’inizio del ventesimo secolo e sviluppata negli ultimi<br />
decenni soprattutto da L. Alonso Schökel. Secondo questo autore, Giobbe sarebbe un<br />
dramma con pochissima azione e molto pathos. Il libro non è <strong>al</strong>tro che la rappresentazione del<br />
dramma eterno e univers<strong>al</strong>e dell’uomo. Tra un doppio prologo e un doppio epilogo, si svolgono<br />
quattro serie di di<strong>al</strong>oghi: tre volte parla Giobbe e gli rispondono a turno gli amici, la quarta<br />
volta l’interlocutore di Giobbe è Dio. Attraverso i di<strong>al</strong>oghi si passa da un Dio troppo noto e<br />
scontato, quasi «geometrico» nel suo rapporto con il mondo, a un Dio imprevedibile, difficile<br />
e misterioso.<br />
4.2. UN PROCEDIMENTO GIUDIZIARIO<br />
Per <strong>al</strong>tri saremmo piuttosto di fronte ad un dibattimento processu<strong>al</strong>e con accuse, produzione<br />
di testimoni, intervento del giudice supremo. Giobbe compare come imputato nel libro e si<br />
trova <strong>al</strong> centro di un’azione giudiziaria complessa. È innegabile che questo genere abbia avuto<br />
un influsso sul libro, anche se forse non rende ragione di tutto il testo attu<strong>al</strong>e, pur costituendo<br />
una chiave interpretativa significativa.<br />
4.3. UNA DISPUTA SAPIENZIALE<br />
Nell’ambiente del Vicino Oriente Antico esisteva un genere noto come la disputa tra saggi,<br />
che, quasi nella forma di una tavola rotonda, affrontava un argomento mostrandone i pro e i<br />
contro per illustrare la tesi in discussione. Caratteristico della riflessione sapienzi<strong>al</strong>e sarebbe<br />
l’elaborazione di un insegnamento v<strong>al</strong>ido per ogni uomo (Giobbe non è un ebreo, viene da<br />
Uz).<br />
5 In Iobum, PG 66, 697-698.
4.4. UNA LAMENTAZIONE SALMICA<br />
Giobbe 55<br />
È la proposta di C. Westermann il qu<strong>al</strong>e pensa che Giobbe sia una grandiosa lamentazione<br />
drammatizzata. L’autore di Giobbe ha trasformato in dramma una lamentazione, inserendovi<br />
un di<strong>al</strong>ogo giudiziario. Tutto il libro sarebbe costruito come i s<strong>al</strong>mi di lamento nei qu<strong>al</strong>i comp<strong>ai</strong>ono<br />
tre personaggi: l’uomo che supplica, Dio, i nemici. Come nei s<strong>al</strong>mi di supplica individu<strong>al</strong>e,<br />
il libro si chiude su un orizzonte positivo, di luce e di liberazione, di senso ritrovato.<br />
5. LA STRUTTURA DEL LIBRO<br />
L’an<strong>al</strong>isi letteraria <strong>dei</strong> 42 capitoli del libro di Giobbe fa apparire le seguenti unità:<br />
– un prologo in prosa (capp. 1-2);<br />
– un primo monologo di Giobbe (cap. 3);<br />
– tre serie di di<strong>al</strong>oghi di Giobbe con tre visitatori: Elifaz, Bildad, Zofar (capp. 4–27);<br />
– un componimento poetico sulla sapienza introvabile (cap. 28);<br />
– un secondo monologo di Giobbe (capp. 29–31);<br />
– i discorsi di Eliu, un quarto visitatore (capp. 32–37);<br />
– i discorsi di YHWH e le risposte di Giobbe (capp. 38,1–42,6);<br />
– un epilogo in prosa (cap. 42,7-17).<br />
E, in maniera più dettagliata, le suddette unità risultano così strutturate: 6<br />
A. PROLOGO (1,1–3,1)<br />
A1: la situazione di partenza - la fortuna di Giobbe (1,1-3)<br />
A2: Giobbe intercessore per i fıgli (1,4-5)<br />
A3: le obiezioni del śātān<br />
I. prima prova (1,6-22)<br />
a) nella corte celeste<br />
- presentazione (1,6)<br />
- di<strong>al</strong>ogo istruttorio (1,7-11)<br />
- decisione divina (1,12a)<br />
- il śātān si <strong>al</strong>lontana (1,12b)<br />
b) sulla terra<br />
- la serie di sciagure (1,13-19)<br />
- reazione di Giobbe (1,20-21)<br />
c) giudizio conclusivo del narratore (1,22)<br />
II. seconda prova (2,1-10)<br />
a) nella corte celeste<br />
- nuova presentazione (2,1)<br />
- secondo di<strong>al</strong>ogo istruttorio (2,2-5)<br />
- seconda decisione divina (2,6)<br />
- il śātān si <strong>al</strong>lontana di nuovo (2,7a)<br />
b) sulla terra<br />
- nuova sciagura (2,7b-8)<br />
- reazione della moglie e di Giobbe (2,9-10a)<br />
c) giudizio conclusivo del narratore (2,10b)<br />
A4: l’arrivo degli amici e l’inizio del dramma (2,11–3,1)<br />
6<br />
Cfr. G. BORGONOVO, La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel <strong>Libro</strong> di Giobbe. An<strong>al</strong>isi simbolica (An<strong>al</strong>ecta<br />
Biblica 135), Roma 1995, 98-100.
56 Giobbe<br />
B. L’AZIONE DEL DRAMMA<br />
I parte: Giobbe e gli amici (3,2–27,23)<br />
A. Lamentazione introduttiva (3,2-26)<br />
B. Prima serie di di<strong>al</strong>oghi<br />
1. Elifaz (4,1–5,27)<br />
1A. Giobbe (6,1–7,21)<br />
2. Bildad (8,1-22)<br />
2A. Giobbe (9,1–10,22)<br />
3. Zofar (11,1-20)<br />
3A. Giobbe (12,1–14,22)<br />
B’. Seconda serie di di<strong>al</strong>oghi<br />
1. Elifaz (15,1-35)<br />
lA. Giobbe (16,1–17,16)<br />
2. Bildad (18,1-21)<br />
2A. Giobbe (19,1-29)<br />
3. Zofar (20,1-29)<br />
3A. Giobbe (21,1-34)<br />
A’. Conclusioni<br />
1. Elifaz (22,1-30)<br />
2A. Giobbe (23,1–24,25)<br />
- interruzione di Bildad (25,1-6)<br />
- risposta di Giobbe (26,1-14)<br />
2A’. Giobbe (27,1-23)<br />
Interludio (28,1-28)<br />
II parte: Giobbe e YHWH (29,1–42,6)<br />
A. Lamentazione, giuramento e appello a Dio (29,1–31,40)<br />
→ commento di Elihu (32,1–37,24)<br />
B. Primo di<strong>al</strong>ogo<br />
- YHWH (38,1–40,2)<br />
- risposta di Giobbe (40,3-5)<br />
B’. Secondo di<strong>al</strong>ogo<br />
- YHWH (40,6–41,26)<br />
- risposta di Giobbe (42,1-6)<br />
A’. EPILOGO (42,7-17)<br />
A3’: la sentenza conclusiva di Dio (42,7)<br />
A2’: l’intercessione di Giobbe per gli amici (42,8-9)<br />
A1’: la nuova situazione - la fortuna raddoppiata (42,10-17)<br />
6. LE TAPPE DELLA COMPOSIZIONE<br />
Nello studio del libro di Giobbe, come d’<strong>al</strong>tronde nello studio di qu<strong>al</strong>siasi libro biblico, gli<br />
studiosi applicano vari metodi di an<strong>al</strong>isi. I metodi diacronici studiano prev<strong>al</strong>entemente la storia<br />
della formazione <strong>dei</strong> vari libri biblici, sforzandosi di individuare la forma <strong>dei</strong> testi <strong>al</strong>la loro<br />
genesi. I metodi sincronici si concentrano invece sulla forma fin<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> libri biblici e ne individuano<br />
il messaggio studiandone la trama, la struttura e le relazioni tra le diverse parti; facendo<br />
perciò grande attenzione <strong>al</strong>l’opera del redattore fin<strong>al</strong>e.<br />
I divesi approcci applicati <strong>al</strong> libro di Giobbe hanno dato un grande contributo <strong>al</strong>la sua<br />
comprensione. Presenteremo perciò prima il contributo dell’approccio diacronico per individuare<br />
le tappe della composizione del libro, per poi concentrarci su una proposta di lettura da<br />
una prospettiva sincronica.<br />
Un approccio diacronico <strong>al</strong> libro di Giobbe fa emergere che esso è il frutto di una lunga<br />
storia letteraria in cui è possibile distinguere quattro tappe:
6.1. IL RACCONTO POPOLARE PRIMITIVO<br />
Giobbe 57<br />
Rins<strong>al</strong>dando il prologo e l’epilogo attu<strong>al</strong>i, entrambi in prosa, viene ricomposto abbastanza<br />
facilmente il racconto che è servito da base a tutta l’opera. A giudicare d<strong>ai</strong> nomi di persona e<br />
di luogo sembra che il racconto sia nato o in Edom o, più probabilmente, in Transgiordania,<br />
nella regione del Hauran. Il nome stesso dell’eroe (in ebr.: ’iyyob) si incontra fin d<strong>al</strong> II millennio<br />
in tutto il Vicino Oriente Antico sotto forme diverse 7 , e molti aspetti di questo racconto<br />
rinviano a un contesto arc<strong>ai</strong>co: Giobbe viene presentato come semisedentario; i Sabei e i C<strong>al</strong><strong>dei</strong><br />
vivono ancora come nomadi predatori nel deserto siro-arabo; l’idea di una corte celeste e<br />
il simbolismo <strong>dei</strong> numeri hanno <strong>dei</strong> par<strong>al</strong>leli ugaritici nel XIV secolo. È tuttavia impossibile<br />
ris<strong>al</strong>ire <strong>al</strong> di là del 1200 a.C., data probabile dell’addomesticamento del dromedario (cfr. Gb<br />
2,3).<br />
Introdotto molto presto in Israele ricevendone i tratti della fede jahvista, il racconto popolare<br />
di Giobbe figura certamente, nell’AT, tra i testi in prosa della prima ispirazione. Giobbe<br />
viene presentato come un contemporaneo <strong>dei</strong> patriarchi: è lui, padre di famiglia, che presenta<br />
le offerte a Dio (1,5; 42,8), e offre, per il peccato, un olocausto, <strong>al</strong>la maniera degli antichi<br />
(Gen 8,20; 22,2.7.13; 31,54). Inoltre l’arte narrativa ricorda per vari aspetti quella messa in<br />
opera negli strati più antichi del Pentateuco. Molto probabilmente il vecchio racconto di<br />
Giobbe fu messo per iscritto e ricevette il suo tocco israelitico nella stessa epoca. Ben presto<br />
si conquistò un suo posto nella memoria collettiva d’Israele poiché, verso il 600, come abbiamo<br />
visto, Ezechiele poteva fare <strong>al</strong>lusione a Giobbe come a un eroe ben conosciuto (Ez<br />
14,12-23). Verso il VI secolo saranno introdotte nel racconto <strong>al</strong>cune espressioni tipiche della<br />
sapienza popolare; per esempio le due espressioni che descrivono in 1,1 la pietà di Giobbe:<br />
«integro e retto» (tām w e yāšār) 8 , «che temeva Elohim ed era <strong>al</strong>ieno d<strong>al</strong> m<strong>al</strong>e» 9 . Infine <strong>al</strong>cuni<br />
dati del racconto in prosa ci rimandano <strong>al</strong>l’inizio del periodo postesilico: così la fraseologia<br />
sacerdot<strong>al</strong>e fa sentire la sua influenza in 42,16-17, e soprattutto il Satana viene presentato nel<br />
prologo come nel Proto-Zaccaria (520-518); cfr. Zc 3,1-5; 1,21; 4,10; 6,7.<br />
6.2. L’OPERA POETICA DEL V SECOLO<br />
Nella prima metà del V secolo, un poeta israelitico geni<strong>al</strong>e riprende il vecchio racconto popolare<br />
per infondervi una nuova teologia abbastanza sovversiva perché contestava uno degli<br />
assiomi della sapienza preesilica: la retribuzione tempor<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> buoni e <strong>dei</strong> m<strong>al</strong>vagi. Egli conservò<br />
il racconto, solo con qu<strong>al</strong>che ritocco, come prologo ed epilogo della sua opera, e vi inserì<br />
in mezzo i di<strong>al</strong>oghi di Giobbe con tre visitatori (capp. 4–27), inquadrati da due monologhi<br />
del giusto (capp. 3 e 29–31), e poi il di<strong>al</strong>ogo di Dio e di Giobbe <strong>al</strong> momento della teofania<br />
(38,1–42,6). Rispettando <strong>al</strong> massimo il racconto tradizion<strong>al</strong>e che riprendeva, egli si limitò a<br />
introdurre <strong>al</strong>la fine del prologo (2,11-13) i tre visitatori.<br />
6.3. I DISCORSI DI ELIU<br />
È poco dubbio che la redazione <strong>dei</strong> discorsi di questo quarto visitatore sia posteriore <strong>al</strong>la<br />
redazione <strong>dei</strong> di<strong>al</strong>oghi di Giobbe e <strong>dei</strong> tre amici; non tanto per il carattere aram<strong>ai</strong>cizzante della<br />
lingua, notevolmente più forte in questi capp. 32–37, ma perché <strong>al</strong>cuni temi sviluppati da Eliu<br />
riflettono le stesse preoccupazioni teologiche e lo stesso stato d’animo del libro di M<strong>al</strong>achia<br />
(2,17; 3,14-16). Per t<strong>al</strong>e ragione è possibile datare questi discorsi di Eliu <strong>al</strong> 450 circa a.C. Furono<br />
probabilmente aggiunti o da un redattore o d<strong>al</strong> poeta princip<strong>al</strong>e.<br />
7 Ayyabum, A-ya-ab, A-ya-bi, Hy’abn, ecc.<br />
8 Cfr. Pr 2,21; 28,10; 29,10; S<strong>al</strong> 25,21; 37,37.<br />
9 Cfr. Pr 3,7; 14,16; 16,6.
58 Giobbe<br />
6.4. IL POEMA SULLA SAPIENZA INTROVABILE (GB 28)<br />
Introdotto da un redattore anonimo nel IV o nel III secolo, questo componimento poetico<br />
conclude il dibattito, in fondo sterile, tra Giobbe e i suoi interlocutori, e fa da transizione verso<br />
l’<strong>al</strong>tro versante dell’opera in cui Giobbe, dopo aver protestato la sua innocenza e lanciato a<br />
Dio la sua ultima sfida (29,31), vedrà a sua volta contestato il suo potere e la sua sapienza<br />
(38,1–42,6).<br />
La storia letteraria del libro di Giobbe può essere perciò riassunta nello schema seguente:<br />
X-IX sec. Prologo Epilogo<br />
capp. 1–2 cap. 42,7-17<br />
Prima metà Monologo Di<strong>al</strong>oghi Monologo Teofania<br />
del V sec. cap. 3 capp. 4–27 capp. 29–31 capp. 38,1–42,6<br />
Metà Discorsi di Eliu<br />
del V sec. capp. 32–37<br />
IV-III sec. Inno <strong>al</strong>la Sapienza<br />
cap. 28<br />
7. PERCORSO DI LETTURA DEL LIBRO DI GIOBBE<br />
7.1. LA POSTA IN GIOCO<br />
7.1.1. I molteplici sensi<br />
Tutti i lettori di Giobbe, qu<strong>al</strong>e che sia il loro approccio, cercano il «senso» del libro. Di cosa<br />
si tratta? Una cosa è certa: il libro affronta problema della sofferenza. Si sono fatti studi addirittura<br />
per determinare qu<strong>al</strong>e fosse la m<strong>al</strong>attia di Giobbe quando fu colpito da «un’ulcera<br />
m<strong>al</strong>igna» (2,7). Tuttavia dire che il libro affronta questo problema è chiaramente insufficiente:<br />
bisogna sottolineare che si tratta della sofferenza dell’innocente. Le domande e le discussioni<br />
si moltiplicano. Il problema sollevato da questa sofferenza innocente è an<strong>al</strong>izzato d<strong>al</strong> punto di<br />
vista dell’uomo o da quello di Dio? Un certo numero di autori opta per la prima possibilità.<br />
Secondo loro, il libro è pratico, esistenzi<strong>al</strong>e. Esso affronta il punto di vista umano, cioè<br />
l’aspetto mor<strong>al</strong>e: cosa l’essere umano deve fare nella sofferenza? come deve comportarsi?<br />
Oppure la prova della fede: come conservare la fede? Il libro insomma studierebbe il comportamento<br />
mor<strong>al</strong>e o religioso dell’innocente che soffre.<br />
Altri autori, invece, ritengono che il libro sia più intellettu<strong>al</strong>e, esistenzi<strong>al</strong>e, e che l’aspetto<br />
divino predomini. Il problema della sofferenza dell’innocente solleva, infatti, la questione della<br />
giustizia di Dio, del conflitto tra la giustizia dell’uomo e quella di Dio, e rovescia la dottrina<br />
della retribuzione. Insomma si tratterebbe di una teodicea. Queste sono le teorie più comuni<br />
sul senso di Giobbe. Anche <strong>al</strong>tri temi sono stati proposti, come la preghiera, i rapporti umani,<br />
l’amicizia, o la pecora nera della comunità.
Giobbe 59<br />
7.1.2. Il filo conduttore del libro<br />
Questa discussione semantica proviene da una certa concezione del testo. Si ritiene che<br />
l’autore abbia dato un senso ben preciso che il lettore deve sforzarsi di ritrovare. Diverse teorie<br />
sull’essenza di un testo suggeriscono che uno scritto non ha solo «un senso», ma è aperto a<br />
«vari sensi». La lista <strong>dei</strong> molteplici sensi che è stata proposta per il libro di Giobbe è quasi infinita<br />
e, in re<strong>al</strong>tà, il libro si presta, a quanto pare, a una t<strong>al</strong>e polisemia. Il testo è inesauribile e<br />
rimane aperto a prospettive sempre nuove. Ogni lettore è unico e legge attraverso la propria<br />
esperienza person<strong>al</strong>e.<br />
È nostra intenzione vedere come il testo funziona. Qu<strong>al</strong> è la posta in gioco? Cosa succede<br />
in questo testo? Come si concatenano i passaggi? Qu<strong>al</strong>i sono i legami che li uniscono? Appena<br />
si tocca uno degli elementi di un testo, si tocca inevitabilmente il suo insieme. Come rendere<br />
conto dell’unità del testo attu<strong>al</strong>e del libro di Giobbe? Noi condurremo la nostra an<strong>al</strong>isi<br />
utilizzando <strong>al</strong>cuni grandi principi dell’an<strong>al</strong>isi semiotica. In un testo, un personaggio è descritto<br />
con verbi che evocano il suo stato (la persona è, oppure essa ha), o con verbi di azione (la<br />
persona agisce). Un racconto consiste in una trasformazione che fa passare un personaggio da<br />
uno stato a un <strong>al</strong>tro. Questo principio è molto chiaro nel libro di Giobbe. L’inizio del testo descrive<br />
ciò che Giobbe è, e presenta in questo modo lo state inizi<strong>al</strong>e di Giobbe (1,1-5) mentre<br />
la fine descrive lo stato fin<strong>al</strong>e dell’eroe (42,10-17). Tutto quello che si trova tra i due costituisce<br />
la trasformazione, che spiega come il cambiamento si sia prodotto.<br />
È importante scoprire in un testo ciò che mette in moto la trasformazione. Qu<strong>al</strong> è<br />
l’occasione che ha dato origine <strong>al</strong> racconto? Il libro inizia con la sfida tra il satana e YHWH. Il<br />
satana è convinto che Giobbe, se fosse nella miseria, m<strong>al</strong>edirebbe YHWH in faccia (1,11). La<br />
prova che Giobbe deve subire è dell’ordine del linguaggio. Cosa dira? Per sapere come Giobbe<br />
ha superato la prova bisogna attendere la fine, quando YHWH dà il suo verdetto e approva<br />
le parole di Giobbe (42,7).<br />
La sfida inaugura l’azione del testo (nella terminologia della semiotica, la sfida è la manipolazione),<br />
il parlare costituisce l’agire del testo (la performance), e il verdetto di Dio indica<br />
chi ha vinto la sfida (la sanzione). L’unità del libro e il suo filo conduttore è la domanda: Come<br />
parlare di Dio nel momento della sofferenza?<br />
7.2. LO SVOLGIMENTO DEL DRAMMA<br />
7.2.1. La condizione inizi<strong>al</strong>e: la felicità di Giobbe<br />
I primi versetti del libro (1,1-5) descrivono ciò che Giobbe è, ciò che possiede, quello che<br />
ha l’abitudine di fare: «Giobbe soleva fare così, immancabilmente». Ma non succede nulla. Il<br />
testo semplicemente descrive la condizione inizi<strong>al</strong>e di Giobbe. Tuttavia questi versetti sono<br />
molto preziosi per orientare il lettore del libro.<br />
L’apertura: «C’era nella regione di Uz [paese straniero] ...» corrisponde <strong>al</strong> classico inizio<br />
<strong>dei</strong> racconti o delle favole (2Sam 12,1). Questi testi iniziano tutti con: «C’era una volta...,<br />
molto tempo fa..., molto lontano da qui...». Siccome la storia è molto antica e si è sviluppata<br />
lontano da qui, non ci sono testimoni possibili. Così l’autore può dire ciò che vuole, e nessuno<br />
è in grado di contraddirlo. L’eroe o l’eroina di questi racconti è sempre straordinariamente<br />
ricco, bello o buono. Giobbe è questo genere di eroe, è diverso d<strong>ai</strong> comuni mort<strong>al</strong>i. Nelle favole,<br />
c’è sempre «un cattivo», che mette «il buono» <strong>al</strong>la prova. Il lettore del libro non dovrà<br />
attendere a lungo per incontrare il cattivo e per essere informato di questa prova. La buona<br />
sorte vince sempre e così la favola finisce bene: «e vissero a lungo felici e contenti». Il lettore<br />
potrà costatarlo <strong>al</strong>la fine del libro. Il libro di Giobbe, in conseguenza, non è un libro storico, e<br />
dunque non parla di un personaggio storico. Ma le favole trovano t<strong>al</strong>volta la loro origine in un<br />
evento storico. Potrebbe essere, re<strong>al</strong>mente, che sia vissuto da qu<strong>al</strong>che parte, a un dato momento,<br />
un certo Giobbe, ma il fatto di sapere se Giobbe sia esistito o no ha perso tutto il suo v<strong>al</strong>ore.<br />
Giobbe, nel testo attu<strong>al</strong>e, non è una figura storica, è l’immagine di ogni persona umana.
60 Giobbe<br />
Ciò aumenta il v<strong>al</strong>ore del libro. Infatti, se il libro raccontasse la storia di un personaggio storico,<br />
si potrebbe forse nutrire compassione per questo uomo, ma se il libro è una favola o un<br />
racconto, esso testimonia della vita umana in gener<strong>al</strong>e. Quello che è successo a Giobbe è in<br />
re<strong>al</strong>tà ciò che succede nella vita di molta gente. Il libro parla di un’esperienza umana univers<strong>al</strong>e<br />
e dunque di quella di ogni lettore.<br />
Questi testi hanno l’aspetto anodino e molte persone vi si lasciano prendere, come il re Davide<br />
che non coglieva la portata delle parole del profeta Natan dopo il suo peccato (2Sam<br />
12,1-15). È questa la «f<strong>al</strong>sa ingenuità» di testi del genere. Il lettore attento dovrà approfondire.<br />
Certe favole contengono fantasia e re<strong>al</strong>tà, sono raccontate per intrattenere (non sempre per<br />
far ridere, t<strong>al</strong>volta anche per far piangere) e per insegnare.<br />
Ogni essere umano cerca la felicità, una vita nella pienezza. Giobbe ha esattamente tutto<br />
ciò, e anche in abbondanza. Tutti hanno bisogno di amore, il che significa amare e sapersi amati.<br />
Giobbe conosce ciò nella sua vita: ha una famiglia ide<strong>al</strong>e, con un numero perfetto di figli,<br />
e nella qu<strong>al</strong>e regnano un’armonia e un’intesa ide<strong>al</strong>i. Allo stesso modo, tutti hanno bisogno<br />
di beni materi<strong>al</strong>i, certo lo stretto necessario, ma anche un po’ di lusso in sovrappiù. Giobbe<br />
non può certamente lamentarsi, ha proprio molte ricchezze. Anche la s<strong>al</strong>ute fa parte della felicità<br />
umana. Per il momento, non si dice nulla su questo aspetto della vita di Giobbe, ma potremo<br />
dedurlo d<strong>al</strong> fatto che la m<strong>al</strong>attia lo colpisce solo più tardi, come vedremo in seguito. E<br />
infine, una buona reputazione contribuisce <strong>al</strong>la felicità umana. In questo ambito, Giobbe non<br />
può aspettarsi di meglio: è fortemente rispettato. È vero che ci sono persone che possono essere<br />
felici anche se uno o più di questi elementi mancano loro, ma la felicità perfetta, una vita<br />
piena, li esige tutti e quattro, secondo la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e. Giobbe è l’immagine di un<br />
uomo molto felice.<br />
La saggezza sa che ogni effetto presuppone una causa. Questa felicità umana perfetta non<br />
cade dagli <strong>al</strong>beri, ma è legata <strong>al</strong>l’agire umano. Per questo Giobbe è descritto come l’uomo più<br />
perfetto possibile e immaginabile. Alcuni esegeti, per mostrare con forza il legame tra la pietà<br />
di Giobbe (v. 1) e la sua felicità, traducono: «è così che sette figli...», oppure: «così gli erano<br />
nati...» (vv. 2-3). Giobbe è un uomo esemplare, e conseguentemente Dio lo ha benedetto con<br />
una vita piena. Il testo ci presenta anche l’immagine dell’ordine perfetto fondato sulla teoria<br />
della retribuzione la qu<strong>al</strong>e vuole che il giusto sia benedetto, e il peccatore m<strong>al</strong>edetto.<br />
Giobbe, l’uomo perfetto, si tiene lontano d<strong>al</strong> m<strong>al</strong>e nella sua vita, e dunque non ha nulla da<br />
temere. Tuttavia, nella descrizione di questo mondo di sogni, c’è un’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong> peccato.<br />
Giobbe si inquieta <strong>dei</strong> possibili peccati <strong>dei</strong> suoi figli; non è nemmeno sicuro che ne abbiano<br />
commessi, ma chi sa, «forse». È meglio prendere tutte le precauzioni possibili. Giobbe,<br />
l’uomo perfetto, è anche scrupoloso, si occupa della purificazione <strong>dei</strong> figli e offre olocausti<br />
per loro. Se per caso i figli hanno provocato il caos, Giobbe rimette ordine in questo caos. Il<br />
principio della responsabilità collettiva spiega che un uomo, anche se giusto, potrebbe soffrire<br />
a causa degli errori <strong>dei</strong> figli. Giobbe previene questa possibilità. Conseguentemente, nulla nel<br />
testo lascia sospettare e giustificare che qu<strong>al</strong>cosa possa guastarsi nella vita di Giobbe.<br />
Abbiamo accennato che la parola conferisce unità <strong>al</strong> libro di Giobbe. È importante osservare<br />
che, già nell’apertura, c’è una citazione delle parole pronunciate da Giobbe in una forma<br />
poetica. Fin d<strong>al</strong>l’inizio del libro troviamo l’<strong>al</strong>ternanza della prosa e della poesia. Giobbe parla<br />
a se stesso. Il suo monologo è formulato in un versetto che comporta due parti (bicolon) in par<strong>al</strong>lelismo<br />
sinonimico. Il peccato per Giobbe consiste nel m<strong>al</strong>edire (benedire) Dio, non solo<br />
con le labbra, ma nel cuore. Questo deve essere evitato a ogni costo. Il resto del libro mostrerà<br />
il ruolo importante che questa m<strong>al</strong>edizione vi giocherà.<br />
7.2.2. La sfida: «scommetto che ti m<strong>al</strong>edirà in faccia»<br />
I primi versetti del libro descrivono la condizione inizi<strong>al</strong>e di Giobbe (1,1-5). Un racconto<br />
consiste nella trasformazione da uno stato inizi<strong>al</strong>e a uno stato fin<strong>al</strong>e. Perché questa modifica<br />
avvenga, bisogna che manchi qu<strong>al</strong>cosa. Se tutto è già <strong>al</strong> proprio posto fin d<strong>al</strong>l’inizio, non c’è
Giobbe 61<br />
racconto possibile. Qu<strong>al</strong> è la cosa mancante che mette in movimento l’azione e spiega perché<br />
c’è un racconto di Giobbe? Secondo il satana, YHWH non conosce veramente a fondo Giobbe.<br />
YHWH ha un’idea molto <strong>al</strong>ta di Giobbe, ma è veramente fondata? Giobbe conduce una vita<br />
t<strong>al</strong>mente facile! Ed è questa la ragione per cui il satana lancia la sfida: «scommetto che ti m<strong>al</strong>edirà<br />
in faccia» (1,11; 2,5). Il modo in cui Giobbe parlerà nella sua sofferenza rivelerà a<br />
YHWH ciò che Giobbe è in re<strong>al</strong>tà. In questo modo Dio acquisirà quella conoscenza che per ora<br />
gli manca, secondo il satana.<br />
Il grande interrogativo che anima il libro è: «Come Giobbe parlerà di Dio nel momento<br />
della sofferenza?». «Parlare» rimane, in effetti, centr<strong>al</strong>e attraverso tutto il libro, d<strong>al</strong>l’inizio <strong>al</strong>la<br />
fine (e non solo nella parte centr<strong>al</strong>e).<br />
Quando si parla, ci si rivolge sempre a qu<strong>al</strong>cuno. Parlare esige due attori: uno emette la parola<br />
e uno la riceve. In certi casi la stessa persona ricopre i due ruoli: se qu<strong>al</strong>cuno parla a se<br />
stesso, <strong>al</strong>lora ci troviamo di fronte a un monologo. Tuttavia parlare implica gener<strong>al</strong>mente due<br />
attori distinti. Qu<strong>al</strong>cuno si rivolge a un’<strong>al</strong>tra persona: e questo è un di<strong>al</strong>ogo. Se la persona a<br />
cui parliamo è Dio, il di<strong>al</strong>ogo si chiama preghiera. Il libro di Giobbe contiene tutto questo.<br />
Troviamo <strong>dei</strong> monologhi di Giobbe, ma ci sono soprattutto numerosi di<strong>al</strong>oghi con interlocutori<br />
diversi. In questo modo, l’orizzonte del libro si <strong>al</strong>larga e non rimane limitato <strong>al</strong>la domanda:<br />
«Come parlare di Dio quando si soffre?», ma si estende <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra: «Come parlare di Dio <strong>al</strong>la<br />
persona che soffre?». Giobbe cerca anche di parlare a Dio nella preghiera, con la speranza di<br />
ottenere una risposta da parte di Dio. Solo dopo che tutti i partner della conversazione avranno<br />
finito di parlare potremo sapere chi ha vinto la sfida. Giobbe ha, sì o no, m<strong>al</strong>edetto Dio in<br />
faccia? E questa sarà la risposta <strong>al</strong>l’interrogativo che ha dato inizio <strong>al</strong> libro e il libro <strong>al</strong>lora potrà<br />
concludersi.<br />
La posta in gioco del libro di Giobbe è: «Come parlare di Dio nella sofferenza?». Si tratta<br />
della questione del linguaggio religioso. È importante ciò che gli attori del libro dicono, ma<br />
ancor più come lo dicono, i diversi tipi di linguaggio religioso che essi utilizzano. Per questo<br />
presteremo un’attenzione particolare a questi diversi linguaggi religiosi che si susseguono nel<br />
libro.<br />
Questa sfida tra il satana e YHWH solleva il problema del rapporto tra due mondi, tra il cielo<br />
e la terra. La prima parte del libro, in effetti, ha come scenario due mondi. Ci sono due luoghi<br />
ben distinti: il cielo (il termine non compare nel testo, ma si fa <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la sfera nella<br />
qu<strong>al</strong>e YHWH s’intrattiene con la sua corte celeste) e la terra. Il testo introduce il lettore per due<br />
volte nel cielo, ma il resto del libro si sviluppa interamente sulla terra. I due mondi hanno il<br />
loro ritmo del tempo. In cielo gli eventi si svolgono «un giorno...» (1,6; 2,1), e anche sulla terra<br />
«un giorno...» (1,13). Ogni mondo ha i suoi attori. In cielo, YHWH è la figura centr<strong>al</strong>e; ha<br />
attorno a sé «i figli di Dio», e uno di essi, il satana, ha un ruolo particolare, è, tra l’<strong>al</strong>tro, una<br />
specie di messaggero. Sulla terra, l’uomo Giobbe è la figura centr<strong>al</strong>e: ha «figli» e «figlie», e<br />
<strong>dei</strong> messaggeri si recano da lui. Tuttavia ci sono certe differenze tra questi due mondi. Non si<br />
parla di una moglie di YHWH, né di beni suoi. YHWH è, mentre Giobbe è e ha. L’essere umano<br />
tuttavia può perdere tutto il suo avere, e la morte mette fine <strong>al</strong> suo essere.<br />
Il mondo divino è in contatto con la terra. Uno <strong>dei</strong> figli di Dio, il satana, percorre la terra<br />
(1,7; 2,2). Dio sa cosa succede sulla terra, conosce l’essere umano (1,8; 2,3). Dio può benedire<br />
l’opera che l’essere umano ha costruito con la propria mano (1,10), ma Dio può anche distruggerla<br />
con la sua mano (1,11; 2,5), consegnandola in mano <strong>al</strong> satana (1,12; 2,6). Si è anche<br />
parlato della mano destra con la qu<strong>al</strong>e Dio benedice e della sinistra con la qu<strong>al</strong>e colpisce.<br />
Questa mano distruttrice di Dio diventa visibile, qui sulla terra, nei disastri natur<strong>al</strong>i (cfr.<br />
1,16.19), nella violenza umana (1,15.17), e nella m<strong>al</strong>attia. Il mistero della m<strong>al</strong>attia viene addirittura<br />
attribuito in modo più diretto <strong>al</strong> mondo divino: «Egli [il satana] colpì Giobbe di<br />
un’ulcera m<strong>al</strong>igna» (2,7).<br />
Il contatto del mondo umano con il mondo divino è completamente diverso. L’essere umano<br />
ne conosce certamente l’esistenza, ma non sa nulla di quello che vi succede. Giobbe è
62 Giobbe<br />
completamente <strong>al</strong>l’oscuro della sfida <strong>al</strong> centro della qu<strong>al</strong>e si trova (solo il lettore lo sa). Altrimenti<br />
conoscerebbe <strong>al</strong>meno la causa delle proprie miserie. L’essere umano sa anche che tutto<br />
ciò che succede qui sulla terra non è unicamente opera delle sue mani, ma che tutto è anche<br />
nelle mani di Dio. Dio dona e riprende. Le cose che Giobbe considera come ordine e caos sono<br />
ambedue opera di Dio.<br />
Il rapporto tra questi due mondi rimane così un grande mistero. Da una parte e d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra,<br />
gli attori parlano tra loro, e parlano anche degli attori dell’<strong>al</strong>tro mondo, ma non si rivolgono a<br />
loro. Ma un di<strong>al</strong>ogo del genere è possibile? Può Giobbe parlare a Dio e può Dio parlare a<br />
Giobbe? Stupisce <strong>al</strong>quanto sentire il satana scommettere che Giobbe m<strong>al</strong>edirà Dio «in faccia»<br />
(1,11; 2,5), mentre solo i figli di Dio in cielo si presentano davanti <strong>al</strong>la «faccia/presenza» di<br />
Dio (1,12; 2,7). Giobbe, anche se volesse m<strong>al</strong>edire YHWH in faccia, potrebbe veramente vedere<br />
questa faccia di Dio?<br />
7.2.3. I linguaggi degli attori del dramma<br />
7.2.3.1. Il linguaggio della fede popolare<br />
Le prime reazioni di Giobbe <strong>al</strong>le prove che gli sono sopraggiunte sembrano molto pie, soprattutto<br />
se paragonate con le parole successive. Di solito si interpretano le prime parole di<br />
Giobbe come l’espressione della sua fede profonda. D<strong>al</strong> senso che si dà a queste parole dipende<br />
la comprensione dell’insieme del libro. Possiamo così capire l’importanza di questo<br />
approccio. Le esamineremo scrupolosamente tenendo conto della f<strong>al</strong>sa ingenuità del testo,<br />
senza dimenticare le somiglianze e le diversità nelle ripetizioni. Studieremo le due reazioni<br />
separatamente e le metteremo a confronto tra loro per vedere se c’è stata evoluzione in Giobbe.<br />
Le due reazioni hanno tre elementi in comune: l’azione di Giobbe, le parole di Giobbe e la<br />
v<strong>al</strong>utazione del narratore.<br />
1) LA PRIMA REAZIONE DI GIOBBE (1,20-22)<br />
a) Le azioni di Giobbe (1,20)<br />
Allora Giobbe, <strong>al</strong>zatosi, si strappò il manto, si rase il capo e, caduto a terra, prostrato...<br />
Strappare le vesti (Gen 37,29; Ger 41,5), radersi il capo (Is 15,2; Mic 1,16), e prostrarsi<br />
(Gen 23,7; 2Sam 1,2) sono tutti riti convenzion<strong>al</strong>i, soci<strong>al</strong>mente bene accettati, che esprimono<br />
il dolore o il lutto e la riverenza nella Bibbia. Possono tuttavia esprimere la fede o la disperazione<br />
e l’incredulità.<br />
b) Le parole di Giobbe (1,21)<br />
«Nudo sono uscito d<strong>al</strong> ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno!<br />
Il Signore ha dato e il Signore ha tolto;<br />
sia benedetto il nome del Signore».<br />
La prima frase (v. 21a) è un’affermazione dichiarativa, una riflessione di saggezza profana<br />
sulla vita, che ha tutta l’aria di un proverbio popolare, d<strong>al</strong> momento che lo troviamo anche <strong>al</strong>trove<br />
nella Bibbia (Qo 5,14, cfr. Gen 3,19; Qo 12,7; Sir 40,1). Anche la seconda frase (v. 21b)<br />
è un’affermazione dichiarativa, ma, questa volta, una riflessione di saggezza religiosa sulla vita.<br />
Anche questo modo di dire che tutto ciò che succede è una decisione di Dio (1Sam 3,18)<br />
sembra ugu<strong>al</strong>mente proverbi<strong>al</strong>e e si ritrova in <strong>al</strong>tri proverbi religiosi (Pr 10,22; 16,1.9; Sir<br />
11,14). Possiamo accostarlo a una formula araba utilizzata quando un membro della famiglia<br />
muore: «Il Signore l’ha dato, il Signore l’ha tolto», o con il proverbio mesopotamico: «Il re ha<br />
dato, il re ha ripreso; viva il re».
Giobbe 63<br />
L’ultima frase (v. 21c) è un’esclamazione, una benedizione. Essa assomiglia a una formula<br />
liturgica che troviamo anche <strong>al</strong>trove nella Bibbia in termini molto simili (Nm 6,24-26) o addirittura<br />
identici (S<strong>al</strong> 113,2). C’è tuttavia una differenza notevole tra ciò che Giobbe dice e il testo<br />
del s<strong>al</strong>mo. Il s<strong>al</strong>mo aggiunge, dopo la benedizione: «ora e sempre». E questo Giobbe non<br />
lo dice; infatti, non benedirà Dio a lungo. Le prime parole di Giobbe sono dunque due proverbi,<br />
e una benedizione che potremmo chiamare una preghiera giaculatoria.<br />
Tanto le azioni quanto le parole di Giobbe dopo la sua prima prova sono riti e formule tradizion<strong>al</strong>i<br />
e convenzion<strong>al</strong>i. Molti lettori, che potremmo dire «lettori superfici<strong>al</strong>i», interpretano<br />
questa reazione di Giobbe come espressione di una fede profonda. Ma io penso che il testo sia<br />
un testo aperto che obbliga il lettore a fare delle scelte. La f<strong>al</strong>sa ingenuità del testo sta precisamente<br />
nel fatto che esso permette e, credo, favorisce un’<strong>al</strong>tra interpretazione. La reazione di<br />
Giobbe <strong>al</strong>la perdita di tutto quello che ha è un’azione: non sa che dire. E poi, quando parla, le<br />
uniche cose che sa dire sono pie formule stereotipe. Utilizza parole prese a prestito, ma non le<br />
sue parole. È spesso la prima reazione delle persone di fronte <strong>al</strong>la sofferenza. Sono prese <strong>al</strong>la<br />
sprovvista e fanno ricorso a slogan pii, ma vuoti, più per paura che per convinzione. Hanno<br />
paura di dire ciò che succede nel loro profondo, ciò che considerano come indegno di un buon<br />
credente. Ciò che Giobbe dice non è l’espressione di una fede profonda, ma piuttosto di una<br />
fede popolare superfici<strong>al</strong>e, che non resisterà a lungo.<br />
Il contesto conferma quest’interpretazione. La successione rapida e ininterrotta <strong>dei</strong> messaggi<br />
di sventura: «Mentre costui stava ancora parlando...» (1,16.17.18), non lascia nemmeno<br />
il tempo a Giobbe di riflettere e di assimilare quanto gli sta succedendo. Reagisce in modo<br />
convenzion<strong>al</strong>e. Il seguito lo confermerà. Dopo l’arrivo degli amici, tutti stanno in silenzio, ma<br />
quando Giobbe fin<strong>al</strong>mente parla con le sue parole nel monologo, demolisce punto per punto<br />
ciò che ha appena detto con queste formule imparate a memoria.<br />
Quando comincia il di<strong>al</strong>ogo dopo il monologo di Giobbe, i tre amici utilizzano un linguaggio<br />
stereotipo, mentre Giobbe parla un linguaggio person<strong>al</strong>e esistenzi<strong>al</strong>e. Gli autori che interpretano<br />
la prima risposta convenzion<strong>al</strong>e di Giobbe come espressione di una fede profonda<br />
condannano il linguaggio degli amici come disonesto e f<strong>al</strong>so, poiché gli amici rifiutano di rimettere<br />
in discussione i dogmi. Pochi interpreti sono portati a considerare i tre amici come esempi<br />
di fede profonda e, in questo, hanno ragione poiché YHWH stesso condannerà il loro<br />
linguaggio convenzion<strong>al</strong>e (42,7.8). Non dovremo <strong>al</strong>lora concludere che YHWH non fu troppo<br />
impressionato d<strong>al</strong>la prima reazione convenzion<strong>al</strong>e di Giobbe?<br />
b) La v<strong>al</strong>utazione del narratore (1,22)<br />
In tutto ciò Giobbe non commise peccato né proferì [lett. «diede»] insolenza contro Dio.<br />
Giobbe non ha m<strong>al</strong>edetto YHWH come il satana aveva previsto (1,11) e, conseguentemente,<br />
ha superato la prova. Ma dobbiamo osservare che il narratore esprime la sua v<strong>al</strong>utazione con<br />
due formule negative. Questo può forse indicare che apprezza poco la reazione di Giobbe?<br />
2) LA SECONDA REAZIONE DI GIOBBE (2,8-10) A CONFRONTO CON LA PRIMA (1,20-22)<br />
Le due reazioni di Giobbe sono descritte con gli stessi tre elementi. Tuttavia il testo non è<br />
una pura e semplice ripetizione. Il confronto tra i due atteggiamenti mette in luce le somiglianze,<br />
ma anche le differenze significative. Questo indica che qu<strong>al</strong>cosa sta cambiando in<br />
Giobbe.<br />
a) Le azioni di Giobbe (1,20 e 28)<br />
Allora Giobbe, <strong>al</strong>zatosi, si strappò il manto, si rase il capo<br />
e, caduto a terra, prostrato...<br />
Allora Giobbe prese un coccio per grattarsi,<br />
mentre stava seduto in mezzo <strong>al</strong>la cenere.
64 Giobbe<br />
La reazione di Giobbe dopo la seconda prova è spesso tradotta in modi diversi, come ad<br />
es.: «Giobbe prese un coccio per grattarsi e si sistemò in mezzo <strong>al</strong>la cenere» (BJ e TOB). Secondo<br />
queste traduzioni, Giobbe compie due azioni: si gratta e si sistema per terra.<br />
L’ebr<strong>ai</strong>co ha un participio e non precisa quando Giobbe sia andato a sistemarsi in mezzo<br />
<strong>al</strong>la cenere. La vera reazione di Giobbe, conseguentemente, è quella di grattarsi.<br />
Siccome la cenere è utilizzata per i riti legati <strong>al</strong> lutto (2Sam 13,19), <strong>al</strong>cuni autori hanno interpretato<br />
questa sistemazione in mezzo <strong>al</strong>la cenere come un’<strong>al</strong>tra espressione del lutto di<br />
Giobbe. Tuttavia nessun <strong>al</strong>tro testo biblico utilizza l’espressione «si sistemò in mezzo <strong>al</strong>la cenere»,<br />
come rito di lutto. Il testo dice semplicemente che Giobbe si è sistemato sull’immondezz<strong>ai</strong>o<br />
fuori della porta della città, dove si buttavano la spazzatura, la cenere e le stoviglie<br />
rotte, e dove si ritrovavano gli emarginati.<br />
La vera reazione di Giobbe è il grattarsi con un coccio, che può facilmente trovare in mezzo<br />
a quelle immondizie. C’era gente che si faceva delle incisioni, come rito di lutto (Ger 16,6;<br />
41,5; 47,5). Non è il caso di Giobbe, il qu<strong>al</strong>e «si gratta» piuttosto per c<strong>al</strong>mare il prurito.<br />
Tutte le azioni di Giobbe dopo la prima prova erano pii riti convenzion<strong>al</strong>i di lutto o di riverenza;<br />
l’azione di Giobbe dopo la seconda prova è un’azione puramente profana per trovare<br />
un po’ di sollievo. Nel testo è introdotta una differenza importante.<br />
b) Le parole di Giobbe (1,21 e 2,10a)<br />
Giobbe reagisce <strong>al</strong>la prima prova con riti di lutto, seguiti immediatamente da parole. Alla<br />
seconda prova reagisce con un’azione profana e il silenzio. Probabilmente si tratta di una<br />
buona difesa psicologica per dissimulare il suo pensiero. Giobbe dice solo qu<strong>al</strong>che parola dopo<br />
che la moglie gli ha parlato. Ma le parole della moglie sono veramente ambigue, e questo<br />
rende anche la risposta di Giobbe molto ambigua. Dopo il rimprovero rivolto <strong>al</strong>la moglie,<br />
Giobbe dice <strong>al</strong>cune parole che esprimono la sua sofferenza e che possiamo mettere a confronto<br />
con le parole dopo la prima prova.<br />
«Nudo sono uscito d<strong>al</strong> ventre di mia madre<br />
e nudo vi farò ritorno!<br />
Il Signore [YHWH] ha dato e il Signore ha tolto.<br />
Sia benedetto il nome del Signore...».<br />
«Se accettiamo il bene da parte di Dio,<br />
perché non dovremmo accettare anche il m<strong>al</strong>e?».<br />
Il par<strong>al</strong>lelismo (accettare il bene..., accettare il m<strong>al</strong>e) nella seconda risposta di Giobbe fa<br />
pensare che le sue parole, come la prima volta, siano proverbi<strong>al</strong>i. Tuttavia non ripete «da parte<br />
di Dio» anche nella seconda parte. Si dice esplicitamente che il bene viene da Dio, ma di dove<br />
viene il m<strong>al</strong>e? Viene anch’esso da Dio o da un <strong>al</strong>tro? Il verbo può essere tradotto con «accettare»<br />
o con «ricevere», e questo cambia il senso della frase.<br />
Siccome la risposta di Giobbe in ebr<strong>ai</strong>co non è introdotta da una particella interrogativa, la<br />
possiamo leggere anche come un’affermazione dichiarativa: «Noi riceviamo, infatti, il bene<br />
da parte di Dio e non riceviamo il m<strong>al</strong>e». Questo potrebbe aver due significati: «Noi non riceviamo<br />
il m<strong>al</strong>e da Dio, perché il m<strong>al</strong>e viene da un’<strong>al</strong>tra parte», oppure: «Noi non riceviamo il<br />
m<strong>al</strong>e da Dio, perché tutto ciò che Dio ci dona, anche la sofferenza, è un bene». La maggior<br />
parte degli autori tuttavia considera la risposta di Giobbe come una domanda retorica, il che<br />
rende la sua interpretazione ancora più complessa.<br />
Il confronto tra la prima e la seconda risposta di Giobbe è significativo. La prima è lunga, e<br />
comprende tre elementi: una riflessione sapienzi<strong>al</strong>e profana, una riflessione sapienzi<strong>al</strong>e religiosa<br />
e una benedizione. La seconda risposta è molto più corta, e si compone di un unico elemento:<br />
una riflessione sapienzi<strong>al</strong>e religiosa. L’assenza della benedizione va sottolineata, so-
Giobbe 65<br />
prattutto dopo l’invito della moglie a «benedire» o a «m<strong>al</strong>edire» Dio. Avremmo potuto immaginare<br />
che Giobbe rispondesse ora con una benedizione.<br />
Anche la forma letteraria delle due risposte è probabilmente molto diversa. Le prime parole<br />
di Giobbe erano affermazioni positive dichiarative che esprimono la certezza. La seconda risposta,<br />
se accettiamo l’interpretazione comune, è una domanda negativa. Fare una domanda è<br />
segno d’incertezza, tanto più che Giobbe risponde <strong>al</strong>la domanda della moglie con un’<strong>al</strong>tra<br />
domanda. Anche se gener<strong>al</strong>mente è considerata come una domanda retorica, interpretata come<br />
un modo particolare di affermare qu<strong>al</strong>che cosa, non possiamo ricavarne <strong>al</strong>cuna certezza. Ogni<br />
domanda, anche una domanda retorica, può nascondere diverse cose e può anche essere un<br />
modo educato per evitare di svelare il proprio pensiero o un modo indiretto per esprimere certe<br />
osservazioni eterodosse.<br />
Il senso aperto della domanda è confermato d<strong>al</strong> cambiamento d<strong>al</strong> singolare person<strong>al</strong>e, «io»,<br />
della prima risposta, <strong>al</strong> plur<strong>al</strong>e gener<strong>al</strong>e, «noi», della seconda. Siccome Giobbe e la moglie<br />
avevano perduto figli e beni, ci saremmo aspettati il plur<strong>al</strong>e piuttosto dopo la prima prova,<br />
e il singolare dopo la seconda prova che tocca le ossa e la carne di Giobbe soltanto. Eppure<br />
Giobbe dice: «Noi [tu e io] riceviamo [o accettiamo] il bene da parte di Dio, e non riceveremmo<br />
[accetteremmo] [tu e io] anche il m<strong>al</strong>e?». La risposta appropriata sarebbe: «Io<br />
suppongo che dovremmo»; oppure: «forse noi dovremmo»; oppure: «certamente noi dovremmo».<br />
Giobbe, senza dubbio, vuole dare una lezione <strong>al</strong>la moglie: «Certo che dobbiamo<br />
accettare il m<strong>al</strong>e. E tu faresti meglio a seguire il mio esempio. Io lo accetto; tu invece sembri<br />
incapace di farlo». Ma può anche darsi che Giobbe affermi i propri limiti: «Certo che dovremmo<br />
accettare il m<strong>al</strong>e. Ma noi – tu e io – non siamo capaci di farlo».<br />
Anche il contenuto delle due risposte è molto diverso. Nella sua seconda risposta, Giobbe<br />
parla di «accettare», il che presuppone «dare». Questo indica il legame molto stretto tra la seconda<br />
risposta e la seconda parte della prima risposta (1,21b). Nella prima risposta, «dare» (le<br />
cose buone) è opposto a «togliere» (le cose buone), mentre, nella seconda, «accettare il bene»<br />
è opposto non a «togliere il bene», ma ad «accettare il m<strong>al</strong>e». Quando Giobbe ha perduto tutto,<br />
ne parla concretamente come di «togliere», ma ora parla in modo più astratto della sua sofferenza<br />
come di «accettare il m<strong>al</strong>e», il che presuppone il «dare il m<strong>al</strong>e». Giobbe non dice esplicitamente<br />
chi dà il m<strong>al</strong>e. Ha forse paura di dire che è Dio? Perdere tutto è norm<strong>al</strong>e e accettabile,<br />
fa parte della vita. Ma la sua m<strong>al</strong>attia la chiama «un m<strong>al</strong>e». È il primo giudizio di v<strong>al</strong>ore<br />
di Giobbe.<br />
Anche se la seconda risposta di Giobbe e la seconda parte della prima risposta sono entrambe<br />
riflessioni sapienzi<strong>al</strong>i religiose, c’è una differenza importante tra le due. Nella prima<br />
Giobbe parla tre volte di «YHWH» (Signore). È il nome rivelato a Mosè per rassicurarlo nella<br />
sua missione di liberare i figli d’Israele d<strong>al</strong>la loro schiavitù in Egitto (Es 3,15-16). È il nome<br />
speci<strong>al</strong>e del Dio dell’<strong>al</strong>leanza e dice che Dio è con noi per liberarci e custodirci. Nella seconda<br />
risposta «YHWH» è sparito. Giobbe parla ora una volta di «Elohim», un nome che si riferisce<br />
<strong>al</strong>la divinità in gener<strong>al</strong>e, a un Dio che può essere molto lontano e trascendente.<br />
E poi, la prospettiva di Giobbe sugli eventi è diversa. Nella prima risposta, Giobbe osserva<br />
la vita d<strong>al</strong> punto di vista di Dio: Dio è il soggetto <strong>dei</strong> verbi. La formulazione della risposta ha<br />
una risonanza dinamica, YHWH dà e YHWH riprende. Nella risposta spontanea convenzion<strong>al</strong>e,<br />
che proferisce ancora prima di aver avuto il tempo di riflettere sul problema, Giobbe afferma<br />
che Dio può fare ciò che vuole. Nella seconda risposta, Giobbe osserva la vita d<strong>al</strong> punto di vista<br />
dell’uomo: gli esseri umani sono i soggetti <strong>dei</strong> verbi. La sua risposta evoca un atteggiamento<br />
molto più passivo: non abbiamo scelta, non abbiamo che da ricevere e subire la sofferenza.<br />
Il secondo sguardo porta Giobbe a rimettere in discussione il suo primo. È proprio così<br />
scontato che dobbiamo accettare tutto? La conflittu<strong>al</strong>ità tra la prospettiva divina e quella umana<br />
diventerà acuta nel seguito del racconto.
