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Forlì Introduzione ai Libri Sapienziali e al Libro dei Salmi

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ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE<br />

“S. Apollinare” – Forlì<br />

<strong>Introduzione</strong><br />

<strong>ai</strong> <strong>Libri</strong> <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong><br />

e <strong>al</strong> <strong>Libro</strong> <strong>dei</strong> S<strong>al</strong>mi<br />

a cura di<br />

GIUSEPPE DE CARLO<br />

ad uso degli studenti


Il materi<strong>al</strong>e contenuto in questo volume è ad uso esclusivo degli studenti che frequentano il<br />

Corso di Antico Testamento su <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e S<strong>al</strong>mi presso l’Istituto Superiore di Scienze<br />

Religiose “S. Apollinare” di Forlì. Non è materi<strong>al</strong>e origin<strong>al</strong>e, ma quasi tutto è preso integr<strong>al</strong>mente<br />

da <strong>al</strong>tri autori che hanno studiato a fondo la materia: a suo luogo vengono puntu<strong>al</strong>mente<br />

indicate le parti prese da ciascuno. Il lavoro redazion<strong>al</strong>e mira a dare a tutto il materi<strong>al</strong>e unità<br />

sistematica per una presentazione introduttiva tendenzi<strong>al</strong>mente completa <strong>al</strong>la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e<br />

e <strong>al</strong> S<strong>al</strong>terio.


Prima Parte<br />

LIBRI SAPIENZIALI<br />

INTRODUZIONE<br />

ALLA TRADIZIONE SAPIENZIALE BIBLICA<br />

INTRODUZIONE<br />

AI SINGOLI LIBRI SAPIENZIALI:<br />

– Proverbi<br />

– Giobbe<br />

– Qohelet<br />

– Cantico <strong>dei</strong> Cantici<br />

– Siracide<br />

– Sapienza


INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE SAPIENZALE BIBLICA*<br />

INTRODUZIONE<br />

La sapienza è un fenomeno che ritroviamo in tutti i popoli e in tutti i tempi. Eppure, fino a<br />

qu<strong>al</strong>che decennio fa, la sapienza biblica è stata poco presa in considerazione. I padri della<br />

chiesa ne hanno parlato poco, come pure i grandi teologi del Medioevo, mentre i grandi commentatori<br />

del XVI e XVII sec. se ne sono interessati maggiormente, seguiti, nel XIX sec., d<strong>ai</strong><br />

fondatori dell’esegesi storico-critica moderna, pur senza raggiungere la ripresa di interesse<br />

della nostra epoca. La ragione di questa scarsa considerazione per la corrente sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />

si spiega in parte con il fatto che la cultura occident<strong>al</strong>e, in cui il cristianesimo si è innanzitutto<br />

sviluppato, ha accordato un’attenzione maggiore <strong>al</strong>la filosofia e <strong>al</strong>le scienze, mentre la<br />

sapienza popolare, che anche in Occidente si esprime in proverbi e <strong>al</strong>tre forme, è rimasta <strong>al</strong>lo<br />

stadio di trasmissione puramente or<strong>al</strong>e, cosicché in Occidente i proverbi non hanno <strong>al</strong>tra funzione<br />

che di ornare lo stile. La situazione è cambiata con la scoperta, a partire d<strong>al</strong> XIX sec.,<br />

delle letterature sapienzi<strong>al</strong>i della Mesopotamia e soprattutto dell’Egitto, fino ad <strong>al</strong>lora sconosciute.<br />

La loro affinità con la sapienza biblica fu un’autentica rivelazione. Inoltre la scoperta,<br />

soprattutto nel XX sec., delle sapienze or<strong>al</strong>i africane, la cui messa per iscritto si rivela sempre<br />

più urgente, ha accresciuto ulteriormente l’interesse attu<strong>al</strong>e per la sapienza biblica, di cui esse<br />

potrebbero illuminare <strong>al</strong>cuni aspetti, in particolare l’origine, la funzione e il significato. Anche<br />

la figura della Sapienza personificata (sempre con la S m<strong>ai</strong>uscola), che la chiesa non ha m<strong>ai</strong><br />

dimenticato del tutto a motivo del suo legame con la cristologia, ha beneficiato, a partire da<br />

ricerche rinnovate d<strong>al</strong>le scoperte recenti, di spiegazioni sempre più precise, la cui portata teologica<br />

e spiritu<strong>al</strong>e non è certamente trascurabile 1 .<br />

1. TERMINOLOGIA<br />

I termini saggezza o sapienza, saggio o sapienzi<strong>al</strong>e, derivano, in un modo o in un <strong>al</strong>tro, d<strong>ai</strong><br />

vocaboli latini sapientia, sapiens che a loro volta si rifanno <strong>al</strong> verbo sapere: gustare, percepire,<br />

comprendere, assaporare.<br />

Nella Vulgata sapientia e sapiens rendono o traducono di solito i termini greci della versione<br />

<strong>dei</strong> Settanta e del NT sophía e sophós, la cui radice è di etimologia sconosciuta.<br />

Nei Settanta questi termini greci rendono gener<strong>al</strong>mente le parole ebr<strong>ai</strong>che derivanti d<strong>al</strong>la<br />

radice ˙km, presente nella maggior parte delle lingue semitiche: ˙okmah, sapienza, e ˙akam,<br />

saggio.<br />

Nella Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca, la radice ˙km viene usata 318 volte, <strong>al</strong>le qu<strong>al</strong>i bisogna aggiungere<br />

un’<strong>al</strong>tra cinquantina di casi nei frammenti ebr<strong>ai</strong>ci del Sir. Di fatto i vocaboli ˙akam e ˙okmah<br />

sono utilizzati soprattutto nei libri sapienzi<strong>al</strong>i: Gb, Pr, Qo, Sir. Nei Settanta, comprendendo il<br />

libro della Sapienza, avviene lo stesso per i vocaboli greci sophós e sophía.<br />

Nel NT sophía viene usato 50 volte e 20 sophós, con una concentrazione particolare in<br />

1Cor 1–3.<br />

Accanto a questi termini fondament<strong>al</strong>i, l’ebr<strong>ai</strong>co e il greco utilizzano anche <strong>al</strong>tri vocaboli,<br />

che si avvicinano come significato. Così troviamo ad es. i seguenti binomi: sapienza e sapere<br />

(da‘at, gnôsis: Pr 2,6; 30,3; Qo 1,16-17; 2,21-26; 9,10; Col 2,3), sapienza e intelligenza (bînah<br />

o tebûnah, sýnesis: Dt 4,6; Pr 24,3; Sir 14,20; Is 29,14; Ger 51,15; Col 1,9), sapienza e<br />

educazione (mûsar, p<strong>ai</strong>deía: Pr 1,2.7; 15,33). Il fatto che la traduzione non renda sempre <strong>al</strong>lo<br />

stesso modo i termini ebr<strong>ai</strong>ci denota una certa fluidità nel vocabolario. Questa osservazione è<br />

corroborata da <strong>al</strong>cuni testi che accumulano termini di cui non è facile stabilire con precisione<br />

* M. GILBERT, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 1988, 1427-1442.<br />

1<br />

Cfr. J. VILCHEZ LINDEZ, Storia della ricerca sulla letteratura sapienzi<strong>al</strong>e, in L. ALONSO SCHÖKEL – J. VIL-<br />

CHEZ LINDEZ, I Proverbi (Commenti Biblici), Roma 1988, 43-93.


<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 5<br />

il senso specifico. Ad es.: « Per conoscere sapienza e disciplina (mûsar)... per apprendere destrezza<br />

e acutezza (mûsar hasekel)... per dare <strong>ai</strong> giovanetti la prudenza (‘ormah), <strong>al</strong> giovane<br />

scienza (da‘at) e assennatezza (mezimmah)... » (Pr 1,2-4); «Io, sapienza, abito insieme <strong>al</strong>la<br />

prudenza (‘ormah), ho trovato la scienza <strong>dei</strong> consigli (da‘at mezimmôt), ...a me il consiglio<br />

(‘eßah) e l’abilità (tûšijah), io sono l’intelligenza (bînah), a me la forza (gebûrah)» (Pr<br />

8,12.14); «In lui [Dio] risiede la sapienza e la forza (gebûrah), sue sono la perspicacia (‘eßah)<br />

e la prudenza (tebûnah)» (Gb 12,13); «Spirito di sapienza e di discernimento (bînah), spirito<br />

di consiglio (‘eßah) e di fortezza (gebûrah), spirito di conoscenza (da‘at) e di timore del Signore»<br />

(Is 11,2).<br />

In maniera molto gener<strong>al</strong>e si può dire, <strong>al</strong>la luce di questa terminologia, che la sapienza si<br />

acquisisce attraverso un’educazione progressiva, mira ad una comprensione profonda e penetrante<br />

del re<strong>al</strong>e, porta ad un ‘saper fare’, ad un ‘saper vivere’ da cui i v<strong>al</strong>ori mor<strong>al</strong>i, come ad<br />

es. il coraggio, e religiosi, come il timore di Dio, non sono esclusi. In questo la sapienza biblica<br />

non si distingue affatto d<strong>al</strong>la sapienza di ogni popolo e di ogni tempo.<br />

La sapienza si rivolge agli ingenui, a gente infantile (peta’îm: Pr 1,4.22.32). Si tratta di persone<br />

semplici, che manifestano leggerezza e che sono dunque suscettibili di essere influenzate<br />

d<strong>al</strong> bene o d<strong>al</strong> m<strong>al</strong>e (Pr 9,4.16). Colui che ha poca sapienza è uno stolto, un ottuso (kesîl: Pr<br />

26,1-12); parla a vanvera; di lui non ci si può fidare e non conclude nulla. È un essere pieno di<br />

meschinità, vile, ignobile (nab<strong>al</strong>: Pr 17,7.21; Sir 4,2); agisce senza pensare, sconsideratamente;<br />

i suoi modi sono sconvenienti (Pr 30,32); è un insensato, un pazzo (’ewîl: Pr 10,8.14.21) e d<strong>al</strong><br />

suo parlare lo si capisce. Sir 21,11–22,18 traccia un quadro gustoso dello stolto.<br />

2. LE FORME DI ESPRESSIONE<br />

Anche le forme attraverso le qu<strong>al</strong>i la sapienza si esprime sono le stesse dovunque. Nella<br />

Bibbia troviamo la forma dell’adagio: «Qu<strong>al</strong>e la madre, t<strong>al</strong>e la figlia» (Ez 16,44); «Pelle per<br />

pelle» (Gb 2,4); «Medico, cura te stesso» (Lc 4,23); incontriamo <strong>dei</strong> proverbi: «D<strong>ai</strong> m<strong>al</strong>vagi<br />

esce m<strong>al</strong>vagità!» (1Sam 24,14); «Chi indossa le armi non si vanti come chi le depone» (1Re<br />

20,11: quattro parole in ebr<strong>ai</strong>co); o ancora: «I padri hanno mangiato l’agresto e i denti <strong>dei</strong> figli<br />

si sono <strong>al</strong>legati» (Ger 31,29; Ez 18,2). Accanto a queste forme semplici c’è poi l’enigma, come<br />

quello proposto da Sansone: «Da colui che mangia è venuto fuori cibo. D<strong>al</strong> forte è uscito<br />

qu<strong>al</strong>cosa di dolce» (Gdc 14,14); oppure la favola, come quella di Iotam (Gdc 9,7-15) o quella<br />

di Ioas: «Il cardo del Libano mandò a dire <strong>al</strong> cedro del Libano: “Concedi tua figlia in sposa a<br />

mio figlio”. Ma passarono le bestie selvagge del Libano e c<strong>al</strong>pestarono il cardo» (2Re 14,9).<br />

Troviamo ancora il proverbio numerico, soprattutto in Pr 30,15-33, o la parabola, come quella<br />

narrata da Natan a Davide (2Sam 12,1-4). T<strong>al</strong>volta il testo si sviluppa in forma di racconto,<br />

come la narrazione in prosa che apre e chiude Gb; lo sviluppo può apparire anche in forma di<br />

discorso molto elaborato come ad esempio in Pr 2, o addirittura in forma di di<strong>al</strong>ogo, come il<br />

poema di Gb. Tutte queste espressioni sapienzi<strong>al</strong>i, brevi o lunghe, sono chiamate d<strong>al</strong>la Bibbia<br />

ebr<strong>ai</strong>ca maš<strong>al</strong>.<br />

3. SAPIENZE DEL VICINO ORIENTE ANTICO NON BIBLICO<br />

Contrariamente a quanto si pensava <strong>al</strong>l’inizio del secolo scorso, la sapienza biblica non è la<br />

più antica. Essa si inserisce <strong>al</strong>l’interno di una corrente che ha le sue radici in Mesopotamia e<br />

in Egitto, dove i saggi, come del resto quelli della Bibbia, misero per iscritto i loro insegnamenti.<br />

Questa messa in iscritto costituisce una delle caratteristiche fondament<strong>al</strong>i della sapienza<br />

del Vicino Oriente Antico.


6 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />

3.1. LE LISTE<br />

La prima tappa di questa sapienza scritta è stata probabilmente la composizione di liste dette<br />

onomastica: <strong>al</strong>lo scopo di comporre un inventario del loro universo, gli autori di queste liste<br />

enumeravano, per categorie, gli esseri e le cose che li circondavano e potevano essere loro<br />

di utilità. Così fecero i sumeri e gli egiziani. La Bibbia attribuisce a S<strong>al</strong>omone questa stessa<br />

attività che segna l’inizio della ricerca scientifica: «Trattò degli <strong>al</strong>beri, d<strong>al</strong> cedro che si trova<br />

sul Libano sino <strong>al</strong>l’issopo che spunta d<strong>al</strong> muro; dissertò anche sul bestiame e sui volatili, sui<br />

rettili e sui pesci» (1Re 5,13).<br />

3.2. LE ANTICHE RACCOLTE DI SENTENZE<br />

La sapienza mesopotamica e quella egiziana sono conosciute soprattutto per le raccolte che<br />

l’archeologia moderna ha permesso di scoprire. Vi troviamo innanzitutto delle istruzioni trasmesse<br />

solitamente da un re <strong>al</strong> suo erede o da uno scriba <strong>al</strong> proprio figlio. Queste istruzioni<br />

sono composte ordinariamente da proverbi che indicano il comportamento da tenere per riuscire<br />

nella vita o nel lavoro. Il testo più antico proviene d<strong>ai</strong> sumeri e sono le Istruzioni di Shuruppak.<br />

Questo testo ris<strong>al</strong>e probabilmente <strong>al</strong>la metà del III millennio e se ne può seguire la<br />

trasmissione, m<strong>al</strong>grado i molti cambiamenti, fin verso l’anno 1000 a.C. In Egitto troviamo le<br />

Istruzioni del vizir Ptah-Hotep <strong>al</strong> figlio, ris<strong>al</strong>enti ugu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>la metà del III millennio; del<br />

XXII sec. a.C. sono le Istruzioni del re <strong>al</strong> figlio Merikare; quelle dello scriba Ani <strong>al</strong> figlio ris<strong>al</strong>irebbero<br />

<strong>al</strong>la metà del II millennio. Le Istruzioni dello scriba Amenemope <strong>al</strong> figlio, la cui datazione<br />

oscilla tra il 1000 e il 600 a.C., potrebbero aver influenzato l’autore della collezione<br />

biblica di Pr 22,17–24,22; infine l’insegnamento di Onkh-Sheshonq-qy sarebbe databile <strong>al</strong> V<br />

sec. a.C. Le raccolte di proverbi biblici (Pr 10–31) si inscrivono in questa corrente sumerica<br />

ed egiziana di cui abbiamo ricordato i princip<strong>al</strong>i testimoni.<br />

3.3. ALTRI TESTI<br />

3.3.1. Testi anteriori <strong>al</strong>la Bibbia<br />

La Mesopotamia e l’Egitto hanno tramandato anche <strong>dei</strong> testi sapienzi<strong>al</strong>i in cui il discorso<br />

ha un respiro più ampio e strutturato e che contengono riflessioni sul senso della vita e della<br />

morte, sulla sofferenza e <strong>al</strong>tri problemi umani. In Egitto 2 , la Disputa sul suicidio tra un uomo<br />

disperato e la sua anima ris<strong>al</strong>irebbe <strong>al</strong>la fine del III millennio; dell’inizio del II millennio sarebbe<br />

invece la Novella del contadino loquace che reclama giustizia e la Satira <strong>dei</strong> mestieri,<br />

in cui Khety fa <strong>al</strong> proprio figlio Pepy l’elogio, per contrasto, del mestiere di scriba. Questo<br />

contrasto si ritrova, molto più tardi, in Sir 38,24–39,11. Anche in Mesopotamia troviamo delle<br />

favole, tra cui quella, in accadico, del Tamarisco e della P<strong>al</strong>ma, ris<strong>al</strong>ente <strong>al</strong> 1700-1600 a.C. Il<br />

monologo accadico conosciuto – d<strong>al</strong>le prime parole del testo – come Ludlul bel nemeqi, “Voglio<br />

celebrare il signore della sapienza”, presenta un giusto sofferente paragonabile a Giobbe,<br />

e ris<strong>al</strong>irebbe agli anni 1500-1200 a.C. Anche il Di<strong>al</strong>ogo pessimistico tra un padrone e il suo<br />

servo, che approva sempre i progetti più contraddittori del primo, è scritto in accadico e non<br />

deve essere di molto anteriore <strong>al</strong>l’anno 1000 3 .<br />

2 Cfr. J. LÉVÊQUE, Testi sapienzi<strong>al</strong>i dell’Antico Egitto, in L’Antico Testamento e le culture del tempo, Roma<br />

1990, 393-497; A. ROCCATI (ed.), Sapienza Egizia. La letteratura educativa in Egitto durante il II millennio a.C.,<br />

Brescia 1994; G.E. BRYCE, A Legacy of Wisdom. The Egyptian Contribution to the Wisdom of Israel,<br />

Lewinsburg-London 1979.<br />

3 Fonte princip<strong>al</strong>e per i testi sapienzi<strong>al</strong>i del Vicino Oriente Antico resta J.B. PRITCHARD, Ancient Near Eastern<br />

Texts Relating to the Old Testament, Princeton 1968 3 , con supplemento; vedi G.R. CASTELLINO, Testi<br />

sumerici e accadici, Torino 1977, 471-515; M. CIMOSA, L’ambiente storico-cultur<strong>al</strong>e delle Scritture Ebr<strong>ai</strong>che,<br />

Bologna 2000.


<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 7<br />

3.3.2. Testi contemporanei <strong>al</strong>l’AT<br />

Nel I millennio avranno una grande risonanza due opere. La prima viene d<strong>al</strong>la Grecia: Le<br />

opere e i giorni, di Esiodo (VIII sec. a.C.), è un poema didattico in cui sono es<strong>al</strong>tati i v<strong>al</strong>ori<br />

del lavoro. Molti accostamenti sono possibili tra questa opera e la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e del<br />

Vicino Oriente Antico. La seconda è il romanzo di Achikar, opera probabilmente aram<strong>ai</strong>ca<br />

(VI-V sec. a.C.), di cui si sono ritrovati lunghi frammenti presso la comunità ebr<strong>ai</strong>ca di Elefantina<br />

in Egitto. Il greco Esopo e Tb (1,21-22; 14,10) vi si ricollegano. Ministro di Sennacherib<br />

e di Assarhaddon, Achikar narra come, a causa degli intrighi del nipote che egli aveva<br />

formato <strong>al</strong>la sapienza degli scribi, egli sarebbe morto se l’uffici<strong>al</strong>e che lo aveva arrestato non<br />

avesse accettato di nasconderlo. Tornato nelle grazie del re, ottenne di castigare lui stesso il<br />

nipote. L’insegnamento che Achikar trasmette a quest’ultimo è simile a quello di tutte le raccolte<br />

antiche del genere: severa educazione <strong>dei</strong> figli, obbedienza <strong>al</strong> re, difficoltà nei rapporti<br />

umani, prudenza nelle parole e anche qu<strong>al</strong>che favola.<br />

3.3.3. Testi dell’inizio dell’era cristiana<br />

Al di fuori della Bibbia, <strong>al</strong>l’inizio dell’era cristiana, videro la luce anche <strong>al</strong>tri testi sapienzi<strong>al</strong>i.<br />

Nel giud<strong>ai</strong>smo ellenistico troviamo le Sentenze di Focilide (fine del I sec. a.C. o inizio<br />

del I sec. d.C.) e 3Esd 3,1–5,6 (racconto posteriore a Dan e anteriore a Giuseppe Flavio); nel<br />

giud<strong>ai</strong>smo p<strong>al</strong>estinese i Pirqê ’Abôt, “Sentenze <strong>dei</strong> Padri” (nella Mišnah e quindi anteriori <strong>al</strong>la<br />

fine del II sec. d.C.); nel cristianesimo, le Due Vie (questa raccolta di origine giud<strong>ai</strong>ca si ritrova<br />

nella Didaché 2,2–6,1, nella Lettera di Barnaba 18-20 e nella Dottrina <strong>dei</strong> Dodici Apostoli),<br />

le Sentenze di Sesto (di origine pagana e la cui redazione cristiana ris<strong>al</strong>e <strong>al</strong> II sec. d.C.) e<br />

gli Insegnamenti di Silvano (a cav<strong>al</strong>lo tra il II e il III sec. d.C.). Anche in Egitto, nel I sec.<br />

d.C., troviamo una sapienza in demotico, conservata d<strong>al</strong> Papiro Insinger.<br />

3.4. COS’È LA SAPIENZA?<br />

Per illuminare il concetto biblico di sapienza possono essere utili due confronti. Nel<br />

pantheon egiziano classico la dea Ma’at, figlia del dio Ra, è raffigurata come una ragazzina accovacciata,<br />

ricoperta di una lunga veste, avente in testa un velo sormontato da una lunga piuma<br />

e in mano una croce ansata simbolo della vita (ankh, in egiziano). Alcuni avori del p<strong>al</strong>azzo re<strong>al</strong>e<br />

di Samaria provano che nel IX sec. la dea era conosciuta anche lì. Ma’at assicura l’ordine cosmico<br />

e l’armonia nei rapporti umani attraverso la giustizia e la bontà verso i poveri. Amata da<br />

Ra, essa porta <strong>al</strong>la vita colui che la venera: il suo ruolo presso i responsabili della società è di<br />

aprirli <strong>al</strong>la verità e <strong>al</strong>la giustizia soprattutto verso i più sprovveduti. La figura della Sapienza in<br />

Pr 8 è forse parzi<strong>al</strong>mente ispirata a quella di Ma’at, ma non senza che una purificazione radic<strong>al</strong>e<br />

sia stata operata: la Sapienza non è una dea. Negli ultimi secoli prima dell’era cristiana la dea<br />

Iside assunse la maggior parte delle prerogative di Ma’at e il suo culto si diffuse nel mondo ellenistico.<br />

È possibile che Sir 24 e Sap 7–9, parlando nuovamente della Sapienza, a loro volta si<br />

ispirino un po’ <strong>al</strong>la figura di Iside, ma senza fare della Sapienza una dea.<br />

Nella Grecia antica, agli occhi <strong>dei</strong> sette Saggi, la sapienza è un’arte di vivere piena di equilibrio,<br />

una capacità a pronunciarsi con avvedutezza sui problemi tanto della vita quotidiana<br />

quanto della politica. Contro i sofisti Socrate affermò più tardi la nobiltà della sapienza, che <strong>ai</strong><br />

suoi occhi è divina: con la pratica della virtù l’uomo deve diventarne l’amico. Ma Platone ridusse<br />

la sapienza <strong>al</strong>l’ambito intellettu<strong>al</strong>e: attraverso la contemplazione essa permette la conoscenza<br />

intuitiva delle idee divine, in particolare il bene e il bello. Aristotele invece distinse la<br />

sapienza, sophía, che è conoscenza delle cause prime e <strong>dei</strong> princìpi – da identificarsi quindi<br />

con la filosofia – d<strong>al</strong>la prudenza, phrónēsis, sapienza pratica nella linea <strong>dei</strong> sette Saggi. Più<br />

tardi lo stoicismo fece della sapienza «la scienza delle cose divine e umane» (cfr. pure 4Mac<br />

1,16): re<strong>al</strong>tà divina, essa si identifica con la ragione univers<strong>al</strong>e ed è l’ide<strong>al</strong>e che l’uomo può<br />

raggiungere attraverso la filosofia e la pratica della virtù. Il saggio re<strong>al</strong>izza questa sapienza i-


8 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />

de<strong>al</strong>e, unica virtù. Ma a causa della difficoltà a conseguire questa sapienza perfetta gli stoici si<br />

applicarono sempre di più <strong>al</strong>la phrónēsis, sapienza pratica, frutto della virtù. Parlando di<br />

phrónēsis e insistendo sul suo aspetto virtuoso, Sap 3,15; 4,9; 6,15.24; 7,7; 8,6-7 si muove<br />

nell’ambito del pensiero greco.<br />

3.5. LA BIBBIA E LE SAPIENZE PAGANE<br />

Questa serie di contatti, nell’ambito sapienzi<strong>al</strong>e, tra la Bibbia e le culture circostanti non fa<br />

che continuare una lunga tradizione. Spesso un riferimento <strong>al</strong>la sapienza pagana serve a dimostrare<br />

la superiorità della sapienza biblica. È il caso di Giuseppe (Gen 41), di Mosè (Es 7,8–<br />

9,12), di S<strong>al</strong>omone (1Re 5,10-11; 10,1-13), di Daniele (Dan 2; 4), che hanno la meglio sui<br />

saggi pagani. I profeti a loro volta sottolineano i limiti della sapienza <strong>dei</strong> popoli pagani (Is<br />

19,3.11-12; 44,25; 47,8-15; Ger 49,7 = Abd 8; Ger 50,35-36; 51,57; Ez 28,1-19): loro bersaglio<br />

sono quasi sempre l’Egitto, Babilonia o Edom. In Egitto e a Babilonia i saggi sono spesso<br />

considerati come <strong>dei</strong> maghi, mentre la sapienza di Tiro, secondo Ez 28, sta nella sua abilità ad<br />

arricchirsi con il commercio marittimo. Ma la Bibbia non nutre solo disprezzo per la sapienza<br />

<strong>dei</strong> pagani. Si intuisce in 1Re 5,9-14 quanto la sapienza s<strong>al</strong>omonica debba a quella delle grandi<br />

culture circostanti. Più ancora: Pr 30,1-14 ha conservato i proverbi di Agur e Pr 31,1-9<br />

quelli che Lemuel ha imparato d<strong>al</strong>la madre; ora questi due sapienti non sono di origine israelita.<br />

Il caso di Giobbe è più sottile, perché nemmeno Giobbe è israelita: è del paese di Uz (Gb<br />

1,1), da loc<strong>al</strong>izzare probabilmente in Transgiordania. Questa finzione serve a dimostrare il carattere<br />

univers<strong>al</strong>e della risposta biblica <strong>al</strong> problema posto d<strong>al</strong>la sofferenza del giusto. In un caso<br />

<strong>al</strong>meno la sapienza biblica si annetterà la sapienza pagana: Achikar è considerato in Tb<br />

1,21 come nipote del vecchio Tobi, a riprova del grande rispetto che nel giud<strong>ai</strong>smo si nutriva<br />

per la sapienza di Achikar. Un rispetto an<strong>al</strong>ogo spiega perché Pr 22,17–24,22 dipenda d<strong>al</strong>le<br />

Istruzioni di Amenemope. Tutto ciò conduce a pensare che la Bibbia fosse cosciente tanto<br />

dell’influenza che la sapienza pagana esercitava sulla propria, quanto della differenza che separava<br />

la propria sapienza da quella <strong>dei</strong> pagani, ed anche dell’univers<strong>al</strong>ità tipica di ogni autentica<br />

sapienza.<br />

4. LA SAPIENZA BIBLICA<br />

4.1. I LIBRI SAPIENZIALI<br />

Nella Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca i libri propriamente sapienzi<strong>al</strong>i si trovano tra gli Agiografi o Scritti<br />

(Ketubîm): si tratta di Pr, Gb, Qo; quest’ultimo fa parte della sottosezione <strong>dei</strong> Cinque Rotoli<br />

(Megillôt). Nei Settanta troviamo inoltre l’opera di Ben Sira o Siracide o Ecclesiastico (di cui<br />

da circa un secolo è stata ritrovata una parte importante del testo ebr<strong>ai</strong>co) e infine Sap. Nel<br />

NT possiamo considerare libro sapienzi<strong>al</strong>e la lettera di Giacomo.<br />

4.2. NEGLI ALTRI LIBRI BIBLICI<br />

4.2.1. Nell’AT<br />

La corrente sapienzi<strong>al</strong>e biblica si manifesta anche in <strong>al</strong>tri testi. Prendiamo innanzitutto<br />

quelli in cui il fatto è più esplicito. Alcuni s<strong>al</strong>mi sono detti sapienzi<strong>al</strong>i o didattici; i commentatori<br />

però non si accordano sulla loro scelta soprattutto a causa della difficoltà di determinarne<br />

il genere letterario e il rapporto con il culto. Vengono considerati t<strong>al</strong>i, ad es., i s<strong>al</strong>mi che cantano<br />

la bellezza della tôrah (S<strong>al</strong> 1; 19b; 119), quelli che semplicemente formulano un insegnamento<br />

(S<strong>al</strong> 37; 91; 112; 127), quelli che riflettono sulla sorte dell’essere umano (S<strong>al</strong> 49;<br />

73, che viene accostato a Gb; 90). In maniera più esplicita Bar 3,9–4,4 è una esortazione a restar<br />

fedeli <strong>al</strong>la Sapienza, identificata con la tôrah. Alcuni racconti, le cui apparenze storiche<br />

possono ingannare, sono didattici e potrebbero ricollegarsi a quelli che leggiamo in Gb 1–2 e


<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 9<br />

42 o in Achikar: sono soprattutto Rt, Gi, Tb, Gdt, Est e Susanna (Dan 13). Questi testi hanno<br />

pure <strong>dei</strong> legami con i midrašim. In <strong>al</strong>tri testi o in <strong>al</strong>tre correnti l’influsso sapienzi<strong>al</strong>e è riconosciuto<br />

o controverso. Il racconto J del giardino dell’Eden (Gen 2–3) ha <strong>dei</strong> tratti sapienzi<strong>al</strong>i 4 .<br />

Le opinioni sono divise quanto <strong>al</strong>l’influenza sapienzi<strong>al</strong>e su Dt e Am. G. von Rad ha pensato di<br />

poter ricollegare l’apoc<strong>al</strong>ittica non già <strong>al</strong> profetismo bensì <strong>al</strong>le correnti sapienzi<strong>al</strong>i; tuttavia solo<br />

Sap integra bene, sia pure tardivamente, sapienza e apoc<strong>al</strong>ittica. Alcuni testi brevi denotano<br />

una forte tendenza sapienzi<strong>al</strong>e: per es. Ct 8,6-11; 1Sam 25, in cui Abig<strong>ai</strong>l pone rimedio <strong>al</strong>la<br />

stupidità del marito; 2Sam 14, dove vediamo la saggia donna di Tekoa perorare la riabilitazione<br />

di Ass<strong>al</strong>onne. L’importanza <strong>dei</strong> saggi appare anche nelle critiche che i profeti – Is<strong>ai</strong>a e Geremia<br />

in particolare – hanno formulato nei confronti di <strong>al</strong>cuni di loro: <strong>al</strong>lora è la saggezza di<br />

corte, i consiglieri reg<strong>al</strong>i che vengono presi di mira (Is 3,1-3; 5,21; 29,14; 30,1; Ger 8,8-9;<br />

9,11.22-23). Queste critiche riprendono spesso quelle che Pr rivolgeva a coloro che confidano<br />

solo nella propria saggezza (Pr 26,12; 28,11) o nelle proprie forze (Pr 21,31). D’<strong>al</strong>tra parte<br />

testi come Is 9,1-6; 11,1-5 sul re-messia ricordano per certi aspetti l’insegnamento <strong>dei</strong> saggi di<br />

Pr sull’esercizio della funzione reg<strong>al</strong>e (Pr 20,28; 29,14).<br />

4.2.2. Nel NT: Gesù maestro di sapienza<br />

Nel NT troviamo, accanto a Gc, un certo numero di testi che parlano della sapienza di Dio<br />

o che, a proposito di Gesù, ricorrono ad espressioni che l’AT utilizza per parlare della Sapienza.<br />

Fermiamoci per ora a ciò che, nell’insegnamento di Gesù, prende una forma sapienzi<strong>al</strong>e.<br />

Non si può infatti negare che molti discorsi di Gesù erano simili a quelli <strong>dei</strong> saggi. Del resto<br />

gli abitanti di Nazaret se ne sono resi conto, arrivando addirittura a considerare Gesù superiore<br />

agli scribi (cfr. Mt 7,28-29): «Donde viene a costui questa sapienza?» (Mt 13,54).<br />

La cosa si nota nelle parabole. Anche i maestri d’Israele dell’epoca di Gesù, che d’<strong>al</strong>tronde si<br />

chiamavano saggi, utilizzavano la parabola soprattutto per spiegare <strong>ai</strong> discepoli il senso di un<br />

testo della Scrittura. Così, per spiegare il banchetto della Sapienza in Pr 9,1-6, si diceva: «E<br />

come un re che si costruì un p<strong>al</strong>azzo e che, per inaugurarlo, diede un banchetto...» (Toseftah,<br />

Sanhedrin 8,9). Oppure, per spiegare perché nel deserto gli ebrei non ricevettero solo una volta<br />

<strong>al</strong>l’anno la loro razione di manna, si diceva: «Un re diede <strong>al</strong> proprio figlio il necessario per<br />

l’intero anno e il figlio si accontentò di presentarsi davanti <strong>al</strong> padre una volta <strong>al</strong>l’anno. Allora il<br />

padre decise di dargli il necessario giorno per giorno ed è così che il figlio fu costretto a visitare<br />

il padre ogni giorno» (T<strong>al</strong>mud Babli Joma 17a). T<strong>al</strong>volta la parabola rabbinica chiarisce un punto<br />

dottrin<strong>al</strong>e: «Alla domanda se i morti risuscitano nudi o vestiti, R. Meir rispose: “Se il grano<br />

di frumento messo nudo nella terra riappare con una moltitudine di vestiti, i giusti che sono sepolti<br />

con i loro abiti non dovrebbero risorgere vestiti?”» (T<strong>al</strong>mud Babli, Sanhedrin 50b).<br />

Si intuisce facilmente la portata pedagogica delle parabole che prendono spunto d<strong>al</strong>la vita<br />

quotidiana in P<strong>al</strong>estina: tanto i maestri in Israele quanto Gesù parlano di pastore e di pecore,<br />

di vigna, di compera o di vendita, di monetina smarrita, di casa da costruire, di tesoro dato in<br />

consegna o in prestito, ecc., e i personaggi abitu<strong>al</strong>i sono un re, un padre e un figlio, un padrone<br />

e un servo, una mass<strong>ai</strong>a, ecc. Quando Gesù parla in parabole, si rivolge <strong>al</strong>la folla (Mt<br />

13,34), prende spunto d<strong>al</strong>la vita rur<strong>al</strong>e e campestre e i suoi temi si riferiscono <strong>al</strong> regno di Dio<br />

o <strong>al</strong>la sua stessa persona, <strong>al</strong>la sua missione, oppure <strong>al</strong>l’atteggiamento di colui che ascolta<br />

l’appello di Dio.<br />

Oltre <strong>al</strong>le parabole, anche molti discorsi di Gesù hanno un taglio sapienzi<strong>al</strong>e. È il caso in<br />

particolare del discorso sul monte (Mt 5–7) o del discorso sul pane di vita (Gv 6). Accanto a<br />

queste composizioni ampie troviamo pure, attribuite a Gesù, delle formulazioni sapienzi<strong>al</strong>i di<br />

vario tipo. Sono delle massime come: «Tutti quelli che mettono mano <strong>al</strong>la spada, di spada pe-<br />

4 Cfr. A. VANEL, Sagesse (courant de), in DBS XII, Paris 1989, 23-27 e L. MAZZINGHI, Qu<strong>al</strong>e fondamento<br />

biblico per il “peccato origin<strong>al</strong>e”? Un bilancio ermeneutico: l’Antico Testamento, in I. SANNA (ed.), Questioni<br />

sul peccato origin<strong>al</strong>e, Padova 1995, 61-140.


10 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />

riranno» (Mt 26,52); «Chi vuole s<strong>al</strong>vare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25); «C’è più felicità<br />

a dare che a ricevere» (At 20,35). Possono assumere una connotazione person<strong>al</strong>e: «Chi<br />

non è contro di noi è per noi» (Mc 9,40), o diventare delle esortazioni: «Lascia che i morti<br />

seppelliscano i loro morti» (Mt 8,22), oppure: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio<br />

quello che è di Dio» (Mt 22,21).<br />

5. ORIGINE DELLA SAPIENZA IN ISRAELE 5<br />

5.1. SALOMONE MODELLO DEI SAGGI<br />

La Bibbia collega la fioritura della sapienza in Israele <strong>al</strong>la persona del re S<strong>al</strong>omone (972-<br />

932). Alla morte di Davide, che fu il creatore di un autentico impero, il riunificatore delle dodici<br />

tribù, il conquistatore, il suo giovane erede S<strong>al</strong>omone domandò a Dio, fin d<strong>al</strong>l’inizio del<br />

suo regno, «un cuore saggio e perspicace» per governare (1Re 3,4-15; 2Cr 1,3-12). La sapienza<br />

di S<strong>al</strong>omone si manifestò nelle sue qu<strong>al</strong>ità di giudice (1Re 3,15-28: il famoso giudizio di<br />

S<strong>al</strong>omone), nelle capacità di amministratore (1Re 4,1–5,8), di costruttore del tempio (1Re<br />

5,15–8,66). Organizzò i lavori pubblici (1Re 9,15-24) e il commercio con l’estero (1Re 9,26–<br />

10,13: la visita della regina di Saba), accumulando un’enorme fortuna (1Re 10,14-25). Ma il<br />

regno di S<strong>al</strong>omone non fu senza ombre: l’oppressione del popolo in funzione <strong>dei</strong> suoi progetti,<br />

il fasto della corte e soprattutto la sua infedeltà religiosa gli procurarono <strong>dei</strong> nemici, tanto<br />

che <strong>al</strong>la sua morte il regno si divise. Possiamo supporre che un’attività del genere da parte di<br />

S<strong>al</strong>omone abbia richiesto <strong>al</strong>lo stato l’organizzazione di una specie di scuola superiore di amministrazione,<br />

in cui tutti i membri degli organismi stat<strong>al</strong>i ricevessero una formazione adeguata,<br />

in particolare sul piano cultur<strong>al</strong>e. L’accoglienza delle culture straniere fu probabilmente<br />

uno <strong>dei</strong> motivi del successo della politica del re. Aveva sposato in prime nozze la figlia del faraone<br />

(1Re 3,1; 9,16; 11,1) e si può pensare che la cultura egiziana abbia fatto il suo ingresso<br />

a Gerus<strong>al</strong>emme coi bagagli della giovane regina. Si può pensare anche che la lingua accadica,<br />

e forse anche il sumerico, fossero conosciuti nelle <strong>al</strong>te sfere dello stato, per necessità diplomatica<br />

e formazione cultur<strong>al</strong>e. L’attività letteraria fu verosimilmente favorita negli stessi ambienti.<br />

L’autore detto correntemente J scrisse probabilmente sotto S<strong>al</strong>omone la sua storia delle origini;<br />

il racconto così profondamente umano della successione a Davide (2Sam 13ss) fu redatto,<br />

sembra, da un testimone, familiare <strong>al</strong>la corte. I proverbi di Pr 10,1–22,16 e il fondo originario<br />

di Pr 25–29 sono attribuiti a S<strong>al</strong>omone: in re<strong>al</strong>tà potrebbe trattarsi piuttosto di raccolte<br />

compilate dagli scribi e d<strong>ai</strong> saggi su indicazioni del re. Del resto 1Re 5,12-13 attribuisce a S<strong>al</strong>omone<br />

«tremila proverbi e i suoi carmi furono mille e cinque. Trattò degli <strong>al</strong>beri, d<strong>al</strong> cedro<br />

che si trova sul Libano, sino <strong>al</strong>l’issopo che spunta d<strong>al</strong> muro; dissertò anche sul bestiame e sui<br />

volatili, sui rettili e sui pesci». Dobbiamo probabilmente vedere in questi ultimi riferimenti<br />

degli onomastica, specie di lessici re<strong>al</strong>izzati essi pure su indicazioni del re. Il patrocinio di S<strong>al</strong>omone<br />

doveva continuare a lungo dopo di lui, se gli viene attribuito il Ct, se <strong>dei</strong> suoi panni si<br />

riveste Qo, se i S<strong>al</strong> 72 e 127 (in rapporto con 1Re 3,14-15) portano il suo nome e Sap lo mette<br />

ancora in scena. S<strong>al</strong>omone è dunque diventato una figura ide<strong>al</strong>e (cfr. anche Mt 6,29; Lc 12,27;<br />

Mt 12,42). Ci si può d’<strong>al</strong>tronde domandare se già 1Re 3–11 e 2Cr 1–9 non abbiano risentito di<br />

questa tendenza <strong>al</strong>l’ide<strong>al</strong>izzazione. Ad ogni modo, la Bibbia attribuisce <strong>al</strong>la corte re<strong>al</strong>e un ruolo<br />

determinante nello sviluppo della corrente sapienzi<strong>al</strong>e in Israele. Questo ruolo si rinnoverà<br />

sotto il regno di Ezechia (Pr 25,1).<br />

5<br />

Sull’ambiente vit<strong>al</strong>e della sapienza israelita cfr. V. MORLA ASENSIO, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong><br />

<strong>al</strong>lo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 49-54.