66 Giobbe<br />
c) La v<strong>al</strong>utazione del narratore (1,22 e 2,10b)<br />
In tutto ciò Giobbe non commise peccato né proferì [lett. «diede»] <strong>al</strong>cuna insolenza contro Dio...<br />
In tutto questo Giobbe non peccò con la sua bocca [lett. «con le sue labbra»].<br />
Anche il confronto tra queste due v<strong>al</strong>utazioni è illuminante. E possiamo osservare una prima<br />
differenza notevole: la seconda v<strong>al</strong>utazione è molto più corta della prima, così come le azioni<br />
e le parole di Giobbe erano più corte dopo la seconda prova. Nella prima risposta, Giobbe<br />
dice: «YHWH ha dato», e il narratore conclude che Giobbe «non proferì <strong>al</strong>cuna insolenza<br />
contro Dio». La seconda volta, il narratore abbandona questa affermazione. Giobbe, nella seconda<br />
risposta, pronuncia il primo giudizio di v<strong>al</strong>ore. Chiama la sua m<strong>al</strong>attia un «m<strong>al</strong>e», e<br />
suggerisce che sia Dio a «darglielo». Forse il narratore insinua in questo modo che Giobbe,<br />
questa volta, insulta Dio?<br />
La seconda v<strong>al</strong>utazione ripete parola per parola la prima parte della prima v<strong>al</strong>utazione: «In<br />
tutto ciò Giobbe non peccò». Ma l’autore aggiunge significativamente: «con la sua bocca».<br />
Dobbiamo pensare che Giobbe ha peccato nel suo cuore? Ci troviamo di fronte a un testo aperto.<br />
In molti testi biblici «labbra» e «cuore» sono in par<strong>al</strong>lelismo sinonimico (S<strong>al</strong> 21,2;<br />
45,1; Pr 10,8; 22,11; 24,2). Se Giobbe non ha peccato con le labbra, non ha peccato nemmeno<br />
con il cuore; insomma non ha peccato (33,3). Ma <strong>al</strong>tri testi biblici sottolineano come ciò che è<br />
detto con le labbra può essere diverso da ciò che capita nel cuore (Pr 26,23; S<strong>al</strong> 12,2; Is<br />
29,13; Sir 12,16; Mt 15,8). Raba, citato nel Baba Batra 16a, ha inteso il testo di Giobbe in<br />
questo modo: «Con le sue labbra non ha peccato, ma nel suo cuore ha peccato». Il Targum va<br />
nella stessa direzione e aggiunge: «ma nei suoi pensieri coltivava già parole peccaminose». Il<br />
contesto favorisce questa interpretazione. Perché l’autore avrebbe modificato la prima v<strong>al</strong>utazione<br />
aggiungendo: «con le sue labbra», se avesse semplicemente voluto dire che Giobbe non<br />
aveva peccato per niente? Il cambiamento non è certamente motivato da ragioni artistiche. Lo<br />
attesta il confronto tra la v<strong>al</strong>utazione di Giobbe da parte del narratore: «non peccò con le sue<br />
labbra» e la preoccupazione che tormentava Giobbe a proposito <strong>dei</strong> figli: «Forse i miei figli<br />
hanno peccato e m<strong>al</strong>edetto/benedetto Dio nel loro cuore» (1,5; c’è un <strong>al</strong>tro riferimento <strong>al</strong> cuore<br />
in 1,8 nel testo ebr<strong>ai</strong>co). I due testi parlano di «peccare», ma uno evoca il «cuore», l’<strong>al</strong>tro le<br />
«labbra». La differenza è notevole.<br />
Anche se Giobbe non ha m<strong>al</strong>edetto Dio dopo la sua seconda prova – come il satana aveva<br />
predetto (2,5) –, e di conseguenza non ha peccato con le labbra (31,30), il suo cuore non è più<br />
in pace. Quando Giobbe fin<strong>al</strong>mente «aprì la bocca» (3,1) dopo sette giorni di silenzio e non<br />
parla più in proverbi, ma con le sue parole, egli rivela ciò che si trova nel suo cuore. E, come<br />
vedremo, questo monologo di Giobbe rovescia completamente la risposta data dopo la prima<br />
prova.<br />
Una lettura attenta delle reazioni di Giobbe nella prima parte del libro (1,6–2,10) suggerisce<br />
che Giobbe non è il credente convinto che spesso si ritiene. Quando perde tutto ciò che ha,<br />
è veramente disorientato. Replica solo con riti e parole convenzion<strong>al</strong>i nei qu<strong>al</strong>i non c’è nulla<br />
di person<strong>al</strong>e, ma solo formule puramente superfici<strong>al</strong>i, vuote, anche se pie. Sia Giobbe che la<br />
moglie, quando essa interviene <strong>al</strong> momento della seconda prova, utilizzano quello che potremmo<br />
chiamare il linguaggio della fede popolare. Di fronte <strong>al</strong>le prove, l’atteggiamento della<br />
gente semplice è dello stesso genere. Certe persone rifiutano un Dio che dovesse permettere<br />
che succedano sventure del genere. La moglie di Giobbe – ed è un’interpretazione possibile<br />
del suo intervento – si colloca in questa categoria. Altre persone, invece, accettano questo Dio<br />
con una fede cieca espressa t<strong>al</strong>volta con cliché simili a quelli che Giobbe utilizza. Una fede<br />
del genere, che potremmo dire «la fede della vecchietta», può essere soddisfacente per un certo<br />
tempo, ma è fragile. Prima o poi, finirà per crollare poiché l’individuo non si è ancora veramente<br />
scontrato con il problema. A quel punto, <strong>al</strong>lora, <strong>al</strong>cuni rifiutano tutto; <strong>al</strong>tri, come<br />
Giobbe, approfondiscono la fede con un lungo cammino.<br />
Il confronto tra la prima e la seconda reazione di Giobbe indica che qu<strong>al</strong>cosa è cambiato. I<br />
riti e le parole convenzion<strong>al</strong>i non bastano più. Quando la m<strong>al</strong>attia colpisce Giobbe, egli ha an-
Giobbe 67<br />
cora meno da dire di quanto avesse dopo la perdita <strong>dei</strong> beni e <strong>dei</strong> figli. Reagisce con un’azione<br />
puramente profana per <strong>al</strong>leviare la sofferenza ed è solo quando la moglie lo provoca ad esprimersi,<br />
che fa una domanda. Giobbe si interroga, comincia un po’ <strong>al</strong>la volta a porsi delle<br />
domande.<br />
7.2.3.2. Il linguaggio del silenzio<br />
Nella prima parte del racconto (1,6–2,10) Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare.<br />
Alla prima prova aveva reagito con riti e formule convenzion<strong>al</strong>i, ma il suo atteggiamento,<br />
dopo la seconda prova, era già un po’ diverso. La reazione <strong>dei</strong> tre amici (2,11-13) è in parte<br />
simile a quella di Giobbe: anch’essi seguono un certo numero di riti convenzion<strong>al</strong>i; ma non<br />
ricorrono, come lui, a formule stereotipe, e tacciono. Il racconto ha raggiunto il linguaggio del<br />
silenzio, che è spezzato solo d<strong>ai</strong> pianti degli amici. La letteratura sapienzi<strong>al</strong>e parla spesso del<br />
potere della lingua. La lingua può fare meraviglie o, <strong>al</strong> contrario, ferire profondamente. C’è<br />
tutta un’arte di controllare la lingua. Quando parlare o non parlare? Cosa dire o non dire?<br />
Come dirlo? (Pr 13,3; 14,23; 18,21; 21,23; 26,28).<br />
Se gli amici conoscono i riti convenzion<strong>al</strong>i, devono sapere anche le pie formule superfici<strong>al</strong>i,<br />
ma si rendono conto che non ci sono parole adatte nel momento di una «grande» sofferenza.<br />
Non si può dire nulla, non si ha nemmeno il diritto di parlare. Nessuna parola può consolare.<br />
L’unica cosa che gli amici possono fare è «simpatizzare» con Giobbe, «soffrire con» e «vivere<br />
con» Giobbe. Lo fanno «giorno» e «notte», e non solo un giorno, ma sette. La presenza<br />
prolungata e anche le lacrime di questi tre saggi – gli uomini hanno il diritto di piangere –<br />
provano che sono veri amici. Non vengono certamente per quanto Giobbe ha, d<strong>al</strong> momento<br />
che non ha più nulla. Vengono unicamente per quello che Giobbe è, e non importa ciò che è<br />
diventato. Molte persone hanno paura di visitare <strong>dei</strong> m<strong>al</strong>ati gravi; ma non gli amici! Tutti i<br />
m<strong>al</strong>ati lo dicono: una presenza v<strong>al</strong>e più delle parole. Cosa dire infatti <strong>al</strong> m<strong>al</strong>ato? «Oggi h<strong>ai</strong> un<br />
bell’aspetto!» è una menzogna; e dire <strong>al</strong>lora: «Oggi non ti vedo molto bene!»?<br />
Giobbe è felice di avere amici del genere, che hanno lasciato la famiglia e gli impegni unicamente<br />
per lui. Come loro, anche Giobbe tace. Aveva saputo cosa dire <strong>ai</strong> servi, e aveva mostrato<br />
di essere forte nella replica <strong>al</strong>la moglie, ora non dice più nulla. Vede le lacrime degli<br />
amici che, essi pure, in un certo modo, hanno bisogno di incoraggiamento, ma Giobbe non rivolge<br />
loro <strong>al</strong>cuna parola. Avrebbe potuto ripetere quanto aveva detto <strong>ai</strong> servi o <strong>al</strong>la moglie, o<br />
dire <strong>al</strong>tre pie frasi convenzion<strong>al</strong>i, del genere: «Non piangete, è la volontà di Dio!». Niente di<br />
tutto questo. Per sette giorni e sette notti regna un grande silenzio.<br />
Il silenzio offre l’occasione di riflettere e di guardare profondamente dentro di sé. Quello<br />
che sta succedendo nel cuore di Giobbe e nel cuore di Elifaz, di Bildad, e di Zofar verrà <strong>al</strong>la<br />
luce quando le loro parole interromperanno il silenzio.<br />
7.2.3.3. Il linguaggio del dubbio<br />
Nella sua reazione spontanea di fronte <strong>ai</strong> membri della famiglia, <strong>ai</strong> servi e <strong>al</strong>la moglie,<br />
Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare. Dopo l’arrivo degli amici, Giobbe è passato<br />
<strong>al</strong> linguaggio del silenzio. Anche gli amici tacciono, si rendono conto di non potere dire<br />
nulla e non hanno nemmeno il diritto di parlare. Solamente lo sventurato ha il diritto di rompere<br />
il silenzio, solo lui decide quando è opportuno e permesso parlare.<br />
Infatti, Giobbe è il primo a riprendere la parola. Il suo monologo (cap. 3) rivela ciò che è<br />
successo nel suo spirito e nel suo cuore durante quei sette giorni e sette notti di silenzio. Ha<br />
avuto il tempo di riflettere, ma ha anche sentito il dolore nel suo corpo. Non può più controllarsi.<br />
Il furore e il dolore di Giobbe esplodono in una m<strong>al</strong>edizione e un lamento.<br />
C’è un par<strong>al</strong>lelismo evidente tra questo monologo e le parole della prima parte in cui<br />
Giobbe esprimeva la sua accettazione spontanea, ma ne è il polo opposto. Nella sua reazione<br />
<strong>al</strong>le prove, Giobbe era ricorso a formule convenzion<strong>al</strong>i, a proverbi e a una giaculatoria. Alcuni<br />
lettori vi vedono un’espressione della fede profonda di Giobbe. Ho fatto presente che formule
68 Giobbe<br />
del genere potrebbero essere l’espressione di una fede superfici<strong>al</strong>e e che sarà il seguito del libro<br />
a chiarirci le cose. Nel monologo Giobbe non si esprime più mediante formule imparate a<br />
memoria e imparate da <strong>al</strong>tri, ma parla con parole sue. Confuta punto per punto ciò che aveva<br />
detto in precedenza. La fede superfici<strong>al</strong>e crolla.<br />
Dopo la prima prova, Giobbe diceva <strong>ai</strong> servi che aveva accettato la propria nascita: «Nudo<br />
sono uscito d<strong>al</strong> ventre di mia madre» (1,21a). Nella prima parte del suo monologo Giobbe rifiuta<br />
il giorno della nascita e vorrebbe non aver m<strong>ai</strong> lasciato il seno materno (vv. 3-10): «essa<br />
non chiuse per me il varco della matrice» (v. 10; un <strong>al</strong>tro riferimento <strong>al</strong> seno materno <strong>al</strong> v. 11).<br />
Ai suoi servi Giobbe aveva detto di essere pronto ad accettare la morte: «nudo vi farò ritorno»<br />
(1,21b). Nella seconda parte del monologo Giobbe aspira <strong>al</strong>la morte, che è migliore della vita<br />
(vv. 11-19): «come un aborto interrato» (v. 16). Ai servi, aveva detto: «YHWH ha dato, YHWH<br />
ha tolto» (1,21c). Ora, nella terza parte del monologo, Giobbe s’interroga sul dono della vita<br />
(vv. 20-26): «Perché dare la luce...» (v. 20). In effetti, a cosa serve dare, se è solo per riprendere<br />
ciò che abbiamo dato? Giobbe aveva concluso la sua risposta <strong>ai</strong> servi con una benedizione:<br />
«Sia benedetto il nome di YHWH» (1,21d). Ora, dice l’autore, Giobbe «m<strong>al</strong>edice il giorno della<br />
sua nascita» (v. 1 e v. 8).<br />
Giobbe sembra più incline a seguire il consiglio che la moglie gli ha dato dopo la seconda<br />
prova: «M<strong>al</strong>edici Dio, e muori» (2,9). Giobbe certamente aspira <strong>al</strong>la morte, vuole morire. In<br />
verità non possiamo dire che Giobbe stesso abbia «m<strong>al</strong>edetto», spera piuttosto che <strong>al</strong>tri lo facciano<br />
per lui (v. 8). L’autore ha dunque ragione in un certo modo quando dice che Giobbe ha<br />
«m<strong>al</strong>edetto» (v. 1), <strong>al</strong>meno indirettamente. Rimane il fatto che la m<strong>al</strong>edizione non si rivolge a<br />
Dio direttamente, ma <strong>al</strong>l’esistenza, e dunque <strong>al</strong>l’opera creatrice di Dio.<br />
Giobbe non si accontenta di respingere le formule stereotipe, si pone anche parecchie domande:<br />
«Perché?» (vv. 11.12 [2x].20); e certamente la domanda che colui che soffre si pone<br />
prima o poi: «Perché io?». Una domanda richiede una risposta. Giobbe non rivolge le sue<br />
domande direttamente agli amici o a Dio. Giobbe non capisce più nulla. L’apparente certezza<br />
delle formule stereotipe è scomparsa, se m<strong>ai</strong> c’è stata! Giobbe dubita, cerca risposte nuove.<br />
Forse sarà capace di trovarle lui stesso, oppure <strong>al</strong>tri gliele daranno.<br />
Il dubbio ha condotto Giobbe a certe domande e a una recriminazione, la disperazione lo<br />
ha condotto a una m<strong>al</strong>edizione. L’autore ha ben riassunto il contenuto del monologo <strong>al</strong>l’inizio:<br />
«Dopo di ciò Giobbe aprì la bocca e m<strong>al</strong>edisse il suo giorno [di nascita]» (v. 1). Il satana sembra<br />
sul punto di trionfare, tuttavia non ha ancora vinto la sfida. Anche se Giobbe ha, <strong>al</strong>meno<br />
direttamente, m<strong>al</strong>edetto, non ha ancora m<strong>al</strong>edetto YHWH in faccia.<br />
Giobbe è diventato il credente che si pone delle domande, che cerca di capire. E <strong>al</strong>lora ricorrerà<br />
a un <strong>al</strong>tro linguaggio.<br />
7.2.3.4. Il linguaggio della teologia<br />
Nei capitoli da 4 a 27 Giobbe e gli amici si mettono a confronto, portando avanti ciascuno<br />
le proprie argomentazioni, che possono essere così riassunte:<br />
Le argomentazioni degli amici<br />
- nessuno è puro davanti a Dio (4,17-21; 15,14-16; 25,4-6; ecc.)<br />
- solo Dio è grande (dossologie: 5,9-18; 11,7-11; 22,12; 25,2-3; ecc.)<br />
- Dio punisce sempre i m<strong>al</strong>vagi (4,7-11; 5,2-7; 8,11-15; 11,20; 15,17-35; 18,5-21; 20,4-29; 22,15-18; ecc.)<br />
- Dio ricompensa sempre la fedeltà del giusto (5,17-21.25-26; 8,5-7.20-22; 11,13-19; 22,21-30; ecc.)<br />
Le argomentazioni di Giobbe<br />
- riconosce l’indegnità innata dell’uomo davanti a Dio (7,17; 9,2-3; 13,28-14,6; ecc.)<br />
- riconosce la grandezza di Dio (dossologie: 9,4-13; 12,7-10.13-25; 26,7-14; ecc.)<br />
- rifiuta ampiamente le affermazioni degli amici sul castigo inevitabile degli empi e sulla felicità sicura <strong>dei</strong><br />
giusti; ad esse oppone la smentita dell’esperienza comune (12,6; 21,27-34; ecc. ) e quella della sua stessa<br />
esperienza (9,22-24; 12,2-3; 13,2; 21,2-26; 24,1-17; ecc.)<br />
- rifiuta che si spieghi la sua sofferenza con una pretesa colpevolezza; egli si sente invece oggetto di<br />
un’aggressione da parte di Dio (i lamenti «egli»: 3,23; 6,4; 9,2-3.14-24.32-35; 13,3.7-11.13-19; 16,7-17;
Giobbe 69<br />
19,6-12.21-22; 23,1–24,1; 27,2; ecc.; i lamenti «tu»: 7,7-21; 9,28b-31; 10,1-22; 13,20-28; 14,1-6; 17,4-6;<br />
ecc.).<br />
- lo sbocco della morte è lo «Šeol», luogo di oppressione e di solitudine (7,9-10.21; 10,21-22; 14,7-12; 16,22;<br />
ecc.)<br />
- esprime la speranza nella possibilità di essere riconosciuto innocente di fronte a Dio, prima in maniera implicita<br />
(7,16b; 10,20b; 14,6.13-17; 23,3) e poi in modo più esplicito (16,18-22; 17,3; 19,25-27)<br />
Giobbe aveva reagito <strong>al</strong>le prove dell’inizio con il linguaggio della fede popolare, con formule<br />
stereotipe, imparate a memoria (1,6–2,10). Al momento dell’arrivo degli amici, i tre e<br />
Giobbe stesso sono passati <strong>al</strong> linguaggio del silenzio (2,11-13). Quando fin<strong>al</strong>mente Giobbe<br />
decide di rompere il silenzio, rivela di aver raggiunto il linguaggio del dubbio: Giobbe fa delle<br />
domande (3). Il credente che si pone delle domande cerca risposte. Le formule convenzion<strong>al</strong>i<br />
della fede popolare non soddisfano più. Giobbe cerca di capire.<br />
Arriviamo così <strong>al</strong> linguaggio della teologia. La definizione classica della teologia è fides<br />
quaerens intellectum (la fede che cerca di capire). I tre amici che sono rimasti seduti presso<br />
Giobbe, in silenzio per sette giorni e sette notti, hanno avuto molto tempo per riflettere. Hanno<br />
ascoltato le numerose domande imperson<strong>al</strong>i di Giobbe (3) e si sentono invitati a rispondere<br />
(4,1). Il di<strong>al</strong>ogo tra i tre amici e Giobbe prosegue con affermazioni, domande e risposte. Tutti<br />
parlano di Dio, che è poi il significato del termine «teologia» secondo la sua etimologia: theos<br />
(Dio)-logos (parola). La teologia cerca di comprendere, vuole verificare.<br />
Anche se tutti e quattro parlano il linguaggio teologico, gli amici e Giobbe non praticano lo<br />
stesso tipo di teologia. I cicli di discorsi contengono due tipi di teologia, d<strong>al</strong> momento che ci<br />
sono due punti di partenza.<br />
1) LA TEOLOGIA SCOLASTICA DEI TRE AMICI<br />
Nell’epoca precedente il Concilio Vaticano II si insegnava spesso la teologia servendosi di<br />
un genere particolare di manu<strong>al</strong>i. Un bell’esempio è l’opera di A. Tanquerey, Synopsis Theologiae<br />
Dogmaticae ad usum Seminariorum. Il sottotitolo indica chiaramente che il libro è<br />
scritto prima di tutto per i seminaristi. Si parte da una tesi, che riassume una verità di fede, un<br />
dogma, ad es.: «Gesù è veramente Dio e uomo». Segue la prova di questo dogma in tre punti:<br />
1) la prova ricavata d<strong>al</strong>la Scrittura (Scriptura probatur); 2) la prova ricavata d<strong>al</strong>la tradizione,<br />
che era sempre unanime (Probatur Traditione); 3) siccome un mistero non può essere provato<br />
con la ragione, si mostrava come la tesi fosse accettabile <strong>al</strong>la ragione (Ratione theologica<br />
suadetur). È questa la teologia insegnata nelle scuole per moltissimo tempo. Si provava una<br />
tesi ricorrendo <strong>al</strong>le tre fonti della teologia.<br />
I tre amici seguono questo metodo per trovare una risposta <strong>al</strong>le domande di Giobbe a proposito<br />
della sua sofferenza e di Dio. Gli amici hanno cercato davvero di simpatizzare con<br />
Giobbe, ma come è possibile che qu<strong>al</strong>cuno, pur con tutta la buona volontà di questo mondo,<br />
«simpatizzi» veramente, soffra con l’<strong>al</strong>tro, senta la sofferenza dell’<strong>al</strong>tro? Il loro approccio è<br />
più cerebr<strong>al</strong>e. Ciascuno <strong>dei</strong> tre visitatori si muove a modo suo, ma in ultima an<strong>al</strong>isi hanno tutti<br />
e tre lo stesso approccio. Il loro punto di partenza è il dogma, sono le verità di fede.<br />
Elifaz, il primo amico a prendere la parola nel primo ciclo di discorsi, pone la tesi da cui<br />
parte: «Qu<strong>al</strong>e innocente è m<strong>ai</strong> perito? [...] coloro che coltivano m<strong>al</strong>izia e seminano miseria,<br />
mietono t<strong>al</strong>i cose» (4,7-9). Questa tesi, ripresa poi anche dagli <strong>al</strong>tri due, comporta il principio<br />
causa-effetto della dottrina classica della retribuzione: il bene viene ricompensato e il m<strong>al</strong>e<br />
viene punito. Dio, in quanto giudice giusto, assicura questo ordine nel mondo (20,29). Siccome<br />
a quel tempo non c’era ancora una dottrina chiara su una vita nell’oltretomba, la retribuzione<br />
doveva aver luogo qui in terra. Il giusto è ricompensato con figli numerosi, ricchezze e<br />
una lunga vita; ed era proprio questa la felicità di cui godeva Giobbe <strong>al</strong>l’inizio del libro (1,1-<br />
3). Il m<strong>al</strong>vagio, invece, era punito con sciagure, con la m<strong>al</strong>attia e una morte prematura. Molti<br />
scritti biblici, come, ad esempio, il libro del Deuteronomio, affermano questo principio. Elifaz,<br />
che comincia il di<strong>al</strong>ogo partendo da questa tesi, continua a difenderla costantemente
70 Giobbe<br />
(15,17-35; 22,12-20), e Bildad (18,5-21) e Zofar (20,4-29) parlano <strong>al</strong>lo stesso modo. I tre conoscono<br />
molto bene la teoria e la propongono a Giobbe come risposta <strong>al</strong>le sue domande sul<br />
perché della sua sofferenza.<br />
Gli amici ricorrono <strong>al</strong>le tre fonti della teologia per provare questa tesi della retribuzione.<br />
Essi attingono le loro prove nella rivelazione divina: conoscono le Scritture. Elifaz dice:<br />
«l’infamia chiude la bocca» (5,16), citazione del S<strong>al</strong> 107,42b; e, invece, «i giusti vedono ciò e<br />
si r<strong>al</strong>legrano» (22,19a), citazione dell’<strong>al</strong>tra parte del medesimo versetto del S<strong>al</strong> 107,42a.<br />
Quando Bildad rimanda <strong>al</strong>la grandezza di Dio e <strong>al</strong>la piccolezza dell’essere umano (25,2-6),<br />
sembra ispirarsi <strong>al</strong> S<strong>al</strong> 8. Elifaz dice addirittura di aver avuto una ispirazione privata: «Una<br />
parola mi fu detta furtivamente» (4,12), e di conoscere la parola di Dio (15,11). Anche Zofar<br />
crede di sapere quello che Dio vuole dire (11,5). Per provare la loro tesi, essi ricorrono anche<br />
<strong>al</strong>la tradizione. Come tutti i manu<strong>al</strong>i di teologia avevano l’abitudine di rimandare <strong>al</strong>la posizione<br />
«unanime» <strong>dei</strong> Padri della Chiesa, così i tre amici rimandano <strong>al</strong>la dottrina degli antenati.<br />
Bildad dice: «Interroga le generazioni passate, e rifletti sull’esperienza <strong>dei</strong> loro padri...» (8,8-<br />
10). Elifaz evoca l’autentica tradizione originaria, prima che fosse corrotta da elementi stranieri<br />
(15,18-19), e Zofar parla della tradizione primitiva: «... da sempre, da quando l’uomo fu<br />
posto sulla terra» (20,4). E infine si rifanno <strong>al</strong>la loro esperienza person<strong>al</strong>e e <strong>al</strong>le loro riflessioni.<br />
Elifaz lo ripete spesso: «Ecco..., l’ho visto» (4,7-8; 5,3.27; 15,17) e Zofar parla della «ispirazione<br />
del suo senno» (20,3). La tesi è provata, e non rimane <strong>al</strong>cuna obiezione possibile:<br />
«È così» (5,27).<br />
Che fare ora di fronte <strong>al</strong>la re<strong>al</strong>tà che sembra contraddire la tesi? Giobbe è riconosciuto<br />
dappertutto come un uomo integro e retto (1,1), e anche Dio lo giudica in questo modo (1,8;<br />
2,3; ma solo i lettori lo sanno, mentre gli amici lo ignorano), eppure soffre. Come risolvono<br />
questa contraddizione gli amici? Impossibile intaccare il dogma; ogni sofferenza, e quindi anche<br />
quella di Giobbe, non può essere spiegata che d<strong>al</strong> peccato. Essi <strong>al</strong>lora fanno una distinzione<br />
tra l’essere e il sembrare. Giobbe si dichiara uomo integro, ed è in questo modo che<br />
gli <strong>al</strong>tri lo pensano, ma tutto ciò non è che illusione. Ciò che Giobbe sembra essere, in re<strong>al</strong>tà<br />
non lo è. Qu<strong>al</strong>e essere umano può essere senza peccato? «Può l’uomo essere giusto davanti a<br />
Dio...?» (4,17-19; cfr. 15,14-16; 25,4). I tre amici addirittura accusano Giobbe di «crimine»<br />
(15,5), di «colpa» (11,6), di «grande m<strong>al</strong>vagità» (22,2-11): «Non è piuttosto per la tua grande<br />
m<strong>al</strong>vagità e per le tue innumerevoli colpe... Perciò ti circondano i lacci» (22,5.10). Il principio<br />
causa-effetto è s<strong>al</strong>vo. Giobbe farebbe meglio a riconoscere la sua colpevolezza, e <strong>al</strong>lora Dio lo<br />
s<strong>al</strong>verebbe certamente (11,13-20; 22,21-30). E Dio, anche se non sembra giusto, in re<strong>al</strong>tà è<br />
giusto: «Può forse Dio f<strong>al</strong>sare il diritto?» (8,3). Per gli amici Giobbe è nella menzogna e Dio è<br />
un mistero: «Pretendi forse di sondare l’intimo di Dio...?» (11,7-9).<br />
I tre amici praticano una teologia scolastica, che parte d<strong>al</strong> dogma <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e la vita deve adattarsi,<br />
volente o nolente. Si tratta di una teologia statica senza possibilità di evoluzione, d<strong>al</strong><br />
momento che le risposte sono conosciute in partenza.<br />
2) LA TEOLOGIA ESISTENZIALE DI GIOBBE<br />
Gli amici, pur con tutta la loro buona volontà, fanno un ragionamento astratto, mentre<br />
Giobbe è il solo a soffrire e a ragionare con tutto il suo essere. Gli amici partono d<strong>al</strong> dogma <strong>al</strong><br />
qu<strong>al</strong>e la re<strong>al</strong>tà della vita deve adattarsi. Giobbe, invece, parte d<strong>al</strong>la re<strong>al</strong>tà della vita per confrontarla<br />
con il dogma della dottrina della retribuzione fondata sul principio causa-effetto, che<br />
conosce bene quanto i tre amici (24,18-25; 27,13-23). Anche Giobbe ricorre <strong>al</strong>le tre fonti della<br />
teologia. Egli conosce la rivelazione divina della Scrittura, e rimanda <strong>al</strong> S<strong>al</strong> 8 (7,17-18; 19,9),<br />
lo stesso <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e Bildad si riferisce, e cita anche <strong>al</strong>tri testi biblici (S<strong>al</strong> 12,9 = Is 41,20; S<strong>al</strong><br />
14,11 = Is 19,5). Egli conosce la rivelazione divina a proposito della sapienza e respinge la<br />
«rivelazione» su cui si fondano i suoi amici (26,4). Giobbe si rifà anche <strong>al</strong>la tradizione, senza<br />
ridurla a quella degli antenati; rimanda anche <strong>al</strong>le religioni del mondo, <strong>al</strong>la tradizione univer-
Giobbe 71<br />
s<strong>al</strong>e: «Perché non lo chiedete <strong>ai</strong> viandanti?» (21,29). Ma ci sono anche le sue riflessioni person<strong>al</strong>i:<br />
«Ma anch’io ho senno come voi, non sono da meno di voi» (12,3; 13,1-2). Le tre fonti<br />
non sono utilizzate per provare a ogni costo un dogma, ma per riguardare la vita e per trovare<br />
possibilmente una risposta <strong>al</strong>la domanda esistenzi<strong>al</strong>e a proposito della sofferenza e di Dio.<br />
L’esperienza contraddice il dogma della retribuzione: «Sono tranquille le tende <strong>dei</strong> razziatori,<br />
c’è sicurezza per coloro che provocano Dio» (12,6; cfr. 21,7-6). Se Giobbe costata ciò nel<br />
mondo che gli sta attorno, a quel punto osa interrogarsi anche a proposito della propria sofferenza.<br />
Gli amici cercano di s<strong>al</strong>vare il dogma facendo una distinzione tra ciò che una persona è<br />
e ciò che una persona sembra essere. Questo è inaccettabile per Giobbe, la re<strong>al</strong>tà non può essere<br />
sacrificata <strong>al</strong> dogma. Siccome Giobbe ha visto che gli innocenti non sono sempre ricompensati<br />
e i m<strong>al</strong>fattori non sono sempre puniti, osa proclamare la propria innocenza. Non solo<br />
sembra giusto, ma lo è in re<strong>al</strong>tà: «Fino <strong>al</strong>l’ultimo respiro rivendicherò la mia integrità. Terrò<br />
fermo <strong>al</strong>la mia innocenza, senza cedere!» (27,5-6; cfr. 9,15.20.21; 10,7.15; 16,17; 23,10). Ma<br />
la sofferenza di un innocente fa <strong>al</strong>lora sorgere una domanda su Dio, che soggiace a questa dottrina<br />
della retribuzione. Gli amici risolvono il problema parlando del mistero di Dio. Anche se<br />
Dio non sembra giusto, in re<strong>al</strong>tà è giusto. E anche questo è inaccettabile per Giobbe. Egli arriva<br />
<strong>al</strong>la dolorosa conclusione che Dio, che non sembra giusto, non lo è nemmeno in re<strong>al</strong>tà:<br />
«Sappiate dunque che Dio mi ha fatto torto» (19,6; cfr. 9,22-24; 24,12; 27,2). Giobbe colloca<br />
se stesso nella posizione della verità e Dio nella posizione della f<strong>al</strong>sità.<br />
La teologia esistenzi<strong>al</strong>e di Giobbe parte d<strong>al</strong>la vita. Se la vita contraddice il dogma, <strong>al</strong>lora il<br />
dogma è inesatto e il credente deve continuare la ricerca. Una teologia del genere è dinamica e<br />
permette l’evoluzione. Giobbe, infatti, è in lotta interiormente, si dibatte nelle contraddizioni e<br />
continua a cercare, come possiamo vedere nei diversi passaggi in cui si rivolge a Dio.<br />
Partire d<strong>al</strong>la propria esperienza, e soprattutto se si tratta della sofferenza, anziché partire<br />
d<strong>ai</strong> principi, cambia molte cose. Molti principi che sembravano importanti e chiari crollano e<br />
sembrano vani. Ciò che Giobbe dice ora è ben diverso da ciò che diceva in precedenza. Gli<br />
amici glielo fanno notare: «Le tue parole sostenevano i vacillanti [...]. Ma ora che tocca a te,<br />
sei depresso» (4,4-5). La risposta di Giobbe non manca. Se fossero <strong>al</strong> suo posto, parlerebbero<br />
meglio di lui? «Ora anch’io potrei parlare come voi se foste <strong>al</strong> mio posto» (16,4).<br />
3) DUE TEOLOGIE IN CONFLITTO<br />
Un di<strong>al</strong>ogo tra due teologie così divergenti è difficile e addirittura penoso.<br />
a) Un di<strong>al</strong>ogo senza sbocchi<br />
La conversazione fra i tre amici e Giobbe è come una conversazione tra un teologo conservatore<br />
e un teologo liber<strong>al</strong>e, oppure tra un credente pieno di buon senso e un membro fanatico<br />
di una setta. Praticare due teologie equiv<strong>al</strong>e a parlare due lingue differenti. Gli amici e Giobbe<br />
non possono capirsi, e, anche se t<strong>al</strong>volta da parte di uno degli interlocutori ci troviamo di<br />
fronte a una replica vera e propria, in genere ciascuno parla senza rispondere <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro. Si tratta<br />
di un di<strong>al</strong>ogo tra sordi che in questo modo può durare <strong>al</strong>l’infinito. Bildad si chiede: «Fino a<br />
quando...?» (18,2); Giobbe si pone la stessa domanda: «Fino a quando...?» (19,2). Questo<br />
spiega perché ci siano tre cicli di discorsi senza che si dica granché di nuovo.<br />
È interessante notare la lunghezza <strong>dei</strong> diversi discorsi nel di<strong>al</strong>ogo (4–27). Gli amici parlano<br />
ogni volta per un capitolo, solamente il primo discorso di Elifaz ne comprende due. Nove capitoli<br />
sono consacrati <strong>al</strong>le parole degli amici. Giobbe, da parte sua, risponde quattro volte in<br />
due capitoli e due volte in tre capitoli. L’intervento di Giobbe comprende quindici capitoli e,<br />
se si tiene conto <strong>dei</strong> monologhi (3; 29–31), s<strong>al</strong>e a diciannove.<br />
Ad un certo punto, qu<strong>al</strong>cuno deve pur abbandonare, e questo spiega perché il terzo ciclo si<br />
sf<strong>al</strong>da: Elifaz parla ancora (22), Bildad prende ancora la parola, ma brevemente (solo pochi<br />
versetti: 25,1-6), e Zofar abbandona. I tre amici si dimostrano i più saggi. Giobbe, che vuole<br />
uscire vincitore d<strong>al</strong> combattimento, continua a battersi con lunghi discorsi.
72 Giobbe<br />
In conversazioni del genere, diventa t<strong>al</strong>volta difficile seguire gli argomenti delle due parti,<br />
e in certi casi si ha quasi l’impressione che i due interlocutori comincino a ripetersi reciprocamente.<br />
Lo possiamo costatare nel terzo ciclo quando Giobbe dice cose che ci aspetteremmo<br />
piuttosto dagli amici. L’apparente disordine del terzo ciclo non è un’indicazione di un testo<br />
corrotto e non è necessario ricostruire questo terzo ciclo secondo lo schema <strong>dei</strong> primi due.<br />
b) L’ossessione per l’ortodossia<br />
Una conversazione del genere porta a nulla e a nessuna «conversione», perché Giobbe e i<br />
tre amici sono <strong>dei</strong> credenti che cercano di comprendere un mistero e vogliono difendere la<br />
«verità». Ciascuna delle due parti è convinta del proprio punto di vista e lo considera come<br />
l’unica verità, qu<strong>al</strong>ificando quella dell’<strong>al</strong>tro come eresia. Elifaz conclude il suo primo discorso<br />
dicendo: «Ecco quanto abbiamo studiato a fondo: è così» (5,27), non c’è dunque <strong>al</strong>cuna<br />
possibilità di discussione. Zofar incoraggia Giobbe a non aderire <strong>al</strong>la f<strong>al</strong>sità: «Non permettere<br />
<strong>al</strong>l’ingiustizia di abitare nella tua tenda» (11,14).<br />
Anche Giobbe, per parte sua, è convinto della verità della propria posizione e dunque della<br />
f<strong>al</strong>sità delle parole <strong>dei</strong> tre amici. «Certo non vi mentirò in faccia. Ritornate, di grazia, non si<br />
faccia ingiustizia! [.. .] C’è forse iniquità sulla mia lingua?» (6,28.29.30). «Voi invece siete<br />
manipolatori di f<strong>al</strong>sità» (13, 4); «Volete forse dire f<strong>al</strong>sità in favore di Dio e per lui parlare con<br />
inganno?» (13,7; cfr. 24,25; 27,4).<br />
c) La rottura dell’amicizia<br />
Una conversazione del genere, ossessionata d<strong>al</strong>la difesa della verità e di Dio, finisce per<br />
portare <strong>al</strong>la rottura delle relazioni umane. I tre erano venuti come veri amici, ma, <strong>al</strong>la fine,<br />
sembrano piuttosto nemici di Giobbe. Elifaz comincia il di<strong>al</strong>ogo in modo molto delicato: «Se<br />
ti rivolgiamo la parola, riuscir<strong>ai</strong> a sopportarla?» (4,2).<br />
Dopo che Giobbe ha risposto con un lungo lamento, Bildad reagisce in modo già più diretto:<br />
«Fino a quando dir<strong>ai</strong> cose del genere?» (8,2). Quando successivamente Giobbe accusa Dio,<br />
Zofar diventa aggressivo e insulta Giobbe, chiamandolo «chiacchierone» (letter<strong>al</strong>mente:<br />
«un eroe delle labbra») (11,2) e «stolto» (11,12). Siccome Giobbe rimane sulle sue posizioni,<br />
gli amici adottano un linguaggio sarcastico nel secondo ciclo di discorsi. Essi cominciano insinuando<br />
che nessun essere umano può essere giusto, e finiscono accusando direttamente<br />
Giobbe di peccato nel terzo ciclo. I tre amici si trovano di fronte a un dilemma, si sentono forzati<br />
a scegliere tra Dio e Giobbe. Per difendere Dio, essi sacrificano la loro amicizia con<br />
Giobbe.<br />
Giobbe non è per niente migliore <strong>dei</strong> tre amici, anche lui diventa sarcastico: «Davvero siete<br />
la voce del popolo e con voi morirà la sapienza!» (12,2.4; cfr. 26,2-4). Giobbe pensava di poter<br />
continuare a contare su di loro, anche se, <strong>ai</strong> loro occhi, proferisce parole sacrileghe:<br />
«L’uomo disfatto ha diritto <strong>al</strong>la pietà del suo prossimo, anche se avesse abbandonato il timore<br />
dell’Onnipotente» (6,14). Giobbe si lamenta degli amici (6,14-30; 19,13-22) che, per difendere<br />
la «verità», sono disposti a «mettere in vendita l’amico» (6,27). Li chiama «manipolatori di<br />
f<strong>al</strong>sità» (13,4), «sventurati consolatori» (16,2), «beffardi» (17,2). Dice che non lo «ascoltano»<br />
per niente (21,2-3; cfr. 13,5), ma che lo «tormentano, affliggono, insultano, torturano, rimproverano»<br />
(19,2-5). Arriva perfino a m<strong>al</strong>edire gli amici (27,7-12). Quelli che un tempo erano<br />
amici sono diventati persone che si feriscono e si fanno del m<strong>al</strong>e reciprocamente. Giobbe dice<br />
a Bildad: «Sono già dieci volte che mi ingiuriate; non avete vergogna di torturarmi?» (19,3), e<br />
Zofar risponde a Giobbe: «Ho ascoltato una lezione umiliante» (20,3), e anche Elifaz si sente<br />
rigettato (15,11). L’ossessione dell’ortodossia ha condotto a uno scisma.<br />
Il lettore che cerca di seguire il di<strong>al</strong>ogo senza schierarsi anticipatamente in favore di Giobbe<br />
o <strong>dei</strong> tre amici opterà prima o poi per uno <strong>dei</strong> due tipi di teologia che sono <strong>al</strong>l’opera: la teologia<br />
scolastica <strong>dei</strong> tre amici che parte d<strong>ai</strong> principi, una teologia d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to; e la teologia di<br />
Giobbe che parte d<strong>al</strong>la sua esperienza, una teologia d<strong>al</strong> basso. Per sapere qu<strong>al</strong>e delle due teo-
Giobbe 73<br />
logie Dio preferisce, il lettore dovrà attendere la fine del libro. Alcuni lettori vedranno confermata<br />
la loro scelta, <strong>al</strong>tri conosceranno forse una sorpresa.<br />
7.2.3.5. Il linguaggio della preghiera<br />
La seconda parte del libro è conclusa. Giobbe l’ha iniziata e conclusa con un monologo,<br />
nel qu<strong>al</strong>e non si rivolge direttamente a nessuno <strong>al</strong>la seconda persona. Chi vuole capire capisca,<br />
sia Dio che gli amici.<br />
Nel monologo inizi<strong>al</strong>e ha fatto ricorso <strong>al</strong> linguaggio del dubbio. Sono seguiti tre cicli di discorsi<br />
che costituiscono un di<strong>al</strong>ogo fra i tre amici e Giobbe; tutti parlavano il linguaggio della<br />
teologia. I tre amici parlano di Giobbe, di Dio, e <strong>dei</strong> principi: essi praticano una teologia<br />
«d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to». Giobbe parla di sé, di Dio, e della propria vita: egli pratica una teologia «d<strong>al</strong> basso».<br />
Ma tutto questo discorso su Dio <strong>al</strong>la terza persona non ha portato a nulla. In apparenza gli<br />
amici sanno tutto su Dio, ma non parlano m<strong>ai</strong> a Dio. Anche Giobbe sa molte cose su Dio, ma<br />
è nel dubbio e decide di rivolgersi a Dio <strong>al</strong>la seconda persona, con quello che è il linguaggio<br />
della preghiera. «Io voglio rivolgermi <strong>al</strong>l’Onnipotente [...]. Voi, invece, non siete che <strong>dei</strong> manipolatori<br />
di f<strong>al</strong>sità» (13,3-4). Gli amici teologi, anche se hanno incoraggiato Giobbe <strong>al</strong>la preghiera,<br />
(5,8; 22,27), sembrano prendersi gioco della preghiera di Giobbe. Giobbe se ne lamenta:<br />
«Sono un oggetto di beffa per il mio vicino, io che gridavo a Dio per avere una risposta!»<br />
(12,4).<br />
Nel primo ciclo di discorsi, Giobbe si rivolge direttamente a Dio <strong>al</strong>l’interno di ciascuna<br />
delle risposte agli amici (dopo Elifaz: 7,7-21; dopo Bildad: 9,25-31 e 10,1-22; dopo Zofar:<br />
13,20-28 e 14,1-22). La preghiera di Giobbe ha un ruolo molto importante in questo ciclo, ma<br />
Dio non risponde. La sua preghiera diventa molto più breve nel secondo ciclo di discorsi, e si<br />
limita <strong>al</strong>la risposta ad Elifaz (<strong>al</strong>cuni versetti nei qu<strong>al</strong>i Giobbe si rivolge a Dio dandogli del tu,<br />
<strong>al</strong>l’interno di testi nei qu<strong>al</strong>i parla di Dio <strong>al</strong>la terza persona, «egli»: 16, 7-8 e 17,3-4). Nel terzo<br />
ciclo non c’è più <strong>al</strong>cuna traccia di preghiera. Un’ultima volta, come un’ultima speranza,<br />
Giobbe si rivolge ancora a Dio nel monologo fin<strong>al</strong>e (30,20-31), proprio prima di passare <strong>al</strong><br />
suo giuramento di innocenza.<br />
Le sue preghiere non sono né inni di lode né preghiere di rendimento di grazie, ma lamentazioni.<br />
Giobbe supplica Dio (7,7), accusa Dio (7,12), e cita in processo Dio perché gli dia una risposta<br />
e delle spiegazioni (10,2). Ma, qu<strong>al</strong>e che sia il contenuto della preghiera, Giobbe dice<br />
sempre quello che sente nel profondo del cuore. «Perciò non terrò chiusa la bocca, parlerò<br />
nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore» (7,11). La preghiera di<br />
Giobbe è un grido di sofferenza, t<strong>al</strong>volta pieno di amarezza e di parole violente. Eppure Giobbe<br />
non ha m<strong>ai</strong> m<strong>al</strong>edetto Dio. Il satana non ha ancora vinto la sua sfida, la sua scommessa.<br />
In diverse <strong>al</strong>tre occasioni Giobbe, anche se non si rivolge direttamente a Dio <strong>al</strong>la seconda<br />
persona, fa vedere di voler mantenere il contatto con Dio e continuare ad appellarsi a lui.<br />
Questo appare chiaramente d<strong>al</strong>le sue espressioni di speranza (16,18–17,1; 19,23-29). Il suo<br />
giuramento di innocenza (27,2-6; 31) è un <strong>al</strong>tro modo per forzare Dio ad agire.<br />
Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare, del silenzio, del dubbio, della teologia<br />
e infine della preghiera. Ma la preghiera non è diventata un vero di<strong>al</strong>ogo. Giobbe ha parlato a<br />
Dio, ma Dio ha mantenuto il silenzio. Giobbe non sa più cosa fare: «Ecco la mia firma [o<br />
«Ecco la mia ultima parola»]! L’Onnipotente mi risponda!» (31,35). L’aspirazione di Giobbe<br />
è di sentire il linguaggio divino, la parola di Dio. Egli non lo chiede più direttamente a Dio,<br />
ma lo esprime <strong>al</strong>la terza persona. Dio non ha ancora risposto, c’è forse qu<strong>al</strong>che <strong>al</strong>tro che può<br />
parlare questo linguaggio divino. Il testo conclude in questo modo: «Fine delle parole di<br />
Giobbe» (31,40c). In effetti, come vedremo, Giobbe non prenderà così spesso la parola nel resto<br />
del libro.
74 Giobbe<br />
7.2.3.6. Una voce fuori campo: Il linguaggio della sapienza<br />
Il capitolo 28 rappresenta una pausa. Non è pronunciato né da Giobbe né d<strong>ai</strong> tre amici, ma<br />
da una voce fuori campo. I discorsi di Giobbe e degli amici erano giunti ad un punto morto.<br />
Gli amici non parleranno più, Giobbe pronuncerà un ultimo monologo (29–31) per poi tacere<br />
anche lui. La voce fuori campo interviene per imprimere <strong>al</strong>la ricerca della soluzione della vicenda<br />
di Giobbe una nuova direzione, quella della tradizione sapienzi<strong>al</strong>e.<br />
Il capitolo è facilmente divisibile in tre parti: vv. 1-12, vv. 13-20, vv. 21-28. Il tema è quello<br />
della ricerca del luogo della sapienza. Nelle prime due parti il luogo è sconosciuto e inaccessibile,<br />
mentre nella terza parte esso viene svelato. Protagonista della ricerca è l’uomo, ma<br />
in ognuna delle parti mette in azione una sua particolare capacità di ricerca: nella prima c’è la<br />
ricerca dell’homo faber, nella seconda la ricerca dell’homo mercator, nella terza la ricerca<br />
dell’homo religiosus.<br />
Soffermiamoci nella lettura del testo.<br />
La ricerca dell’homo faber (28,1-12). La prima ricerca che, pur meritando gli elogi del nostro<br />
autore, non mette però cartelli e segn<strong>al</strong>i veri sulla via della sapienza, è la ricerca<br />
dell’homo faber. “Faber” è l’uomo che lavora con i muscoli delle sue braccia e con l’ardimento<br />
del suo spirito, per penetrare nelle viscere della terra e per strappare <strong>al</strong> sottosuolo le sue ricchezze.<br />
L’autore di Giobbe ha grande stima <strong>dei</strong> ricercatori del sottosuolo, <strong>dei</strong> cercatori e scavatori<br />
di met<strong>al</strong>lo. Ma sa che la loro ricerca è limitata e destinata <strong>al</strong> f<strong>al</strong>limento di fronte <strong>al</strong>la<br />
domanda:<br />
Ma la sapienza da dove si trae?<br />
E il luogo dell’intelligenza dov’è? (v. 12).<br />
Non sono l’arte e l’ardimento dell’homo faber che raggiungono il tesoro della sapienza.<br />
La ricerca dell’homo mercator (28,13-20). Non solo l’homo faber, ma anche l’abisso della<br />
terra da cui l’uomo estrae i met<strong>al</strong>li, e poi addirittura il mare, dichiarano il loro f<strong>al</strong>limento: non<br />
sono in grado di dare indicazioni a chi è in cerca della sapienza.<br />
Se l’homo faber porta <strong>al</strong>la superficie oro e argento, lo fa per commerciarlo, per trovare profitto<br />
economico. Non per nascondere il frutto della sua fatica in chissà qu<strong>al</strong>e luogo o deposito.<br />
Nasce dunque la necessità dello scambio <strong>dei</strong> beni economici, i traffici e l’attività commerci<strong>al</strong>e.<br />
Anche il commercio chiede capacità, esperienza, fatica e coraggio. Ma anche <strong>al</strong>l’homo<br />
mercator viene posta la domanda:<br />
Ma da dove viene la Sapienza?<br />
E il luogo dell’intelligenza dov’è? (Gb 28,20).<br />
La risposta implicita dice che neanche il mercante lo sa. Il testo si chiude dunque come<br />
cominciava: col f<strong>al</strong>limento della conoscenza umana, se essa è lasciata a se stessa.<br />
La ricerca dell’homo religiosus (28,21-28). Da buon maestro di sapienza, l’autore di Gb 28<br />
procede prima negando e poi affermando. Prima esclude che, scendendo negli anfratti della<br />
terra e poi viaggiando fino ad Ofir e fino <strong>al</strong>l’Etiopia, l’uomo possa trovare la sapienza. Poi<br />
presenta il versante positivo della montagna della sapienza, ardua da esplorare e da sc<strong>al</strong>are.<br />
Dopo aver ribadito che la sapienza è nascosta e inaccessibile <strong>ai</strong> viventi che abitano sulla faccia<br />
della terra e che tentano di scendere nelle sue viscere, ed è ignota anche agli uccelli che<br />
d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to del cielo scrutano ogni punto del mare e della terra, esposti <strong>al</strong> loro sguardo corsaro,<br />
acuto e penetrante, <strong>al</strong> v. 23 opera un improvviso e decisivo cambio di soggetto. Prima<br />
l’iniziativa era dell’uomo delle miniere e dell’uomo del commercio e degli scambi. Ora invece<br />
è detto che solo Dio conosce la via e il luogo dove si nasconde la sapienza:<br />
Dio solo ne conosce la via,<br />
lui solo sa dove si trovi (v. 23).
Giobbe 75<br />
Il motivo per cui a Dio è conoscibile ed accessibile ciò che è nascosto agli uomini e agli<br />
uccelli del cielo sta anzitutto nel fatto che il suo sguardo è infinitamente più lungimirante di<br />
quello dell’uomo, perché è lo sguardo del creatore. Al v. 28 si torna a parlare dell’uomo per<br />
dire, però, non che egli raggiunge la sapienza, ma che è Dio a rivelargliela. Ciò che è inaccessibile<br />
<strong>ai</strong> tentativi dell’uomo non è impossibilità assoluta. L’uomo ha un orecchio per ascoltare<br />
gli insegnamenti della sapienza ed ha <strong>dei</strong> piedi per camminare sulla sua via, ma la parola che<br />
giungendo <strong>al</strong> suo orecchio gli fa conoscere la sapienza è la parola di Dio.<br />
Nella vita dell’uomo c’è incessante l’attività della ricerca, ma la ricerca è differenziata. Egli<br />
può cercare i met<strong>al</strong>li nelle miniere, può cercare lo zaffiro o le perle nei centri di mercato,<br />
ma la ricerca della sapienza richiede itinerari diversi, gli itinerari non della terra, del mare o<br />
del deserto, ma gli itinerari dello spirito, sui qu<strong>al</strong>i cade la luce della rivelazione divina.<br />
Qui conviene trarre d<strong>al</strong> testo una citazione brevissima e addirittura monca. Bisogna infatti<br />
metterne in ris<strong>al</strong>to l’importanza, perché segna una svolta, la grande svolta:<br />
E [Dio] disse <strong>al</strong>l’uomo (v. 28a).<br />
Dio che tutto vede e tutto creò, tenendo l’occhio suo di creatore fisso sulla sapienza, in<br />
questo testo, quando parla <strong>al</strong>l’uomo, non gli dice dove è la sapienza, ma gli dice che cosa è:<br />
E [Dio] disse <strong>al</strong>l’uomo:<br />
“Ecco, temere Dio, questo è sapienza<br />
e schivare il m<strong>al</strong>e, questo è intelligenza” (v. 28).<br />
È sapiente dunque chi teme Dio. Chi teme Dio ha uno sguardo più profondo e più acuto di<br />
chi scende nelle profondità della terra per estrarre l’oro e l’argento, ed intraprende una ricerca<br />
più produttiva e gratificante di chi commercia oro di Ofir o topazi d’Etiopia.<br />
“Temere Dio” e “schivare il m<strong>al</strong>e” è l’attività propria dell’uomo religioso, che sa di non essere<br />
autosufficiente ma di dipendere da Dio.<br />
L’homo faber e l’homo mercator svolgono attività degne di ammirazione e indispensabili<br />
<strong>al</strong>l’esistenza. Ma se non hanno il senso di Dio producono ricchezza e mezzi di sostentamento<br />
senza conquistarsi ciò che v<strong>al</strong>e più dell’oro e dell’argento. La loro sarebbe un’attività e<br />
un’esistenza dimezzata. Un’esistenza che tende a seguire le leggi spesso perverse del mercato<br />
e non quelle che tendono ad assicurare una buona e giusta convivenza. Un’esistenza che assolutizza<br />
il lavoro e il profitto tende poi sempre più a fare a meno di Dio e a disconoscere il suo<br />
superiore arbitrato e la sua superiore signoria sul lavoro e sul commercio, sul sacrificio degli<br />
uomini e sul loro mutuo rapporto.<br />
La ricerca dell’homo religiosus, dell’uomo che si pone in attento ascolto della Parola di<br />
Dio, è la ricerca che è destinata <strong>al</strong> successo: a costui Dio rivela la via della sapienza.<br />
Perché a questo punto del libro è stato collocato il poema sulla ricerca della sapienza? Se<br />
nei discorsi di Giobbe e degli amici non si riesce ad intravedere una via d’uscita <strong>al</strong> problema<br />
della situazione di Giobbe, la voce fuori campo del poema sapienzi<strong>al</strong>e invita ad affinare il metodo<br />
di indagine. Finora i ragionamenti e di Giobbe e <strong>dei</strong> tre amici sono partiti d<strong>al</strong> basso ed<br />
hanno preteso, d<strong>al</strong>la stessa prospettiva, di giudicare l’agire di Dio in tutta la vicenda. Occorre<br />
invece tener conto della sapienza che viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to. L’agire di Dio non può essere compreso<br />
da una ricerca che parte solo d<strong>al</strong> basso, occorre aprirsi <strong>al</strong>la rivelazione che viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to. Rivelazione<br />
che l’uomo può disporsi a ricevere in dono. L’atteggiamento che più favorisce<br />
l’accoglienza del dono della sapienza che viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to è quello dell’homo religiosus.<br />
7.2.3.7. Il linguaggio profetico-carismatico<br />
Perché Eliu, il quarto visitatore (capp. 32–37) è presente nel libro di Giobbe? Eliu è introdotto<br />
esattamente a questo punto del libro per ragioni interne <strong>al</strong>l’intreccio, e come ulteriore<br />
mezzo per criticare <strong>al</strong>cune concezioni e tradizioni religiose dure a morire. Il modo in cui la
76 Giobbe<br />
sua comparsa a questo punto del libro serve <strong>al</strong>l’intreccio è collegato col fatto che le sue parole<br />
vengono proposte sotto l’egida di una pretesa di ispirazione divina.<br />
Ad eccezione di Elifaz in 4,12–5,7, Giobbe e gli amici hanno esposto le proprie diatribe<br />
sulla base dell’esperienza umana e dell’osservazione delle cose del mondo. Ripetutamente,<br />
Giobbe ha desiderato, richiesto, persino preteso un confronto con Dio in cui Dio gli parlasse<br />
direttamente. Possiamo quindi ben comprendere tutta la forza delle sue obiezioni <strong>al</strong>la presenza<br />
di Eliu, basate come sono sul fatto che, dopo il capitolo 31, sarebbe natur<strong>al</strong>e aspettarsi di udire<br />
la voce di Dio <strong>dei</strong> capitoli 38–41. E tuttavia, un’ulteriore riflessione suggerisce che t<strong>al</strong>e sequenza<br />
offrirebbe una soluzione troppo scontata.<br />
Qu<strong>al</strong>e rivelazione viene da Dio? Un riferimento a Gen 2–3 e a 1Re 22,5-22 ci <strong>ai</strong>uterà a<br />
comprendere come vada interpretato Eliu. Sia in Gen 2–3 sia in 1Re, un essere umano è posto<br />
di fronte <strong>al</strong>la voce e agli ordini di Dio, e poi a un’<strong>al</strong>tra voce, che anch’essa sostiene di parlare<br />
a nome di Dio. Nel caso della Genesi, il consiglio del serpente non viene offerto in diretta opposizione<br />
a quello di Dio, ma piuttosto come una comunicazione <strong>al</strong>ternativa di ciò che Dio sa<br />
e vuole che gli esseri umani sappiano. An<strong>al</strong>ogamente, nell’episodio di 1Re, sia Mic<strong>ai</strong>a sia il<br />
gruppo <strong>dei</strong> profeti affermano sinceramente di parlare a nome di Dio, e Mic<strong>ai</strong>a si spinge addirittura<br />
a confermare il gruppo <strong>dei</strong> profeti nella sua pretesa di parlare per ispirazione! Ma, subito<br />
dopo, fa notare che la loro ispirazione serve a un fine diverso da quello che essi credono.<br />
In entrambi questi racconti, il lettore dispone di una prospettiva che è negata <strong>ai</strong> personaggi<br />
princip<strong>al</strong>i della vicenda. (La donna infatti non era presente quando Dio parlò <strong>al</strong>l’uomo; e il re<br />
di Israele non era presente <strong>al</strong> consiglio divino.) Da questo punto di vantaggio, il lettore è in<br />
grado di comprendere che colui che deve prendere una decisione si trova di fronte a due rivendicazioni<br />
di verità divina. Il problema, quindi, non è semplicemente se obbedire o no; il<br />
problema è: qu<strong>al</strong> è la vera voce di Dio? In una simile situazione, l’ascoltatore (il primo uomo<br />
e la prima donna; il re di Israele) è rinviato <strong>al</strong>la propria mor<strong>al</strong>ità: la decisione su qu<strong>al</strong>e sia la<br />
vera voce di Dio rivela l’intima re<strong>al</strong>tà mor<strong>al</strong>e e spiritu<strong>al</strong>e dell’ascoltatore, che è poi anche colui<br />
che dovrà dare una risposta.<br />
Abbiamo questa dinamica in atto nel prologo del libro di Giobbe (dove la moglie fedele<br />
svolge il ruolo di avvocato del diavolo nei confronti di Giobbe) e nei di<strong>al</strong>oghi (dove gli amici<br />
fedeli svolgono lo stesso ruolo). Proprio perché la moglie e gli amici argomentano perlopiù in<br />
base <strong>al</strong>l’osservazione e <strong>al</strong>l’esperienza, se le parole conclusive di Giobbe nel capitolo 31 fossero<br />
immediatamente seguite d<strong>ai</strong> discorsi divini di rivelazione <strong>dei</strong> capitoli 38–41, le pretese <strong>al</strong>ternative<br />
degli amici da un lato e di Dio d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro rappresenterebbero una contesa impari. Con<br />
la loro pretesa di essere ispirati da Dio, i discorsi di Eliu si pongono immediatamente prima<br />
<strong>dei</strong> discorsi divini <strong>al</strong> fine di porre in modo vivido, ineludibile e tormentoso a Giobbe<br />
l’esigenza, ancora una volta, di soppesare quanto gli viene detto sul piatto della bilancia della<br />
sua coscienza e del suo spirito.<br />
È questa, dunque, la funzione che gli interventi di Eliu assolvono nel libro di Giobbe, collocandosi,<br />
come si collocano, tra le ultime parole di Giobbe e i discorsi divini d<strong>al</strong> seno della<br />
tempesta: essi sono giustapposti <strong>ai</strong> discorsi divini per creare una situazione in cui Giobbe<br />
debba decidere qu<strong>al</strong>e «rivelazione» venga da Dio.<br />
Siccome la teologia è la fede che cerca di comprendere, essa rimane un linguaggio umano.<br />
Il linguaggio teologico umano non ha condotto ad <strong>al</strong>cun risultato e la conversazione fra i tre<br />
amici e Giobbe si è fermata. Giobbe aveva concluso auspicando il linguaggio divino (31,35).<br />
Gli amici hanno abbandonato il loro discorso perché si rendono conto che Dio solo può rispondere<br />
a Giobbe (32,13). Ci sono tuttavia esseri umani che sono convinti di proclamare la<br />
parola di Dio. I profeti, infatti, introducono i loro oracoli in questo modo: «Così parla il Signore»,<br />
e li concludono con: «Dice il Signore». Non parlano in nome proprio, ma in nome di<br />
Dio. L’«io» nell’oracolo non si riferisce <strong>al</strong> profeta, ma a Dio. Il linguaggio profetico e carismatico<br />
afferma di essere la parola di Dio.
Giobbe 77<br />
Eliu è la persona che offre a Giobbe il linguaggio divino. È cosciente del suo essere un<br />
uomo (33,6), di essere ancora giovane e dunque di aver meno esperienza e saggezza umana<br />
<strong>dei</strong> tre amici, ma questo non è un problema per lui. Le sue parole non trovano la loro origine<br />
nelle tre fonti della teologia, ma nello spirito di Dio. Eliu è un uomo ispirato: «Nell’uomo c’è<br />
uno spirito, il soffio dell’Onnipotente, che rende intelligente» (32,8 [2x].18; 33,4 [2x]; 37,10).<br />
Eliu, su questo punto, è simile <strong>al</strong> profeta Geremia, che, ancora giovane, era invitato a proclamare<br />
la parola di Dio (Ger 1,67). Eliu attinge la sua scienza «da lontano», dunque da Dio,<br />
poiché Dio è lontano (36,3.25). Può dunque affermare di avere, come Dio (37,16), una sapienza<br />
consumata (36,4). È veramente la bocca di Dio. Sente dentro di sé una passione irresistibile<br />
a parlare: «mi preme lo spirito che è dentro di me» (32,18), cosa molto tipica anche nei<br />
profeti (Ger 20,9; Am 3,3-8). Dio fa fremere il cuore di Eliu (37,1), come fa anche con Geremia<br />
(Ger 4,19). Anche il suo nome evoca il profetismo. «Eliu [Elihu]» è da mettere in rapporto<br />
con «Elijahu [Elia]», il profeta che parlò in nome di YHWH, e fu portato via nel turbine<br />
(2Re 2,1), e che doveva ritornare come precursore del giorno del Signore (Ml 3,23-24; Mt<br />
11,10). Dopo che Eliu ha parlato in nome di Dio, Dio stesso appare nel turbine (38,1). Eliu è<br />
veramente il precursore di YHWH.<br />
Eliu parla della collera di Dio (35,15; 36,13.33) come fanno molti profeti (Is 10,5;<br />
13,3.9.13; Ger 4,8.26; 10,24; 12,13). E siccome un profeta ha gli stessi sentimenti di Dio, anche<br />
Eliu è pieno di collera (32,2 [2x].3.5). Quando i profeti si rivolgono a qu<strong>al</strong>cuno, gli parlano<br />
in maniera molto person<strong>al</strong>e. I tre amici non lo hanno m<strong>ai</strong> fatto, Eliu è il solo a farlo. Si rivolge<br />
a Giobbe chiamandolo per nome, «Giobbe» (33,1.31; 37,14; cfr. 34,5.7.35; 35,16).<br />
Eliu è convinto, come lo sono i profeti, che Dio parla <strong>al</strong>l’essere umano. Dio lo fa in vari<br />
modi: attraverso le visioni (33,15-18), frequenti nella vita <strong>dei</strong> profeti stessi (Am 7,1-9; 8,1-3;<br />
9,1-4), e anche attraverso la sofferenza (33,19-22). Gli amici cercavano soprattutto di trovare<br />
la causa della sofferenza di Giobbe; Eliu parla invece dello scopo della sofferenza di Giobbe.<br />
Gli amici partivano d<strong>al</strong> principio causa-effetto. Dio è <strong>al</strong>l’origine dell’ordine, e dunque è giusto.<br />
Se Giobbe soffre, deve essere colpevole. Giobbe, invece, afferma la propria innocenza e<br />
conclude che Dio è ingiusto. Eliu respinge tanto la soluzione degli amici quanto quella di<br />
Giobbe. Dio è giusto, ma la sofferenza può essere una lezione, un avvertimento (33,16-30;<br />
36,8-12) per certi peccati attu<strong>al</strong>i, per condurre l’essere umano <strong>al</strong>la conversione; e anche per<br />
certi peccati possibili, per preservare l’essere umano d<strong>al</strong>l’orgoglio (33,17). La sofferenza conduce<br />
in questo modo <strong>al</strong>la guarigione d<strong>al</strong>l’orgoglio, a una vita nuova e s<strong>al</strong>va d<strong>al</strong>la morte<br />
(33,18.22.24.28.30). Eliu, come un certo numero di uomini carismatici, si sente chiamato <strong>al</strong><br />
ministero di guarigione.<br />
L’essere umano, secondo Eliu, si trova a dover scegliere tra l’ascolto della rivelazione divina<br />
e il suo rifiuto (36,11-12), cosa che i profeti affermano spesso (Ger 17,24-27; 22,4-5). E,<br />
come tutti i profeti, Eliu passa anche <strong>al</strong>l’esortazione: «F<strong>ai</strong> attenzione...» (36,18). Ripete anche,<br />
come un ritornello, l’invito che fanno i profeti ad ascoltare (32,10; 33,1.31.33; 34,2.10.16.34;<br />
37,2 [2x].14; cfr. Am 3,1.13; 4,1; 5,1). Questo dovrebbe essere il cammino per essere accolti<br />
«nell’amore» di Dio (hesed: la le<strong>al</strong>tà, la fedeltà <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>leanza, 37,13), di cui parlano spesso i<br />
profeti (Os 2,21; 10,12). Eliu, come tutti i profeti, è pieno di un ottimismo quasi infantile.<br />
Quando tutti hanno abbandonato ogni speranza, il profeta conserva la fiducia. Dopo le tenebre,<br />
verrà la luce. Anche se Giobbe crede di essere prossimo <strong>al</strong>la morte (33,22), se la caverà e<br />
ne uscirà non solo indenne, ma anche ringiovanito: «tornerà <strong>ai</strong> giorni della sua adolescenza»<br />
(33,25).<br />
Eliu afferma che Dio parla anche in un modo completamente diverso: in particolare attraverso<br />
la natura. La tempesta è la «voce» di Dio (37,2-5). Eliu invita Giobbe a contemplare Dio nella<br />
sua grandezza e nella sua sapienza (36,24–37,24). Egli invita Giobbe a non rimanere ripiegato<br />
su di sé, ma ad aprire gli occhi e a guardarsi intorno: «Contempla il cielo e osserva; considera<br />
le nubi...» (35,5), e a contemplare Dio nelle sue meraviglie: «Ecco, Dio è sublime nella sua potenza...»<br />
(36,22.26). L’essere umano che soffre deve cercare di dimenticare se stesso per pensare
78 Giobbe<br />
ad <strong>al</strong>tra cosa. Ci sono così tante meraviglie da scoprire... La persona potrà anche costatare che ci<br />
sono sofferenze peggiori e che non è la sola <strong>al</strong> mondo a subire <strong>dei</strong> rovesci.<br />
Eliu ha tenuto quattro lunghi discorsi (sei capitoli, contro i quattro di Elifaz, i tre di Bildad<br />
e i due di Zofar). Dopo il suo primo discorso ha invitato Giobbe a rispondergli (33,5.32), e<br />
anche dopo il secondo (34,33). Ma Giobbe non ha detto nulla e <strong>al</strong>lora Eliu ha continuato a<br />
parlare. Giobbe non ha m<strong>ai</strong> risposto e anche i tre amici hanno taciuto. In re<strong>al</strong>tà, chi può confutare<br />
gli argomenti di un profeta? Chi può contraddire uno spirito carismatico? Infatti, i profeti<br />
parlano in nome di Dio; il loro linguaggio è un linguaggio divino ispirato. La teologia, che<br />
rimane un linguaggio umano, permette scambio e discussione; e questo ha reso possibile un<br />
certo di<strong>al</strong>ogo fra i tre amici e Giobbe. D’<strong>al</strong>tra parte Giobbe aveva detto chiaramente <strong>ai</strong> tre amici<br />
che essi non godevano di una ispirazione divina (26,4). Con Eliu la situazione è molto<br />
diversa. Il linguaggio profetico è inconfutabile. Ci sono solo due opzioni: o si accetta il profeta<br />
o lo si rifiuta. O si ascolta il suo linguaggio o lo si riduce <strong>al</strong> silenzio. Giobbe ha ascoltato<br />
Eliu e mantiene il silenzio. Si attiene <strong>al</strong>l’ultima esortazione di Eliu: «Per questo gli uomini lo<br />
[Dio] temono...» (37,24).<br />
Eliu ha avuto un ruolo molto particolare. All’inizio, an<strong>al</strong>izza ciò che gli amici e soprattutto<br />
Giobbe hanno detto, e cita varie volte le parole stesse di Giobbe (33,8-11; 34,5-6.9; 35,2-3).<br />
Dimostra in questo modo che il linguaggio teologico non conduce a nulla. Verso la fine <strong>dei</strong><br />
suoi discorsi, Eliu rimanda <strong>al</strong>la grandezza di Dio nella tempesta e invita Giobbe <strong>al</strong>la meditazione<br />
attraverso le domande che gli pone. Egli ha condotto Giobbe a cambiare il linguaggio<br />
della sua preghiera. Raccomanda a Giobbe di trasformare la sua lamentazione e la sua supplica<br />
– nelle qu<strong>al</strong>i è troppo ripiegato su se stesso (35,9-14) – in linguaggio di adorazione<br />
(36,24), nel qu<strong>al</strong>e l’essere umano esce gradu<strong>al</strong>mente da se stesso per aprirsi agli <strong>al</strong>tri e <strong>al</strong>l’Altro.<br />
7.2.3.8. Il linguaggio della mistica<br />
Giobbe aveva sperato che un linguaggio divino desse una risposta <strong>al</strong>le sue numerose domande<br />
(31,35). Eliu, il profeta, ha voluto rispondere a questa aspettativa di Giobbe, e ha proclamato<br />
la parola di Dio. Mentre Giobbe ascolta Eliu e passa gradu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>l’adorazione, è<br />
preso da un’esperienza meravigliosa. Si rende conto che non sta più sentendo la voce profetica<br />
di Eliu, ma che la voce che gli sta parlando ora è Dio stesso: «Allora YHWH rispose a Giobbe<br />
di mezzo <strong>al</strong> turbine così» (38,1). L’atteggiamento di adorazione ha reso Giobbe atto a udire<br />
il linguaggio divino, non più con la mediazione di un profeta, né con mediatori celesti sui qu<strong>al</strong>i<br />
Giobbe aveva contato (9,33; 16,19-21; 19,25-27), ma direttamente nel suo cuore.<br />
Quasi tutti i personaggi del libro hanno parlato della creazione, ma nel suo legame con il<br />
principio causa-effetto della teoria della retribuzione. La creazione, secondo gli amici, prova<br />
la giustizia di Dio, ma secondo Giobbe essa prova l’arbitrarietà di Dio. Eliu ha posto certi interrogativi<br />
sulla grandezza della creazione e ha così invitato Giobbe ad un atteggiamento di<br />
adorazione. Anche YHWH parla della creazione, ma come di un mistero. Dio non dà risposte,<br />
pone interrogativi, uno dopo l’<strong>al</strong>tro, su molti soggetti, ad eccezione del problema di Giobbe<br />
stesso. Giobbe si rende conto sempre più di quanto sia piccolo nell’insieme immenso della<br />
creazione, continua a uscire da se stesso, a dimenticarsi, e ad adorare. E percepisce nuovamente<br />
la grandezza, l’ordine e la sapienza della divina creazione. Tutto, nella vita di Giobbe,<br />
può riprendere le giuste proporzioni. Giobbe aveva sperato di parlare a Dio da uomo a uomo<br />
(9,32; 16,21), ora è in presenza di Dio come Dio. La prima risposta di Giobbe è quindi il silenzio<br />
(40,4-5).<br />
Ma per Giobbe, il grande interrogativo sul caos nella sua vita rimane. Su questo punto, Dio<br />
gli dà ragione, e affronta dunque nel suo secondo discorso il tema del caos nel mondo. Ma<br />
l’interrogativo essenzi<strong>al</strong>e rimane: Che fare del caos? Il mondo non è perfetto, ed è molto<br />
complesso. L’agricoltore vuole la pioggia, ma il turista vuole il sole. Come può Dio conciliare<br />
tutti questi interessi? Dio è nell’imbarazzo, e soffre quanto Giobbe. Forse Giobbe può risol-
Giobbe 79<br />
vere il problema; in questo caso Dio gli renderà certamente omaggio (40,9-14). Dio ha scelto<br />
di mantenere il caos sotto controllo, ma senza eliminarlo completamente. Questo gli sembra la<br />
soluzione migliore, lo ha imparato per esperienza. Dio aveva sognato un giorno di ottenere<br />
una vittoria completa sul caos (Gen 1,2), ma aveva scoperto rapidamente che il caos continuava<br />
ad esistere (Gen 6,5). Ne soffrì, «si afflisse in cuor suo», e «cambiò idea»; si pentì e decise<br />
di distruggere il mondo con un diluvio (Gen 6,6-7). Allora veramente tutto il caos sarebbe<br />
sparito. Ma la distruzione tot<strong>al</strong>e conduce a un m<strong>al</strong>e ancora più grande e a un caos peggiore.<br />
Dio decide <strong>al</strong>lora di non ricominciare m<strong>ai</strong> più un diluvio e di accettare piuttosto il caos,<br />
l’imperfezione e i limiti nel mondo (Gen 8,21). Il caos fa parte di un mondo che è limitato.<br />
Sarebbe un mondo migliore se Dio distruggesse tutto a causa di questo caos? In presenza di<br />
un Dio del genere, è ora la volta di Giobbe di «cambiare idea» su cosa sia l’essere umano e<br />
cosa sia Dio (42,6).<br />
Il narratore ha avuto ragione quando ha detto, qu<strong>al</strong>che capitolo prima: «Fine delle parole di<br />
Giobbe» (31,40c). Giobbe, infatti, è ritornato <strong>al</strong> silenzio, ma un silenzio diverso da quello<br />
dell’inizio del libro, <strong>al</strong> momento dell’arrivo <strong>dei</strong> tre amici (2,13). Allora né Giobbe né gli amici<br />
sapevano cosa dire. Si potrebbe parlare di un silenzio fondato sull’incomprensione di fronte<br />
<strong>al</strong>la grande sofferenza. Il silenzio della fine è <strong>al</strong>tra cosa. In precedenza, Giobbe parlava di Dio,<br />
ora, ascolta e vede Dio: «Ti ho udito con i miei orecchi, e ora i miei occhi ti hanno visto» [ma<br />
anche: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto»] (42,5). Nel libro<br />
ritorna spesso il verbo «parlare», e par<strong>al</strong>lelamente «udire». Il grande cambiamento è che<br />
Giobbe ha udito YHWH. Ma la grande novità è che il fatto di «istruire» e di «sapere», di cui<br />
tutti avevano parlato, è sostituito d<strong>al</strong> fatto di «vedere». Giobbe ha raggiunto il linguaggio della<br />
mistica nel qu<strong>al</strong>e parlare diventa tacere e sapere diventa vedere.<br />
Giobbe ha fatto l’esperienza che il contatto tra cielo e terra è possibile. Ogni forma umana<br />
di linguaggio religioso può scomparire. Il linguaggio della fede non ha più nulla da offrire, essa<br />
ha compiuto la sua funzione specifica e non può aggiungere nulla <strong>al</strong>l’essere umano che ascolta<br />
e vede Dio. L’azione del libro, che è stata la parola, è sospesa. Il racconto sta per finire.<br />
7.2.4. Il verdetto: «ha parlato di me rettamente»<br />
Il racconto è iniziato dopo che il satana ha lanciato, per ben due volte, una sfida a YHWH:<br />
«Vedr<strong>ai</strong> se non ti m<strong>al</strong>edirà in faccia» (1,11; 2,5). Il grande interrogativo del libro è: Come parlare<br />
di Dio nella sofferenza? I diversi attori hanno parlato diversi linguaggi religiosi. Anche<br />
Giobbe ha spesso cambiato di linguaggio; ha anche parlato duramente, e tuttavia non ha m<strong>ai</strong><br />
m<strong>al</strong>edetto Dio, nemmeno nel momento in cui ha avuto la possibilità di «vedere» Dio (42,5).<br />
Giobbe ha superato la prova. Dio può concludere, egli pure per due volte, che Giobbe «ha parlato<br />
rettamente di lui» (42,7.8).<br />
La sfida ha luogo in cielo, ma tutto il discorso si svolge sulla terra. Il satana ha perduto la<br />
sfida, e non deve più riapparire nel racconto. YHWH dà il suo verdetto <strong>ai</strong> tre amici che, forzando<br />
la re<strong>al</strong>tà, hanno irritato Giobbe. Essi ricoprivano, in un certo modo, il ruolo del satana, qui<br />
sulla terra. Le loro parole avrebbero potuto condurre Giobbe a m<strong>al</strong>edire Dio. Essi non hanno<br />
parlato correttamente di Dio <strong>al</strong>l’essere umano che soffre. Il loro linguaggio era una particolare<br />
specie di linguaggio teologico teorico, sordo <strong>al</strong>la re<strong>al</strong>tà. E così il loro linguaggio non era corretto.<br />
Questo genere di linguaggio teologico non è adatto per parlare <strong>al</strong>l’essere umano che soffre.<br />
In un caso del genere, deve cedere il posto ad <strong>al</strong>tri linguaggi più adeguati.<br />
Giobbe ha percorso un lungo cammino e ha parlato diversi linguaggi religiosi. Anche se<br />
t<strong>al</strong>volta ha utilizzato un linguaggio duro, tuttavia ha sempre parlato di Dio «rettamente», con<br />
giustizia, perché è sempre rimasto corretto, giusto e onesto con se stesso (7,11; 13,14-16).<br />
Molti <strong>dei</strong> protagonisti avevano tutte le risposte. Ma non Giobbe, che, in questo modo, aveva<br />
una possibilità di evoluzione. Partendo d<strong>al</strong>la fede popolare, Giobbe ha raggiunto la mistica.<br />
Si dice t<strong>al</strong>volta che il libro di Giobbe non offre <strong>al</strong>cuna soluzione perché si ritiene che il libro<br />
tratti del problema della sofferenza. Il problema del libro si situa <strong>al</strong>trove, perché pone la
80 Giobbe<br />
domanda: Come parlare di Dio nel momento della sofferenza? E su questo, il libro dà veramente<br />
una soluzione. La sofferenza in sé rimane un problema; non c’è una spiegazione per essa,<br />
e certamente non la teoria della retribuzione basata sul principio di causa-effetto.<br />
7.2.5. La condizione fin<strong>al</strong>e: la restaurazione doppia di Giobbe<br />
Ogni racconto comincia con una condizione inizi<strong>al</strong>e e si conclude, dopo la trasformazione,<br />
con una condizione fin<strong>al</strong>e. Tra queste due condizioni esiste sempre una correlazione. E questo<br />
si verifica in modo eccezion<strong>al</strong>e nel libro di Giobbe. La condizione inizi<strong>al</strong>e (1,1-5) descrive<br />
Giobbe stesso (v. 1), i figli (v. 2), gli anim<strong>al</strong>i (v. 3), le feste (v. 4), e il ruolo di Giobbe come<br />
mediatore (v. 5). La condizione fin<strong>al</strong>e (42,10-17) descrive la stessa cosa ma in ordine inverso:<br />
il ruolo di Giobbe come mediatore (v. 10), le feste (v. 11), gli anim<strong>al</strong>i (v. 12), i figli (vv. 13-<br />
15), e Giobbe stesso (vv. 16-17). Tutto inizia e finisce con Giobbe. Il suo ruolo di mediatore è<br />
in rapporto con il discorso che è l’argomento di tutto il libro. Giobbe intercedeva per i figli,<br />
perché si preoccupava di quello che eventu<strong>al</strong>mente avessero detto: «Forse i miei figli hanno<br />
peccato oltraggiando [m<strong>al</strong>edicendo] Dio nel loro cuore» (1,5); e intercede anche per i tre amici<br />
«perché non hanno parlato rettamente di Dio » (42,8.10). Nella condizione inizi<strong>al</strong>e, si parlava<br />
di «m<strong>al</strong>edire», «oltraggiare» (1,5), nella condizione fin<strong>al</strong>e, di «benedire» (v. 12).<br />
Giobbe, che non ha cessato di parlare nel corso del libro, prende la parola ancora due volte,<br />
<strong>al</strong>la fine. Fa una preghiera di intercessione per gli amici (v. 10) e dà i nomi <strong>al</strong>le figlie (v. 14).<br />
Le parole della sua preghiera non sono riportate. Sappiamo che ha parlato, ma a questo punto<br />
i discorsi non sono più necessari.<br />
Si è detto che la conclusione del libro rovina il libro, perché ritorna <strong>al</strong>la dottrina della retribuzione<br />
secondo il principio causa-effetto, la stessa teoria che il libro avrebbe cercato di mettere<br />
in discussione. Ma il testo non dice che la condizione di Giobbe è restaurata perché ha<br />
parlato correttamente di Dio, o perché ha interceduto per gli amici. Il testo dice semplicemente<br />
ciò che è capitato a quel punto: «YHWH cambiò la sorte di Giobbe, quando intercedette per<br />
gli amici» (v. 10). Il lettore sa che Giobbe ha perduto tutto a causa della sfida celeste, e sa pure<br />
che Giobbe ha superato la prova, e che, conseguentemente, Dio non ha più <strong>al</strong>cuna ragione<br />
di prolungare le sue prove. Dio ha agito «per nulla», «invano» (2,3), e <strong>al</strong>lora è del tutto logico<br />
che cambi la sorte di Giobbe. Lo fa addirittura raddoppiando, forse come in una specie di<br />
compensazione (Is 61,7; Zc 9,12). Ma Giobbe, come non ha m<strong>ai</strong> saputo che le sue sventure<br />
erano legate a una sfida, così non conosce nemmeno la ragione di questa restaurazione raddoppiata.<br />
Se la considerasse come una ricompensa, dovrebbe concludere pure che le sue sventure<br />
erano un castigo per il peccato. Ma Giobbe non è cosciente di peccati e Dio non lo ha m<strong>ai</strong><br />
accusato di peccato. Sia la sventura che la restaurazione fin<strong>al</strong>e sono per Giobbe delle sorprese.<br />
Tutto fa parte dell’ordine misterioso della giustizia di Dio (40,8).<br />
7.3. CONCLUSIONE<br />
7.3.1. I generi di linguaggio religioso di Giobbe<br />
L’approccio sincronico del libro di Giobbe, ricorrendo ad <strong>al</strong>cuni principi dell’an<strong>al</strong>isi semiotica,<br />
ha mostrato che il libro di Giobbe costituisce un’unità perfetta. Ogni parte ha il suo<br />
ruolo proprio. Potrebbe essere utile ripercorrerne il filo conduttore.<br />
Il libro di Giobbe affronta l’interrogativo: Come parlare di Dio nel momento della sofferenza?<br />
7.3.2. Le tappe della crescita interiore di Giobbe<br />
La parola rivela sempre qu<strong>al</strong>cosa di quello che succede <strong>al</strong>l’interno della persona che parla.<br />
Si può dunque pensare che la psicologia possa offrire un contributo <strong>al</strong>la lettura del libro di<br />
Giobbe.
Giobbe 81<br />
La sequenza <strong>dei</strong> diversi tipi di linguaggio religioso di Giobbe corrisponde notevolmente a<br />
un modello utilizzato in psicologia negli studi di Elisabeth Kübler-Ross. Le ricerche da lei fatte<br />
su m<strong>al</strong>ati in fase termin<strong>al</strong>e l’hanno portata a concludere che una persona morente ha molte<br />
possibilità di passare per cinque tappe: rifiuto – collera – discussione – depressione – accettazione.<br />
Dennis e Matthew Linn hanno applicato questo modello a persone che sono emotivamente<br />
provate e ferite. Se si ascoltano i diversi tipi di linguaggio che Giobbe usa nel corso<br />
del racconto, si costata che questi cinque movimenti sembrano descrivere l’esperienza interiore<br />
di Giobbe. Giobbe forse non è morente, non si trova in una m<strong>al</strong>attia termin<strong>al</strong>e, ma è di certo<br />
emotivamente turbato e ferito.<br />
7.3.2.1. Il rifiuto di Giobbe<br />
Quando viene diagnosticata una m<strong>al</strong>attia termin<strong>al</strong>e, la persona passa attraverso una trasformazione<br />
significativa. I suoi sogni sono spezzati. Essa prova uno choc. La prima reazione<br />
è il rifiuto e la negazione. La persona morente rifiuta di accettare di morire, e può ritenere che<br />
la sua m<strong>al</strong>attia non sia grave. Nel caso di una ferita emotiva, essa può arrivare fino a rifiutare<br />
di accettare di essere stata ferita.<br />
Dopo che i messaggeri riferiscono a Giobbe la perdita <strong>dei</strong> beni e <strong>dei</strong> figli (1,13-19), Giobbe<br />
dice: «Il Signore ha dato e il Signore ha tolto» (1,21). Giobbe viene poi colpito nella sua carne<br />
d<strong>al</strong>le ulcere, e nella risposta <strong>al</strong>la moglie dice: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo<br />
accettare anche il m<strong>al</strong>e?» (2,10). Abbiamo chiamato questa risposta: linguaggio della<br />
fede popolare. Queste parole di Giobbe sembrano riflettere un’accettazione, ma, come il resto<br />
del libro dimostra, Giobbe non ha ancora accettato la sofferenza nella sua vita. Si trova a misurarsi<br />
con qu<strong>al</strong>cosa che non ha m<strong>ai</strong> sperimentato in precedenza e che lo supera. Si trova perduto<br />
e cerca di mascherare la sua difficoltà citando un pio proverbio, imparato a memoria.<br />
Una fede popolare di questo genere accetta che Dio possa fare qu<strong>al</strong>siasi cosa, perché è Dio.<br />
Questa fede è chiamata «fede cieca», il che significa che la persona, in un certo modo, chiude<br />
gli occhi sulla re<strong>al</strong>tà della sofferenza. E questo corrisponde bene <strong>al</strong>la categoria del rifiuto o<br />
della negazione. Giobbe sembra accettare, ma, nel più profondo del suo essere, rifiuta di accettare<br />
la pena.<br />
7.3.2.2. La collera di Giobbe<br />
Dopo la negazione inizi<strong>al</strong>e, il paziente passerà attraverso la solitudine, il conflitto interiore,<br />
il sentimento di colpa e il non senso. Questi sentimenti condurranno gradu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>la collera.<br />
Il m<strong>al</strong>ato se la prenderà con gli <strong>al</strong>tri per la sua imminente morte. La persona ferita emotivamente<br />
se la prenderà con gli <strong>al</strong>tri a causa della pena che la sta distruggendo.<br />
Dopo la prima reazione, Giobbe riceve la visita degli amici. Ma questi, <strong>al</strong> loro arrivo, non<br />
sanno cosa dire: «Si sedettero a terra presso di lui per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolse<br />
la parola, perché avevano visto quanto grande era il suo dolore» (2,13). Giobbe sperimenta<br />
la solitudine. Nessuno sa come consolarlo. Anche con gli amici presso di lui, è solo.<br />
Giobbe è passato <strong>al</strong> linguaggio del silenzio.<br />
Questa solitudine dà a Giobbe il tempo di riflettere. Gli sembra che la vita sia divenuta<br />
vuota e priva di senso. Le emozioni prendono progressivamente il sopravvento. Giobbe <strong>al</strong>la<br />
fine non può più tollerare questo silenzio e questa solitudine, ed è lui a rompere il silenzio:<br />
«Dopo di ciò, Giobbe aprì la bocca e m<strong>al</strong>edisse il suo giorno» (3,1). Giobbe ora si pone degli<br />
interrogativi, soprattutto il grande interrogativo del perché della sua vita. Passa <strong>al</strong> linguaggio<br />
del dubbio e si chiede perché sia venuto <strong>al</strong> mondo. Tutti i perché (vv. 11.12 [2x].20.23) riguardano<br />
lo stesso evento. Il dubbio lo turba. La collera di Giobbe si infiamma. Comincia anche<br />
a prendersela con gli <strong>al</strong>tri. La collera si rivolge contro il padre e la madre: «Perché due ginocchia<br />
mi accolsero, e perché due mammelle per <strong>al</strong>lattarmi?» (3,12).<br />
Quando i tre amici decidono di rispondere agli interrogativi posti da Giobbe, tutti e tre e<br />
anche Giobbe passano <strong>al</strong> linguaggio teologico. Gli amici accusano Giobbe di peccati e d’or-
82 Giobbe<br />
goglio. E questo aumenta ulteriormente la collera di Giobbe. Se la prende con gli amici accusandoli<br />
di non cercare nemmeno di capirlo (6,14-15). La sua ira si rivolge anche contro Dio.<br />
Giobbe lo accusa d’ingiustizia: «Eppure Dio trova pretesti contro di me, e mi considera come<br />
suo nemico» (33,10). «Sono innocente, ma Dio mi nega giustizia» (34,5b). Giobbe continua i<br />
suoi lamenti contro Dio come una scappatoia per la collera che lo divora.<br />
7.3.2.3. La discussione di Giobbe<br />
La persona morente, dopo essersi stancata di prendersela con gli <strong>al</strong>tri, con i medici e con<br />
Dio, comincia a rendersi conto di aver bisogno di loro per sopravvivere, o, <strong>al</strong>meno, per ritardare<br />
la morte. E così comincia a contrattare, a discutere. La persona ferita emotivamente, ugu<strong>al</strong>mente,<br />
mette certe condizioni prima di perdonare.<br />
Giobbe ha espresso la sua collera verso i genitori, che gli hanno dato la vita in questo mondo<br />
di miseria, verso gli amici, che non sono stati di nessun <strong>ai</strong>uto, e verso Dio, che è la causa<br />
ultima di tutte le sue sventure. Ma nel bel mezzo di tutte queste accuse contro amici e contro<br />
Dio, Giobbe ricorre anche a un <strong>al</strong>tro linguaggio, il linguaggio della preghiera. La preghiera di<br />
Giobbe è il suo discutere, il suo mercanteggiare con Dio. Giobbe si rende conto di aver bisogno<br />
di Dio, perché Dio, in fin <strong>dei</strong> conti, potrebbe fare qu<strong>al</strong>cosa per lui. Giobbe chiede, supplica,<br />
e promette: «Ricorda che la vita non è che un soffio, e i miei occhi non rivedranno più il<br />
bene» (7,7). Fa anche del ricatto: «Perché ben presto giacerò nella polvere; mi cercher<strong>ai</strong> e io<br />
più non sarò» (7,21). Dio non può certo rifiutare, perché è in gioco il suo stesso onore. Bisogna<br />
per forza fare qu<strong>al</strong>cosa. Dio deve intervenire. Giobbe è certo che vedrà Dio (19,26).<br />
Giobbe ricorda a Dio tutte le buone azioni compiute durante la sua vita: «Non portavo la<br />
mano contro il povero» (30,24); «Non ho forse pianto con l’oppresso?» (30,25); «Strinsi un<br />
patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo sulle ragazze» (31,1). Dio deve dunque fare<br />
qu<strong>al</strong>cosa. Ma non sembra che Dio reagisca: «Io grido a te e tu non rispondi» (30,20).<br />
7.3.2.4. La depressione di Giobbe<br />
Quando la persona morente sente che le forze stanno diminuendo e si rende conto che tutto<br />
il suo discutere è inutile, comincia a prendere coscienza delle conseguenze re<strong>al</strong>i. Vede <strong>al</strong>lora<br />
tutto ciò che avrebbe potuto fare per evitare questa m<strong>al</strong>attia mort<strong>al</strong>e. Può essere portata a rimproverarsi<br />
certe cose, ma sa anche che orm<strong>ai</strong> è troppo tardi. Il m<strong>al</strong>ato si deprime, può diventare<br />
molto silenzioso e ritirato. E la persona ferita emotivamente seguirà la stessa trafila: in un<br />
primo tempo può farsi <strong>dei</strong> rimproveri e successivamente cadere in una profonda depressione.<br />
Giobbe ha fatto tutta la sua discussione con Dio, ma Dio sembra non ascoltare. Giobbe è<br />
sul punto di abbandonare: «Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco la mia ultima parola!<br />
L’Onnipotente mi risponda!» (31,35). Giobbe entra in un nuovo silenzio. Cessa di parlare:<br />
«Fine delle parole di Giobbe!» (31,40b). Anche gli amici abbandonano la conversazione, non<br />
hanno più nulla da offrirgli come risposta: «Allora quei tre personaggi cessarono di replicare a<br />
Giobbe» (32,1). Giobbe si trova nell’isolamento. E sembra che più nessuno s’interessi a lui.<br />
Giobbe ha supplicato Dio di parlargli. Eliu, il profeta, vuole offrirgli la risposta divina. Il<br />
racconto passa <strong>al</strong> linguaggio profetico-carismatico. Eliu, nel suo discorso, invita ripetutamente<br />
Giobbe a rispondergli, e a uscire d<strong>al</strong> suo isolamento: «Se puoi, rispondimi...» (33,5); «Se<br />
h<strong>ai</strong> qu<strong>al</strong>cosa da dire, rispondimi...» (33,32). Ma Giobbe non trova più parole per replicare.<br />
Cosa dire a qu<strong>al</strong>cuno che si dice profeta? Eliu prosegue dunque: «Se non ne h<strong>ai</strong>, ascoltami; taci...»<br />
(33,33). Giobbe si sente profondamente depresso.<br />
7.3.2.5. L’accettazione di Giobbe<br />
La depressione fin<strong>al</strong>e fa parte della preparazione <strong>al</strong>la morte per il paziente in fase termin<strong>al</strong>e.<br />
Essa può diventare un movimento verso l’accrescimento della coscienza di sé e <strong>dei</strong> contatti<br />
con gli <strong>al</strong>tri per arrivare <strong>al</strong>l’accettazione fin<strong>al</strong>e. Non un’accettazione fat<strong>al</strong>e o finta, ma<br />
un’accettazione con un senso accresciuto di fiducia in sé, un aumento dell’autonomia. La per-
Giobbe 83<br />
sona può anche aspirare <strong>al</strong>la morte. La persona ferita emotivamente, d’<strong>al</strong>tra parte, può uscire<br />
d<strong>al</strong>la depressione, cosciente che anche la ferita che ha subito può farla crescere.<br />
Le ultime parole di Eliu erano un invito per Giobbe a volgersi con ammirazione verso Dio:<br />
«Per questo gli uomini lo (Dio) temono» (37,24). Giobbe è invitato a passare <strong>al</strong> linguaggio<br />
dell’adorazione. La depressione non è l’atteggiamento fin<strong>al</strong>e di Giobbe. Il silenzio di Giobbe<br />
e degli <strong>al</strong>tri interlocutori umani permette fin<strong>al</strong>mente a Dio di parlare a Giobbe nel suo cuore.<br />
Dio invita Giobbe a cedere, ad abbandonare l’opposizione: «Colui che disputa con<br />
l’Onnipotente, lo istruirà? Colui che critica Dio, risponderà?» (40,2). Giobbe non risponde più<br />
nulla, mantiene il silenzio (40,4-5). Ma questo silenzio non è più il silenzio della depressione.<br />
Giobbe addirittura si ricrede <strong>dei</strong> ragionamenti fatti (42,2-3). Gradu<strong>al</strong>mente Giobbe esce d<strong>al</strong>la<br />
depressione. Diventa sempre più cosciente di sé. Il contatto che ora ha con Dio è <strong>dei</strong> più profondi:<br />
«Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (42,5). Il racconto ha<br />
toccato il linguaggio mistico. Giobbe è arrivato <strong>al</strong>l’accettazione: «Perciò cedo e cambio idea<br />
sulla polvere e sulla cenere» (42,6).<br />
Dopo che il morente ha raggiunto la tappa dell’accettazione può aspirare a una vita<br />
nell’<strong>al</strong>dilà, che, secondo le promesse della religione, è una vita migliore. La persona ferita<br />
emotivamente, che è passata attraverso le cinque tappe della crescita, continuerà a vivere come<br />
una persona arricchita. Giobbe è passato attraverso le cinque tappe ed è arrivato<br />
<strong>al</strong>l’accettazione. Anche se è ancora in piena sofferenza, senza beni, senza figli, e ancora m<strong>al</strong>ato,<br />
è diventato un’<strong>al</strong>tra persona. Lui che se l’era presa con Dio per tante ragioni, è ridiventato<br />
amico di Dio, che di lui dice ancora una volta: «il mio servo Giobbe» (42,7-8). Questo Giobbe<br />
nuovo ha un atteggiamento molto diverso nei confronti degli <strong>al</strong>tri. Anche se Giobbe non ha<br />
fatto che opporsi <strong>ai</strong> tre «amici», ora intercede per loro (42,8-9). Giobbe è cambiato e anche la<br />
sua vita è cambiata. È diventato una persona più ricca, ed è quanto la conclusione del libro<br />
racconta in modo molto semplice. Dio reintegra Giobbe nella sua fortuna e addirittura la raddoppia.<br />
E Giobbe ridiventa anche padre di una bella famiglia e vive ancora a lungo, e, a quanto<br />
pare, in buona s<strong>al</strong>ute.<br />
Ciò che Giobbe dice nel libro corrisponde proprio a quanto succede dentro di lui.<br />
BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />
ALONSO SCHÖKEL, L. - SICRE, J.L., Giobbe, Roma 1985.<br />
Ottima opera in gener<strong>al</strong>e, della qu<strong>al</strong>e è da segn<strong>al</strong>are l’ampia ed esauriente introduzione e la precisione<br />
e la bellezza della traduzione. La bibliografia è buona e sufficientemente ampia. Lo studio delle<br />
difficoltà testu<strong>al</strong>i, anche se incompleto, affronta molto bene i problemi più urgenti. Il commento presenta<br />
ottimi e notevoli suggerimenti, difficilmente rinvenibili in <strong>al</strong>tre opere del genere.<br />
CLINES, D.J.A., Job 1–20 (WBC 17), D<strong>al</strong>las 1989.<br />
Il lettore può rendersi conto delle ambizioni di questo commento pensando che l’esposizione <strong>dei</strong><br />
primi 20 capitoli di Giobbe occupa 501 pagine. Dopo averlo sfogliato, si deve riconoscere che la sua<br />
qu<strong>al</strong>ità è direttamente proporzion<strong>al</strong>e <strong>al</strong>la voluminosità. L’ampiezza della bibliografia e l’an<strong>al</strong>isi quasi<br />
completa <strong>dei</strong> problemi testu<strong>al</strong>i fanno di quest’opera uno <strong>dei</strong> tre migliori commenti attu<strong>al</strong>i <strong>al</strong> libro di<br />
Giobbe.<br />
DHORME, P., Le lívre de Job, Paris 1926.<br />
Dopo un’ottima introduzione di 178 pagine l’autore dispiega nel commento le sue eccellenti doti di<br />
esegeta e le sue vaste conoscenze di storia dell’esegesi. Un’ampia an<strong>al</strong>isi critico-testu<strong>al</strong>e e un commento<br />
preciso e documentato fanno di quest’opera, nonostante gli anni trascorsi d<strong>al</strong>la sua pubblicazione,<br />
un riferimento obbligato.<br />
DRIVER, S.R. - GRAY, G.B., The Book of Job (ICC), Edinburgh rist. 1971.<br />
Come la collana cui appartiene, l’opera si segn<strong>al</strong>a per il rigore e l’esaustività con cui affronta le<br />
questioni filologiche. L’introduzione è sufficiente, anche se la data di composizione richiede la nostra
84 Giobbe<br />
benevolenza di fronte ad <strong>al</strong>cune prese di posizione attu<strong>al</strong>mente insostenibili. Indispensabile nella biblioteca<br />
degli studiosi della Bibbia.<br />
FOHRER, G., Das Buch Hiob (KAT 16), Gütersloh 1963.<br />
Questo libro è uno <strong>dei</strong> maggiori contributi <strong>al</strong>la storia dell’esegesi del libro di Giobbe. Opera monument<strong>al</strong>e<br />
(565 pagine), affronta la problematica di Giobbe da tutti i possibili punti di vista: retorico,<br />
letterario, testu<strong>al</strong>e, teologico, storico-religioso. Le sue pertinenti osservazioni, la profondità di pensiero<br />
e l’indiscutibile profession<strong>al</strong>ità dell’autore ci pongono di fronte un’opera già classica e molto difficilmente<br />
superabile.<br />
GORDIS, R., The Book of God and Man, Chicago-London 1978.<br />
Non si tratta di un commento nel senso abitu<strong>al</strong>e del termine. La traduzione e il commento occupano<br />
solo le pp. 231-306. Tuttavia ciò che l’autore non dice in queste pagine è già stato esposto nell’ampia<br />
introduzione (pp. 1-228) e nelle ricche note <strong>al</strong> termine del libro (pp. 313-336). L’an<strong>al</strong>isi del testo e la<br />
conoscenza della letteratura giud<strong>ai</strong>ca in proposito costituiscono i migliori contributi del volume.<br />
HABEL, N.C., The Book of Job (OTL), London 1985.<br />
È uno <strong>dei</strong> migliori commenti attu<strong>al</strong>i <strong>al</strong> libro di Giobbe, appartenente <strong>al</strong>la prestigiosa «Old Testament<br />
Library». Se si eccettua l’interpretazione del genere letterario, il libro apparterrebbe <strong>al</strong>la «disputa<br />
giudiziaria», tutto ciò che si può attendere da un commento di questo tipo è affrontato con rigore e profession<strong>al</strong>ità.<br />
LÉVÊQUE, J., Job et son Dieu (EtB), 2 voll., Paris 1970.<br />
L’elemento maggiormente degno di nota di quest’opera è l’ampia e ottima introduzione: la prima<br />
parte dedicata <strong>al</strong> tema del giusto sofferente nelle letterature del Vicino Oriente Antico (Mesopotamia,<br />
Ugarit, Egitto, Arabia), dell’India e della Grecia e le prime due sezioni della seconda parte: problemi<br />
di struttura letteraria e gli attori del dramma.<br />
POPE, M.H., Job (AB 15), Garden City 3 1982.<br />
Il prestigio della collana e la qu<strong>al</strong>ità del commentatore sono univers<strong>al</strong>mente noti. Tuttavia non ci si<br />
può dire soddisfatti del libro, perché <strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi relativamente inadeguata del testo si aggiunge la tendenza<br />
«panugaritica» dell’autore, la qu<strong>al</strong>e toglie interesse a quello che sarebbe potuto essere un ottimo<br />
commento.<br />
RAVASI, G., Giobbe. Traduzione e commento, Roma 1979.<br />
Bisogna rilevare in questo commento l’ottima ed estesa introduzione (174 pagine) nella qu<strong>al</strong>e<br />
l’autore affronta la presentazione del libro di Giobbe secondo le coordinate letterarie e teologiche,<br />
prima di passare <strong>al</strong>lo studio della tradizione di Giobbe secondo la prospettiva della sapienza ortodossa<br />
ed eterodossa. L’opera offre anche tre interessanti sezioni su «Giobbe, nostro contemporaneo» (con<br />
riferimenti <strong>al</strong>le opere, tra gli <strong>al</strong>tri, di Kierkegaard, Melville, Dostoevsky, Jung, Camus, Bloch, Barth,<br />
Jaspers, von B<strong>al</strong>thasar, Henry Lévy), «Giobbe e il teatro» e «Giobbe nell’arte».<br />
VOGELS, W., Giobbe. L’uomo che ha parlato bene di Dio, San Paolo, Cinisello B<strong>al</strong>samo 2001.<br />
Essenzi<strong>al</strong>e ed origin<strong>al</strong>e commento che, adottando i principi del metodo semiotico, mette in ris<strong>al</strong>to il<br />
v<strong>al</strong>ore letterario e linguistico del libro di Giobbe. Secondo l’esegeta canadese l’asse tematico dell’intera<br />
opera è: come parlare di Dio nel momento della sofferenza? A questo interrogativo il libro di<br />
Giobbe tenta di rispondere con i diversi linguaggi usati d<strong>ai</strong> vari attori del dramma: il linguaggio della<br />
fede popolare, il linguaggio del silenzio, il linguaggio del dubbio, il linguaggio della teologia, il linguaggio<br />
della preghiera, il linguaggio profetico-carismatico e il linguaggio della mistica. È a questo<br />
punto che scatta il verdetto divino: «Giobbe ha parlato di me rettamente!».<br />
Inoltre, in it<strong>al</strong>iano, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />
FEDRIZZI, P., Giobbe (SBT), Torino-Roma 1972.<br />
WEISER, A., Giobbe, Brescia 1975.<br />
GUALANDI, D., Giobbe. Nuova versione critica, Roma 1976.<br />
LAURENTINI, G., Giobbe, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la<br />
Bibbia 3), Bologna 1978, 343-376.<br />
VIRGULIN, S., Giobbe (NVB 17), Roma 1980.<br />
RAVASI, G., Giobbe, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988, 633-643.