5.2. SCRIBI E SCUOLE<br />

<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 11<br />

Gli scribi del re, ricordati in Pr 25,1 o che 1Re 5,13 lascia supporre, non sono da identificarsi<br />

puramente e semplicemente con i suoi consiglieri politici. Leggendo i proverbi delle raccolte<br />

s<strong>al</strong>omoniche si intuisce che certi scribi avevano un’<strong>al</strong>tra funzione di importanza capit<strong>al</strong>e<br />

per l’avvenire dello stato: quella di preparare la gioventù maschile meglio dotata a prendere<br />

un domani il cambio nella responsabilità dell’amministrazione, della diplomazia e del governo.<br />

Bisognava insegnare a questi giovani ciò che rende l’uomo equilibrato e completo, e innanzitutto<br />

il comportamento corretto a corte (Pr 16,10-15; 25,2-7). Che questa formazione<br />

fosse impartita a <strong>dei</strong> giovani, lo si può dedurre d<strong>al</strong> fatto che troviamo nei proverbi (come in Pr<br />

27,11) il vocativo “figlio mio”.<br />

5.3. ORIGINE POPOLARE DELLA SAPIENZA<br />

La maggior parte <strong>dei</strong> proverbi antichi non ha niente a che vedere con la vita di corte. Un<br />

gran numero di proverbi riuniti nelle raccolte s<strong>al</strong>omoniche proviene sicuramente d<strong>al</strong>la campagna<br />

o d<strong>ai</strong> villaggi e il loro contenuto lo testimonia; ad es.: «Se non ci sono buoi la greppia è<br />

vuota; nella forza del giovenco c’è abbondanza di prodotti» (Pr 14,4). In questo l’origine della<br />

sapienza in Israele non differisce da quella di tutti gli <strong>al</strong>tri popoli. Le testimonianze antiche,<br />

anteriori a S<strong>al</strong>omone, confermano questo dato. In Israele, come dappertutto, la sapienza proverbi<strong>al</strong>e<br />

è di origine popolare e si trasmette in famiglia, come avverrà ancora molto più tardi<br />

con Tobia (Tb 4,3-21). S<strong>al</strong>omone e i suoi scribi non hanno fatto <strong>al</strong>tro che raccogliere questa<br />

saggezza popolare antica, organizzarla e metterla per iscritto, s<strong>al</strong>vo a modificare qua e là la<br />

formulazione origin<strong>al</strong>e per farla meglio entrare nei quadri previsti per la raccolta. La sapienza<br />

proverbi<strong>al</strong>e non è solo l’opera di artigiani abili nel loro mestiere (cfr. Es 31,31; 2Cr 2,12); è<br />

più di questo. Un proverbio infatti è una espressione armoniosa – piacevole da ascoltare e da<br />

dire, concisa <strong>al</strong> massimo e che richiede riflessione per essere ben compresa – di una verità<br />

comprensibile a tutti e che sintetizza una lunga esperienza di osservazione degli uomini e delle<br />

cose. Un proverbio è il frutto di una lunga maturazione e l’osservazione ne è la base. La ripetizione<br />

di uno stesso fenomeno fu osservata da spiriti pazienti e perspicaci, rimasti quasi<br />

sempre anonimi, forse perché usciti d<strong>al</strong> popolino, e ciò ha permesso loro di scoprire il principio<br />

gener<strong>al</strong>e che regge questa molteplicità. Inoltre questa gente osservatrice è riuscita a condensare<br />

la propria scoperta in una formula breve e stringata, trasmessa dapprima or<strong>al</strong>mente,<br />

come avviene ancor oggi nell’Africa nera. È solo a questo punto che è intervenuta l’azione<br />

degli scribi di corte o <strong>dei</strong> circoli intellettu<strong>al</strong>i. E questa messa per iscritto fin d<strong>al</strong>la più remota<br />

antichità è caratteristica delle culture del Vicino Oriente Antico. In Israele questa stesura <strong>dei</strong><br />

proverbi in raccolte organizzate, come si faceva anche in Mesopotamia e in Egitto, conobbe<br />

un avvenire ancora migliore, d<strong>al</strong> momento che queste raccolte furono accettate come t<strong>al</strong>i e<br />

trasmesse fedelmente lungo i secoli fino a noi. Così si conservava la tradizione, che <strong>al</strong>la fine<br />

acquistò un carattere religioso, d<strong>al</strong> momento che Pr fa parte della Bibbia, è parola di Dio.<br />

6. IL FINE DELLA SAPIENZA<br />

Il fine primo della sapienza è di comprendere, è il sapere. Il mondo in cui vivevano gli antichi<br />

sfuggiva loro molto più che a noi, che beneficiamo di secoli di osservazione e di an<strong>al</strong>isi<br />

che arrivano fino <strong>al</strong>le scienze contemporanee in tutti i campi. Il primo scopo <strong>dei</strong> saggi era,<br />

ovviamente, quello di conoscere questo mondo in tutta la sua complessità: il mondo fisico, il<br />

mondo degli anim<strong>al</strong>i e soprattutto quello dell’uomo con il suo comportamento, le sue tendenze<br />

e le sue capacità. Essi erano convinti quanto noi che l’uomo, di fronte <strong>al</strong>la molteplicità <strong>dei</strong><br />

fenomeni e <strong>al</strong>la loro varietà, è capace di mettere il dito su ciò che è permanente, che si verifica<br />

sempre: in definitiva su una legge che governa il re<strong>al</strong>e fin nei dettagli. Quindi erano implicitamente<br />

convinti quanto noi che il re<strong>al</strong>e è governato da leggi precise e stabili. Intendevano<br />

conoscere il senso del re<strong>al</strong>e in cui ammettevano l’esistenza di un ordine. T<strong>al</strong>e sforzo non era


12 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />

certamente privo di esitazioni, di insuccessi, di contraddizioni; ma un po’ <strong>al</strong>la volta le cose si<br />

chiarivano.<br />

Apparentemente l’opera <strong>dei</strong> saggi era essenzi<strong>al</strong>mente profana. Ma l’uomo antico non pensava,<br />

come noi, che bisognasse distinguere o addirittura separare nettamente il mondo profano<br />

d<strong>al</strong> religioso: per loro il re<strong>al</strong>e costituiva un tutt’uno, il profano si mescolava <strong>al</strong> religioso e viceversa.<br />

Per questo nella loro ricerca si interessavano anche <strong>al</strong> comportamento mor<strong>al</strong>e dell’<br />

uomo e <strong>ai</strong> v<strong>al</strong>ori religiosi ammessi nella loro società. Ma lo facevano da saggi, da osservatori<br />

attenti e imparzi<strong>al</strong>i di questa parte del re<strong>al</strong>e, più che da difensori di tradizioni etiche e teologiche<br />

di cui i sacerdoti e i profeti avevano, con il re, la responsabilità.<br />

Tuttavia la scoperta e la formulazione delle leggi che reggono il re<strong>al</strong>e non era per loro uno<br />

scopo a sé stante. I saggi cercavano ciò che poteva <strong>ai</strong>utare l’essere umano ad orientarsi in questo<br />

mondo, a meglio vivere e a meglio agire. L’obiettivo della loro sapienza era il ‘saper vivere’,<br />

il ‘saper fare’. Una miglior conoscenza del re<strong>al</strong>e poteva certamente <strong>ai</strong>utare a riuscire nella<br />

vita, a equilibrarla e a darle armonia e felicità. E la ricerca di ciò non era né edonismo né egoismo,<br />

perché i saggi avevano capito che la felicità dell’uomo passava attraverso l’azione virtuosa<br />

e la rinuncia a se stessi. Anche l’agire mor<strong>al</strong>e e religioso aveva delle leggi e delle conseguenze.<br />

Trasmessa or<strong>al</strong>mente o per iscritto, ma soprattutto in quest’ultimo modo, la sapienza antica<br />

governava le attività della società e regolava i comportamenti e le controversie che sorgevano<br />

tra le persone o i gruppi. Nell’Africa nera i proverbi hanno ancora questa funzione, mentre nel<br />

mondo occident<strong>al</strong>e sono ridotti solitamente a semplici infiorettature stilistiche che ornano il<br />

discorso o lo scritto. Proprio perché aveva questa funzione regolatrice della società, la sapienza<br />

antica doveva essere trasmessa <strong>al</strong>la gioventù, nella cui formazione occupava una parte importante.<br />

Attraverso di essa i giovani imparavano i princìpi del comportamento e quanto poteva<br />

dare pienezza ed equilibrio <strong>al</strong>la loro vita. E tutto ciò era estremamente importante per quella<br />

parte della gioventù che doveva essere preparata ad assumere nella società i posti di responsabilità.<br />

Quella <strong>dei</strong> saggi era dunque un’opera di formazione e di educazione, e questo comportò<br />

ben presto il nascere di una scuola o accademia sotto la direzione di un maestro di sapienza.<br />

7. L’ATTEGGIAMENTO DEI SAGGI<br />

7.1. IL CONSIGLIO<br />

Il saggio non è né capo né sacerdote né profeta. Non comanda né in nome dello stato né in<br />

nome di Dio. Propone ciò che gli sembra di aver scoperto, espone ciò che sa, indica la via che<br />

secondo lui conduce <strong>al</strong>la pienezza di vita e sconsiglia quella che, in base <strong>al</strong>la propria esperienza,<br />

porta <strong>al</strong> f<strong>al</strong>limento. Il suo discorso descrive, indica, consiglia, suggerisce ma non comanda.<br />

7.2. I LIMITI DELLA SAPIENZA<br />

D’<strong>al</strong>tra parte il saggio percepisce i limiti del proprio sapere e della propria esperienza, d<strong>al</strong><br />

momento che sa di non essere padrone della re<strong>al</strong>tà e <strong>dei</strong> cuori cui si rivolge. E poi vuole anche<br />

ricordare i limiti di ogni sapere umano, perché essi pure fanno parte della sua conoscenza.<br />

Non c’è nulla di peggio di un uomo convinto di sapere tutto: «Vedi uno che si crede di essere<br />

saggio? C’è da sperare più d<strong>al</strong>lo stolto che da lui» (Pr 26,12). Molte cose ci sfuggono, ma esse<br />

sono nelle mani di colui che tutto governa; l’uomo propone e Dio dispone, dice il nostro<br />

proverbio: «All’uomo i progetti del cuore, ma d<strong>al</strong> Signore la risposta della lingua» (Pr 16,1).<br />

Ecco ancora due esempi più concreti: «La casa e la ricchezza si ereditano dagli avi: ma dono<br />

del Signore è una moglie intelligente» (Pr 19,14); «Si equipaggia il cav<strong>al</strong>lo per il giorno della<br />

lotta; ma <strong>al</strong> Signore appartiene la s<strong>al</strong>vezza» (Pr 21,31). L’uomo non è nemmeno sicuro che il


<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 13<br />

suo agire sia giusto: «Tutte le vie dell’uomo sono pure <strong>ai</strong> suoi occhi, ma chi esamina gli spiriti<br />

è il Signore» (Pr 16,2; 21‚2). Il saggio sa infatti che in definitiva noi siamo nelle mani di Dio:<br />

«D<strong>al</strong> Signore sono ordinati i passi dell’uomo: come può dunque l’uomo conoscere la sua via?»<br />

(Pr 20,24). La nostra sapienza, <strong>al</strong> limite, sta nel negare se stessa: «Non c’è sapienza né intelligenza<br />

né consiglio di fronte <strong>al</strong> Signore» (Pr 21,30).<br />

7.3. LA SAPIENZA DI DO<br />

Di qui ad affermare la sapienza stessa di Dio il passo era breve. Tuttavia, <strong>al</strong> contrario della<br />

Mesopotamia e dell’Egitto, Israele esitò a lungo prima di attribuire a YHWH la sapienza. La<br />

ragione va cercata probabilmente nel fatto che la sapienza appariva come una qu<strong>al</strong>ità profondamente<br />

umana. Eppure la donna di Tekoa, che andò a perorare davanti a Davide la causa di<br />

Ass<strong>al</strong>onne, riconobbe che il re aveva la sapienza dell’angelo di Dio (2Sam 14,20). È da Dio<br />

che S<strong>al</strong>omone ricevette la sapienza (1Re 3,12), come un tempo gli artigiani dell’esodo (Es<br />

31,3) tutta la loro abilità, e la stessa sapienza di S<strong>al</strong>omone venne percepita come una sapienza<br />

divina (1Re 3,28; 10,24). Ma probabilmente i testi che es<strong>al</strong>tano l’erede di Davide sono meno<br />

antichi di una frase di Is<strong>ai</strong>a a proposito di YHWH, quando il profeta criticava i consiglieri reg<strong>al</strong>i:<br />

«Anch’egli [il Signore] è saggio e causerà il disastro, non ritira le sue parole» (Is 31,2). Già<br />

prima dell’esilio si affermava che il re-messia sarebbe stato rivestito dello Spirito di YHWH,<br />

«spirito di sapienza e di discernimento...» (Is 11,2). Probabilmente però è solo dopo la distruzione<br />

di Gerus<strong>al</strong>emme (586), durante e dopo l’esilio (586-539), che <strong>al</strong>cuni rari testi affermarono<br />

esplicitamente la sapienza di Dio: «Egli ha fatto la terra con la sua potenza, ha stabilito il<br />

mondo con la sua sapienza e con la sua intelligenza ha steso i cieli» (Ger 10,12; 51,15; cfr. Pr<br />

3,19); «Quanto sono numerose le tue opere, o Signore! Tutte le h<strong>ai</strong> fatte con sapienza» (S<strong>al</strong><br />

104,24); e soprattutto: «In lui risiede la sapienza e la forza, sue sono la perspicacia e la prudenza»<br />

(Gb 12,13). Questa corrente andrà via via sviluppandosi.<br />

7.4. IL PROBLEMA DELLA RETRIBUZIONE<br />

È in definitiva in rapporto a Dio che i saggi affronteranno i grandi enigmi dell’esistenza<br />

umana. Senza dubbio <strong>al</strong>cuni proverbi antichi presentano delle <strong>al</strong>lusioni a una vita religiosa e<br />

mor<strong>al</strong>e in rapporto con YHWH: «Chi cammina nella sua rettitudine ha il timor di Dio, chi perverte<br />

la sua strada lo disprezza» (Pr 14,2); «Chi opprime il povero disonora il suo creatore, lo<br />

glorifica chi ha pietà dell’umile» (Pr 14,31); «Molti cercano i favori del capo, ma viene d<strong>al</strong><br />

Signore la sorte di ciascuno» (Pr 29,26). L’introduzione <strong>al</strong> libro <strong>dei</strong> Proverbi (Pr 1–9), che ris<strong>al</strong>e<br />

probabilmente <strong>al</strong> ritorno d<strong>al</strong>l’esilio, si fa più religiosa ed è lì che troviamo messo in evidenza<br />

il principio ben conosciuto: «L’inizio della sapienza è il timore del Signore» (Pr 9,10;<br />

cfr. Pr 1,7; S<strong>al</strong> 111,10; Sir 1,14). Ma questa introduzione, come del resto gli antichi proverbi,<br />

non mette in dubbio l’idea che Dio favorisce l’uomo giusto: «Il Signore non fa morire di fame<br />

un giusto, ma reprime l’ingordigia degli empi» (Pr 10,3) e «M<strong>al</strong>edizione del Signore sulla casa<br />

dell’empio, mentre benedice la dimora <strong>dei</strong> giusti» (Pr 3,33). L’evidenza di ciò che avviene<br />

sulla terra doveva far insorgere Gb e Qo contro questa dottrina classica. Fu la grande crisi della<br />

sapienza biblica: non è vero, dicono Gb e Qo, che quaggiù la felicità ricompensa la virtù e<br />

il vizio produce sventure durante questa vita. Questo problema della retribuzione individu<strong>al</strong>e<br />

non trova soluzione nemmeno nel Sir, per il qu<strong>al</strong>e tutto si conclude con la morte. Eppure scrive:<br />

«Chi teme il Signore si troverà bene <strong>al</strong>la fine, nel giorno della sua morte sarà benedetto»<br />

(Sir 1,11). Ma non possiamo dedurre da questo testo, conosciuto solo nella sua versione greca,<br />

che Ben Sira attendesse una retribuzione dopo la morte. Nei libri sapienzi<strong>al</strong>i della Bibbia questa<br />

soluzione appare solo in Sap: «Le anime <strong>dei</strong> giusti sono nelle mani di Dio e nessun tormento<br />

le toccherà» (Sap 3,1; cfr. anche 3,13.15; 5,15), la loro sofferenza durante questa vita è<br />

una prova (Sap 3,5-6), la loro sterilità accettata virtuosamente avrà il suo frutto nell’<strong>al</strong>dilà


14 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />

(Sap 3,13-15). Solo questa fede in una retribuzione dopo la morte ridà serenità <strong>al</strong>la sapienza<br />

biblica.<br />

7.5. UNA RIFLESSIONE SULLA STORIA DELLA SALVEZZA<br />

Per giungere a questa dottrina l’autore di Sap integra nella sua riflessione l’esperienza storica<br />

di Israele. Già la riflessione di Pr 1–9 faceva eco <strong>al</strong>l’insegnamento di Dt e Ger. Qohelet si<br />

identificava a S<strong>al</strong>omone, giudicando la sua opera <strong>al</strong>la fine di una vita fastosa. Più esplicitamente<br />

Sir 16,24–17,14 e soprattutto Sir 44–49 rileggevano tutta la storia della s<strong>al</strong>vezza <strong>al</strong> modo<br />

di un saggio. Sap 7–9 riproponeva <strong>ai</strong> giovani l’esempio di S<strong>al</strong>omone; Sap 10–19 rileggeva<br />

gli eventi centr<strong>al</strong>i di Israele cominciando dagli eroi di Gen e soffermandosi a lungo sugli eventi<br />

dell’esodo. In tutti i casi, il patrimonio spiritu<strong>al</strong>e di Israele era fonte di insegnamento per<br />

il saggio. Per Sap, in particolare, l’esodo testimoniava come Dio protegge il giusto contro gli<br />

empi, servendosi delle forze del cosmo. Ciò che Dio fece un tempo, lo farà ancora in futuro.<br />

Rileggendo in questo modo la storia santa i saggi inauguravano modestamente quella che potremmo<br />

chiamare già una filosofia della storia.<br />

8. LA PERSONIFICAZIONE DELLA SAPIENZA NELL’AT 6<br />

8.1. I TESTI<br />

Alcuni testi sapienzi<strong>al</strong>i dell’AT emergono in modo speci<strong>al</strong>e per il fatto che non parlano<br />

semplicemente della sapienza umana, e neppure della sapienza di Dio – nel senso che Dio sarebbe<br />

un saggio – ma perché danno <strong>al</strong>la Sapienza una configurazione, una personificazione il<br />

cui significato è controverso. Questi testi hanno un’importanza teologica t<strong>al</strong>e da richiamare la<br />

nostra attenzione.<br />

8.1.1. Gb 28<br />

Considerata da molti esegeti come un’aggiunta del IV o III sec., questa pagina si inserisce<br />

tra il di<strong>al</strong>ogo <strong>dei</strong> tre amici con Giobbe (Gb 4–27) e l’apologia fin<strong>al</strong>e di quest’ultimo (Gb 29–<br />

31). Poema sapienzi<strong>al</strong>e di un afflato evidente, Gb 28 pone la questione radic<strong>al</strong>e: «Ma la sapienza<br />

donde viene?» (Gb 28,12.20). Gli sforzi dell’uomo per scavare la terra e la roccia <strong>al</strong>la<br />

ricerca <strong>dei</strong> met<strong>al</strong>li non permettono di scoprirne la strada. Così pure la ricchezza non può servire<br />

da moneta di scambio per acquistarla. È che la Sapienza «è nascosta agli occhi di ogni vivente»<br />

(Gb 28,21). «Dio solo ne ha conosciuto la via» (Gb 28,23) quando organizzò<br />

l’universo; fu <strong>al</strong>lora che egli la vide, la scrutò (Gb 28,27). Un ultimo versetto, probabilmente<br />

ancora più tardivo, aggiunge: «...Dicendo <strong>al</strong>l’uomo: “Ecco, temere Dio, questa è sapienza”»<br />

(Gb 28,28). Così l’attività industri<strong>al</strong>e o commerci<strong>al</strong>e non conduce di per sé <strong>al</strong>la Sapienza. Di<br />

tutto ciò gli scambi tra Giobbe e i suoi amici non avevano detto nulla, eppure tutti i loro sforzi<br />

erano tesi a spiegare il perché della sofferenza di Giobbe. La loro ricerca di sapienza umana<br />

assomigliava in un certo modo <strong>al</strong>lo sforzo industri<strong>al</strong>e e commerci<strong>al</strong>e, ma senza successo, poiché<br />

il mistero restava intatto: quello della sofferenza dell’uomo e quello della giustizia di Dio.<br />

Nella sua forma origin<strong>al</strong>e, il poema intendeva ricordare tanto <strong>al</strong> lettore quanto <strong>ai</strong> partecipanti<br />

<strong>ai</strong> di<strong>al</strong>oghi precedenti che l’uomo è incapace di risolvere da solo il problema sollevato. La soluzione<br />

non è <strong>al</strong>la sua portata, resta di esclusivo dominio divino. Ma è qui che la Sapienza acquista<br />

rilievo, perché appare distinta da Dio e distinta d<strong>al</strong> mondo, ed è in funzione di essa che<br />

6 Sulla sapienza personificata cfr. R.E. MURPHY, L’<strong>al</strong>bero della vita. Una esplorazione della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e<br />

biblica, Brescia 1993, 171-191; M. GILBERT-J.N. ALETTI, La sapienza e Gesù Cristo, Torino 1982; G.<br />

SEGALLA, Le figure mediatrici di Israele tra il III e il I secolo a.C. La storia di Israele tra guida sapienzi<strong>al</strong>e e<br />

attrazione escatologica, in G.L. PRATO (ed.), Israele <strong>al</strong>la ricerca di identità tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C., in<br />

RStB (1989/1) 13-65.


<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 15<br />

Dio ha fatto ordine nel mondo. Dobbiamo <strong>al</strong>lora pensare che la Sapienza fosse intesa come<br />

un’astrazione dell’ordine cosmico, come il piano concepito da Dio e da lui messo in opera<br />

nell’organizzazione dell’universo? La cosa è ben possibile. Più tardi, tuttavia, l’ultimo versetto<br />

orientò verso un atteggiamento complementare da parte dell’uomo: a quest’ultimo non resta<br />

che venerare Dio, senza conoscere <strong>al</strong>tra sapienza, senza capire nulla oltre a questo. Il mistero<br />

di Dio e della Sapienza rimaneva intatto, ma l’uomo si sottomette attraverso una sapienza<br />

più umile.<br />

8.1.2. Pr 8–9<br />

Pr 1–9 introduce, probabilmente dopo l’esilio, le raccolte di antichi proverbi. Per tre volte<br />

la Sapienza entra in scena. Come Pr 1,20-33, ma in modo positivo, Pr 8 fa parlare la Sapienza<br />

<strong>al</strong>le porte della città, là dove la gente si riunisce per gli affari o semplicemente per incontrarsi<br />

(Pr 8,1-3). Il suo discorso è teso a giustificare l’ascolto che essa richiede a tutti. Innanzitutto<br />

ciò che ha da dire darà loro la chiave del discernimento e del ‘saper fare’, perché essa è portatrice<br />

della verità e della giustizia; es<strong>al</strong>ta dunque le qu<strong>al</strong>ità del proprio messaggio, senza tuttavia<br />

esplicitarlo (Pr 8,4-11). D’<strong>al</strong>tra parte è la Sapienza che assicura l’armonia nelle relazioni<br />

umane, accordando <strong>ai</strong> responsabili di governare saggiamente (Pr 8,12-21). Anche quando<br />

YHWH organizzò il cosmo, essa era accanto a lui come figlia primogenita, generata prima di<br />

ogni <strong>al</strong>tra opera (Pr 8,22-31). Ecco perché la Sapienza rinnova l’invito a prestarle ascolto per<br />

poter conoscere la beatitudine e la vita (Pr 8,32-36). Come la dea egiziana Ma’at, la Sapienza<br />

assicura l’ordine nella società, senza di essa non ci sarebbe nemmeno l’ordine nel cosmo, essa<br />

è verità e giustizia. Ma, a differenza di Ma’at, la Sapienza non è dea: essa viene da YHWH, la<br />

sua felicità sta nel vivere <strong>al</strong>la presenza di lui, trova la sua delizia nello stare con gli uomini.<br />

Simboleggia l’ordine soci<strong>al</strong>e, l’ordine cosmico e l’equilibrio person<strong>al</strong>e di ciascuno. Tuttavia<br />

Pr 8 non fa che spiegare le ragioni fondament<strong>al</strong>i per cui la Sapienza domanda di essere ascoltata.<br />

Infatti Pr 8 fa parte dell’introduzione a Pr 10–31: è lì, in quelle raccolte di proverbi, che<br />

si trova il contenuto del suo messaggio. Quindi Pr 8 lascia intendere che i proverbi riuniti nelle<br />

raccolte provengono da lei e che accoglierli è accogliere lei stessa: è il primo tentativo che<br />

la Bibbia fa per spiegare perché Pr 10–31 sono, come noi diciamo, ispirati.<br />

Pr 9,1-6 riprende, con l’immagine del banchetto, lo stesso messaggio. Avendo costruito il<br />

suo p<strong>al</strong>azzo la Sapienza, come un re che inaugura il proprio regno, invita tutti, e soprattutto<br />

quelli che ne hanno bisogno, a partecipare <strong>al</strong>la festa preparata nel suo p<strong>al</strong>azzo d<strong>al</strong>le sette colonne.<br />

Anche questa fin<strong>al</strong>e dell’introduzione <strong>al</strong>le sette raccolte di proverbi antichi vuol dire<br />

che è la Sapienza stessa ad avere in qu<strong>al</strong>che modo costruito la raccolta di Pr. Tutti sono invitati<br />

a consumare questo cibo, questa sapienza tradizion<strong>al</strong>e, a farla propria, per trovarvi la vita<br />

e la comprensione del re<strong>al</strong>e.<br />

8.1.3. Sir<br />

Già nella prima pagina della sua opera Ben Sira, verso il 200 a.C., pone la Sapienza: «Tutta<br />

la sapienza viene d<strong>al</strong> Signore, e con lui rimane per sempre» (Sir 1,1). La sapienza umana viene<br />

da Dio, di cui la Sapienza condivide l’esistenza. Questa Sapienza di Dio è sua creatura (Sir<br />

1,4); lui, «il solo sapiente» (Sir 1,6[8]; cfr. Rm 16,27), «l’ha riversata in tutte le sue opere, su<br />

ogni carne » (Sir 1,7-8[9-10] che completa Gb 28,27 attraverso Gl 3,1). La Sapienza non è <strong>al</strong>la<br />

portata degli sforzi dell’uomo (Sir 1,5[6]), è dono di Dio che «l’ha dispensata a quanti lo<br />

amano» (Sir 1,8[10]). In 4,11-19 Ben Sira sottolinea il ruolo educatore della Sapienza; questa,<br />

secondo il testo ebr<strong>ai</strong>co, tiene addirittura un discorso: farà passare il discepolo attraverso la<br />

prova, ma, così dice, «chi mi presta orecchio fisserà la sua dimora <strong>al</strong>l’interno del mio padiglione<br />

» (Sir 4,15). Sir 6,24-31 riprende il tema dell’educazione: il discepolo si sottometta <strong>al</strong><br />

giogo della Sapienza o, meglio, la insegua come si caccia la selvaggina: «Una volta afferrata,<br />

non la abbandonare. Alla fine otterr<strong>ai</strong> il suo riposo, si muterà per te in godimento» (Sir 6,27-<br />

28): Ben Sira parla dunque di rapporti di amore tra la Sapienza e il discepolo. Ma Sir 15,1 dà


16 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />

la chiave di lettura che Sir 24 svilupperà: «Chi prende in mano la tôrah, raggiunge la Sapienza».<br />

Infatti Sir 24, di cui manca il testo ebr<strong>ai</strong>co, propone un grande discorso della Sapienza,<br />

pronunciato probabilmente durante un’assemblea liturgica. La Sapienza ricorda che, uscita<br />

d<strong>al</strong>la bocca di Dio come sua parola creatrice e regnante su tutto l’universo, ha cercato dove<br />

stabilirsi. Il Signore le ha detto di stabilirsi in Giacobbe. A partire d<strong>al</strong> tempio di Sion essa si è<br />

progressivamente sviluppata, come un <strong>al</strong>bero di vita, fino a coprire tutta la terra santa; ha<br />

messo rami, dato fiori e profumo ed infine invita i suoi ascoltatori a gustare i suoi frutti.<br />

Ben Sira dà immediatamente la chiave di questo discorso: «Tutto ciò... è la legge» (Sir<br />

24,23), cioè la rivelazione, più che i codici di leggi o lo stesso Pentateuco. Questa rivelazione<br />

di Dio è stata fatta ad Israele, <strong>al</strong> suo interno si è sviluppata ed ogni figlio d’Israele deve nutrirsene,<br />

secondo l’invito di Dt 8,3 a nutrirsi della parola di Dio. In questo caso, più che in Pr<br />

9,1-6, è tutto il patrimonio religioso e spiritu<strong>al</strong>e, che Israele ha ricevuto da Dio, ad essere visto<br />

come Sapienza venuta da Dio (cfr. Dt 4,6; Esd 7,14.25).<br />

8.1.4. Bar 3,9–4,4<br />

Un’esortazione rivolta <strong>al</strong>la diaspora giud<strong>ai</strong>ca e di poco posteriore a Ben Sira riprende insieme<br />

i temi di Gb 28 e di Sir 24: la via della Sapienza è sconosciuta <strong>al</strong>l’uomo, solo Dio può<br />

rivelargliela. L’esortazione (3,9-14; 4,2-4) inquadra una domanda e la sua risposta. La domanda<br />

riprende quella di Gb 28: «Chi ha scoperto il suo luogo [della Sapienza]?» (Bar 3,15).<br />

La risposta è dapprima negativa (Bar 3,16-31): né i potenti né gli artisti né i loro discendenti<br />

né i saggi del Vicino Oriente pagano e nemmeno i giganti antidiluviani hanno conosciuto la<br />

via che conduce <strong>al</strong>la Sapienza. Viene quindi la risposta positiva: Dio solo, Signore supremo<br />

del cosmo, l’ha conosciuta e l’ha anche indicata ad Israele (Bar 3,31-38). L’autore chiude la<br />

sua risposta, come Sir 24,23, fornendo la chiave: la Sapienza è la tôrah, rivelata ad Israele.<br />

8.1.5. Sap 6–9<br />

Rileggendo 1Re 3,4-15, il racconto della preghiera di S<strong>al</strong>omone a Gabaon, l’autore, sulla<br />

soglia dell’era cristiana, inquadra la sua riflessione sulla Sapienza (Sap 7,22–8,1) con una evocazione<br />

della figura di S<strong>al</strong>omone ide<strong>al</strong>izzata <strong>al</strong> punto da poter essere identificata con ogni<br />

giovane lettore in ricerca della Sapienza: essa non può essere ottenuta da Dio che con la preghiera<br />

(Sap 7,7; 8,21; 9). Questo comporta che la si preferisca a tutti i beni (Sap 7,8-10) e la si<br />

ami come un uomo ama la propria moglie (Sap 8,2-18), e sarà essa a colmare il saggio di tutti<br />

i beni di cui è madre (Sap 7,11-12.21; 8,5-6). L’autore chiarisce tre aspetti della Sapienza: la<br />

sua natura è di una purezza t<strong>al</strong>e da penetrare ogni cosa fino <strong>al</strong> più profondo, in vista del bene<br />

(Sap 7,22-24); la sua origine è in Dio di cui è l’es<strong>al</strong>tazione, l’effluvio, l’irradiazione, lo specchio,<br />

l’immagine, e questo indica quanto la Sapienza dipenda da Dio da cui è inseparabile<br />

(Sap 7,25-26); la sua attività è tanto di ordine cosmico quanto di ordine mor<strong>al</strong>e e spiritu<strong>al</strong>e:<br />

essa governa l’universo in maniera benevola animandolo con la sua presenza e forma i santi<br />

(Sap 7,27–8,1). Un messaggio del genere va oltre i testi precedenti, completandone il senso.<br />

La Sapienza non è più inaccessibile, poiché la preghiera permette di ottenerla; non è più solo<br />

la tôrah, la rivelazione storica, ma è vista come una presenza interiore <strong>al</strong> cuore di chi<br />

l’accoglie; non è una semplice immagine dell’ordine del mondo, d<strong>al</strong> momento che l’autore,<br />

riferendosi ad una dottrina degli stoici, vede in essa la presenza stessa di Dio nel mondo.<br />

8.2. INTERPRETAZIONE<br />

In questi testi, soprattutto Pr 8–9; Sir 24; Sap 7–8, la Sapienza appare personificata. Come<br />

intendere questa personificazione? Il problema fondament<strong>al</strong>e è quello del rapporto di Dio con<br />

il mondo e gli uomini. Può la fede d’Israele concepire degli esseri intermediari? Parlando del<br />

Lógos, Filone lo pensava. Possiamo anche noi fare della Sapienza un intermediario o addirittura<br />

una persona? Attu<strong>al</strong>mente sono sempre più rari gli autori che propendono per questa so-


<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 17<br />

luzione. Ugu<strong>al</strong>mente non convince più la soluzione che fa della Sapienza un’ipostasi, perché<br />

in un modo o in un <strong>al</strong>tro un’ipostasi esige rispetto a Dio un’autonomia che i nostri testi non<br />

accordano <strong>al</strong>la Sapienza. Altri hanno preferito parlare di personificazione poetica di un attributo<br />

o di una virtù di Dio. Ma i nostri testi dicono di più, perché la Sapienza è generata da Dio<br />

(Pr 8,22), è sua creatura (Sir 24,8-9), si distingue da lui ma non può esistere senza di lui né<br />

separata da lui (Sap 7,25-26). Il problema di fondo è di sapere come esprimere trascendenza e<br />

immanenza divina. La Sapienza esprime, soprattutto in Sap 7–9, questa immanenza o presenza<br />

di Dio nel mondo e nelle anime <strong>dei</strong> giusti e, in quest’ultimo caso, non si è molto lontani d<strong>al</strong><br />

concetto cristiano di grazia. Ma questa presenza divina dà anche <strong>al</strong> mondo la sua coerenza<br />

(Sap 1,7), il suo senso, il suo significato. È a questa idea che potremmo ricondurre il concetto<br />

di ordine del mondo, utilizzato a proposito di Pr 8,22-31, a meno di vedervi il progetto creatore<br />

e anche s<strong>al</strong>vatore di Dio, progetto considerato anteriore <strong>al</strong>la sua messa in opera. Dio si rende<br />

presente <strong>al</strong>la storia e particolarmente <strong>al</strong>la storia di Israele; e questa presenza noi la chiamiamo<br />

rivelazione, secondo il disegno origin<strong>al</strong>e di Dio. Così bisogna intendere, nel senso più<br />

pieno, il termine tôrah usato da Sir 24,23 e Bar 4,1.<br />

9. GESÙ E LA SAPIENZA NEL NT<br />

9.1. NEI VANGELI SINOTTICI<br />

Abbiamo visto sopra che, nel suo insegnamento, Gesù si esprimeva spesso come i saggi.<br />

Ma <strong>al</strong>cuni testi del NT, a cominciare d<strong>ai</strong> vangeli sinottici, vanno oltre, attribuendo a Gesù ciò<br />

che l’AT attribuisce <strong>al</strong>la Sapienza. Leggiamo in Mt 11,28-30: «Venite a me, voi tutti che siete<br />

affaticati e stanchi, ed io vi darò sollievo. Portate su di voi il mio giogo e imparate da me che<br />

sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è soave<br />

e leggero è il mio peso». Gesù parla come il saggio di Sir 51,23-26: «Avvicinatevi a me, o<br />

ignoranti, fermatevi nella mia casa per istruirvi..., sottomettete il collo <strong>al</strong> suo giogo [della Sapienza]»;<br />

ma in Sir 6,24-25.28 la medesima immagine del giogo è più esplicitamente applicata<br />

<strong>al</strong>l’insegnamento della Sapienza stessa: «Introduci i piedi nei suoi ceppi ed il collo nei suoi<br />

lacci. Abbassa le tue sp<strong>al</strong>le per caricartela, non infastidirti per i suoi legami... Alla fine otterr<strong>ai</strong><br />

il suo riposo, si muterà per te in godimento ». In Mt 12,42 (e Lc 11,31) leggiamo: «La regina<br />

del sud risorgerà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; poiché venne<br />

d<strong>al</strong>l’estremità della terra ad ascoltare la sapienza di S<strong>al</strong>omone; eppure c’è qui qu<strong>al</strong>cosa di più<br />

di S<strong>al</strong>omone». Ora, S<strong>al</strong>omone esprimeva una Sapienza ricevuta da Dio; possiamo dunque<br />

pensare che in Gesù si esprime una Sapienza più grande, la Sapienza stessa di Dio. Prevedendo<br />

la persecuzione <strong>dei</strong> suoi Gesù dice, secondo Mt 23,34: «Ecco che io mando a voi profeti,<br />

sapienti e scribi... », mentre Lc 11,49 scrive: «La Sapienza di Dio ha detto: “Manderò loro...”».<br />

Per Mt, Gesù ha autorità sui saggi, mentre in Lc la Sapienza di Dio sembra essere Gesù<br />

stesso che, in conclusione, fa proprie le parole della Sapienza di Dio: «Sì, ve lo ripeto...»<br />

(Lc 11,51). In Mt 11,19 leggiamo infine: «Alla Sapienza è stata resa giustizia d<strong>al</strong>le sue opere»;<br />

ora queste opere della Sapienza sono probabilmente le «opere del Cristo» (Mt 11,2). Questi<br />

testi, che dipendono probabilmente d<strong>al</strong>la stessa fonte comune a Mt e Lc (la fonte Q), sono<br />

molto discussi. Non affermano in modo esplicito che Gesù è la Sapienza, lo suggeriscono solamente.<br />

9.2. IN PAOLO<br />

Sono da prendere in considerazione soprattutto due testi che nuovamente assimilano Gesù<br />

<strong>al</strong>la Sapienza dell’AT.


18 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />

9.2.1. 1Cor 1–3<br />

Di fronte <strong>al</strong>le divisioni di una comunità avida di bei discorsi, Paolo proclama il Cristo crocifisso,<br />

scand<strong>al</strong>o per gli uni e follia per gli <strong>al</strong>tri ma potenza di Dio e sapienza di Dio (1Cor<br />

1,23-24); Dio infatti ha scelto ciò che è follia nel mondo per confondere i sapienti (1Cor<br />

1,27). La Sapienza di Dio è di andare <strong>al</strong> contrario delle pretese umane: s<strong>al</strong>vandoci per mezzo<br />

di un messia crocifisso, Dio ha manifestato la profondità della sua Sapienza. Paolo dunque<br />

non identifica Gesù con la Sapienza, ma vede nel mistero della croce la manifestazione della<br />

Sapienza di Dio: per i discepoli di Gesù, il Crocifisso diventa autentica Sapienza di Dio; la<br />

croce fa parte integrante della Sapienza s<strong>al</strong>vifica di Dio (1Cor 1,30; 2,7).<br />

9.2.2. Col 1,15-20<br />

La prima parte di questo inno (1,15-18a) ricorre, per parlare del Cristo Gesù – il Figlio<br />

prediletto del Padre, che ci s<strong>al</strong>va (Col 1,13) –, ad <strong>al</strong>cune espressioni che nell’AT sono attribuite<br />

<strong>al</strong>la Sapienza: «Egli è l’immagine del Dio invisibile» (cfr. Sap 7,26; Eb 1,3); «primogenito»<br />

(cfr. Pr 8,22); «in lui sono stati creati tutti gli esseri» (cfr. Pr 3,19; 8,30-31 [TM]; S<strong>al</strong> 104,24;<br />

Ger 10,12; Sap 7,21; 8,4-5; 9,2); «egli esiste prima di tutti» (cfr. Pr 8,22-25; Sir 1,4; 24,9; Sap<br />

9,9); «tutti in lui hanno consistenza» (cfr. Sap 1,7).<br />

9.3. IN GIOVANNI<br />

Gv 1 propone una dottrina simile: «Il Verbo era in principio presso Dio. Tutto per mezzo di<br />

lui fu fatto e senza di lui non fu fatto assolutamente nulla di ciò che è stato fatto. In lui era la<br />

vita» (Gv 1,2-4). Anche i testi dell’AT (cfr. Pr 8,22ss; Sir 24,3.9; Sap 9,1-2) parlavano della<br />

preesistenza della Sapienza: ma ancora una volta non vi è nessuna identificazione esplicita tra<br />

Gesù e la Sapienza. Così pure il discorso sul pane di vita (Gv 6,26-58) può essere compreso<br />

correttamente solo <strong>al</strong>la luce <strong>dei</strong> testi che paragonano il discorso della Sapienza ad un banchetto<br />

imbandito (Pr 9,1-6; Sir 24,19-21); questo v<strong>al</strong>e soprattutto per Gv 6,35-50: il messaggio di<br />

Gesù viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to e nutre come la Sapienza, come la parola di Dio (Dt 8,3; Sap 16,26), e<br />

questo v<strong>al</strong>e anche per Gv 4,13-14 (cfr. Sir 24,21); 7,37-38.<br />

9.4. INTERPRETAZIONE<br />

Perché questa discrezione del NT che m<strong>ai</strong> identifica in modo esplicito Gesù con la Sapienza,<br />

pur attribuendogli molto di quello che i testi dell’AT attribuivano <strong>al</strong>la Sapienza? La ragione<br />

è probabilmente questa: Gesù supera infinitamente la Sapienza qu<strong>al</strong>e potevano conoscerla i<br />

saggi dell’AT; la rivelazione del NT è <strong>al</strong>lo stesso tempo in continuità e in rottura con quella<br />

dell’AT; se il NT avesse semplicemente identificato Gesù con la Sapienza, avrebbe potuto<br />

mascherare la rottura.<br />

È solo in epoca successiva <strong>al</strong> NT che Gesù sarà esplicitamente detto Sapienza di Dio. Questo<br />

titolo cristologico è rimasto lungo tutto il corso della storia cristiana. Citiamo <strong>al</strong>cuni <strong>dei</strong><br />

testimoni più significativi: nel III sec. Origene, nel suo trattato Sui princìpi (I,2, PG 11, 130-<br />

145), sviluppa il suo discorso su Cristo fondandosi princip<strong>al</strong>mente su Sap 7,25-26. Il beato<br />

Enrico Suso (1295-1366) redasse verso il 1335 il suo <strong>Libro</strong> della Sapienza eterna in cui medita<br />

princip<strong>al</strong>mente sulla croce di Cristo. Verso il 1700, Louis-Marie Grignon de Montfort scrisse<br />

un breve trattato su La Sapienza eterna, in cui, sulla base di quasi tutti i testi scritturistici<br />

che abbiamo ricordato, «spiega semplicemente ciò che è la Sapienza, prima della sua incarnazione,<br />

durante l’incarnazione e dopo l’incarnazione e i mezzi per ottenerla e conservarla» (n.<br />

7). La liturgia romana, fin d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to Medioevo, rilegge Pr 8,22ss e Sir 24,3-12 per le feste della<br />

Vergine Maria, ma è per vedere nella madre di Dio, inseparabile d<strong>al</strong> suo Figlio, non la Sapienza,<br />

bensì il luogo in cui la Sapienza si stabilì <strong>al</strong> momento della sua incarnazione.<br />

D’<strong>al</strong>tra parte, continuando il movimento già avviato esplicitamente da Sir 24,23 e Bar 4,1,<br />

il giud<strong>ai</strong>smo riconosce nella tôrah la Sapienza di Dio. Il cristiano per parte sua proclama, nel-


<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 19<br />

la fede, che Dio si è rivelato pienamente in Gesù, presenza di Dio tra gli uomini, Emmanuele,<br />

ed è per questo che Gesù è detto Sapienza di Dio 7 .<br />

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />

CRENSHAW, J.L., Old Testament Wisdom. An Introduction, Atlanta 1981.<br />

Questo noto e prestigioso esperto della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e biblica offre un’opera esemplare,<br />

suggestiva e matura. Dopo una prima parte dedicata <strong>al</strong> mondo della sapienza e <strong>al</strong>la tradizione<br />

sapienzi<strong>al</strong>e, egli affronta la presentazione <strong>dei</strong> libri sapienzi<strong>al</strong>i includendo anche i s<strong>al</strong>mi<br />

didasc<strong>al</strong>ici. Due capitoli fin<strong>al</strong>i sull’eredità della sapienza, con eccellenti suggestioni, e sulla<br />

letteratura sapienzi<strong>al</strong>e egiziana e mesopotamica concludono quest’ottimo lavoro.<br />

CRENSHAW, J.L. (ed.), Studies in Ancient Israelite Wisdom, New York 1976.<br />

Si tratta di una compilazione con traduzione <strong>dei</strong> testi originariamente non in inglese <strong>dei</strong><br />

migliori articoli, a giudizio dell’editore, sulla sapienza pubblicati fino <strong>al</strong>la data di edizione.<br />

Apre il volume un eccellente prolegomenon, in cui il curatore presenta un compendio molto<br />

ben elaborato <strong>dei</strong> contenuti della tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica. L’opera comprende ventisette<br />

articoli firmati, tra gli <strong>al</strong>tri, da Alonso Schökel, Alt, Crenshaw, Di Lella, Fohrer, Gordis,<br />

Murphy, Skehan, Terrien, von Rad, Whybray, Zimmerli, ecc.<br />

DUESBERG, H. – FRANSEN, I., Les scribes inspirés, Paris 2 1966.<br />

È un lavoro eccellente divenuto meritatamente un classico. Opera completa ed erudita, presenta<br />

un esame approfondito della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e d’Israele, cui si aggiunge una esposizione<br />

della sapienza d’Egitto e della Mesopotamia, oltre a due capitoli fin<strong>al</strong>i sul «pessimismo<br />

ispirato» e «i misteri s<strong>al</strong>vifici della sapienza». L’opera conserva la propria grande utilità<br />

m<strong>al</strong>grado la farraginosità degli autori e <strong>al</strong>cune opinioni datate.<br />

GAMMIE, J.G. – PERDUE, L.G. (edd.), The Sage in Israel and the Ancient Near East, Winona<br />

Lake 1990.<br />

Il libro è un’ampia opera collettiva <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e hanno contribuito i migliori speci<strong>al</strong>isti statunitensi<br />

in letteratura sapienzi<strong>al</strong>e. Consta di sei parti: 1. il sapiente nella letteratura del Vicino<br />

Oriente Antico (sei contributi); 2. sedi soci<strong>al</strong>i e funzioni <strong>dei</strong> sapienti (nove contributi); 3. il<br />

sapiente nella letteratura sapienzi<strong>al</strong>e della Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca (sei contributi); 4. il sapiente in <strong>al</strong>tri<br />

testi biblici (quattro contributi); 5. il sapiente tra l’epoca precedente la chiusura del canone ebr<strong>ai</strong>co<br />

e il periodo postbiblico (otto contributi); 6. l’universo simbolico del sapiente (tre contributi).<br />

Una ricca bibliografia e quattro ampi indici chiudono quest’opera indispensabile.<br />

GESE, H., Lehre und Wirklichkeit in der <strong>al</strong>ten Weisheit, Tübingen 1958.<br />

Nella prima parte del libro, già divenuto un classico, intitolata «L’insegnamento sapienzi<strong>al</strong>e<br />

come tentativo d’interpretazione del mondo come ordine», l’autore mette a confronto la<br />

dottrina della maat degli insegnamenti egiziani con la percezione del mondo come ordine espressa<br />

particolarmente d<strong>ai</strong> Proverbi. La seconda parte è dedicata <strong>al</strong> libro di Giobbe, del qu<strong>al</strong>e<br />

l’autore cerca di dedurre il genere d’appartenenza e lo scopo sulla base di un’an<strong>al</strong>isi dell’an<strong>al</strong>oga<br />

letteratura sumero-accadica.<br />

7 Una sintesi teologica delle tradizioni sapienzi<strong>al</strong>i in G. VON RAD, La sapienza in Israele, Torino 1975. Sintesi<br />

più recenti: J.L. CRENSHAW, In Search of Divine Presente: Some Remarks Preliminaıy to a Theology of Wisdom,<br />

in Review and Expositor 74 (1977) 353-369 e soprattutto M. GILBERT, Qu’en est-il de la sagesse? ?, in J.<br />

TRUBLET (ed.), La sagesse biblique de l’Ancien au Nouveau Testament, Paris 1995, 19-60; cfr. anche R.E.<br />

MURPHY, L’<strong>al</strong>bero della vita, 145-170; F. FESTORAZZI, Riflessione sapienzi<strong>al</strong>e (antropologia ed escarologia), in<br />

Dizionario Teologico Interdisciplinare, 3, Torino 1977, 88-102 e L. MAZZINGHI, Sapienza, in G. BARBAGLIO - G.<br />

BOF - S. DIANICH (edd.), Teologia (Dizionari San Paolo), Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 2002, 1473-1491.


20 <strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica<br />

MURPHY, R.E., Wisdom Literature (FOTL 13), Grand Rapids 1981.<br />

È il volume XIII, primo in ordine di pubblicazione, della prestigiosa collana «The Forms of<br />

the Old Testament Literature» edita a cura di R. Knierim e G.M. Tucker. Purtroppo, ma in ossequio<br />

<strong>al</strong> canone protestante, l’opera non comprende il Siracide e la Sapienza; in compenso<br />

sono presenti Rut, Ester e il Cantico (!). La presentazione <strong>dei</strong> diversi libri biblici segue gener<strong>al</strong>mente<br />

uno stesso schema: 1. il libro in sé (struttura, genere, ambiente vit<strong>al</strong>e, intenzione); 2.<br />

singole unità, in cui vengono esposte le caratteristiche di ciascuna pericope (struttura, genere,<br />

ambiente vit<strong>al</strong>e e intenzione). Non si tratta quindi di un commento ma di uno studio strettamente<br />

form<strong>al</strong>e.<br />

PREUSS, H.D., Einführung in die <strong>al</strong>ttestamentliche Weisheitsliteratur, Stuttgart 1987.<br />

È un’introduzione molto aggiornata <strong>al</strong>la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e. Alla presentazione tradizion<strong>al</strong>e<br />

<strong>dei</strong> cinque libri sapienzi<strong>al</strong>i Preuss aggiunge due capitoli su «il pensiero sapienzi<strong>al</strong>e <strong>al</strong><br />

di fuori della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e» e «ruolo teologico della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e<br />

dell’Antico Testamento».<br />

SHEPPARD, G.T., Wisdom as a Hermeneutic<strong>al</strong> Construct (BZAW 151), Berlin-New York 1980.<br />

Tenendo conto dell’indubbio influsso esercitato d<strong>al</strong>la sapienza sull’intero corpus della<br />

Scrittura, l’autore si propone di esaminare la funzione letteraria e teologica della sapienza nel<br />

periodo esilico e postesilico. Partendo d<strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi del materi<strong>al</strong>e sapienzi<strong>al</strong>e canonico ed extracanonico,<br />

egli giunge <strong>al</strong>la conclusione che nel processo di «redazione canonica» di <strong>al</strong>cune<br />

parti dell’Antico Testamento si osserva un’interpretazione in senso sapienzi<strong>al</strong>e di tradizioni<br />

originariamente non sapienzi<strong>al</strong>i.<br />

SCHMID, H.H., Wesen und Geschichte der Weisheit, Berlin 1966.<br />

Secondo quanto afferma nell’introduzione dell’opera, l’autore cerca di stemperare le accuse<br />

rivolte <strong>al</strong>la sapienza di essere «utilitaristica, eudemonistica, razion<strong>al</strong>istica, originariamente<br />

profana, solo tardivamente religiosa, astorica e atempor<strong>al</strong>e» (p. 3). In vista di ciò si propone<br />

una ricerca suddivisa in tre parti: 1. Egitto: fonti, struttura fondament<strong>al</strong>e della sapienza egiziana,<br />

storia della sapienza nel contesto della storia dell’Egitto; 2. Mesopotamia: fonti, storia della<br />

sapienza nel periodo sumerico, la sapienza del periodo accadico, la crisi della sapienza; 3.<br />

Israele: teologizzazione della sapienza, antropologizzazione della sapienza, elementi antichi<br />

presenti nella forma storico-sapienzi<strong>al</strong>e tarda della sapienza israelitica. L’opera si conclude<br />

con una cinquantina di pagine dedicate <strong>al</strong>le fonti sapienzi<strong>al</strong>i egiziane e mesopotamiche. Opera<br />

classica, imprescindibile.<br />

VON RAD, G., La sapienza in Israele, Torino 1975 (1 a rist. Genova 1990; 3 a rist. 1995).<br />

È senza dubbio il miglior compendio tematico della sapienza israelitica composto finora.<br />

L’autore non segue la presentazione convenzion<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> libri sapienzi<strong>al</strong>i – soltanto <strong>al</strong>la fine le<br />

dedica un capitolo – ma approfondisce lo studio della visione del mondo e dell’uomo <strong>dei</strong> sapienti<br />

d’Israele. La riflessione è profonda ed equilibrata. Von Rad ha assunto tutto lo spirito<br />

umanistico necessario per affrontare la riflessione umanistica dell’Antico Testamento.<br />

WESTERMANN, C., Wurzeln der Weisheit. Die ältesten Sprüche Israels und anderer Völker,<br />

Göttingen 1990.<br />

Come suggerisce il sottotitolo, l’opera è incentrata essenzi<strong>al</strong>mente sul libro <strong>dei</strong> Proverbi.<br />

Westermann studia le forme proverbi<strong>al</strong>i meramente espositive o dichiarative (Aussagesprüche),<br />

le istruzioni imperative e i poemi, e infine il passaggio d<strong>al</strong> detto sapienzi<strong>al</strong>e (Weisheitsspruch)<br />

<strong>al</strong> poema didasc<strong>al</strong>ico (Lehrgedicht). L’autore dedica un capitolo <strong>ai</strong> detti sapienzi<strong>al</strong>i<br />

attribuiti a Gesù e un <strong>al</strong>tro <strong>al</strong> rapporto Dio-uomo nell’antica sapienza proverbi<strong>al</strong>e. L’opera<br />

termina con un’appendice sulla letteratura proverbi<strong>al</strong>e di Sumer, Egitto, di <strong>al</strong>tri popoli africani<br />

e di Sumatra.


<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la tradizione sapienzi<strong>al</strong>e biblica 21<br />

WHYBRAY, R.N., The Intellectu<strong>al</strong> Tradition in the Old Testament (BZAW 135), Berlin-New<br />

York 1974.<br />

L’opera è essenzi<strong>al</strong>mente uno studio sulla terminologia della sapienza nell’Antico Testamento,<br />

in particolare sui lessemi ˙ākām e ˙okmâ. L’autore intende raggiungere il nucleo essenzi<strong>al</strong>e<br />

di ciò che intende l’Antico Testamento quando parla di «sapienti» e «sapienza». Anche<br />

se <strong>al</strong>cune sue conclusioni sono state duramente criticate, l’opera ha tracciato un solco importante<br />

per ulteriori approfondimenti più rigorosi sul piano metodologico.<br />

Bibliografia in it<strong>al</strong>iano [a cura di L. MAZZINGHI, in Parole di Vita, 48/6 (2003) 43]<br />

Anzitutto l’opera fondament<strong>al</strong>e già ricordata, di livello molto elevato, ma ancora davvero<br />

molto importante per la comprensione della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e biblica, di G. VON RAD, La<br />

sapienza in Israele, il cui origin<strong>al</strong>e tedesco è del 1970, e più volte ristampato in It<strong>al</strong>ia da Marietti<br />

(TO) a partire d<strong>al</strong> 1975.<br />

A un primo livello, di carattere divulgativo, ma <strong>al</strong>lo stesso tempo serio e documentato, può<br />

essere utile leggere il testo di A. NICCACCI, La casa della sapienza. Voci e volti della sapienza<br />

biblica, San Paolo, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 1990, che insiste molto sul rapporto tra la sapienza<br />

biblica e la sapienza <strong>dei</strong> popoli vicini. Utilissimo è il libro recente di M. GILBERT, La Sapienza<br />

del cielo. Proverbi, Giobbe, Qohèlet, Siracide, Sapienza, San Paolo, Cinisello B<strong>al</strong>samo<br />

(MI) 2005.<br />

Utile è anche il libretto di M. GILBERT - J.-N. ALETTI, La sapienza e Gesù Cristo (Bibbiaoggi<br />

21), Gribaudi, Torino 1987, con uno sguardo anche <strong>al</strong> Nuovo Testamento.<br />

A un secondo livello, più impegnativo, segn<strong>al</strong>o prima di tutto la voce «Sapienza» curata da<br />

M. GILBERT nel Nuovo dizionario di teologia biblica, Paoline, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 1998,<br />

1427-1442, oltre a due testi di studio, R.E. MURPHY, L’<strong>al</strong>bero della vita. Una esplorazione<br />

della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e biblica, Queriniana, Brescia 1993, t<strong>al</strong>ora un po’ pesante, e il più<br />

completo manu<strong>al</strong>e curato da V. MORLA ASENSIO, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i ed <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong><br />

<strong>al</strong>lo studio della Bibbia 5), P<strong>ai</strong><strong>dei</strong>a, Brescia 1997.<br />

Una panoramica glob<strong>al</strong>e, di taglio teologico, sulla letteratura sapienzi<strong>al</strong>e biblica è contenuta<br />

nella voce curata da L. MAZZINGHI, «Sapienza», in G. BARBAGLIO - G. BOF - S. DIANICH<br />

(edd.), Teologia (Dizionari San Paolo), San Paolo, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI) 2002, 1473-1491.<br />

Per completare questo quadro, ricordo <strong>al</strong>cuni testi di taglio divulgativo e <strong>al</strong>lo stesso tempo<br />

di carattere spiritu<strong>al</strong>e, che provano ad indicare <strong>al</strong>cune conseguenze per la vita <strong>dei</strong> credenti che<br />

scaturiscono d<strong>al</strong> metodo esperienzi<strong>al</strong>e proprio <strong>dei</strong> saggi di Israele; si tratta dell’opera di E.<br />

BEAUCAMP, I sapienti d’Israele o il problema dell’impegno, Paoline, Cinisello B<strong>al</strong>samo (MI)<br />

1991, e del libretto di G. DE CARLO, «Ti indico la via». La ricerca della sapienza come itinerario<br />

formativo, EDB, Bologna 2003.


1. PRESENTAZIONE D’INSIEME<br />

1.1. IL CONTESTO<br />

PROVERBI *<br />

Il lungo periodo dell’esilio in Babilonia, nel VI secolo a.C., per i deportati di Gerus<strong>al</strong>emme<br />

e di Giuda era stato il tempo della presa di coscienza e della conversione. Li accompagnavano<br />

sul difficile cammino i sacerdoti e i profeti. Fra questi c’erano Ezechiele e il secondo Is<strong>ai</strong>a.<br />

Dopo che nel 538 Ciro aveva autorizzato il ritorno <strong>al</strong> loro paese, la comunità, progressivamente<br />

rimpatriata, si mise a s<strong>al</strong>vare d<strong>al</strong>la rovina tutto quel che ancora era possibile. Si cominciò<br />

così a recuperare, sistemandolo, tutto il patrimonio letterario e religioso ricevuto dagli avi.<br />

Fu in quell’epoca che assunse la sua forma definitiva il Pentateuco, la Legge mos<strong>ai</strong>ca, cosiddetta<br />

poiché Mosè ne è la figura dominante. Lo stesso si fece con i profeti, fin<strong>al</strong>mente riconosciuti<br />

come t<strong>al</strong>i e accettati, i cui scritti, raccolti e riletti, vennero posti sotto il nome d’ognuno.<br />

Fra i re, di cui una narrazione ricordava fatti e gesta (1Sam – 2Re), l’attenzione si concentrò<br />

soprattutto su Davide e S<strong>al</strong>omone. Il nome del primo venne unito <strong>ai</strong> S<strong>al</strong>mi, mentre sotto il<br />

nome del secondo, il sapiente per eccellenza, secondo la narrazione di 1Re 3, si mise l’insieme<br />

della sapienza che fu possibile recuperare e organizzare; fu così che venne costituito il libro<br />

<strong>dei</strong> Proverbi, che ebbe per titolo: «Proverbi di S<strong>al</strong>omone, figlio di Davide, re d’Israele»<br />

(Pr 1,1).<br />

1.2. LA STRUTTURA DEL LIBRO<br />

Dopo una lunga introduzione (Pr 1–9), composta per l’occasione, furono inserite sette collezioni<br />

di proverbi; a mo’ di conclusione, si pose il ritratto della «donna forte» (Pr 31,10-31),<br />

anch’esso tracciato d<strong>ai</strong> redattori nel tempo dopo l’esilio.<br />

La differenza di stile fra le sette collezioni e la loro cornice (introduzione e conclusione)<br />

s<strong>al</strong>ta agli occhi. La cornice, su cui torneremo, è fatta di lunghi testi, mentre le sette collezioni<br />

raccolgono il più delle volte semplici proverbi o detti sapienzi<strong>al</strong>i, appena un poco elaborati.<br />

Ecco la lista delle sette collezioni:<br />

«Proverbi di S<strong>al</strong>omone» (Pr 10,1–22,16),<br />

«Parole di sapienti» (Pr 22,17–24,22),<br />

«Anche queste sono parole <strong>dei</strong> sapienti» (Pr 24,23-34),<br />

«Ecco ancora <strong>dei</strong> proverbi di S<strong>al</strong>omone, trascritti dagli uomini di Ezechia, re di Giuda» (Pr 25–29),<br />

«Parole di Agùr, figlio di Jakè, da Massa...» (Pr 30,1-14),<br />

una collezione senza titolo di proverbi numerici (Pr 30,15-33),<br />

«Parole di Lemuèl, re di Massa, che gli insegnò sua madre» (Pr 31,1-9).<br />

Questa lista permette molte osservazioni. Sei collezioni hanno un titolo, messo in testa.<br />

Soltanto quella <strong>dei</strong> proverbi numerici non ha titolo, ma anche l’antica versione greca <strong>dei</strong> Settanta,<br />

che la colloca in <strong>al</strong>tro punto, ne rivendica l’autonomia. Il fatto di maggiore importanza è<br />

il rilievo che vien dato <strong>ai</strong> proverbi attribuiti direttamente o indirettamente a S<strong>al</strong>omone. Essi<br />

costituiscono l’intel<strong>ai</strong>atura di tutto l’insieme, sia per l’ampiezza delle due collezioni – prendono<br />

i tre quarti del tot<strong>al</strong>e – sia per il posto attribuito <strong>al</strong>la prima, la più lunga, che così giustifica<br />

il titolo del libro. Viene anche precisato che la seconda collezione s<strong>al</strong>omonica aveva già<br />

ricevuto una sistemazione prima dell’esilio, <strong>ai</strong> tempi del re Ezechia (716-687). Quanto <strong>al</strong>le<br />

collezioni minori, le prime due vengono d<strong>ai</strong> sapienti, mentre le due ultime che hanno un titolo<br />

non sono d’origine israelitica: i loro autori, Agùr e Lemuèl, erano d’una tribù del nord dell’<br />

Arabia; inserendole, la Bibbia accoglieva una sapienza straniera. Infine, tutte le collezioni mi-<br />

* M. GILBERT, La Sapienza del cielo, Cinisello B<strong>al</strong>samo 2005, 17-58.


Proverbi 23<br />

nori presentano <strong>dei</strong> testi più elaborati del semplice proverbio, che invece perlopiù ricorre, in<br />

forma di distico, nelle due collezioni s<strong>al</strong>omoniche.<br />

1.3. IL RUOLO DI SALOMONE<br />

Nella leggendaria narrazione della vita di S<strong>al</strong>omone si legge questo passo: «Egli parlò delle<br />

piante, d<strong>al</strong> cedro che sta in Libano <strong>al</strong>l’issopo che cresce sui muri; parlò anche <strong>dei</strong> quadrupedi,<br />

degli uccelli, <strong>dei</strong> rettili e <strong>dei</strong> pesci» (1Re 5,13). Cosa significa? Secondo la Bibbia, è a<br />

Davide che le dodici tribù d’Israele debbono la loro costituzione in un solo Stato. Davide il<br />

v<strong>al</strong>oroso, figura affascinante, più conquistatore che amministratore. Fu <strong>al</strong> suo figlio e successore<br />

S<strong>al</strong>omone che toccò invece il compito d’organizzarlo, quello Stato, di creare un’amministrazione,<br />

stabilire delle relazioni internazion<strong>al</strong>i e costruire il tempio. Ciò che Davide creò e<br />

inaugurò, S<strong>al</strong>omone consolidò, e la pace assecondò i suoi piani. Si può anche ritenere che sia<br />

stato lui a fare un primo inventario di ciò che il nuovo Stato, una volta affermatosi, aveva a<br />

disposizione. Ma <strong>al</strong>lora il passo che abbiamo citato diventa chiaro: S<strong>al</strong>omone fece censire tutta<br />

la flora e la fauna del paese. Progetto probabilmente utilitaristico, ma che fu anche, <strong>al</strong>la<br />

maniera di quei prospetti sempre in uso <strong>ai</strong> nostri giorni che descrivono tutti i fiori o tutti i funghi<br />

delle nostre regioni, un tentativo di cat<strong>al</strong>ogazione. Le grandi civiltà confinanti, in Egitto e<br />

in Mesopotamia, facevano simili rilevamenti, che erano scienza bella e buona, ma con i qu<strong>al</strong>i<br />

si prendeva pure conoscenza dell’ambiente natur<strong>al</strong>e. E sarebbe anche abbastanza norm<strong>al</strong>e che<br />

non sia stato proprio S<strong>al</strong>omone a farli direttamente, ma ne abbia incaricato l’amministrazione,<br />

composta di persone competenti da lui nominate.<br />

Per<strong>al</strong>tro, la narrazione della venuta a Gerus<strong>al</strong>emme della regina di Saba (1Re 10,1-13) deve<br />

riferirsi a un qu<strong>al</strong>che accordo, concluso fra lei e S<strong>al</strong>omone, di autorizzazione <strong>al</strong> passaggio di<br />

carovane. Ebbene, le relazioni internazion<strong>al</strong>i suppongono, in coloro che le stabiliscono e le<br />

praticano, una cultura aperta agli <strong>al</strong>tri. Non possiamo immaginarci che il piccolo Stato ebr<strong>ai</strong>co<br />

potesse sopravvivere in mezzo a grandi nazioni d<strong>al</strong>le civiltà già multisecolari senza che a Gerus<strong>al</strong>emme<br />

qu<strong>al</strong>cuno non si preoccupasse di ricavare tutto il beneficio che si poteva d<strong>al</strong>le culture<br />

dominanti dell’epoca. Se così non fosse stato, un’amministrazione centr<strong>al</strong>e sarebbe stata<br />

destinata <strong>al</strong> f<strong>al</strong>limento nei suoi rapporti con i potenti vicini. Anche se la Bibbia non lo dice,<br />

<strong>al</strong>la corte di Gerus<strong>al</strong>emme dovevano esserci persone che conoscevano le lingue e le culture<br />

<strong>dei</strong> vicini. Per metterla sul ridere, qu<strong>al</strong>e lingua usò S<strong>al</strong>omone per chiacchierare con la regina<br />

di Saba o la propria affascinante moglie, figlia del faraone? Ebbene, da secoli una gran parte<br />

delle culture del Vicino Oriente Antico era di tipo sapienzi<strong>al</strong>e. E anche sotto quest’aspetto –<br />

proprio come oggi si tenta, e con successo, di farlo in Africa, prima che sia troppo tardi e il<br />

patrimonio autoctono sparisca sotto la pressione della cultura moderna –, la corte di Gerus<strong>al</strong>emme<br />

dovette preoccuparsi di s<strong>al</strong>vaguardare, mettendola per scritto, nero su bianco, quella<br />

sapienza, fino a quel momento solamente popolare e or<strong>al</strong>e, come fra tutti i popoli. Anche la<br />

sapienza d’Israele andava inserita nel concerto delle <strong>al</strong>tre sapienze medio-orient<strong>al</strong>i fiorenti da<br />

tempo. Che sia stato S<strong>al</strong>omone l’ideatore di quel processo, è quel che la Bibbia suggerisce,<br />

appunto mettendo sotto il suo nome due raccolte di proverbi e anche dichiarando che pronunciò<br />

tremila proverbi (1Re 5,12).<br />

Ma «si presta soltanto <strong>ai</strong> ricchi», dice un nostro proverbio. E anche supponendo che S<strong>al</strong>omone<br />

sia veramente stato, storicamente parlando, <strong>al</strong>l’origine delle raccolte a lui attribuite, è<br />

ragionevole pensare che la raccolta materi<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> proverbi sia stata fatta, per suo ordine, da<br />

persone della sua corte, come più tardi avverrà sotto Ezechia (Pr 25,1): questo re avrebbe fatto<br />

raccogliere il patrimonio sapienzi<strong>al</strong>e portato a Gerus<strong>al</strong>emme dagli scampati della città di<br />

Samaria, distrutta nel 722 dagli Assiri. In ogni caso, la raccolta si fece, possiamo supporre, in<br />

tutti gli ambienti in cui la sapienza proverbi<strong>al</strong>e veniva trasmessa, cioè prima di tutto nelle famiglie,<br />

ma anche in campagna e nelle città e <strong>al</strong>la corte. Una volta fatta la raccolta, bisognava<br />

ancora metterla in bella forma, e un simile lavoro suppone gente del mestiere, i sapienti appunto.<br />

Il tutto, a servizio della volontà reg<strong>al</strong>e.


24 Proverbi<br />

Eppure, se la narrazione biblica della vita di S<strong>al</strong>omone è più leggendaria che storica, possiamo<br />

chiederci fino a che punto abbiamo il diritto d’attribuire a S<strong>al</strong>omone la paternità del<br />

progetto. In ogni caso è chiaro che furono i sapienti dell’epoca posteriore <strong>al</strong>l’esilio a dare <strong>al</strong><br />

libro <strong>dei</strong> Proverbi, e quindi anche <strong>al</strong>le raccolte cosiddette s<strong>al</strong>omoniche che esso trasmette, la<br />

forma definitiva che conosciamo oggi. Lo fecero utilizzando raccolte più antiche, <strong>al</strong>cune delle<br />

qu<strong>al</strong>i potevano ris<strong>al</strong>ire anche <strong>al</strong>l’inizio dell’epoca <strong>dei</strong> re? Chi potrà m<strong>ai</strong> provarlo? Sulla questione,<br />

gli esegeti sono divisi.<br />

Resta il fatto che la superiore sapienza di S<strong>al</strong>omone è rimasta nella tradizione. La Bibbia<br />

ebr<strong>ai</strong>ca gli attribuisce anche il Cantico <strong>dei</strong> cantici; anche l’anonimo autore che si presenta<br />

come il Qohelet si farà passare per S<strong>al</strong>omone; e <strong>al</strong>trettanto farà, nella Bibbia greca <strong>dei</strong> Settanta,<br />

l’anonimo autore del libro della Sapienza.<br />

1.4. DALL’ELABORAZIONE D’UN PROVERBIO ALLA RACCOLTA<br />

Un proverbio ha sempre dietro di sé una lunga preistoria. Ogni proverbio è anonimo. Il<br />

nome di chi per primo lo formulò resta sconosciuto, e tuttavia i proverbi sono il bene comune<br />

d’ogni cultura. Ma prima d’arrivare a quel punto, ci dovette essere una persona d’acuto spirito<br />

d’osservazione. Il legame tra un fatto e un <strong>al</strong>tro o la loro concomitanza o an<strong>al</strong>ogia deve aver<br />

c<strong>al</strong>amitato l’attenzione d’un osservatore sagace. Una volta risvegliata la curiosità, l’osservatore<br />

avrà poi voluto accertarsi della solidità del rapporto intuito, un rapporto che poteva avere<br />

per esempio la v<strong>al</strong>idità che c’è fra causa ed effetto. Solamente la ripetuta osservazione in medesime<br />

circostanze poteva confermare l’osservatore e dare <strong>al</strong>l’intuito rapporto la solidità d’un<br />

principio. Da quel momento esso potrà perciò applicarsi ad <strong>al</strong>tre situazioni in cui si osserverà<br />

sia il primo fatto che il secondo e collegarli fra loro.<br />

Ancora oggi, qu<strong>al</strong>siasi ricerca scientifica procede <strong>al</strong>la stessa maniera. Ma quanti presupposti,<br />

per una simile impresa! D<strong>al</strong> punto di vista dell’osservatore, più che curiosità e pazienza ci<br />

vuole fiducia nell’intelligenza umana. D<strong>al</strong>la molteplicità di osservazioni simili, questa può<br />

trarre un principio gener<strong>al</strong>e che le governa. Ma ciò suppone anche l’implicita convinzione, <strong>al</strong>trettanto<br />

s<strong>al</strong>da, che non tutto nel mondo è disordine e caos, ma che il mondo si mantiene, in<br />

una sua coerenza, in ordine. Il principio gener<strong>al</strong>e che spiega molteplici osservazioni simili non<br />

è che una parzi<strong>al</strong>e messa in luce di quell’ordine. Se nel mondo non ci fosse ordine, nessuna<br />

affermazione di carattere gener<strong>al</strong>e si potrebbe fare. Ogni scienza implica questa medesima<br />

convinzione che un ordine c’è, nel mondo, e che l’intelligenza umana può conoscerlo.<br />

Ma una volta conosciuto il principio che governa una molteplicità di fatti simili, bisogna<br />

ancora formularlo. Nel nostro caso, si tratta cioè di tradurre quel che è stato scoperto in una<br />

formula chiara e che colpisca l’immaginazione. E tutto si deve dire in maniera che il principio<br />

scoperto si possa utilizzare in future situazioni identiche, e nello stesso tempo esprimerlo il<br />

più sobriamente possibile – i proverbi eliminano tutte le parole inutili – e anche in maniera<br />

che suoni bene <strong>al</strong>l’orecchio: perché il proverbio prima si dice, poi si ripete e si capisce. Qui è<br />

l’arte a contare; è la condizione perché il proverbio si diffonda in una cultura e si trasmetta. In<br />

effetti, un proverbio si ripete perché esprime in maniera gradevole, condensata e spesso caustica<br />

una verità univers<strong>al</strong>e.<br />

Alla base di questa tappa c’è, nel sapiente, la certezza che ogni intelligenza umana può trar<br />

profitto e perfino gustare il frutto del travaglio della sua intelligenza. In questa sua certezza<br />

egli rimarca la fiducia che ha nell’intelligenza d’ognuno, e con ciò stesso afferma l’univers<strong>al</strong>ità<br />

della capacità presente in ogni uomo di conoscere delle verità.<br />

E ciò fino <strong>al</strong> giorno in cui, passando d<strong>al</strong>l’or<strong>al</strong>ità <strong>al</strong>la scrittura, la codificazione di proverbi<br />

in una collezione ne assicurerà la trasmissione da una generazione <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra per una via più sicura.<br />

E tuttavia, questo passaggio modifica il ruolo del proverbio. Perché, fino a quando lo si<br />

usava or<strong>al</strong>mente, si poteva farlo soltanto <strong>al</strong> momento giusto, in una situazione in cui doveva<br />

produrre effetto, per <strong>ai</strong>utare a prendere una decisione corretta. Ricordo quanto fui colpito il<br />

giorno in cui, durante un consiglio di famiglia per risolvere una drammatica situazione, mia


Proverbi 25<br />

madre, che perlopiù interveniva ben poco, si limitò semplicemente a citare questo proverbio:<br />

«Pena di denaro non uccide», e quello ci <strong>ai</strong>utò ad affrontare con maggiore serenità il problema.<br />

Dei casi così son rari, in Occidente, ma essi fanno ben intuire tutta la potenza d’un proverbio,<br />

maturo frutto d’una tradizione, nel dirimere questo o quel caso concreto. Ma quando i<br />

proverbi vengono riuniti in collezioni scritte, soprattutto poi quando le collezioni sono antiche,<br />

essi perdono ogni contatto con il contesto in cui avevano un senso immediato per diventare<br />

letteratura. Questa terza tappa è quella del nostro libro <strong>dei</strong> Proverbi. Possiamo ben cogliere<br />

tutta la differenza mettendo a confronto le collezioni di questo libro con il proverbio «I padri<br />

mangiarono uva acerba e i denti <strong>dei</strong> figli si <strong>al</strong>legarono» che Geremia (Ger 31,29) ed Ezechiele<br />

(Ez 18,2) commentarono in precise situazioni concrete.<br />

Altri problemi li pone l’organizzazione letteraria <strong>dei</strong> proverbi. Si può infatti riunirli seguendo<br />

ad esempio l’ordine <strong>al</strong>fabetico della prima parola – come capita per certe raccolte di<br />

proverbi africani –, magari poi <strong>al</strong>legando in appendice un indice tematico. Si può anche organizzarli<br />

d<strong>al</strong>l’inizio per temi. Le collezioni del libro <strong>dei</strong> Proverbi, che danno l’impressione<br />

d’averli giustapposti senza criteri, potrebbero in re<strong>al</strong>tà averli disposti secondo un ordine ben<br />

più preciso di quanto si pensi. In t<strong>al</strong> caso, è possibile che quella sistemazione abbia avuto un<br />

fine pedagogico: sistemati in sequenza, i proverbi avrebbero formulato, in forza del loro accostamento,<br />

un insegnamento che nessuno d’essi conteneva da solo nelle tappe precedenti. Raccolti<br />

per scritto e organizzati in piccoli gruppi, i proverbi potevano da quel momento servire<br />

<strong>al</strong>l’educazione e <strong>al</strong>la formazione.<br />

1.4.1. Un esempio: Pr 10,28–11,7<br />

Da una decina d’anni, <strong>al</strong>cuni esegeti si son dati a studiare l’organizzazione <strong>dei</strong> proverbi<br />

della prima collezione s<strong>al</strong>omonica. Già si sapeva che essa è fatta di due parti: Pr 10–15 e Pr<br />

16,1–22,16. È sulla prima di queste parti che si è concentrata l’attenzione. Ecco per esempio<br />

come Ruth Scor<strong>al</strong>ick 1 divide Pr 10–15 in cinque sezioni, che cominciano rispettivamente in<br />

Pr 10,1; 11,8; 12,14; 13,14 e 14,28. In una ricerca del genere non si deve certo far conto della<br />

numerazione <strong>dei</strong> capitoli, che ris<strong>al</strong>e <strong>al</strong> Medioevo, o <strong>dei</strong> versetti, che è del XVI secolo e non ha<br />

uno scopo scientifico migliore che quello del vostro numero di telefono; questa ripartizione è<br />

un puro espediente per rintracciare i vari passi. Nel suo minuzioso studio, Ruth Scor<strong>al</strong>ick si<br />

basa soprattutto sulle riprese di versetti in punti del testo lontani fra loro e su <strong>al</strong>tri indizi letterari.<br />

Ella addirittura divide quella che per lei è la prima sezione in <strong>al</strong>tre cinque sotto-sezioni,<br />

che cominciano rispettivamente <strong>ai</strong> versetti 1.6.13.22.28 di Pr 10. Lì in effetti c’è una ripresa<br />

di Pr 10,2b e Pr 11,4b: «ma la giustizia fa scampare <strong>al</strong>la morte»; il fatto poi che tre parole<br />

chiave si trovino sia in Pr 10,28 che in Pr 11,7 giustifica l’opzione di chiudere la prima sezione<br />

a Pr 11,7:<br />

«L’attesa <strong>dei</strong> giusti non è che gioia,<br />

la speranza <strong>dei</strong> cattivi perirà» (Pr 10,28).<br />

«La speranza del cattivo perisce con la sua morte,<br />

l’aspettativa delle ricchezze è annientata» (Pr 11,7).<br />

Questi due versetti formano un’inclusione che mette in rilievo la conclusione della sezione<br />

che comincia con Pr 10,1: essa è tutta incentrata sulla f<strong>al</strong>lace fiducia che il cattivo ripone nella<br />

ricchezza e nel potere, oggetti di cupidigia, a costo anche di menzogna e inganno. È<br />

l’antitesi di quanto affermava il doppione di Pr 10,2b e Pr 11,4b.<br />

1 Einzelspruch und Sammlung. Komposition im Buch der Sprichwörter Kapitel 10–15 (Beihefte zur Zeitschrift<br />

für die <strong>al</strong>ttestamentliche Wissenschaft 232), Berlin-New York 1995.