Giobbe 85<br />
BORGONOVO, G., La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel <strong>Libro</strong> di Giobbe. An<strong>al</strong>isi simbolica (An<strong>al</strong>ecta<br />
Biblica 135), Roma 1995.<br />
MACKENZIE. R.A.F. - MURPHY, R.E., Giobbe, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997,<br />
608-637.<br />
MORLA ASENSIO, V., Il libro di Giobbe, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo studio<br />
della Bibbia 5), Brescia 1997, 117-146.<br />
SCAIOLA, D., Giobbe, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4),<br />
Torino-Leumann 1997, 57-70.<br />
RADERMAKERS, J., Il libro di Giobbe. Dio, l’uomo e la sapienza, Bologna 1999.<br />
MARCONI, G. - TERMINI, C. (ed.), I volti di Giobbe. Percorsi interdisciplinari, Bologna 2002.<br />
JANZEN, J.G., Giobbe, Torino 2003.<br />
Infine, i numeri unici di:<br />
Concilium, n. 19/1983: «Giobbe e il silenzio di Dio».<br />
Parole di Vita, n. 2/2003: «Il libro di Giobbe».
1. UN ENIGMA PER I COMMENTATORI<br />
QOHELET *<br />
La discussione sullo statuto canonico di Qohelet già nel giud<strong>ai</strong>smo è stata accesa, e se la<br />
tesi della canonicità <strong>al</strong>la fine è prev<strong>al</strong>sa, l’utilizzazione di Qohelet è lungi d<strong>al</strong>l’aver raggiunto<br />
l’unanimità. Viene considerato un libro di difficile interpretazione, sconcertante, o addirittura<br />
imbarazzante o sconveniente, troppo terra terra o troppo pessimista.<br />
I dubbi sulla sua canonicità si trovano forse già riflessi nell’appendice del redattore fin<strong>al</strong>e<br />
(12,9-14), che ha tutto il sapore di un tentativo di giustificazione delle parole di Qohelet. Non<br />
si trova, di questo libro, nessuna citazione esplicita nel Nuovo Testamento (fatta eccezione,<br />
forse, di 7,20 in Rm 3,10-12 e 11,5 in Gv 3,8), e le discussioni rabbiniche dimostrano che<br />
c’erano divisioni circa il suo statuto. In campo cattolico, Qohelet incontra ancora delle difficoltà<br />
a trovarsi una collocazione nella liturgia e nel cuore <strong>dei</strong> cristiani. Nel ciclo trienn<strong>al</strong>e delle<br />
letture domenic<strong>al</strong>i vi si trovano solo quattro versetti (1,2 e 2,21-23) nella diciottesima domenica<br />
ordinaria dell’Anno C. È ben poca cosa per rendere giustizia <strong>al</strong>la complessità delle parole<br />
di Qohelet e troppo poco per permettere <strong>ai</strong> credenti di ritrovarsi nei suoi interrogativi e<br />
nella sua ricerca di Dio e del senso della vita.<br />
2. INTERESSE E ATTUALITÀ DI QOHELET<br />
Eppure Qohelet ha qu<strong>al</strong>cosa di moderno nelle sue parole e nel suo linguaggio, nella linea<br />
del pensiero esistenzi<strong>al</strong>ista moderno e soprattutto di un’esperienza comune. In esso si trova<br />
una moltitudine di esperienze umane, descritte con molta acutezza e onestà: fragilità della fortuna,<br />
ritorno ciclico delle cose, ineluttabilità della morte, mistero del tempo; rischi del lavoro<br />
e del susseguirsi delle generazioni, prova dell’invecchiamento e della morte.<br />
La sua grande onestà e il suo gusto per l’assoluto lo portano a denunciare l’illusione delle<br />
belle teorie e delle tranquille certezze: «Anche questo è vanità... Anche questo è un inseguire<br />
il vento», dirà egli di tante avventure ed esperienze umane. Ar<strong>al</strong>do della sapienza critica, con<br />
Giobbe, Qohelet fa un’opera critica in teologia e obbliga a un confronto della teoria con i dati<br />
dell’esperienza.<br />
Infine, il modo di procedere di Qohelet raggiunge gli interrogativi dell’uomo sul suo destino.<br />
Qohelet vive la sua fede ponendo continuamente degli interrogativi: nei primi dieci capitoli<br />
vi si trovano non meno di ventisei domande: «Qu<strong>al</strong>e utilità?... Cosa resta? Perché? Che<br />
differenza?, ecc.» (1,3; 2,12.19.22.25; 3,9.21.22; 4,11; 5,5.10.15; 6,6.8.11.12.; 7,10.13.16.<br />
17.24; 8,1.4.7; 9,4; 10,14).<br />
3. DATA DI COMPOSIZIONE<br />
Qohelet è chiaramente uno scritto tardivo, la cui redazione fin<strong>al</strong>e è da situare verso il 250<br />
a.C. Innanzitutto per la lingua, dove si nota un gran numero di parole affini <strong>al</strong>l’ebr<strong>ai</strong>co biblico<br />
tardivo mentre <strong>al</strong>tre sono di derivazione aram<strong>ai</strong>ca, come pure certi neologismi ebr<strong>ai</strong>ci, sconosciuti<br />
nella Bibbia ma utilizzati nell’ebr<strong>ai</strong>co rabbinico. D’<strong>al</strong>tra parte sembra che il Siracide (si<br />
confronti 3,12; 7,14; 9,10; 11,9 e Sir 14,11-19; 2,15-16 e Sir ebr<strong>ai</strong>co 41,11-13) e il libro della<br />
Sapienza (cfr. anche Sap 2 e 5, che riflettono le posizioni di Qohelet e sostengono la tesi con-<br />
* J.-P. PRÉVOST, Qohelet, in J. AUNEAU (ed.), I s<strong>al</strong>mi e gli <strong>al</strong>tri scritti (Piccola Enciclopedia Biblica 5), Roma<br />
1991, 167-174. Il termine qohelet può essere considerato un aggettivo sostantivato da qa\ha\l, assemblea) e può<br />
essere tradotto con «l’uomo dell’assemblea»; la LXX l’ha reso con e)kklhsiasth/j (ecclēsiastē:s), da cui Ecclesiaste,<br />
<strong>al</strong>tra designazione del libro.
Qohelet 87<br />
traria) conoscano il libro e t<strong>al</strong>volta facciano riferimento ad esso. Sono stati trovati <strong>dei</strong> frammenti<br />
a Qumran ris<strong>al</strong>enti <strong>al</strong> 150 a.C.<br />
4. STRUTTURA LETTERARIA<br />
Qohelet è stato a lungo rimproverato di presentare <strong>dei</strong> discorsi sconnessi, senza un legame<br />
logico e senza una vera e propria coerenza. L’autore, è vero, usa magistr<strong>al</strong>mente il paradosso e<br />
il detto popolare, e non sembra preoccuparsi degli arrangiamenti logici e lineari. Ma rimane il<br />
fatto che i suoi discorsi sono stati raccolti in un libro, che sono stati abilmente incorniciati da<br />
un prologo e da un epilogo (1,2 e 12,8) che formano un’inclusione, e che la nota editori<strong>al</strong>e fin<strong>al</strong>e<br />
(12,9-14) presenta Qohelet come un saggio che sa revisionare e dare forma <strong>ai</strong> discorsi <strong>dei</strong><br />
saggi. Per cui l’impresa, giudicata rischiosa non molto tempo fa, di trovare una struttura<br />
d’insieme comincia a portare frutti interessanti, se non definitivi. Le ricerche di A. G. Wright 1<br />
hanno dato un nuovo impulso e hanno rianimato il fervore <strong>dei</strong> ricercatori. A. Schoors 2 non arriva<br />
a una struttura d’insieme soddisfacente ma il suo studio delle distinte unità si rivela prezioso.<br />
Se la proposta di F. Rousseau 3 non è stata molto seguita d<strong>al</strong> punto di vista della struttura,<br />
ha nondimeno ricevuto una conferma indiretta da R. N. Whybray 4 nel suo studio sul posto<br />
della gioia nell’opera di Qohelet.<br />
La posizione di A. G. Wright sui procedimenti numerici utilizzati d<strong>al</strong>l’autore merita qu<strong>al</strong>che<br />
considerazione. Wright costata innanzitutto con la Masorah che il libro di Qohelet consta<br />
di 222 versetti. Il centro si trova quindi in 6,9 essendo le due parti formate ciascuna di 111<br />
versetti. Ora, osserva Wright, in 1,2 si ritrova tre volte la parola hābel, <strong>al</strong> singolare. Dato che<br />
il suo v<strong>al</strong>ore numerico è 37, si arriva a un tot<strong>al</strong>e di 111, che corrisponde <strong>al</strong> numero di versetti<br />
di ciascuna delle due metà! Bisogna dire anche che la stessa parola appare in principio 38 volte,<br />
ma risulta dubbia in 5,6 e 9,9. Wright ritiene che 9,9 non sia autentico con il risultato che si<br />
ha 37 volte la parola hābel, ossia la cifra corrispondente <strong>al</strong> suo v<strong>al</strong>ore numerico.<br />
D’<strong>al</strong>tra parte, sempre secondo Wright, se si toglie l’epilogo – che non apparteneva <strong>al</strong>l’opera<br />
origin<strong>al</strong>e – si ha un tot<strong>al</strong>e di 216 versetti. Ora l’inclusione di 1,2 e 12,8 (ha¨bel ha¨bālîm ...<br />
ha-kol hābel, vanità delle vanità ... il tutto vanità) ha un v<strong>al</strong>ore numerico di 216, così come il<br />
titolo dibrê ripreso tre volte in 12,10-11 per designare l’insieme del libro.<br />
A questa posizione si può obiettare che non si vede in che modo il versetto 6,9 giochi un<br />
ruolo centr<strong>al</strong>e nella struttura e nell’opera di Qohelet, e che l’epilogo non può essere accettato<br />
o rifiutato secondo le necessità dell’argomentazione perché il tot<strong>al</strong>e coincida con il v<strong>al</strong>ore<br />
numerico ricercato. Lo stesso dicasi del numero di ricorrenze della parola hābel, per la qu<strong>al</strong>e<br />
Wright regola troppo rapidamente l’autenticità di 9,9 in funzione della sua tesi 5 .<br />
5. MESSAGGIO<br />
5.1. SIGNIFICATO DEL SUO DISEGNO TEOLOGICO<br />
Il disegno teologico di Qohelet ha qu<strong>al</strong>cosa di esplorativo. Esso viene collocato sotto il segno<br />
dell’esperienza e della sperimentazione 6 . Si trovano in lui molteplici <strong>al</strong>lusioni <strong>al</strong> suo me-<br />
1<br />
A. G. WRIGHT, The Riddle of the Sphinx: The Structure of the Book of Qoheleth, in CBQ 30 (1968) 313-<br />
334; The Riddle of the Sphinx Revisited: Numeric<strong>al</strong> Patterns in the Book of Qoheleth, in CBQ 42 (1980) 38-51;<br />
Addition<strong>al</strong> Numeric<strong>al</strong> Patterns in Qoheleth, in CBQ 45 (1983) 32-43.<br />
2<br />
A. SCHOORS, La structure littér<strong>ai</strong>re de Qohéleth, in OLoP 13 (1982) 91-116.<br />
3<br />
F. ROUSSEAU, Structure de Qohelet 1,4-11 et plan du livre», in VT 31 (1981) 200-217.<br />
4<br />
R. N. WHYBRAY, Qoheleth, Preacher of Joy, in JSOT 23 (1982) 87-98.<br />
5<br />
Sulla struttura di Qohelet vedi anche il lavoro di V. D’ALARIO, Il libro di Qohelet. Struttura letteraria e retorica<br />
(Suppl. <strong>al</strong>la RivBib 27), Bologna 1992.<br />
6<br />
A. BONORA, Esperienza e timor di Dio in Qohelet, in Teologia 6-2 (1981) 171-182.
88 Qohelet<br />
todo, basato sull’osservazione e sull’esperienza: vedere (37 ricorrenze: «Ho visto tutte le cose<br />
che si fanno sotto il sole...», 1,14), conoscere («Ho deciso <strong>al</strong>lora di conoscere la sapienza e la<br />
scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il<br />
vento», 1,7), ricercare e investigare («Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza<br />
tutto ciò che si fa sotto il cielo», 1,13), riflettere, provare («Vieni, dunque, ti voglio mettere<br />
<strong>al</strong>la prova...», 2,1), trovare («Quello che io cerco ancora e non ho trovato...», 7,28), considerare<br />
(«Ho considerato poi la sapienza, la follia e la stoltezza», 2,12), cercare di conoscere...<br />
Qohelet è un ricercatore avido di comprendere e di trovare un significato <strong>al</strong>le re<strong>al</strong>tà umane.<br />
La sua ricerca vuole anche essere radic<strong>al</strong>e e riguarda l’insieme del re<strong>al</strong>e. Si può notare in<br />
lui la frequenza delle parola «tutto» (91 ricorrenze), come pure delle espressioni di glob<strong>al</strong>ità:<br />
«sotto il sole» (1,3.9.14...); «sotto il cielo» (1,13; 2,3; 3,1); «un tempo per tutte le cose» (3,2-<br />
8). Niente viene escluso a priori; egli si interessa a tutto ciò che forma la vita.<br />
Infine la ricerca di Qohelet lo porta a un acuto senso della fragilità umana, di ciò che egli<br />
chiama hābel, vanità. Il termine è tipico di Qohelet (38 ricorrenze contro le 35 di tutto il resto<br />
dell’AT). Ben poche re<strong>al</strong>tà umane sfuggono <strong>al</strong> verdetto di vanità pronunciato da Qohelet. Per<br />
illustrare la sua tesi che «tutto è vanità», Qohelet dichiara «vanità»: le opere che si compiono<br />
(1,14), l’esperienza della gioia (2,1); il lavoro delle sue mani (2,11), la saggezza (2,15), la<br />
successione <strong>dei</strong> giorni e delle notti (2,23), il denaro e il lusso (5,9) la prolissità (6,11), il riso<br />
dello stolto (7,6), la giustizia (8,14), la vecchi<strong>ai</strong>a (11,8) e la gioventù (11,10).<br />
5.2. QOHELET E IL MISTERO DEL TEMPO (3,1-12)<br />
Questo celebre passo si rivela uno <strong>dei</strong> poemi più profondi, e certamente la riflessione più<br />
sviluppata di tutta la Bibbia, sul mistero del tempo.<br />
La struttura di 3,2-8 si sviluppa come una duplice serie di opposizioni (positivo-negativo o<br />
inversamente). Alle due estremità (versetto 2 e 8), il poema inizia e si conclude con una nota<br />
positiva. La complessità così come la ricchezza del tempo si traduce <strong>al</strong> livello del vocabolario.<br />
L’autore usa qui tre termini. Il primo che appare è z e mān (tradotto in greco xro/noj [chrónos]).<br />
Indica l’aspetto quantitativo del tempo, il tempo numerico, che si può c<strong>al</strong>colare, misurare. Il<br />
secondo, che domina il poema, è ‘et: ricorre trenta volte in questo passo, e dieci volte nel resto<br />
del libro. Il termine indica il tempo qu<strong>al</strong>itativo: da qui la sfumatura di occasione, di tempo favorevole,<br />
di stagione. Infine, il poema si conclude rinviando a un <strong>al</strong>tro aspetto del tempo, questa<br />
volta relativo a Dio: è ‘ôlām, cioè il tempo tot<strong>al</strong>e, la durata eterna, il tempo di Dio.<br />
Qu<strong>al</strong> è il significato di questa serie di opposizioni e della variazione del vocabolario riguardo<br />
<strong>al</strong> tempo? Bisogna fare una lettura successiva della serie di opposizioni? L’autore non<br />
farebbe <strong>al</strong>lora che costatare che la vita è un composto, una successione di elementi e di attività<br />
contrarie che finiscono per annullarsi. Bisogna farne una lettura deterministica? Qohelet sarebbe<br />
dell’avviso che, qu<strong>al</strong>siasi cosa si faccia, non sarà possibile evitare la coesistenza <strong>dei</strong><br />
contrari. O bisogna <strong>al</strong> contrario farne una lettura esclusivistica secondo la qu<strong>al</strong>e l’autore farebbe<br />
una vibrante difesa per invitare a optare per l’una o l’<strong>al</strong>tra delle possibilità offerte d<strong>al</strong><br />
tempo?<br />
Possiamo ritenere che il poema rende giustizia <strong>al</strong>la complessità del mistero del tempo, di<br />
cui rivela l’ambiv<strong>al</strong>enza: <strong>al</strong> tempo stesso grazia (dono offerto) e occasione di libertà (luogo in<br />
cui si prende ogni decisione umana). Il tempo è fatto di molteplici occasioni: il problema per<br />
l’uomo è di far entrare l’occasione, fuggente, nel mistero più profondo e più duraturo del tempo<br />
di Dio 7 .<br />
7<br />
Si vedano le osservazioni in questo senso di D. LYS, L’Être et le Temps. Communication de Qohèlèth, in La<br />
Sagesse de l’AT, 249-258.
5.3. LA FEDE DI QOHELET<br />
Qohelet 89<br />
Anche se Qohelet arriva fino <strong>al</strong> limite <strong>dei</strong> suoi interrogativi e anche delle sue inquietudini,<br />
rimane nondimeno un grande credente. Come i saggi, il suo credo si basa soprattutto sulla<br />
fondament<strong>al</strong>e bontà e sulla incrollabile solidità dell’opera creatrice di Dio: «Riconosco che<br />
qu<strong>al</strong>unque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere...» (3,14).<br />
E come i profeti, rifiuta un culto chiassoso (4,17–5,6) dove la moltiplicazione delle parole<br />
prev<strong>al</strong>e sull’ascolto della Parola e sul rispetto del mistero di Dio. I suoi discorsi re<strong>al</strong>istici sulla<br />
morte non sono privi di una certa speranza piena di coraggio: anche se non crede ancora nella<br />
risurrezione, sa che «l’uomo se ne va nella dimora eterna» (12,5) e che «il soffio ritorna a Dio<br />
che lo ha dato» (12,7). C’è lì una nota di serenità che non manca di grandezza per uno che ignorava<br />
tutto della rivelazione evangelica sull’<strong>al</strong>dilà.<br />
5.4. «TUTTO È VANITÀ» O «TUTTO È GRAZIA»?<br />
Abbastanza paradoss<strong>al</strong>mente, per un autore ritenuto pessimista, Qohelet punteggia la sua<br />
riflessione con frasi sulla felicità. All’interno stesso <strong>dei</strong> passi che denunciano la vanità delle<br />
re<strong>al</strong>tà umane, l’autore si è preoccupato di inserire sette riflessioni (idea di pienezza?) sulla felicità<br />
(2,24; 3,12.22; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-9) 8 . Ogni volta l’autore esprime un giudizio di v<strong>al</strong>ore<br />
(aôb), quattro volte su sette l’affermazione è esclusiva: «Non c’è di meglio che...» (2,24;<br />
3,12.22; 8,15). Ogni volta l’autore fa riferimento <strong>al</strong>la gioia o <strong>al</strong> godimento, invitando i suoi<br />
discepoli a «gustare la gioia». Si nota anche un crescendo nella raccomandazione della gioia:<br />
d<strong>al</strong>la semplice constatazione (2,24) l’autore passa <strong>al</strong>l’elogio incondizionato della gioia (8,15;<br />
9,7-9; 11,7-9). Bisogna quindi tener presente, con l’editore fin<strong>al</strong>e del libro, la nota risolutamente<br />
ottimista del disegno teologico di Qohelet: «Qohelet cercò di trovare detti piacevoli il<br />
cui esatto tenore viene qui trascritto...» (12,10).<br />
Per fare giustizia a Qohelet è necessario perciò andare <strong>al</strong> di là della prima impressione lasciata<br />
d<strong>al</strong> suo celebre ritornello «tutto è vanità». Anche se egli ha percepito con acutezza ed<br />
espresso con una sensibilità poco comune la caducità di tutte le cose, rimane nondimeno un<br />
assetato di assoluto e un sostenitore incondizionato della felicità, che ha saputo riconoscere le<br />
gioie semplici e quotidiane come autentici doni di Dio.<br />
BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />
BARTON, G.A., The Book of Ecclesiastes (ICC), Edinburgh 1908, rist. 1971.<br />
Le caratteristiche <strong>dei</strong> commenti che compongono l’«Internation<strong>al</strong> Critic<strong>al</strong> Commentary» sono una<br />
garanzia a priori del contenuto di quest’opera. Le ottime an<strong>al</strong>isi testu<strong>al</strong>i di questa collana sono univers<strong>al</strong>mente<br />
riconosciute. Il commento vero e proprio occupa 65 pagine; in esso ha una speci<strong>al</strong>e importanza<br />
la problematica relativa <strong>al</strong>le versioni e <strong>al</strong> rapporto tra Qohelet e il pensiero greco. Tanto<br />
l’introduzione quanto il commento seguono coordinate piuttosto tradizion<strong>al</strong>i, il che è comprensibile se<br />
si considera la data dell’edizione origin<strong>al</strong>e.<br />
CRENSHAW, J.L., Ecclesiastes (OTL), Philadelphia 1987.<br />
Gli studiosi della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e conoscono molto bene la statura intellettu<strong>al</strong>e e gli ottimi<br />
contributi di questo esegeta <strong>al</strong>la ricerca biblica. In questo commento vengono affrontati senza pregiudizi<br />
e con franchezza i problemi teologici più seri proposti d<strong>al</strong> libro biblico. Simile atteggiamento libero<br />
da parte dell’autore trova corrispondenza nella qu<strong>al</strong>ità del commento. Questo è preceduto da un’introduzione<br />
di 30 pagine, sommaria ma sufficientemente completa. Il miglior pregio del commento sta<br />
nell’affrontare in modo non convenzion<strong>al</strong>e un’opera biblica non convenzion<strong>al</strong>e.<br />
8 F. Rousseau è stato il primo a riconoscere loro una funzione importante nella struttura del libro (Structure<br />
de Qoheleth 1,4-11 et plan du livre, in VT 31 [1981] 200-217). In modo indipendente, R. N. Whybray attribuirà<br />
loro un ruolo chiave nella teologia del libro (Qoheleth, Preacher of Joy, in JSOT 23 [1982] 87-98).
90 Qohelet<br />
DI FONZO, L., Ecclesiaste (BG), Torino-Roma 1967.<br />
Nonostante il passare degli anni la qu<strong>al</strong>ità <strong>dei</strong> commenti biblici della Bibbia di Garof<strong>al</strong>o non cessa<br />
di sorprendere. Il commento <strong>al</strong>l’Ecclesiaste segue t<strong>al</strong>e linea di serietà e profession<strong>al</strong>ità. Dopo una<br />
completa ed erudita introduzione di 102 pagine il lettore si trova di fronte a una bibliografia quasi esaustiva<br />
di 17 pagine. Il commento è ampio e ben elaborato sotto il profilo linguistico e testu<strong>al</strong>e.<br />
L’assenza di sensibilità letteraria è condivisa m<strong>al</strong>auguratamente da quasi tutti i commentatori moderni.<br />
Una prospettiva un po’ più aperta e l’assenza di un certo carattere farraginoso avrebbero certamente<br />
accresciuto l’indiscutibile v<strong>al</strong>ore dell’opera.<br />
FOX, M.V., Qohelet and His Contradictions, Sheffield 1989.<br />
Il commento vero e proprio (pp. 151-329) è preceduto da un’introduzione fin<strong>al</strong>izzata a presentare il<br />
libro del Qohelet <strong>al</strong> lettore moderno e da quattro capitoli più sostanziosi: 1. Significato di hebel e di<br />
r e ‘ût rûă˙; 2. sofferenze e piaceri; 3. epistemologia di Qohelet; 4. giustizia e teodicea. Tutti e quattro<br />
seguono, grosso modo, il seguente schema espositivo: impostazione del problema; terminologia; v<strong>al</strong>utazione<br />
critica. Il commento, ben fatto e ardito, è affrontato dopo una breve esposizione di vari aspetti<br />
connessi <strong>al</strong>la comprensione letteraria dell’opera: <strong>al</strong>cune parole chiave; il linguaggio di Qohelet; la<br />
struttura letteraria; il v<strong>al</strong>ore delle versioni greca e siriaca.<br />
GORDIS, R., Koheleth. The Man and His World, New York 3 1978.<br />
Il commento vero e proprio occupa le pp. 203-355. Le pp. 145-201 contengono il testo e la traduzione.<br />
La prima parte costituisce un’ottima introduzione, le cui dimensioni possono essere apprezzate<br />
d<strong>al</strong> lettore. Vi si affrontano aspetti letterari di carattere gener<strong>al</strong>e, <strong>al</strong>cuni elementi stilistici e la visione<br />
del mondo di Qohelet senza trascurare tematiche più comuni come l’autore, la canonicità, il testo e le<br />
versioni. Il commento è equilibrato ed erudito. Questo commento è uno strumento imprescindibile per<br />
acquisire familiarità con lo stile del pensiero e dell’espressione del Qohelet.<br />
LAUHA, A., Kohelet (BK 19), Neukirchen/Vluyn 1978.<br />
Si tratta probabilmente del miglior commento moderno <strong>al</strong>l’opera di Qohelet, <strong>al</strong>meno come trattazione<br />
d’insieme. Le 24 pagine d’introduzione sono forse troppo brevi, anche se la problematica gener<strong>al</strong>e<br />
del libro è presentata in maniera sufficiente. Manca un’adeguata disamina letteraria, assenza tipica<br />
<strong>dei</strong> commenti del «Biblischer Kommentar». La critica testu<strong>al</strong>e, pur corretta, non è ampia come ci si<br />
sarebbe potuto attendere per <strong>al</strong>cuni versetti.<br />
OGDEN, G., Qoheleth, Sheffield 1987.<br />
Studio piuttosto ampio (circa 200 pagine), considerate le dimensioni del Qohelet. L’an<strong>al</strong>isi testu<strong>al</strong>e<br />
è adeguata; il commento teologico è esauriente e felice; gli aspetti letterari sono correttamente individuati<br />
e accuratamente presentati. Lamentiamo la mancanza di un’introduzione adeguata; non si può dir<br />
molto in 8 pagine. Titolo di merito dell’opera sono due appendici introduttive sul significato di hebel e<br />
jitrôn. Curioso l’excursus conclusivo intitolato «Sapienza cinese e rivelazione biblica».<br />
WHITLEY, CH.F., Koheleth. His Language and Thought (BZAW 148), Berlin - New York 1979.<br />
Come si può cogliere d<strong>al</strong> sottotitolo, questo non è propriamente un commento. Dopo una brevissima<br />
introduzione (A), l’opera è aperta da uno studio del linguaggio di Qohelet (B), esaminato capitolo<br />
per capitolo, che si conclude con una v<strong>al</strong>utazione della tesi di Zimmermann e Dahood (con esito negativo).<br />
Questo esame critico (C) affronta le peculiarità del linguaggio di Qohelet e il suo rapporto con<br />
l’opera di Ben Sira. Lo studio del pensiero dell’autore del Qohelet (D) tiene conto delle teorie sulle influenze<br />
babilonesi, egiziane e greche. Nell’ultima parte (E) l’autore cerca d’impostare una v<strong>al</strong>utazione<br />
delle fonti israelite, del problema dell’influenza greca, del materi<strong>al</strong>e proverbi<strong>al</strong>e comune e della natura<br />
<strong>dei</strong> problemi affrontati da Qohelet. Se si prescinde da <strong>al</strong>cune conclusioni affrettate, questo è senza<br />
dubbio il migliore studio attu<strong>al</strong>e sul Qohelet.<br />
WHYBRAY, R.N., Ecclesiastes, Grand Rapids 1989.<br />
Il commento (pp. 33-174) è preceduto da una breve ma ricca introduzione di 31 pagine: titolo e posizione<br />
nel canone; contesto storico, autore e luogo di composizione; lingua; unità letteraria e struttura;<br />
pensiero; an<strong>al</strong>isi del contenuto. Pur mantenendosi nei limiti di una comprensibile prudenza, il commento<br />
è buono, molto aggiornato, di <strong>al</strong>to livello.
Qohelet 91<br />
Inoltre, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />
SACCHI, P., Ecclesiaste (NVB 20), Roma 1971.<br />
BARUCQ, A., Qohélet (ou Livre de l’Ecclésiaste), in DBS 9 (1977) 609-674.<br />
LAURENTINI, G., Ecclesiaste o Qoelet, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong><br />
<strong>al</strong>la Bibbia 3), Bologna 1978, 423-442.<br />
FESTORAZZI, F., Il Qohelet: un sapiente di Israele <strong>al</strong>la ricerca di Dio. Ragione e fede in rapporto di<strong>al</strong>ettico,<br />
in Quaerere Deum. Atti della XXV Settimana Biblica, Brescia 1980, 173-190.<br />
BONORA, A., Qohelet. La gioia e la fatica di vivere (LoB 1,15), Brescia 1987.<br />
RAVASI, G., Qohelet, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988, 1272-1278.<br />
RAVASI, G., Qohelet (La parola di Dio), Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988.<br />
D’ALARIO, V., Il libro del Qohelet. Struttura letteraria e retorica (Supplementi <strong>al</strong>la Rivista Biblica<br />
27), Bologna 1993.<br />
PAHK, J.Y.-S., Il canto della gioia in Dio. L’itinerario sapienzi<strong>al</strong>e espresso d<strong>al</strong>l’unità letteraria in<br />
Qohelet 8,16–9,10 e il par<strong>al</strong>lelo di Gilgameš Me. iii (Istituto Universitario Orient<strong>al</strong>e. Dipartimento<br />
di Studi Asiatici. Series Minor 42), Napoli 1996.<br />
WRIGHT, A.G., Qohelet, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 638-646.<br />
MORLA ASENSIO, V., Il libro dell’Ecclesiaste, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo<br />
studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 147-174.<br />
BONORA, A., Qoélet, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4), Torino-Leumann<br />
1997, 71-83.<br />
BELLIA, G. - PASSARO, A (edd.), Il <strong>Libro</strong> di Qohelet. Tradizione, redazione, teologia, Milano 2001.<br />
MAZZINGHI, L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, Bologna 2001.<br />
Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 3/2003: «Il libro di Qohelet».
CANTICO DEI CANTICI *<br />
Con il libro <strong>dei</strong> S<strong>al</strong>mi e il vangelo di Giovanni, il Cantico è senza dubbio uno degli scritti<br />
biblici più commentati d<strong>al</strong>la tradizione cristiana, e certamente quello che ha dato origine <strong>al</strong><br />
ventaglio più grande di interpretazioni. Già la sua accettazione nel canone delle Scritture ebr<strong>ai</strong>che<br />
non avvenne senza causare <strong>dei</strong> problemi, come testimoniano le discussioni rabbiniche<br />
riportate nella Mišnah:<br />
Tutte le sante Scritture rendono impure le mani. Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure<br />
le mani. R. Ieudà dice: Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani. R. Ieudà<br />
dice: Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani e intorno <strong>al</strong>l’Ecclesiaste vi è<br />
diversità di opinioni. R. Iosè dice: l’Ecclesiaste non rende impure le mani e intorno <strong>al</strong> Cantico <strong>dei</strong><br />
Cantici vi è diversità di opinioni. R. Simeone dice: l’Ecclesiaste è una di quelle cose in cui la scuola<br />
di Šamm<strong>ai</strong> facilita, mentre la scuola di Hillel è più rigida. Disse R. Simeone figlio di Az<strong>ai</strong>: Io ho<br />
per tradizione d<strong>al</strong>la bocca <strong>dei</strong> settantadue anziani, nel giorno che insediarono R. Eliezer figlio di<br />
Azaria a presidente, che il Cantico <strong>dei</strong> Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani. Disse <strong>al</strong>lora<br />
R. Akibà: Dio guardi! Nessuno si oppone in Israele col dire che il Cantico <strong>dei</strong> Cantici non renda<br />
impure le mani perché il mondo intero non ha tanto v<strong>al</strong>ore come il giorno in cui fu dato a Israele il<br />
Cantico <strong>dei</strong> Cantici, perché tutti gli <strong>al</strong>tri agiografi sono santi ma il Cantico <strong>dei</strong> Cantici è il più santo<br />
di tutti e se ci fu diversità di opinioni ciò fu soltanto rispetto <strong>al</strong>l’Ecclesiaste 1 .<br />
Una volta fissato il canone, le tradizioni ebr<strong>ai</strong>ca e cristiana hanno tenuto il Cantico in grandissima<br />
stima, rileggendo in esso il proprio itinerario spiritu<strong>al</strong>e descritto sotto i tratti dell’amata<br />
che si meraviglia dell’amore che le porta il suo amato e che, nel tempo della separazione o<br />
dell’assenza, non ha pace finché non l’ha ritrovato.<br />
1. ASPETTO LETTERARIO DEL CANTICO<br />
1.1. CONTENUTO<br />
Il Cantico è una raccolta di canti d’amore. Ora in forma di di<strong>al</strong>oghi, ora di monologhi, questi<br />
canti esprimono le diverse fasi dell’esperienza amorosa di una giovane di Gerus<strong>al</strong>emme,<br />
«bruna ma bella» (1,5) e soprannominata la «Sulammita» (7,1: d<strong>al</strong>la radice šālem, «pace», da<br />
cui deriva anche il nome di S<strong>al</strong>omone), e del suo amato, che abita tra i pastori (1,7-8), ma che<br />
il testo identifica anche con il re (1,12) e più specificamente con S<strong>al</strong>omone (3,7-11). Ricchi di<br />
lunghe descrizioni della bellezza fisica dell’uno e dell’<strong>al</strong>tro, questi canti esprimono l’ammirazione<br />
che i due amanti hanno reciprocamente e il desiderio che essi provano l’uno dell’<strong>al</strong>tro.<br />
I canti fanno posto anche a una certa nost<strong>al</strong>gia e <strong>al</strong>le inquietudini provocate d<strong>al</strong>l’assenza<br />
dell’<strong>al</strong>tro. Essi terminano anche con un invito <strong>al</strong>la separazione («Fuggi, mio diletto»: 8,14),<br />
ma non senza aver proclamato con forza la convinzione che attraversa ciascun poema: «Forte<br />
come la morte è l’amore; tenace come gli inferi è la gelosia; le sue vampe sono vampe di fuoco:<br />
un colpo di fulmine sacro» (8,6).<br />
1.2. STRUTTURA<br />
La critica letteraria ha proposto per il Cantico un’infinita varietà di strutture e di divisioni:<br />
si è creduto di individuarvi tra i quaranta e i quarantadue poemi! 2 Al di là di queste varianti, la<br />
tendenza è tuttavia quella di riconoscere una certa unità <strong>al</strong> Cantico, speci<strong>al</strong>mente in ragione<br />
della sua lingua così particolare (vi si trovano una cinquantina di hapax legomena insieme a<br />
*<br />
J.-P. PRÉVOST, Cantico <strong>dei</strong> cantici, in J. AUNEAU (ed.), I s<strong>al</strong>mi e gli <strong>al</strong>tri scritti (Piccola Enciclopedia Biblica<br />
5), Roma 1991, 155-166.189-191.<br />
1<br />
Yad<strong>ai</strong>m III,5; trad. di V. Castiglioni.<br />
2<br />
Cfr. M. H. POPE, The Song of Songs (AncB 7c), Garden City-New York 1977, 40-54, per una panoramica<br />
delle princip<strong>al</strong>i proposte riguardanti la struttura del Cantico.
Cantico <strong>dei</strong> Cantici 93<br />
un numero impressionante di termini rari) e soprattutto della ripetizione di certi ritornelli (risveglio<br />
dell’amore: 2,7; 3,5; 8,4; appartenenza mutua: 2,16; 6,3; 7,11), o di certe espressioni<br />
(«figlie di Gerus<strong>al</strong>emme»: 1,5; 2,7; 3,5.11; 5,8.16; 8,4; «la più bella fra le donne»: 1,8; 5,9;<br />
6,1) o ancora di certi temi (giardino: 4,12.15.16; 5,1; 6,2.11; 8.13; vigna: 1,6; 2,15; 7,13;<br />
8,11.12; ricerca dell’amato: 3,1.2; 5,6; 6,1), ecc. Gli studi recenti sulla struttura del Cantico 3<br />
vanno tutti nel senso dell’omogeneità se non dell’unità dell’insieme.<br />
2. DATA DI COMPOSIZIONE<br />
Appoggiandosi sull’intestazione del libro, un buon numero di autori (Seg<strong>al</strong>, Gerleman,<br />
Ginsberg, Ch<strong>ai</strong>m Rabin, ecc.) propongono come probabile data di composizione del Cantico il<br />
periodo di S<strong>al</strong>omone. Si argomenta a partire d<strong>ai</strong> dati topografici gener<strong>al</strong>i, che corrisponderebbero<br />
<strong>ai</strong> confini territori<strong>al</strong>i di Israele <strong>al</strong> tempo di S<strong>al</strong>omone, o d<strong>al</strong>l’importanza accordata a Tirza<br />
nei confronti di Gerus<strong>al</strong>emme (6,4), o ancora d<strong>al</strong>le descrizioni sontuose del Cantico, perfettamente<br />
in linea con la prosperità e il lusso del regno di S<strong>al</strong>omone. All’<strong>al</strong>tro estremo, autori come<br />
Hartmann e Graetz propongono il periodo ellenistico e sono disposti a scendere fino <strong>al</strong> III<br />
secolo. La maggior parte di commentatori oggi opta per una data postesilica, piuttosto il periodo<br />
persiano, dato che il Cantico porta i segni di un’influenza aram<strong>ai</strong>ca e persiana 4 .<br />
3. LE GRANDI CORRENTI DI INTERPRETAZIONI<br />
Di fronte <strong>al</strong>l’estrema diversità di interpretazioni è bene procedere a un certo raggruppamento<br />
5 e sottolineare già i punti essenzi<strong>al</strong>i delle princip<strong>al</strong>i interpretazioni insieme <strong>al</strong>le questioni<br />
che esse sollevano. Per il Cantico, più che per ogni <strong>al</strong>tro libro biblico, è necessario evitare<br />
le posizioni esclusivistiche ed è senza dubbio più importante porre bene le questioni anziché<br />
pretendere di avere l’interpretazione che si impone su tutte le <strong>al</strong>tre. La storia dell’interpretazione<br />
mostra, se ce ne fosse bisogno, che il Cantico può e deve essere letto a diversi livelli.<br />
3.1. LETTERALE<br />
Si propone di leggere il Cantico come una raccolta di canti d’amore (descrizione concreta<br />
o metaforica). Originariamente questi canti sarebbero stati composti per un matrimonio qu<strong>al</strong>unque,<br />
o più specificamente per il matrimonio di S<strong>al</strong>omone con la figlia del Faraone, o ancora<br />
di un re con una pastorella. Il loro significato sarebbe quindi quello di una celebrazione<br />
dell’amore umano, e il Cantico avrebbe l’apparenza di un commento sviluppato <strong>dei</strong> primi due<br />
capitoli della Genesi.<br />
Benché relativamente poco attestata nel corso della tradizione (con Teodoro di Mopsuestia,<br />
la cui esegesi di questo punto sarebbe stata condannata, e poi più tardi con Bossuet, Dom<br />
C<strong>al</strong>met e Renan), questa interpretazione si impone sempre di più nell’esegesi recente. Essa ha<br />
il vantaggio di rispettare il significato ovvio del testo, rendendo nello stesso tempo conto del<br />
carattere sapienzi<strong>al</strong>e del libro.<br />
D’<strong>al</strong>tra parte, essa non manca di suscitare degli interrogativi: come si spiega il fatto che sia<br />
stata praticamente ignorata da tutta la tradizione ebr<strong>ai</strong>ca e che abbia incontrato così pochi so-<br />
3<br />
J. C. EXUM, A Literary and Structur<strong>al</strong> An<strong>al</strong>ysis of the Song of Songs, in ZAW 85 (1973) 47-79; F. LANDY,<br />
Beauty and the Enigma: An Inquiry into Some Interrelated Episodes of the Song of Songs, in JSOT 17 (1980) 71-<br />
85; R. E. MURPHY, The Unity of the Song of Songs, in VT 29 (1979) 436-443; W. H. SHEA, The Chiastic Structure<br />
of the Song of Songs, in ZAW 92 (1980) 378-396; T. ELLIOTT, The Literary Unity of the Canticle (Europäische<br />
Hochschulschriften XXIII,371), Frankfurt a.M. 1989.<br />
4<br />
A. ROBERT – R. TOURNAY – A. FEUILLET, Le Cantique des Cantiques. Traduction et comment<strong>ai</strong>re (EtB),<br />
Gab<strong>al</strong>da, Paris 1963, 20-22.<br />
5<br />
Per un quadro più completo, con ampli riferimenti bibliografici: POPE, The Song ot Songs, 89-229.