26 Proverbi<br />

Su questa base, di cui qui riportiamo soltanto l’essenzi<strong>al</strong>e, Hans Winfried Jüngling 2 an<strong>al</strong>izzò,<br />

nel 1999, la struttura interna di quella conclusione. Egli ci vede due piccoli insiemi: Pr<br />

10,29-32 e Pr 11,1-6. Ciascuno comincia con un proverbio che cita il nome di YHWH:<br />

«La via di YHWH è un bastione, per l’uomo integro; per i m<strong>al</strong>fattori è una rovina» (Pr 10,29).<br />

«Abominio, per YHWH, la bilancia f<strong>al</strong>sa, ma il peso giusto gli piace» (Pr 11,1).<br />

Il primo insieme continua con tre proverbi sul giusto:<br />

«M<strong>ai</strong> il giusto vacillerà,<br />

ma i m<strong>al</strong>vagi non abiteranno la terra.<br />

La bocca del giusto dice la sapienza,<br />

la lingua del m<strong>al</strong>vagio verrà estirpata.<br />

Le labbra del giusto conoscono la benevolenza,<br />

la bocca <strong>dei</strong> m<strong>al</strong>vagi, la perversità» (Pr 10,30-32).<br />

Il secondo insieme riprende dapprima i due temi dell’integrità (Pr 10,29) e della sapienza<br />

(Pr 10,31):<br />

«Comp<strong>ai</strong>a l’insolenza, verrà il disonore;<br />

ma negli umili si trova la sapienza.<br />

La loro integrità guida gli uomini retti;<br />

la loro perversità porta i traditori <strong>al</strong>la rovina» (Pr 11,2-3).<br />

Seguono <strong>al</strong>lora tre proverbi sulla giustizia e non più, come nel primo insieme, sui giusti:<br />

«Nel giorno del furore la ricchezza sarà inutile,<br />

ma la giustizia fa scampare <strong>al</strong>la morte.<br />

La giustizia dell’uomo integro gli spiana la via,<br />

il m<strong>al</strong>vagio soccombe nella sua m<strong>al</strong>vagità.<br />

La loro giustizia s<strong>al</strong>va gli uomini retti,<br />

i traditori cadono per la loro cupidigia» (Pr 11,4-6).<br />

Lasciamo <strong>al</strong> lettore di continuare le sue osservazioni sui vari proverbi che riprendono il<br />

tema princip<strong>al</strong>e di tutta la sezione. A me pare che questa proposta di lettura, di cui abbiamo<br />

presentato soltanto l’argomentazione fondament<strong>al</strong>e, sia abbastanza convincente. Quanto <strong>al</strong>la<br />

datazione di questi proverbi, il conflitto fra giusti e m<strong>al</strong>vagi è di tutti i tempi, anche quelli <strong>dei</strong><br />

re dell’antico Israele! Gli esegeti dovranno ancora continuare a indagare, dato che fin qui non<br />

c’è proprio nessun vero accordo su questi raggruppamenti in sezioni significative. L’esempio<br />

qui riportato ha semplicemente cercato di mostrare cosa potrebbe venirne, da simili ricerche.<br />

1.5. GLI ARGOMENTI AFFRONTATI<br />

I sapienti del libro <strong>dei</strong> Proverbi non si occuparono di scienza natur<strong>al</strong>e. Quando capita loro<br />

d’accennare a fenomeni atmosferici o del mondo anim<strong>al</strong>e, è a titolo di contesto o di confronto.<br />

Al centro delle loro riflessioni e delle loro indagini c’è l’uomo, in se stesso e in tutte le sue relazioni,<br />

compresa quella con Dio. Del cosmo e degli anim<strong>al</strong>i essi trattano per la loro somiglianza<br />

e vicinanza con gli esseri umani. E anche questo significa affermare, una volta di più,<br />

la coerenza del mondo. «Non c’è nebbia d’estate, non c’è pioggia <strong>al</strong>la mietitura, e neppure situazione<br />

onorevole per lo stupido. Il passero fugge via, la rondine s’invola; <strong>al</strong>lo stesso modo,<br />

la m<strong>al</strong>edizione gratuita non ha effetto» (Pr 26,1-2).<br />

È soprattutto l’uomo a interessare i sapienti <strong>dei</strong> Proverbi. E soprattutto sulle sue relazioni si<br />

sono concentrati. A cominciare – ma quest’ordine non pretende d’essere quello della frequenza<br />

né dell’importanza – d<strong>al</strong>le relazioni con l’autorità, in particolare il re (Pr 16,10-15; 25,2-7).<br />

Poi <strong>al</strong>l’interno della famiglia, a riguardo della sposa e della severa educazione <strong>dei</strong> figli. La<br />

presenza <strong>dei</strong> poveri nella società e il contrasto della ricchezza: i sapienti costatano, ma sanno<br />

2 «Proverbi e l’origine della tradizione sapienzi<strong>al</strong>e in Israele», in G. BELLIA - A. PASSARO (a cura di), <strong>Libro</strong><br />

<strong>dei</strong> Proverbi. Tradizione, redazione, teologia, Cas<strong>al</strong>e Monferrato 1999, 35-54.


Proverbi 27<br />

anche incoraggiare ad <strong>ai</strong>utare i miseri. Alcune categorie di persone vengono giudicate negativamente,<br />

come i pigri (Pr 26,13-16). Spesso i sapienti mettono in opposizione il sapiente e lo<br />

stupido, il secondo <strong>dei</strong> qu<strong>al</strong>i è ben poco affidabile, per mancanza d’educazione e d’autocontrollo;<br />

qui è spesso la parola a far da criterio: è una parola scervellata, oppure frutto di riflessione?<br />

Chi schernisce è ancora peggio, perché, sbr<strong>ai</strong>tando, si fa gioco di tutto: è impermeabile<br />

a ogni sapienza. E ancora più marcato è lo scarto fra il sapiente o il giusto e il m<strong>al</strong>vagio,<br />

prova che per questi maestri il comportamento mor<strong>al</strong>e rientrava nelle loro an<strong>al</strong>isi, come abbiamo<br />

visto a proposito di Pr 10,29–11,6.<br />

Siccome lo scopo <strong>dei</strong> sapienti è mostrare le vie della felicità, della maturazione person<strong>al</strong>e e<br />

del successo nella vita, essi tendevano – anche troppo – a vedere un rapporto di causa ed effetto<br />

fra la buona educazione o la virtù e una buona riuscita nella vita. Nel suo Topaze, Marcel<br />

Pagnol mette in scena un maestro di scuola che insegna <strong>ai</strong> suoi giovani scolari: «I beni m<strong>al</strong>amente<br />

acquisiti non danno profitto». È un proverbio che viene d<strong>al</strong> nostro libro biblico, precisamente<br />

Pr 10,2. Un certo numero di noti episodi della nostra epoca tenderebbe a confermarlo.<br />

E tuttavia, a prenderlo per un principio univers<strong>al</strong>e, le obiezioni di Giobbe hanno una certa<br />

pertinenza: vi sono persone che godono un lusso che si sono procurate con la fraudolenza. I<br />

sapienti si limitano sempre <strong>al</strong>la vita di quaggiù, dato che essi non hanno <strong>al</strong>tra prospettiva d’un<br />

<strong>al</strong>dilà che vada oltre il cupo sheòl in cui scendono tutti i defunti. L’idea d’una retribuzione<br />

impregna i sapienti. È il rapporto di causa ed effetto. Ma in questo contesto d’acquisizione<br />

fraudolenta, l’effetto si mostrerà smentito da t<strong>al</strong>uni fatti. A meno di dirci che le comunità umane<br />

dell’epoca erano il più delle volte di piccole dimensioni e l’anonimato delle nostre<br />

grandi città era <strong>al</strong>lora ignoto. Come potrebbe accadere, in un contesto tanto diverso d<strong>al</strong> nostro,<br />

che colui il qu<strong>al</strong>e disonestamente si arricchisce non desti <strong>dei</strong> sospetti che finiranno per rovinarlo?<br />

Perché i sapienti non sono degli ingenui. Il loro sapere è limitato, e ammetterlo, per essi, è<br />

già un vero sapere. «Vedi un uomo che si prende per un sapiente? C’è più speranza per un insensato»<br />

(Pr 26,12). Uno <strong>dei</strong> proverbi numerici ammette i limiti del sapere <strong>dei</strong> sapienti (Pr<br />

30,18-19). Anzi, di più ancora – <strong>al</strong>la maniera del nostro proverbio «L’uomo propone e Dio dispone»<br />

–, essi affermano che fra il progetto dell’uomo e la sua effettiva re<strong>al</strong>izzazione c’è un<br />

abisso d’imponderabili su cui l’uomo non ha <strong>al</strong>cuna presa, ed è qui che essi videro il ruolo di<br />

Dio, del Dio d’Israele nell’esercizio della sua sovranità univers<strong>al</strong>e. «All’uomo i progetti del<br />

cuore; da YHWH viene la risposta» (Pr 16,1). «Il cuore dell’uomo delibera la propria via, ma<br />

YHWH rende sicuri i suoi passi» (Pr 16,9). Queste osservazioni gener<strong>al</strong>i trovano a volte applicazioni<br />

concrete. Per esempio: «Una casa e <strong>dei</strong> beni sono eredità paterna, ma YHWH dà una<br />

donna di senno» (Pr 19,14): la propria felicità, l’uomo non la costruisce solamente su beni<br />

materi<strong>al</strong>i che eredita, ma ancora meglio la costruisce nell’armonia coniug<strong>al</strong>e; eppure, è sicuro<br />

che l’avrà, il giorno in cui si sceglie la sua sposa? Allo stesso modo, «si equipaggia il cav<strong>al</strong>lo<br />

per il giorno della battaglia, ma a Dio appartiene la vittoria» (Pr 21,31): si ha un bel prepararsi,<br />

e anche seriamente, <strong>al</strong>lo scontro, <strong>al</strong>la prova, l’esito resta sempre incerto: a chi toccherà la<br />

vittoria? È Dio a decidere. Qui una sapienza incredula avrebbe parlato di caso. Il sapiente biblico,<br />

invece, vede il suo Dio come il sovrano <strong>dei</strong> destini. A ben guardare, siamo noi i padroni<br />

delle nostre vite? Non è le<strong>al</strong>e ammettere quanto esse sfuggano <strong>al</strong> nostro controllo? «YHWH dirige<br />

i passi dell’uomo: come potrà l’uomo capire il suo destino?» (Pr 20,24). La distanza è t<strong>al</strong>e,<br />

fra la nostra sapienza e l’azione di Dio nelle nostre vite, che è prudente ripetere il proverbio:<br />

«Non c’è sapienza né intelligenza né consiglio che tenga di fronte a Dio» (Pr 21,30).<br />

Insomma, i sapienti <strong>dei</strong> Proverbi non esitano a mettersi «di fronte a YHWH». Qu<strong>al</strong> era il loro<br />

atteggiamento religioso? Una prima serie di proverbi a questo riguardo compare nella prima<br />

raccolta s<strong>al</strong>omonica: in essi si dice ciò che per YHWH è abominio. Abominio è una parola<br />

ben forte. In Deuteronomio implica l’esclusione d<strong>al</strong>la comunità, ma soprattutto sottolinea la<br />

tot<strong>al</strong>e incompatibilità fra il Dio d’Israele e ogni forma di comportamento depravato. Il Dio<br />

d’Israele è chiamato con il suo nome, ma ciò non significa che i sapienti vedano in lui soltanto


28 Proverbi<br />

il Dio della storica rivelazione fatta a Israele. Niente rimanda esplicitamente a essa. La ragione<br />

è che il Dio del loro popolo, agli occhi <strong>dei</strong> sapienti è anche il padrone assoluto dell’universo,<br />

<strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e niente sfugge di quel che c’è nel cuore dell’uomo. Ciò che per lui è abominevole<br />

sono l’orgoglio (Pr 16,5), i progetti e le macchinazioni perfide (Pr 11,20;15,26), la menzogna<br />

(Pr 12,22), le bilance f<strong>al</strong>se (Pr 11,1; 20,23), l’offerta cultu<strong>al</strong>e degli empi (Pr 15,8).<br />

L’atto mor<strong>al</strong>e, anche in quello che può avere di più intimo, non è dunque affatto separabile d<strong>al</strong><br />

suo rapporto fondament<strong>al</strong>e con la religione.<br />

Alcuni proverbi affermano che il modo di trattare il povero riguarda anche il suo Creatore:<br />

«Opprimere il povero è oltraggiare chi l’ha fatto; essere buono con l’infelice, invece l’onora»<br />

(Pr 14,31; vedi anche Pr 17,5; 19,17). Gesù sarà <strong>al</strong>trettanto chiaro: Mt 25,40.<br />

Un’<strong>al</strong>tra espressione dell’atteggiamento religioso si legge in tutto il libro <strong>dei</strong> Proverbi: il<br />

timore di Dio, eccetto nella seconda raccolta s<strong>al</strong>omonica e nelle raccolte complementari di Pr<br />

30,1–31,9. Ogni volta che l’espressione compare, potrebbe anche trattarsi di testi del tempo<br />

posteriore <strong>al</strong>l’esilio, il che lascerebbe intendere che l’importanza del timore del Signore sarebbe<br />

una scoperta piuttosto recente <strong>dei</strong> sapienti. Ma che scoperta! Perché il timore del Signore<br />

pare essere proprio l’atteggiamento di fondo che l’uomo deve tenere dinanzi a Dio. Per timore<br />

non dobbiamo intendere paura, come se la differenza fra l’Antico Testamento e il Nuovo<br />

fosse che il primo teme il suo Dio, mentre il secondo l’ama. Questo genere d’opposizioni è<br />

m<strong>al</strong>sano: non ha nessun serio fondamento. Del resto, vedremo che i sapienti d’Israele fanno<br />

procedere di pari passo timore e amore del Signore. Il timore del Signore è piuttosto simile <strong>al</strong>lo<br />

stato che descriveva Ignazio di Loyola nel suo Diario spiritu<strong>al</strong>e dopo un momento di tensione<br />

intempestiva: «Dammi l’umiltà amante, e il rispetto e la venerazione». Forse è quest’ultima<br />

parola a esprimere <strong>al</strong> meglio il senso del timore del Signore: venerare qu<strong>al</strong>cuno è un atteggiamento<br />

di fondo nei suoi riguardi; implica il rispetto e l’umiltà, ma anche l’amore, e ciò<br />

farebbe sì che per niente <strong>al</strong> mondo io potrei fare qu<strong>al</strong>cosa che dispiaccia o ferisca colui d<strong>al</strong><br />

qu<strong>al</strong>e ammetto di ricevere o aver ricevuto così tanto. Il legame fra il timore di Dio e l’agire<br />

buono è in re<strong>al</strong>tà indicato da questo o quel proverbio (Pr 15,33; 22,4). È il timore di Dio che<br />

spinge a evitare il m<strong>al</strong>e (Pr 16,6) e a camminare nella rettitudine (Pr 14,2): esso è <strong>al</strong>la base<br />

d’una retta condotta mor<strong>al</strong>e. È vero, è caparra di felicità e di benedizione (Pr 10,27; 14,26-27;<br />

19,23; 22,4; 23,17-18), ma a chi ne vive, esso basta (Pr 15,16).<br />

I sapienti avevano anche scoperto che c’è un rapporto fra la sapienza e il timore di Dio: «Il<br />

timore del Signore è una scuola di sapienza» (Pr 15,33). Il prologo del libro <strong>dei</strong> Proverbi fa<br />

ancora un passo in più, spiegando che «il timore del Signore è principio di sapere» (Pr 1,7),<br />

«inizio della sapienza» (Pr 9,10), il suo punto di partenza. Non si dà sapienza autentica, se<br />

l’uomo non si mette anzitutto nel timore del Signore, che <strong>al</strong>tro non è se non «la conoscenza di<br />

Dio» (Pr 2,5), cioè il fatto di riconoscerlo per quel che è. Il rifiuto d’ogni forma di m<strong>al</strong>e nel<br />

nostro agire (Pr 1,29; 8,13) ne è la conseguenza. I sapienti avevano insomma preso coscienza<br />

che ogni vera sapienza non sarebbe possibile se non sulla base d’un radic<strong>al</strong>e atteggiamento religioso<br />

d’umiltà e di venerazione dinanzi <strong>al</strong> mistero divino. Atteggiamento di disponibilità,<br />

d’apertura e d’accoglienza, che rende l’uomo permeabile a ciò che sta più in <strong>al</strong>to di lui.<br />

1.5.1. L’impatto delle sapienze straniere<br />

Di per sé, ogni sapienza è univers<strong>al</strong>e, internazion<strong>al</strong>e, e già abbiamo detto quanto la scoperta,<br />

nel XX secolo, delle sapienze del Vicino Oriente Antico abbia rinnovato lo studio <strong>dei</strong> libri<br />

sapienzi<strong>al</strong>i dell’Antico Testamento. Qui lo faremo vedere a proposito di Pr 22,17–23,14, dove<br />

le an<strong>al</strong>ogie con la sapienza egiziana di Amenemope vengono riconosciute da tutti. Se la Bibbia<br />

può, senza dirlo esplicitamente, subire l’influenza d’una sapienza straniera, può anche pretendere<br />

di far propria l’una o l’<strong>al</strong>tra. È il caso anche <strong>dei</strong> proverbi attribuiti ad Agùr (30,1-14) e<br />

a Lemuèl (31,1-9). Che son poi i passi di cui tratteremo adesso.


Proverbi 29<br />

1.5.1.1. Pr 22,17–23,14 e Amenemope<br />

Il manoscritto della Sapienza di Amenemope era stato portato d<strong>al</strong>l’Egitto <strong>al</strong> British Museum<br />

nel 1888 da Ernest A. T. W. Budge, ma venne pubblicato soltanto nel 1923. L’anno seguente<br />

Adolf Herman fece un elenco <strong>dei</strong> possibili accostamenti fra questo testo egiziano e Pr<br />

22,17s. Gli esegeti furono a lungo divisi sulla priorità da attribuire <strong>al</strong>l’uno o <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro <strong>dei</strong> due<br />

testi. Alcuni pensavano che fosse stata la raccolta biblica a influenzare l’autore egiziano; fino<br />

<strong>al</strong> giorno in cui, negli anni ’80, si scoprì un frammento di Amenemope che ris<strong>al</strong>iva probabilmente<br />

<strong>al</strong> XII secolo a.C. Diventò <strong>al</strong>lora evidente che non potevano essere stati i sapienti della<br />

Bibbia la fonte di quella Sapienza egiziana.<br />

Quel frammento, ben conservato, si compone di trenta sezioni, o «capitoli», preceduti da<br />

un’introduzione e seguiti da un colophon. Il tutto è scritto in forma di poesia, su ventotto fogli<br />

d’una ventina di versi ciascuno. L’autore, Amenemope, figlio di uno scriba, era intendente <strong>dei</strong><br />

possedimenti reg<strong>al</strong>i e incaricato, fra le <strong>al</strong>tre cose, <strong>dei</strong> cere<strong>al</strong>i e delle tasse. Il copista, che dice<br />

il suo nome, si chiamava Senu. Amenemope era pieno d’umanità. Mostra riserbo e autocontrollo.<br />

Trattando delle relazioni interperson<strong>al</strong>i, invita <strong>al</strong>l’onestà, ma anche <strong>al</strong>la generosità,<br />

<strong>al</strong>l’indulgenza, mentre gli ripugna la violenza, e così pure la voglia d’arricchire.<br />

Ebbene, <strong>al</strong>cuni passi della sapienza di Amenemope sono così simili a questo o quel proverbio<br />

della prima raccolta <strong>dei</strong> sapienti del libro <strong>dei</strong> Proverbi da far pensare a un’influenza del<br />

testo egiziano su quello biblico. Ecco <strong>al</strong>cuni esempi.<br />

Amenemope 3 comincia il suo insegnamento con queste parole:<br />

«Presta orecchio, ascolta questi consigli,<br />

applica il tuo cuore a capirli» (cap. 1, III, 9-10).<br />

Pr 22,17 fa <strong>al</strong>l’incirca lo stesso invito <strong>al</strong>l’inizio della raccolta. Il rispetto del povero (Pr<br />

22,22) viene raccomandato in un modo simile da Amenemope (cap. 2, IV, 4-5):<br />

«Guàrdati d<strong>al</strong> rubare a un infelice<br />

e d<strong>al</strong>l’irritarti con un debole».<br />

Evitare l’irascibile (Pr 22,24) è anche un consiglio d’Amenemope (cap. 9, XI,13-14):<br />

«Non fraternizzare con l’impulsivo;<br />

non fare conversazione con lui».<br />

Due volte i Proverbi chiedono di non «spostare il vecchio confine» che segna la parte <strong>dei</strong><br />

vari proprietari (Pr 22,28; 23,10). Lo stesso fa Amenemope (cap. 6, VII, 12-13; VIII, 9):<br />

«Non spostare i confini <strong>al</strong> bordo <strong>dei</strong> campi<br />

e non cambiare la posizione <strong>dei</strong> recinti».<br />

«Guàrdati d<strong>al</strong> distruggere i confini <strong>dei</strong> campi!».<br />

Pr 22,29 dice, d’un uomo che si presta, che egli entrerà <strong>al</strong> servizio del re. Amenemope<br />

conclude il suo insegnamento con questa osservazione (cap. 30, XXVII, 16-17):<br />

«Lo scriba esperto nel suo mestiere<br />

è degno d’essere uomo di corte».<br />

Pr 23,1-3 invita <strong>al</strong>la discrezione, quando si è a tavola con un grande personaggio. Amenemope<br />

dà lo stesso consiglio (cap. 23, XXIII, 13-18):<br />

«Non mangiare il pane in presenza d’un notabile<br />

e non portartelo <strong>al</strong>la bocca per primo.<br />

Se ti basta fingere di masticare,<br />

contèntati della tua s<strong>al</strong>iva...».<br />

Pr 23,4-5 sconsiglia di volersi arricchire, soprattutto in modo disonesto, e anche Amenemope<br />

diceva lo stesso (cap. 7, IX, 14-19):<br />

3 Alcuni testi di Amenemope si possono leggere in J. LEVÊQUE, Testi sapienzi<strong>al</strong>i dell’Antico Egitto, in<br />

L’Antico testamento e le culture del tempo, Roma 1990, 448-465.


30 Proverbi<br />

«Non stancarti per cercare l’abbondanza:<br />

quel che h<strong>ai</strong> ti basti.<br />

Se le ricchezze ti giungono per furto,<br />

non passeranno la notte con te.<br />

Al levar del sole non saranno più in casa tua:<br />

si vede il loro posto, ma esse non ci son più; [...]<br />

come le oche si son fatte delle <strong>al</strong>i<br />

e in cielo si sono involate».<br />

Questi accostamenti forse impressionano, però ognuna delle due sapienze mantiene le sue<br />

caratteristiche. Ma dobbiamo proprio intendere Pr 22,20 come un’<strong>al</strong>lusione a questa sapienza<br />

egiziana di «trenta capitoli» (Amenemope, cap. 30, XII, 7)? Il nostro testo ebr<strong>ai</strong>co non è chiaro,<br />

e quando si traduce: «non ho scritto per te trenta capitoli?» si fa un’ipotesi, non si formula<br />

una certezza. Tanto più che non c’è proprio accordo sul modo di dividere Pr 22,17–23,14 in<br />

trenta «capitoli».<br />

Inoltre, le due sapienze hanno un ordine diverso. Pr 22,17–23,14 non segue quello di Amenemope.<br />

E in più, questi dava consigli utili <strong>al</strong> funzionamento dello Stato. Quel che nell’uno<br />

era esplicito, nell’<strong>al</strong>tro diventa ass<strong>ai</strong> implicito, ma non assente.<br />

Il sapiente ebreo mantiene la sua origin<strong>al</strong>ità anche se s’ispira <strong>al</strong> collega egiziano. Questi elaborava<br />

con ampiezza il suo insegnamento; il sapiente biblico è più stringato, anche se poi<br />

aggiunge un testo sul rischio di prestare garanzia per <strong>al</strong>tri (Pr 22,26-27) che in Amenemope<br />

non c’era. L’uno e l’<strong>al</strong>tro sono religiosi e la citazione di YHWH in Pr 22,19.23 non deve stupire:<br />

l’acculturazione impone un adattamento <strong>al</strong>la propria credenza.<br />

Gli accostamenti non vanno più in là di Pr 23,11, mentre la prima raccolta <strong>dei</strong> sapienti biblici<br />

continua fino a Pr 24,22. In più, a partire da Pr 23,15 il testo dà un nuovo insegnamento<br />

in cui nulla fa pensare a un influsso di Amenemope. Influsso che poté invece farsi sentire in<br />

<strong>al</strong>tri passi del libro <strong>dei</strong> Proverbi. Un ben evidente esempio lo troviamo in Pr 15,16-17:<br />

«È meglio poco con il timore di Dio<br />

che molto con l’inquietudine.<br />

È meglio un piatto di legumi con l’affetto<br />

che un bue grasso con l’odio».<br />

Amenemope scriveva (cap. 6, IX, 5-9):<br />

«È meglio la povertà nella mano del dio<br />

che tante ricchezze in magazzino.<br />

È meglio un po’ di pane con la gioia nel cuore<br />

che delle ricchezze con tormenti».<br />

Che la sapienza di Amenemope abbia insomma avuto influenza sui sapienti d’Israele non si<br />

può negare. Ma questi ultimi non si sono m<strong>ai</strong> mostrati servili. La sapienza è internazion<strong>al</strong>e, e<br />

ciò lascia a ognuno il diritto d’essere egli stesso un sapiente origin<strong>al</strong>e e autentico.<br />

1.5.1.2. La preghiera di Agùr (Pr 30,7-9)<br />

Agùr non è personaggio noto da <strong>al</strong>tri testi. Sebbene il testo ebr<strong>ai</strong>co del titolo di questa raccolta<br />

(Pr 30,1-14), come di quella di Lemuèl, sia di difficile interpretazione, Agùr e Lemuèl<br />

appartenevano <strong>al</strong>la tribù di Massa. Questa è citata in Gen 25,14 tra i figli di Ismaele. Alcune<br />

iscrizioni assire parlano di essa a partire d<strong>al</strong> 734 a.C. e <strong>al</strong>tre segn<strong>al</strong>ano ancora la sua esistenza<br />

nel V secolo a.C. La si posiziona nel nord-ovest dell’Arabia, non lontano da Tema.<br />

I pochi proverbi messi sotto il nome di Agùr colpiscono per la loro discrezione e il loro rispetto<br />

<strong>dei</strong> deboli. L’insegnamento impressiona. Vi si legge, fra l’<strong>al</strong>tro, una bellissima preghiera,<br />

la sola trasmessa d<strong>ai</strong> Proverbi. Questo libro aveva riportato, nelle collezioni s<strong>al</strong>omoniche,<br />

appena tre proverbi sulla preghiera: Pr 15,8.29; 28,9. Affermavano che soltanto la preghiera<br />

del giusto, di colui che mette in pratica i precetti di rettitudine, viene ascoltata d<strong>al</strong> Signore.<br />

Escludevano l’efficacia del rito cultu<strong>al</strong>e quando non fosse accompagnato da un comportamento<br />

mor<strong>al</strong>e corretto e veramente religioso.


Ma ecco la preghiera attribuita ad Agùr (Pr 30,7-9):<br />

«Due cose da te imploro,<br />

e tu non rifiutarmele, prima che muoia:<br />

<strong>al</strong>lontana da me menzogna e f<strong>al</strong>sità,<br />

non darmi povertà né ricchezza,<br />

lasciami gustare la mia parte di pane,<br />

per timore che, colmato, mi volga <strong>al</strong>trove<br />

e dica: chi m<strong>ai</strong> è YHWH?<br />

oppure, indigente, rubi<br />

e me la prenda con il nome del mio Dio».<br />

Proverbi 31<br />

È veramente la preghiera d’un sapiente. Niente in essa fa una qu<strong>al</strong>che <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la storia<br />

sacra d’Israele, e per il buon motivo che è attribuita a uno straniero. E tuttavia, l’inserimento<br />

in un libro biblico fece sì che il nome del Dio d’Israele venisse citato.<br />

La costruzione di questa preghiera è quella <strong>dei</strong> proverbi numerici: l’orante chiede due cose.<br />

Ma subito sorge una difficoltà: qu<strong>al</strong>i sono, queste due cose? Il testo attu<strong>al</strong>e suppone che la<br />

prima richiesta sia evitare menzogna e f<strong>al</strong>sità. In t<strong>al</strong> caso, la seconda è <strong>al</strong>lora espressa in duplice<br />

maniera: negativamente, né povertà né ricchezza, e poi positivamente: soltanto la mia<br />

parte di pane. E tuttavia, si può esitare sull’autenticità della prima richiesta, così intesa: che<br />

c’entrano qui menzogna e f<strong>al</strong>sità? In re<strong>al</strong>tà, una preghiera d’an<strong>al</strong>oga struttura si trova nel libro<br />

di Giobbe (Gb 13,20-22):<br />

«Due cose soltanto concedimi,<br />

perché osi affrontare la tua presenza:<br />

scosta la tua mano che pesa su me<br />

e non spaventarmi con il tuo terrore,<br />

poi comincia a dibattere e io risponderò,<br />

o meglio, io parlerò e tu replicher<strong>ai</strong>».<br />

Qui abbiamo chiaramente due richieste complementari: negativamente, farla finita con<br />

l’oppressione, e poi, positivamente, avviare il dibattito. Ma <strong>al</strong>lora è possibile che in Pr 30,8 la<br />

frase «<strong>al</strong>lontana da me menzogna e f<strong>al</strong>sità», che appesantisce la preghiera e fa di tre stichi il<br />

versetto – ciò che è anorm<strong>al</strong>e –, sia un’antica aggiunta, non priva di senso, a ogni modo, come<br />

diremo. Se così fosse la preghiera di Agùr chiederebbe <strong>al</strong>lora due cose <strong>al</strong>trettanto complementari:<br />

scartare gli estremi e concedere proprio il giusto per vivere.<br />

Gli estremi di cui il sapiente si augura di non fare di persona l’esperienza sono la povertà e<br />

la ricchezza, cioè l’indigenza e il lusso. Perché sia l’una che l’<strong>al</strong>tro comportano <strong>dei</strong> rischi, di<br />

cui Agùr è ben conscio. Se fosse ricco, rischierebbe di dimenticare il Signore. Non è una tentazione<br />

perpetua? La ricchezza può bastare a tutto, per chi la possiede. Diventa un dio,<br />

«Mammona», diceva Gesù (Mt 6,24). Chi ci si attacca finirà per disprezzare Dio. La ricchezza<br />

dà potere; orgoglio e sufficienza non son lontani. Dio diventa un inutile sconosciuto. Così reagiva<br />

il faraone quando ritorse a Mosé: «Chi è YHWH?» (Es 5,2). E Giobbe farà dire <strong>ai</strong> ricchi<br />

senza fede né legge (Gb 21,15):<br />

«Cos’è Shadd<strong>ai</strong>, perché dobbiamo servirlo?<br />

Qu<strong>al</strong>e profitto ne abbiamo, a invocarlo?».<br />

La loro felicità, essi già la p<strong>al</strong>pano.<br />

Ma anche l’<strong>al</strong>tro estremo comporta <strong>dei</strong> rischi. La miseria spinge <strong>al</strong> furto. Anche se poi la<br />

nostra mor<strong>al</strong>e ammette che il poveraccio che ruba per sopravvivere, quando la sua vita è in<br />

gioco, non è di fatto colpevole: è la società ad averne la responsabilità, essa che l’abbandona.<br />

Nel profondo della sua angoscia, il povero può anche finire nella disperazione, o, peggio ancora,<br />

può prendersela con Dio che dà l’impressione di abbandonarlo lui pure. Un frammento<br />

del profeta Is<strong>ai</strong>a (8,21) descrive con queste parole la sorte di chi si ritrova il paese razziato:<br />

«Accadrà che la fame lo spingerà <strong>al</strong>la collera<br />

e <strong>al</strong>lora m<strong>al</strong>edirà il suo re e il suo Dio».


32 Proverbi<br />

La sposa di Giobbe non inviterà il marito, orm<strong>ai</strong> spogliato di tutto e colpito fin nella propria<br />

carne, a m<strong>al</strong>edire Dio (Gb 2,9)?<br />

Che uno sia ricchissimo o non abbia più nulla, è dunque grande il rischio che si <strong>al</strong>lontani<br />

da Dio. Forse è per questo che una glossa venne aggiunta: misconoscere il Signore quando si<br />

è diventati ricchi o m<strong>al</strong>edirlo nella miseria nera non è, per il credente, menzogna e f<strong>al</strong>sità? Per<br />

ciò Agùr chiede <strong>al</strong> suo Dio d’evitargli questi estremi, finché vive. A questa così lucida richiesta<br />

in negativo, Agùr ne oppone una seconda, positiva: «Lasciami gustare la mia parte di pane».<br />

Come non pensare a quell’<strong>al</strong>tra preghiera che Gesù insegna <strong>ai</strong> suoi discepoli: «Dacci oggi<br />

il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11)?<br />

Preghiera di sapiente, preghiera intelligente, perspicace, incisiva. Chi ardirà pronunciarla in<br />

tutta sincerità? Eppure, non sarebbe la via su cui il fossato sempre più profondo fra ricchi e<br />

poveri si ridurrebbe? Se il nostro sguardo si posa sull’attu<strong>al</strong>e situazione dell’intera umanità,<br />

l’urgenza d’una simile preghiera, per chi crede, è più che evidente.<br />

1.5.1.3. Le parole che Lemuèl ricevette da sua madre (Pr 31,1-9)<br />

È uno <strong>dei</strong> rari testi di cui la Bibbia attribuisce l’origine a una donna, per giunta straniera. È<br />

ragionevole supporre che Lemuèl, sconosciuto nel resto della Bibbia non meno di Agùr, appartenesse<br />

a quella medesima tribù di Massa, ma lui n’era il capo, il re. Sappiamo che la Bibbia<br />

stessa attribuisce <strong>al</strong>la madre del re un ruolo speci<strong>al</strong>e. Betsabèa ne è l’esempio tipico: è lei<br />

che intriga per far scegliere S<strong>al</strong>omone come successore di Davide (1Re 1,11-40).<br />

Qui è dunque la madre di Lemuèl che parla. Comincia con parole <strong>al</strong>quanto oscure,<br />

nell’ebr<strong>ai</strong>co: cosa significa per esempio l’espressione «figlio <strong>dei</strong> miei voti»? Si sarebbe forse<br />

ella impegnata, come Anna, la madre di Samuele, che, disperando d’avere una progenitura,<br />

promise, se fosse rimasta gravida, di consacrare <strong>al</strong> Signore il frutto delle sue viscere (1Sam<br />

1,11)? Qu<strong>al</strong>e sarebbe stato il voto della madre di Lemuèl, dato che quel suo figlio non fu, a<br />

ogni buon conto, un consacrato, bensì un detentore del potere?<br />

L’insegnamento di questa madre a suo figlio verte su due punti: non concedersi <strong>al</strong>le donne e<br />

non ubriacarsi. È curioso costatare che nella prima raccolta <strong>dei</strong> sapienti, nel punto in cui finisce<br />

l’influenza della sapienza di Amenemope, il testo, che comincia con solenni appelli del padre,<br />

cui poi si unisce anche la madre, si dilunghi sulle prime sui medesimi consigli (Pr 23,15-35).<br />

Il primo consiglio della madre di Lemuèl a suo figlio riguarda dunque le frequentazioni<br />

femminili. Ma qui il consiglio è per il principe: egli corre perfino maggiori rischi a lasciarsi<br />

andare <strong>al</strong>le sue passioni. Il testo ebr<strong>ai</strong>co non è chiaro, ma proprio di ciò pare trattarsi. La Bibbia<br />

ha sottolineato i disastrosi effetti della poligamia di S<strong>al</strong>omone (1Re 11,1-13; Nee 13,26;<br />

Sir 47,19). Si capisce che <strong>al</strong>la madre di Lemuèl una parola basta, su quest’argomento.<br />

L’<strong>al</strong>tro consiglio viene invece sviluppato in sorprendente maniera. La madre del principe –<br />

ella di nuovo richiama la sua pronta attenzione – l’invita pressantemente a non prender gusto<br />

<strong>al</strong> vino e <strong>al</strong>le bevande forti. Consiglio in negativo, come il primo, ma insistendo, questa volta,<br />

sulla sconvenienza, per un principe, d’ubriacarsi. E la ragione vien subito detta: se il re è in<br />

potere di quel che ha bevuto, rischia ass<strong>ai</strong> di non essere più un giudice equo. Il principe, lo<br />

sappiamo, esercitava la più <strong>al</strong>ta funzione giudiziaria. Fu per esempio nel suo famoso giudizio<br />

(1Re 3,16-28) che S<strong>al</strong>omone rivelò la sua saggezza. Il tribun<strong>al</strong>e del re è l’ultimo appello del<br />

povero. Un s<strong>al</strong>mo, l’unico attribuito a S<strong>al</strong>omone, dice (S<strong>al</strong> 72,4):<br />

«Con giustizia egli giudicherà il popolo minuto,<br />

s<strong>al</strong>verà i figli <strong>dei</strong> poveri,<br />

schiaccerà i loro carnefici».<br />

Se il re-giudice ha bevuto troppo, non ha più una visione netta della legge e per ciò stesso<br />

il suo giudizio, che è senza appello, verrà f<strong>al</strong>sato. Degli eccessi del principe, saranno i poveri<br />

a patire. S’intuisce, nell’origin<strong>al</strong>ità e verità della motivazione, la più affinata e <strong>al</strong>truistica sensibilità<br />

d’una donna.


Proverbi 33<br />

Dopo ciò, quella madre consiglia due comportamenti che contrastano, in un tono del tutto<br />

positivo, con il consiglio negativo di non ubriacarsi. Il primo è di stordire con una forte bevanda<br />

chi sta per morire, consiglio pieno d’amarezza: così dimenticherà la sua disgrazia. Questo<br />

testo perlomeno stupisce, ma in ebr<strong>ai</strong>co non è ĺimpido, perché il consiglio è formulato <strong>al</strong><br />

plur<strong>al</strong>e. «Procurate delle bevande forti...» non è detto a Lemuèl; si può quindi dubitare della<br />

sua autenticità. In più, non si può dire chi siano queste persone in punto di morte: <strong>dei</strong> condannati,<br />

dato che si sta parlando di processi, e si continuerà a parlarne sino <strong>al</strong>la fine del passo? In<br />

ogni caso, il pensiero non può non andare <strong>al</strong> gesto <strong>dei</strong> soldati <strong>al</strong>la passione di Gesù (Mt<br />

27,34). Se bisognasse prendere in conto un’applicazione più gener<strong>al</strong>e di questo consiglio di<br />

Pr 31,6, <strong>al</strong>lora si potrebbe parlare di cinismo e uno avrebbe tutto il diritto di scand<strong>al</strong>izzarsene.<br />

Conosciamo abbastanza i misfatti dell’<strong>al</strong>cool fra le popolazioni povere, senza lavoro e senza<br />

speranza. Ma io dubito che il testo abbia questo senso, soprattutto ricordando quanto gli abitanti<br />

del deserto rifuggano le bevande inebrianti.<br />

L’ultimo consiglio propone un <strong>al</strong>tro contrasto, basato questa volta sul fatto che, per bere,<br />

bisogna aprire la bocca: qui la bocca riceve la bevanda, mentre, con la parola che emette, essa<br />

dà. Donde l’insistenza di questo consiglio fin<strong>al</strong>e sul fatto d’aprire la bocca non più per ingurgitare<br />

vino ma per pronunciare <strong>dei</strong> giusti giudizi. Ciò suppone che il re-giudice sia sobrio. Il<br />

contrasto continua, poiché è in favore del muto, cioè uno che non può aprire la bocca per esporre<br />

la sua lamentela, che il re aprirà la sua per pronunciare il giudizio.<br />

Il testo presenta poi una frase che deve essere par<strong>al</strong>lela <strong>al</strong>la precedente, ma il suo senso è<br />

oscuro. Molti traducono: «per la causa di tutti gli abbandonati», ma è soltanto una delle tante<br />

ipotesi. Neanche l’antica versione greca <strong>dei</strong> Settanta pare aver saputo dare un senso a questo<br />

versetto. Il testo ebr<strong>ai</strong>co, che san Girolamo rende in latino quasi <strong>al</strong>la lettera, può tradursi: «per<br />

la causa <strong>dei</strong> figli del passaggio». Alcuni hanno pensato <strong>al</strong> passaggio d<strong>al</strong>la vita <strong>al</strong>la morte. Ma<br />

perché non tener conto del contesto? Lemuèl è re di Massa, e lì passano le carovane del deserto.<br />

Non necessariamente i carovanieri parlano la lingua di Massa, e spesso finiscono vittime di<br />

razzie o <strong>al</strong>tre m<strong>al</strong>versazioni. Perché la madre di Lemuèl non potrebbe sollecitare il figlio a curarsi<br />

di questa gente di passaggio, non in grado di spiegarsi sui fatti di cui è stata vittima? Si<br />

tratterebbe <strong>al</strong>lora della protezione degli stranieri di passaggio.<br />

Il consiglio finisce riprendendo la stessa idea di giudicare correttamente difendendo la causa<br />

del povero e dell’infelice. Questo appello positivo contrasta con ciò che accadrebbe se il re<br />

si desse <strong>al</strong> bere (Pr 31,5 ), e si armonizza con quello che tutto il Vicino Oriente Antico considerava<br />

il compito fondament<strong>al</strong>e del principe.<br />

Si sarà notato che questa raccolta non cita il nome di YHWH. Ma ciò non impedisce che il<br />

v<strong>al</strong>ore di quest’insegnamento sia ben <strong>al</strong>to. Chi assume delle responsabilità è tenuto verso se<br />

stesso a conservarsi degno di svolgere con correttezza la sua missione. Insegnamento sapienzi<strong>al</strong>e<br />

tipico, che il libro <strong>dei</strong> Proverbi <strong>al</strong>trove (vedi Pr 23,15-35) non contraddice. Ma qui è una<br />

madre che parla, una madre di più acuto sentimento <strong>al</strong>truistico.<br />

1.5.1.4. Conclusione<br />

In questi tre esempi, la sapienza straniera si rivela nella sua varietà e nella sua ricchezza. I<br />

sapienti d’Israele non la disprezzarono né la trascurarono. Vivere e pensare in ambiente chiuso<br />

non è veramente molto saggio, non è da sapiente. Al contrario, trovare quello che per noi è un<br />

bene dovunque esso stia significa riconoscere le ricchezze <strong>dei</strong> sapienti delle nazioni. È vero,<br />

la nostra conoscenza sulla maniera di procedere <strong>dei</strong> sapienti è limitata. Della madre di Lemuèl,<br />

si sono limitati a riprendere puramente e semplicemente l’insegnamento? Quel che è<br />

chiaro, è che la preghiera di Agùr venne invece adattata <strong>al</strong> contesto religioso d’Israele, dato<br />

che fa il nome di YHWH. Quanto <strong>al</strong>la sapienza di Amenemope, essa è sì la fonte di Pr 22,17–<br />

23,14, ma i sapienti biblici vi si sono ispirati con grande libertà. La ragione è che in Israele la<br />

sapienza, anche sotto l’influenza <strong>dei</strong> suoi vicini, si sviluppa in linea con i suoi doni specifici.


34 Proverbi<br />

2. IL PROLOGO (PR 1–9), L’EPILOGO (PR 31,10-31) E LA SAPIENZA<br />

È tempo d’affrontare la lunga introduzione del libro <strong>dei</strong> Proverbi. Se lo facciamo soltanto<br />

ora, è perché si tratta della parte più recente del libro. Deve essere opera degli editori dell’epoca<br />

posteriore <strong>al</strong>l’esilio.<br />

2.1. LE CARATTERISTICHE DEL PROLOGO 4<br />

Questo prologo si differenzia d<strong>al</strong>le sette collezioni che costituiscono il corpus del libro per<br />

<strong>al</strong>cune caratteristiche.<br />

Qui abbiamo <strong>dei</strong> discorsi molto più elaborati. Non se ne può comunque trarre la conclusione<br />

che <strong>al</strong> principio la sapienza si esprimesse con maggiore concisione e che i lunghi discorsi<br />

siano diventati possibili solamente più tardi. La sapienza straniera del Vicino Oriente Antico,<br />

per esempio quella di Amenemope, di cui abbiamo già parlato, proverebbe quanto si sbaglierebbe<br />

a pensarla così. Resta il fatto che nel libro <strong>dei</strong> Proverbi i testi lunghi si trovano soltanto<br />

in questo prologo e nella conclusione, cioè nel ritratto della «donna forte» (Pr 31,10-31).<br />

Più che in <strong>al</strong>tre parti del libro, in questa introduzione si scopre un’influenza <strong>dei</strong> profeti e<br />

del Deuteronomio. Per i profeti basta confrontare il primo discorso della Sapienza (Pr 1,20-<br />

33) con le invettive d’Is<strong>ai</strong>a (Is 65,2.12; 66,4) e di Geremia (Ger 6,19; 7,13; 11,11) per cogliere<br />

tutta la potenza di quella requisitoria, ben simile a quelle che aprono i libri d’Is<strong>ai</strong>a (1,10-20) e<br />

di Geremia (2,1-37), per esempio: qui la Sapienza assume la funzione del Signore che accusa<br />

il suo popolo d’infedeltà. E quando il lettore viene sollecitato a legarsi <strong>al</strong> collo e scriversi sul<br />

cuore i precetti (Pr 6,21; cfr. 3,3; 7,3 ), il pensiero evidentemente va a Dt 6,6-9; 30,14. Ma<br />

queste osservazioni non devono far credere che le collezioni proverbi<strong>al</strong>i raccolte nel resto del<br />

libro non abbiano <strong>al</strong>cun legame con l’insegnamento <strong>dei</strong> profeti d’Israele e di Giuda. Le attu<strong>al</strong>i<br />

ricerche proverebbero piuttosto il contrario, e si capisce, dato che anche le collezioni son state<br />

rimaneggiate d<strong>ai</strong> redattori che scrissero il prologo.<br />

I nove capitoli del prologo presentano due tipi di discorsi. Famosi sono soprattutto quelli in<br />

cui si fa parlare la Sapienza. A questo primo tipo di discorsi, che si comincia a incontrare ben<br />

presto nel prologo (Pr 1,20-33), bisogna anche aggiungere tutto il capitolo 8 e l’inizio del capitolo<br />

9, sulla fine dello stesso prologo. Torneremo su questi due famosi passi. L’<strong>al</strong>tro tipo di<br />

discorsi è pronunciato da un padre di famiglia che si rivolge <strong>al</strong> lettore chiamandolo «figlio<br />

mio», un’espressione che torna più d’una decina di volte (Pr 1,8.10.15; 2,1; 3,1.11.21;<br />

4,10.20; 5,1.20; 6,1.20; 7,1); t<strong>al</strong>ora si trova il plur<strong>al</strong>e «figli» (Pr 4,1; 5,7; 7,24). Il padre invita<br />

ad ascoltarlo (Pr 1,8; 4,1.10; 5,1.7; 7,24). Deve trattarsi d’un insegnamento dato in famiglia,<br />

considerando che accanto <strong>al</strong> padre viene citata anche la madre (Pr 1,8; 6,20). Il piano di questo<br />

prologo non è ancora stato chiarito. Partendo d<strong>al</strong> ripetuto invito «figlio mio», si è tentato<br />

di individuare una dozzina di discorsi paterni, ma senza grande successo. La difficoltà deriva<br />

probabilmente d<strong>al</strong> fatto che la redazione di questo prologo non è stata fatta di getto. Pare invece<br />

che si siano succedute più tappe redazion<strong>al</strong>i; <strong>al</strong>la stessa maniera si spiegano <strong>al</strong>cuni testi<br />

intrusi in Pr 6,1-19.<br />

Le raccomandazioni paterne vertono, in negativo, su due avvertimenti e, in positivo, su due<br />

consigli. Gli avvertimenti riguardano le cattive frequentazioni: i compagni poco raccomandabili<br />

(Pr 1,10-19; 2,12-15; 4,14-19), poi la straniera di vita m<strong>al</strong>vagia (Pr 2,16-19; 5,1-14.20;<br />

6,23-35; 7,1-27; 9,13-18); quest’ultima figura prende sempre più spazio a mano a mano che il<br />

prologo avanza. I due consigli, <strong>al</strong> di là <strong>dei</strong> pressanti appelli ad ascoltare l’insegnamento paterno,<br />

vertono sulla ricerca della sapienza (Pr 2,1-9; 3,1-18; 4,19) e sull’amore fedele che<br />

l’uomo deve avere per la sua sposa (Pr 5,15-19). Quest’ultimo breve testo basta come contr<strong>al</strong>tare<br />

agli estesi avvertimenti a riguardo della straniera che è bene evitare? I testi sulla Sapienza<br />

4 Sui capp. 1–9 di Pr si vedano i due studi recenti, che riproducono due tesi di dottorato: S. PINTO, “Ascolta<br />

figlio”. Autorità e antropologia dell’insegnamento in Proverbi 1–9, Roma 2006; M. SIGNORETTO, Metafora e didattica<br />

in Proverbi 1–9, Assisi 2006.


Proverbi 35<br />

fanno da contrappunto a quelli che parlano della straniera, come le due descrizioni par<strong>al</strong>lele di<br />

Pr 9,1-6 e Pr 9,13-18 potrebbero far pensare? Per rispondere a queste domande dobbiamo rileggere<br />

Pr 8 e 9, insieme <strong>al</strong> ritratto fin<strong>al</strong>e della «donna forte» (Pr 31,10-31); ed è quello che<br />

ora faremo.<br />

2.2. IL DISCORSO DELLA SAPIENZA IN PR 8<br />

È un testo importante, ma difficile. Ha avuto degli echi sia nel giud<strong>ai</strong>smo che nel cristianesimo.<br />

Va perciò letto nel suo insieme, senza accontentarsi <strong>dei</strong> versetti più noti e più discussi<br />

(Pr 8,22-31). Bisognerebbe anche leggerlo nel suo contesto, in particolare confrontandolo con<br />

il capitolo 7 che descrive la donna tentatrice; ma noi non lo faremo, dato che il nostro scopo è<br />

quello di fermarci sui testi essenzi<strong>al</strong>i.<br />

2.2.1. La strutturazione e il contenuto del capitolo<br />

I primi tre versetti introducono <strong>al</strong> discorso della Sapienza (Pr 8,1-3), dandole un luogo. Vari<br />

motivi fanno pensare che l’autore non la collochi in più posti, ma in uno solo, cioè <strong>al</strong>la porta<br />

della città, dove convergono le strade esterne e quelle interne. Luogo d’obbligato passaggio<br />

e d’incontri, dove tante persone si ritrovano fianco a fianco per passare d<strong>al</strong>la porta, ma anche<br />

per commerciare, per conversare... È a questa variegata folla che si rivolge la Sapienza.<br />

Essa comincia con l’interpellare tutte queste persone, senza poi neanche farsi di loro una<br />

grande idea. Ma non sta lì proprio per quelli che, se pur non se ne rendono conto e perfino<br />

magari non se ne danno pensiero, hanno d’essa maggior bisogno?<br />

La prima parte del suo discorso (Pr 8,4-10) vanta la qu<strong>al</strong>ità delle proprie parole: son parole<br />

sincere, rette, franche; quel che essa ha da dire è insieme verità e giustizia; aborre il m<strong>al</strong>e, la<br />

f<strong>al</strong>sità, la perversità. Propone, in concreto, un sapere che v<strong>al</strong>e più della ricchezza. L’aggiunta<br />

del versetto 11 rincara su quest’ultima caratteristica. La Sapienza, insomma, giustifica l’ascolto<br />

che chiede con la qu<strong>al</strong>ità di ciò che propone e con il vantaggio che gli ascoltatori ne avranno<br />

per la loro vita. Va in particolare rimarcato che la Sapienza afferma il v<strong>al</strong>ore mor<strong>al</strong>e di quel<br />

che dice: essa ha ripugnanza per il m<strong>al</strong>e.<br />

La seconda parte del discorso (Pr 8,12-21) permette <strong>al</strong>la Sapienza di presentarsi. Fin<strong>al</strong>mente<br />

dice il suo nome (Pr 8,12), per descriversi come perfetta consigliera di re, intelligente, perspicace,<br />

ma anche coraggiosa (Pr 8,12-16). Guardando meglio, potrebbe stupire che la Sapienza,<br />

per giustificare l’ascolto di quelli che passano attraverso le porte della città, sottolinei<br />

la sua attività a corte. Ma ciò significa: ascoltatemi, perché anche il re m’ascolta, trovandoci<br />

tutto da guadagnare (Pr 8,15-16). Ma ciò ha un senso solamente quando il potere venga ass<strong>ai</strong><br />

positivamente apprezzato. E proprio questa è la ragione per cui a me pare che questo discorso<br />

della Sapienza non si sia potuto tenere dopo l’esilio, a meno che non si volesse dar atto <strong>al</strong>la<br />

sapienza di Ciro che mise fine <strong>al</strong>l’esilio babilonese. Per trovare un re amato in Israele bisogna<br />

infatti ris<strong>al</strong>ire ben indietro fino a Giosia, sulla fine del VII secolo, oppure <strong>al</strong> suo avo Ezechia,<br />

un secolo prima, a meno che non si voglia pensare addirittura a S<strong>al</strong>omone, visto che il prologo,<br />

come il libro, è posto sotto il suo nome. Ma comunque stiano le cose riguardo a S<strong>al</strong>omone,<br />

la nostra osservazione vorrebbe fondare l’ipotesi che Pr 8 è un testo più antico che i redattori<br />

del periodo posteriore <strong>al</strong>l’esilio inserirono nel loro prologo. Questa seconda parte del discorso<br />

(Pr 8,17-21) è una logica prosecuzione della prima, dato che elenca i vantaggi e i benefici<br />

che l’attività della Sapienza presso il potere reca a tutti, perché essa cammina sulla via<br />

della giustizia e sui sentieri della dirittura mor<strong>al</strong>e (Pr 8,20): anche i poveri e i piccoli ne traggono<br />

beneficio. Ma ciò suppone che fra essa e i beneficiari della sua azione ci sia una relazione<br />

d’amicizia fedele (Pr 8,17.21). Quanto <strong>al</strong> beneficio che se ne ricava, è di molto superiore<br />

<strong>al</strong>le ricchezze (Pr 8,19). Insomma, la Sapienza sostiene che, se nella società c’è pace e ordine,<br />

è a essa che lo si deve.<br />

Viene poi la terza parte del discorso (Pr 8,22-31), la più famosa. La Sapienza dà un nuovo<br />

argomento per l’ascolto che chiede <strong>al</strong>le persone. Argomento di peso, trattandosi della sua re-


36 Proverbi<br />

lazione con YHWH da tutta l’eternità e quando mise ordine nell’universo. Ma è a questo punto<br />

che le discussioni fra gli esegeti si fanno più vivaci, soprattutto sul senso da attribuire ad <strong>al</strong>cune<br />

parole di primaria importanza. L’interpretazione che io, insieme con <strong>al</strong>tri, qui propongo<br />

si basa sulla coerenza del testo.<br />

A differenza delle due precedenti, questa parte segue l’ordine cronologico, se così possiamo<br />

dire, della Sapienza stessa, della sua origine e del suo sviluppo. Si succedono quattro strofe.<br />

La prima strofa (Pr 8,22-23) mette avanti YHWH, ma in quanto origine della Sapienza: lui<br />

l’ha «generata» prima d’ogni cosa. Manteniamo la traduzione «generata», proprio come in<br />

Gen 14,19 si dice che Dio «generò il cielo e la terra». Evidentemente questi testi non suppongono<br />

nessuna attività sessu<strong>al</strong>e. È vero, la traduzione è discussa. Altri preferiscono «creata», in<br />

linea con l’antica versione greca <strong>dei</strong> Settanta; ma l’idea base del verbo ebr<strong>ai</strong>co qānāh, essendo<br />

quella d’acquisire, si può benissimo intenderlo nel senso di «acquisire per generazione». Ciò<br />

su cui Pr 8,22 insiste è l’assoluta priorità della Sapienza, la sua anteriorità e la relazione che la<br />

fa dipendere, per la sua stessa esistenza, da YHWH. Il versetto seguente, Pr 8,23, ripete questa<br />

medesima idea dell’assoluta anteriorità della Sapienza, anche in rapporto <strong>al</strong>le origini della terra.<br />

Ci si mette dunque prima d’ogni creazione del mondo. Ma questo versetto 23 aggiunge un<br />

nuovo verbo (nāsak, <strong>al</strong>la coniugazione niph<strong>al</strong>) che, insieme ad antiche traduzioni, come la<br />

Volgata, e <strong>al</strong>cuni esegeti moderni, io traduco: «sono stata tessuta». Gb 10,11 e S<strong>al</strong> 139,13 provano<br />

che la gestazione dell’embrione in seno <strong>al</strong>la madre la si concepiva come una confezione<br />

an<strong>al</strong>oga a quella della tessitura. È il secondo stadio dell’esistenza della Sapienza, la sua crescita.<br />

Di nuovo, è soltanto un’immagine: quando Giovanni (Gv 1,18) parla del Figlio che è<br />

«nel seno del Padre» ricorre <strong>al</strong>la medesima simbolica, volendo sottolineare la stretta relazione<br />

che fa dipendere il Figlio d<strong>al</strong> Padre in quanto t<strong>al</strong>e. Lo stesso in Pr 8,22-23: la Sapienza è tot<strong>al</strong>mente<br />

dipendente da YHWH, e lo è da tutta l’eternità, prima d’ogni cosa.<br />

La seconda strofa (Pr 8,24-26) accenna per due volte <strong>al</strong>la successiva tappa vissuta d<strong>al</strong>la<br />

Sapienza: «io venni partorita» (˙ôlāltî), traduzione incontestabile, che significa che fu YHWH<br />

a partorirla. Anche qui si tratta di un’immagine simbolica. La differenza d<strong>ai</strong> verbi precedenti è<br />

che quelli di Pr 8,22 suppongono piuttosto una misteriosa interiorità, mentre il parto indica<br />

l’esteriorità, la visibilità, in qu<strong>al</strong>che modo, rispetto a Dio. Anche gli Antichi vedevano un’opposizione<br />

fra parola interiore, che precede, e parola esteriore, pronunciata e udibile. In Pr<br />

8,24-26 l’esteriorità della Sapienza è ancora anteriore <strong>al</strong> mondo. Quest’ultimo viene descritto<br />

<strong>al</strong>la maniera d’una foto: in basso l’abisso e le sorgenti che ne fanno affiorare le acque, le montagne<br />

e le colline in <strong>al</strong>to, poi la terra dove abiterà l’uomo. Questo mondo ancora non esisteva,<br />

e la Sapienza era già stata partorita da YHWH.<br />

La terza strofa (Pr 8,27-30a) mostra la Sapienza <strong>al</strong> fianco di YHWH quando YHWH passò<br />

<strong>al</strong>l’azione. YHWH mise ordine nell’universo fissando <strong>al</strong> loro posto tutti gli elementi. Da quel<br />

momento tutto è s<strong>al</strong>damente stabilito: i verbi usati insistono su quest’idea. Ciò suppone che<br />

tutte le parti del mondo già esistessero. Per questo, qui non possiamo parlare di creazione del<br />

mondo, ma semplicemente della fissazione delle sue parti, che sembrano già esistere, ma<br />

senz’ordine, in quello che Gen 1,2 chiamerà il «tohu-bohu». Questa descrizione dell’attività di<br />

Dio implica una concezione della struttura dell’universo che non è più la nostra e non pretende<br />

affatto d’essere scientifica. Qui ha un ruolo la poesia. Allora ci si rappresentava la terra<br />

come un disco piatto, sopra il qu<strong>al</strong>e il cielo faceva da volta semisferica, posata sull’abisso<br />

<strong>al</strong>l’orizzonte; la terra stessa poggiava su colonne immerse nelle profondità dell’abisso. In questa<br />

semplicistica rappresentazione, la terra, di cui qui si descrive soltanto la cornice che la<br />

contiene, è <strong>al</strong> centro dell’universo. Ebbene, quando YHWH diede <strong>al</strong> mondo la sua stabile struttura,<br />

la Sapienza era là, <strong>al</strong> suo fianco. È qui, in Pr 8,30a, che troviamo, nel testo ebr<strong>ai</strong>co, quella<br />

parola ’amôn che tanto inchiostro ha già fatto scorrere: dobbiamo intenderla nel senso che<br />

la Sapienza era di fatto come l’architetto di tutta l’organizzazione? È il senso che il testo ebr<strong>ai</strong>co<br />

voc<strong>al</strong>izzato suggerisce e che molte traduzioni moderne accolgono. Ma i versetti prece-


Proverbi 37<br />

denti non hanno attribuito <strong>al</strong>la Sapienza nessuna attività nella messa in ordine del mondo: dicono<br />

che è soltanto YHWH ad agire. Per questo, con un’antica traduzione, <strong>al</strong>tri esegeti intendono<br />

quella parola ebr<strong>ai</strong>ca nel senso di «bambina», voc<strong>al</strong>izzando ’emûn: la Sapienza, ancora<br />

piccolina, assistette <strong>al</strong>l’attività organizzatrice di YHWH.<br />

Ma <strong>al</strong>lora, anche la quarta strofa (Pr 8,30b-31) si capisce meglio: una volta ben organizzato<br />

il mondo, la Sapienza, potremmo dire, è <strong>ai</strong> sette cieli, e si mette a giocare, a danzare davanti<br />

a YHWH sulla terra degli uomini. Fin lì descritta a fianco di YHWH, le ultime parole di questa<br />

strofa la collocano nello stesso tempo accanto agli umani che fanno la sua felicità.<br />

È così che la terza parte del discorso della Sapienza vuole giustificare l’ascolto che chiede:<br />

essa è di YHWH e si trovava <strong>al</strong> suo fianco quando YHWH ordinò stabilmente l’universo. Appare<br />

come l’ispiratrice della sua azione, già fin da prima che YHWH la progetti e l’intraprenda.<br />

Generata, tessuta, partorita e poi ancora bambina giocherellona, la Sapienza viene dunque descritta<br />

nella sua sequenza logica, in base <strong>al</strong>le tappe della sua crescita. Con la sua sola presenza,<br />

con i suoi giochi e la sua felicità, il bambino non è spesso una fonte d’ispirazione per le<br />

migliori azioni <strong>dei</strong> suoi genitori? Questa coerenza di immagini mi pare preferibile. Ma se t<strong>al</strong>i<br />

furono la storia e il ruolo della Sapienza <strong>al</strong>le origini accanto a YHWH, perché dunque coloro<br />

che ascoltano il suo discorso non dovrebbero accettare che quella medesima Sapienza che trova<br />

le sue delizie fra gli umani entri nella loro vita? Essa vi metterebbe ordine e stabilità. Questo,<br />

a me pare, è il senso della terza parte del discorso della Sapienza.<br />

E la Sapienza conclude (Pr 8,32-36) di nuovo rivolgendosi <strong>ai</strong> suoi ascoltatori. Gli argomenti<br />

che ha presentato giustificano adesso il suo rinnovato appello. Ma la Sapienza aggiunge<br />

anche la promessa della beatitudine: chi seguirà le sue vie, e per farlo si metterà fedelmente<br />

<strong>al</strong>la sua scuola, avrà parte <strong>al</strong>la vita e <strong>al</strong> favore di YHWH. Invece, chi rompe con essa fa torto a<br />

se stesso e <strong>al</strong>la fine della via troverà la morte.<br />

2.2.2. Chi dunque è la Sapienza?<br />

Una figura femminile? Evidentemente sì, dato che quel che la riguarda è detto <strong>al</strong> femminile.<br />

Ma potrebbe essere diversamente, d<strong>al</strong> momento che la parola «sapienza» è femminile in<br />

ebr<strong>ai</strong>co, in greco, in latino e nelle lingue moderne? Per<strong>al</strong>tro, la Bibbia riconosce ad <strong>al</strong>cune<br />

donne una profonda sapienza che le autorità ascoltano: per esempio la donna venuta da Tekòa<br />

a perorare davanti a Davide il ritorno di Ass<strong>al</strong>onne (2Sam 14,2-20). E tuttavia, nell’intero discorso<br />

della Sapienza non c’è nessun termine esplicito che la dica donna o figlia, neppure il<br />

termine di Pr 8,30a che ho tradotto con «bambina», ma che <strong>al</strong>la lettera è piuttosto «bebè». In<br />

Pr 8,35, soltanto il proverbio par<strong>al</strong>lelo di Pr 18,22 – «Chi trova una sposa trova la felicità e<br />

ottiene il favore di Dio» – può suggerire di vedere nella Sapienza una donna, ma è possibile<br />

soltanto per una certa qu<strong>al</strong> an<strong>al</strong>ogia testu<strong>al</strong>e.<br />

La Sapienza ha <strong>dei</strong> lineamenti d’un maestro di sapienza. Basta rileggere Pr 4 per convincersene:<br />

appello ad ascoltare, v<strong>al</strong>ore dell’insegnamento, citazione del padre di chi parla – per<br />

giustificare l’ordine impartito –, promesse di felicità e di successo. Ma il maestro è soltanto un<br />

intermediario: è la sapienza stessa che il discepolo viene invitato a procurarsi (Pr 4,5). Ebbene,<br />

in Pr 8 è la Sapienza in se stessa che bisogna ascoltare, amare, frequentare come il maestro<br />

in casa sua (Pr 8,34) e <strong>al</strong>la fine trovare.<br />

Rispetto <strong>ai</strong> profeti, la Sapienza di Pr 8 se ne differenzia. I profeti chiamano <strong>al</strong>l’ascolto, ma<br />

il loro messaggio e la missione che li giustifica hanno la loro origine in YHWH. Parlano in suo<br />

nome. In Pr 8 la Sapienza può giustificarsi per la sua relazione con YHWH, ma parla di propria<br />

iniziativa.<br />

Solamente i discorsi che la Bibbia attribuisce direttamente a YHWH hanno una pari autorità<br />

e una pari autonomia. Se ne trovano molti nel secondo Is<strong>ai</strong>a, per esempio Is 41. Tuttavia, in<br />

Pr 8 la Sapienza non è YHWH: la distinzione vien chiaramente colta a partire da Pr 8,22. In<br />

re<strong>al</strong>tà, è la terza parte del discorso della Sapienza in Pr 8,22-31 a sollevare le princip<strong>al</strong>i difficoltà<br />

per chi vuol precisare chi sia la Sapienza.


38 Proverbi<br />

Di qu<strong>al</strong>unque sorta siano stati gli antecedenti di questa figura in <strong>al</strong>tri popoli del Vicino Oriente<br />

Antico o anche in Israele – su questo punto gli esegeti sono ben lontani d<strong>al</strong>l’essere<br />

d’accordo –, la Sapienza di Pr 8 non è una dea. Essa è uscita da YHWH e l’accompagna quando<br />

organizza l’universo, ma non pretende d’essere una divinità. Niente nel testo di Pr 8 va in<br />

questo senso, e il monoteismo, orm<strong>ai</strong> chiaro in Israele a partire d<strong>al</strong> secondo Is<strong>ai</strong>a, avrebbe<br />

censurato una simile linea d’interpretazione; mentre la figura della Sapienza verrà ripresa con<br />

la medesima forza ancora nella Sapienza di S<strong>al</strong>omone.<br />

Forse nella Sapienza dobbiamo vedere la personificazione d’un attributo di YHWH. Is<strong>ai</strong>a<br />

aveva affermato che YHWH è sapiente (Is 31,2), e d<strong>al</strong> canto suo Pr 3,19 dice che YHWH fondò<br />

la terra mediante la sua sapienza. Allora, in Pr 8 si sarà personificata la sapienza di YHWH, ma<br />

in una maniera molto più esplicita di quando si personifica ad esempio la verità o la giustizia<br />

(S<strong>al</strong> 85,11-12). L’an<strong>al</strong>ogia, già ricordata, fra Sapienza e parola interiore ha forse qui un suo<br />

ruolo. La Sapienza sarebbe il piano di YHWH, il suo progetto stabilito da tutta l’eternità, prima<br />

che il tempo fosse. Quel progetto venne poi re<strong>al</strong>izzato quando il mondo ricevette da YHWH la<br />

sua struttura organizzata. Anche noi procediamo in questa maniera: chi vuole costruire una<br />

casa comincia con farsene il progetto e vederne la disposizione in testa, poi lo mette sulla carta;<br />

e quando la casa viene costruita, la si fa sulla base di quel progetto, sì che <strong>al</strong>la fine si può<br />

dire che il progetto si è concretizzato nella costruzione, che il progetto è stato re<strong>al</strong>izzato, senza<br />

che tuttavia esso sia stato cancellato d<strong>al</strong>la testa di chi l’ha immaginato. Potrebbe essere lo<br />

stesso per la Sapienza. Si spiega <strong>al</strong>lora perché essa è presente <strong>al</strong>l’organizzazione del mondo.<br />

Pr 8,27-29 in effetti fa vedere che c’è ordine e stabilità nell’universo: è opera di YHWH, ma la<br />

Sapienza era <strong>al</strong> suo fianco (8,27a.30a), proprio come il costruttore continuamente consulta il<br />

progetto. Possiamo <strong>al</strong>lora pensare che la Sapienza è il progetto di YHWH, progetto d’ordine<br />

nel mondo orm<strong>ai</strong> concretizzato nella re<strong>al</strong>tà stessa del mondo. La Sapienza è vista <strong>al</strong>lora come<br />

doppiamente distinta da YHWH e d<strong>al</strong> mondo, e nello stesso tempo doppiamente unita a YHWH<br />

– da cui è venuta – e <strong>al</strong> mondo, che non ha stabile struttura se non in forza d’essa, pur senza<br />

identificarsi con essa. L’ordine nel mondo è segno della presenza <strong>al</strong> mondo della Sapienza di<br />

YHWH.<br />

2.2.3. Perché la Sapienza così si giustifica?<br />

An<strong>al</strong>izzando l’argomentazione del discorso della Sapienza di Pr 8 abbiamo visto che essa<br />

dà <strong>al</strong> suo appello <strong>al</strong>l’ascolto una triplice giustificazione, che ogni volta implica l’idea d’ordine:<br />

nella vita person<strong>al</strong>e d’ognuno (Pr 8,4-10) – e questo è lo scopo stesso del discorso –, nella<br />

società (Pr 8,12-21) e nell’universo (Pr 8,22-31). Ma <strong>al</strong>lora, abbiamo tutto il diritto di chiederci:<br />

cos’è dunque che dobbiamo ascoltare? Parrebbe infatti che Pr 8 non sia che l’inizio del<br />

discorso della Sapienza. Perché, una volta convinto d<strong>al</strong>la triplice giustificazione data, chi legge<br />

o ascolta dovrebbe chiederle cosa deve ascoltare.<br />

Nessuna delle ammonizioni caratteristiche del prologo del libro ricompare in Pr 8 e, d’<strong>al</strong>tro<br />

canto, il discorso della Sapienza è quasi <strong>al</strong> termine del prologo, cioè poco prima che si aprano<br />

la prima collezione s<strong>al</strong>omonica (Pr 10,1–22,16) e le <strong>al</strong>tre. Non avrebbe dunque torto chi si<br />

chiedesse se Pr 8 non si proponga di giustificare l’accoglienza delle collezioni di proverbi che<br />

costituiscono il cuore del libro e il patrimonio sapienzi<strong>al</strong>e d’Israele. Ciò che d<strong>al</strong>la Sapienza<br />

stessa il lettore è invitato ad ascoltare sarebbe appunto quel patrimonio.<br />

Ma per ciò stesso, quel patrimonio, pura sapienza umana, riceve una più <strong>al</strong>ta dimensione:<br />

attraverso i sapienti dell’antico Israele, è la Sapienza stessa di YHWH che parla e insegna. Ciò<br />

che l’autore di Pr 8 avrebbe <strong>al</strong>lora scoperto è che, <strong>al</strong>la maniera <strong>dei</strong> profeti investiti dello Spirito<br />

del Signore, a quella stessa maniera i sapienti, senza averlo detto e senza averne, forse,<br />

neppure coscienza, furono i messaggeri della Sapienza divina perché ognuno fondi la sua vita<br />

sulla verità e sulla giustizia (Pr 8,7-8). Non sarebbe un modo per rivendicare <strong>al</strong>la sapienza <strong>dei</strong><br />

proverbi d’Israele ciò che la teologia cristiana chiama ispirazione? Fu la Sapienza di YHWH a<br />

muovere i sapienti autori delle collezioni cui il prologo del libro introduce. Una siffatta inter-


Proverbi 39<br />

pretazione suppone però che Pr 8 venga letto in tutto il suo contesto, che è il prologo e tutto<br />

quello cui esso introduce, cioè le collezioni di proverbi.<br />

Questo discorso di Pr ebbe degli echi nei libri sapienzi<strong>al</strong>i che vennero in seguito, ma anche<br />

nel Nuovo Testamento. Il prologo del vangelo giovanneo (Gv 1,1-3) e l’inno cristologico della<br />

lettera paolina <strong>ai</strong> Colossesi (Col 1,15-17) dissero del Cristo qu<strong>al</strong>cosa che Pr 8 diceva della<br />

Sapienza. A loro volta, anche i Padri della Chiesa rifletterono sul mistero cristologico e trinitario<br />

<strong>al</strong>lacciandosi anche a questo discorso della Sapienza, soprattutto Pr 8,22-31. Atanasio<br />

d’Alessandria scriveva, nel IV secolo, a riguardo del Cristo Gesù: «È il vero Figlio del Padre,<br />

per natura e per generazione, sostanza della sua sostanza, Sapienza unica generata, solo e vero<br />

Verbo di Dio; non è creatura né produzione, ma il vero generato d<strong>al</strong>la sostanza del Padre. Per<br />

questo è Dio vero, essendo consustanzi<strong>al</strong>e <strong>al</strong> Padre vero. (...) Da sempre egli era ed è, e m<strong>ai</strong><br />

“non era”. E siccome il Padre è eterno, eterno è anche il suo Verbo e la sua Sapienza» 5 .<br />

2.3. IL BANCHETTO DELLA SAPIENZA (PR 9,1-6)<br />

Pr 9 conclude il prologo che fa da introduzione <strong>al</strong>le collezioni di proverbi. Bisognerà riflettere<br />

sul senso che può avere la conclusione d’una introduzione. Inoltre, Pr 9 presenta due<br />

quadretti in forte contrasto fra loro: da una parte, quello della Sapienza che invita a un banchetto<br />

e, d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra, quello di «Donna Stoltezza» che invita anch’essa a casa sua (Pr 9,13-18).<br />