94 Cantico <strong>dei</strong> Cantici<br />
stenitori nella tradizione cristiana antica? Come spiegare le derivazioni d<strong>al</strong> vocabolario profetico?<br />
E, se si tratta di canti d’amore, come spiegare i riferimenti così numerosi <strong>al</strong>la geografia<br />
d’Israele?<br />
3.2. ALLEGORICA<br />
All’opposto dell’interpretazione letter<strong>al</strong>e, questa attribuisce un significato nascosto <strong>ai</strong> personaggi,<br />
<strong>al</strong> loro linguaggio e <strong>al</strong>la loro ricerca amorosa. L’amato non è <strong>al</strong>tro che Dio, mentre la<br />
donna è diversamente interpretata come Israele, la Chiesa o l’anima credente, <strong>al</strong>la ricerca di<br />
Dio. La tradizione giud<strong>ai</strong>ca, fissata nel T<strong>al</strong>mud e più tardi nel Targum e nei vari midrašim, interpreta<br />
il Cantico come uno scambio di lode tra Dio e Israele e non esita ad <strong>al</strong>legorizzare tutti<br />
i dettagli: l’assenza dell’amato è un’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>l’esilio, il vino significa la Torāh, i baci designano<br />
la profezia, ecc. Sul versante cristiano, Origene farà opera di pioniere nel sostituire <strong>al</strong>la<br />
lettura ebr<strong>ai</strong>ca una lettura similmente <strong>al</strong>legorica, ma completamente rivista <strong>al</strong>la luce del mistero<br />
del Cristo e della Chiesa. Egli affermerà senza mezzi termini: «Per “sposo” intendo il Cristo.<br />
Per “sposa senza macchia né ruga” intendo la Chiesa...» 6 .<br />
L’interpretazione <strong>al</strong>legorica è quindi fortemente radicata in ambiente ebr<strong>ai</strong>co e cristiano.<br />
Essa non è m<strong>ai</strong> venuta meno presso gli ebrei, dove è praticamente esclusiva, mentre<br />
nell’esegesi cristiana dopo Origene ha goduto di un forte consenso presso i Padri della Chiesa<br />
e i teologi del Medio Evo, per poi dominare l’esegesi cattolica fino <strong>al</strong>le soglie del Concilio<br />
Vaticano II. Il suo grande vantaggio è quello di armonizzare la teologia del Cantico con<br />
l’insieme della tradizione biblica.<br />
Questa quasi unanimità della tradizione è stata rimessa in discussione recentemente. Per<br />
quanto antica e venerabile, l’interpretazione <strong>al</strong>legorica non s’impone necessariamente <strong>al</strong>la lettura<br />
del testo. Si nota a t<strong>al</strong>e proposito il sorprendente silenzio su Dio, che non viene m<strong>ai</strong> nominato<br />
nel testo, e bisogna ammettere che, se c’è parabola o <strong>al</strong>legoria, la chiave non viene data<br />
nel testo (contrariamente <strong>al</strong>le parabole o <strong>al</strong>legorie che si trovano nei profeti o nei vangeli).<br />
Ciò che lascia ugu<strong>al</strong>mente dubbiosi è il carattere soggettivo, e t<strong>al</strong>volta arbitrario, della decodificazione<br />
<strong>dei</strong> simboli.<br />
In questa scuola è da inserire anche l’interpretazione mistica. Iniziata anch’essa da Origene,<br />
doveva essere ripresa da Gregorio di Nissa, Gregorio di Elvira e Bernardo di Chiarav<strong>al</strong>le,<br />
prima di essere consacrata da Giovanni della Croce e Teresa d’Avila.<br />
3.3. ANTOLOGICA<br />
Sotto molti aspetti, l’interpretazione antologica avanzata da A. Robert 7 , aderisce <strong>al</strong>le tesi di<br />
fondo dell’interpretazione <strong>al</strong>legorica. Appartiene infatti a un metodo che tende a dimostrare la<br />
v<strong>al</strong>idità e la necessità di una lettura <strong>al</strong>legorica. Merita tuttavia di essere distinta da essa per la<br />
serietà della sua documentazione e per il fatto che ha segnato tutta un’epoca dell’esegesi cattolica.<br />
Secondo i sostenitori della lettura antologica, il testo del Cantico sarebbe un midraš, intessuto<br />
di <strong>al</strong>lusioni e di citazioni bibliche. Il metodo antologico cerca di fare una lettura sistematica<br />
<strong>dei</strong> possibili accostamenti (quindi fatti d<strong>al</strong>l’autore?) con <strong>al</strong>tri testi biblici. In pratica questo<br />
metodo porta a una lettura profetica del Cantico secondo la qu<strong>al</strong>e è possibile trovare dietro<br />
ciascuna parola <strong>al</strong>trettante <strong>al</strong>lusioni <strong>al</strong>le diverse fasi della storia della s<strong>al</strong>vezza e delle relazioni<br />
amorose tra Dio e il suo popolo.<br />
Bisogna sottolineare qui la serietà della ricerca e la coerenza del sistema proposto. Uno<br />
studio così minuzioso si rivela estremamente prezioso d<strong>al</strong> punto di vista filologico, aprendo<br />
nello stesso tempo a una più ampia comprensione della Bibbia. Ma la sua forza costituisce an-<br />
6 Prima omelia sul cantico 1.<br />
7 ROBERT – TOURNAY – FEUILLET, Le Cantique des Cantiques, passim.
Cantico <strong>dei</strong> Cantici 95<br />
che la sua debolezza: attaccandosi troppo <strong>ai</strong> dettagli, non si rischia di perdere di vista il significato<br />
ovvio del testo? E se è necessaria una dimostrazione così abbondante e minuziosa per<br />
arrivare a comprendere otto piccoli capitoli, non si cerca di imporre una logica estranea <strong>al</strong> testo?<br />
3.4. CULTUALE<br />
Corrente <strong>al</strong>l’inizio del secolo ventesimo, l’interpretazione cultu<strong>al</strong>e del Cantico è stata avanzata<br />
d<strong>ai</strong> sostenitori dello studio comparativo delle religioni. Secondo loro il Cantico sarebbe<br />
la versione israelitica del matrimonio sacro attestato nella letteratura del Vicino Oriente<br />
Antico (presso i Sumeri, tra il dio Dumuzi e la dea Inanna, e a Babilonia, tra Marduk e Ištar).<br />
Una versione più recente (M. H. Pope) 8 collega il Cantico <strong>al</strong>le celebrazioni funerarie del Vicino<br />
Oriente Antico, impregnate di erotismo e accompagnate da abbondanti libagioni di vino e<br />
di canti.<br />
I sostenitori dell’interpretazione cultu<strong>al</strong>e possono invocare un numero impressionante di<br />
corrispondenze verb<strong>al</strong>i, così come una somiglianza certa nel simbolismo terra-sposa e nel<br />
simbolismo teologico del matrimonio divino. Ma comparare non vuol dire provare, e una simile<br />
spiegazione non rende giustizia <strong>al</strong>l’origin<strong>al</strong>ità d’Israele nei riguardi della sessu<strong>al</strong>ità e ancor<br />
meno <strong>al</strong>l’origin<strong>al</strong>ità del Cantico. In rapporto <strong>ai</strong> suoi vicini, Israele ha proceduto a una vera<br />
e propria demitizzazione della sessu<strong>al</strong>ità umana, della fecondità e della sessu<strong>al</strong>ità divina 9 . E<br />
nel contesto più ampio del monoteismo, bisogna notare che l’ebr<strong>ai</strong>co non ha un termine per<br />
dire dea.<br />
4. UNA TEOLOGIA DELL’AMORE<br />
4.1. VERSO UN’ERMENEUTICA DEL «DUPLICE SIGNIFICATO»<br />
Come orientarsi nella scelta tra queste interpretazioni che, ciascuna a suo modo, rivelano<br />
qu<strong>al</strong>che cosa del testo o del suo ambiente biblico o <strong>dei</strong> suoi legami con le correnti sapienzi<strong>al</strong>i<br />
straniere?<br />
La soluzione potrebbe trovarsi nell’accostamento delle due posizioni che sono apparse a<br />
lungo inconciliabili: quella letter<strong>al</strong>e e quella <strong>al</strong>legorica. In effetti, i sostenitori della prima non<br />
si sono opposti <strong>al</strong>la possibilità di un secondo significato, simbolico o parabolico, mentre i sostenitori<br />
della seconda non hanno m<strong>ai</strong> negato il significato primario del vocabolario del Cantico<br />
e delle sue forti connotazioni sessu<strong>al</strong>i. I sostenitori dell’una e dell’<strong>al</strong>tra interpretazione<br />
concordano nel dire che si tratta indubbiamente dell’amore umano. Mentre per molto tempo il<br />
problema era quello di sapere qu<strong>al</strong>e fosse il significato del Cantico, gli sviluppi recenti delle<br />
scienze del linguaggio e dell’ermeneutica portano a riconoscere la polisemia o plur<strong>al</strong>ità di significato<br />
per uno stesso testo. Non ci si sorprenderà <strong>al</strong>lora di sentire un rappresentante dell’interpretazione<br />
letter<strong>al</strong>e, D. Lys, concludere che il significato del Cantico è <strong>al</strong> tempo stesso sessu<strong>al</strong>e<br />
e sacro: «Sessu<strong>al</strong>e e sacro: è necessario tenere i due insieme <strong>al</strong>trimenti si perde il significato.<br />
Per esempio, se si comprende il Cantico <strong>dei</strong> Cantici come sessu<strong>al</strong>e ma non sacro, <strong>al</strong>lora<br />
è profano, serve da canto convivi<strong>al</strong>e e l’amore è profanato. Ma d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra parte grande è la tentazione,<br />
considerandolo sacro, di rifiutare il suo carattere sessu<strong>al</strong>e che fa paura o vergogna, e<br />
di cadere nell’<strong>al</strong>legorizzazione. In re<strong>al</strong>tà il senso letter<strong>al</strong>e parla di sessu<strong>al</strong>ità e questa non è per<br />
8 POPE, The Song ot Songs, 210-229.<br />
9 «Costatiamo innanzitutto che la fede jahvista ha “de-sacr<strong>al</strong>izzato” il matrimonio, l’ha secolarizzato e ne ha<br />
fatto una re<strong>al</strong>tà di questo mondo terreno» (E. SCHILLEBEECKX, Il matrimonio, re<strong>al</strong>tà terrestre e mistero di s<strong>al</strong>vezza<br />
nell’AT e nel NT e nella storia della Chiesa, Roma 2 1971). Lo stesso giudizio viene espresso da P. GRE-<br />
LOT, Le couple hum<strong>ai</strong>n dans l’Écriture (LeDiv 31), Paris 1962, 28-31.
96 Cantico <strong>dei</strong> Cantici<br />
sua natura oscena e non ha bisogno di essere mor<strong>al</strong>izzata o <strong>al</strong>legorizzata per diventare teologica»<br />
10 .<br />
Ugu<strong>al</strong>mente significativa del cammino percorso nell’ultimo quarto di secolo d<strong>al</strong>l’esegesi<br />
del Cantico è la posizione recente di uno <strong>dei</strong> princip<strong>al</strong>i rappresentanti dell’interpretazione <strong>al</strong>legorica<br />
(con il concorso del metodo antologico), R. J. Tournay, che scrive nella prefazione<br />
<strong>dei</strong> suoi nuovi studi sul Cantico: «Il principio ermeneutico più fecondo sembra essere quello<br />
del duplice significato [...], già applicato, credo, d<strong>al</strong> responsabile ispirato dell’edizione definitiva<br />
del Cantico <strong>dei</strong> Cantici. Questo libretto <strong>al</strong>tamente poetico resiste a ogni tentativo di atomizzazione;<br />
nel suo stato attu<strong>al</strong>e, canonico, biblico, esso si presenta come una parte integrante<br />
dell’Antico Testamento. La lettura che ne propongo cerca di integrare due registri che sarebbe<br />
vano e inutile, secondo me, ridurre a una semplice opposizione dato che mi sembrano correlativi.<br />
Il mistero dell’amore umano è inseparabile da quello dell’Amore divino di cui costituisce<br />
il segno e il simbolo» 11 . Non si potrebbe meglio riassumere il Cantico: «L’amore umano è inseparabile<br />
[...] d<strong>al</strong>l’Amore divino».<br />
4.2. UNA TEOLOGIA DELL’AMORE UMANO<br />
Per rendere conto del messaggio e dell’origin<strong>al</strong>ità del Cantico bisogna dapprima ridare tutto<br />
il suo v<strong>al</strong>ore <strong>al</strong> linguaggio di cui è intessuto. Ora questo linguaggio si distingue da quello di<br />
tutti gli <strong>al</strong>tri libri della Bibbia per il fatto che sfrutta tutti i registri del linguaggio sessu<strong>al</strong>e (amore,<br />
bellezza fisica, baci, carezze e abbracci, desiderio, passione, unione sessu<strong>al</strong>e e appartenenza<br />
mutua).<br />
Letter<strong>al</strong>e o metaforica, il linguaggio del Cantico è ampiamente improntato <strong>al</strong> campo della<br />
sessu<strong>al</strong>ità: amore (dôd, 29 volte e ’āhab, 16 volte), bellezza fisica (yāphāh, 11 volte; nā’āh, 5<br />
volte), desiderio e passione (˙āmad, 2,3 e 5,16; t e šûqāh, 7,11), baci e carezze (nāšaq, 3 volte;<br />
˙ābaq, 2 volte), unione sessu<strong>al</strong>e (1,4.13.16; 3,1.4; 7,12). Una t<strong>al</strong>e abbondanza dà ugu<strong>al</strong>mente<br />
una connotazione sessu<strong>al</strong>e a certe espressioni qu<strong>al</strong>i: la ricerca amorosa (cercare-trovare), il<br />
giardino, la vigna e il vino (si vedano i riferimenti dati sopra).<br />
È, per così dire, la materia prima del Cantico. Certo, l’autore commenta con libertà la visione<br />
fondament<strong>al</strong>mente positiva delle relazioni uomo-donna di Gen 1–2, ma opera anche un<br />
numero impressionante di correzioni in rapporto a una tradizione diventata più diffidente e sospettosa<br />
nei riguardi della sessu<strong>al</strong>ità. Così, in rapporto <strong>al</strong> desiderio: là dove il desiderio era finito<br />
per essere percepito come cupidigia e per diventare oggetto di divieto (Es 20,17; Dt 7,25;<br />
Pr 6,25), il Cantico l’assume in pieno e ne fa l’elogio: «Tutto il suo essere è l’oggetto stesso<br />
del desiderio» (5,16). Stessa cosa in rapporto <strong>al</strong>la passione, vista un tempo come un rapporto<br />
di dominio (Gen 3,16) e celebrata qui con meraviglia: «Io sono per il mio diletto / e la sua<br />
brama è verso di me» (7,11). Rompendo anche con la diffidenza della sapienza tradizion<strong>al</strong>e<br />
circa i baci seduttori e le carezze (Pr 5,20; 7,13), il Cantico non nasconde la sua ammirazione<br />
per i gesti d’amore: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le sue carezze sono più dolci del<br />
vino...» (1,2; cfr. anche 1,4; 4,10; 7,13) 12 .<br />
La visione dell’amore umano che emerge d<strong>al</strong> Cantico si potrebbe riassumere in quattro affermazioni.<br />
1) L’amore umano è una re<strong>al</strong>tà profondamente, intrinsecamente bella e buona. Nel Cantico<br />
non si trova nessuna traccia di riserva, di sospetto o di compromesso. Il tono è in esso di<br />
ammirazione d<strong>al</strong>l’inizio <strong>al</strong>la fine. L’autore non cessa di esprimere l’eccellenza (è buono) e la<br />
bellezza (tutta l’insistenza sulla bellezza fisica) dell’amore umano nella sua dimensione sen-<br />
10<br />
D. LYS, Le Cantique des Cantiques. Pour une sexu<strong>al</strong>ité non ambiguë, in Lumière et Vie 28 (1979) 47.<br />
11<br />
R. J. TOURNAY, Quand Dieu parle aux hommes le langage de l’amour: études sur le cantique des Cantiques<br />
(CRB 21), Paris 1982, 5-6.<br />
12<br />
Cfr. F. RAURELL, Il piacere erotico nel Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in Lineamenti di antropologia biblica, Cas<strong>al</strong>e<br />
Monferrato 1986, 185-226.
Cantico <strong>dei</strong> Cantici 97<br />
su<strong>al</strong>e, carn<strong>al</strong>e e sessu<strong>al</strong>e. Tutti i suoi canti tendono a es<strong>al</strong>tare il piacere di amare, insito nell’innata<br />
bontà della creazione.<br />
2) L’amore umano rimane una re<strong>al</strong>tà terrena. L’autore del Cantico celebra un’avventura e<br />
una storia umana. Matrimonio e sessu<strong>al</strong>ità non derivano da un qu<strong>al</strong>unque archetipo divino e<br />
mitico. Sono due re<strong>al</strong>tà inserite nell’esistenza umana e il cui significato è da scoprire e da costruire<br />
come un progetto umano, che richiede tempo, ricerca di significato e libertà.<br />
3) L’esperienza amorosa è basata su una relazione di uguaglianza e di reciprocità. Gli<br />
studi biblici ispirati d<strong>al</strong> femminismo hanno giustamente sottolineato come il Cantico vada <strong>al</strong><br />
di là <strong>dei</strong> pregiudizi sessisti, particolarmente spiccati nell’Israele antico 13 . Ricordiamo i tratti<br />
princip<strong>al</strong>i che mettono in evidenza l’uguaglianza della donna e dell’uomo nel Cantico. La<br />
donna ha la prima e l’ultima parola nel libro. Non è certo per caso. Essa ha l’iniziativa e la<br />
conserva durante tutto il di<strong>al</strong>ogo. Poi, contrariamente <strong>al</strong>le poesie antiche che celebrano l’amore,<br />
il Cantico non descrive il corpo e la bellezza della donna soltanto, ma anche dell’uomo. E<br />
infine, la donna ha tutto lo spazio desiderato per affermare il suo desiderio. Preso nel suo insieme,<br />
il Cantico è quindi una mirabile illustrazione dell’unità origin<strong>al</strong>e e dell’uguaglianza voluta<br />
da Dio per le relazioni tra l’uomo e la donna.<br />
4) L’amore trova in se stesso la propria giustificazione. Il Cantico non finisce di stupire. Se<br />
tratta intensamente dell’amore umano, non si parla m<strong>ai</strong> del matrimonio e della procreazione.<br />
Parla molto semplicemente di due amanti. Certo, si può vedere in questo il fondamento del<br />
matrimonio, ma è importante rispettare quest’<strong>al</strong>tro silenzio del Cantico. L’amore umano non<br />
ha qui bisogno di essere incorniciato: rimane la re<strong>al</strong>tà più bella e merita di essere continuamente<br />
riscoperto e reinventato.<br />
4.3. UNA PARABOLA DELL’AMORE DIVINO<br />
Questa è l’origin<strong>al</strong>ità del Cantico: celebrando l’amore umano in tutta la sua grandezza,<br />
l’autore ci trasmette la più bella parabola dell’Amore divino. Se l’amore umano è così bello e<br />
così grande è perché porta in sé un mistero più grande: quello dell’amore divino. In <strong>al</strong>tre parole,<br />
l’amore umano così come descritto nel Cantico diventa un luogo teologico, rivelatore del<br />
modo in cui Dio ama. Conoscere l’amore umano così come descritto nel Cantico significa conoscere<br />
qu<strong>al</strong>cosa di Dio: «E chi non vedrebbe chiaro in questo specchio luminoso: ecco come<br />
ama il Dio dell’<strong>al</strong>leanza, con questa passione, questa impazienza e questa gioia» 14 . D’<strong>al</strong>tra<br />
parte, se Dio ama come si ama nel Cantico, la parabola può anche essere rivolta verso di noi.<br />
L’amore umano ha quindi la sua fonte e la sua ispirazione nell’amore stesso di Dio. Eros ha la<br />
sua fonte nell’Agape.<br />
BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />
Nell’abbondante letteratura sul Cantico sarebbe opportuno anzitutto selezionare le opere che, per<br />
qu<strong>al</strong>ità, per la disamina esaustiva <strong>dei</strong> problemi, l’equilibrio nella presentazione tematica, l’origin<strong>al</strong>ità<br />
<strong>dei</strong> punti di vista o perché rappresentano una pietra miliare nella storia della ricerca, offrono un <strong>ai</strong>uto<br />
insostituibile e un punto di riferimento per chi le legge per curiosità o qu<strong>al</strong>sivoglia esigenza. Ho scelto<br />
sette commenti:<br />
ROBERT, A. - TOURNAY, R. - FEUILLET, A., Le Cantique des Cantiques, Paris 1963.<br />
È un classico dell’interpretazione <strong>al</strong>legorica pubblicato da Tournay otto anni dopo la morte di Robert,<br />
il suo princip<strong>al</strong>e ispiratore e autore. La traduzione e il commento occupano le pp. 61-329. La critica<br />
testu<strong>al</strong>e e la critica letteraria sono esposte con maestria ed erudizione. Uno degli aspetti più preziosi<br />
dell’opera è costituito d<strong>al</strong>la sezione dedicata <strong>ai</strong> «par<strong>al</strong>leli non biblici», opera di Tournay (pp. 339-<br />
13 POPE, The Song ot Songs, 205-210.<br />
14 G. CASALIS, Le (bon) pl<strong>ai</strong>sir d’<strong>ai</strong>mer, in Une chant d’amour insolite: le Cantique des Cantiques, Paris<br />
1984, 21-22.
98 Cantico <strong>dei</strong> Cantici<br />
426): Egitto, Mesopotamia e area siro-fenicia (Sumer, Assiria-Babilonia, Ugarit), cultura ellenistica,<br />
mondo giud<strong>ai</strong>co, arabo ed Etiopia.<br />
RUDOLPH, W., Das Buch Ruth. Das Hohe Lied. Die Klagelieder (KAT 17/1-3), Gütersloh 1962.<br />
Il Cantico <strong>dei</strong> cantici occupa le pp. 73-186, suddivise in due parti: introduzione (pp. 77-120) e traduzione<br />
e commento (pp. 121-186). Lo stile espositivo di Rudolph si distingue per la chiarezza, l’ordine,<br />
il rigore scientifico e il costante riferimento <strong>al</strong>le letterature affini. Ragguardevole è il ragionato e<br />
ragionevole equilibrio nell’esposizione <strong>dei</strong> temi. Il commento si segn<strong>al</strong>a per l’ottimo apparato critico,<br />
probabilmente il migliore oggi disponibile. Manca uno studio della retorica del Cantico. Un’edizione<br />
riveduta con una maggiore attenzione per gli aspetti letterari e con un’appendice sulla poesia d’amore<br />
egiziana e mesopotamica renderebbero quest’opera il miglior commento disponibile.<br />
KRINETZKI, L., Das Hohe Lied, Düsseldorf 1964.<br />
L’opera consta essenzi<strong>al</strong>mente di tre parti: introduzione (pp. 21-82), commento (pp. 85-257), testimonianza<br />
del Cantico (pp. 261-290), una serie di capitoletti su vari temi. In gener<strong>al</strong>e si tratta di<br />
un’opera di consultazione imprescindibile, in particolare per quanto riguarda la forma poeticoletteraria<br />
del Cantico (pp. 46-82), una sezione dell’introduzione cui si riferiscono necessariamente tutti<br />
gli studiosi. Krinetzki non ha tuttavia saputo liberarsi da un’interpretazione <strong>al</strong>legorica che in certi casi<br />
non fa che ostacolarne le riflessioni sul v<strong>al</strong>ore dell’amore umano come appare nel Cantico e rendere<br />
oscuro l’ottimo e chiaro sviluppo dell’esposizione.<br />
GERLEMANN, G., Ruth. Das Hohelied (BK 18), Neukirchen/Vluyn 1965.<br />
Il commento <strong>al</strong> Cantico occupa le pp. 43-235. L’opera è composta fondament<strong>al</strong>mente di due parti:<br />
introduzione (pp. 43-92) e commento (pp. 93-223) e un breve excursus sulla lirica del Cantico (pp.<br />
224-227). Il tutto è elaborato con sobrietà e profondità. In particolare spicca l’an<strong>al</strong>isi della forma letteraria,<br />
delle versioni <strong>dei</strong> LXX e della Peshitta e del v<strong>al</strong>ore teologico del Cantico. Nel commento vero e<br />
proprio, anche se povero nello studio del versante poetico, una povertà m<strong>al</strong>auguratamente condivisa da<br />
quasi tutti i commenti moderni, assume particolare rilievo lo studio del testo ebr<strong>ai</strong>co.<br />
POPE, M.H., Song of Songs (AB 7c), New York 1977.<br />
Da questo voluminoso commento <strong>al</strong> Cantico si ricava l’impressione che l’autore non abbia voluto<br />
tr<strong>al</strong>asciare assolutamente nulla. L’opera si compone essenzi<strong>al</strong>mente di tre parti: introduzione (pp. 17-<br />
229), bibliografie (pp. 233-288), traduzione e note (pp. 291-701). Una serie di indici (pp. 703-743)<br />
completa l’opera. Nell’introduzione si segn<strong>al</strong>ano la buona disamina, per quanto breve, delle versioni<br />
del Cantico; lo studio del par<strong>al</strong>lelismo; la presentazione del cosiddetto «Cantico <strong>dei</strong> cantici indiano»<br />
(Gītagovinda); l’interpretazione del Targum e la sezione intitolata «Il Cantico <strong>dei</strong> cantici e la liberazione<br />
della donna». Uno <strong>dei</strong> contributi di maggiore origin<strong>al</strong>ità è il rapporto stabilito d<strong>al</strong>l’autore tra <strong>al</strong>cuni<br />
elementi del Cantico e i culti funerari del Vicino Oriente Antico, feste d’amore r<strong>al</strong>legrate da vino,<br />
donne e canti (pp. 210-229). Considerevole, inoltre, è la conoscenza che l’autore dimostra delle culture<br />
vicine a Israele (Ugarit, Egitto, Mesopotamia). I punti deboli del commento sono individuabili nel costante<br />
disordine espositivo e nella scarsa sensibilità letteraria dell’autore, carenza sorprendente nel<br />
commento di un’opera di così elevata qu<strong>al</strong>ità poetica.<br />
FOX, M.V., The Song of Songs and the Egyptian Love Songs, Wisconsin 1985.<br />
L’opera si compone di due parti: traduzione e commento (pp. 3-177); esposizione letteraria<br />
dell’amore (pp. 181-331). Nella prima, articolata in due capitoli (1-2), l’autore traduce e commenta i<br />
poemi amorosi egiziani e il Cantico <strong>dei</strong> cantici, con una buona e utile an<strong>al</strong>isi testu<strong>al</strong>e, in particolare per<br />
quanto concerne i papiri egiziani. La seconda parte è suddivisa in sei capitoli (3-8), <strong>al</strong>cuni <strong>dei</strong> qu<strong>al</strong>i<br />
dedicati ad aspetti letterari trascurati da <strong>al</strong>tri commentatori. Nel terzo capitolo Fox affronta il problema<br />
del linguaggio, la data di composizione e il contesto storico sia <strong>dei</strong> canti d’amore egiziani sia del Cantico;<br />
il quarto è intitolato «Composizione delle fonti e i Canti» (cioè i canti egiziani e il Cantico); nel<br />
quinto considera la funzione delle due serie di poemi e il loro ambiente soci<strong>al</strong>e; il sesto capitolo è intitolato<br />
«Chi parla e come? Voce e modi di presentazione» ed è incentrato sui caratteri drammatici e sui<br />
tipi di discorso; il settimo capitolo affronta i temi princip<strong>al</strong>i <strong>dei</strong> due tipi di canzoni; l’ottavo s’intitola<br />
«Amore e amanti nei canti d’amore». L’opera è completata da illustrazioni, appendici e bibliografia.<br />
M<strong>al</strong>grado i rischi impliciti nelle opere comparative – non è m<strong>ai</strong> possibile spiegare una manifestazione<br />
letteraria di una cultura determinata a partire da modelli cultur<strong>al</strong>i stranieri – questo è un ottimo lavoro<br />
d’indiscutibile utilità per chi ha affrontato in precedenza uno studio dedicato esclusivamente <strong>al</strong> Cantico.
Cantico <strong>dei</strong> Cantici 99<br />
GARBINI, G., Cantico <strong>dei</strong> cantici. Testo, traduzione, note e commento, Brescia 1992.<br />
Il volume (di 358 pagine) consta di tre parti: il testo – dove sono riprodotte e messe a confronto le<br />
più importanti testimonianze del Cantico: il testo masoretico; il frammento ebr<strong>ai</strong>co di Qumran; le varianti<br />
<strong>dei</strong> manoscritti ebr<strong>ai</strong>ci mediev<strong>al</strong>i; le versioni greche <strong>dei</strong> Settanta e di Aquila, Simmaco, Teodozione;<br />
il cosiddetto codice Ebr<strong>ai</strong>co; la Vetus Latina e la Vulgata; infine la versione siriaca della Peshitta<br />
–, l’interpretazione del testo, il significato del Cantico. L’autore, come precisa a conclusione della<br />
breve introduzione, ha cercato in quest’opera, senza dubbio la più significativa degli studi it<strong>al</strong>iani dedicati<br />
<strong>al</strong> Cantico, «di dare una risposta a... che cosa rappresenti in re<strong>al</strong>tà il Cantico <strong>dei</strong> cantici nella cultura<br />
ebr<strong>ai</strong>ca antica» (p. 19). Ricostruito il testo con rigoroso metodo filologico, si passa <strong>al</strong> commento,<br />
mirante a chiarire il significato letter<strong>al</strong>e e il v<strong>al</strong>ore poetico <strong>dei</strong> componimenti formanti il Cantico, e,<br />
infine, sono affrontati i più importanti problemi – datazione, struttura, le donne, l’amore, la Sapienza,<br />
ecc. – posti d<strong>al</strong> libro biblico, <strong>al</strong>largando l’attenzione <strong>al</strong>l’epoca neotestamentaria, a Simone il Mago e<br />
ad <strong>al</strong>tre figure gnostiche.<br />
Inoltre, in it<strong>al</strong>iano, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />
NOLLI, G., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici (SBT), Torino 1967.<br />
COLOMBO, D., Cantico <strong>dei</strong> Cantici (NVB 21), Roma 1970.<br />
LAURENTINI, G., Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong><br />
<strong>al</strong>la Bibbia 3), Bologna 1978, 405-422.<br />
MANNUCCI, V., Sinfonia dell’amore spons<strong>al</strong>e. Il Cantico <strong>dei</strong> cantici, Torino 1982.<br />
COLOMBO, D., Cantico <strong>dei</strong> Cantici (LoB 1.16), Brescia 1985.<br />
RAURELL, F., Il piacere erotico nel Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in IDEM, Lineamenti di antropologia biblica,<br />
Cas<strong>al</strong>e Monferrato 1986, 185-226.<br />
RAVASI, G., Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988,<br />
237-245.<br />
ALONSO SCHÖKEL, L., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici. La dignità dell’amore, Cas<strong>al</strong>e Monferrato 1990.<br />
RAVASI, G., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici. Commento e attu<strong>al</strong>izzazione, Bologna 1992.<br />
MURPHY, R.E., Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 602-607.<br />
MORLA ASENSIO, V., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo<br />
studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 364-392.<br />
BONORA, A., Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti<br />
(Logos 4), Torino-Leumann 1997, 135-146.<br />
REALI, A.V., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici. Trasposizione poetica d<strong>al</strong>l’ebr<strong>ai</strong>co, Castel Maggiore (BO) 1999.<br />
BARBIERO, G., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici (I libri biblici. Primo Testamento 24), Milano 2004.
SIRACIDE *<br />
1. PRESENTAZIONE D’INSIEME<br />
Con il Siracide passiamo d<strong>al</strong>la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca <strong>al</strong>la traduzione greca cosiddetta «<strong>dei</strong> Settanta»<br />
(ma anche «la Settanta»). Questa traduzione della Bibbia venne re<strong>al</strong>izzata, a partire d<strong>al</strong> III<br />
secolo a.C., d<strong>al</strong>la comunità giud<strong>ai</strong>ca di Alessandria, in Egitto. Il suo scopo continua a essere<br />
oggetto di discussione: se per far riconoscere d<strong>al</strong>l’autorità <strong>dei</strong> Lagidi, che governavano il paese,<br />
i libri regolatori della vita della comunità giud<strong>ai</strong>ca, oppure se per facilitare l’accesso <strong>dei</strong><br />
libri santi a quei giu<strong>dei</strong> <strong>al</strong>essandrini che non parlavano più l’ebr<strong>ai</strong>co. Comunque sia, una caratteristica<br />
della Bibbia <strong>al</strong>essandrina è che essa contiene <strong>dei</strong> libri che la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca non accoglie.<br />
In particolare, <strong>ai</strong> tre libri sapienzi<strong>al</strong>i della Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca, la traduzione <strong>dei</strong> Settanta<br />
aggiunse in greco la Sapienza di Ben Sira e la Sapienza di S<strong>al</strong>omone.<br />
1.1. DI QUALI TESTI DISPONIAMO?<br />
1.1.1. L’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co<br />
La Sapienza di Ben Sira passò per sorprendenti metamorfosi. In origine fu scritta in ebr<strong>ai</strong>co.<br />
Lo dice il Prologo della versione greca (Prologo, versetto 22). Alcuni Padri della Chiesa,<br />
per esempio Girolamo, Ilario di Poitiers, Epifano, lo sapevano. Gli scritti rabbinici ne avevano<br />
già citato questo o quel versetto. Ma il testo in ebr<strong>ai</strong>co era considerato perduto fino <strong>al</strong> 1896,<br />
quando S. Schechter, a Cambridge, ne identificò un foglio proveniente d<strong>al</strong> deposito (ghenizà)<br />
della sinagoga <strong>dei</strong> Car<strong>ai</strong>ti del Vecchio C<strong>ai</strong>ro, in Egitto. A quella scoperta, <strong>al</strong>tre seguirono, fino<br />
<strong>al</strong> 1900. In quella data erano stati ritrovati quasi i due terzi del testo ebr<strong>ai</strong>co. Alcuni complementi<br />
vennero riportati <strong>al</strong>la luce fino <strong>al</strong> 1982. Al momento si dispone così di sei manoscritti<br />
dell’XI secolo, ma molto frammentari e ass<strong>ai</strong> deteriorati, i qu<strong>al</strong>i però, messi insieme, danno<br />
princip<strong>al</strong>mente il testo ebr<strong>ai</strong>co di Sir 3,6–16,26 (manoscritto A) e Sir 30,11–51,30 (quasi per<br />
intero, grazie soprattutto <strong>al</strong> manoscritto B).<br />
C’è chi ha dubitato dell’autenticità di questi testi: non potrebbero essere delle retroversioni<br />
in ebr<strong>ai</strong>co, sulla base del testo greco o della versione siriaca? La risposta venne d<strong>al</strong>le scoperte<br />
di Qumran e della fortezza giud<strong>ai</strong>ca di Masada, sulla riva occident<strong>al</strong>e del mar Morto. Fra il<br />
1956 e il 1964 vi furono scoperti <strong>dei</strong> frammenti in ebr<strong>ai</strong>co del libro di Ben Sira, che per forza<br />
sono anteriori <strong>al</strong> disastro in cui finì la rivolta giud<strong>ai</strong>ca contro i Romani, cioè anteriori <strong>al</strong> 68<br />
d.C. per Qumran e <strong>al</strong> 73 per Masada. Ebbene, questi testi confermano quelli ritrovati nella sinagoga<br />
del Vecchio C<strong>ai</strong>ro.<br />
Sono scoperte d’importanza fondament<strong>al</strong>e per conoscere il messaggio origin<strong>al</strong>e del nostro<br />
autore. E tuttavia, le condizioni <strong>dei</strong> manoscritti ritrovati non permettono ancora, <strong>al</strong> momento,<br />
d’avere un buon testo ebr<strong>ai</strong>co della Sapienza di Ben Sira. Un terzo del libro continua a mancare,<br />
e anche i testi recuperati non sono delle copie accurate. Confrontandoli con le versioni greca<br />
e siriaca, entrambe fatte su un testo ebr<strong>ai</strong>co di Ben Sira, gli esegeti hanno tentato di ricostruire<br />
l’origin<strong>al</strong>e. Il confronto ha anche permesso loro di riscontrare, nei manoscritti ritrovati,<br />
<strong>dei</strong> doppioni, delle aggiunte, senza poi contare gli errori <strong>dei</strong> copisti. Ma ci torneremo.<br />
1.1.2. La versione greca<br />
Il Prologo del libro in greco venne redatto d<strong>al</strong> nipote dell’autore. Arrivato in Egitto nel 132<br />
a.C. (vedi Prologo, versetto 27), costui lì scoprì l’opera del suo avo e decise di tradurla in greco.<br />
Pare che il lavoro gli abbia preso una decina d’anni. Le difficoltà non mancavano (Prologo,<br />
versetti 15-26): non è agevole trasporre il genio di una lingua in un’<strong>al</strong>tra!<br />
* M. GILBERT, La Sapienza del cielo, Cinisello B<strong>al</strong>samo 2005, 137-147; A. BONORA, Siracide, in A. BONORA<br />
- M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4), Torino-Leumann 1997, 90-96.
Siracide 101<br />
In genere si dà credito a questo Prologo, e il confronto, orm<strong>ai</strong> possibile, fra l’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co<br />
e la versione greca permette d’intuire tutto un lavoro di trasposizione, perfino d’adattamento<br />
<strong>al</strong>le circostanze nuove, fatto d<strong>al</strong> traduttore con grande intelligenza, sebbene poi più<br />
d’una volta, come pare, gli sia stato difficile ben capire l’ebr<strong>ai</strong>co del nonno.<br />
Resta il fatto che questa versione greca (ed. A. Rahlfs, 1935) è <strong>al</strong> momento il miglior testimone<br />
testu<strong>al</strong>e dell’opera di Ben Sira, ed è essa che traducono le nostre Bibbie moderne. Qui<br />
il testo è completo, mentre dell’ebr<strong>ai</strong>co abbiamo soltanto un testo frammentario. Inoltre, questa<br />
versione greca venne trasmessa con grande cura. Prova ne è l’eccellenza <strong>dei</strong> manoscritti<br />
onci<strong>al</strong>i – cioè in lettere greche m<strong>ai</strong>uscole – del IV secolo. Si tratta soprattutto <strong>dei</strong> manoscritti<br />
cosiddetti Vaticano, conservato nella Biblioteca vaticana, e Sin<strong>ai</strong>tico, attu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong> British<br />
Museum di Londra. Sia l’uno che l’<strong>al</strong>tro danno, di questo libro, come degli <strong>al</strong>tri libri biblici,<br />
un testo greco di qu<strong>al</strong>ità, quello precisamente che traducono le più note Bibbie. Di fatto, il loro<br />
testo sembra provenire d<strong>al</strong>la scuola che Origene aveva creato a Cesarea nel III secolo.<br />
1.1.3. Un’edizione riveduta e con aggiunte<br />
Nell’epoca bizantina, <strong>al</strong>cuni manoscritti trasmettono, a partire d<strong>al</strong> IX secolo, un’<strong>al</strong>tra versione<br />
greca dell’opera di Ben Sira, ma scritta questa volta in caratteri minuscoli (ed. J. Ziegler,<br />
1965). Ebbene, questo testo differisce da quello <strong>dei</strong> grandi manoscritti onci<strong>al</strong>i del IV secolo<br />
per modifiche che incidono anche sul senso stesso delle frasi e per un certo numero di<br />
aggiunte – si contano 135 stichi, o righe – che orientano il testo in una direzione nuova e presumono<br />
una teologia più recente di quella di Ben Sira e del nipote.<br />
Tuttavia, queste modifiche e aggiunte non p<strong>ai</strong>ono d’una sola mano. I manoscritti greci non<br />
le trasmettono sempre <strong>al</strong>la stessa maniera. In più, <strong>al</strong>cune comp<strong>ai</strong>ono anche nei frammenti ebr<strong>ai</strong>ci<br />
(per esempio in Sir 11,15-16; 16,15-16), ma anche nella versione siriaca, chiamata Peshitta,<br />
che ne riporta a sua volta <strong>al</strong>tre ancora (ad esempio, in Sir 1,22-27), o anche nell’antica<br />
versione latina, cosiddetta Vetus Latina, che però traduce da un testo greco. Queste osservazioni<br />
inducono a pensare che il libro di Ben Sira sia stato fatto oggetto di una rilettura non<br />
omogenea ma pluriforme, per un periodo che va dagli anni 80 a.C. a tutto il I secolo d.C. La<br />
maggior parte delle modifiche e aggiunte potrebbe essere d’origine ebr<strong>ai</strong>ca, per<strong>al</strong>tro difficile<br />
da individuare; ma non tutte, dato che <strong>al</strong>cune sembrano ispirarsi <strong>al</strong>la cultura greca. In ogni caso,<br />
ben poche sono d’origine cristiana: nei casi in cui potrebbe parere, bisogna dimostrare che<br />
il testo non può provenire d<strong>al</strong> giud<strong>ai</strong>smo.<br />
1.1.4. L’antica versione latina<br />
Venne fatta nell’Africa cristiana – attu<strong>al</strong>i Algeria e Tunisia –, <strong>al</strong>la fine del II secolo, sulla<br />
base d’un testo greco già arricchito d’aggiunte. Questa versione è arrivata fino a noi, perché<br />
Girolamo, sulla svolta fra il IV e il V secolo, non volle ritradurre in latino un testo che non faceva<br />
parte della Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca. Ma questa Vetus Latina finì per entrare nella Vulgata, probabilmente<br />
già <strong>al</strong>la fine del V secolo, ed è ancora essa che si ritrova, appena ritoccata, nella Nova<br />
Vulgata che Paolo VI aveva chiesto <strong>al</strong>la fine del Concilio Vaticano II e che venne pubblicata<br />
nel 1979.<br />
1.1.5. La versione siriaca<br />
Potrebbe datarsi intorno <strong>al</strong> 300 e sarebbe opera d’un cristiano che traduce da un testo ebr<strong>ai</strong>co<br />
della Sapienza di Ben Sira. Se egli ebbe accesso, come pare, <strong>al</strong>l’opera nel suo stato originario<br />
in ebr<strong>ai</strong>co, pare però anche si sia servito di un’edizione ebr<strong>ai</strong>ca rimaneggiata. Fu un<br />
lavoro difficile, e probabilmente il traduttore non era intenzionato a seguire scrupolosamente i<br />
testi ebr<strong>ai</strong>ci di cui disponeva. In questa versione, gli adattamenti sono innumerevoli.
102 Siracide<br />
Da tutto ciò possiamo ben vedere quanto l’approccio <strong>al</strong>la Sapienza di Ben Sira sia complesso.<br />
L’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co non ci è stato trasmesso nei modi soliti. Del testo possediamo poi<br />
due versioni, una corta e una lunga. L’origine di quest’ultima è sconosciuta.<br />
1.2. LA TRASMISSIONE DEL LIBRO<br />
Nel giud<strong>ai</strong>smo antico la Sapienza di Ben Sira era stata apprezzata, fino a quando, intorno<br />
agli anni 100 d.C., Aquiba ne vietò la lettura. Prima d’<strong>al</strong>lora la si citava, la si tradusse in greco,<br />
se ne fece una nuova edizione rimaneggiata e a Qumran la leggevano.<br />
Nel IV secolo il divieto di Aquiba venne rimesso in discussione e l’opera di Ben Sira in ebr<strong>ai</strong>co<br />
fu di nuovo letta, fino <strong>al</strong>l’arrivo del T<strong>al</strong>mud nel VI secolo. Di nuovo abbandonata, non<br />
ricomparve che nella setta giud<strong>ai</strong>ca <strong>dei</strong> Car<strong>ai</strong>ti. È probabile che costoro ne avessero trovato un<br />
esemplare in una delle grotte di Qumran, scoperte, come si sa, un poco prima dell’anno 800.<br />
Si spiegherebbe così l’origine <strong>dei</strong> frammenti ebr<strong>ai</strong>ci ritrovati <strong>al</strong> C<strong>ai</strong>ro. Ma questa ricomparsa<br />
fu soltanto momentanea.<br />
Nel cristianesimo. Non si può documentare che il Nuovo Testamento abbia utilizzato la<br />
Sapienza di Ben Sira. Eppure, sono stati i cristiani, senza discontinuità, a trasmettercela nelle<br />
varie lingue.<br />
In greco. Già abbiamo detto che il testo breve tradotto in greco ci è pervenuto attraverso i<br />
grandi manoscritti onci<strong>al</strong>i <strong>dei</strong> Settanta, del IV secolo, e che il testo lungo comparve invece in<br />
manoscritti bizantini scritti in minuscolo. Tuttavia, questa duplice versione del testo greco si<br />
lascia intuire già nei Padri greci. Alcuni utilizzano il testo lungo: per esempio Clemente<br />
d’Alessandria, <strong>al</strong>l’inizio del III secolo, e Giovanni Crisostomo, nel IV secolo. Altri si attengono<br />
invece <strong>al</strong> testo corto, come Didimo il Cieco, di Alessandria, ancora nel IV secolo.<br />
In latino. La versione latina trasmette il testo lungo ed è perciò quello che di norma citano i<br />
Padri latini; il primo fu Cipriano di Cartagine, nel III secolo. Ma vi sono due eccezioni: Girolamo<br />
citò Ben Sira un’ottantina di volte, ma traducendo in latino un testo greco di tipo corto, e<br />
qu<strong>al</strong>che volta anche Agostino fece la stessa cosa, benché in genere egli citi il testo lungo della<br />
Vetus Latina.<br />
In siriaco. La versione siriaca, la Peshitta, è trasmessa da molti manoscritti, l’uno o l’<strong>al</strong>tro<br />
<strong>dei</strong> qu<strong>al</strong>i è stato anche edito, ma un’edizione critica di questa versione si dimostra un’impresa<br />
t<strong>al</strong>e che ancora nessuno è riuscito a portarla a termine. Questa versione fu a sua volta tradotta<br />
in arabo fin d<strong>al</strong> Medioevo in due forme diverse, che molti manoscritti ci trasmettono. Una<br />
d’esse si trova nelle Bibbie poliglotte di Parigi e di Londra, edite nel XVII secolo.<br />
Il cristianesimo, sia occident<strong>al</strong>e che orient<strong>al</strong>e, ha dunque trasmesso e citato la Sapienza di<br />
Ben Sira, in traduzioni, utilizzando ora il testo corto e ora il testo lungo.<br />
1.3. L’AUTORITÀ DEL LIBRO<br />
1.3.1. Nel giud<strong>ai</strong>smo<br />
Nonostante l’interesse dimostrato in certe epoche e in t<strong>al</strong>uni ambienti per il libro di Ben Sira,<br />
il giud<strong>ai</strong>smo non lo riconobbe m<strong>ai</strong> come un libro sacro. Nella Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca dunque non<br />
c’è: non ci fu m<strong>ai</strong> e perciò m<strong>ai</strong> ne è stato tolto. Il giud<strong>ai</strong>smo <strong>al</strong>essandrino ne conobbe la versione<br />
greca; e tuttavia dobbiamo chiederci se la raccolta fatta d<strong>ai</strong> Settanta <strong>dei</strong> libri biblici in<br />
greco, in cui anche la versione greca del nipote di Ben Sira venne inclusa, non sia stata essenzi<strong>al</strong>mente<br />
un’iniziativa cristiana: i nostri grandi manoscritti onci<strong>al</strong>i <strong>dei</strong> Settanta ris<strong>al</strong>enti <strong>al</strong> IV<br />
secolo sono d’origine cristiana.<br />
1.3.2. Nel cristianesimo<br />
Un libro canonico? Nella Chiesa latina, la Sapienza di Ben Sira, chiamata (libro) Ecclesiastico<br />
a motivo dell’uso che se ne faceva nelle comunità ecclesi<strong>al</strong>i, a profitto forse <strong>dei</strong> catecu-
Siracide 103<br />
meni, venne accolta, pare, senza problemi, e nessuno dovrà perciò stupirsi di vederla citata nel<br />
canone delle Scritture fissato nel Concilio d’Ippona del 393, cui assisteva anche Agostino, e<br />
poi nei Concili di Cartagine del 397 e del 419, come pure nella lettera che papa Innocenzo I<br />
inviò nel 405 <strong>al</strong> vescovo di Tolosa, Esupero.<br />
In Oriente le cose furono più complicate, a causa probabilmente della vicinanza con le comunità<br />
ebr<strong>ai</strong>che, la cui Bibbia non comprendeva l’opera di Ben Sira. Già nel 170 il problema<br />
viene sollevato da Melitone di Sardi, che porta in P<strong>al</strong>estina una lista di libri biblici in cui Ben<br />
Sira non appare. All’inizio del III secolo, <strong>al</strong> contrario, Clemente d’Alessandria ammette l’autorità<br />
scritturistica della versione greca di Ben Sira, e verso il 240 Origene riconosce la differenza<br />
che c’è fra la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca e l’Antico Testamento cristiano: nel di<strong>al</strong>ogo fra ebrei e cristiani<br />
non si utilizzeranno perciò che i libri ammessi d<strong>ai</strong> primi; anche se ciò non deve indurre<br />
a eliminare d<strong>al</strong>le nostre Bibbie cristiane i libri che il giud<strong>ai</strong>smo non riconosce come Scrittura.<br />
La stessa differenza è percepita, ancora nel IV secolo, da Cirillo di Gerus<strong>al</strong>emme e Atanasio<br />
d’Alessandria, i qu<strong>al</strong>i non sanno bene qu<strong>al</strong>e collocazione dare <strong>ai</strong> libri che i Settanta avevano<br />
aggiunto <strong>al</strong>la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca, come la Sapienza di Ben Sira e la Sapienza di S<strong>al</strong>omone. Ma per<br />
Giovanni Crisostomo e <strong>al</strong>tri, Ben Sira fa parte delle Scritture. A Betlemme, Girolamo, deciso<br />
a tradurre in latino soltanto la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca, esclude apertamente l’autorità canonica della<br />
Sapienza di Ben Sira e della Sapienza di S<strong>al</strong>omone, ma poi si comporta diversamente da questa<br />
presa di posizione chiara e netta: a partire d<strong>al</strong> 404 gli accade di citare come Scrittura un<br />
versetto di Ben Sira, e così pure la Sapienza di S<strong>al</strong>omone. L’influenza di Girolamo fu duratura.<br />
Nel Medioevo, se Tommaso d’Aquino ammette la canonicità di Ben Sira e della Sapienza<br />
di S<strong>al</strong>omone, a motivo dell’uso corrente che ne fanno le Chiese, il grande commentatore Nicola<br />
di Lira la esclude. Le esitazioni perdurano in Occidente per tutto il XV e il XVI secolo,<br />
dato che il mistico Dionigi il Certosino e il cardin<strong>al</strong>e Caetano, rifiutano la canonicità di tutti i<br />
libri aggiunti d<strong>ai</strong> Settanta, dunque anche di Ben Sira. Con Lutero e C<strong>al</strong>vino, la Riforma protestante<br />
farà lo stesso, mentre nel 1545 il Concilio di Trento confermerà solennemente la lista<br />
<strong>dei</strong> libri canonici riconosciuti d<strong>al</strong>la Chiesa cattolica: l’opera di Ben Sira è fra essi.<br />
Oggi la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse includono la Sapienza di Ben Sira, come anche<br />
la Sapienza di S<strong>al</strong>omone, nel canone delle Scritture. Le comunità della Riforma le escludono.<br />
Tuttavia, l’Antico Testamento della Traduzione ecumenica della Bibbia, pubblicato nel<br />
1975, gli riserva un posto fra i libri aggiunti d<strong>ai</strong> Settanta e che sono chiamati «deuterocanonici».<br />
Ma qu<strong>al</strong>e testo di Ben Sira un cattolico deve ritenere canonico? La domanda pare pertinente,<br />
dato che l’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co non ci venne trasmesso nelle forme solite; ci sono poi versioni<br />
differenti e, infine, il testo si presenta sotto due forme, una corta e l’<strong>al</strong>tra lunga. A mio parere,<br />
la risposta è questa: la Chiesa cattolica non ha m<strong>ai</strong> definito la lingua né la forma, breve o lunga,<br />
del libro di Ben Sira, come, per<strong>al</strong>tro, di nessuno <strong>dei</strong> libri che essa ammette nel canone. La<br />
tradizione ecclesi<strong>al</strong>e è la prova, come minimo, che su questi due punti la Chiesa non intende<br />
prendere posizione, s<strong>al</strong>vo a dire che non si può escludere la forma lunga della Volgata. Lo si<br />
desume da una decisione del Concilio di Trento, che aveva anche richiesto una buona edizione<br />
<strong>dei</strong> Settanta, la qu<strong>al</strong>e venne effettivamente pubblicata nel 1587: lì il testo è quello del manoscritto<br />
Vaticano, cioè il testo corto! Nessuno perciò si stupirà di vedere le Bibbie moderne,<br />
cattoliche o ecumeniche, scegliere fra testi diversi. E neppure, a mio parere, si può escludere<br />
la canonicità, o perlomeno l’ispirazione, del testo ebr<strong>ai</strong>co, nei limiti in cui è recuperabile.<br />
1.4. LA PERSONALITÀ DI BEN SIRA<br />
1.4.1. Il suo nome<br />
Fra i sapienti di cui il nostro Antico Testamento conserva gli scritti, è il solo di cui conosciamo<br />
il nome d<strong>al</strong>la stessa sua opera. In greco viene chiamato «Gesù, figlio di Sira», da cui<br />
Gesù Ben Sira (vedi Prologo, versetto 7; Sir 50,27 e la firma, dopo 51,30). Gesù dev’essere il<br />
nome e Ben Sira il cognome, cioè il nome della famiglia. Questi venne tradotto in maniera da
104 Siracide<br />
indicare anche il titolo del libro: il Siracide. In ebr<strong>ai</strong>co, il manoscritto B del C<strong>ai</strong>ro chiama<br />
l’autore «Simone, figlio di Gesù...», ma in genere si dà maggior credito <strong>al</strong>la tradizione greca.<br />
1.4.2. La sua datazione<br />
Se il nipote tradusse l’opera a partire d<strong>al</strong> 132 e il nonno non scrisse il libro che verso la fine<br />
della sua carriera (vedi Prologo, versetti 7-12), possiamo presumere che l’autore compose<br />
il libro durante il primo quarto del II secolo a.C. e dovette nascere verso la metà del III secolo,<br />
nell’epoca in cui insegnava Qohèlet.<br />
Ciò pare confermato ancora da <strong>al</strong>tri indizi. In primo luogo, nell’opera di Ben Sira non si<br />
trova <strong>al</strong>cuna <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la crisi provocata d<strong>al</strong>l’ellenizzazione a oltranza di Antioco IV nel 167<br />
a.C., cui si erano fieramente opposti i Maccabei. In secondo luogo, l’elogio del sommo sacerdote<br />
Simone il Giusto (Sir 50,1-21) suppone la morte di costui; ebbene, egli morì certamente<br />
dopo il 198, probabilmente verso il 187. Infine, il testo ebr<strong>ai</strong>co di Sir 50,24 ancora non sa che<br />
la discendenza del sacerdote Simone perderà il supremo sacerdozio nel 172, con l’ascesa di<br />
Menelao (2Mac 4,23-29); la versione greca dunque modificò il testo, dato che le circostanze<br />
non avevano permesso che l’auspicio dell’avo si re<strong>al</strong>izzasse.<br />
1.4.3. Il contesto storico<br />
Gesù Ben Sira era maestro di sapienza a Gerus<strong>al</strong>emme. La Giudea e la Samaria facevano<br />
parte d’una regione, la Celesiria, che si trovava, nel III secolo a.C., sotto la dominazione <strong>dei</strong><br />
Lagidi d’Egitto. Concupita d<strong>ai</strong> Seleucidi d’Antiochia per il denaro che l’imposta avrebbe procurato,<br />
nel 198 a.C. finì per passare sotto il controllo di Antioco. Antioco III concesse <strong>al</strong>lora a<br />
Gerus<strong>al</strong>emme <strong>dei</strong> favori di cui resta eco nell’inizio dell’elogio del sommo sacerdote Simone il<br />
Giusto (Sir 50,1-4).<br />
A Gerus<strong>al</strong>emme, era una famiglia di finanzieri, quella <strong>dei</strong> Tobiadi, a riscuotere l’imposta,<br />
di cui natur<strong>al</strong>mente tratteneva per sé non piccola parte. Già sostenitori <strong>dei</strong> Lagidi, nel 198 erano<br />
poi passati a sostenere i Seleucidi; eccetto Ircano, il princip<strong>al</strong>e esattore, che, rifugiatosi in<br />
Transgiordania, restò fedele <strong>ai</strong> Lagidi. Ma la sua fortuna era custodita nel tesoro del tempio di<br />
Gerus<strong>al</strong>emme. Ebbene, nel 190 Antioco III era stato battuto d<strong>ai</strong> Romani a Magnesia, presso<br />
Smirne, e i vincitori gli avevano imposto il pagamento d’una forte somma, che il suo successore,<br />
Seleuco IV, non aveva ancora finito di pagare. L’episodio di Eliodoro, del 175, narrato in<br />
2Mac 3, va probabilmente messo in rapporto con questo debito verso i Romani: la fortuna<br />
d’Ircano avrebbe potuto fornire un bell’<strong>ai</strong>uto! A riguardo di questi avvenimenti, vedi Dn<br />
11,10-20.<br />
Ci si può dunque rendere ben conto come l’epoca di Ben Sira sia stata tutt’<strong>al</strong>tro che tranquilla.<br />
Un testo come Sir 10,8 parla per esperienza: «La sovranità passa da una nazione <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra<br />
con ingiustizia, violenza e denaro!».<br />
1.4.4. Il sapiente Ben Sira<br />
È anche il solo sapiente del nostro Antico Testamento che abbia parlato di sé. Fin d<strong>al</strong>la<br />
giovinezza egli chiese, come S<strong>al</strong>omone (1Re 3,4-15), la sapienza <strong>al</strong> Signore, che gliela concesse,<br />
e fedelmente si diede a seguirla (Sir 51,13-17). Ripieno d’essa, decise <strong>al</strong>lora d’aprire<br />
una scuola, o meglio un’accademia, in cui trasmettere la sua esperienza <strong>al</strong>la gioventù (Sir<br />
51,23-30). Dopo aver lungamente meditato la Torāh, i profeti e gli <strong>al</strong>tri libri del patrimonio<br />
spiritu<strong>al</strong>e d’Israele, cominciò a mettere per iscritto l’essenza del suo insegnamento sapienzi<strong>al</strong>e<br />
(Prologo, versetti 7.12). Ripieno della sapienza che Dio gli donava, la lasciava traboccare: attraverso<br />
lui, i suoi discepoli avrebbero avuto accesso <strong>al</strong>la sapienza, in lui l’avrebbero scoperta;<br />
più ancora, la sapienza, di cui egli non era che il can<strong>al</strong>e di trasmissione, avrebbe poi v<strong>al</strong>icato i<br />
limiti del tempo e dello spazio: avrebbe superato le frontiere e le generazioni. Aveva coscienza<br />
di prendere la staffetta d<strong>ai</strong> profeti, di continuare la loro eredità, e forse si augurava che un<br />
giorno la sua opera venisse inserita fra i libri sacri (Sir 24,30-34; 33,16-18). Fu anche, lascia
Siracide 105<br />
intendere, il consigliere di principi (Sir 39,4), e ciò lo portò <strong>al</strong>l’estero, esperienza ben utile per<br />
conoscere il cuore umano e la varietà del mondo, ma non senza rischi (Sir 34,12-13). Dovette<br />
anche subire la c<strong>al</strong>unnia, che stava per rovinarlo; soltanto la preghiera gli ottenne l’<strong>ai</strong>uto divino,<br />
e di ciò ringraziò il suo Dio (Sir 51,1-12).<br />
L’opera permette d’intuire anche t<strong>al</strong>uni aspetti della sua person<strong>al</strong>ità. Da sapiente autentico,<br />
cercò l’equilibrio e il buon senso. In un momento in cui la cultura greca cominciava ad amm<strong>al</strong>iare<br />
il Vicino Oriente, tentò di mostrare che il giud<strong>ai</strong>smo non aveva da arrossire del proprio<br />
patrimonio. Restava aperto <strong>al</strong>l’ellenismo, eccetto quando <strong>dei</strong> ricchi ne facevano pretesto per<br />
un’arroganza sprezzante dell’antica tradizione giud<strong>ai</strong>ca. Fu sedotto d<strong>al</strong>la liturgia del santuario<br />
e per i sacerdoti aveva un’autentica venerazione; era anche convinto del v<strong>al</strong>ore sapienzi<strong>al</strong>e<br />
della Torāh; ma questi interessi non possono far concludere che dovesse per forza essere un<br />
sacerdote.<br />
Più sereno di Qohèlet, trovava la pace nella sapienza e, di fronte <strong>al</strong> mistero, si rimetteva a<br />
Dio (vedi Sir 3,17-24; 39,32-34). Come Qohèlet, neanche lui aveva della luce sull’<strong>al</strong>dilà della<br />
morte. Una vita umana vissuta fino <strong>al</strong>la fine con dignità gli pareva eminentemente rispettabile<br />
e fruttuosa, senza che l’angoscia della morte dovesse farne cosa gretta, lui che confessava: «la<br />
speranza dell’uomo: i vermi» (Sir 7,17b, ebr<strong>ai</strong>co). Nessun’<strong>al</strong>tra retribuzione, pensava, se non<br />
il buon ricordo lasciato quaggiù d<strong>al</strong>l’uomo giusto e onesto e una discendenza non meno giusta<br />
di lui (Sir 16,1-3; 44,8-15). Saranno le posteriori aggiunte della seconda edizione del libro ad<br />
aprire più incoraggianti prospettive sull’<strong>al</strong>dilà.<br />
1.5. COME È STRUTTURATO IL LIBRO DI BEN SIRA?<br />
La Sapienza di Ben Sira è il libro sapienzi<strong>al</strong>e più lungo del nostro Antico Testamento. È evidente<br />
che l’autore avrà impiegato un bel po’ a scriverlo. Ne avrà egli stesso pubblicato una<br />
prima parte (Sir 1–24, o Sir 1–23), dando un testo completo più tardi? È un’ipotesi di cui si<br />
discute. Alcuni passi come Sir 24,34; 33,16-18; 49,14-16; 50,27-29 <strong>al</strong>imentano il dibattito. La<br />
questione più fondament<strong>al</strong>e è però sapere come Ben Sira abbia strutturato la sua opera. Ma su<br />
questo punto gli esegeti non hanno ancora una risposta soddisfacente. È chiaro che Ben Sira<br />
non scrisse <strong>dei</strong> semplici proverbi, <strong>al</strong>la maniera delle collezioni s<strong>al</strong>omoniche di Pr 10,1–22,16<br />
e Pr 25–29. Ben Sira propone invece delle riflessioni più o meno elaborate, <strong>al</strong>la maniera di Pr<br />
1–9; 30–31. È anche chiaro che l’opera di Ben Sira non è costruita come il libro di Giobbe,<br />
che presenta una trama fin nel modo di procedere. In Ben Sira è appunto l’ordine delle pericopi<br />
che il lettore non vede con chiarezza. Soprattutto prima di Sir 42,15, perché poi, da Sir<br />
42,15 fino a Sir 43,43, il sapiente canterà le meraviglie della creazione, e poi ancora da Sir<br />
44,1 a Sir 50,24 ripercorrerà la storia biblica, sulla scorta del Pentateuco, del corpus profetico<br />
e di certi scritti più recenti, da cui estrae soltanto pochi grandi uomini che risollevarono il<br />
tempio e la città di Gerus<strong>al</strong>emme, in particolare Simone il Giusto.<br />
La questione dell’ordine delle pericopi si pone dunque per tutto il testo che precede Sir<br />
42,15, ma anche per il capitolo fin<strong>al</strong>e Sir 51. Una prima risposta la dà l’importanza che Ben<br />
Sira attribuisce <strong>al</strong>le sue esposizioni sulla Sapienza e sul sapiente. La Sapienza ha il ruolo princip<strong>al</strong>e<br />
in Sir 1,1-30 (in relazione con il timore del Signore, necessario per accogliere il dono<br />
divino), Sir 4,11-19 e Sir 6,18-37 (sullo sforzo richiesto per procurarsi la Sapienza), Sir 14,20<br />
-15,10 (sulla felicità di chi l’acquisisce), Sir 24,1-29 (l’elogio della Sapienza). A partire poi<br />
d<strong>al</strong>la conclusione di quest’ultimo testo, collocato <strong>al</strong> centro del libro, è il sapiente stesso a presentarsi<br />
sul proscenio: in Sir 24,30-34 (Ben Sira trabocca di sapienza), Sir 37,16-26 (sul vero<br />
sapiente), Sir 38,24–39,11 (la sapienza dello scriba in confronto con gli <strong>al</strong>tri mestieri), Sir<br />
51,13-30 (Ben Sira, che ha chiesto e ricevuto la Sapienza, apre una scuola).<br />
Questa prima risposta fa vedere che il rapporto fra la Sapienza e il sapiente scandisce tutto<br />
il libro, ma il problema resta: come Ben Sira ha organizzato le <strong>al</strong>tre pericopi che si trovano fra<br />
l’uno e l’<strong>al</strong>tro di questi passi dedicati <strong>al</strong>la Sapienza e <strong>al</strong> sapiente? È esattamente a questa domanda<br />
che <strong>al</strong> momento gli esegeti non sono ancora in grado di dare se non risposte parzi<strong>al</strong>i.