Qu<strong>al</strong> senso dare a inviti così diversi? Fra i due ritratti del dittico, <strong>al</strong>cuni versetti (Pr 9,7-12)<br />

sono sempre stati problematici per gli esegeti; ma noi qui non li tratteremo. Quanto <strong>ai</strong> due<br />

quadretti – della Sapienza e di Donna Stoltezza –, essi sono già stati preparati nei precedenti<br />

capitoli rispettivamente d<strong>ai</strong> due discorsi della Sapienza (Pr 1,20-33; 8); e dagli avvertimenti<br />

dati a riguardo della donna di vita m<strong>al</strong>vagia: quegli avvertimenti si sono moltiplicati e sono<br />

stati sviluppati nella seconda metà del prologo. Pr 9 riprende dunque <strong>dei</strong> temi già proposti:<br />

ma la loro ripresa <strong>al</strong>la fine del prologo potrebbe dare a questi temi un significato particolare?<br />

2.3.1. La Sapienza e il suo invito<br />

«La Sapienza ha costruito la sua casa». Già un proverbio delle collezioni affermava che «la<br />

sapienza costruisce la sua casa, ma la stoltezza con le sue mani l’abbatte» (Pr 14,1). L’idea di<br />

proporre un dittico <strong>al</strong>la fine del prologo venne forse suggerita <strong>ai</strong> redattori del periodo che seguì<br />

l’esilio proprio da quest’antico proverbio. C’è tuttavia una evidente differenza fra i due: il<br />

proverbio semplicemente dice che una casa si costruisce re<strong>al</strong>mente quando uno ci mette intelligenza<br />

e perspicacia, mentre basta un pizzico di stoltezza per insediarvi il disordine; invece,<br />

in Pr 9,1 non si tratta più di sapienza umana, ma della Sapienza in persona, come in Pr 1,20-<br />

33 e 8. La Sapienza ha dunque costruito la sua casa. Dev’essere un’immagine, che dovremo<br />

spiegare. A ogni buon conto, nulla vieta di pensare che si sia servita d’un costruttore con oper<strong>ai</strong>.<br />

Non diciamo ancora oggi: «Mi son fatto la casa per la famiglia», senza dover per forza escludere<br />

che uno sia ricorso <strong>al</strong>la collaborazione d’un architetto e d’<strong>al</strong>tri esperti? L’«io», come<br />

minimo, dice che quella casa di famiglia io l’ho voluta e ci ho messo i soldi.<br />

È grande, la casa della Sapienza. Si può dedurlo d<strong>al</strong> fatto che il testo precisa che essa ha<br />

squadrato, o inn<strong>al</strong>zato (ma poco importa), i suoi sette pilastri. Perché <strong>dei</strong> pilastri, e perché sette?<br />

È la cifra della perfezione, ma non spiega ancora tutto. Nell’antico Israele, la casa, come<br />

spesso accade ancora oggi in Medio Oriente, formava un recinto che dava sulla strada attraverso<br />

un’unica porta. Il recinto era composto d’un cortile, attorno <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e si trovavano varie<br />

stanze. Un primo piano permetteva <strong>al</strong>la famiglia di <strong>al</strong>loggiare più confortevolmente, mentre il<br />

pianoterra era occupato d<strong>al</strong> bestiame, minuto e grosso, e d<strong>ai</strong> vari magazzini. Il centro del recinto<br />

fungeva da cortile interno; lì era predisposto un focolare. Il cortile poteva essere coperto,<br />

<strong>al</strong>meno in parte: delle colonne sostenevano <strong>al</strong>lora il tetto. Nell’epoca reg<strong>al</strong>e d’Israele molte<br />

case avevano un cortile coperto, a due colonne, ma nelle case più ricche o importanti si ritro-<br />

5 Contro gli Ariani, I, 9: Migne, Patrologia Graeca 26, 28C-29A.


40 Proverbi<br />

varono fino a sei e anche sette colonne di sostegno del tetto. La casa della Sapienza è dunque<br />

una dimora grande. È nel cortile, accanto <strong>al</strong> fuoco, che si riceve. La Sapienza può dunque accogliere<br />

molta gente.<br />

E in re<strong>al</strong>tà, darà un banchetto. Non un semplice spuntino, ma carne e vino, d<strong>ai</strong> suoi possedimenti,<br />

che sono bestiame e una vigna fuori città. Questo tipo di banchetto è comune ancora<br />

oggi, per le grandi feste, in tutto il bacino del Mediterraneo. La tavola è apparecchiata, e si<br />

può supporre che abbia trovato dell’<strong>ai</strong>uto per preparare tutto, dato che il testo parla di «ancelle»<br />

(Pr 9,3). Ma qu<strong>al</strong>e rapporto c’è fra il costruirsi la casa e l’offrire un banchetto? Non potrebbe<br />

trattarsi della festa per celebrare la fine della costruzione e inaugurare la nuova dimora?<br />

Non è una tradizione viva ancora <strong>ai</strong> nostri giorni? La casa rende visibile e pubblico l’insediamento<br />

della famiglia. Il p<strong>al</strong>azzo manifesta l’instaurazione del potere. Nel IX secolo a.C., il<br />

re assiro Assurnazirp<strong>al</strong> II inaugurò il suo p<strong>al</strong>azzo nella città di C<strong>al</strong>ah, che aveva riconquistato,<br />

con dieci giorni di celebrazioni, e ogni giorno cinquemila persone, di tutte le classi soci<strong>al</strong>i, erano<br />

invitate <strong>al</strong> reg<strong>al</strong>e banchetto! La Sapienza avrebbe fatto lo stesso: essa mandò le sue ancelle<br />

a chiamare gli invitati.<br />

Questi abitano nella città <strong>al</strong>ta. Se l’autore pensa a Gerus<strong>al</strong>emme, ed è verosimile – dato che<br />

i redattori del periodo immediatamente successivo <strong>al</strong>l’esilio sono con ogni probabilità della<br />

capit<strong>al</strong>e –, <strong>al</strong>lora la città <strong>al</strong>ta è il nuovo quartiere costruito sulla collina a ovest del tempio,<br />

quando lì si accolsero i profughi di Samaria che fuggivano davanti agli Assiri intorno <strong>al</strong> 722.<br />

È la città nuova di cui parla 2Re 22,14. Forse era un quartiere di nuovi ricchi, se dobbiamo<br />

credere a Safonia (Sof 1,10 e il suo contesto). Se così fosse, la Sapienza dimorerebbe nella città<br />

vecchia, in basso, l’antica città di Davide.<br />

Ebbene, quelli cui la Sapienza fa trasmettere il suo invito non sono <strong>dei</strong> parenti prossimi né<br />

degli amici, ma chiunque non abbia ancora un’educazione, giovani rozzi, meschinelli. Potranno<br />

anche essere tanti, ma il cortile d<strong>al</strong>le sette colonne riuscirà ad accoglierne decine. Eccoli<br />

dunque invitati <strong>al</strong> banchetto della Sapienza. Questa offre loro cibo e bevanda, e il lettore sa<br />

che ha preparato carne e vino. Credere che in Pr 9,5 essa non offra <strong>al</strong>tro che pane, invece di<br />

carne, non è capire che la parola ebr<strong>ai</strong>ca qui usata significa glob<strong>al</strong>mente cibo. Per questo, se<br />

noi, per indicare la città di cui sono originari Davide e Gesù diciamo Betlemme, la città del<br />

pane, in arabo la si chiama la città della carne! Pane o carne? Etimologicamente, il senso originario<br />

è cibo.<br />

E la Sapienza conclude il suo invito con una spiegazione: rispondere <strong>al</strong> suo appello significa<br />

rinunciare a comportarsi da sciocchi, a non fare più i bambini, ma accettare di vedersi adulti,<br />

insomma trovare la vita, e scendere <strong>al</strong>la sua dimora significa prendere la via dell’intelligenza.<br />

2.3.2. Il senso della parabola<br />

Questa parabola giunge <strong>al</strong> termine del prologo che apre sulle sette collezioni di proverbi<br />

raccolte d<strong>ai</strong> sapienti dopo l’esilio. Con la loro opera, essi hanno dunque costruito una grande<br />

dimora, d<strong>al</strong> fondo antico; ma i sapienti ben sanno che non è soltanto opera loro o <strong>dei</strong> loro predecessori:<br />

è anche opera di quel Signore che tutti quanti li ispirava. E si tratta di collezioni che<br />

offrono un vero festino a chi accetti di farsene dono: costui ci guadagnerà in saper fare e in<br />

saper vivere; ci guadagnerà, in una parola, una buona educazione.<br />

E per dirlo, niente di meglio, <strong>al</strong>la fine dell’introduzione, di questa parabola cui ognuno deve<br />

rispondere per se stesso: «Verr<strong>ai</strong> a nutrirti a questo festino?». Anche Dt 8,3, la cui eco si<br />

sente fin nella tentazione di Gesù nel deserto (Mt 4,4), dice che è la parola di Dio a nutrire veramente<br />

l’uomo, e anche Is 55,1-3a dice a sua volta che la parola profetica è un festino che dà<br />

la vita e a esso gli ascoltatori del profeta vengono per grazia invitati.<br />

Dobbiamo soltanto aggiungere che il ritratto par<strong>al</strong>lelo di Donna Stoltezza – soprattutto perché<br />

fa anch’essa un identico appello (Pr 9,16 e 9,4) – lascia capire che c’è da scegliere. Dt<br />

30,15-20 mette ognuno <strong>al</strong> punto d’incrocio fra due vie: una porta <strong>al</strong>la vita, <strong>al</strong>la felicità, l’<strong>al</strong>tra


Proverbi 41<br />

porta <strong>al</strong>la morte. L’introduzione del libro <strong>dei</strong> Proverbi termina con la medesima esigenza: devi<br />

scegliere; devi scegliere fra la Sapienza che ispirò i sapienti e mostra un cammino di vita e,<br />

d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra parte, Donna Stoltezza, simbolo dell’attrazione di tutte le sregolatezze che portano<br />

<strong>al</strong>la morte.<br />

2.3.3. La lettura cristiana<br />

Nell’ultima Cena, Gesù prese del pane e disse: «Questo è il mio corpo», e poi: «Questa è la<br />

coppa del mio sangue». La somiglianza con Pr 9,1-6 è così forte che spesso la parabola della<br />

Sapienza viene ripresa come cantico eucaristico. E con buona ragione. La seconda parte del<br />

discorso di Gesù a Cafarnao sul pane di vita (Gv 6,51-58) vi preparava, mostrando come esso<br />

porti a una scelta radic<strong>al</strong>e (Gv 6,60-69). Ma sulla scorta di Dt 8,3 e Is 55,1-3a, già la parola di<br />

Gesù, già il suo messaggio è cibo che dà la vita (Gv 6,26-50; vedi anche 4,13-14; 7,37).<br />

2.4. L’EPILOGO: IL RITRATTO DELLA DONNA FORTE (PR 31,10-31)<br />

Il ritratto della sposa e madre esemplare che conclude il libro <strong>dei</strong> Proverbi suscita molte<br />

problematiche. Come dobbiamo intenderlo, quel ritratto, se letto come brano a sé stante? È il<br />

ritratto d’una donna veramente esistita, oppure ide<strong>al</strong>izzata? Letto invece nel contesto del libro<br />

<strong>dei</strong> Proverbi, vi svolge una funzione particolare? Il prologo del libro (Pr 1–9) in effetti ha già<br />

descritto <strong>al</strong>tre figure femminili, perlopiù considerate delle figure ide<strong>al</strong>izzate oppure simboliche;<br />

fra esse, le princip<strong>al</strong>i sono la Sapienza e la donna di vita m<strong>al</strong>vagia; e neppure possiamo<br />

sottacere questa o quella <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la madre (Pr 1,8; 6,20). Il ritratto conclusivo della padrona<br />

di casa ha dunque un ruolo speci<strong>al</strong>e da svolgere, rispetto agli <strong>al</strong>tri ritratti femminili del prologo?<br />

Sono le domande cui tenteremo ora di rispondere.<br />

2.4.1. Alcune grandi donne dell’Antico Testamento<br />

Non è la prima volta che l’Antico Testamento presenta delle grandi donne. Già nella Genesi<br />

emergono le figure di Sara, Rebecca, Lia e Rachele. Al tempo dell’esodo troviamo Maria (o<br />

Miriam), la profetessa, sorella di Aronne. Poi venne Debora, <strong>al</strong> tempo <strong>dei</strong> Giudici; Rut, già<br />

anch’ella definita «donna forte» (Rt 3,11), e Anna, la madre di Samuele (1Sam 1,1–2,10);<br />

quindi Abig<strong>ai</strong>l, l’intelligente sposa del brut<strong>al</strong>e Nab<strong>al</strong> (1Sam 25), e soprattutto Betsabea, la<br />

madre di S<strong>al</strong>omone. Ci furono anche <strong>al</strong>tre regine, ma esse lasciarono un cattivo ricordo di sé,<br />

come Gezabèle, di Tiro, e sua figlia At<strong>al</strong>ìa, sulla metà del IX secolo. Al contrario, la Sunamita<br />

(2Re 4,8-37; 8,16), che ospitò Eliseo e il cui figlio venne riportato in vita d<strong>al</strong>la preghiera del<br />

profeta. Al tempo della riforma sotto Giosia, 2Re 22,14-20 fa ben ris<strong>al</strong>tare il ruolo che vi ebbe<br />

la profetessa Culda, di Gerus<strong>al</strong>emme.<br />

Dopo l’esilio e fino agli ultimi secoli che precedettero l’èra cristiana, ci si compiacque a<br />

tessere l’elogio di donne in brevi romanzi, come quelli dedicati a Sara, che divenne sposa di<br />

Tobia, a Giuditta e a Ester, che s<strong>al</strong>varono il loro popolo, a Susanna, liberata d<strong>al</strong>la lucidità di<br />

Daniele, <strong>al</strong>la madre <strong>dei</strong> sette figli (2Mac 7), senza poi dimenticare la giovane innamorata del<br />

Cantico <strong>dei</strong> cantici.<br />

Se abbiamo ricordato tutte queste figure, è soltanto per dire che Pr 31,10-31 non è l’unico<br />

testo dell’Antico Testamento ad aver saputo riconoscere e descrivere una donna eccezion<strong>al</strong>e.<br />

2.4.2. La donna forte di Pr 31,10-31<br />

2.4.2.1. L’elogio d’una donna<br />

Eppure, questo ritratto ha qu<strong>al</strong>cosa di particolare che lo rende unico nell’Antico Testamento.<br />

È un lungo poema tutto dedicato a una innominata. Anche Giuditta verrà cantata in un poema<br />

(Gdt 13,18-20; 15,9-10), ma più in breve e per un’azione di spicco, mentre la «donna forte»<br />

sembra essersi distinta per anni interi. Questo passo (Pr 31,10-31) è anche un poema <strong>al</strong>fa-


42 Proverbi<br />

betico: ogni versetto comincia con una parola la cui prima lettera corrisponde, un versetto dopo<br />

l’<strong>al</strong>tro, <strong>al</strong>le successive lettere dell’<strong>al</strong>fabeto. Nel testo ebr<strong>ai</strong>co, il primo versetto comincia<br />

con la lettera <strong>al</strong>ef e l’ultimo con la lettera tau. È un procedimento letterario caratteristico della<br />

poesia. Suo scopo è sottolineare una tot<strong>al</strong>ità, «d<strong>al</strong>l’a <strong>al</strong>la zeta», diremmo noi: può essere una<br />

lode (S<strong>al</strong> 111–112), una preghiera (S<strong>al</strong> 9–10), una meditazione (S<strong>al</strong> 37; 119), ma anche un oracolo<br />

profetico (Na 1,2-8, incompleto) oppure il grido d’un immenso dolore (Lam 1–4). In<br />

Pr 31, questo procedimento, che di per sé non è dunque caratteristicamente sapienzi<strong>al</strong>e, vuole<br />

sottolineare l’eccezion<strong>al</strong>e qu<strong>al</strong>ità della donna.<br />

È il ritratto d’una donna re<strong>al</strong>mente esistita, oppure si tratta d’una pura finzione dell’immaginario<br />

poetico? Gli esegeti divergono sulla risposta da dare, e la maggior parte delle nostre<br />

Bibbie moderne traduce tutti i verbi del poema dedicato a questa donna con presenti atempor<strong>al</strong>i<br />

o descrittivi, dunque senza riferimento a una persona concreta. In questo modo, <strong>al</strong>lora, si<br />

sottolinea soprattutto il carattere ide<strong>al</strong>izzato del ritratto, perfino sostenendo che una donna così,<br />

possiamo pur starne certi, non solamente è fuori del comune, ma non è neanche immaginabile<br />

che sia m<strong>ai</strong> re<strong>al</strong>mente esistita.<br />

Eppure, degli esegeti fanno notare – e a ragione, io credo – che tutti i verbi del poema si<br />

spiegano correttamente, a livello grammatic<strong>al</strong>e, se riferiti <strong>al</strong> passato, con <strong>al</strong>cune eccezioni,<br />

d’<strong>al</strong>tronde evidenti (Pr 31,10a.31). Si tratterebbe <strong>al</strong>lora d’un elogio funebre d’una sposa e<br />

madre, da poco scomparsa. In re<strong>al</strong>tà, noi conosciamo l’elogio funebre, di grande poesia, che<br />

Davide intonò in onore di Saul e di Gionata (2Sam 1,19-27). Il Vicino Oriente Antico, né più<br />

né meno della Bibbia, non ci ha lasciato nessun <strong>al</strong>tro elogio funebre d’una donna, ma un t<strong>al</strong><br />

silenzio è ben debole argomento, considerando lo stato delle nostre attu<strong>al</strong>i conoscenze. Resta<br />

il fatto che l’antichità latina, invece, ci ha trasmesso questo o quel testo an<strong>al</strong>ogo <strong>al</strong> nostro: si<br />

tratta di lunghi poemi, ritrovati su pietre tomb<strong>al</strong>i, che tessono l’elogio di questa o quella donna<br />

di cui si compiange il decesso, vantandone le qu<strong>al</strong>ità e virtù. De mortuis nihil nisi bene, dice<br />

la massima latina: «d’una persona deceduta, si parli soltanto bene», anche se ciò non vuol<br />

dire che non avesse difetti. Lo stesso potrebbe v<strong>al</strong>ere per la donna di Pr 31,10-31.<br />

Al Wolters 6 ha dimostrato che il nostro poema corrisponderebbe <strong>al</strong> genere letterario dell’inno,<br />

di cui anche i S<strong>al</strong>mi 111 e 112, ugu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>fabetici, sono <strong>dei</strong> buoni esempi. L’inno viene<br />

introdotto e concluso con brevi parole, mentre il corpus del poema si diffonde ampiamente sui<br />

motivi della lode: successo delle imprese compiute da colui di cui si tesse l’elogio e, in particolare,<br />

il suo senso della giustizia, l’<strong>ai</strong>uto prestato <strong>ai</strong> poveri, il buon ricordo che lascia. La<br />

conclusione non omette d’<strong>al</strong>ludere <strong>al</strong>la partecipazione d’<strong>al</strong>tri <strong>al</strong>l’elogio (S<strong>al</strong> 111,10; 112,9). I<br />

due s<strong>al</strong>mi cominciano con l’<strong>al</strong>leluia, «lodate YHWH!»; ebbene, Pr 31,31b adatta l’invito dicendo:<br />

«la si lodi», che in ebr<strong>ai</strong>co ha quasi lo stesso suono. All’interno del genere letterario<br />

della lode, l’elogio funebre potrebbe costituire una sorta di sottogenere.<br />

In questo caso, i primi tre versetti (Pr 31,10-12) farebbero da introduzione. Quella notevole<br />

donna fu un esempio raro, ma non inaudito: si vada <strong>al</strong> versetto 29. Chi non ha m<strong>ai</strong> incontrato<br />

delle donne straordinarie? Da sole v<strong>al</strong>gono più della ricchezza. Ricordiamo Madre Teresa, la<br />

fondatrice delle Missionarie della carità. I loro beni possono a volte essere frutto della loro fatica<br />

e della loro ingegnosità. La prima qu<strong>al</strong>ità della donna di cui il nostro testo tesse l’elogio<br />

fu l’armonia che l’univa <strong>al</strong> marito. Lui poteva contare su di lei, e lei non lo deluse m<strong>ai</strong>; nel<br />

senso che, responsabile degli affari della casa, quella sposa li ha fatti prosperare «tutti i giorni<br />

della sua vita», cioè fino <strong>al</strong>la morte, la cui causa non è detta.<br />

I quattro versetti che chiudono il poema (Pr 31,28-31) fanno da conclusione. Al marito adesso<br />

si uniscono i figli a cantare l’elogio di quella donna che chiamano beata. L’elogio si accentua:<br />

quella sposa, quella madre superava molte donne di cui si sarebbero potuti vantare i<br />

meriti e l’efficienza. Pia esagerazione, forse, ma comprensibile quando si piange una sposa o<br />

457.<br />

6 «Proverbs XXXI 10-31 as Heroic Hymn. A Form-critic<strong>al</strong> An<strong>al</strong>ysis», in Vetus Testamentum 38 (1988) 445-


Proverbi 43<br />

una madre ammirata quanto amata. V<strong>al</strong>eva più della ricchezza, dice l’inizio del poema; adesso<br />

si aggiunge che il suo v<strong>al</strong>ore non stava nella grazia o nella bellezza – ne aveva passato l’età –,<br />

ma nella sua intelligenza. O perlomeno così lessero i Settanta della traduzione greca (Pr<br />

31,30). Il testo ebr<strong>ai</strong>co, difficile da tradurre con esattezza, pare aggiungere o interpretare che<br />

quella donna viveva nel timore del Signore. È la sola nota religiosa dell’elogio. Dobbiamo<br />

soltanto più far osservare che l’ultimo versetto (Pr 31,31) probabilmente va corretto, modificando<br />

le voc<strong>al</strong>i del verbo inizi<strong>al</strong>e; non già: «datele una parte...», ma piuttosto: «celebratela<br />

per...», che è formula caratteristica d’un elogio; e che l’ultima frase si spinge addirittura a<br />

chiedere che quell’elogio divenga un atto pubblico, uffici<strong>al</strong>e, da affiggere «<strong>al</strong>le porte della città»,<br />

luogo delle assemblee e del Consiglio.<br />

2.4.2.2. Le ragioni dell’elogio<br />

La descrizione di questa notevole persona apre il corpus del poema (Pr 31,13-27). Qui sono<br />

esposte le ragioni dell’elogio.<br />

È evidente che si trattava d’una donna con la testa sul collo. Per descriverla, l’autore del<br />

poema non ha disposto i suoi versi come gli venivano, cercando unicamente di rispettare<br />

l’ordine <strong>al</strong>fabetico della loro prima lettera. Il suo poema è abbastanza ben congegnato. E ciò<br />

che tiene in unità la sua descrizione sono le precisazioni sul lavoro di quella donna. In effetti,<br />

ella dirigeva una piccola azienda familiare di tessitura. Selezionava le materie prime, la lana e<br />

il lino (Pr 31,13); per filarli, usava due strumenti, il fuso e quello che noi chiameremmo il<br />

rocchetto; ma la differenza fra i due termini ebr<strong>ai</strong>ci sta forse nel fatto che uno serviva per il<br />

filo semplice, mentre l’<strong>al</strong>tro assemblava due fili (Pr 31,19). Fabbricava tessuti, cuciva vestiti<br />

foderati (ma il senso è incerto), perché tutta la famiglia resistesse <strong>al</strong> freddo invern<strong>al</strong>e (Pr<br />

31,21), e <strong>al</strong>tri indumenti (Pr 31,22). I vestiti che lei preparava erano di qu<strong>al</strong>ità: fine lino egiziano<br />

d’un bianco perfetto – lo s’indossa direttamente sulla pelle –, mentre <strong>al</strong>tri venivano tinti<br />

con porpora rossa, che oggi sappiamo provenire da un mollusco delle spiagge di Tiro. Vestiti<br />

di lusso e pompa (Pr 31,22). Ma quella donna non si contentava di vestire i suoi; <strong>dei</strong> suoi tessuti<br />

faceva anche commercio; vendeva drappi e anche delle cinture multicolori ass<strong>ai</strong> apprezzate<br />

(Pr 31,24). Dirigeva insomma una fabbrica di tessitura che, d<strong>al</strong>la materia prima <strong>al</strong> prodotto<br />

finito, re<strong>al</strong>izzava tutte le tappe della lavorazione e vendeva direttamente <strong>al</strong> grossista fenicio.<br />

La nostra donna manager non aveva aperto un piccolo commercio di vendita <strong>al</strong> dettaglio.<br />

Il quadro è logico e coerente. È anche in perfetta sintonia con gli usi del tempo e del luogo.<br />

Da questo punto di vista, non è ide<strong>al</strong>istico, ma re<strong>al</strong>istico. Gli elementi che ordinano la descrizione<br />

vanno completati da <strong>al</strong>tri dati del testo. I versetti 19 e 20, a motivo della loro somiglianza<br />

e del loro contrasto, probabilmente dividono in due parti la descrizione. Potremmo,<br />

abbastanza <strong>al</strong>la lettera, tradurli così:<br />

«Slanciava le sue mani sul fuso<br />

e le sue p<strong>al</strong>me tenevano il rocchetto.<br />

Il suo p<strong>al</strong>mo porgeva <strong>al</strong> misero<br />

e le sue mani slanciava verso il povero».<br />

Il versetto 19 la descrive <strong>al</strong> lavoro, mentre il versetto 20 mostra la sua sollecitudine per i<br />

miseri. E in effetti, Pr 31,13-19 descrive le attività di questa dirigente, mentre Pr 31,20-27 ne<br />

sottolinea <strong>al</strong>cune qu<strong>al</strong>ità, in particolare il suo <strong>al</strong>truismo.<br />

Nella prima serie di versetti, Pr 31,13-19, ris<strong>al</strong>ta la sua impetuosa attività: si levava presto<br />

<strong>al</strong> mattino, prima di giorno, e di notte la sua lampada brillava; ma dev’essere un’iperbole, per<br />

dire che si coricava tardi. Ecco una che aveva bisogno di dormir poco! Inoltre, era lei a procurare<br />

a tutta la casa il cibo e anche il vino, perché, con i suoi fruttuosi commerci, aveva potuto<br />

comprare anche una vigna. Infine, i suoi conti li faceva a notte tarda, e poteva costatare il positivo<br />

bilancio della sua impresa, <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e collaborava di persona filando con il fuso.<br />

In compenso, la seconda parte, Pr 31,20-27, la mostra attenta agli <strong>al</strong>tri. I poveri erano i<br />

primi beneficiari della sua efficace bontà. Un tocco autenticamente biblico, che fa capire co-


44 Proverbi<br />

me il successo non avesse fatto imbozzolare quella fortunata donna in se stessa o nei suoi<br />

stretti familiari. Anche questi erano comunque oggetto della sua sollecitudine. Vestiti foderati<br />

per tutti d’inverno. Vestiti di rappresentanza, di cui doveva essere il marito il primo a trar beneficio.<br />

Lui faceva parte del Consiglio della città e in essa aveva un posto importante. Quel<br />

Consiglio, composto di note person<strong>al</strong>ità – gli Anziani –, doveva in concreto assicurare il buon<br />

ordine nelle faccende loc<strong>al</strong>i, discutere i progetti e decidere le controversie fra gli abitanti. Egli<br />

esercitava dunque un’importante funzione pubblica, mentre la sua sposa assicurava il buon<br />

andamento della casa e dell’impresa di famiglia. Segno della nostra epoca, c’è chi ha trovato<br />

scand<strong>al</strong>oso che facesse lavorare così tanto la moglie in casa, mentre lui se ne stava a far girare<br />

i pollici <strong>al</strong>le porte della città! Significa non tener conto delle re<strong>al</strong>i e a volte grandi responsabilità<br />

del marito. A ognuno il suo mestiere! C’è di più, se questo poema è veramente l’elogio<br />

funebre pronunciato d<strong>al</strong> marito (31,28): non sarebbe stato decoroso, se si fosse dilungato sulle<br />

proprie attività. Semplice questione di bon ton! Ma il poema torna <strong>al</strong>le qu<strong>al</strong>ità della defunta.<br />

Forza e dignità la caratterizzavano, e così pure la fiduciosa serenità nel futuro: non la minava<br />

l’ansietà. Ma, soprattutto, questa donna che stava appresso <strong>al</strong>l’intera organizzazione della sua<br />

impresa e che si faceva person<strong>al</strong>mente la pasta per il pane (Pr 31,27), parlava con sapienza a<br />

tutti quelli che abitavano o lavoravano nella sua casa: i suoi avvertimenti e i suoi consigli erano<br />

improntati a bontà (Pr 31,26).<br />

2.4.2.3. Questo ritratto completa il prologo (Pr 1–9)?<br />

La descrizione di questa donna esemplare ha fatto concretamente vedere come ella visse<br />

praticando una sapienza insieme industriosa e sollecita verso gli <strong>al</strong>tri, fin nel modo di parlar<br />

loro. Dobbiamo andar oltre e dare <strong>al</strong> ritratto una dimensione simbolica?<br />

Starebbe semplicemente a simboleggiare la Sapienza? Pr 8,22-31 ha descritto l’origine e<br />

l’infanzia della Sapienza; Pr 9,1-6 l’ha mostrata mentre inaugurava la sua casa. Pr 31,10-31 la<br />

descriverebbe pervenuta <strong>al</strong>la sua maturità di donna? Non si è riuscito a provarlo.<br />

Ma quel che resta vero è che questa sposa e madre ammirevole fu la concretizzazione di<br />

tutto l’ide<strong>al</strong>e della Sapienza. E poté esserlo solamente appropriandosi l’insegnamento <strong>dei</strong> sapienti<br />

e, soprattutto, poiché in qu<strong>al</strong>che modo abitava in lei, come nei sapienti, la Sapienza che<br />

viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to.<br />

Per questo si può capire come m<strong>ai</strong> gli editori del libro <strong>dei</strong> Proverbi abbiano collocato <strong>al</strong>la<br />

fine questo ritratto e anche abbiano precisato, nel testo ebr<strong>ai</strong>co, che la donna era abitata d<strong>al</strong><br />

timore di YHWH (31,30), una cosa che il prologo definiva il principio stesso della sapienza<br />

(1,7; 9,10).<br />

È vero, il prologo ha messo fra loro in fortissimo contrasto la donna di vita m<strong>al</strong>vagia descritta<br />

in Pr 7 e la Sapienza di Pr 8. Il dittico di Pr 9,1-6.13-18 ha ancor più accentuato il contrasto.<br />

Gli ammonimenti paterni che scandiscono il prologo mettevano in guardia d<strong>al</strong>la donna<br />

straniera, descritta qua e là in termini ass<strong>ai</strong> re<strong>al</strong>istici. Non bisognava che a quelle concrete descrizioni<br />

si offrisse, a mo’ di contrappunto, il ritratto <strong>al</strong>trettanto re<strong>al</strong>istico d’una donna esemplare<br />

agli occhi <strong>dei</strong> sapienti? La figura della Sapienza non poteva soddisfare del tutto una simile<br />

esigenza, perché la Sapienza non è una donna di questo mondo, ma la personificazione<br />

della sapienza divina.<br />

C’è sì Pr 5,15-19 a far da contrasto, con la raccomandazione d’evitare la straniera, che facilmente<br />

diventa tentatrice. Ma quei pochi versetti invitano soltanto a restare fedeli <strong>al</strong>la propria<br />

legittima sposa. Di questa, non vien data nessuna precisa descrizione, s<strong>al</strong>vo chiamarla «la<br />

donna della tua giovinezza» (Pr 5,18), «amabile cerbiatta e gazzella deliziosa» (Pr 5,19). E<br />

ciò fa pensare <strong>al</strong> Cantico <strong>dei</strong> cantici e confermerebbe la supposizione che l’invito paterno <strong>al</strong>la<br />

fedeltà verso la sposa legittima sia rivolta a giovani. Del resto, gli scarni accenni <strong>al</strong>la madre<br />

(Pr 1,8; 6,20) e <strong>al</strong> suo insegnamento sono fatti come en passant, senza la minima elaborazione.


Proverbi 45<br />

Mancava dunque, nel prologo, un ritratto in positivo d’una donna concreta che prendesse<br />

in contropiede il ritratto dell’adultera e della prostituta. T<strong>al</strong>e è il senso del ritratto qui dedicato<br />

<strong>al</strong>la «donna forte»: il prologo trova così un’eco.<br />

È per questa ragione che questo fin<strong>al</strong>e ritratto del libro <strong>dei</strong> Proverbi viene perlopiù considerato<br />

opera <strong>dei</strong> redattori del periodo successivo <strong>al</strong>l’esilio. E t<strong>al</strong>e conclusione ne comporta una<br />

seconda: questo ritratto va letto come complemento positivo del prologo: esso fa vedere come<br />

la Sapienza divina può animare una vita di tutti i giorni e fare da antidoto <strong>al</strong>la tentazione. Il<br />

libro finisce insomma con una nota d’ottimismo.<br />

CONCLUSIONE<br />

L’itinerario proposto in queste pagine avrà fatto intuire non soltanto la complessità del libro<br />

<strong>dei</strong> Proverbi, ma anche <strong>al</strong>cune delle sue ricchezze. Oltre a fornire <strong>dei</strong> dati gener<strong>al</strong>i utili per<br />

la comprensione del libro, ci siamo maggiormente dilungati su questo o quel passo più importante.<br />

Forse dobbiamo ancora un’ultima volta sottolineare che questo libro è una somma di<br />

documenti sapienzi<strong>al</strong>i d’origini quanto m<strong>ai</strong> diverse. Qui sono riuniti molti secoli di sapienza;<br />

gli autori furono molti e non tutti appartenevano <strong>al</strong> popolo d’Israele. E ciò fa del libro <strong>dei</strong><br />

Proverbi un compendio di stupenda varietà. È il libro fondament<strong>al</strong>e della sapienza d’Israele.<br />

Gli <strong>al</strong>tri libri sapienzi<strong>al</strong>i dell’Antico Testamento hanno infatti una propria unità interna che<br />

deriva loro d<strong>al</strong>l’unicità dell’autore, <strong>al</strong>meno per quanto concerne la parte essenzi<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> vari libri.<br />

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />

Commenti<br />

ALONSO SCHÖKEL, L. - VÍLCHEZ LÍNDEZ, J., I Proverbi, Roma 1988.<br />

I numerosissimi meriti di questo commento lo collocano tra i tre migliori. Il libro si apre con una<br />

ampia introduzione <strong>al</strong> mondo della sapienza. Un’<strong>al</strong>tra introduzione specifica per i Proverbi e uno studio<br />

delle sue forme letterarie costituiscono il port<strong>al</strong>e d’accesso <strong>al</strong> commento vero e proprio. Prev<strong>al</strong>gono<br />

negli autori due virtù che ben si attagliano <strong>al</strong>l’oggetto del loro studio: l’ingegno e la perspicacia.<br />

Attraverso numerosi esempi comparativi tra le sentenze <strong>dei</strong> Proverbi e l’epigrammatica spagnola (studiati<br />

sotto il profilo della forma, dello stile e del contenuto) il lettore è condotto <strong>al</strong>la comprensione e<br />

<strong>al</strong>l’approfondimento di questo tipo di letteratura. Il lettore troverà una ricca scelta di par<strong>al</strong>leli tratti d<strong>al</strong>le<br />

paremiologia spagnola.<br />

BARUCQ, A., Le livre des Proverbes (SB), Paris 1964.<br />

Una breve introduzione di trenta pagine e una bibliografia sintetica introducono <strong>al</strong> commento. La<br />

forma espositiva varia in ragione dell’ampiezza e delle caratteristiche form<strong>al</strong>i del testo. Mentre per i<br />

capp. 1–9 e 30–31 l’autore commenta separatamente le varie unità, la forma gnomica <strong>dei</strong> capp. 10–29<br />

lo obbliga a cambiare il metodo espositivo. Così nelle diverse raccolte che compongono i capp. 10–29<br />

egli evita il commento delle singole massime a vantaggio <strong>dei</strong> luoghi comuni o degli elementi teologici<br />

della raccolta in oggetto. Questa scelta rende difficoltosa per il lettore la consultazione del commento a<br />

singoli proverbi.<br />

HUBBARD, D.A., Proverbs, D<strong>al</strong>las 1989.<br />

L’elemento più rilevante di quest’opera è la disposizione del commento. I capitoli che lo costituiscono<br />

coincidono in numero con i capitoli <strong>dei</strong> Proverbi; l’autore li commenta capitolo per capitolo, ma<br />

in modo origin<strong>al</strong>e. Di ciascun capitolo sottolinea i luoghi comuni più significativi, studiati <strong>al</strong>la luce di<br />

(e insieme a) sentenze identiche o an<strong>al</strong>oghe del resto <strong>dei</strong> Proverbi. Per evitare confusioni e consentire<br />

<strong>al</strong> lettore di trovare senza difficoltà il passo in cui un certo testo viene commentato <strong>al</strong>l’inizio del libro,<br />

viene proposta una tavola in cui ciascun versetto è affiancato d<strong>al</strong> capitolo e d<strong>al</strong>la pagina in cui viene<br />

trattato. Quest’opera, pur essendo di scarsa utilità per gli speci<strong>al</strong>isti, costituisce senza dubbio un importante<br />

contributo <strong>al</strong>la divulgazione di <strong>al</strong>to livello.