106 Siracide<br />
È possibile che ci sia un rapporto d’inclusione fra Sir 1,1-30 e Sir 51,13-30 e che, <strong>al</strong>lora,<br />
Sir 51,1-12 (il ringraziamento di Ben Sira scampato a una prova) sia in relazione inclusiva<br />
con Sir 2,1-18 (il sapiente deve prepararsi <strong>al</strong>la prova).<br />
Altrove, sono soprattutto <strong>dei</strong> trattatelli che Ben Sira ha inserito. Eccone qui l’uno o l’<strong>al</strong>tro:<br />
Sir 9,17–10,18 è un trattatello a riguardo di coloro che dominano i popoli con arroganza, cui<br />
fa eco Sir 10,19–11,6, che è un poema sulla vera felicità; Sir 15,11–16,14 e Sir 16,17–18,14<br />
sono due discussioni complementari sulla responsabilità mor<strong>al</strong>e dell’uomo e sul perdono divino;<br />
in Sir 22,27–23,27 una duplice preghiera introduce due esposizioni, l’una sulla maniera<br />
di parlare, l’<strong>al</strong>tra sull’appetito sessu<strong>al</strong>e; Sir 25,1–26,18 tratta dell’armonia coniug<strong>al</strong>e; Sir 29,1-<br />
20, della maniera d’usare il proprio denaro per rendere servizio <strong>al</strong> prossimo; Sir 31,12–32,13,<br />
del comportamento da tenere durante un banchetto; Sir 36,23–37,15, del discernimento circa<br />
la scelta d’una persona con cui confidarsi, sposa, amico o consigliere che sia.<br />
Potremmo ancora individuare <strong>al</strong>tri insiemi, ma <strong>al</strong> momento è ben difficile esplicitare in<br />
modo migliore l’ordine che Ben Sira intese mettere nel suo libro.<br />
2. IL MESSAGGIO<br />
Il Siracide non offre una teoria o una teologia sistematica, esposta con ordine e coerenza<br />
logica. I temi trattati sono quelli tradizion<strong>al</strong>i delle Scritture sacre d’Israele, ripresi e variati in<br />
modi differenti. La prospettiva gener<strong>al</strong>e è conservatrice ed è pervasa d<strong>al</strong>lo spirito e d<strong>al</strong>le idee<br />
deuteronomici. Ci limiteremo qui a enucleare ed evidenziare <strong>al</strong>cuni temi teologici portanti del<br />
libro.<br />
2.1. TIMOR DI DIO E SAPIENZA<br />
Il «timor di Dio», da intendersi come «rispetto di Dio», è senza dubbio una delle idee centr<strong>al</strong>i<br />
di Ben Sira. L’espressione o un suo equiv<strong>al</strong>ente ricorre circa 55/60 volte. Questo tema,<br />
che ricorre un po’ in tutta l’opera, è dominante nei cc. 1–2; anche nel c. 10 questo tema è rilevante,<br />
mentre è assente in <strong>al</strong>cune sezioni, come per es. in 3,17–6,4 e 11,1–14,19. J. Haspecker<br />
lo considera il tema centr<strong>al</strong>e e decisivo di tutto il libro; ma <strong>al</strong>tri (G. von Rad e J. Marböck) sostengono<br />
che non il «timor di Dio» bensì la «sapienza» è il tema fondament<strong>al</strong>e, il soggetto del<br />
libro.<br />
Il timor di Dio è un’intensa e viva relazione person<strong>al</strong>e di amore con Dio (1,28–2,6; cfr.<br />
32,14-16), contrassegnata e pervasa da umiltà e sottomissione <strong>al</strong>la sua sovrana maestà (3,17-<br />
20) e da fiducia nella sua bontà e misericordia (2,6-14; cfr. 34,13-17). Significativa è l’esortazione,<br />
composta di due espressioni par<strong>al</strong>lele e sinonimiche, di Sir 7,29-30: «Temi Dio con<br />
tutto il cuore... Ama il tuo Creatore con tutte le tue forze». La spiritu<strong>al</strong>ità di «chi teme il Signore»<br />
appare in modo chiaro nel c<strong>al</strong>oroso invito di 2,1-18.<br />
Non è esclusa l’accezione nomista di «timore di Dio» inteso come osservanza <strong>dei</strong> comandamenti,<br />
come appare da 2,15-16. In 19,20 il timore di Dio è unito indissolubilmente con la<br />
sapienza e l’osservanza della Legge: «Il timore del Signore è sintesi della sapienza, nell’osservare<br />
la sua Legge sta tutta la sapienza». Ben Sira non sembra affatto essere un pensatore superfici<strong>al</strong>e<br />
che propone una mor<strong>al</strong>e piatta e pros<strong>ai</strong>ca. Il suo modo di intendere il «timore del<br />
Signore» rivela un pensatore profondo, che dà un peso decisivo <strong>al</strong>l’intimo, <strong>al</strong> cuore dell’uomo.<br />
Questo primato dell’interiorità nel suo pensiero pedagogico assicura che egli, anche nella<br />
sua dottrina spiritu<strong>al</strong>e, dà un peso peculiare <strong>al</strong>l’intimo rapporto con Dio... rispetto <strong>ai</strong> comportamenti<br />
concreti che da esso fluiscono.<br />
Il timore del Signore è l’inizio (1,14), la pienezza (1,16), la corona (1,18) e la radice (1,29)<br />
della sapienza: soggettivamente, la sapienza è in pratica identica <strong>al</strong> timore di Dio; oggettivamente,<br />
la sapienza è il libro della legge di Mosè (c. 24). «Sapienza» è un termine che in Siracide<br />
ricorre 55 volte (in greco); ben 11 volte solo in Sir 1. La vera essenza della sapienza è il
Siracide 107<br />
timore di Dio, che dà <strong>al</strong>l’israelita una saggezza superiore <strong>al</strong>la sophia della cultura ellenistica.<br />
Essendo dono di Dio, la sapienza può essere accolta soltanto con un atteggiamento di disponibilità<br />
che si concretizza nel timore di Dio e nell’osservanza della torāh. La tesi fondament<strong>al</strong>e<br />
del Siracide, infatti, può essere così formulata: la sapienza, che si identifica concretamente<br />
con la torāh, può essere «acquistata» soltanto da chi ha il timore di Dio e osserva i comandamenti.<br />
2.2. L’UOMO (SIR 16,24–17,14)<br />
Dopo una solenne introduzione (16,24-25) seguono quattro strofe:<br />
a) 16,26-30;<br />
b) 17,1-4;<br />
c) 17,5-10;<br />
d) 17,11-14.<br />
Questo brano offre una profonda visione dell’uomo in rapporto a Dio e <strong>al</strong> creato e ci <strong>ai</strong>uta a<br />
capire l’antropologia di Ben Sira.<br />
Nella pericope l’autore risponde <strong>al</strong>le obiezioni avanzate in 16,17-23 che tendono a negare<br />
che Dio si prende cura dell’uomo. Ben Sira afferma che Dio ha creato l’uomo d<strong>al</strong>la terra,<br />
mort<strong>al</strong>e come tutti gli <strong>al</strong>tri esseri animati, ma vivente immagine di Dio e in quanto t<strong>al</strong>e con il<br />
compito di dominare l’universo. La morte non è vista come castigo del peccato; l’uomo è<br />
mort<strong>al</strong>e per la sua condizione di creatura terrena, secondo il limite fissato da Dio. L’uomo è<br />
un essere intelligente e responsabile, capace di scegliere liberamente (vv. 6-7). Dio «ha posto<br />
il suo occhio nei loro cuori» (v. 8a), cioè ha comunicato <strong>al</strong>l’uomo la conoscenza divina di tutte<br />
le cose; vi è quindi nell’uomo un sapere e un riconoscere che termina nella lode (vv. 9-10).<br />
È compito dell’uomo lodare Dio nella contemplazione delle sue opere.<br />
Nella quarta strofa l’orizzonte è israelitico. Dio ha dato una legge e stabilito un’<strong>al</strong>leanza: si<br />
tratta della Legge data <strong>al</strong> Sin<strong>ai</strong> quando Dio manifestò la sua gloria, una legge v<strong>al</strong>ida per ogni<br />
uomo. Anzi, la legge data ad Israele è v<strong>al</strong>ida in quanto significa per l’uomo capacità di conoscenza<br />
e di scelta: essa è un modello indispensabile perché l’uomo non solo possa capirsi come<br />
creatura, ma perché possa re<strong>al</strong>izzare il suo compito <strong>al</strong>l’interno del cosmo. In <strong>al</strong>tri termini,<br />
la legge è una forma di conoscenza e di sapienza.<br />
Ben Sira parla dell’uomo in gener<strong>al</strong>e, ma d<strong>al</strong> punto di vista di Israele. Ciò significa due cose:<br />
a) In Israele ciò che fu dato <strong>al</strong>l’inizio dell’umanità è re<strong>al</strong>izzato di nuovo. Per mezzo di Israele<br />
possiamo capire o percepire per noi qu<strong>al</strong>i furono gli inizi dell’umanità...; b) Una profonda<br />
tendenza ed esigenza dell’umanità si re<strong>al</strong>izza in Israele per dono ed elezione divini, non<br />
come un monopolio, ma perché Israele possa condividerli con gli <strong>al</strong>tri. La vicenda del popolo<br />
di Israele è un paradigma per capire l’uomo.<br />
2.3. SAPIENZA E LEGGE (SIR 24,1-34)<br />
Questo capitolo è il centro e il culmine di tutto il libro e parte essenzi<strong>al</strong>e per la teologia della<br />
sapienza. Di questo capitolo non possediamo l’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co e quindi lavoriamo sulla<br />
versione greca. Circa la sua struttura letteraria sono state avanzate molte proposte. Noi seguiamo<br />
L. Alonso Schökel, che divide il capitolo in quattro strofe dove parla la sapienza, e <strong>al</strong>tre<br />
due nelle qu<strong>al</strong>i parla il sapiente:<br />
la sapienza cosmica (vv. 3-6);<br />
la sapienza storica (vv. 7-11);<br />
dieci comparazioni (vv. 12-15);<br />
invito agli uomini (vv. 16-22);<br />
il saggio parla della Legge (vv. 23-29);<br />
il saggio parla di sé (vv. 30-34).
108 Siracide<br />
Il discorso della sapienza è pronunciato nel tempio di Gerus<strong>al</strong>emme («nell’assemblea<br />
dell’Altissimo», v. 2), dove si celebra il culto liturgico. Al popolo riunito la Sapienza rivolge il<br />
suo discorso, come fosse una signora, facendo conoscere la sua origine divina, la sua grandezza<br />
e la sua dignità reg<strong>al</strong>e (vv. 3-4). Essa si espande su tutto l’universo e domina su ogni popolo<br />
e nazione (vv. 5-6). Pur avendo un dominio univers<strong>al</strong>e, la Sapienza cerca una dimora tra gli<br />
uomini (v. 7) e riceve d<strong>al</strong> Creatore l’ordine di stabilirsi in Israele (v. 8). Pur essendo creata<br />
«prima <strong>dei</strong> secoli, fin d<strong>al</strong> principio» (v. 9), cioè pur trascendendo il tempo, la sapienza si fa<br />
«storia» unendosi <strong>al</strong> popolo eletto e abitando <strong>al</strong> centro di esso, sul Sion, nel tempio di Gerus<strong>al</strong>emme<br />
(vv. 10-11). Qui essa esercita una funzione liturgica, sacerdot<strong>al</strong>e; anzi, sembra identificarsi<br />
con lo stesso culto israelitico (v. 10). La Sapienza è «cresciuta» (verbo ripetuto 3 volte)<br />
come <strong>al</strong>bero in mezzo <strong>al</strong> popolo di Dio (vv. 12-16): dieci paragoni presi d<strong>al</strong> mondo veget<strong>al</strong>e<br />
descrivono il crescere di quest’<strong>al</strong>bero nel giardino paradisiaco che è il paese di Israele, dove<br />
sono prodotti gli elementi usati per il culto (olio, incenso, aromi).<br />
Nei vv. 17-22 la sapienza enumera i suoi deliziosi prodotti che essa offre a chi accetta il<br />
suo invito; anzi essa dona se stessa (v. 20). Poi l’immagine viene interpretata: la Sapienza è la<br />
stessa torāh, cioè il Pentateuco (v. 23). Per Ben Sira è la sapienza, che è diffusa e si espande<br />
nella creazione e nell’umanità qu<strong>al</strong>e ordine primordi<strong>al</strong>e immanente <strong>al</strong> mondo e voluto da Dio,<br />
trova la sua migliore, concreta e visibile formulazione nella torāh data ad Israele; chi, dunque,<br />
cerca il senso del re<strong>al</strong>e (la sapienza) deve leggere in profondità la torāh: il sapiente israelita<br />
non ha nulla da invidiare agli <strong>al</strong>tri.<br />
Nei vv. 24-27 ritorna il tema del paradiso; ma qui è evidente che Ben Sira vede nella terra<br />
promessa il paradiso dove la sapienza fa abbondare i suoi frutti; la ricchezza della sapienza è<br />
tanto grande che essa è incomprensibile (vv. 28-29).<br />
Se questo è la sapienza, che cos’è il sapiente? Al v. 30 prende la parola il saggio. Il sapiente<br />
è come un can<strong>al</strong>e (v. 31) o come una fonte di luce (v. 32) che illumina tutta la terra e le generazioni<br />
future (v. 33): la sapienza oltrepassa i confini spazi<strong>al</strong>i della terra di Israele e quelli<br />
del tempo. Il sapiente si mette <strong>al</strong> servizio di ogni uomo che davvero cerchi la sapienza (v. 34).<br />
2.4. LA PREGHIERA<br />
Spesso e in varie forme Ben Sira parla della preghiera, <strong>al</strong>meno tanto quanto della Legge.<br />
C’è la preghiera del povero che Dio ascolta (35,14-26) e la supplica dell’intero popolo per la<br />
propria liberazione (36,1-22). L’uomo non può controllare tutto e perciò deve supplicare Dio,<br />
confidare in Lui che tutto dirige con misteriosa sapienza: «Al di sopra di tutto questo prega<br />
l’Altissimo perché guidi la tua condotta secondo verità» (37,15). Il m<strong>al</strong>ato prega per la guarigione<br />
(38,9) e il medico per far bene la diagnosi (38,14). Lo studente che vuole comprendere<br />
la sapienza, oltre che <strong>al</strong>lo studio della Legge deve soprattutto dedicarsi <strong>al</strong>la preghiera (39,5-6),<br />
perché la sapienza è dono di Dio. Un accento particolare è posto sulla preghiera che chiede il<br />
perdono <strong>dei</strong> peccati (17,25-26; 7,10; 18,21; 21,1; 38,9-10; 39,5). L’autentica conversione a<br />
Dio si concretizza nella preghiera (17,25-26.29).<br />
La lode di Dio è il senso ultimo della vita umana (17,10) e conviene <strong>al</strong> sapiente in modo<br />
particolare (15,9-10). Ben Sira invita festosamente <strong>al</strong>la lode di Dio (39,14-15); da 42,15 a<br />
43,33 inn<strong>al</strong>za un inno di lode a Dio per tutte le meraviglie che Egli compie nella natura e nella<br />
storia. La lode è il vero centro del culto (50,16-24); nella liturgia convergono creazione, storia<br />
e timor di Dio.<br />
Non tutti gli studiosi ammettono un atteggiamento positivo di Ben Sira verso la liturgia.<br />
Secondo J.G. Sn<strong>ai</strong>th, Ben Sira attribuirebbe importanza più <strong>al</strong>la giustizia soci<strong>al</strong>e e <strong>al</strong>la legge<br />
mor<strong>al</strong>e che <strong>al</strong>la liturgia. A me non sembra che si debba sminuire l’importanza del culto in Ben<br />
Sira, che tra l’<strong>al</strong>tro visse in un’epoca in cui il culto era praticamente l’unico mezzo per Israele<br />
di affermare la propria identità. Vedi anche quanto dice di Aronne (Sir 45,6-22).<br />
La preghiera di 36,1-22 fa di Israele, Gerus<strong>al</strong>emme, Sion e del tempio il «luogo» dell’agire<br />
e del rivelarsi di Dio, il banco di prova della fedeltà di Dio <strong>al</strong>le sue promesse.
2.5. TEODICEA<br />
Siracide 109<br />
Il problema della teodicea, tanto urgente per Ben Sira in un’epoca in cui il giud<strong>ai</strong>smo era<br />
sfidato d<strong>al</strong>l’ellenismo, resta attu<strong>al</strong>issimo anche per noi. Il termine «teodicea» indica l’interrogativo<br />
che sorge quando d<strong>al</strong>la coscienza di ogni pur minima disarmonia dell’esistenza si impone<br />
il problema più vasto di Dio; per Israele in particolare di quel Dio che si prende a cuore<br />
la sorte del suo popolo.<br />
Nella creazione e tra gli uomini ci sono re<strong>al</strong>tà e aspetti contrari (bene-m<strong>al</strong>e, vita-morte, luce-tenebre,<br />
il buono-il m<strong>al</strong>vagio, ecc.): fin d<strong>al</strong>l’inizio Dio ha creato tutte le cose a due a due,<br />
l’una di fronte <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra (cf. 33,15). Ben Sira non considera la re<strong>al</strong>tà ontologicamente e pertanto<br />
non scinde le creature su due fronti, contrapposti secondo i canoni di un du<strong>al</strong>ismo deterministico;<br />
ma ha una concezione dinamica, nella qu<strong>al</strong>e le cose si rivelano più per quello che v<strong>al</strong>gono<br />
che per quello che sono. Gli elementi creati sono visti nella loro funzion<strong>al</strong>ità storica. In<br />
questa prospettiva vanno considerate sia l’ambiv<strong>al</strong>enza delle cose create, <strong>al</strong>cune delle qu<strong>al</strong>i<br />
hanno una funzione punitiva (39,12-35), sia i fenomeni natur<strong>al</strong>i, come testimonianza della<br />
gloria del Creatore (42,15–43,33). Non c’è posto per un du<strong>al</strong>ismo metafisico.<br />
Anche l’esistenza umana è piena di antinomie e di miserie, e infine è soggetta <strong>al</strong>la morte<br />
(15,11–18,14; 40,1-17; 41,1-13). Ben Sira risponde <strong>al</strong>le obiezioni di coloro che attribuiscono<br />
a Dio il m<strong>al</strong>e dell’uomo o che giustificano il m<strong>al</strong>e con la noncuranza di Dio nei confronti del<br />
mondo. Per lui è chiaro che l’uomo è libero e responsabile. Il m<strong>al</strong>e è il rifiuto della Legge data<br />
da Dio, è insensatezza (16,23) non solo perché resta incomprensibile, essendo rifiuto di sapienza,<br />
ma perché è un non-operare secondo le vie concrete degli insegnamenti della legge e<br />
della storia. Il cosiddetto problema del m<strong>al</strong>e diventa <strong>al</strong>lora una questione esclusivamente storica<br />
ed antropologica. Ben Sira non dice nulla in re<strong>al</strong>tà sull’origine del m<strong>al</strong>e, limitandosi solo<br />
ad affermare la libertà e la responsabilità umana. Dio non può essere la causa del m<strong>al</strong>e. La<br />
morte è la sorte comune a tutti gli uomini e rappresenta la fine norm<strong>al</strong>e cui ogni creatura è<br />
soggetta. Di essa non si può accusare Dio. Il sapiente è consapevole della complessità della<br />
vita umana e di fronte <strong>al</strong> mistero resta in silenzio adorante.<br />
2.6. LE DONNE<br />
Della donna si parla in molti testi, soprattutto nelle seguenti pericopi: 23,16-27; 25,1–<br />
26,28; 41,14–42,14. Ben Sira è un uomo e si rivolge a uomini; egli si mette quasi sempre d<strong>al</strong><br />
punto di vista dell’uomo, non della donna. Anche quando dà un giudizio negativo sulle relazioni<br />
tra uomo e donna, Ben Sira giudica d<strong>al</strong> punto di vista dell’uomo, tenendo conto della<br />
sua debolezza e fragilità. I suoi consigli sono diretti a giovani orientati <strong>al</strong> matrimonio e perciò<br />
tutto quello che dice sulla donna è in funzione della vita coniug<strong>al</strong>e.<br />
La sposa può essere buona o cattiva. L’uomo può rovinare la famiglia, ma quando il m<strong>al</strong>e<br />
viene d<strong>al</strong>la sposa è la morte del focolare domestico: «A causa della donna l’inizio della colpa<br />
e a causa di essa periamo» (25,24). Secondo М. Gilbert questo difficile versetto significa: è la<br />
rovina di un focolare quando la sposa è fonte prima di m<strong>al</strong>vagità.<br />
Tuttavia Ben Sira non è affatto un misogino. In verità, egli dice molto poco della donna in<br />
sé, perché la vede in funzione della famiglia e di ciò che essa è per l’uomo. Non parla di ciò<br />
che ella può e deve attendersi d<strong>al</strong> marito; non parla di un vero di<strong>al</strong>ogo coniug<strong>al</strong>e, benché riconosca<br />
il v<strong>al</strong>ore straordinario dell’armonia tra gli sposi (25,1). Ogni donna resta per l’uomo anche<br />
sposato una potenza di attrazione davanti <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e egli deve riconoscere la sua debolezza.<br />
Ben Sira resta natur<strong>al</strong>mente legato <strong>ai</strong> condizionamenti cultur<strong>al</strong>i e sociologici del suo tempo:<br />
la donna, per quanto responsabile <strong>dei</strong> suoi atti (23,22-23) quanto l’uomo, non ha gli stessi<br />
diritti nella società e nella famiglia, in cui lo sposo è il ba‘<strong>al</strong> (padrone, capo).
110 Siracide<br />
2.7. ELOGIO DEI PADRI (CC. 44–49)<br />
Questa sezione è un insieme letterariamente e contenutisticamente ben compaginato in unità.<br />
Qui è il «climax» dell’opera, cui tendono i capitoli precedenti. La «laus patrum» è anche la<br />
sezione più origin<strong>al</strong>e di tutta l’opera. Si tratta di una rilettura del passato nel genere del midrash<br />
haggadico.<br />
Ben Sira traccia una g<strong>al</strong>leria di «medaglioni» <strong>dei</strong> grandi eroi, buoni e m<strong>al</strong>vagi, del passato<br />
con uno scopo didattico rivolto <strong>al</strong> presente. Il tema dell’<strong>al</strong>leanza percorre tutta la visione siracidea<br />
della storia: nei cc. 44–49 il termine berît ricorre 11 volte. Il concetto di <strong>al</strong>leanza di Ben<br />
Sira si avvicina a quello della tradizione sacerdot<strong>al</strong>e: l’<strong>al</strong>leanza è una benevola e libera disposizione<br />
della divina Provvidenza, una promessa fatta da Dio. Aronne è, tra i personaggi dell’<strong>al</strong>leanza,<br />
quello che ha maggior rilievo; appare così che per Ben Sira la liturgia, il culto pubblico<br />
reso <strong>al</strong> Dio di Israele è la gloria più grande della religione giud<strong>ai</strong>ca. Ma il culto non è affatto<br />
separato d<strong>al</strong>la sapienza e d<strong>al</strong>la legge.<br />
Stranamente, Ben Sira non parla dell’esilio; anzi, si può dire che egli implicitamente lo nega.<br />
Meraviglia anche il suo silenzio su Esdra. È di R.A.F. Mac Kenzie l’ipotesi che Ben Sira<br />
discendesse da una famiglia che non aveva m<strong>ai</strong> conosciuto l’esilio ed era rimasta in P<strong>al</strong>estina;<br />
ciò spiegherebbe anche la sua scarsa simpatia per l’opera di riforme radic<strong>al</strong>i di Esdra.<br />
2.8. LE PROSPETTIVE FUTURE<br />
Ben Sira ne parla poco. Per ciò che concerne la nazione, non pensa a un messia che possa un<br />
giorno stabilire un ordine nuovo 1 . Egli spera che il sacerdozio sadocita continui a mantenersi <strong>al</strong>la<br />
testa del suo popolo (50,24 ebr<strong>ai</strong>co). Prega per la restaurazione d’Israele, il compimento delle<br />
profezie e l’unità del genere umano nel riconoscimento dell’unico vero Dio (36,1-22). Egli è sicuro<br />
della perennità d’Israele (37,25).<br />
Quanto <strong>al</strong> fine ultimo dell’individuo, Ben Sira non è un innovatore 2 . Parla della morte in un<br />
tono disincantato (14,11-19; cfr. 40,1-11; 41,1-4). Per il dopo morte egli prevede solo lo šeol<br />
(14,16), dove nessuno loda il Signore (17,27-28): «Ciò che attende l’uomo sono i vermi!» (7,17<br />
ebr<strong>ai</strong>co). Di uno che è morto rimane solo il ricordo della sua saggezza (39,9-11) o delle sue buone<br />
azioni (41,12-13; 4,10-15).<br />
Alcune aggiunte del testo lungo hanno cercato invece di superare queste prospettive future<br />
abbastanza strette. Secondo queste aggiunte, dopo la morte ogni individuo avrà il suo giorno<br />
di giudizio, in cui Dio lo “visiterà” ed esaminerà tutte le sue azioni. Per i cattivi, sarà un giorno<br />
d’ira e di vendetta; essi saranno gettati nelle profondità della terrà per ricevervi la loro<br />
“sorte” di tenebre e di dolore. Per i giusti sarà l’ingresso nel mondo futuro, il mondo santo, la<br />
“parte” di verità; essi gioiranno della vita eterna, ricompensa senza fine che comporta l’onore<br />
ricevuto da Dio e una gioia perenne. Uno stadio intermedio tra la morte e la sorte fin<strong>al</strong>e della<br />
ricompensa eterna viene segn<strong>al</strong>ata in Sir VL 24,32(45) e forse 44,16 (“nel paradiso”).<br />
BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />
Commenti<br />
DUESBERG, H. - FRANSEN, I. (edd.), Ecclesiastico (BG), Torino-Roma 1966.<br />
L’opera è introdotta da un’an<strong>al</strong>isi <strong>dei</strong> problemi critico-testu<strong>al</strong>i e critico-letterari (pp. 1-90). La traduzione<br />
it<strong>al</strong>iana (sulle pagine di sinistra) e il testo latino (pagine di destra) sono accompagnati da un<br />
modesto apparato critico e da commenti relativamente ampi.<br />
1<br />
Cfr. A. CAQUOT, Ben Sira et le messianisme, in Sem 16 (1966) 43-68; J. D. MARTIN, Ben Sira’s Hymn to the<br />
Fathers. A Messianic Perspective, in OTS 24 (1986) 107-123.<br />
2<br />
Cfr. V. HAMP, Zukunft und Jenseits im Buche Sirach, in Festschrift Nötscher (BBB 1), Bonn 1950, 86-97; M.<br />
FANG CHE-YONG, Ben Sira de novissimis hominis, in VD 41 (1963) 21-38.
Siracide 111<br />
LÉVI, I., L’Ecclésiastique ou la Sagesse de Jésus, fils de Sira, 2 voll., Paris 1898, 1901.<br />
È uno <strong>dei</strong> primi grandi commenti che seguirono le scoperte della geniza del C<strong>ai</strong>ro. Nonostante la<br />
precisione mostrata nell’an<strong>al</strong>isi di <strong>al</strong>cuni problemi testu<strong>al</strong>i, l’opera non ha ottenuto la fama, per<strong>al</strong>tro<br />
meritata, <strong>dei</strong> commenti di Smend e di Peters.<br />
MORLA, V., Eclesiástico, S<strong>al</strong>amanca-Madrid-Estella 1992.<br />
Si tratta di uno <strong>dei</strong> pochi commenti (testo compreso) scritti originariamente in spagnolo. Dopo<br />
un’introduzione di dodici pagine, dedicata agli aspetti gener<strong>al</strong>i dell’opera, l’autore affronta il commento<br />
dell’Ecclesiastico suddividendolo in unità letterarie per circa 220 pagine. Non è un commento<br />
scientifico ma un’opera di <strong>al</strong>ta divulgazione concepita più per pastori e studenti che per gli speci<strong>al</strong>isti.<br />
PETERS, N., Das Buch Jesus Sirach oder Ecclesiasticus übersetzt und erklärt, Münster 1913.<br />
Dopo un’introduzione di settantotto pagine l’autore presenta un ampio e ottimo commento (pp. 1-<br />
454) nel qu<strong>al</strong>e spicca l’ottima an<strong>al</strong>isi del testo ebr<strong>ai</strong>co e delle versioni greca e latina. Nonostante la<br />
remota data di pubblicazione lo si può considerare, con l’opera di Smend, il miglior commento moderno<br />
<strong>al</strong>l’opera del Siracide.<br />
SEGAL, M.TS., Sefer Ben Sira hašš<strong>al</strong>em, Yerush<strong>al</strong><strong>ai</strong>m 2 1958.<br />
Commento in ebr<strong>ai</strong>co moderno. La sua maggiore utilità per lo studioso consiste nella riproduzione<br />
del testo ebr<strong>ai</strong>co dell’Ecclesiastico voc<strong>al</strong>izzato. Il commento, t<strong>al</strong>ora superfici<strong>al</strong>e, presenta qu<strong>al</strong>che lacuna.<br />
La bibliografia (pp. 71-72.) è eccessivamente ridotta.<br />
SKEHAN, P.W. - DI LELLA, A.A., The Wisdom of Beп Sira (AB 39), New York 1987.<br />
I nomi degli autori, noti speci<strong>al</strong>isti in materia, sono di per sé una garanzia per questo commento<br />
della «Anchor Bible». La traduzione e le note si devono a Skehan, che morì prima di vedere conclusa<br />
l’opera. L’introduzione e il commento sono opera di Di Lella. L’introduzione (pp. 3-92) è ampia e<br />
completa; la bibliografia (pp. 93-127) è praticamente esaustiva. Il commento (pp. 131-580), accompagnato<br />
d<strong>al</strong>la traduzione, è buono anche se non privo di una certa farraginosità e di scarsa profondità.<br />
Molto utile, infine, l’indice tematico (pp. 593-620).<br />
SMEND, R., Die Weisheit des Jesus Sirach, Berlin 1906.<br />
Senza dubbio si tratta del miglior commento critico e teologico <strong>al</strong> Siracide. A estesi prolegomena –<br />
Gesù Ben Sira e la sua opera, il testo ebr<strong>ai</strong>co, la traduzione greca del nipote, una seconda traduzione<br />
greca, le retrotraduzioni d<strong>al</strong> greco, le traduzioni siriaca e araba, la ricostruzione del testo origin<strong>al</strong>e (pp.<br />
XIV-CLIX) – fa seguito un’approfondita ed erudita an<strong>al</strong>isi testu<strong>al</strong>e (pp. 1-517). Si segn<strong>al</strong>a, in particolare,<br />
l’intuito dell’autore e la sua abilità nel ricostruire a partire d<strong>al</strong> greco un ipotetico testo ebr<strong>ai</strong>co (ove<br />
manca) che in molti casi è stato confermato da successive scoperte.<br />
SNAITH, J.G., Ecclesiasticus, Cambridge 1974.<br />
Questo commento fa parte del «Cambridge Bible Commentary». Opera di <strong>al</strong>ta divulgazione, comporta<br />
la traduzione inglese e il commento articolato per pericopi.<br />
Altre opere interessanti<br />
AA. VV., Sefer Ben Sira, Yerush<strong>al</strong><strong>ai</strong>m 1973.<br />
Viene qui presentato l’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co nella collana «Dizionario Storico della Lingua Ebr<strong>ai</strong>ca». Si<br />
tratta di uno studio dedicato <strong>al</strong> testo, <strong>al</strong>le concordanze e <strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi lessic<strong>al</strong>e del Siracide. Dopo<br />
un’introduzione sulle caratteristiche tecniche del libro, questo è suddiviso in tre parti: 1. il libro di Ben<br />
Sira e le sue versioni (pp. 1-69), con la riproduzione del testo origin<strong>al</strong>e non voc<strong>al</strong>izzato; 2. concordanze<br />
(pp. 71-314); 3. elenchi lessic<strong>al</strong>i (pp. 315-517). Opera di riferimento obbligato.<br />
BOCCACCIO, P. - BERARDI, G., Ecclesiasticus. Textus hebraeus secundum fragmenta reperta, Roma<br />
1986.<br />
L’opera presenta la riproduzione del testo <strong>dei</strong> diversi manoscritti ebr<strong>ai</strong>ci dell’Ecclesiastico. Purtroppo<br />
non sono stati riprodotti i manoscritti di Qumran e Masada.<br />
DI LELLA, A.A., The Hebrew Text of Sirach. A Text-Critic<strong>al</strong> and Historic<strong>al</strong> Study, The Hague 1966.<br />
Opera fondament<strong>al</strong>e per lo studio dell’autenticità <strong>dei</strong> manoscritti della geniza del C<strong>ai</strong>ro. Una prima<br />
parte, dedicata <strong>al</strong>lo stato della questione, consente <strong>al</strong>l’autore di affrontare il problema dell’autenticità
112 Siracide<br />
<strong>dei</strong> manoscritti ebr<strong>ai</strong>ci d<strong>al</strong> punto di vista della critica testu<strong>al</strong>e (pp. 47-77) e d<strong>al</strong> punto di vista storico<br />
(pp. 78-105). Nel cap. IV Di Lella sostiene la retrotraduzione di <strong>al</strong>cuni brevi passi d<strong>al</strong> testo siriaco.<br />
RÜGER, H.P., Text und Textform im hebräischen Sirach. Untersuchungen zur Textgeschichte und<br />
Textkritik der hebräischen Sirach fragmente aus der K<strong>ai</strong>roer Geniza (BZAW 112), Berlin 1970.<br />
Si tratta di un’indispensabile opera di critica testu<strong>al</strong>e basata sulla supposizione di due forme testu<strong>al</strong>i<br />
nell’Ecclesiastico. Presenta uno studio <strong>dei</strong> doppioni nel manoscritto A; <strong>dei</strong> par<strong>al</strong>leli tra i manoscritti A<br />
e C; <strong>dei</strong> par<strong>al</strong>leli tra i manoscritti A e B; il manoscritto A come testimone della trasformazione del testo<br />
ebr<strong>ai</strong>co di Ben Sira; l’età delle due forme testu<strong>al</strong>i dell’Ecclesiastico.<br />
SMEND, R., Griechisch-syrisch-hebräischer Index zur Weisheit des Jesus Sirach, Berlin 1907.<br />
Dopo una breve introduzione (pp. III-XIII) l’autore presenta il lessico greco del Siracide con le corrispondenti<br />
voci ebr<strong>ai</strong>che e siriache accompagnate d<strong>al</strong>le citazioni <strong>dei</strong> passi in cui ricorrono (pp. 1-251).<br />
Si tratta, dunque, della prima concordanza sul Siracide: di grande utilità per il ricercatore.<br />
VATTIONI, F., Ecclesiastico. Testo ebr<strong>ai</strong>co con apparato critico e versioni greca, latina e siriaco, Napoli<br />
1968.<br />
Un’introduzione dedicata a questioni gener<strong>al</strong>i (autore, data, ecc.) e una bibliografia scelta precedono<br />
il testo origin<strong>al</strong>e dell’Ecclesiastico e tre versioni. Il testo ebr<strong>ai</strong>co occupa la parte superiore delle pagine<br />
di destra; nella parte inferiore della stessa pagina viene riprodotta la versione siriaca. Le pagine di<br />
sinistra sono occupate d<strong>al</strong>le versioni greca e latina. Questa disposizione è pratica, perché il lettore può<br />
apprezzare in modo sinottico i punti di contatto e le divergenze. Purtroppo la versione siriaca non è<br />
stata sottoposta a una revisione critica.<br />
YADIN, Y., The Ben Sira Scroll from Masada, Jerus<strong>al</strong>em 1965.<br />
La natura del manoscritto frammentario scoperto a Masada è esposta nell’introduzione. La prima<br />
parte dell’opera è dedicata a un esauriente studio critico-testu<strong>al</strong>e; nella seconda parte l’autore presenta<br />
una traduzione inglese del testo restaurato; l’opera si conclude con la riproduzione fotografica delle<br />
pagine del manoscritto. Fatta eccezione per <strong>al</strong>cune opinioni erronee – sulla natura del manoscritto e la<br />
lettura di <strong>al</strong>cuni passi dubbi –, si tratta di un libro d’indispensabile consultazione.<br />
Inoltre, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />
SISTI, A., Riflessi dell’epoca premaccab<strong>ai</strong>ca nell’Ecclesiastico, in RivBib 12 (1964) 215-256.<br />
PRATO, G.L., Il problema della teodicea in Ben Sira. Composizione <strong>dei</strong> contrari e richiamo <strong>al</strong>le origini<br />
(AnBib 65), Roma 1975.<br />
VIRGULIN, S., Ecclesiastico o Siracide, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong><br />
<strong>al</strong>la Bibbia 3), Bologna 1978, 443-472.<br />
MINISSALE, A., Siracide (NVB 23), Roma 1980.<br />
BOCCACCINI, G., Origine del m<strong>al</strong>e, libertà dell’uomo e retribuzione nella Sapienza di Ben Sira, in Henoch<br />
8 (1986) 1-37.<br />
ADINOLFI, M., Il medico in Sir 38,1-15, in Anton 62 (1987) 172-183.<br />
PRATO, G.L., Classi lavorative e otium sapienzi<strong>al</strong>e. Il significato teologico di una dicotomia soci<strong>al</strong>e<br />
secondo Ben Sira (38,24–39,11)», in G. DE GENNARO (ed.), Lavoro e riposo nella Bibbia (Studio<br />
Biblico Teologico Aquilano), Napoli 1987, 149-175.<br />
RAVASI, G., Siracide, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988, 1490-1496.<br />
MINISSALE, A., Siracide. Le radici nella tradizione (LoB 1,17), Brescia 1988.<br />
ZATELLI, I., Yir’at JHWH nella Bibbia, in Ben Sira e nei rotoli di Qumran: considerazioni sintatticosemantiche,<br />
in RivBib 36 (1988) 229-237.<br />
ZAPPELLA, M., Criteri antologici e questioni testu<strong>al</strong>i nel manoscritto ebr<strong>ai</strong>co C di Siracide, in RivBib<br />
38 (1990) 273-300.<br />
MINISSALE, A., La versione greca del Siracide. Confronto con il testo ebr<strong>ai</strong>co <strong>al</strong>la luce dell’attività<br />
midrascica e del metodo targumico (An<strong>al</strong>ecta Biblica 133), Roma 1995.<br />
DI LELLA, A.A., Siracide, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 647-664.<br />
MORLA ASENSIO, V., Il libro dell’Ecclesiastico, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong><br />
<strong>al</strong>lo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 175-208.<br />
BONORA, A., Siracide, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4),<br />
Torino-Leumann 1997, 85-98.
Siracide 113<br />
CALDUCH-BENAGES, N., En el crisol de la prueba. Estudio exegético de Sir 2,1-18 (Asociación<br />
Bíblica Española 32), Estella 1997.<br />
CALDUCH-BENAGES, N., Un gioiello di sapienza. Leggendo Siracide 2 (Cammini nello Spirito.<br />
Biblica 45), Milano 2001.<br />
Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 4/2003: «Il libro del Siracide».
SAPIENZA *<br />
Affascinante ed enigmatica, questa Sapienza di S<strong>al</strong>omone! È l’ultimo libro importante della<br />
sapienza dell’antico Israele, ma il primo a parlare in greco e a confrontarsi con la cultura ellenistica.<br />
Ponte gettato tra l’Antico Testamento e il Nuovo, quest’opera di un fedele giudeo<br />
ellenistico dovette vedere la luce quando stava per nascere il cristianesimo. Trasmesso d<strong>ai</strong> cristiani,<br />
è riconosciuto come libro canonico d<strong>al</strong>la Chiesa cattolica.<br />
Finora poco studiato, questo libro solleva molti problemi, soprattutto di ordine letterario.<br />
Per t<strong>al</strong>e ragione, senza perdere di vista il messaggio dell’anonimo autore, la nostra attenzione<br />
si fermerà sull’an<strong>al</strong>isi del libro.<br />
1. IL LIBRO<br />
1.1. CONTENUTO E STRUTTURA LETTERARIA DEL LIBRO<br />
Per determinare la struttura letteraria del libro, cioè l’organizzazione e la disposizione delle<br />
sue diverse parti, l’esegeta può basarsi sugli indizi verb<strong>al</strong>i offerti d<strong>al</strong> testo stesso. Si notano<br />
così le ricorrenze di parole o di espressioni e la loro collocazione; si individuano <strong>al</strong>lora degli<br />
insiemi le cui estremità hanno, per esempio, le stesse parole; e se ne scoprono <strong>al</strong>tri più lunghi<br />
la cui organizzazione si presenta sotto una forma detta concentrica (a-b-c-b’-a’, per esempio) 1 .<br />
Per chiarezza presenteremo qui in modo schematico il piano delle grandi parti che costituiscono<br />
il <strong>Libro</strong> della Sapienza, ma cominceremo ogni volta col riassumere il contenuto del testo<br />
seguendo le indicazioni fornite d<strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi della struttura letteraria.<br />
1.1.1. Sap 1–6<br />
In apertura del libro l’autore si rivolge direttamente <strong>ai</strong> lettori, considerati come principi del<br />
mondo, invitandoli ad «amare la giustizia» e a «cercare il Signore» (1,1), a evitare le recriminazioni,<br />
simili a quelle degli ebrei nel deserto, le parole empie e le azioni che meritano la<br />
morte (1,11-12). Infatti i pensieri e i propositi perversi <strong>al</strong>lontanano la Sapienza e il giudizio<br />
attende i colpevoli (1,2-10).<br />
A titolo di illustrazione l’autore dà subito la parola agli empi: la vita appare loro senza <strong>al</strong>cuna<br />
prospettiva di un <strong>al</strong>dilà; <strong>al</strong> momento della morte lo spirito stesso si dissipa come l’aria;<br />
conviene perciò godere il più possibile del tempo presente (2,1-9). Ma la sola presenza del<br />
giusto, la sua fedeltà <strong>al</strong>le tradizioni ancestr<strong>al</strong>i e i rimproveri che egli rivolge agli empi spingono<br />
questi ultimi a perseguitarlo: il giusto è convinto che Dio proteggerà la sua sorte fin<strong>al</strong>e;<br />
ebbene, «condanniamolo a una morte infame e vedremo» (2,10-20).<br />
Questo discorso, in cui gli empi oppongono la loro concezione della morte a quella del giusto,<br />
è inquadrato da due riflessioni fondament<strong>al</strong>i dell’autore: le creature sono portatrici di s<strong>al</strong>vezza<br />
e Dio ha creato l’uomo immort<strong>al</strong>e, incorruttibile (1,13-16; 2,21-24).<br />
Queste affermazioni sono <strong>al</strong>lora applicate a tre categorie di giusti la cui esistenza, agli occhi<br />
di questo mondo, sembra una sciagura: i giusti che muoiono nella sofferenza (3,1-9), la<br />
donna sterile o l’eunuco, tuttavia fedeli (3,11-15; 4,1-2), infine il giusto che muore nel fiore<br />
degli anni (4,7-14a); nessuno di essi avrà conosciuto quaggiù la felicità che si ritiene ricompensa<br />
della virtù, ma riceveranno la loro ricompensa in occasione della «visita» di Dio, cioè <strong>al</strong><br />
*<br />
M. GILBERT, La Sapienza di S<strong>al</strong>omone, in J. AUNEAU (ed.), I S<strong>al</strong>mi e gli <strong>al</strong>tri Scritti (Piccola Enciclopedia<br />
Biblica 5), Roma 1991, 324-355.<br />
1<br />
Cfr. A. G. WRIGHT, The Structure of the Book of Wisdom, in Bib 48 (1967) 165-184; P. BIZZETI, Il libro<br />
della Sapienza. Struttura e genere letterario, Brescia 1984, 49-111; M. GILBERT, Sagesse de S<strong>al</strong>omon (ou Livre<br />
de la Sagesse), in DBS 11 (1986) 65-77 (con bibliografia).
Sapienza 115<br />
di là della morte, quando gli empi, che sono confrontati con essi caso per caso (3,10.16-19;<br />
4,2-6.14b-20), saranno castigati.<br />
L’autore immagina poi l’incontro nell’<strong>al</strong>dilà tra i giusti e gli empi (5,1-3). Facendo eco <strong>al</strong><br />
loro discorso-programma, questi ultimi riprendono la parola, ma questa volta per esprimere il<br />
loro stupore per la felicità del giusto (5,4-5) e riconoscere la vacuità della loro vita (5,6-13).<br />
Infatti – commenta l’autore – Dio interverrà direttamente contro gli empi e in favore <strong>dei</strong> giusti<br />
e prenderà come armi le forze del cosmo (5,14-23).<br />
A mo’ di conclusione l’autore si rivolge nuovamente <strong>ai</strong> re e <strong>ai</strong> principi perché ascoltino il<br />
suo messaggio (6,12.11.21.25): un giudizio più severo li attende perché sono più potenti degli<br />
<strong>al</strong>tri (6,3-10) e, d’<strong>al</strong>tra parte, la Sapienza, garanzia di un regno immort<strong>al</strong>e, non si rifiuta a colui<br />
che la cerca (6,12-20).<br />
Gli ultimi versetti (6,22-24) servono da transizione, annunciando la seconda parte: qu<strong>al</strong> è la<br />
natura della Sapienza, la sua origine, la sua storia?<br />
Il piano di questa prima parte, visto schematicamente, appare concentrico: <strong>al</strong>l’esortazione<br />
inizi<strong>al</strong>e corrisponde l’esortazione fin<strong>al</strong>e che riprende gli stessi temi, ma in ordine inverso; <strong>al</strong><br />
discorso-programma degli empi fa eco quello che essi pronunceranno nell’<strong>al</strong>dilà, riprendendo<br />
le stesse idee, ma nuovamente in ordine inverso; infine nei tre dittici centr<strong>al</strong>i, il contrasto tra<br />
virtù e morte inquadra quello della virtù nella sterilità.<br />
Ecco i dettagli di questa struttura letteraria:<br />
A. Esortazione <strong>ai</strong> principi (1,1-12)<br />
la Sapienza non si rivela <strong>al</strong>l’empio;<br />
egli non dimentichi che ci sarà un giudizio!<br />
B. Progetto degli empi:<br />
<strong>Introduzione</strong> (1,13-16): creazione e immort<strong>al</strong>ità;<br />
critica degli empi.<br />
Discorso degli empi (2,1-20): senso della vita e opzione per il piacere;<br />
complotto contro il giusto.<br />
Conclusione (2,21-24): critica degli empi;<br />
creazione e incorruttibilità.<br />
C. Tre tipi paradoss<strong>al</strong>i di esistenza e loro contrasto (3–4):<br />
il giusto che muore nella sofferenza – gli empi;<br />
la sterile e l’eunuco – la discendenza degli empi;<br />
il giusto che muore prematuramente – le folle degli empi.<br />
B’. Bilancio degli empi:<br />
<strong>Introduzione</strong> (5,1-3): il giusto di fronte agli empi.<br />
Discorso degli empi (5,4-13): il trionfo del giusto;<br />
la loro opzione e il senso della vita.<br />
Conclusione (5,14-23): l’empio e i giusti;<br />
Dio e il combattimento cosmico fin<strong>al</strong>e.<br />
A’. Esortazione <strong>ai</strong> principi (6):<br />
non dimentichino che ci sarà un giudizio!<br />
La Sapienza si rivela a chi la cerca ed è garanzia di immort<strong>al</strong>ità.<br />
Annuncio di ciò che segue (6,22-25).<br />
1.1.2. Sap 7–9<br />
L’autore che, in questa nuova parte come in Sap 6, parla <strong>al</strong>la prima persona singolare, si<br />
presenta, senza dirlo, sotto i tratti di S<strong>al</strong>omone. Egli precisa, per cominciare, di essere nato<br />
come ogni <strong>al</strong>tro uomo; non è quindi un dio e la sapienza non è una questione di eredità o di<br />
atavismo (7,16). Egli ha ricevuto la Sapienza perché l’ha domandata nella preghiera, preferendola<br />
a tutti i beni che sono appannaggio della reg<strong>al</strong>ità; riconosce pure di aver ricevuto ugu<strong>al</strong>mente<br />
questi <strong>al</strong>tri beni, grazie <strong>al</strong>la Sapienza da lui preferita (7,7-12). Egli rinnova poi la<br />
sua intenzione di parlare di essa e domanda a Dio la grazia di poterlo fare adeguatamente; ha
116 Sapienza<br />
ricevuto da Dio una vasta cultura: è ritenuto maestro in tutti i campi del sapere del suo tempo,<br />
ma in re<strong>al</strong>tà è la Sapienza che l’ha istruito (7,13-21).<br />
Egli descrive <strong>al</strong>lora questa Sapienza attribuendo <strong>al</strong>lo spirito che è in essa una lista di ventuno<br />
qu<strong>al</strong>ità: di una purezza assoluta, la Sapienza penetra tutto, cercando solo di re<strong>al</strong>izzare il<br />
bene. Queste qu<strong>al</strong>ità si giustificano per il fatto che la Sapienza emana da Dio di cui è il soffio,<br />
l’effluvio, il riflesso, lo specchio, l’immagine. Così si spiega la sua azione: essa regge l’universo<br />
in modo benefico e forma amici di Dio e profeti (7,22–8,1).<br />
Essendo la Sapienza fin d<strong>al</strong>l’origine del mondo l’intima di Dio, lo pseudo-S<strong>al</strong>omone arriva<br />
a desiderare di averla come sposa poiché è più importante di qu<strong>al</strong>siasi <strong>al</strong>tra cosa che possa<br />
formare un’autentica person<strong>al</strong>ità: benessere, intelligenza, virtù, cultura (8,2-8). Prendendo la<br />
Sapienza come sposa, la sue qu<strong>al</strong>ità di re saranno ancora più evidenti, nel consiglio come nella<br />
guerra, e la sua vita privata sarà felice (8,9-16). Per t<strong>al</strong>e ragione, dotato di buone doti natur<strong>al</strong>i,<br />
ma consapevole che la Sapienza la si riceve solo domandandola, egli si decide a pronunciare<br />
la sua preghiera (8,17-21).<br />
Possiamo presentare così in modo schematico la struttura di Sap 7–8:<br />
A. S<strong>al</strong>omone nacque come ogni <strong>al</strong>tro uomo (7,1-6),<br />
B. ma domandò la Sapienza nella preghiera e ricevette con essa tutti i beni reg<strong>al</strong>i (7,7-12);<br />
C. ricevette ugu<strong>al</strong>mente tutti i beni di carattere cultur<strong>al</strong>e (7,13-21).<br />
D. Descrizione della Sapienza: natura, origine e azione (7,22–8,1).<br />
C’. La Sapienza porta tutto ciò che forma una person<strong>al</strong>ità (8,2-8).<br />
B’. Con essa come sposa, S<strong>al</strong>omone si mostrerà un grande re (8,9-16).<br />
A’. Per l’uomo dotato di buone doti natur<strong>al</strong>i, la Sapienza si ottiene solo con la preghiera (8,17-21).<br />
La preghiera di Sap 9 si divide in tre strofe 2 : la prima (9,1-6) e la terza (9,13-18) riguardano<br />
ogni uomo, mentre la seconda (9,7-12) si riferisce a S<strong>al</strong>omone. L’insieme è strutturato in<br />
modo concentrico: la prima strofa trova un eco nella terza, ma nell’ordine inverso; la strofa<br />
centr<strong>al</strong>e è anch’essa di struttura concentrica. Così la duplice richiesta della Sapienza appare <strong>al</strong><br />
centro della preghiera (9,10), preparata da una prima richiesta <strong>al</strong> centro della prima strofa<br />
(9,4), <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e fa eco il versetto centr<strong>al</strong>e della terza (9,17). La struttura concentrica, già emersa<br />
in Sap 1–6 e 7–8, riappare quindi nella preghiera di Sap 9; eccone gli elementi princip<strong>al</strong>i:<br />
I. a : Vocazione dell’uomo (9,1-3)<br />
b : richiesta della Sapienza (9,4)<br />
c : a causa della fragilità umana (9,5-6).<br />
II. d : Vocazione di S<strong>al</strong>omone (9,7-8)<br />
e : La Sapienza presso Dio (9,9)<br />
b’ : richiesta della Sapienza (9,10ab).<br />
e’ : La Sapienza presso S<strong>al</strong>omone (9,10c-11)<br />
d’ : re<strong>al</strong>izzazione della vocazione di S<strong>al</strong>omone (9,12).<br />
III. c’ : A causa della fragilità umana (9,13-17a)<br />
b’’ : richiesta implicita della Sapienza (9,17bc)<br />
a’ : re<strong>al</strong>izzazione della vocazione umana (9,18).<br />
1.1.3. Sap 10–19<br />
Ricollegandosi <strong>al</strong>l’ultimo versetto della preghiera di Sap 9 («essi furono s<strong>al</strong>vati per mezzo<br />
della Sapienza»), si apre in Sap 10 un grande affresco in cui vengono evocati i princip<strong>al</strong>i personaggi<br />
e gli eventi fondatori dell’umanità e d’Israele; l’autore si ispira evidentemente <strong>al</strong>la<br />
Bibbia, in particolare a Gen, Es e Num.<br />
Sap 10 passa in rassegna gli eroi biblici che si sono succeduti da Adamo fino a Mosè <strong>al</strong>la<br />
testa del popolo: essi dovettero tutti la loro s<strong>al</strong>vezza <strong>al</strong>la Sapienza, mentre quelli che si separarono<br />
da essa finirono m<strong>al</strong>e. Gli ultimi versetti (10,15-21) ricordano brevemente i grandi<br />
2 M. GILBERT, La structure de la prière de S<strong>al</strong>omon (Sg 9), in Bib 51 (1970) 301-331.
Sapienza 117<br />
eventi dell’esodo e terminano con un’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong> cantico di Es 15. I primi versetti di Sap 11<br />
situano gli ebrei nel deserto, dopo il passaggio del mar Rosso (11,1-3).<br />
I capitoli seguenti (11–19) presentano una struttura complessa. In breve l’autore, senza tuttavia<br />
seguire <strong>al</strong>la lettera i racconti del libro dell’Esodo, oppone un diverso beneficio accordato<br />
da Dio a Israele a ciascuna piaga che colpisce gli egiziani. Questi dittici di contrari sono stabiliti<br />
sulla similitudine dell’elemento cosmico utilizzato d<strong>al</strong> Signore. Due digressioni interrompono<br />
però questa lunga meditazione rivolta tutta quanta <strong>al</strong> Signore.<br />
Primo dittico: avendo il faraone ordinato di gettare nel fiume i neonati maschi di Israele<br />
(11,6; cfr. Es 1,22), l’acqua del Nilo fu mutata in sangue e divenne imbevibile; invece, nel deserto,<br />
Israele ricevette l’acqua della roccia (11,7-14) 3 .<br />
Dittico seguente: le piaghe provocate da diverse bestiole sono dapprima segn<strong>al</strong>ate rapidamente<br />
(11,14); saranno spiegate molto più a lungo solo più avanti nel libro (16,1-14). Nel frattempo<br />
l’autore propone due digressioni.<br />
La prima (11,15–12,27) spiega perché il Signore avesse deciso di punire con uno strumento<br />
così ridicolo. Queste piaghe inflitte d<strong>al</strong>le bestiole inviate contro l’Egitto sono messe in par<strong>al</strong>lelismo<br />
con il castigo <strong>dei</strong> Cananei per mezzo <strong>dei</strong> c<strong>al</strong>abroni; secondo l’autore, Dio castiga in<br />
questo modo non per impotenza ma per preoccupazione di moderazione, perché egli ama le<br />
sue creature e vuole solo la conversione <strong>dei</strong> colpevoli (11,23–12,2); ma se costoro si ostinano<br />
egli proseguirà fino <strong>al</strong> castigo supremo (12,23-27). L’autore ne trae la lezione che il giusto<br />
deve imitare la misericordia di Dio (12,19-22).<br />
La seconda digressione (13–15) 4 spiega la ragione per cui gli egiziani furono castigati proprio<br />
con degli anim<strong>al</strong>i. Il motivo è stato già brevemente annunciato in Sap 11,15-16; 12,23.27,<br />
ma, an<strong>al</strong>izzando i tre tipi fondament<strong>al</strong>i di culto praticati d<strong>ai</strong> pagani del suo tempo – culto degli<br />
elementi della natura (13,1-9), culto degli idoli (13,10–15,13), culto degli anim<strong>al</strong>i viventi<br />
(15,14-19) – l’autore sottolinea il carattere estremamente aberrante di questa zoolatria che gli<br />
egiziani praticavano da vari secoli (cfr. Es 8,22). Quando se ne presenta l’occasione, l’autore<br />
riprende la critica dell’idolatria, ma approfondendo le obiezioni di ordine teologico: <strong>al</strong>l’inizio<br />
e <strong>al</strong>la fine (13,10-19; 15,7-13) egli mostra la follia <strong>dei</strong> fabbricanti di idoli, mentre <strong>al</strong> centro<br />
(14,11-31) an<strong>al</strong>izza il processo degradante inerente <strong>al</strong>l’idolatria: il culto sbagliato genera le<br />
peggiori depravazioni mor<strong>al</strong>i; invece la storia sacra dimostra che Dio s<strong>al</strong>va senza gli idoli<br />
(14,1-7) e che Israele, benché anch’egli peccatore, non è sprofondato nell’abisso dell’idolatria<br />
(15,1-5). La struttura di questa seconda digressione è quindi la seguente:<br />
I. culto della natura (13,1-9).<br />
II. culto degli idoli (13,10–15,13):<br />
A. idoli d’oro, d’argento, di pietra e soprattutto di legno;<br />
ruolo del legn<strong>ai</strong>olo fabbricante di idoli (13,10-19);<br />
B. riferimento <strong>al</strong>la storia sacra; invocazione; annuncio o transizione (14,1-10).<br />
C. Castigo degli idoli;<br />
invenzione e conseguenze dell’idolatria;<br />
castigo degli idolatri (14,11-31).<br />
B’. Riferimento <strong>al</strong>la storia sacra; invocazione;<br />
annuncio o transizione (15,1-6).<br />
A’. Idoli di argilla;<br />
ruolo del vas<strong>ai</strong>o che fabbrica idoli (15,7-13).<br />
III. Culto degli anim<strong>al</strong>i viventi (15,14-19).<br />
Terminate queste digressioni, l’autore riprende il suo racconto degli eventi dell’esodo là<br />
dove l’aveva lasciato in 11,15, cioè <strong>al</strong>le piaghe inflitte d<strong>al</strong>le bestiole. Questa volta però ne distingue<br />
due tipi: da una parte, <strong>al</strong>le rane che tolgono ogni appetito agli egiziani egli oppone le<br />
quaglie (16,1-4); d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra, <strong>ai</strong> tafani e <strong>al</strong>le cav<strong>al</strong>lette, contro i cui morsi non c’era rimedio (qui<br />
3<br />
Es 17,5-6 avvicina già i due prodigi operati da Mosè con lo stesso bastone.<br />
4<br />
Cfr. M. GILBERT, La critique des dieux dans le Livre de la Sagesse (Sg 13–15) (AnBib 53), Rome 1973,<br />
245-257.
118 Sapienza<br />
l’autore va oltre i racconti dell’Esodo), oppone il serpente di bronzo <strong>al</strong>la vista del qu<strong>al</strong>e Israele<br />
riceveva da Dio la guarigione (16,5-14).<br />
Il dittico seguente oppone i raccolti degli egiziani, distrutti d<strong>al</strong>la grandine e d<strong>al</strong>la tempesta,<br />
<strong>al</strong>la manna donata a Israele durante il suo soggiorno nel deserto (16,15-29). Poi <strong>al</strong>le tenebre<br />
che avvolgono gli egiziani viene opposta la luce che illuminava Israele nel paese di Gošen,<br />
come pure in occasione del passaggio del mar Rosso (17,1–18,4).<br />
Infine le piaghe degli ultimi due dittici vengono dapprima presentate insieme, la morte <strong>dei</strong><br />
primogeniti degli egiziani e l’affogamento dell’esercito del faraone nel mar Rosso; esse furono<br />
motivate d<strong>al</strong> decreto infanticida del faraone (18,5; cfr. 11,6). Dopo di che l’autore distingue<br />
i due dittici. Alla morte <strong>dei</strong> primogeniti degli egiziani, quando Israele, riconosciuto figlio di<br />
Dio, celebra la pasqua e attende la s<strong>al</strong>vezza (18,6-19), l’autore oppone l’intercessione di Aronne<br />
che arrestò il flagello mort<strong>al</strong>e che colpiva Israele nel deserto in occasione della rivolta<br />
di Core (18,20-25; cfr. Num 17,11-14). Infine, <strong>al</strong>l’affogamento dell’esercito del faraone viene<br />
opposto il passaggio degli ebrei <strong>al</strong>l’asciutto e ricorda il loro cantico di Es 15 (19,1-9; cfr.<br />
10,20).<br />
Se ora, messe da parte le due digressioni (11,15–12,27; 13–15), guardiamo <strong>al</strong>l’insieme della<br />
struttura di tutti questi dittici, costatiamo che essi sono o del numero di cinque (in cifre romane),<br />
o del numero di sette (in cifre arabe), a seconda che si tenga conto o meno di 11,15 e<br />
di 18,5, in cui l’autore accosta da una parte tutte le piaghe per mezzo delle bestiole e d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra<br />
la morte che colpisce l’Egitto nei suoi primogeniti e nel suo esercito. Si ottiene <strong>al</strong>lora lo<br />
schema seguente:<br />
I = 1: acqua del Nilo – acqua della roccia (11,1-14)<br />
II = 2: rane – quaglie (16,1-4)<br />
= 3: tafani e cav<strong>al</strong>lette – serpente di bronzo (16,5-14)<br />
III = 4: raccolto distrutto d<strong>al</strong>la grandine – manna (16,15-29)<br />
IV = 5 : tenebre – luce (17,1–18,4)<br />
V = 6: morte <strong>dei</strong> primogeniti degli egiziani – Israele risparmiato (18,6-25)<br />
= 7: il mar Rosso uccide – libera (19,1-9)<br />
Inoltre delle <strong>al</strong>lusioni <strong>al</strong> cantico di Es 15 app<strong>ai</strong>ono in 10,20 e 19,9, che incorniciano l’insieme<br />
del racconto. Similmente il decreto infanticida del faraone viene menzionato <strong>al</strong>l’inizio<br />
di I (11,6) e di V (18,5): è una seconda inclusione dell’insieme. Inoltre, i dittici 1 e 7 fanno intervenire<br />
entrambi lo stesso elemento, l’acqua. D’<strong>al</strong>tra parte il dittico centr<strong>al</strong>e, nell’uno e<br />
nell’<strong>al</strong>tro sistema (III=4) offre l’occasione <strong>al</strong>l’autore di precisare che il cosmo lotta con Dio<br />
contro i colpevoli e in favore <strong>dei</strong> giusti (16,24); ora questa affermazione centr<strong>al</strong>e si trova ripresa<br />
in conclusione del libro.<br />
Alle correlazioni di struttura indicate sopra per l’insieme <strong>dei</strong> dittici possiamo aggiungere le<br />
seguenti che abbiamo appena rilevato:<br />
cantico di Es 15 (10,20)<br />
l’acqua (11,6)<br />
decreto infanticida (11,7)<br />
. . .<br />
manna; ruolo del cosmo (16,20.24)<br />
. . .<br />
decreto infanticida (18,5)<br />
l’acqua (19,1-8)<br />
cantico di Es 15 (19,9)<br />
Queste ultime osservazioni dimostrano che l’ultima parte del libro comporta anch’essa degli<br />
elementi di una struttura concentrica.<br />
La conclusione riprende l’essenzi<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> princip<strong>al</strong>i avvenimenti dell’esodo: il cosmo si trasforma<br />
per meglio lottare in favore <strong>dei</strong> giusti (19,10-12.18-21) contro <strong>dei</strong> nemici peggiori <strong>dei</strong><br />
sodomiti che avevano accolto m<strong>al</strong>e degli stranieri (19,13-17; cfr. Gen 19,1-11). Questo riassunto<br />
si conclude con un richiamo <strong>al</strong>la manna, spiegata nel dittico centr<strong>al</strong>e (III=4) e qu<strong>al</strong>ificata<br />
qui come ambrosia, cibo celeste degli antichi che assicurava l’immort<strong>al</strong>ità.
Sapienza 119<br />
Infine, secondo l’ultimo versetto del libro (19,22), ciò che il Signore aveva fatto in occasione<br />
dell’esodo in favore del suo popolo, lo ripete in ogni tempo e in ogni luogo sotto forme<br />
diverse: Dio non manca m<strong>ai</strong> di s<strong>al</strong>vare i suoi.<br />
L’insieme della struttura del libro denota delle caratteristiche presenti ovunque. Le strutture<br />
concentriche sono individuabili in tutte le parti, anche nella presentazione degli avvenimenti<br />
dell’esodo. T<strong>al</strong>volta la struttura concentrica si rivela a tre rami: lo stesso tema appare tre volte,<br />
<strong>al</strong>l’inizio, in mezzo e <strong>al</strong>la fine di un insieme e delimita così la sua struttura; t<strong>al</strong>e è il caso in<br />
1,16; 2,9.24 (la parte degli empi); in 6,1-2.9-11.21 (appello <strong>ai</strong> principi); 9,4.10.17bc (richiesta<br />
della Sapienza); in 11,15-16; 12,23-27; 16,1 (la piaga per mezzo delle bestiole).<br />
Quanto <strong>ai</strong> dittici, caratteristici del richiamo agli avvenimenti dell’esodo (11–19), si trovano<br />
anche in 3–4 (i giusti e gli empi), in 11,15–12,27 (egiziani e cananei) e in 13–15 (gli idolatri e<br />
il popolo di Dio).<br />
Infine tutte le parti app<strong>ai</strong>ono fortemente legate tra loro. La seconda, che fa l’elogio esplicito<br />
della Sapienza, viene preparata in 6,12-21 e annunciata in 6,22. La terza si lega molto natur<strong>al</strong>mente<br />
<strong>al</strong>la seconda in quanto sviluppa 9,18, l’ultimo versetto della preghiera, e la lunga<br />
meditazione sull’esodo è preparata d<strong>al</strong> riassunto di 10,15-21; inoltre, la preghiera di Sap 9 si<br />
prolunga nel racconto che prende la forma di inno: da 10,20 fino <strong>al</strong>la fine del libro l’autore si<br />
rivolge il più delle volte <strong>al</strong> Signore stesso.<br />
1.2. GENERE LETTERARIO<br />
Qu<strong>al</strong> è il genere letterario di questo libro preso nella sua tot<strong>al</strong>ità? 5<br />
Dopo Focke e soprattutto Reese 6 si parla spesso di logos protreptikos, di discorso protrettico.<br />
Ma questa ipotesi solleva due difficoltà: innanzitutto del Protreptico di Aristotele, l’esempio<br />
tipo di questo genere letterario, sappiamo in re<strong>al</strong>tà ben poco d<strong>ai</strong> frammenti che ci sono<br />
pervenuti; inoltre, tutta la parte fin<strong>al</strong>e del libro della Sapienza, che sviluppa l’evocazione dell’esodo<br />
con un continuo riferimento <strong>al</strong>la storia, non rientra in questo genere letterario. Comunque<br />
sia, l’ipotesi offre il vantaggio di orientare la ricerca verso il mondo greco, d<strong>al</strong> momento<br />
che nessun genere letterario propriamente biblico rende conto della tot<strong>al</strong>ità del libro<br />
della Sapienza.<br />
Sembra opportuno parlare, con P. Beauchamp, di encomium o di elogio. Accanto <strong>ai</strong> discorsi<br />
deliberativi e giudiziari, Aristotele, nella sua Retorica, e, dopo di lui, Cicerone e Quintiliano,<br />
collocano il discorso epidittico: questo genere letterario non serve, come quello giudiziario, a<br />
giudicare il passato, né, come quello deliberativo, a favorire una decisione che deve orientare<br />
il futuro, ma cerca di incitare l’uditorio ad ammirare e a voler imitare una persona o a praticare<br />
una virtù, una precisa qu<strong>al</strong>ità. In quest’ultimo caso ci troviamo di fronte <strong>al</strong>l’encomium. Le<br />
descrizioni che ne danno Aristotele e i suoi successori si adattano a quanto troviamo nel libro<br />
della Sapienza.<br />
Secondo Aristotele, l’esordio è an<strong>al</strong>ogo a un «preludio di un pezzo di flauto» (Retorica,<br />
1414b). La materia è tratta d<strong>al</strong>l’elogio o d<strong>al</strong> biasimo; interviene anche il consiglio. Si tratta di<br />
risvegliare l’attenzione e l’interesse degli ascoltatori <strong>ai</strong> qu<strong>al</strong>i ci si rivolge direttamente. Si presenta<br />
loro brevemente il tema del discorso esortandoli a metterlo essi stessi in pratica. Per mostrarne<br />
la posta in gioco si cede la parola a coloro che rifiutano il v<strong>al</strong>ore di ciò di cui si vuol<br />
fare l’elogio; si critica questa opinione e, attraverso situazioni dolorose o sorprendenti in cui<br />
possono trovarsi implicati gli stessi ascoltatori, si fa percepire anche quanto sia utile l’oggetto<br />
dell’elogio. L’esordio si conclude con una breve descrizione di ciò che si vuole lodare e con<br />
una traccia del seguito del discorso. Sap 1–6 corrisponde a questa descrizione. Sap 1 e 6 sono<br />
delle esortazioni in cui il contenuto del consiglio è tratto anticipatamente d<strong>al</strong>l’elogio. Sap 2 e<br />
5 Cfr. BIZZETI, Il libro della Sapienza, 113-180; GILBERT, DBS 11, 77-87.<br />
6 F. FOCKE, Die Entstehung der Weisheit S<strong>al</strong>omos, Göttingen 1913, 85 (per Sap 1–5); J. M. REESE, Hellenistic<br />
Influence on the Book of Wisdom and its Consequences (AnBib 41), Roma 1970, 117-121.
120 Sapienza<br />
5 formano l’accusa di un’opinione avversaria e la sua critica. Sap 3–4 oppone <strong>al</strong> comportamento<br />
degli avversari delle situazioni univers<strong>al</strong>i paradoss<strong>al</strong>i. Infine, a mo’ di argomentazione,<br />
viene «congetturato» l’avvenire: immort<strong>al</strong>ità, incorruttibilità e intervento di Dio in favore <strong>dei</strong><br />
giusti mediante le forze cosmiche.<br />
L’elogio, nel senso stretto, deve <strong>al</strong>lora mostrare tre cose: l’origine, la natura e le opere o i<br />
benefici di ciò che si intende lodare. È la parte più ardua sia per l’oratore o lo scrittore che per<br />
l’ascoltatore o il lettore <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e viene chiesto uno sforzo di attenzione. Sap 7–9, annunciato <strong>al</strong><br />
termine dell’esordio (Sap 6,22), corrisponde a questo progetto. Ma a proposito dell’origine<br />
della Sapienza vengono distinti due punti di vista: l’origine della Sapienza stessa e la sua origine<br />
in S<strong>al</strong>omone o nel cuore del saggio. L’autore inizia con questo secondo punto di vista: il<br />
saggio non ha ricevuto la Sapienza fin d<strong>al</strong>la nascita, ma perché l’ha domandata a Dio nella<br />
preghiera; solo la preghiera è <strong>al</strong>l’origine della Sapienza nell’uomo (7,1-7; 8,17-21; 9). Quanto<br />
<strong>al</strong>l’origine della Sapienza stessa, essa si situa in Dio, di cui la Sapienza è il riflesso, lo specchio,<br />
l’immagine e di cui condivide l’intimità (7,25-26; 8,3). La natura della Sapienza viene<br />
descritta con ventuno attributi: è purezza assoluta, capace perciò di penetrare ogni cosa in vista<br />
del bene (7,22-24). Questo porta a parlare della sua attività, in quanto questa deriva d<strong>al</strong>la<br />
sua natura: la Sapienza anima l’universo e forma gli amici di Dio e i profeti (7,27–8,1); è anche<br />
l’artefice di tutte le cose (7,21; 8,4-6), la madre di tutti i beni, che essa porta con sé a colui<br />
che la riceve (7,12). La sua attività è perciò legata <strong>al</strong>la sua origine e <strong>al</strong>la sua natura; essa concede<br />
anche ogni cosa desiderabile (7,8-12.17-21; 8,5-8.10-18). Ma ciò che caratterizza questa<br />
parte del libro è il fatto che l’elogio della Sapienza, la sua origine, la sua natura e la sua azione<br />
esigono non soltanto che essa sia preferita a tutti i beni, ma che sia richiesta nella preghiera:<br />
questo è il motivo per cui l’elogio culmina in una preghiera (Sap 9). Così l’autore, facendo<br />
l’elogio della Sapienza, fa anche in qu<strong>al</strong>che modo l’elogio di S<strong>al</strong>omone, il suo modello, di cui<br />
vanta la nobiltà, la cultura, lo sfarzo e la stima di cui fu circondato: tutte queste circostanze,<br />
che, secondo Aristotele, l’elogio deve esporre, trovano la loro ragion d’essere nel fatto che S<strong>al</strong>omone<br />
domandò prima di ogni cosa la Sapienza.<br />
Per confermare l’ascoltatore o il lettore nel suo desiderio di praticare ciò di cui si sta facendo<br />
l’elogio, i maestri della retorica antica suggeriscono uno sviluppo fatto di esempi ben<br />
noti. Questa parte, più accessibile, può essere elaborata a piacimento dell’oratore o autore.<br />
Uno <strong>dei</strong> modi migliori per presentare questi esempi, sempre continuando a parlare implicitamente<br />
dell’azione o <strong>dei</strong> benefici di ciò di cui si fa l’elogio, consiste nel proporre <strong>dei</strong> confronti<br />
in quanto d<strong>al</strong> contrasto emerge la luce. Questa «amplificazione», stando a quanto dice<br />
Aristotele (Retorica, 1392a), è il luogo comune più proprio dell’epidittico. Il confronto<br />
dev’essere fatto con <strong>dei</strong> personaggi molto famosi per far emergere la superiorità di coloro che<br />
si intende lodare (Retorica, 1368a): questo confronto si chiama in greco syncrisis. Inoltre questa<br />
parte deve trarre dagli esempi addotti una lezione mor<strong>al</strong>e per gli ascoltatori; l’oratore è del<br />
resto libero di introdurre delle digressioni il cui scopo sarà ancora quello di convincere<br />
l’uditorio. Infine il discorso termina con un riassunto succinto di ciò che si può trarre dagli esempi<br />
addotti; viene scagliata un’ultima freccia contro gli avversari e si conclude rapidamente<br />
lasciando <strong>al</strong>l’uditorio il compito di prendere una decisione. Sap 10–19 corrisponde ancora una<br />
volta perfettamente a questa descrizione <strong>dei</strong> maestri della retorica greca e latina. Gli esempi<br />
addotti sono a t<strong>al</strong> punto conosciuti dagli ascoltatori che non è necessario dire il nome proprio<br />
(eccetto per il mar Rosso, in 10,18 e 19,7). Sono famosi: sono <strong>al</strong>la base della tradizione religiosa<br />
propria degli ascoltatori. La syncrisis molto elaborata e due digressioni si inseriscono<br />
appropriatamente. Infine la conclusione del discorso, in particolare l’ultimo attacco (19,13-<br />
17), corrisponde anch’essa <strong>al</strong>la teoria di questo genere epidittico. La grande differenza, in<br />
continuità con quella che caratterizzava l’elogio propriamente detto (7–9), deriva d<strong>al</strong> fatto che<br />
i paragoni che vengono addotti, pur traendo delle lezioni per l’uditorio, si rivolgono diretta-
Sapienza 121<br />
mente <strong>al</strong> Signore e non <strong>al</strong>l’uditorio, eccetto quando si tratta di descrivere le colpe degli avversari<br />
e il loro castigo 7 .<br />
Si può quindi costatare che il libro della Sapienza corrisponde nella sua tot<strong>al</strong>ità <strong>al</strong> genere<br />
letterario degli oratori antichi: è un buon esempio di encomium o elogio.<br />
Questa è la ragione per cui non bisogna cercare di attribuire l’una o l’<strong>al</strong>tra parte <strong>al</strong>la diatriba<br />
o <strong>al</strong> midraš, per la ragione fondament<strong>al</strong>e che né l’una né l’<strong>al</strong>tra costituiscono un genere letterario<br />
propriamente detto. La diatriba 8 infatti, più che un genere letterario, è un insieme di<br />
particolarità stilistiche od oratorie utilizzate d<strong>ai</strong> cinici, e poi dagli stoici, <strong>al</strong>lo scopo di far accettare<br />
d<strong>al</strong> loro uditorio popolare <strong>al</strong>cuni opzioni mor<strong>al</strong>i. Lo stile della diatriba è diretto e di<br />
una estrema vivacità: non costruzione rigida nel discorso, ma tutto ciò che è necessario per tenere<br />
in sospeso gli ascoltatori; interpellanza, di<strong>al</strong>ogo, favola, un tono ora serio ora comico, o<br />
addirittura satirico, ecc. I temi sono nobili: superiorità della mor<strong>al</strong>e, che mira <strong>al</strong>la felicità<br />
dell’uomo; vita semplice e frug<strong>al</strong>e; importanza del saggio per la società; la virtù si rivela nelle<br />
azioni, ecc. Alcune di queste caratteristiche stilistiche e tematiche si ritrovano qua e là nel libro<br />
della Sapienza, senza tuttavia fornirne un genere letterario propriamente detto.<br />
Lo stesso v<strong>al</strong>e per il midraš; anch’esso può difficilmente essere chiamato un genere letterario<br />
9 . Sembra piuttosto una rilettura <strong>dei</strong> testi biblici per svelarne il significato e adattarlo <strong>ai</strong><br />
bisogni della comunità attu<strong>al</strong>e. Prima <strong>dei</strong> midrašim del III secolo della nostra era, si incontrano<br />
solo delle caratteristiche sparse di una tendenza che non è ancora un genere letterario.<br />
Del resto questa tendenza si nota in tutte le parti del libro della Sapienza, e non soltanto in Sap<br />
10–19; Sap 7–9 dipende d<strong>ai</strong> racconti concernenti S<strong>al</strong>omone in 1Re 3–5; 2Cr 1, ma anche d<strong>ai</strong><br />
testi di Pr e di Sir che trattano della Sapienza; non mancano rapporti tra i primi capitoli del libro<br />
e Is 52,13–53,12, il canto del servo sofferente. Come scrive C. Larcher 10 , attraverso tutto<br />
il libro si ritrova, tra l’<strong>al</strong>tro, la «stessa forma di esegesi libera o midrašica».<br />
1.3. UNITÀ DEL LIBRO 11<br />
A partire da Chr. Fr. Houbigant (1753), parecchi critici hanno attribuito le diverse parti del<br />
libro ad autori differenti. Tuttavia, dopo C. L. W. Grimm (1860), la maggior parte <strong>dei</strong> commentatori<br />
del libro ne ha difeso l’unità. Sono stati utilizzati molti argomenti; quanto abbiamo<br />
cercato di spiegare nelle pagine precedenti va nella stessa direzione. Se il testo origin<strong>al</strong>e del<br />
libro è proprio quello greco che ci è stato trasmesso, se la struttura letteraria di questo libro è<br />
omogenea e corrisponde inoltre a un solo genere letterario, quello dell’encomium o elogio, <strong>al</strong>lora<br />
bisogna ritenere che il libro costituisce un’autentica unità.<br />
Sono state avanzate anche <strong>al</strong>tre argomentazioni:<br />
1. P. W. Skehan 12 argomenta a partire d<strong>al</strong>la sticometria, cioè sulla base degli stichi nelle diverse<br />
parti del libro. Ma, se è vero che Sap 1–9 comporta cinquecento stichi, non si può arrivare<br />
a una conclusione certa per il numero degli stichi nei capitoli seguenti, in quanto questo<br />
numero, checché ne dica Skehan, non è sicuro. Conviene perciò abbandonare questo tipo di<br />
argomento.<br />
7 Cfr. M. GILBERT, L’adresse à Dieu dans l’anamnèse hymnique de l’exode (Sg 10–19), in El misterio de la<br />
P<strong>al</strong>abra. Homenaje a L. Alonso Schökel, Madrid 1983, 207-225.<br />
8 Cfr. A. OLTRAMARE, Les Origines de la diatribe rom<strong>ai</strong>ne, Genève 1926, 9-17; 43-65.<br />
9 Cfr. R. LE DÉAUT, A propos d’une definition du midrash, in Bib 50 (1969) 395-413; REESE, Hellenistic Influence,<br />
91-99; nonostante G. M. CAMPS, Midras sobre la historia de las plagues (Ex 1–12), in Miscellanea biblica<br />
B. Ubach, Montserrat 1953, 97-114, e R. T. SIEBENECK, The Midrash of Wisdom 10–19, in CBQ 22 (1966)<br />
176-182.<br />
10 C. LARCHER, Études sur le Livre de la Sagesse (EtB), Paris 1969, 103.<br />
11 Cfr. C. LARCHER, Le Livre de la Sagesse, I (EtB n.s. 1), Paris 1983, 95-119; GILBERT, DBS 11, 87-91.<br />
12 P. W. SKEHAN, Text and Structure of the Book of Wisdom, in Traditio 3 (1945) 2-5.
122 Sapienza<br />
2. A. G. Wright 13 ritiene, da parte sua, che Sap sia stato scritto rispettando le proporzioni<br />
indicate d<strong>al</strong> numero d’oro. Sappiamo che le Georgiche di Virgilio sono costruite sul numero<br />
d’oro. Tuttavia la dimostrazione è poco convincente in quanto <strong>al</strong>cune divisioni del testo proposte<br />
da Wright sembrano artifici<strong>al</strong>i.<br />
3. J. M. Reese 14 trova nelle diverse parti del libro la ripetizione di parole significative o di<br />
una stessa idea origin<strong>al</strong>e. I risultati di questo metodo sono molto più probanti; essi mostrano<br />
come Sap 10–19 sia legato a Sap 1–9.<br />
4. Alcuni autori hanno dimostrato anche la coerenza del libro nel trattamento di <strong>al</strong>cuni temi.<br />
P. Beauchamp 15 ha rilevato che, nelle tre parti del libro, il cosmo gioca continuamente un<br />
ruolo capit<strong>al</strong>e. J. M. Reese 16 aggiunge i temi seguenti ugu<strong>al</strong>mente presenti in modo coerente<br />
in tutto il libro:<br />
– conoscenza religiosa di Dio;<br />
– interazione di m<strong>al</strong>izia e ignoranza;<br />
– immort<strong>al</strong>ità dell’uomo e temi connessi;<br />
– uso didattico della storia.<br />
5. Un’ultima argomentazione condurrà <strong>al</strong> capitolo seguente. Secondo C. Larcher 17 , le differenze<br />
nell’uso <strong>dei</strong> testi biblici anteriori nelle diverse parti del libro «non richiedono necessariamente<br />
autori distinti in quanto il modo di trattare il testo biblico rimane identico: stessa discrezione<br />
nei riguardi delle citazioni implicite, stesso uso abitu<strong>al</strong>e della LXX, stesso problema<br />
posto d<strong>ai</strong> passi in cui l’autore si <strong>al</strong>lontana da questa stessa forma di esegesi libera o midrašica».<br />
1.4. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E L’ANTICO TESTAMENTO<br />
In qu<strong>al</strong>e misura il nostro libro ricorre agli scritti dell’Antico Testamento che lo precedono?<br />
Per rispondere a questo interrogativo sono possibili due metodi: o seguire l’ordine stesso del<br />
libro della Sapienza o seguire l’ordine <strong>dei</strong> libri dell’Antico Testamento. Seguiremo qui il primo<br />
metodo 18 .<br />
Dobbiamo innanzitutto notare che l’autore non facilita la ricerca perché m<strong>ai</strong> fa esplicito riferimento<br />
a un testo anteriore dell’Antico Testamento. Egli svolge il suo discorso senza <strong>al</strong>cuna<br />
citazione esplicita, senza nemmeno fornire un nome proprio, ad eccezione del mar Rosso (Sap<br />
10,18; 19,7), come abbiamo già notato. Ciò non impedisce che colui che conosce la sua Bibbia<br />
– e t<strong>al</strong>i dovevano essere i primi lettori del libro – individui facilmente le <strong>al</strong>lusioni e i riferimenti.<br />
Qu<strong>al</strong>i sono?<br />
1.4.1. L’Antico Testamento in Sap 1–6 19<br />
In questa prima parte del libro le influenze bibliche sono più difficili da individuare. L’insegnamento<br />
dell’autore sull’escatologia emerge su uno sfondo in cui si situavano Giobbe e<br />
Qohelet con i loro interrogativi fondament<strong>al</strong>i. Ma l’autore di Sap supera anche tutta la dottrina<br />
classica della retribuzione affermando l’immort<strong>al</strong>ità e la retribuzione nell’<strong>al</strong>dilà.<br />
13<br />
A. G. WRIGHT, Numeric<strong>al</strong> Patterns in the Book of Wisdom, in CBQ 29 (1967) 524-538.<br />
14<br />
REESE, Hellenistic Influence, 123-140.<br />
15<br />
P. BEAUCHAMP, Le s<strong>al</strong>ut corporel des justes et la conclusion du livre de la Sagesse, in Bib 45 (1964) 491-<br />
526.<br />
16<br />
Hellenistic Influence, 140-145.<br />
17<br />
Études, 103.<br />
18<br />
Già J. FICHTNER, Der AT-Text der Sapientia S<strong>al</strong>omonis, in ZAW 16 (1939) 155-192. Il secondo metodo è<br />
seguito da P. W. SKEHAN. Studies in Israelite Poetry and Wisdom, Washington D.C. 1971, 149-236 (S<strong>al</strong>, Es, Pr,<br />
Gb, Qo) e da LARCHER, Études, 85-103.<br />
19<br />
Cfr. M. J. SUGGS, Wisdom of Solomon II,10-V: A Homily Based on the Fourth Servant Song, in JBL 76<br />
(1957) 28-33; G. W. E. NICKELSBURG, Resurrection, Immort<strong>al</strong>ity and Etern<strong>al</strong> Life in Intertestament<strong>al</strong> Jud<strong>ai</strong>sm<br />
(HThS 26), Cambridge, Mass. 1972, 61-66; J. SCHABERG, Major Midrashic Traditions in Wisdom 1,1–6,25, in<br />
JSJ 13 (1982) 75-101.
Sapienza 123<br />
Tuttavia Sap 2,1-9 non è un quadro ispirato a Qohelet che il nostro autore intenderebbe rifiutare,<br />
in quanto ha di mira piuttosto delle correnti edonistiche e materi<strong>al</strong>istiche della sua epoca.<br />
Tra i testi biblici anteriori <strong>ai</strong> qu<strong>al</strong>i l’autore si ispira in modo particolare va annoverato soprattutto<br />
il S<strong>al</strong> 2, d<strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e Sap 1 e 6,1 prendono delle espressioni. Ma per l’affermazione di<br />
base concernente l’immort<strong>al</strong>ità in Sap 1,13-15 e 2,23-24 punto di ancoraggio è Gen 1–3.<br />
Quanto <strong>al</strong>la descrizione del giusto perseguitato, in Sap 2,10-20 e 5,1-6, essa si ispira in parte<br />
<strong>al</strong> S<strong>al</strong> 22 e forse a Is 53. Tuttavia Is 53 evoca l’idea della sofferenza vicaria subita d<strong>al</strong>la<br />
moltitudine, il che non viene ripreso d<strong>al</strong>l’autore di Sap, e il tema del silenzio di Dio che appare<br />
nel S<strong>al</strong> 22 non figura in Sap. Inoltre in Sap 3,1-9 si possono individuare delle <strong>al</strong>lusioni a<br />
Dan 7,22-27; 12,3.10.<br />
In Sap 1–6 si riconoscono anche delle tracce di Is 40–66: Is 56,4-5 in Sap 3,14 a proposito<br />
dell’eunuco; Is 57,1-2 in Sap 4,14-18 sull’indifferenza delle folle di fronte <strong>al</strong>la morte del giusto.<br />
Dietro la descrizione di questa morte si riconosce invece la figura di Enoch di Gen 5,24<br />
(LXX).<br />
L’autore non segue perciò una sola fonte. Il suo discorso è nuovo e si basa su un’ampia tradizione.<br />
1.4.2. L’Antico Testamento in Sap 7–9 20<br />
Una delle princip<strong>al</strong>i chiavi di letture di Sap 7–9 è da ricercare indiscutibilmente nelle tradizioni<br />
bibliche concernenti S<strong>al</strong>omone, soprattutto in 1Re 3–11 e 2Cr 1–9. Ciò che costituisce il<br />
punto centr<strong>al</strong>e di Sap 7–9 è la preghiera di S<strong>al</strong>omone per ottenere la Sapienza (1Re 3,5-15;<br />
2Cr 1,7-12). La grande preghiera di Sap 9, annunciata in Sap 7,7 e 8,21, si ispira a questi due<br />
testi antichi. Anche l’insistenza di Sap 7,17-21 e 8,8 sul grande sapere del saggio è un adattamento<br />
di 1Re 5,9-14. Ma, fatta eccezione di Sap 9,8, tutto ciò che si riferisce <strong>al</strong>la costruzione<br />
del Tempio viene passato sotto silenzio. Altro silenzio: i matrimoni di S<strong>al</strong>omone; in questo<br />
Sap si avvicina a 2Cr.<br />
Il solo matrimonio di S<strong>al</strong>omone a cui fa riferimento il libro della Sapienza è quello del giovane<br />
re con la Sapienza (Sap 8). Qui l’autore potrebbe ricordarsi del Cantico <strong>dei</strong> Cantici, attribuito<br />
d<strong>al</strong>la Bibbia proprio a S<strong>al</strong>omone. Ma è possibile che siano intervenuti degli intermediari,<br />
come Sir 6,26-28 e 51,13-22, come pure il ritratto della sposa perfetta di Pr 31, interpretato<br />
<strong>al</strong>legoricamente in funzione della figura della Sapienza di Pr 8–9. Pr 31,11.12.23.28 descrive<br />
già il marito felice.<br />
Infine, per parlare della Sapienza stessa, l’autore del nostro libro si ispira a Pr 8 e in misura<br />
minore a Sir 24; l’insistenza sul ruolo attivo della Sapienza nell’azione creatrice (Sap 7,21;<br />
8,5) richiama la lezione «architetto» di Pr 8,30.<br />
1.4.3. L’Antico Testamento in Sap 10–19<br />
In Sap 10,1-14 viene sfruttato soprattutto il libro della Genesi. Ma se l’autore di Sap intraprende<br />
una rilettura sapienzi<strong>al</strong>e degli eventi passati, aveva un precursore in Sir 44–49.<br />
A partire da Sap 10,15 fino <strong>al</strong>la fine del libro il nostro autore si ispira soprattutto <strong>ai</strong> libri<br />
dell’Esodo e <strong>dei</strong> Numeri per le sue descrizioni delle piaghe d’Egitto e <strong>dei</strong> benefici concessi a<br />
Israele nel deserto. I S<strong>al</strong> 78 e 105 sono ugu<strong>al</strong>mente tra le sue fonti preferite. Ma trova ispirazione<br />
anche in <strong>al</strong>tri testi, come per esempio Dt 8,3 in Sap 16,26.<br />
Alcuni passi vanno considerati a parte. Sap 17,3-21, che descrive le angustie degli egiziani<br />
nelle tenebre, deve poco <strong>al</strong>la Bibbia. Nella conclusione, Sap 19,14-17, sulla cattiva ospit<strong>al</strong>ità<br />
20 Cfr. LARCHER, Études, 329-349; M. GILBERT, La figure de S<strong>al</strong>omon en Sg 7–9, in R. KUNTZMANN-J.<br />
SCHLOSSER (ed.), Études sur le jud<strong>ai</strong>sme hellénistique (LeDiv 119), Paris 1984, 225-249.