46 Proverbi<br />

MCKANE, W., Proverbs (OTL), London 1977.<br />

È probabilmente il miglior commento <strong>ai</strong> Proverbi d<strong>al</strong> punto di vista degli studi storico-form<strong>al</strong>i.<br />

L’introduzione è dedicata <strong>al</strong>la problematica di Pr 1–9, <strong>al</strong>la letteratura di sentenze <strong>dei</strong> Proverbi, <strong>al</strong> significato<br />

del termine māšāl e <strong>al</strong> testo greco <strong>dei</strong> LXX. La parte più origin<strong>al</strong>e e v<strong>al</strong>ida del libro, che occupa<br />

160 pagine, è incentrata sull’an<strong>al</strong>isi form<strong>al</strong>e delle istruzioni egiziane e assiro-babilonesi. La seconda<br />

parte del libro affronta il commento <strong>ai</strong> Proverbi propriamente detto.<br />

PLÖGER, O., Sprüche S<strong>al</strong>omos (Proverbia) (BK 17), Neukirchen/Vluyn 1984.<br />

Il prestigio e l’<strong>al</strong>to livello scientifico <strong>dei</strong> commenti del «Biblischer Kommentar» sono noti. L’opera<br />

di Plöger non delude le attese <strong>dei</strong> lettori. L’introduzione (pp. xiii-xxxvii) affronta con chiarezza e profondità<br />

la problematica gener<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> Proverbi; gli aspetti particolari e controversi sono trattati nel<br />

commento. Il contenuto dell’esposizione può risultare t<strong>al</strong>volta farraginoso e tedioso, perché l’autore si<br />

perde in dettagli poco o punto decisivi per la comprensione del testo. Tuttavia si tratta di un’opera eccellente,<br />

di consultazione obbligata per gli speci<strong>al</strong>isti.<br />

TOY, C.H., The Book o f Proverbs (ICC), Edinburgh 1948, rist. 1977.<br />

I commenti di questa collana sono caratterizzati d<strong>al</strong>l’eccellente (t<strong>al</strong>volta insuperabile) esame del testo<br />

e per la sobrietà e il rigore dell’esposizione. Il libro di Toy è superiore agli <strong>al</strong>tri della stessa collana<br />

proprio da questi punti di vista. Al contrario è scarso l’interesse per gli aspetti letterari e stilistici, il che<br />

per<strong>al</strong>tro non compromette la posizione privilegiata che questo libro occupa nelle biblioteche.<br />

Altri studi<br />

BOSTRÖM, L., The God of the Sages, Stockholm 1990.<br />

Il sottotitolo di questo libro restringe la portata del titolo: The Portray<strong>al</strong> o f God in the Book of Proverbs.<br />

Una introduzione dedicata <strong>al</strong>la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e e <strong>al</strong> libro <strong>dei</strong> Proverbi conduce il lettore<br />

sulla soglia delle due parti che formano il libro: i. teologia della creazione e ordine (teologia della creazione,<br />

Dio, retribuzione e ordine); ii. rapporto tra Dio e il mondo (il Signore come Dio supremo e<br />

come Dio person<strong>al</strong>e). Le an<strong>al</strong>isi <strong>dei</strong> testi biblici sono affiancate da costanti riferimenti <strong>al</strong>le letterature<br />

di sentenze <strong>dei</strong> paesi vicini a Israele.<br />

KAYATZ, CH., Studien zu Proverbien 1–9, Neukirchen/Vluyn 1966.<br />

Prima di procedere <strong>al</strong>la minuziosa an<strong>al</strong>isi <strong>dei</strong> capp. 1–9 <strong>dei</strong> Proverbi l’autrice dedica un’ampia introduzione<br />

<strong>ai</strong> risultati del metodo comparativo tra le letterature sapienzi<strong>al</strong>i di Israele e d’Egitto, in particolare<br />

per i luoghi comuni più discussi: problemi form<strong>al</strong>i, problemi di contenuto (rapporto azionerisultato;<br />

sapienza e timore di YHWH; processo d’ipostatizzazione). Le an<strong>al</strong>isi form<strong>al</strong>i del resto del libro<br />

attirano l’attenzione del lettore per la chiarezza espositiva, il rigore an<strong>al</strong>itico e le conclusioni sorprendenti.<br />

LANG, B., Die weisheitliche Lehrrede, Stuttgart 1972.<br />

L’opera è dedicata <strong>al</strong>le «istruzioni» del libro <strong>dei</strong> Proverbi. Dopo un’introduzione sui Proverbi nella<br />

critica biblica da Nicola di Lira a Adolf Erman, l’autore affronta le istruzioni d<strong>al</strong> punto di vista letterario<br />

(carattere, funzione ed epoca) ed esegetico (rapporto azione-risultato; pietà e religione; la «donna<br />

straniera»).<br />

LANG, B., Wisdom and the Book of Proverbs, New York 1986.<br />

Questo libro è la traduzione dell’origin<strong>al</strong>e tedesco Frau Weisheit (Donna Sapienza). Il sottotitolo<br />

indica la portata e i limiti del libro: A Hebrew Goddess Redefined. L’opera si compone di quattro capitoli:<br />

1. la Sapienza come maestro; 2. la Sapienza come dea; 3. la Sapienza personificata di fronte <strong>al</strong>la<br />

personificazione della stoltezza; 4. chi è Sapienza? L’opera nel suo insieme è di grande utilità se si esclude<br />

l’errore così frequentemente ripetuto di mettere in rapporto la Sapienza di Pr 1–9 con un corpus<br />

di elementi mitologici che portano a questa inaccettabile affermazione: «In Pr 1–9 scopriamo bei testi<br />

politeistici su una dea israelita. Questa dea, chiamata ˙okmâ (Sapienza o Intelligenza), fu solo in seguito<br />

considerata una semplice personificazione poetica riferita <strong>al</strong>la sapienza scolastica o <strong>al</strong>la sapienza<br />

di Dio stesso» (p. 129).<br />

STEIERT, F.-J., Die Weisheit Israels, ein Fremdkörper im Alten Testament?, Freiburg i.Br. 1990.<br />

L’autore si propone di riesaminare il libro <strong>dei</strong> Proverbi <strong>al</strong>la luce delle istruzioni egiziane, secondo<br />

quanto recita il sottotitolo dell’opera: Eine Untersuchung zum Buch der Sprüche auf dem Hintergrund


Proverbi 47<br />

des ägyptischen Weisheitslehre (Ricerca sul libro <strong>dei</strong> Proverbi sulla base della dottrina sapienzi<strong>al</strong>e egiziana).<br />

Nella prima parte, dedicata <strong>ai</strong> capp. 10–29, in cui si affronta il «locus teologico» della sapienza<br />

israelitica, l’autore passa in rassegna le proposte <strong>dei</strong> princip<strong>al</strong>i studiosi moderni sull’argomento<br />

per rileggerle secondo la prospettiva della sapienza egiziana. Il secondo capitolo è incentrato su Pr 1–<br />

9. È notevole lo studio <strong>dei</strong> rapporti Sapienza/maestro e Sapienza/YHWH.<br />

WHYBRAY, R.N., Wisdom in Proverbs (SBT 45), London 1965.<br />

Anche quest’opera è già un classico dedicato <strong>al</strong>lo studio di Pr 1–9 in rapporto con il problema della<br />

sapienza (I). Dopo un’an<strong>al</strong>isi del «<strong>Libro</strong> <strong>dei</strong> dieci discorsi» (II), l’autore lo compara con le istruzioni<br />

egiziane (III). La parte più interessante del libro studia l’evoluzione del concetto di sapienza in due fasi<br />

(IV). Un sintetico riepilogo riassume la ricerca dell’autore. Nonostante il tempo trascorso d<strong>al</strong>la pubblicazione<br />

e i recenti interventi critici su <strong>al</strong>cune sue idee, quest’opera è ancora una lettura utile e indispensabile.<br />

Inoltre, in it<strong>al</strong>iano, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />

BERNINI, G., Proverbi (NVB 19), Roma 1978.<br />

LAURENTINI, G., Proverbi, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la<br />

Bibbia 3), Bologna 1978, 377-404.<br />

RAVASI, G., Proverbi, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988, 1247-1257.<br />

BONORA, A., Proverbi-Sapienza: sapere e felicità (LoB 1.14), Brescia 1990<br />

MCCREESH, T.P., Proverbi, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 591-601.<br />

MORLA ASENSIO, V., Il libro <strong>dei</strong> Proverbi, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo<br />

studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 91-116.<br />

BONORA, A., Proverbi, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4),<br />

Torino-Leumann 1997, 47-56.<br />

MAZZINGHI, L., Il libro <strong>dei</strong> Proverbi (Guide spiritu<strong>al</strong>i <strong>al</strong>l’Antico Testamento), Roma 2003.<br />

PINTO, S., “Ascolta figlio”. Autorità e antropologia dell’insegnamento in Proverbi 1–9, Roma 2006.<br />

SIGNORETTO, M., Metafora e didattica in Proverbi 1–9, Assisi 2006.<br />

CIMOSA, M., Proverbi. Nuova versione, introduzione e commento (I libri biblici. Primo Testamento<br />

22), Milano 2007.<br />

Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 1/2003: «Il libro <strong>dei</strong> Proverbi».


1. GIOBBE NELLA STORIA<br />

GIOBBE *<br />

Quando si evoca il libro di Giobbe vengono fatte risuonare differenti armoniche, che variano<br />

in rapporto <strong>al</strong>l’uditorio o <strong>al</strong>l’ambiente. A volte, infatti, è il problema della sofferenza o lo<br />

scand<strong>al</strong>o del m<strong>al</strong>e nel mondo a provocare maggiormente la riflessione. In <strong>al</strong>tri casi, in sintonia<br />

con una lunga tradizione giud<strong>ai</strong>co-cristiana, emerge in modo specifico la questione della sofferenza<br />

dell’innocente; nel personaggio di Giobbe viene identificato il popolo di Israele perseguitato,<br />

o ancora, in ambito cristiano, la figura del Crocifisso del C<strong>al</strong>vario. Ai numerosi lettori<br />

contemporanei, che privilegiano una lettura incentrata sui di<strong>al</strong>oghi colmi di pathos del libro,<br />

Giobbe appare come l’uomo ribelle. Per <strong>al</strong>tri, più attenti <strong>al</strong>la «storia» del prologo e<br />

dell’epilogo, egli è il modello dell’uomo sottomesso <strong>al</strong> destino o <strong>al</strong>la volontà di Dio.<br />

Qu<strong>al</strong>unque sia stata la sua destinazione originaria, questo libro viene annoverato nella<br />

Scrittura fra i «libri sapienzi<strong>al</strong>i». Questo fatto va tenuto in considerazione <strong>ai</strong> fini di una corretta<br />

interpretazione. Infatti, mentre la Torāh e i Profeti dicono e interpretano la Parola che Dio<br />

rivolge <strong>al</strong>l’uomo, gli scritti sapienzi<strong>al</strong>i esprimono i sentimenti e i pensieri dell’uomo responsabile<br />

del mondo che è creato e che riceve un fine da Dio. La Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca colloca il libro di<br />

Giobbe dopo i S<strong>al</strong>mi e i Proverbi, con i qu<strong>al</strong>i forma un gruppo indivisibile, e prima del Cantico.<br />

La Bibbia greca e la Volgata latina lo situano immediatamente dopo i S<strong>al</strong>mi e prima <strong>dei</strong><br />

Proverbi. Nelle nostre traduzioni moderne Giobbe lo si trova <strong>al</strong>l’inizio <strong>dei</strong> libri sapienzi<strong>al</strong>i,<br />

prima del S<strong>al</strong>terio e <strong>dei</strong> Proverbi (Bibbia di Gerus<strong>al</strong>emme), o fra il S<strong>al</strong>terio e i Proverbi<br />

(TOB).<br />

Non si può leggere quest’opera senza porsi <strong>dei</strong> problemi essenzi<strong>al</strong>i: a che serve la vita umana<br />

se la sofferenza è inevitabile? Come si pone Dio di fronte <strong>al</strong> m<strong>al</strong>e dell’uomo? Se Dio è<br />

buono, perché la sofferenza? In nome di qu<strong>al</strong>e giustizia soffre l’innocente? Ha un senso la<br />

preghiera quando l’uomo è colpito d<strong>al</strong>l’afflizione e piomba nell’angoscia della morte?... In<br />

modo ancora più radic<strong>al</strong>e, questo scritto sapienzi<strong>al</strong>e suscita l’interrogativo supremo: «La sofferenza<br />

dell’uomo ha forse un senso: un significato o un orientamento, meglio, una fin<strong>al</strong>ità?».<br />

I grandi teologi non hanno ignorato questo libro: sant’Agostino (354-430), san Girolamo<br />

(342-419), sant’Ambrogio (333-397), per citarne solamente <strong>al</strong>cuni, lo hanno meditato e commentato.<br />

In particolare, si possono ricordare gli Scritti mor<strong>al</strong>i su Giobbe di Gregorio Magno<br />

(540-604); sviluppando il triplice senso della Scrittura (storico, <strong>al</strong>legorico e mor<strong>al</strong>e), egli si<br />

preoccupa di far percepire come la dottrina cristiana sia orientata <strong>al</strong>la pratica. San Tommaso<br />

ha scritto un commentario ricco e approfondito, che si propone di presentare una nozione esatta<br />

della provvidenza divina così come essa appare nella Sapienza di cui ci parlano i libri santi,<br />

e in modo singolare quello di Giobbe.<br />

La letteratura, lungo il corso <strong>dei</strong> secoli, si è ispirata a quest’opera: il XV secolo ci offre il<br />

bel Mistero della Pazienza di Giobbe, mentre Pasc<strong>al</strong>, Racine e Bossuet evidenziano più volentieri<br />

il suo carattere tragico. Gli scrittori moderni si sono lasciati afferrare da questa potente<br />

figura dell’uomo Giobbe, schiacciato arbitrariamente da m<strong>al</strong>i immeritati e che grida <strong>al</strong> mondo<br />

la sua ribellione contro una ingiustizia la cui stessa dismisura indica Dio come il grande responsabile.<br />

Citiamo il filosofo Søren Kierkegaard, lo psicologo C.G. Jung, il pensatore Philippe<br />

Nemo. Questo leggendario contestatore non è forse presente nella filigrana di grandi capolavori<br />

qu<strong>al</strong>i il Faust di Goethe, La peste d’Albert Camus, I fratelli Karamazov di Dostoevskij,<br />

i film di Bergman, qu<strong>al</strong>i Luci d’inverno o Sussurri e grida?<br />

* Cfr. J. LÉVÊQUE, <strong>Libro</strong> di Giobbe, in J. AUNEAU (ed.), I s<strong>al</strong>mi e gli <strong>al</strong>tri scritti (Piccola Enciclopedia Biblica<br />

5), Roma 1991, 89-114; D. SCAIOLA, Giobbe, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri<br />

scritti (Logos 4), Torino-Leumann 1997, 60-67; J. RADERMAKERS, Il libro di Giobbe. Dio, l’uomo e la sapienza,<br />

Bologna 1999, 11-15; W. VOGELS, Giobbe. L’uomo che ha parlato bene di Dio, Cinisello B<strong>al</strong>samo 2001.


Giobbe 49<br />

Da parte loro, i condannati di Auschwitz, così come gli uomini della resistenza del S<strong>al</strong>vador,<br />

vi hanno riconosciuto il volto del loro dolore e della loro ribellione, <strong>al</strong> punto che questa<br />

immagine dell’uomo piagato ma non vinto assilla gli spiriti <strong>dei</strong> sofferenti di sempre e di ogni<br />

luogo: il m<strong>al</strong>e dell’uomo, la sofferenza contro la qu<strong>al</strong>e egli si dibatte disperatamente hanno un<br />

senso o non è invece il segno dell’assurdo nel cuore della nostra umanità?<br />

M<strong>al</strong>grado l’incontestabile posta in gioco di t<strong>al</strong>e opera, la liturgia romana fa poco spazio a<br />

questo scritto sapienzi<strong>al</strong>e, lasciando <strong>al</strong> drammaturgo o <strong>al</strong> romanziere la cura di «rappresentare»<br />

il dramma che esso esprime. Due piccoli passi sono ripresi nel lezionario domenic<strong>al</strong>e: la<br />

5 a e la 12 a domenica nell’anno del ciclo B; si tratta di un lamento, tutto sommato poco incisivo,<br />

sul destino umano paragonato a un duro lavoro (7,1-7), e dell’inizio del discorso di Dio,<br />

che mostra la grandezza del suo progetto creatore (38,1-11). Per contro, l’antica liturgia <strong>dei</strong><br />

defunti citava una decina di passi del libro di Giobbe, culminando con l’annuncio velato della<br />

risurrezione in 19,25-27; quella uscita d<strong>al</strong> Vaticano II non ha seguito le sue orme. Ci si può dispiacere<br />

per questo. La 26 a settimana del Tempo ordinario presenta, ogni due anni, <strong>dei</strong> tratti<br />

significativi del prologo (1,6-22) e dell’epilogo (42,1-6.12-17), poi dell’angoscia (9,1-19) e<br />

della speranza (19,21-27) di Giobbe, e infine del discorso di Dio (38,1-3.12-21 e 40,3-5). Il<br />

martirologio romano poi, iscrive <strong>al</strong> 10 di maggio la festa di san Giobbe, «uomo di una ammirabile<br />

pazienza». Il suo culto lo si vede apparire nel IV secolo, a Bosra, <strong>al</strong>la frontiera fra<br />

l’Arabia e l’Idumea (cfr. Gen 36,33; Is 34,6; 63,1), ma la pellegrina spagnola Egeria situa la<br />

tomba del santo a Carneas, nell’Ausitide: riflesso di due antiche tradizioni divergenti. In occidente,<br />

il culto di san Giobbe si è fissato a Pavia, Bologna e Venezia, così come in Belgio, e<br />

particolarmente a Uccle. Lo si invoca contro la lebbra e l’elefantiasi.<br />

Il personaggio di Giobbe è rappresentato nell’arte <strong>dei</strong> primi secoli, ad esempio nelle catacombe<br />

romane di C<strong>al</strong>listo e Domitilla, nei sarcofagi di Giunio Basso <strong>al</strong> Museo Vaticano e a<br />

Lione. Lo si vede nelle miniature bizantine, poi, d<strong>al</strong> X secolo, nelle sculture romaniche a Ripoll<br />

in Cat<strong>al</strong>ogna, a Tolosa e ad Avignone; raffigura la passione e la risurrezione di Cristo. Si<br />

profila sui timpani di Reims e di Chartres (XIII sec.) e adorna i manoscritti <strong>dei</strong> Mor<strong>al</strong>ia di san<br />

Gregorio (Bibbia di Sauvigny a Moulins), poi, verso il XV secolo, i «libri delle ore», fra cui<br />

quello di Stefano Chev<strong>al</strong>ier, a Reims, o quello di Anna di Bretagna. Notiamo ancora le Bibbie<br />

fiamminghe del XVI secolo, in particolare quella di Willem Vorsterman (1528), che fa di<br />

Giobbe il patrono <strong>dei</strong> menestrelli, rappresentati d<strong>ai</strong> suoi amici che vengono a fargli una mattinata.<br />

Nella maggior parte di queste rappresentazioni, Giobbe appare come un modello di pazienza,<br />

che prefigura le sofferenze del Crocifisso. Nel rinascimento viene posto l’accento soprattutto<br />

sulle prove di Giobbe, torturato da satana, schernito da sua moglie e d<strong>ai</strong> suoi amici,<br />

come nella p<strong>al</strong>a di Van Orley a Bruxelles o in quelle di Dürer a Francoforte e a Colonia, e, d<strong>al</strong><br />

XVII secolo, nelle pitture di Lievens e di Rubens, <strong>al</strong> Museo del Louvre, e in quelle di Rembrandt<br />

e di La Tour (Epin<strong>al</strong>), di Murillo e di Ribera in Spagna, fino agli acquerelli per il libro<br />

di Giobbe di W. Blake (1825) o lo studio recente di Françoise Burtz a Lilla. Notiamo ancora<br />

la straziante statua dello scultore israeliano Nathan Rapoport posta <strong>al</strong>l’ingresso del memori<strong>al</strong>e<br />

di Yad Vashem a Gerus<strong>al</strong>emme.<br />

Anche l’islam fa spazio <strong>al</strong>la figura di Giobbe (’Ayyûb). Il Corano ne parla più volte e la<br />

versione di <strong>al</strong>-Kisâ’î, fra l’<strong>al</strong>tro, apporta numerosi dettagli leggendari che non comp<strong>ai</strong>ono nella<br />

Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca. Così la moglie di Giobbe, il cui ruolo è abbellito, sarebbe lei pure musulmana:<br />

simboleggia, in qu<strong>al</strong>che modo, la moglie fedele che non abbandona suo marito nell’avversità.<br />

La tradizione dell’islam presenta così il personaggio di Giobbe come il modello della<br />

pazienza nella prova, e anche come tipo del vero mistico.


50 Giobbe<br />

2. IL PERSONAGGIO DI GIOBBE<br />

Se si dà retta <strong>al</strong> T<strong>al</strong>mud di Babilonia, «Giobbe non è m<strong>ai</strong> esistito, e non è m<strong>ai</strong> stato creato.<br />

È solo una parabola» 1 . Così la tradizione giud<strong>ai</strong>ca considera prioritaria innanzitutto la questione<br />

della sofferenza, lasciando in secondo piano l’identità del sofferente. I libri sapienzi<strong>al</strong>i<br />

infatti, eliminano gener<strong>al</strong>mente gli aspetti concreti della storia per conservare soltanto il carattere<br />

umano univers<strong>al</strong>e di un problema o di un tema. Ora l’autore del libro di Giobbe situa il<br />

suo personaggio nel tempo – l’epoca patriarc<strong>al</strong>e – e nello spazio – in Edom o in Arabia. Questo<br />

indica la volontà di sottolineare la re<strong>al</strong>tà dell’eroe messo in scena e nello stesso tempo di<br />

mostrare che egli non si riduce a una figura emblematica. Se il lettore può riconoscere la sua<br />

person<strong>al</strong>e sofferenza o quella <strong>dei</strong> suoi parenti nel personaggio del libro, è perché quest’ultimo<br />

ha prima di tutto una consistenza storica: colpito lui stesso d<strong>al</strong>la sventura, riassume nella sua<br />

esistenza le sofferenze re<strong>al</strong>i di uomini e di donne della storia umana, nel senso in cui la storia,<br />

lungi d<strong>al</strong>l’essere imprigionata in individu<strong>al</strong>ità giustapposte, concerne tutti coloro che la vivono,<br />

e la cui testimonianza è consegnata nel libro.<br />

Il personaggio di Giobbe non è sconosciuto nella Bibbia. Come <strong>al</strong>tri, è testimone di una re<strong>al</strong>tà<br />

vit<strong>al</strong>e diventata esemplare. Due testi della Scrittura ne fanno menzione: l’uno, nel libro di<br />

Ezechiele, appartiene <strong>al</strong>l’Antico Testamento; l’<strong>al</strong>tro, nella Lettera di Giacomo, appartiene <strong>al</strong><br />

Nuovo Testamento.<br />

Il testo di Ez 14,12-23 parla del peccato e della responsabilità person<strong>al</strong>e:<br />

«Figlio dell’uomo, se un paese pecca contro di me e si rende infedele, io stendo la mano sopra di lui... anche<br />

se nel paese vivessero Noè, Daniele e Giobbe: come è vero che io vivo, dice il Signore Dio: non s<strong>al</strong>verebbero<br />

né figli né figlie, essi con la loro giustizia s<strong>al</strong>verebbero solo se stessi.<br />

Dice infatti il Signore Dio: Quando manderò contro Gerus<strong>al</strong>emme i miei quattro tremendi castighi: la spada,<br />

la fame, le bestie feroci e la peste, per estirpare da essa uomini e bestie, ecco, vi sarà in mezzo ad essi un residuo<br />

che si metterà in s<strong>al</strong>vo, con i figli e le figlie. Essi verranno da voi perché vediate la loro condotta e le<br />

loro opere e vi consoliate del m<strong>al</strong>e che ho mandato contro Gerus<strong>al</strong>emme, di quanto ho mandato contro di lei.<br />

Essi vi consoleranno quando vedrete la loro condotta e le loro opere e saprete che non invano ho fatto quello<br />

che ho fatto in mezzo a lei. Parola del Signore Dio».<br />

Il profeta fa <strong>al</strong>lusione a un peccato collettivo di infedeltà <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>leanza di Dio. Questi ha il<br />

dovere di infierire contro il paese attraverso i cataclismi ben noti: la violenza commessa contro<br />

l’<strong>al</strong>leanza richiede una violenza di compensazione contro le persone che hanno peccato;<br />

questa è la legge della retribuzione assegnata <strong>al</strong>la giustizia divina. Questa violenza si esercita<br />

con la carestia distruttrice, le bestie feroci, la guerra e la peste, cioè attraverso l’aggressività<br />

degli uomini e della natura: ritroveremo l’una e l’<strong>al</strong>tra nel prologo del libro di Giobbe. Ora il<br />

profeta suppone che abitino questo paese tre uomini esemplari: Noè, la figura del giusto per<br />

eccellenza (cfr. Gen 6,9), che ha attraversato il diluvio delle potenze del m<strong>al</strong>e; Daniele, presente<br />

nei testi fenici del II millennio ritrovati a Ugarit, è un esempio insigne di virtù e di sapienza<br />

nella sofferenza – da identificarsi senza dubbio con l’eroe del libro di Daniele (cfr.<br />

Dan 2,14ss) –, che sfida i fulmini di Nabucodonosor e interpreta i suoi sogni; e Giobbe, di cui<br />

il prologo ci descrive la pazienza e la sottomissione in mezzo <strong>al</strong>le prove. Ebbene, continua il<br />

profeta, questi tre uomini «con la loro giustizia s<strong>al</strong>veranno solo se stessi» (Ez 14,14.20), mentre<br />

i loro figli periranno, senza possibilità di intercessione paterna.<br />

Il profeta, come si vede, mette l’accento sulla responsabilità individu<strong>al</strong>e, dovendo ciascuno<br />

portare il peso e le conseguenze del proprio peccato, nel quadro di una giusta retribuzione, fino<br />

a sembrare escludere la partecipazione <strong>ai</strong> meriti <strong>dei</strong> propri padri. Tuttavia questi tre personaggi,<br />

che la loro giustizia person<strong>al</strong>e protegge, s<strong>al</strong>vando la loro vita, diventano per i loro contemporanei,<br />

grazie <strong>al</strong> profeta, una interpellanza e un invito <strong>al</strong>la conversione. L’applicazione<br />

che Ezechiele fa a Gerus<strong>al</strong>emme è significativa: m<strong>al</strong>grado l’irrompere <strong>dei</strong> quattro terribili flagelli,<br />

c’è un resto: <strong>dei</strong> sopravvissuti che hanno resistito <strong>al</strong> m<strong>al</strong>e e hanno retto grazie <strong>al</strong>la loro<br />

1 Trattato Baba Bathra 15 ab.


Giobbe 51<br />

perseveranza. Questi testimoni sono «consolazione» per i loro fratelli. Non c’è dunque soltanto<br />

una giustizia retributiva che castiga i m<strong>al</strong>vagi, ma esiste anche una azione consolatrice <strong>dei</strong><br />

giusti in rapporto <strong>ai</strong> loro contemporanei, segno della misericordia di Dio <strong>al</strong> di là della stretta<br />

retribuzione. E si intuisce che questa deve non solo invitare gli uomini <strong>al</strong> pentimento, ma aprirli<br />

anche <strong>al</strong>l’esatta comprensione dell’azione di Dio, ugu<strong>al</strong>mente responsabile.<br />

È difficile decidere se questo oracolo di Ezechiele è posteriore o anteriore <strong>al</strong> libro di Giobbe,<br />

e particolarmente <strong>al</strong> racconto del prologo. Ad ogni modo, questi due testi sembrano presentare<br />

una stessa teologia, ispirata da una riflessione sulla distruzione di Gerus<strong>al</strong>emme di cui<br />

fu testimone il profeta (cfr. Ez 24,15-27). Senza dubbio esisteva una «leggenda di Giobbe», un<br />

antico racconto tradizion<strong>al</strong>e utilizzato d<strong>al</strong> prologo del nostro scritto; è a questo che si riferirebbe<br />

l’oracolo di Ezechiele.<br />

Anche il Nuovo Testamento fa una <strong>al</strong>lusione a Giobbe, in Gc 5,11:<br />

«Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di<br />

Giobbe e conoscete la sorte fin<strong>al</strong>e che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di<br />

compassione».<br />

Si tratta qui dell’avvento del Signore che si attende come l’agricoltore che nutre la speranza<br />

che una bella mietitura verrà a ricompensarlo <strong>dei</strong> suoi sforzi. Il Signore viene per giudicare<br />

gli uomini, invitandoci fin d’ora ad assumere un atteggiamento di pazienza in mezzo ad una<br />

sofferenza paragonabile a quella <strong>dei</strong> profeti «che hanno parlato in nome del Signore». E<br />

l’autore cita il modello proverbi<strong>al</strong>e della costanza nella prova: Giobbe, prima di riprendere un<br />

versetto più volte ripetuto nella Bibbia d<strong>al</strong>l’apparizione del Dio di misericordia <strong>al</strong>la fine<br />

dell’episodio del vitello d’oro (cfr. Es 34,6; S<strong>al</strong> 103,8...); «perché il Signore è ricco di misericordia<br />

e di compassione». Giacomo parla qui di Giobbe per riferirsi <strong>al</strong>la misericordia e <strong>al</strong>la<br />

compassione di Dio nel tempo stesso in cui ricorda la sua pazienza e la sua perseveranza nella<br />

prova. Così Ezechiele sottolineava piuttosto la giustizia di Giobbe e il suo ruolo di consolatore<br />

per i suoi contemporanei. Giacomo lo considera soprattutto come un modello di costanza,<br />

nel qu<strong>al</strong>e si scopre qu<strong>al</strong>cosa della misericordia di Dio.<br />

Ma il passo della Lettera di Giacomo non finisce lì. Egli porta avanti la sua idea nella sua<br />

esortazione fin<strong>al</strong>e (Gc 5,13-20):<br />

«Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia s<strong>al</strong>meggi. Chi è m<strong>al</strong>ato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa<br />

e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede s<strong>al</strong>verà il<br />

m<strong>al</strong>ato: il Signore lo ri<strong>al</strong>zerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati<br />

gli uni agli <strong>al</strong>tri e pregate gli uni per gli <strong>al</strong>tri per essere guariti.<br />

Molto v<strong>al</strong>e la preghiera del giusto fatta con insistenza. Elia era un uomo della nostra stessa natura: pregò intensamente<br />

che non piovesse e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi pregò di nuovo e il cielo<br />

diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto.<br />

Fratelli miei, se uno di voi si <strong>al</strong>lontana d<strong>al</strong>la verità e un <strong>al</strong>tro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce<br />

un peccatore d<strong>al</strong>la sua via di errore, s<strong>al</strong>verà la sua anima d<strong>al</strong>la morte e coprirà una moltitudine di peccati».<br />

Così la preghiera della fede – conversazione con Dio – appare come rimedio <strong>al</strong>la sofferenza.<br />

Essa è accoglienza del perdono di Dio; conduce <strong>al</strong>la condivisione scambievole delle proprie<br />

debolezze e <strong>al</strong>la solidarietà nell’atto di guarigione. E dopo il modello di Giobbe, è quello<br />

di Elia, l’intercessore, che viene proposto <strong>al</strong>la nostra meditazione: la supplica fervente del<br />

giusto ha una sicura efficacia. E di nuovo il fin<strong>al</strong>e della lettera ritorna <strong>al</strong>l’intercessione e <strong>al</strong>la<br />

correzione fraterna che manifestano la solidarietà fra giusti e peccatori.<br />

Queste due menzioni scritturistiche di Giobbe ci dicono il modo in cui la tradizione giud<strong>ai</strong>co-cristiana<br />

considera il personaggio; ci aprono un cammino di interpretazione. Giobbe appare<br />

come il segno della presenza di Dio giusto e misericordioso. È modello di resistenza nella<br />

prova, e come t<strong>al</strong>e, la sua testimonianza per noi è insieme consolazione e mediazione. Ma è<br />

forse questa la visione che ci dà una prima lettura di Giobbe? Non appare piuttosto come il<br />

paradigma della contestazione e della ribellione? L’accettazione di questi contrasti fa parte<br />

dell’atto di lettura del libro nella Scrittura e nella Tradizione.


52 Giobbe<br />

3. PARALLELI EXTRA-BIBLICI<br />

La tematica del libro di Giobbe è trattata anche da <strong>al</strong>tri autori del Vicino Oriente Antico in<br />

testi che affrontano espressamente il tema dell’uomo davanti <strong>al</strong> dolore o il tema del «giusto<br />

sofferente».<br />

3.1. MESOPOTAMIA<br />

È la Mesopotamia che ha fornito finora i par<strong>al</strong>leli più convincenti <strong>al</strong> libro di Giobbe sul<br />

tema della sofferenza del giusto. Sembra che il mistero, irritante per la ragione umana, di un<br />

destino che sfugge a tutte le regole della giustizia, abbia fin d<strong>al</strong> principio intrigato gli abitanti<br />

della regione <strong>dei</strong> due fiumi d<strong>al</strong> momento che d<strong>al</strong>l’epoca proto-sumera attraverso l’epoca di<br />

Hammurabi, il periodo cassita, assiro e fino agli ultimi tempi <strong>dei</strong> Sargonidi, non è m<strong>ai</strong> venuto<br />

meno in Mesopotamia l’interesse per i problemi umani e teologici sollevati d<strong>al</strong>l’arbitrarietà<br />

del destino.<br />

3.1.1. Teodicea babilonese<br />

Tra i testi del mondo mesopotamico il più vicino a Giobbe per il genere letterario e la teologia<br />

soggiacente è la Teodicea babilonese 2 , una conversazione filosofica sul problema del<br />

m<strong>al</strong>e tra un uomo angosciato e il suo amico. Alla fine nessun intervento divino cambia la situazione<br />

del protagonista. Molto sviluppato in questo testo è il di<strong>al</strong>ogo e interessante è il cambiamento<br />

che avviene nell’amico: a partire da una posizione positiva e disponibile, poco a poco<br />

si indurisce fino ad attaccare il protagonista accusandolo di empietà. Ma anche per lui gli<br />

dèi finiranno per divenire enigmatici.<br />

Entrambi i personaggi subiscono un’evoluzione: il primo passa d<strong>al</strong> dubbio e d<strong>al</strong>la ribellione<br />

<strong>al</strong>l’accettazione, mentre l’<strong>al</strong>tro parte d<strong>al</strong>la certezza e arriva <strong>al</strong> mistero. I punti di contatto<br />

col libro di Giobbe sono: la forma di<strong>al</strong>ogata, l’ironia, la difesa della teologia tradizion<strong>al</strong>e. In<br />

entrambi i casi viene messa in discussione la giustizia degli dèi, il tono gener<strong>al</strong>e è pessimistico,<br />

ma la soluzione del conflitto si pone in Giobbe su un piano più elevato.<br />

3.1.2. Il «Giobbe sumerico»<br />

Il testo, noto anche come «Lamentazione di un uomo <strong>al</strong> suo dio», può essere suddiviso in<br />

cinque parti. Nella prima si invita a lodare la divinità e questo fornisce lo sfondo sul qu<strong>al</strong>e inserire<br />

la storia di un individuo innocente («non usa la sua forza per fare il m<strong>al</strong>e») che, colpito<br />

d<strong>al</strong>la sofferenza e d<strong>al</strong>la m<strong>al</strong>attia, si rivolge <strong>al</strong> suo dio (seconda parte). La sezione centr<strong>al</strong>e sviluppa<br />

il lamento del protagonista, f<strong>al</strong>samente accusato, perciò caduto in disgrazia presso il re,<br />

tradito da compagni e amici, senza che il suo dio intervenga. La causa di tutto questo potrebbe<br />

essere imputata <strong>al</strong>la colpa person<strong>al</strong>e. La quarta parte descrive il rovesciamento della situazione<br />

perché la divinità «cambiò la sofferenza dell’uomo in gioia» e il testo si chiude con una lode<br />

<strong>al</strong> dio.<br />

La tesi gener<strong>al</strong>e è che, quando si sperimenta la sofferenza, anche ingiustificata, bisogna ricorrere<br />

<strong>al</strong>la divinità; interessante è la relazione stabilita tra peccato e sofferenza: anche se il<br />

protagonista sembra essere un giusto, non è esente d<strong>al</strong>la situazione di colpa, comune <strong>al</strong>la condizione<br />

umana, e neanche da possibili colpe person<strong>al</strong>i. Rispetto a Giobbe, questo testo <strong>ai</strong>uta a<br />

comprendere le posizioni degli amici; però non viene posto il problema della teodicea perché<br />

il peccato spiega tutto.<br />

2 Conosciuta anche come «Poema acrostico» o «Di<strong>al</strong>ogo di un sofferente con il suo amico». Per il testo, variamente<br />

datato, vedi ANET, 601-604; G.R. CASTELLINO, Testi sumeri e accadici, Torino 1977, 493-500.