124 Sapienza<br />
degli abitanti di Sodoma, si riferisce a Gen 19,1-11, mentre Sap 19,6-21, secondo P. Beauchamp<br />
21 , non è senza an<strong>al</strong>ogie con Gen 1,1–2,4, l’azione creatrice di Dio in sette giorni.<br />
Le due digressioni (Sap 11,15–12,27; 13–15) formano anch’esse un tutto a parte, d<strong>al</strong> punto<br />
di vista che ci interessa qui. Le <strong>al</strong>lusioni bibliche sono il più delle volte rapide e diversificate:<br />
per esempio Gen 1,1-2 in Sap 11,17; Is 40,15 in Sap 11,12; Is 44,9-20 in Sap 13,10-19, la descrizione<br />
del legn<strong>ai</strong>olo che fabbrica idoli; Sap 14,5-7 fa <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>l’arca di Noè; Os 4,2, un<br />
cat<strong>al</strong>ogo di vizi che si ispira <strong>al</strong> Dec<strong>al</strong>ogo, sembra essere dietro a Sap 14,25; Es 34,6, la grande<br />
rivelazione della misericordia divina, traspare in Sap 15,1; S<strong>al</strong> 115,5-7 è <strong>al</strong>la base di Sap<br />
15,15 22 .<br />
Questi sono i dati princip<strong>al</strong>i. Aggiungiamo che il nostro autore segue abbastanza spesso,<br />
quando fa riferimento <strong>al</strong> testo biblico, la versione greca <strong>dei</strong> LXX, ma non si può escludere un<br />
ricorso, diretto o indiretto, <strong>al</strong> testo ebr<strong>ai</strong>co. Comunque sia, tenendo conto <strong>dei</strong> riferimenti praticamente<br />
obbligati a certi libri in Sap 7–9; 10; 16–19, il nostro autore utilizza quasi tutti i libri<br />
biblici anteriori, ma sfrutta le sue fonti con molta libertà.<br />
1.5. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E LA LETTERATURA GIUDAICA<br />
Fermiamo ora la nostra attenzione su <strong>al</strong>cuni scritti del giud<strong>ai</strong>smo anteriori <strong>al</strong> libro della Sapienza<br />
che hanno presumibilmente esercitato un’influenza sul suo autore.<br />
1.5.1. <strong>Libro</strong> di Enoch 23<br />
L’escatologia di Sap 1–6 attira l’attenzione sul libro di Enoch. Scritto in aram<strong>ai</strong>co – <strong>al</strong>cuni<br />
frammenti sono stati trovati a Qumran –, il libro è conosciuto soprattutto nella sua versione<br />
etiopica, fatta sulla versione greca; di questa sono stati conservati parecchi frammenti, speci<strong>al</strong>mente<br />
per la maggior parte <strong>dei</strong> capitoli che interessano l’escatologia.<br />
Enoch 1–5 è un discorso di Enoch che fa da introduzione <strong>al</strong>la raccolta. Vi si annuncia il<br />
giudizio: in esso gli empi riceveranno la punizione delle loro colpe e i giusti la luce, la gioia,<br />
la pace e la saggezza. L’autore di Sap ha forse conosciuto questa introduzione nella sua versione<br />
greca. «Ma egli avrebbe <strong>al</strong>lora legato in un sistema molto più solido delle nozioni escatologiche<br />
abbastanza imprecise trasponendole su un <strong>al</strong>tro piano» 24 , trascendente, sopratempor<strong>al</strong>e.<br />
Enoch 91–105, il «<strong>Libro</strong> dell’Esortazione e della M<strong>al</strong>edizione», scritto di andatura sapienzi<strong>al</strong>e,<br />
rivela il «mistero» delle ricompense trascendenti che saranno accordate <strong>al</strong>le anime <strong>dei</strong><br />
giusti. Con C. Larcher 25 , si può aggiungere Enoch 108, ultimo capitolo dell’appendice; esso<br />
ritorna sul castigo <strong>dei</strong> peccatori e la ricompensa <strong>dei</strong> giusti. È ancora Enoch che parla. Egli afferma<br />
chiaramente la sopravvivenza dell’anima, ma m<strong>ai</strong> la risurrezione <strong>dei</strong> corpi. A causa<br />
dell’ingiustizia e dell’empietà crescenti, il giudizio è vicino: gli empi scenderanno nello šeol e<br />
vi resteranno per la loro punizione, mentre i giusti, purificati d<strong>al</strong>le prove, si leveranno d<strong>al</strong> loro<br />
sonno nello šeol per prendere parte <strong>al</strong>la felicità degli angeli e brillare come i luminari del cielo.<br />
È possibile che l’autore di Sap, la cui escatologia e antropologia si accostano a quelle di<br />
Enoch 91–105.108, abbia conosciuto questo scritto; non è però certo che ne abbia conosciuto<br />
la versione greca.<br />
21 Le s<strong>al</strong>ut corporel, 501-508.<br />
22 Per Sap 13–15, cfr. GILBERT, Critique des dieux.<br />
23 Cfr. P. GRELOT, L’eschatologie de la Sagesse et les apoc<strong>al</strong>ypses juives, in Mémori<strong>al</strong> A. Gelin, Le Puy<br />
1961, 165-178 (= LeDiv 67, Paris 1971, 187-199); LARCHER, Études, 103-112 e 302-305.<br />
24 LARCHER, Études, 106.<br />
25 LARCHER, Études, 110-111.
Sapienza 125<br />
1.5.2. Gli scritti di Qumran 26<br />
Anche qui è il tema dell’escatologia di Sap 1–6 che viene confrontato con quella di Qumran.<br />
Ma quest’ultima è m<strong>al</strong> conosciuta e le opinioni degli speci<strong>al</strong>isti non sono concordi. La comunità<br />
di Qumran prevede sia la sopravvivenza <strong>dei</strong> giusti che degli empi: i primi godranno<br />
nella comunità degli angeli, mentre i secondi saranno gettati negli inferi prima di scomparire;<br />
ad ogni modo Dio procederà a un giudizio escatologico. Il punto controverso riguarda la risurrezione<br />
<strong>dei</strong> corpi, contestata da <strong>al</strong>cuni autori, mentre <strong>al</strong>tri ve ne vedrebbero degli indizi nei<br />
testi. A parte questo punto, si avvicinano a Sap la distinzione netta tra due partiti, giusti ed<br />
empi, il giudizio di Dio sugli uni e gli <strong>al</strong>tri, l’associazione <strong>dei</strong> giusti con gli angeli (cfr. Sap<br />
5,5) nella presenza senza fine di Dio, e la distruzione degli empi.<br />
Ma la dottrina qumranica <strong>dei</strong> due spiriti divide il mondo tra buoni e cattivi, radic<strong>al</strong>mente<br />
distinti e sottomessi a un vero determinismo; non è pensabile <strong>al</strong>lora nessuna conversione. Invece,<br />
per Sap, il Creatore non vuole la morte (Sap 1,14; 2,23), ma la conversione <strong>dei</strong> peccatori<br />
(Sap 11,23; 12,2.20) e sta <strong>al</strong>l’uomo scegliere la vita o la morte (Sap 1,16; 2,21). D’<strong>al</strong>tra parte<br />
la morte fisica preoccupa l’autore di Sap, che la supera con la sua riflessione sulla vita e la<br />
morte spiritu<strong>al</strong>i; a Qumran, invece, la morte fisica non riceve <strong>al</strong>cun rilievo. Infine, <strong>al</strong> contrario<br />
di Sap, Qumran non accorda <strong>al</strong>cuna personificazione <strong>al</strong>la Sapienza e <strong>al</strong>lo Spirito, soprattutto<br />
per un’azione di dimensione cosmica (cfr. Sap 7,24; 8,1; 12,1).<br />
Pertanto, nonostante le differenze che abbiamo segn<strong>al</strong>ato, è possibile che l’autore di Sap<br />
abbia conosciuto, se non i testi stessi di Qumran, <strong>al</strong>meno un ambiente simile, proveniente<br />
quindi d<strong>al</strong> giud<strong>ai</strong>smo p<strong>al</strong>estinese.<br />
1.6. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E LA CULTURA GRECA 27<br />
Scrivendo direttamente in greco, l’autore di Sap doveva essere natur<strong>al</strong>mente molto aperto<br />
<strong>al</strong>la cultura greca. Il suo vocabolario presenta già delle caratteristiche. Su 1734 parole differenti<br />
usate nel libro, 315, secondo C. Larcher 28 che esclude 3-4Mac, non app<strong>ai</strong>ono nella LXX;<br />
e se si escludono le parole che si leggono solo in Sap e 2Mac, libro anch’esso fortemente segnato<br />
d<strong>al</strong>la cultura greca, la cifra delle parole non presenti nel resto della LXX è ancora più<br />
elevato. È possibile che il nostro autore abbia creato <strong>dei</strong> neologismi 29 . T<strong>al</strong>volta delle parole<br />
greche prendono sotto la sua penna un significato inusitato, <strong>al</strong>meno per quanto ne sappiamo<br />
noi, e non sembra che egli usi il greco spigliatamente.<br />
L’impatto con la cultura greca si può percepire più chiaramente nella scelta del genere letterario<br />
dell’opera. Abbiamo mostrato sopra che Sap corrisponde <strong>al</strong>le leggi dell’encomium o<br />
elogio, così come furono descritte d<strong>ai</strong> maestri della retorica antica.<br />
Seguendo l’ordine <strong>dei</strong> capitoli di Sap è possibile rilevare <strong>al</strong>cune precise influenze di questa<br />
cultura ellenistica:<br />
– in Sap 2,1-3, nella prima parte del discorso degli empi si notano delle tracce della dottrina<br />
degli epicurei; ma questi non sono gli unici <strong>ai</strong> qu<strong>al</strong>i si pensa, e in ogni caso non sarebbero<br />
diventati <strong>dei</strong> persecutori 30 ;<br />
– in 7,17-20, l’autore traspone secondo i gusti del suo tempo i dati tradizion<strong>al</strong>i sul sapere<br />
enciclopedico di S<strong>al</strong>omone (speci<strong>al</strong>mente 1Re 5,13);<br />
– in 7,22-23, la descrizione dello spirito della Sapienza con ventuno attributi ricorda la definizione<br />
del bene dello storico Cleante 31 ;<br />
26<br />
Cfr. A.-M. DUBARLE, Une source du livre de la Sagesse, in RSPhTh 37 (1953) 425-443; M. DELCOR,<br />
L’immort<strong>al</strong>ité de l’ame dans le livre de la Sagesse et dans les documents de Qumran, in NRTh 77 (1955) 614-<br />
630; LARCHER, Études, 112-119.<br />
27<br />
Cfr. LARCHER, Études, 179-262 e 349-361; REESE, Hellenistic Influence; GILBERT, DBS 11, 98-100.<br />
28<br />
LARCHER, Études, 181.<br />
29<br />
LARCHER, Études, 182, n. 1; D. WINSTON, The Wisdom of S<strong>al</strong>omon (AncB 43), Garden City 1979, 15, n 5.<br />
30 Cfr. LARCHER, Études, 215-216.
126 Sapienza<br />
– in 7,24; 8,1, insistendo sull’idea che la Sapienza penetra tutto l’universo, l’autore le attribuisce<br />
una qu<strong>al</strong>ità essenzi<strong>al</strong>e dello pneuma cosmico degli stoici (cfr. anche Sap 1,17) 32 ;<br />
– in 8,7, le quattro virtù che saranno poi chiamate «cardin<strong>al</strong>i» sono enumerate secondo la<br />
formula tipicamente stoica;<br />
– in 9,15 si riconosce una tesi di Platone: il corpo ostacola le aspirazioni dell’anima (cfr.<br />
Fedone, 79C ss);<br />
– in 11,20, la triade «numero, pesi, misura» è un bene comune della cultura greca 33 ; ma Filone<br />
l’utilizzerà, come il nostro autore, a proposito del Dio creatore;<br />
– in 12,4-6, nella sua descrizione <strong>dei</strong> cananei, l’autore ricorre, <strong>al</strong> di là della testimonianza<br />
della Scrittura, <strong>al</strong>la leggenda greca degli Atridi 34 ; ciò facendo egli ha di mira sia i greci che i<br />
cananei;<br />
– 12,19, il tema della «filantropia», nel senso di humanitas, ha conosciuto un ampio sviluppo<br />
nella letteratura greca e fu univers<strong>al</strong>izzato dagli stoici. Ma la Lettera di Aristea ne aveva<br />
già fatto, nel giud<strong>ai</strong>smo, una virtù reg<strong>al</strong>e 35 ;<br />
– in 13,1-9, l’an<strong>al</strong>isi del culto degli elementi della natura si spiega soprattutto con la teodicea<br />
del giovane Aristotele, ripresa dagli stoici 36 ;<br />
– in 14,15, lo sviluppo dell’idolatria a partire d<strong>al</strong> culto di un defunto riprende verosimilmente<br />
una delle forme del mito di Dioniso secondo una fonte che si ispirava <strong>al</strong>l’evemerismo.<br />
Il culto <strong>dei</strong> sovrani, stigmatizzato in 14,16-20, ha anch’esso delle tendenze dionisiache, mentre<br />
in 14,23-26 l’autore sembra fare <strong>al</strong>lusione <strong>ai</strong> baccan<strong>al</strong>i. Invece 14,22 parla forse dell’inganno<br />
della pax romana 37 ;<br />
– in 15,12, le concezioni pagane della vita che sono evocate dipendono d<strong>al</strong> mondo grecoromano;<br />
– in Sap 17, nell’an<strong>al</strong>isi psicologica della piaga delle tenebre si può riconoscere il gusto <strong>dei</strong><br />
greci. In ogni caso, la descrizione della natura in movimento, in 17,17-18, è più greca che biblica;<br />
– in 19,18, il confronto music<strong>al</strong>e è anch’esso molto greco;<br />
– in 19,21, infine, considerare la manna come ambrosia significa applicare ad essa l’idea<br />
omerica di incorruttibilità e immort<strong>al</strong>ità (Iliade 19,38; Odissea 5,93).<br />
A questi temi vanno aggiunte la dottrina dell’autore sull’immort<strong>al</strong>ità. In ogni caso questi rilievi<br />
denotano una grande quantità di correnti greche ed ellenistiche. Non si può perciò dire<br />
che il nostro autore dipenda, per esempio, da una filosofia particolare. Appare piuttosto come<br />
un eclettico, prendendo ciò che si adatta <strong>al</strong> suo scopo là dove lo trova e integrandolo nella sua<br />
sintesi; ma, in compenso, non si può negare una re<strong>al</strong>e influenza del mondo ellenistico.<br />
31<br />
Cfr. È. DES PLACES, Épithètes et attributs de la "Sagesse" (Sg 7,22-23) et SVF I 557 Arnim, in Bib 57<br />
(1976) 414-419.<br />
32<br />
Cfr. G. VERBEKE, L’Évolution de la doctrine du Pneuma du stoicisme à St Augustin, Paris-Louv<strong>ai</strong>n 1945,<br />
223-236.<br />
33<br />
Cfr. E. GENZMER, Pondere, numero, mensura, in Archives d’histoire du droit orient<strong>al</strong> – Revue internation<strong>al</strong>e<br />
des droits de l’Antiquité 1 (1952) 469-494.<br />
34<br />
Cfr. D. GILL, The Greek Sources of Wisdom XII 3-7, in VT 15 (1965) 383-386.<br />
35<br />
C. SPICQ, La Philanthropie hellénistique, vertu divine et roy<strong>al</strong>e, in StTh 12 (1958) 169-191; R. LE DÉAUT,<br />
Philanthropia dans la littérature grecque jusqu’au Nouveau Testament, in Mélanges E. Tisserant, 1 (Studi e Testi<br />
168), Rome 1964, 255-294.<br />
36<br />
Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 1-52; A.-M. DUBARLE, La Manifestation naturelle de Dieu d’après<br />
l’Écriture (LeDiv 91), Paris 1976, 127-154.<br />
37<br />
Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 146-149.
2. IL MESSAGGIO<br />
Sapienza 127<br />
2.1. MORTE, IMMORTALITÀ ED ESCATOLOGIA<br />
L’autore affronta queste tematiche soprattutto in Sap 1–6 38 , ma il suo pensiero è ricco di<br />
sfumature e perciò difficile da esplicitare; dovrà essere completato <strong>al</strong>la luce del resto del libro.<br />
La morte, secondo lui, ha due livelli. C’è, natur<strong>al</strong>mente, la morte fisica. Gli empi danno ad<br />
essa un t<strong>al</strong>e rilievo distruttore dell’uomo che, <strong>ai</strong> loro occhi, <strong>al</strong> di là di essa non c’è nulla (2,1-<br />
5). D<strong>al</strong>la loro tesi sulla morte fisica essi deducono la v<strong>al</strong>idità di un comportamento sulla terra<br />
tot<strong>al</strong>mente immor<strong>al</strong>e (2,6-20): ciò che essi rivendicano come vita quaggiù è in re<strong>al</strong>tà una morte<br />
spiritu<strong>al</strong>e, dove non c’è evidentemente <strong>al</strong>cun posto per Dio.<br />
Ora, rileggendo Gen 1–3, il nostro autore è convinto che Dio, nel suo progetto inizi<strong>al</strong>e, abbia<br />
destinato l’essere umano <strong>al</strong>l’immort<strong>al</strong>ità (a)Janasi/a; 1,13-16), <strong>al</strong>l’incorruttibilità (a)fJarsi/a;<br />
2,23-24). Ciò suppone che l’essere umano rimanga in amicizia con il suo Creatore. Ma il<br />
diavolo, identificato per la prima volta con il serpente di Gen 3, introdusse la morte nel mondo<br />
(2,24). Questa ha nuovamente due livelli: disobbedendo, l’essere umano si separa da Dio –<br />
è la morte spiritu<strong>al</strong>e – e la morte fisica diventa di conseguenza il suo destino.<br />
Questa morte fisica, che ora colpisce tutti, non è però l’ultima parola. Infatti, se il progetto<br />
inizi<strong>al</strong>e del Creatore è stato svilito, non è stato tot<strong>al</strong>mente abbandonato. I giusti, coloro che restano<br />
fedeli <strong>al</strong> Signore, passano come tutti attraverso la morte fisica, ma per essi questa morte<br />
è solo un passaggio verso la vera vita di amicizia con Dio (3,9; 4,14-15; 5,5). Per il giusto, la<br />
morte fisica non domina la vita spiritu<strong>al</strong>e: questa non sarà annientata, ma riceverà, <strong>al</strong> di là della<br />
morte fisica, la sua pienezza. Il progetto del Creatore non è caduco.<br />
Praticando sulla terra la giustizia, l’essere umano si assicura l’immort<strong>al</strong>ità (1,15). L’autore<br />
di Sap, quando parla di incorruttibilità, pensa anche <strong>al</strong>la risurrezione <strong>dei</strong> corpi? Esplicitamente<br />
no 39 .<br />
Durante la vita terrena degli uomini Dio, onnipresente con la sua Sapienza e il suo Spirito,<br />
indaga con cura (1,6-10). Al momento della resa <strong>dei</strong> conti, <strong>al</strong> di là della morte fisica, i giusti<br />
saranno ammessi <strong>al</strong>la corte divina (5,5), mentre contro gli empi Dio si armerà delle forze cosmiche<br />
per annientare ogni potere terreno; affiora qui l’apoc<strong>al</strong>ittica. L’autore lega quindi<br />
l’escatologia a una cosmologia. Il mondo di quaggiù, regno degli empi, sparirà con essi; ma<br />
l’autore non si pronuncia sulla sorte fin<strong>al</strong>e degli empi. Rimarrà soltanto il regno <strong>dei</strong> giusti con<br />
Dio e i suoi angeli nell’<strong>al</strong>dilà.<br />
Ma, se il dominio terreno degli empi sarà distrutto da Dio armato delle forze del cosmo, bisogna<br />
pensare che i corpi <strong>dei</strong> giusti sfuggiranno <strong>al</strong>la distruzione tot<strong>al</strong>e? Non viene detto, ma<br />
sembra essere suggerito implicitamente.<br />
2.2. LA SAPIENZA E LO SPIRITO 40<br />
Per il nostro autore parlare della Sapienza significa collegarla <strong>al</strong>lo Spirito e quindi a Dio,<br />
ma anche <strong>al</strong> saggio, <strong>al</strong> mondo e <strong>al</strong>la storia. Più di ogni <strong>al</strong>tro testo biblico anteriore (cfr. Is 11,2;<br />
Sir 1,9-10), Sap 1,6; 7,22 e 9,17 41 accostano Sapienza e Spirito. Essendo abitata d<strong>al</strong>lo Spirito<br />
(7,22), la Sapienza gode delle sue stesse prerogative. Il problema princip<strong>al</strong>e del nostro autore<br />
potrebbe essere stato quello di ogni pensiero religioso: come conciliare la trascendenza e l’immanenza<br />
di Dio? Accostare Sapienza e Spirito poteva <strong>ai</strong>utare a risolvere il problema. Da Pr 8<br />
38<br />
Cfr. M.-J. LAGRANGE, Le Livre de la Sagesse, sa doctrine des fins dernièrs, in RB, n.s., 4 (1907) 85-104;<br />
R. SCHULZ, Les Idées eschatologiques du Livre de la Sagesse, Paris-Strasbourg 1935; J. P. WEISENGOFF, Death<br />
and Immort<strong>al</strong>ity in the Book of Wisdom, in CBQ 3 (1941) 104-133; R. TAYLOR, The Eschatologic<strong>al</strong> Meaning of<br />
Life and Death in the Book of Wisdom I–V, in EThL 42 (1966) 77-137; LARCHER, Études, 237-337.<br />
39<br />
Testi veterotestamentari sulla risurrezione <strong>dei</strong> corpi: Dan 12,2; 2Macc 7,11.14.23.29.36; 12.36-46; 14,46.<br />
40<br />
Cfr. LARCHER, Études, 362-414.<br />
41<br />
Cfr. M. GILBERT, Volonté de Dieu et don de la Sagesse (Sg 9,17s.), in NRTh 93 (1971) 145-166.
128 Sapienza<br />
e Sir 1,10 e 24,3-22, si sapeva che la Sapienza ha la sua origine in Dio. E l’autore di Sap 7 si<br />
sforza di situarla il più possibile nella sfera del divino (7,25-26; 8,3). Ma per parlare della sua<br />
immanenza, la dottrina stoica dello pneuma o soffio cosmico offriva una delucidazione <strong>al</strong>la<br />
qu<strong>al</strong>e si rifà il nostro autore, senza però cadere nel panteismo del Portico (cfr. 1,7 e 12,1). Con<br />
queste due correnti, biblica e stoica, si spiega l’accostamento tra la Sapienza e lo Spirito operato<br />
d<strong>al</strong> nostro autore.<br />
Di conseguenza la Sapienza esercita un’attività cosmica e storica. Nella creazione del<br />
mondo essa ha un ruolo attivo: ne è l’artefice (7,12.22a; 8,6; 9,1-2) e continua a penetrarlo tot<strong>al</strong>mente<br />
(7,22-24), a rinnovarlo (7,26), a reggerlo (8,1). Di conseguenza essa entra anche negli<br />
uomini se però questi non la rifiutano (1,4); offre se stessa e viene incontro a colui che la<br />
cerca (6,12-16); penetra nelle anime <strong>dei</strong> santi per farne degli amici di Dio e <strong>dei</strong> profeti (7,27).<br />
Essa opera in loro la correzione mor<strong>al</strong>e di cui hanno bisogno (9,18–10,1); li s<strong>al</strong>va da ogni pericolo<br />
(10,6.9-14), li conserva irreprensibili davanti a Dio (10,5); fu essa a guidare Mosè e il<br />
popolo ebr<strong>ai</strong>co nel deserto (10,15–11,1). Se il saggio domanda a Dio la Sapienza, gli sarà accordata,<br />
ed egli sarà <strong>al</strong>lora in grado di re<strong>al</strong>izzare la sua vocazione di uomo e la missione person<strong>al</strong>e<br />
che ha ricevuto da Dio (9); essa lo aprirà a tutte le scienze il cui oggetto è il mondo che<br />
essa anima (7,17-21; 8,8); gli accorderà i vantaggi della reg<strong>al</strong>ità (7,8-11; 8,10-15) e le virtù<br />
(8,7). Altro fatto, enigmatico: il saggio sarà il suo amante, il suo sposo (6,18; 8,2.9.16.18) 42 .<br />
Di conseguenza, l’immort<strong>al</strong>ità, l’incorruttibilità saranno assicurate a colui che la desidera,<br />
l’ama e gli è fedele (6,17-19).<br />
2.3. STORIA E COSMO 43<br />
La lunga rilettura in forma di preghiera degli episodi dell’esodo conferma le tesi princip<strong>al</strong>i<br />
del nostro autore. La particolare importanza dell’esodo sta nel fatto che quanto accadde in occasione<br />
dell’uscita d<strong>al</strong>l’Egitto e nel deserto costituisce l’evento fondatore d’Israele. Ora, questo<br />
evento fondatore continua a segnare tutta la sua storia, anzi tutta la storia, a esservi presente,<br />
ed è <strong>al</strong>la luce dell’esodo che Israele può rileggere la sua storia e la sua situazione presente.<br />
Al momento dell’esodo si trovarono a confronto due gruppi umani. L’uno per rifiutare il<br />
piano di Dio, disconoscerlo, o addirittura per travisarlo adorando gli elementi del mondo:<br />
questi sono gli empi (11,9). L’<strong>al</strong>tro per sottomettersi <strong>al</strong>la pedagogia divina (11,10), accogliere<br />
le lezioni che offrono gli eventi (16,6.12; ecc.) e pentirsi delle loro colpe (16,5-6, ecc.): questi<br />
sono i giusti (11,14; ecc.). Il vero combattente non è nessuno di questi due gruppi, ma il Signore<br />
(11,7-14; ecc.).<br />
Ora, il Signore prende le sue armi d<strong>al</strong> cosmo: <strong>al</strong>cuni elementi del cosmo diventano nella<br />
mano di Dio degli strumenti della sua lotta contro gli empi e in favore <strong>dei</strong> giusti. L’autore, riflettendo<br />
sui racconti biblici dell’esodo, individua in essi due principi complementari<br />
dell’azione divina: 1) lo stesso elemento del cosmo serve a castigare gli empi e a s<strong>al</strong>vare i giusti<br />
(11,5); 2) gli empi vengono puniti con lo stesso strumento delle loro colpe (11,15). Questo<br />
secondo principio stabilisce un rapporto di caus<strong>al</strong>ità tra la colpa e la punizione; il primo vede<br />
un’antitesi tra le piaghe d’Egitto e i benefici accordati a Israele nel deserto. Questi due principi<br />
funzionano nella mano di Dio: per esempio, per aver deciso di annegare i primogeniti di Israele<br />
gli egiziani non poterono più bere l’acqua del fiume, mentre gli ebrei si dissetarono <strong>al</strong>la<br />
roccia (11,5-14). Si può quindi vedere l’importanza dell’arma cosmica.<br />
In effetti, in questo combattimento di Dio l’autore vede la nuova creazione (16,24, <strong>al</strong> centro<br />
del dittico e sviluppato in conclusione: 19,10-12.18-21). Ora, questa creazione nuova cul-<br />
42<br />
Cfr. P. BEAUCHAMP, Épouser la Sagesse – ou n’épouser qu’elle? Une énigme du Livre de la Sagesse, in La<br />
Sagesse de l’AT, 347-369.<br />
43<br />
Cfr. H. EISING, Die theologische Geschichtbetrachtung im Weisheitbuche, in Vom Worl des Lebens. Festschrift<br />
M. Meinertz, Münster 1951, 28-40; P. BEAUCHAMP, Le s<strong>al</strong>ut corporel; J. P. M. SWEET, The Theory of Miracles<br />
in the Wisdom of S<strong>al</strong>omon, in C. F. D. MOULE (ed.), Miracles, London 1965, 115-126; J. J. COLLINS, Cosmos<br />
and S<strong>al</strong>vation: Jewish Wisdom and Apoc<strong>al</strong>yptic in the Hellenistic Age, in HThR 17 (1977-1978) 121-142.
Sapienza 129<br />
mina nel dono della manna agli ebrei, simbolo della Parola che nutre (16,25-26), <strong>al</strong>imento di<br />
immort<strong>al</strong>ità (19,21). La storia implica così una cosmologia e fonda nello stesso tempo una escatologia.<br />
Non sorprende <strong>al</strong>lora vedere l’autore affermare, <strong>al</strong> termine del suo esordio (5,17-<br />
23), che <strong>al</strong>la fine della storia umana Dio si servirà del cosmo per castigare gli empi e difendere<br />
i giusti; questi beneficeranno dell’immort<strong>al</strong>ità, il che implica probabilmente un elemento<br />
cosmico nella linea di ciò che noi chiamiamo risurrezione <strong>dei</strong> corpi. L’azione di Dio <strong>al</strong>le origini<br />
è infatti esemplare di ciò che egli fa continuamente e farà <strong>al</strong>la fine.<br />
3. L’AUTORE<br />
3.1. L’AUTORE 44<br />
Il libro della Sapienza è anonimo. L’attribuzione a S<strong>al</strong>mone, proposta d<strong>al</strong> titolo greco del<br />
libro, è natur<strong>al</strong>mente fittizia.<br />
Qu<strong>al</strong> è <strong>al</strong>lora il suo autore re<strong>al</strong>e? Alcuni studiosi hanno cercato di dargli un nome. Si è pensato<br />
<strong>al</strong> nipote di Ben Sira che, secondo il prologo del Siracide, avrebbe tradotto in greco<br />
l’opera del nonno; ma Sap non può essere stato scritto nel II secolo prima della nostra era,<br />
come vedremo. Fin d<strong>al</strong>l’antichità cristiana <strong>al</strong>cuni, come per esempio Girolamo, hanno pensato<br />
a Filone d’Alessandria; ma, anche se non mancano le corrispondenze tra Sap e le opere del filosofo<br />
<strong>al</strong>essandrino, quest’ultimo si interessa quasi esclusivamente <strong>al</strong> Pentateuco, mentre<br />
l’autore di Sap si ispira chiaramente anche <strong>ai</strong> profeti e agli «Scritti» dell’Antico Testamento;<br />
inoltre, Filone suppone un’esegesi <strong>al</strong>legorica che non si incontra nel libro della Sapienza; infine,<br />
Filone attribuisce una grande importanza <strong>al</strong>la teoria platonica delle Idee, che invece è ignorata<br />
completamente da Sap 45 .<br />
Appare molto probabile che l’autore di Sap, rimasto sconosciuto, sia un ebreo di Alessandria.<br />
Ebreo, certamente, dato che nella sua opera non traspare niente di cristiano (Sap 2,10-20<br />
non è un’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la passione di Gesù, <strong>al</strong>meno nelle intenzioni dell’autore). Alessandrino, è<br />
verosimile, perché così si spiegherebbe la sua cultura ellenistica: la comunità giud<strong>ai</strong>ca di Alessandria<br />
era aperta <strong>al</strong>l’ellenismo, come dimostra l’opera di Filone. Inoltre, Sap accorda un<br />
posto del tutto particolare agli egiziani: la scelta stessa del suo soggetto in Sap 11–19 potrebbe<br />
rivelare la sua origine geografica.<br />
3.2. DATAZIONE 46<br />
Se fino a poco tempo fa molti critici optavano per gli anni 100-50 a.C., attu<strong>al</strong>mente c’è la<br />
tendenza a situare la composizione di Sap o dopo il 50 a.C. o <strong>al</strong> più presto a partire d<strong>al</strong> 30, anno<br />
che segna l’inizio del trionfo di Augusto.<br />
In effetti, anche se il libro forma un’unità organica in cui non si può vedere <strong>al</strong>cuna interpretazione<br />
cristiana, il fatto che vi si incontrino delle parole come Jrhskei/a (thrêskéia) e se/basma<br />
(sébasma), nel senso di venerazione cultu<strong>al</strong>e e di oggetto di questa venerazione, è un principio<br />
sufficiente per datare il libro nel periodo augusteo dato che questi due termini conobbero la<br />
loro fortuna proprio sotto il regno di Augusto; l’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la pax romana in 14,22 può essere<br />
una conferma 47 .<br />
44 Cfr. LARCHER, Le Livre de la Sagesse I, 125-139.<br />
45 Cfr. LARCHER, Études, 151-178.<br />
46 Cfr. LARCHER, Le livre de la Sagesse, 141-161; GILBERT, DBS 11, 91-93.<br />
47 Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 126-173.
130 Sapienza<br />
3.3. SCOPO E AMBIENTE<br />
Anche per determinare l’intenzione dell’autore disponiamo solo degli indizi forniti d<strong>al</strong>la<br />
sua opera. Secondo Reese 48 , «il Saggio scrive con uno scopo ben preciso: permettere <strong>ai</strong> futuri<br />
leader intellettu<strong>al</strong>i del suo popolo di sviluppare un atteggiamento positivo di fronte <strong>al</strong>la loro<br />
presente situazione». Cosa significa?<br />
Il genere letterario scelto d<strong>al</strong>l’autore lascia intendere che la sua opera voglia rivolgersi a un<br />
pubblico accademico. Come tutti i saggi dell’Antico Testamento, è possibile che egli abbia<br />
avuto il compito di preparare la gioventù migliore della sua comunità ad assumere un giorno<br />
le responsabilità in seno a questa comunità.<br />
D’<strong>al</strong>tra parte, da profondo credente, egli intende riformulare per il suo tempo e in piena fedeltà<br />
l’essenzi<strong>al</strong>e del messaggio ricevuto dagli antenati. Il suo ricorso a tante parti della Bibbia<br />
dimostra pure che egli intendesse offrire una specie di sintesi. Ciò risponde del resto ad <strong>al</strong>cune<br />
particolari preoccupazioni. La comunità è divisa (Sap 2). Alcuni sono a t<strong>al</strong> punto sedotti<br />
d<strong>al</strong>la cultura greca da rifiutare il patrimonio ancestr<strong>al</strong>e; questi arrivano fino <strong>al</strong> punto di suscitare<br />
tumulti nella comunità. L’autore certamente non approva il loro atteggiamento e annuncia<br />
loro lo smacco fin<strong>al</strong>e. Egli non si chiude però <strong>al</strong>l’ellenismo, <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e sa attingere con discernimento<br />
senza m<strong>ai</strong> diventarne schiavo, non mancando di criticarlo quando lo ritiene opportuno.<br />
Questa apertura la insegna implicitamente col suo esempio <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro gruppo di coloro che<br />
vogliono restare fedeli <strong>al</strong>la loro fede. Egli mostra loro anche il cammino della speranza nelle<br />
difficoltà e nelle sofferenze attu<strong>al</strong>i. Il Signore non abbandona i suoi: restando fedeli a Lui, essi<br />
conosceranno la vita e la pace; la Sapienza non è forse una guida, come a suo tempo guidò gli<br />
antenati? E l’evento fondatore d’Israele, l’esodo, non è un puro avvenimento del passato: rimane<br />
come esempio per il presente perché ciò che il Signore ha fatto lo rinnova sempre e dovunque<br />
in favore <strong>dei</strong> suoi fedeli (Sap 19,22).<br />
BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />
Una bibliografia completa di M. GILBERT, in C. LARCHER, Le Livre de la Sagesse, 11-48.<br />
Commenti<br />
LARCHER, C., Le livre de la Sagesse ou la Sagesse de S<strong>al</strong>omon (EtB n.s.), Paris 1983-1985.<br />
È il commento <strong>al</strong> libro della Sapienza più ampio, più maturo e meglio concepito. L’opera consta di<br />
tre volumi. Il primo è dedicato <strong>al</strong>la bibliografia (molto ricca, pp. 11-48), a opera di M. Gilbert;<br />
<strong>al</strong>l’introduzione gener<strong>al</strong>e (pp. 53-161): testo e versioni, an<strong>al</strong>isi letteraria, autore e data di composizione;<br />
<strong>al</strong> commento di 1,1–3,19 (pp. 163-311). Nel secondo volume (continua la numerazione di pagina<br />
del primo: pp. 312-648) l’autore commenta i capp. 4–10; nel terzo (pp. 649-1094) vengono commentati<br />
i capp. 11–19.<br />
SCARPAT, G., <strong>Libro</strong> della Sapienza, 3 voll., Brescia 1989-1999.<br />
È un commento ambizioso. L’introduzione, eccessivamente breve (vol. I, pp. 13-29) è dedicata a<br />
una disamina erudita del problema della data di composizione della Sapienza. Il commentario studia il<br />
libro della Sapienza secondo due prospettive: il testo <strong>dei</strong> LXX e il testo e il commento della Vetus Latina.<br />
Si tratta di un’opera di grande erudizione, in cui l’autore mostra le sue vaste conoscenze<br />
nell’ambito delle lingue e letterature greca e latina. T<strong>al</strong>volta la preoccupazione di citare par<strong>al</strong>leli dottrin<strong>al</strong>i<br />
da questi due ambiti letterari toglie qu<strong>al</strong>che profondità <strong>al</strong> commento biblico propriamente detto.<br />
VÍLCHEZ LÍNDEZ, J., Sapienza, Roma 1990.<br />
È il miglior commento scritto in lingua spagnola (e tradotto in it<strong>al</strong>iano) e, senza dubbio, uno <strong>dei</strong> più<br />
qu<strong>al</strong>ificati nel panorama internazion<strong>al</strong>e. Il libro si apre con un’introduzione di 125 pagine, completata<br />
da una bibliografia scelta ma sufficiente (pp. 126-140). Nell’introduzione viene affrontata la problematica<br />
propria dell’opera, con discussioni ampie e, in certi casi, erudite. Il commento, ampio (pp. 141-<br />
48 Hellenistic Influence, 148.
Sapienza 131<br />
543), evidenzia la maestria dell’autore e l’equilibrio <strong>dei</strong> suoi criteri. Tre utilissime appendici chiudono<br />
l’opera: 1. I giu<strong>dei</strong> in Egitto. 2. Lo statuto <strong>dei</strong> giu<strong>dei</strong> ad Alessandria. 3. La letteratura giudeoellenistica<br />
<strong>al</strong>essandrina.<br />
WINSTON, D., The Wisdom of S<strong>al</strong>omon (AB 43), Garden City, N.Y. 1979.<br />
Questo commento segue la linea caratteristica della «Anchor Bible»: ampia introduzione; testo e<br />
commento, quest’ultimo ridotto in sostanza <strong>ai</strong> problemi testu<strong>al</strong>i. Nell’introduzione (pp. 3-69) si segn<strong>al</strong>a<br />
la sezione relativa <strong>al</strong>le idee religiose p<strong>al</strong>esi o soggiacenti <strong>al</strong> libro della Sapienza. Questo libro, pur<br />
raccomandabile, abusa del ricorso <strong>al</strong>la metodologia storico-religiosa.<br />
Altre opere<br />
GILBERT, M., La critique des dieux dans le livre de la Sagesse (AnBib 53), Roma 1973.<br />
Pregevole tesi di dottorato in scienze bibliche. Benché la tematica riduca il campo d’osservazione<br />
<strong>ai</strong> soli capp. 13–15, il lettore può ricavarne una visione glob<strong>al</strong>e dell’intero libro della Sapienza.<br />
LARCHER, C., Études sur le livre de la Sagesse (EtB), Paris 1969.<br />
L’opera è servita <strong>al</strong>l’autore per maturare il proprio pensiero sulla Sapienza in vista della pubblicazione<br />
del suo ottimo commento in tre volumi. Consta di cinque capitoli: 1. Il libro della Sapienza nella<br />
chiesa di Cristo (Nuovo Testamento, Padri della Chiesa, <strong>al</strong>tre chiese cristiane: pp. 11-84). 2. Il libro<br />
della Sapienza e la letteratura biblica e giud<strong>ai</strong>ca (Antico Testamento, Enoc, Qumran, giud<strong>ai</strong>smo ellenizzato,<br />
Filone: pp. 85-178). 3. L’influenza dell’ellenismo (pp. 179-236). 4. L’immort<strong>al</strong>ità dell’anima e<br />
le retribuzioni trascendenti (pp. 237-327). 5. La sapienza e lo Spirito (pp. 329-414). Molto utile<br />
l’indice an<strong>al</strong>itico (pp. 427-433). Opera da cui non si può prescindere.<br />
MACK, B.L., Logos und Sophia. Untersuchungen zur Weisheitstheologie im hellenistischen Judentum<br />
(SUNT 10), Göttingen 1973.<br />
Sebbene l’esame del libro della Sapienza occupi solo un terzo del volume (pp. 63-107), il quadro<br />
nel qu<strong>al</strong>e questa è inserita consente di apprezzare il contenuto e la portata del concetto di sapienza nel<br />
suo sviluppo d<strong>al</strong>la letteratura biblica vera e propria sino a Filone, grazie <strong>al</strong>l’abilità magistr<strong>al</strong>e con cui<br />
l’autore passa in rassegna la figura della sapienza nei Proverbi, Giobbe, Ecclesiastico, Sapienza e<br />
nell’opera dell’illustre giudeo <strong>al</strong>essandrino.<br />
OFFERHAUS, U., Komposition und Intention der Sapientia S<strong>al</strong>omonis, Bonn 1981.<br />
Eccellente an<strong>al</strong>isi storico-letteraria del libro della Sapienza elaborata a partire d<strong>al</strong>le sue tre sezioni<br />
1,1–6,8; 6,9–9,18; 10,1–19,22. L’autore offre uno studio magistr<strong>al</strong>e di par<strong>al</strong>lelismi, inclusioni e corrispondenze<br />
interne <strong>dei</strong> diversi sviluppi tematici. L’opera si conclude con più di cento pagine di note critiche<br />
e un’ampia bibliografia.<br />
REESE, J.M., Hellenistic Influence on the Book of Wisdom and Its Consequences, Roma 1970.<br />
L’opera è composta di cinque parti: 1. Portata dell’influenza ellenistica nel libro della Sapienza<br />
(studio lessic<strong>al</strong>e e stilistico). 2. Profondità dell’influenza ellenistica (sviluppo di tre temi: rapporto<br />
dell’uomo con Dio; natura dell’immort<strong>al</strong>ità dell’uomo; antropologia della sapienza). 3. Il genere letterario<br />
del libro della Sapienza. 4. Unità e destinatari. 5. Riassunto e conclusioni.<br />
Inoltre, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />
CONTI, M., Sapienza (NVB 22), Roma 1975.<br />
VIRGULIN, S., Sapienza, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la<br />
Bibbia 3), Bologna 1978, 473-500.<br />
BIZZETI, P., Il libro della Sapienza. Struttura e genere letterario (Supplementi <strong>al</strong>la Rivista Biblica 11),<br />
Brescia 1984.<br />
GILBERT, M., Sagesse de S<strong>al</strong>omon (ou Livre de la Sagesse), in DBS 11 (1986) 58-119.<br />
PRIOTTO, M., La prima pasqua in Sap 18,5-25, Bologna 1987.<br />
RAVASI, G., Sapienza (<strong>Libro</strong> della), in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988,<br />
1442-1447.<br />
BONORA, A., Proverbi-Sapienza: sapere e felicità (LoB 1.14), Brescia 1990<br />
SISTI, A., Il libro della Sapienza, Assisi 1992.
132 Sapienza<br />
MAZZINGHI, L., Notte di paura e di luce. Esegesi di Sap 17,1–18,4 (An<strong>al</strong>ecta Biblica 134), Roma<br />
1995.<br />
GILBERT, M., La Sapienza di S<strong>al</strong>omone, 2 voll., Roma 1995.<br />
DE CARLO, G., «Ami, infatti, gli esistenti, tutti». Studio di Sap 11,24, in Laur 36 (1995) 391-434.<br />
WRIGHT, A.G., La Sapienza, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 665-681.<br />
MORLA ASENSIO, V., Il libro della Sapienza, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo<br />
studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 209-230.<br />
BONORA, A., <strong>Libro</strong> della Sapienza, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti<br />
(Logos 4), Torino-Leumann 1997, 99-114.<br />
FABBRI, M. V., Creazione e s<strong>al</strong>vezza nel libro della Sapienza. Esegesi di Sapienza 1,13-15 (Studi di<br />
teologia 6), Roma 1998.<br />
DE CARLO, G., L’amore provvidente e univers<strong>al</strong>e di Dio in Sap 11,24–12,1, in G. BORTONE (a cura di),<br />
La Provvidenza nella Bibbia (Studio Biblico Teologico Aquilano 21), L’Aquila 2001, 103-142.<br />
BELLIA, G. - PASSARO, A (edd.), Il <strong>Libro</strong> della Sapienza. Tradizione, redazione, teologia (Studia Biblica<br />
1), Roma 2004.<br />
Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 5/2003: «Il libro della Sapienza».
INDICE<br />
Prima parte<br />
LIBRI SAPIENZIALI<br />
<strong>Introduzione</strong> gener<strong>al</strong>e – <strong>Introduzione</strong> a ciascun libro sapienzi<strong>al</strong>e<br />
INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE SAPIENZALE BIBLICA ___________________ 4<br />
<strong>Introduzione</strong> ___________________________________________________________________ 4<br />
1. Terminologia _________________________________________________________________ 4<br />
2. Le forme di espressione ________________________________________________________ 5<br />
3. Sapienze del Vicino Oriente Antico non biblico _____________________________________ 5<br />
3.1. Le liste _________________________________________________________________________ 6<br />
3.2. Le antiche raccolte di sentenze _______________________________________________________ 6<br />
3.3. Altri testi ________________________________________________________________________ 6<br />
3.4. Cos’è la sapienza? _________________________________________________________________ 7<br />
3.5. La Bibbia e le sapienze pagane _______________________________________________________ 8<br />
4. La sapienza biblica ____________________________________________________________ 8<br />
4.1. I <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i _________________________________________________________________ 8<br />
4.2. Negli <strong>al</strong>tri libri biblici ______________________________________________________________ 8<br />
5. Origine della sapienza in Israele ________________________________________________ 10<br />
5.1. S<strong>al</strong>omone modello <strong>dei</strong> saggi ________________________________________________________ 10<br />
5.2. Scribi e scuole ___________________________________________________________________ 11<br />
5.3. Origine popolare della sapienza _____________________________________________________ 11<br />
6. Il fine della sapienza __________________________________________________________ 11<br />
7. L’atteggiamento <strong>dei</strong> saggi _____________________________________________________ 12<br />
7.1. Il consiglio _____________________________________________________________________ 12<br />
7.2. I limiti della sapienza _____________________________________________________________ 12<br />
7.3. La sapienza di Do ________________________________________________________________ 13<br />
7.4. Il problema della retribuzione _______________________________________________________ 13<br />
7.5. Una riflessione sulla storia della s<strong>al</strong>vezza ______________________________________________ 14<br />
8. La personificazione della sapienza nell’AT _______________________________________ 14<br />
8.1. I testi __________________________________________________________________________ 14<br />
8.2. Interpretazione __________________________________________________________________ 16<br />
9. Gesù e la sapienza nel NT _____________________________________________________ 17<br />
9.1. Nei Vangeli Sinottici ______________________________________________________________ 17<br />
9.2. In Paolo ________________________________________________________________________ 17<br />
9.3. In Giovanni _____________________________________________________________________ 18<br />
9.4. Interpretazione __________________________________________________________________ 18<br />
Bibliografia commentata ________________________________________________________ 19<br />
PROVERBI _______________________________________________________________ 22<br />
1. Presentazione d’insieme _______________________________________________________ 22<br />
1.1. Il contesto ______________________________________________________________________ 22<br />
1.2. La struttura del libro ______________________________________________________________ 22<br />
1.3. Il ruolo di S<strong>al</strong>omone ______________________________________________________________ 23<br />
1.4. D<strong>al</strong>l’elaborazione d’un proverbio <strong>al</strong>la raccolta __________________________________________ 24<br />
1.5. Gli argomenti affrontati ___________________________________________________________ 26
134 Indice<br />
2. Il prologo (Pr 1–9), l’epilogo (Pr 31,10-31) e la sapienza_____________________________ 34<br />
2.1. Le caratteristiche del prologo _______________________________________________________ 34<br />
2.2. Il discorso della Sapienza in Pr 8 ____________________________________________________ 35<br />
2.3. Il banchetto della Sapienza (Pr 9,1-6) ________________________________________________ 39<br />
2.4. L’epilogo: Il ritratto della donna forte (Pr 31,10-31) _____________________________________ 41<br />
Conclusione ___________________________________________________________________ 45<br />
Bibliografia commentata ________________________________________________________ 45<br />
GIOBBE _________________________________________________________________ 48<br />
1. Giobbe nella storia ___________________________________________________________ 48<br />
2. Il personaggio di Giobbe ______________________________________________________ 50<br />
3. Par<strong>al</strong>leli extra-biblici _________________________________________________________ 52<br />
3.1. Mesopotamia ____________________________________________________________________ 52<br />
3.2. Egitto _________________________________________________________________________ 53<br />
4. Genere letterario ____________________________________________________________ 54<br />
4.1. Un dramma _____________________________________________________________________ 54<br />
4.2. Un procedimento giudiziario _______________________________________________________ 54<br />
4.3. Una disputa sapienzi<strong>al</strong>e ___________________________________________________________ 54<br />
4.4. Una lamentazione s<strong>al</strong>mica _________________________________________________________ 55<br />
5. La struttura del libro _________________________________________________________ 55<br />
6. Le tappe della composizione ___________________________________________________ 56<br />
6.1. Il racconto popolare primitivo ______________________________________________________ 57<br />
6.2. L’opera poetica del V secolo ________________________________________________________ 57<br />
6.3. I discorsi di Eliu _________________________________________________________________ 57<br />
6.4. Il poema sulla Sapienza introvabile (Gb 28) ____________________________________________ 58<br />
7. Percorso di lettura del libro di Giobbe ___________________________________________ 58<br />
7.1. La posta in gioco _________________________________________________________________ 58<br />
7.1.1. I molteplici sensi ______________________________________________________________ 58<br />
7.1.2. Il filo conduttore del libro _______________________________________________________ 59<br />
7.2. Lo svolgimento del dramma ________________________________________________________ 59<br />
7.2.1. La condizione inizi<strong>al</strong>e: la felicità di Giobbe _________________________________________ 59<br />
7.2.2. La sfida: «scommetto che ti m<strong>al</strong>edirà in faccia» ______________________________________ 60<br />
7.2.3. I linguaggi degli attori del dramma _______________________________________________ 62<br />
7.2.4. Il verdetto: «ha parlato di me rettamente» __________________________________________ 79<br />
7.2.5. La condizione fin<strong>al</strong>e: la restaurazione doppia di Giobbe _______________________________ 80<br />
7.3. Conclusione ____________________________________________________________________ 80<br />
7.3.1. I generi di linguaggio religioso di Giobbe __________________________________________ 80<br />
7.3.2. Le tappe della crescita interiore di Giobbe __________________________________________ 80<br />
Bibliografia commentata ________________________________________________________ 83<br />
QOHELET _______________________________________________________________ 86<br />
1. Un enigma per i commentatori _________________________________________________ 86<br />
2. Interesse e attu<strong>al</strong>ità di Qohelet _________________________________________________ 86<br />
3. Data di composizione _________________________________________________________ 86<br />
4. Struttura letteraria ___________________________________________________________ 87<br />
5. Messaggio __________________________________________________________________ 87<br />
Bibliografia commentata ________________________________________________________ 89<br />
CANTICO DEI CANTICI ___________________________________________________ 92<br />
1. Aspetto letterario del Cantico __________________________________________________ 92<br />
1.1. Contenuto ______________________________________________________________________ 92<br />
1.2. Struttura _______________________________________________________________________ 92<br />
2. Data di composizione _________________________________________________________ 93
Indice 135<br />
3. Le grandi correnti di interpretazioni ____________________________________________ 93<br />
3.1. Letter<strong>al</strong>e _______________________________________________________________________ 93<br />
3.2. Allegorica ______________________________________________________________________ 94<br />
3.3. Antologica ______________________________________________________________________ 94<br />
3.4. Cultu<strong>al</strong>e ________________________________________________________________________ 95<br />
4. Una teologia dell’amore _______________________________________________________ 95<br />
4.1. Verso un’ermeneutica del «duplice significato» _________________________________________ 95<br />
4.2. Una teologia dell’amore umano _____________________________________________________ 96<br />
4.3. Una parabola dell’amore divino _____________________________________________________ 97<br />
Bibliografia commentata ________________________________________________________ 97<br />
SIRACIDE ______________________________________________________________ 100<br />
1. Presentazione d’insieme ______________________________________________________ 100<br />
1.1. Di qu<strong>al</strong>i testi disponiamo? ________________________________________________________ 100<br />
1.2. La trasmissione del libro __________________________________________________________ 102<br />
1.3. L’autorità del libro ______________________________________________________________ 102<br />
1.4. La person<strong>al</strong>ità di Ben Sira _________________________________________________________ 103<br />
1.5. Come è strutturato il libro di Ben Sira? ______________________________________________ 105<br />
2. Il messaggio ________________________________________________________________ 106<br />
2.1. Timor di Dio e sapienza __________________________________________________________ 106<br />
2.2. L’uomo (Sir 16,24–17,14) _________________________________________________________ 107<br />
2.3. Sapienza e Legge (Sir 24,1-34) _____________________________________________________ 107<br />
2.4. La preghiera ___________________________________________________________________ 108<br />
2.5. Teodicea ______________________________________________________________________ 109<br />
2.6. Le donne ______________________________________________________________________ 109<br />
2.7. Elogio <strong>dei</strong> padri (cc. 44–49) _______________________________________________________ 110<br />
2.8. Le prospettive future _____________________________________________________________ 110<br />
Bibliografia commentata _______________________________________________________ 110<br />
SAPIENZA ______________________________________________________________ 114<br />
1. Il libro ____________________________________________________________________ 114<br />
1.1. Contenuto e struttura letteraria del libro ______________________________________________ 114<br />
1.2. Genere letterario ________________________________________________________________ 119<br />
1.3. Unità del libro __________________________________________________________________ 121<br />
1.4. Il libro della Sapienza e l’Antico Testamento __________________________________________ 122<br />
1.5. Il libro della Sapienza e la letteratura giud<strong>ai</strong>ca _________________________________________ 124<br />
1.6. Il libro della Sapienza e la cultura greca ______________________________________________ 125<br />
2. Il messaggio ________________________________________________________________ 127<br />
2.1. Morte, immort<strong>al</strong>ità ed escatologia __________________________________________________ 127<br />
2.2. La Sapienza e lo Spirito __________________________________________________________ 127<br />
2.3. Storia e cosmo __________________________________________________________________ 128<br />
3. L’autore ___________________________________________________________________ 129<br />
3.1. L’autore _______________________________________________________________________ 129<br />
3.2. Datazione _____________________________________________________________________ 129<br />
3.3. Scopo e ambiente _______________________________________________________________ 130<br />
Bibliografia commentata _______________________________________________________ 130