Giobbe 53<br />

3.1.3. «Voglio lodare il signore della sapienza»<br />

Si tratta di un ampio monologo 3 in cui il protagonista loda il suo dio Marduk per averlo liberato<br />

da tutte le sofferenze che gli erano capitate. Degna di nota è l’ambiv<strong>al</strong>enza di questa<br />

divinità che <strong>al</strong>terna momenti di collera a momenti di compassione. Il testo, pur descrivendo<br />

una situazione di angoscia simile a quella contenuta nel libro di Giobbe, appare fin d<strong>al</strong>l’inizio<br />

orientata verso la soluzione positiva («Voglio lodare») riducendo la tensione drammatica del<br />

poema. Dominante infatti nel testo non è la situazione di crisi nella qu<strong>al</strong>e si trova il protagonista<br />

e neanche l’enigma rappresentato d<strong>ai</strong> diversi atteggiamenti di Marduk, ma la gioia di aver<br />

ricuperato la s<strong>al</strong>ute e la fiducia nel dio.<br />

Ritroviamo qui la tesi fondament<strong>al</strong>e sostenuta d<strong>al</strong> «Giobbe sumerico»: nella sofferenza si<br />

deve ricorrere agli dèi e aspettare da essi la s<strong>al</strong>vezza. Pure in questo testo la teodicea non è un<br />

problema perché l’enigma, se c’è, consiste nel conoscere ciò che fa piacere <strong>al</strong>la divinità e che<br />

permette, di conseguenza, di essere liberati d<strong>al</strong>la punizione.<br />

In conclusione, da questo rapido confronto emerge la superiorità del libro di Giobbe: per la<br />

complessità della struttura, per l’estensione dell’opera, per la tensione drammatica e per la<br />

ricchezza della problematica; insieme è interessante notare che l’autore, in fondo, non ha creato<br />

nulla perché si è servito di temi e motivi già noti nell’ambiente cultur<strong>al</strong>e e religioso del Vicino<br />

Oriente Antico. Soprattutto ha saputo mantenere uniti due atteggiamenti diversi che si<br />

trovano nell’uno o nell’<strong>al</strong>tro testo rispetto <strong>al</strong> problema: il lamento («Giobbe sumerico») e il<br />

confronto intellettu<strong>al</strong>e (Teodicea babilonese). Giobbe inizia con il lamento, ma tiene desta anche,<br />

soprattutto nel di<strong>al</strong>ogo con gli amici, la ricerca intellettu<strong>al</strong>e.<br />

3.2. EGITTO<br />

3.2.1. Di<strong>al</strong>ogo di un disperato con la sua anima 4<br />

L’opera utilizza la forma del di<strong>al</strong>ogo tra un uomo stanco di vivere e la sua anima. Il protagonista,<br />

deluso soprattutto d<strong>al</strong>la corruzione della società, si sente solo e abbattuto, mentre la<br />

sua anima cerca di dissuaderlo d<strong>al</strong> commettere un gesto insano, temendo di non poter godere<br />

di riti funerari degni. Questo di<strong>al</strong>ogo non costituisce in senso stretto un precedente letterario<br />

del libro di Giobbe, anche se <strong>al</strong>cuni aspetti sono interessanti. In primo luogo l’uso del di<strong>al</strong>ogo,<br />

che darà origine in Mesopotamia <strong>al</strong>la figura dell’amico che discute, consola o intercede, un<br />

procedimento che avrà un grande sviluppo in Giobbe.<br />

Rilevante è poi la situazione complessiva di difficoltà e di disillusione in cui versa il protagonista<br />

e che genera in lui l’idea del suicidio come unica via di scampo (una soluzione che<br />

Giobbe, essendo un credente, non prenderà m<strong>ai</strong> in considerazione). A differenza di Giobbe,<br />

però, questo testo non si pone il problema della teodicea, non si sforza cioè di coniugare la<br />

sofferenza con la re<strong>al</strong>tà di un dio creatore e provvidente.<br />

La differenza tra Giobbe e la letteratura egiziana sul giusto sofferente appare particolarmente<br />

sensibile per quel che riguarda il pessimismo. È vero che l’Egitto ha conosciuto periodi<br />

di profonda depressione spiritu<strong>al</strong>e (per es. il Primo Periodo Intermedio), imputabili ad una difficile<br />

situazione politica e soci<strong>al</strong>e. L’Egiziano ha imparato <strong>al</strong>lora ad attendere tutto dagli dèi,<br />

sviluppando, <strong>al</strong>meno embrion<strong>al</strong>mente, una sorta di pietà person<strong>al</strong>e, di religione del povero.<br />

Resta però vero che, nonostante la situazione politica segnata da insicurezza e da sconvolgimenti<br />

soci<strong>al</strong>i abbia t<strong>al</strong>volta messo a dura prova l’ottimismo di fondo di questa cultura, favorendo<br />

l’emergere di un certo scetticismo, per esempio a proposito dell’efficacia delle pratiche<br />

funerarie, il pessimismo non raggiungerà m<strong>ai</strong> in Egitto la densità esistenzi<strong>al</strong>e e la violenza che<br />

rendono Giobbe così vero e la sua angoscia così umana. La teologia egiziana rimane inconsi-<br />

3 Spesso citato anche come Ludlul bel nemeqi; cfr. G.R. CASTELLINO, Testi sumeri e accadici, 478-492.<br />

4 ANET, 405-407; E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Torino 2 1969, 111-118.


54 Giobbe<br />

stente e rende impossibile la maturazione di un’esperienza di fede autentica, come pure il confronto<br />

decisivo tra la libertà umana e la volontà sovrana di un Dio creatore e provvidente univers<strong>al</strong>e.<br />

Le questioni e le soluzioni che toccavano il destino e la sofferenza affioravano nella<br />

riflessione individu<strong>al</strong>e e nella coscienza collettiva solo a livello dell’immaginario, senza apportare<br />

certezze né esigere convinzioni. Insomma, la religione egiziana resta troppo elementare,<br />

troppo amabile e noncurante per suscitare la crisi esistenzi<strong>al</strong>e che si legge in Giobbe.<br />

In conclusione, la leggenda primitiva di Giobbe, la forma del di<strong>al</strong>ogo con gli amici e lo<br />

scenario cultur<strong>al</strong>e di fondo del libro provengono d<strong>al</strong>la regione <strong>dei</strong> due fiumi; l’Egitto non ha<br />

fornito che delle immagini e <strong>dei</strong> generi letterari (la questione retorica e la confessione negativa),<br />

ma è soprattutto la Bibbia, in particolare le tradizioni sapienzi<strong>al</strong>i e s<strong>al</strong>miche (secondariamente<br />

quelle profetiche), che ha messo a disposizione dell’autore un patrimonio di immagini<br />

tradizion<strong>al</strong>i e ha creato l’atmosfera teologica che rende il dramma di Giobbe così origin<strong>al</strong>e.<br />

Si può <strong>al</strong>lora ritenere che il libro di Giobbe sia un crocevia in cui si incontrano la sapienza<br />

del Vicino Oriente Antico e quella di Israele. Là si incontrano e spesso si scontrano le tesi<br />

classiche sulla retribuzione e le domande angoscianti che provengono d<strong>al</strong>l’esperienza person<strong>al</strong>e.<br />

4. GENERE LETTERARIO<br />

Le opinioni sono molto varie: Giobbe è stato considerato rispettivamente un’epopea, una<br />

tragedia (o una commedia), una lamentazione, un’opera appartenente <strong>al</strong> genere sapienzi<strong>al</strong>e, a<br />

quello giudiziario, ecc.<br />

4.1. UN DRAMMA<br />

Tra i primi a considerare Giobbe una tragedia bisogna ricordare nel IV sec. d.C. Teodoro di<br />

Mopsuestia 5 ; l’idea venne poi riproposta <strong>al</strong>l’inizio del ventesimo secolo e sviluppata negli ultimi<br />

decenni soprattutto da L. Alonso Schökel. Secondo questo autore, Giobbe sarebbe un<br />

dramma con pochissima azione e molto pathos. Il libro non è <strong>al</strong>tro che la rappresentazione del<br />

dramma eterno e univers<strong>al</strong>e dell’uomo. Tra un doppio prologo e un doppio epilogo, si svolgono<br />

quattro serie di di<strong>al</strong>oghi: tre volte parla Giobbe e gli rispondono a turno gli amici, la quarta<br />

volta l’interlocutore di Giobbe è Dio. Attraverso i di<strong>al</strong>oghi si passa da un Dio troppo noto e<br />

scontato, quasi «geometrico» nel suo rapporto con il mondo, a un Dio imprevedibile, difficile<br />

e misterioso.<br />

4.2. UN PROCEDIMENTO GIUDIZIARIO<br />

Per <strong>al</strong>tri saremmo piuttosto di fronte ad un dibattimento processu<strong>al</strong>e con accuse, produzione<br />

di testimoni, intervento del giudice supremo. Giobbe compare come imputato nel libro e si<br />

trova <strong>al</strong> centro di un’azione giudiziaria complessa. È innegabile che questo genere abbia avuto<br />

un influsso sul libro, anche se forse non rende ragione di tutto il testo attu<strong>al</strong>e, pur costituendo<br />

una chiave interpretativa significativa.<br />

4.3. UNA DISPUTA SAPIENZIALE<br />

Nell’ambiente del Vicino Oriente Antico esisteva un genere noto come la disputa tra saggi,<br />

che, quasi nella forma di una tavola rotonda, affrontava un argomento mostrandone i pro e i<br />

contro per illustrare la tesi in discussione. Caratteristico della riflessione sapienzi<strong>al</strong>e sarebbe<br />

l’elaborazione di un insegnamento v<strong>al</strong>ido per ogni uomo (Giobbe non è un ebreo, viene da<br />

Uz).<br />

5 In Iobum, PG 66, 697-698.


4.4. UNA LAMENTAZIONE SALMICA<br />

Giobbe 55<br />

È la proposta di C. Westermann il qu<strong>al</strong>e pensa che Giobbe sia una grandiosa lamentazione<br />

drammatizzata. L’autore di Giobbe ha trasformato in dramma una lamentazione, inserendovi<br />

un di<strong>al</strong>ogo giudiziario. Tutto il libro sarebbe costruito come i s<strong>al</strong>mi di lamento nei qu<strong>al</strong>i comp<strong>ai</strong>ono<br />

tre personaggi: l’uomo che supplica, Dio, i nemici. Come nei s<strong>al</strong>mi di supplica individu<strong>al</strong>e,<br />

il libro si chiude su un orizzonte positivo, di luce e di liberazione, di senso ritrovato.<br />

5. LA STRUTTURA DEL LIBRO<br />

L’an<strong>al</strong>isi letteraria <strong>dei</strong> 42 capitoli del libro di Giobbe fa apparire le seguenti unità:<br />

– un prologo in prosa (capp. 1-2);<br />

– un primo monologo di Giobbe (cap. 3);<br />

– tre serie di di<strong>al</strong>oghi di Giobbe con tre visitatori: Elifaz, Bildad, Zofar (capp. 4–27);<br />

– un componimento poetico sulla sapienza introvabile (cap. 28);<br />

– un secondo monologo di Giobbe (capp. 29–31);<br />

– i discorsi di Eliu, un quarto visitatore (capp. 32–37);<br />

– i discorsi di YHWH e le risposte di Giobbe (capp. 38,1–42,6);<br />

– un epilogo in prosa (cap. 42,7-17).<br />

E, in maniera più dettagliata, le suddette unità risultano così strutturate: 6<br />

A. PROLOGO (1,1–3,1)<br />

A1: la situazione di partenza - la fortuna di Giobbe (1,1-3)<br />

A2: Giobbe intercessore per i fıgli (1,4-5)<br />

A3: le obiezioni del śātān<br />

I. prima prova (1,6-22)<br />

a) nella corte celeste<br />

- presentazione (1,6)<br />

- di<strong>al</strong>ogo istruttorio (1,7-11)<br />

- decisione divina (1,12a)<br />

- il śātān si <strong>al</strong>lontana (1,12b)<br />

b) sulla terra<br />

- la serie di sciagure (1,13-19)<br />

- reazione di Giobbe (1,20-21)<br />

c) giudizio conclusivo del narratore (1,22)<br />

II. seconda prova (2,1-10)<br />

a) nella corte celeste<br />

- nuova presentazione (2,1)<br />

- secondo di<strong>al</strong>ogo istruttorio (2,2-5)<br />

- seconda decisione divina (2,6)<br />

- il śātān si <strong>al</strong>lontana di nuovo (2,7a)<br />

b) sulla terra<br />

- nuova sciagura (2,7b-8)<br />

- reazione della moglie e di Giobbe (2,9-10a)<br />

c) giudizio conclusivo del narratore (2,10b)<br />

A4: l’arrivo degli amici e l’inizio del dramma (2,11–3,1)<br />

6<br />

Cfr. G. BORGONOVO, La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel <strong>Libro</strong> di Giobbe. An<strong>al</strong>isi simbolica (An<strong>al</strong>ecta<br />

Biblica 135), Roma 1995, 98-100.


56 Giobbe<br />

B. L’AZIONE DEL DRAMMA<br />

I parte: Giobbe e gli amici (3,2–27,23)<br />

A. Lamentazione introduttiva (3,2-26)<br />

B. Prima serie di di<strong>al</strong>oghi<br />

1. Elifaz (4,1–5,27)<br />

1A. Giobbe (6,1–7,21)<br />

2. Bildad (8,1-22)<br />

2A. Giobbe (9,1–10,22)<br />

3. Zofar (11,1-20)<br />

3A. Giobbe (12,1–14,22)<br />

B’. Seconda serie di di<strong>al</strong>oghi<br />

1. Elifaz (15,1-35)<br />

lA. Giobbe (16,1–17,16)<br />

2. Bildad (18,1-21)<br />

2A. Giobbe (19,1-29)<br />

3. Zofar (20,1-29)<br />

3A. Giobbe (21,1-34)<br />

A’. Conclusioni<br />

1. Elifaz (22,1-30)<br />

2A. Giobbe (23,1–24,25)<br />

- interruzione di Bildad (25,1-6)<br />

- risposta di Giobbe (26,1-14)<br />

2A’. Giobbe (27,1-23)<br />

Interludio (28,1-28)<br />

II parte: Giobbe e YHWH (29,1–42,6)<br />

A. Lamentazione, giuramento e appello a Dio (29,1–31,40)<br />

→ commento di Elihu (32,1–37,24)<br />

B. Primo di<strong>al</strong>ogo<br />

- YHWH (38,1–40,2)<br />

- risposta di Giobbe (40,3-5)<br />

B’. Secondo di<strong>al</strong>ogo<br />

- YHWH (40,6–41,26)<br />

- risposta di Giobbe (42,1-6)<br />

A’. EPILOGO (42,7-17)<br />

A3’: la sentenza conclusiva di Dio (42,7)<br />

A2’: l’intercessione di Giobbe per gli amici (42,8-9)<br />

A1’: la nuova situazione - la fortuna raddoppiata (42,10-17)<br />

6. LE TAPPE DELLA COMPOSIZIONE<br />

Nello studio del libro di Giobbe, come d’<strong>al</strong>tronde nello studio di qu<strong>al</strong>siasi libro biblico, gli<br />

studiosi applicano vari metodi di an<strong>al</strong>isi. I metodi diacronici studiano prev<strong>al</strong>entemente la storia<br />

della formazione <strong>dei</strong> vari libri biblici, sforzandosi di individuare la forma <strong>dei</strong> testi <strong>al</strong>la loro<br />

genesi. I metodi sincronici si concentrano invece sulla forma fin<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> libri biblici e ne individuano<br />

il messaggio studiandone la trama, la struttura e le relazioni tra le diverse parti; facendo<br />

perciò grande attenzione <strong>al</strong>l’opera del redattore fin<strong>al</strong>e.<br />

I divesi approcci applicati <strong>al</strong> libro di Giobbe hanno dato un grande contributo <strong>al</strong>la sua<br />

comprensione. Presenteremo perciò prima il contributo dell’approccio diacronico per individuare<br />

le tappe della composizione del libro, per poi concentrarci su una proposta di lettura da<br />

una prospettiva sincronica.<br />

Un approccio diacronico <strong>al</strong> libro di Giobbe fa emergere che esso è il frutto di una lunga<br />

storia letteraria in cui è possibile distinguere quattro tappe:


6.1. IL RACCONTO POPOLARE PRIMITIVO<br />

Giobbe 57<br />

Rins<strong>al</strong>dando il prologo e l’epilogo attu<strong>al</strong>i, entrambi in prosa, viene ricomposto abbastanza<br />

facilmente il racconto che è servito da base a tutta l’opera. A giudicare d<strong>ai</strong> nomi di persona e<br />

di luogo sembra che il racconto sia nato o in Edom o, più probabilmente, in Transgiordania,<br />

nella regione del Hauran. Il nome stesso dell’eroe (in ebr.: ’iyyob) si incontra fin d<strong>al</strong> II millennio<br />

in tutto il Vicino Oriente Antico sotto forme diverse 7 , e molti aspetti di questo racconto<br />

rinviano a un contesto arc<strong>ai</strong>co: Giobbe viene presentato come semisedentario; i Sabei e i C<strong>al</strong><strong>dei</strong><br />

vivono ancora come nomadi predatori nel deserto siro-arabo; l’idea di una corte celeste e<br />

il simbolismo <strong>dei</strong> numeri hanno <strong>dei</strong> par<strong>al</strong>leli ugaritici nel XIV secolo. È tuttavia impossibile<br />

ris<strong>al</strong>ire <strong>al</strong> di là del 1200 a.C., data probabile dell’addomesticamento del dromedario (cfr. Gb<br />

2,3).<br />

Introdotto molto presto in Israele ricevendone i tratti della fede jahvista, il racconto popolare<br />

di Giobbe figura certamente, nell’AT, tra i testi in prosa della prima ispirazione. Giobbe<br />

viene presentato come un contemporaneo <strong>dei</strong> patriarchi: è lui, padre di famiglia, che presenta<br />

le offerte a Dio (1,5; 42,8), e offre, per il peccato, un olocausto, <strong>al</strong>la maniera degli antichi<br />

(Gen 8,20; 22,2.7.13; 31,54). Inoltre l’arte narrativa ricorda per vari aspetti quella messa in<br />

opera negli strati più antichi del Pentateuco. Molto probabilmente il vecchio racconto di<br />

Giobbe fu messo per iscritto e ricevette il suo tocco israelitico nella stessa epoca. Ben presto<br />

si conquistò un suo posto nella memoria collettiva d’Israele poiché, verso il 600, come abbiamo<br />

visto, Ezechiele poteva fare <strong>al</strong>lusione a Giobbe come a un eroe ben conosciuto (Ez<br />

14,12-23). Verso il VI secolo saranno introdotte nel racconto <strong>al</strong>cune espressioni tipiche della<br />

sapienza popolare; per esempio le due espressioni che descrivono in 1,1 la pietà di Giobbe:<br />

«integro e retto» (tām w e yāšār) 8 , «che temeva Elohim ed era <strong>al</strong>ieno d<strong>al</strong> m<strong>al</strong>e» 9 . Infine <strong>al</strong>cuni<br />

dati del racconto in prosa ci rimandano <strong>al</strong>l’inizio del periodo postesilico: così la fraseologia<br />

sacerdot<strong>al</strong>e fa sentire la sua influenza in 42,16-17, e soprattutto il Satana viene presentato nel<br />

prologo come nel Proto-Zaccaria (520-518); cfr. Zc 3,1-5; 1,21; 4,10; 6,7.<br />

6.2. L’OPERA POETICA DEL V SECOLO<br />

Nella prima metà del V secolo, un poeta israelitico geni<strong>al</strong>e riprende il vecchio racconto popolare<br />

per infondervi una nuova teologia abbastanza sovversiva perché contestava uno degli<br />

assiomi della sapienza preesilica: la retribuzione tempor<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> buoni e <strong>dei</strong> m<strong>al</strong>vagi. Egli conservò<br />

il racconto, solo con qu<strong>al</strong>che ritocco, come prologo ed epilogo della sua opera, e vi inserì<br />

in mezzo i di<strong>al</strong>oghi di Giobbe con tre visitatori (capp. 4–27), inquadrati da due monologhi<br />

del giusto (capp. 3 e 29–31), e poi il di<strong>al</strong>ogo di Dio e di Giobbe <strong>al</strong> momento della teofania<br />

(38,1–42,6). Rispettando <strong>al</strong> massimo il racconto tradizion<strong>al</strong>e che riprendeva, egli si limitò a<br />

introdurre <strong>al</strong>la fine del prologo (2,11-13) i tre visitatori.<br />

6.3. I DISCORSI DI ELIU<br />

È poco dubbio che la redazione <strong>dei</strong> discorsi di questo quarto visitatore sia posteriore <strong>al</strong>la<br />

redazione <strong>dei</strong> di<strong>al</strong>oghi di Giobbe e <strong>dei</strong> tre amici; non tanto per il carattere aram<strong>ai</strong>cizzante della<br />

lingua, notevolmente più forte in questi capp. 32–37, ma perché <strong>al</strong>cuni temi sviluppati da Eliu<br />

riflettono le stesse preoccupazioni teologiche e lo stesso stato d’animo del libro di M<strong>al</strong>achia<br />

(2,17; 3,14-16). Per t<strong>al</strong>e ragione è possibile datare questi discorsi di Eliu <strong>al</strong> 450 circa a.C. Furono<br />

probabilmente aggiunti o da un redattore o d<strong>al</strong> poeta princip<strong>al</strong>e.<br />

7 Ayyabum, A-ya-ab, A-ya-bi, Hy’abn, ecc.<br />

8 Cfr. Pr 2,21; 28,10; 29,10; S<strong>al</strong> 25,21; 37,37.<br />

9 Cfr. Pr 3,7; 14,16; 16,6.


58 Giobbe<br />

6.4. IL POEMA SULLA SAPIENZA INTROVABILE (GB 28)<br />

Introdotto da un redattore anonimo nel IV o nel III secolo, questo componimento poetico<br />

conclude il dibattito, in fondo sterile, tra Giobbe e i suoi interlocutori, e fa da transizione verso<br />

l’<strong>al</strong>tro versante dell’opera in cui Giobbe, dopo aver protestato la sua innocenza e lanciato a<br />

Dio la sua ultima sfida (29,31), vedrà a sua volta contestato il suo potere e la sua sapienza<br />

(38,1–42,6).<br />

La storia letteraria del libro di Giobbe può essere perciò riassunta nello schema seguente:<br />

X-IX sec. Prologo Epilogo<br />

capp. 1–2 cap. 42,7-17<br />

Prima metà Monologo Di<strong>al</strong>oghi Monologo Teofania<br />

del V sec. cap. 3 capp. 4–27 capp. 29–31 capp. 38,1–42,6<br />

Metà Discorsi di Eliu<br />

del V sec. capp. 32–37<br />

IV-III sec. Inno <strong>al</strong>la Sapienza<br />

cap. 28<br />

7. PERCORSO DI LETTURA DEL LIBRO DI GIOBBE<br />

7.1. LA POSTA IN GIOCO<br />

7.1.1. I molteplici sensi<br />

Tutti i lettori di Giobbe, qu<strong>al</strong>e che sia il loro approccio, cercano il «senso» del libro. Di cosa<br />

si tratta? Una cosa è certa: il libro affronta problema della sofferenza. Si sono fatti studi addirittura<br />

per determinare qu<strong>al</strong>e fosse la m<strong>al</strong>attia di Giobbe quando fu colpito da «un’ulcera<br />

m<strong>al</strong>igna» (2,7). Tuttavia dire che il libro affronta questo problema è chiaramente insufficiente:<br />

bisogna sottolineare che si tratta della sofferenza dell’innocente. Le domande e le discussioni<br />

si moltiplicano. Il problema sollevato da questa sofferenza innocente è an<strong>al</strong>izzato d<strong>al</strong> punto di<br />

vista dell’uomo o da quello di Dio? Un certo numero di autori opta per la prima possibilità.<br />

Secondo loro, il libro è pratico, esistenzi<strong>al</strong>e. Esso affronta il punto di vista umano, cioè<br />

l’aspetto mor<strong>al</strong>e: cosa l’essere umano deve fare nella sofferenza? come deve comportarsi?<br />

Oppure la prova della fede: come conservare la fede? Il libro insomma studierebbe il comportamento<br />

mor<strong>al</strong>e o religioso dell’innocente che soffre.<br />

Altri autori, invece, ritengono che il libro sia più intellettu<strong>al</strong>e, esistenzi<strong>al</strong>e, e che l’aspetto<br />

divino predomini. Il problema della sofferenza dell’innocente solleva, infatti, la questione della<br />

giustizia di Dio, del conflitto tra la giustizia dell’uomo e quella di Dio, e rovescia la dottrina<br />

della retribuzione. Insomma si tratterebbe di una teodicea. Queste sono le teorie più comuni<br />

sul senso di Giobbe. Anche <strong>al</strong>tri temi sono stati proposti, come la preghiera, i rapporti umani,<br />

l’amicizia, o la pecora nera della comunità.


Giobbe 59<br />

7.1.2. Il filo conduttore del libro<br />

Questa discussione semantica proviene da una certa concezione del testo. Si ritiene che<br />

l’autore abbia dato un senso ben preciso che il lettore deve sforzarsi di ritrovare. Diverse teorie<br />

sull’essenza di un testo suggeriscono che uno scritto non ha solo «un senso», ma è aperto a<br />

«vari sensi». La lista <strong>dei</strong> molteplici sensi che è stata proposta per il libro di Giobbe è quasi infinita<br />

e, in re<strong>al</strong>tà, il libro si presta, a quanto pare, a una t<strong>al</strong>e polisemia. Il testo è inesauribile e<br />

rimane aperto a prospettive sempre nuove. Ogni lettore è unico e legge attraverso la propria<br />

esperienza person<strong>al</strong>e.<br />

È nostra intenzione vedere come il testo funziona. Qu<strong>al</strong> è la posta in gioco? Cosa succede<br />

in questo testo? Come si concatenano i passaggi? Qu<strong>al</strong>i sono i legami che li uniscono? Appena<br />

si tocca uno degli elementi di un testo, si tocca inevitabilmente il suo insieme. Come rendere<br />

conto dell’unità del testo attu<strong>al</strong>e del libro di Giobbe? Noi condurremo la nostra an<strong>al</strong>isi<br />

utilizzando <strong>al</strong>cuni grandi principi dell’an<strong>al</strong>isi semiotica. In un testo, un personaggio è descritto<br />

con verbi che evocano il suo stato (la persona è, oppure essa ha), o con verbi di azione (la<br />

persona agisce). Un racconto consiste in una trasformazione che fa passare un personaggio da<br />

uno stato a un <strong>al</strong>tro. Questo principio è molto chiaro nel libro di Giobbe. L’inizio del testo descrive<br />

ciò che Giobbe è, e presenta in questo modo lo state inizi<strong>al</strong>e di Giobbe (1,1-5) mentre<br />

la fine descrive lo stato fin<strong>al</strong>e dell’eroe (42,10-17). Tutto quello che si trova tra i due costituisce<br />

la trasformazione, che spiega come il cambiamento si sia prodotto.<br />

È importante scoprire in un testo ciò che mette in moto la trasformazione. Qu<strong>al</strong> è<br />

l’occasione che ha dato origine <strong>al</strong> racconto? Il libro inizia con la sfida tra il satana e YHWH. Il<br />

satana è convinto che Giobbe, se fosse nella miseria, m<strong>al</strong>edirebbe YHWH in faccia (1,11). La<br />

prova che Giobbe deve subire è dell’ordine del linguaggio. Cosa dira? Per sapere come Giobbe<br />

ha superato la prova bisogna attendere la fine, quando YHWH dà il suo verdetto e approva<br />

le parole di Giobbe (42,7).<br />

La sfida inaugura l’azione del testo (nella terminologia della semiotica, la sfida è la manipolazione),<br />

il parlare costituisce l’agire del testo (la performance), e il verdetto di Dio indica<br />

chi ha vinto la sfida (la sanzione). L’unità del libro e il suo filo conduttore è la domanda: Come<br />

parlare di Dio nel momento della sofferenza?<br />

7.2. LO SVOLGIMENTO DEL DRAMMA<br />

7.2.1. La condizione inizi<strong>al</strong>e: la felicità di Giobbe<br />

I primi versetti del libro (1,1-5) descrivono ciò che Giobbe è, ciò che possiede, quello che<br />

ha l’abitudine di fare: «Giobbe soleva fare così, immancabilmente». Ma non succede nulla. Il<br />

testo semplicemente descrive la condizione inizi<strong>al</strong>e di Giobbe. Tuttavia questi versetti sono<br />

molto preziosi per orientare il lettore del libro.<br />

L’apertura: «C’era nella regione di Uz [paese straniero] ...» corrisponde <strong>al</strong> classico inizio<br />

<strong>dei</strong> racconti o delle favole (2Sam 12,1). Questi testi iniziano tutti con: «C’era una volta...,<br />

molto tempo fa..., molto lontano da qui...». Siccome la storia è molto antica e si è sviluppata<br />

lontano da qui, non ci sono testimoni possibili. Così l’autore può dire ciò che vuole, e nessuno<br />

è in grado di contraddirlo. L’eroe o l’eroina di questi racconti è sempre straordinariamente<br />

ricco, bello o buono. Giobbe è questo genere di eroe, è diverso d<strong>ai</strong> comuni mort<strong>al</strong>i. Nelle favole,<br />

c’è sempre «un cattivo», che mette «il buono» <strong>al</strong>la prova. Il lettore del libro non dovrà<br />

attendere a lungo per incontrare il cattivo e per essere informato di questa prova. La buona<br />

sorte vince sempre e così la favola finisce bene: «e vissero a lungo felici e contenti». Il lettore<br />

potrà costatarlo <strong>al</strong>la fine del libro. Il libro di Giobbe, in conseguenza, non è un libro storico, e<br />

dunque non parla di un personaggio storico. Ma le favole trovano t<strong>al</strong>volta la loro origine in un<br />

evento storico. Potrebbe essere, re<strong>al</strong>mente, che sia vissuto da qu<strong>al</strong>che parte, a un dato momento,<br />

un certo Giobbe, ma il fatto di sapere se Giobbe sia esistito o no ha perso tutto il suo v<strong>al</strong>ore.<br />

Giobbe, nel testo attu<strong>al</strong>e, non è una figura storica, è l’immagine di ogni persona umana.


60 Giobbe<br />

Ciò aumenta il v<strong>al</strong>ore del libro. Infatti, se il libro raccontasse la storia di un personaggio storico,<br />

si potrebbe forse nutrire compassione per questo uomo, ma se il libro è una favola o un<br />

racconto, esso testimonia della vita umana in gener<strong>al</strong>e. Quello che è successo a Giobbe è in<br />

re<strong>al</strong>tà ciò che succede nella vita di molta gente. Il libro parla di un’esperienza umana univers<strong>al</strong>e<br />

e dunque di quella di ogni lettore.<br />

Questi testi hanno l’aspetto anodino e molte persone vi si lasciano prendere, come il re Davide<br />

che non coglieva la portata delle parole del profeta Natan dopo il suo peccato (2Sam<br />

12,1-15). È questa la «f<strong>al</strong>sa ingenuità» di testi del genere. Il lettore attento dovrà approfondire.<br />

Certe favole contengono fantasia e re<strong>al</strong>tà, sono raccontate per intrattenere (non sempre per<br />

far ridere, t<strong>al</strong>volta anche per far piangere) e per insegnare.<br />

Ogni essere umano cerca la felicità, una vita nella pienezza. Giobbe ha esattamente tutto<br />

ciò, e anche in abbondanza. Tutti hanno bisogno di amore, il che significa amare e sapersi amati.<br />

Giobbe conosce ciò nella sua vita: ha una famiglia ide<strong>al</strong>e, con un numero perfetto di figli,<br />

e nella qu<strong>al</strong>e regnano un’armonia e un’intesa ide<strong>al</strong>i. Allo stesso modo, tutti hanno bisogno<br />

di beni materi<strong>al</strong>i, certo lo stretto necessario, ma anche un po’ di lusso in sovrappiù. Giobbe<br />

non può certamente lamentarsi, ha proprio molte ricchezze. Anche la s<strong>al</strong>ute fa parte della felicità<br />

umana. Per il momento, non si dice nulla su questo aspetto della vita di Giobbe, ma potremo<br />

dedurlo d<strong>al</strong> fatto che la m<strong>al</strong>attia lo colpisce solo più tardi, come vedremo in seguito. E<br />

infine, una buona reputazione contribuisce <strong>al</strong>la felicità umana. In questo ambito, Giobbe non<br />

può aspettarsi di meglio: è fortemente rispettato. È vero che ci sono persone che possono essere<br />

felici anche se uno o più di questi elementi mancano loro, ma la felicità perfetta, una vita<br />

piena, li esige tutti e quattro, secondo la letteratura sapienzi<strong>al</strong>e. Giobbe è l’immagine di un<br />

uomo molto felice.<br />

La saggezza sa che ogni effetto presuppone una causa. Questa felicità umana perfetta non<br />

cade dagli <strong>al</strong>beri, ma è legata <strong>al</strong>l’agire umano. Per questo Giobbe è descritto come l’uomo più<br />

perfetto possibile e immaginabile. Alcuni esegeti, per mostrare con forza il legame tra la pietà<br />

di Giobbe (v. 1) e la sua felicità, traducono: «è così che sette figli...», oppure: «così gli erano<br />

nati...» (vv. 2-3). Giobbe è un uomo esemplare, e conseguentemente Dio lo ha benedetto con<br />

una vita piena. Il testo ci presenta anche l’immagine dell’ordine perfetto fondato sulla teoria<br />

della retribuzione la qu<strong>al</strong>e vuole che il giusto sia benedetto, e il peccatore m<strong>al</strong>edetto.<br />

Giobbe, l’uomo perfetto, si tiene lontano d<strong>al</strong> m<strong>al</strong>e nella sua vita, e dunque non ha nulla da<br />

temere. Tuttavia, nella descrizione di questo mondo di sogni, c’è un’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong> peccato.<br />

Giobbe si inquieta <strong>dei</strong> possibili peccati <strong>dei</strong> suoi figli; non è nemmeno sicuro che ne abbiano<br />

commessi, ma chi sa, «forse». È meglio prendere tutte le precauzioni possibili. Giobbe,<br />

l’uomo perfetto, è anche scrupoloso, si occupa della purificazione <strong>dei</strong> figli e offre olocausti<br />

per loro. Se per caso i figli hanno provocato il caos, Giobbe rimette ordine in questo caos. Il<br />

principio della responsabilità collettiva spiega che un uomo, anche se giusto, potrebbe soffrire<br />

a causa degli errori <strong>dei</strong> figli. Giobbe previene questa possibilità. Conseguentemente, nulla nel<br />

testo lascia sospettare e giustificare che qu<strong>al</strong>cosa possa guastarsi nella vita di Giobbe.<br />

Abbiamo accennato che la parola conferisce unità <strong>al</strong> libro di Giobbe. È importante osservare<br />

che, già nell’apertura, c’è una citazione delle parole pronunciate da Giobbe in una forma<br />

poetica. Fin d<strong>al</strong>l’inizio del libro troviamo l’<strong>al</strong>ternanza della prosa e della poesia. Giobbe parla<br />

a se stesso. Il suo monologo è formulato in un versetto che comporta due parti (bicolon) in par<strong>al</strong>lelismo<br />

sinonimico. Il peccato per Giobbe consiste nel m<strong>al</strong>edire (benedire) Dio, non solo<br />

con le labbra, ma nel cuore. Questo deve essere evitato a ogni costo. Il resto del libro mostrerà<br />

il ruolo importante che questa m<strong>al</strong>edizione vi giocherà.<br />

7.2.2. La sfida: «scommetto che ti m<strong>al</strong>edirà in faccia»<br />

I primi versetti del libro descrivono la condizione inizi<strong>al</strong>e di Giobbe (1,1-5). Un racconto<br />

consiste nella trasformazione da uno stato inizi<strong>al</strong>e a uno stato fin<strong>al</strong>e. Perché questa modifica<br />

avvenga, bisogna che manchi qu<strong>al</strong>cosa. Se tutto è già <strong>al</strong> proprio posto fin d<strong>al</strong>l’inizio, non c’è


Giobbe 61<br />

racconto possibile. Qu<strong>al</strong> è la cosa mancante che mette in movimento l’azione e spiega perché<br />

c’è un racconto di Giobbe? Secondo il satana, YHWH non conosce veramente a fondo Giobbe.<br />

YHWH ha un’idea molto <strong>al</strong>ta di Giobbe, ma è veramente fondata? Giobbe conduce una vita<br />

t<strong>al</strong>mente facile! Ed è questa la ragione per cui il satana lancia la sfida: «scommetto che ti m<strong>al</strong>edirà<br />

in faccia» (1,11; 2,5). Il modo in cui Giobbe parlerà nella sua sofferenza rivelerà a<br />

YHWH ciò che Giobbe è in re<strong>al</strong>tà. In questo modo Dio acquisirà quella conoscenza che per ora<br />

gli manca, secondo il satana.<br />

Il grande interrogativo che anima il libro è: «Come Giobbe parlerà di Dio nel momento<br />

della sofferenza?». «Parlare» rimane, in effetti, centr<strong>al</strong>e attraverso tutto il libro, d<strong>al</strong>l’inizio <strong>al</strong>la<br />

fine (e non solo nella parte centr<strong>al</strong>e).<br />

Quando si parla, ci si rivolge sempre a qu<strong>al</strong>cuno. Parlare esige due attori: uno emette la parola<br />

e uno la riceve. In certi casi la stessa persona ricopre i due ruoli: se qu<strong>al</strong>cuno parla a se<br />

stesso, <strong>al</strong>lora ci troviamo di fronte a un monologo. Tuttavia parlare implica gener<strong>al</strong>mente due<br />

attori distinti. Qu<strong>al</strong>cuno si rivolge a un’<strong>al</strong>tra persona: e questo è un di<strong>al</strong>ogo. Se la persona a<br />

cui parliamo è Dio, il di<strong>al</strong>ogo si chiama preghiera. Il libro di Giobbe contiene tutto questo.<br />

Troviamo <strong>dei</strong> monologhi di Giobbe, ma ci sono soprattutto numerosi di<strong>al</strong>oghi con interlocutori<br />

diversi. In questo modo, l’orizzonte del libro si <strong>al</strong>larga e non rimane limitato <strong>al</strong>la domanda:<br />

«Come parlare di Dio quando si soffre?», ma si estende <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra: «Come parlare di Dio <strong>al</strong>la<br />

persona che soffre?». Giobbe cerca anche di parlare a Dio nella preghiera, con la speranza di<br />

ottenere una risposta da parte di Dio. Solo dopo che tutti i partner della conversazione avranno<br />

finito di parlare potremo sapere chi ha vinto la sfida. Giobbe ha, sì o no, m<strong>al</strong>edetto Dio in<br />

faccia? E questa sarà la risposta <strong>al</strong>l’interrogativo che ha dato inizio <strong>al</strong> libro e il libro <strong>al</strong>lora potrà<br />

concludersi.<br />

La posta in gioco del libro di Giobbe è: «Come parlare di Dio nella sofferenza?». Si tratta<br />

della questione del linguaggio religioso. È importante ciò che gli attori del libro dicono, ma<br />

ancor più come lo dicono, i diversi tipi di linguaggio religioso che essi utilizzano. Per questo<br />

presteremo un’attenzione particolare a questi diversi linguaggi religiosi che si susseguono nel<br />

libro.<br />

Questa sfida tra il satana e YHWH solleva il problema del rapporto tra due mondi, tra il cielo<br />

e la terra. La prima parte del libro, in effetti, ha come scenario due mondi. Ci sono due luoghi<br />

ben distinti: il cielo (il termine non compare nel testo, ma si fa <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la sfera nella<br />

qu<strong>al</strong>e YHWH s’intrattiene con la sua corte celeste) e la terra. Il testo introduce il lettore per due<br />

volte nel cielo, ma il resto del libro si sviluppa interamente sulla terra. I due mondi hanno il<br />

loro ritmo del tempo. In cielo gli eventi si svolgono «un giorno...» (1,6; 2,1), e anche sulla terra<br />

«un giorno...» (1,13). Ogni mondo ha i suoi attori. In cielo, YHWH è la figura centr<strong>al</strong>e; ha<br />

attorno a sé «i figli di Dio», e uno di essi, il satana, ha un ruolo particolare, è, tra l’<strong>al</strong>tro, una<br />

specie di messaggero. Sulla terra, l’uomo Giobbe è la figura centr<strong>al</strong>e: ha «figli» e «figlie», e<br />

<strong>dei</strong> messaggeri si recano da lui. Tuttavia ci sono certe differenze tra questi due mondi. Non si<br />

parla di una moglie di YHWH, né di beni suoi. YHWH è, mentre Giobbe è e ha. L’essere umano<br />

tuttavia può perdere tutto il suo avere, e la morte mette fine <strong>al</strong> suo essere.<br />

Il mondo divino è in contatto con la terra. Uno <strong>dei</strong> figli di Dio, il satana, percorre la terra<br />

(1,7; 2,2). Dio sa cosa succede sulla terra, conosce l’essere umano (1,8; 2,3). Dio può benedire<br />

l’opera che l’essere umano ha costruito con la propria mano (1,10), ma Dio può anche distruggerla<br />

con la sua mano (1,11; 2,5), consegnandola in mano <strong>al</strong> satana (1,12; 2,6). Si è anche<br />

parlato della mano destra con la qu<strong>al</strong>e Dio benedice e della sinistra con la qu<strong>al</strong>e colpisce.<br />

Questa mano distruttrice di Dio diventa visibile, qui sulla terra, nei disastri natur<strong>al</strong>i (cfr.<br />

1,16.19), nella violenza umana (1,15.17), e nella m<strong>al</strong>attia. Il mistero della m<strong>al</strong>attia viene addirittura<br />

attribuito in modo più diretto <strong>al</strong> mondo divino: «Egli [il satana] colpì Giobbe di<br />

un’ulcera m<strong>al</strong>igna» (2,7).<br />

Il contatto del mondo umano con il mondo divino è completamente diverso. L’essere umano<br />

ne conosce certamente l’esistenza, ma non sa nulla di quello che vi succede. Giobbe è


62 Giobbe<br />

completamente <strong>al</strong>l’oscuro della sfida <strong>al</strong> centro della qu<strong>al</strong>e si trova (solo il lettore lo sa). Altrimenti<br />

conoscerebbe <strong>al</strong>meno la causa delle proprie miserie. L’essere umano sa anche che tutto<br />

ciò che succede qui sulla terra non è unicamente opera delle sue mani, ma che tutto è anche<br />

nelle mani di Dio. Dio dona e riprende. Le cose che Giobbe considera come ordine e caos sono<br />

ambedue opera di Dio.<br />

Il rapporto tra questi due mondi rimane così un grande mistero. Da una parte e d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra,<br />

gli attori parlano tra loro, e parlano anche degli attori dell’<strong>al</strong>tro mondo, ma non si rivolgono a<br />

loro. Ma un di<strong>al</strong>ogo del genere è possibile? Può Giobbe parlare a Dio e può Dio parlare a<br />

Giobbe? Stupisce <strong>al</strong>quanto sentire il satana scommettere che Giobbe m<strong>al</strong>edirà Dio «in faccia»<br />

(1,11; 2,5), mentre solo i figli di Dio in cielo si presentano davanti <strong>al</strong>la «faccia/presenza» di<br />

Dio (1,12; 2,7). Giobbe, anche se volesse m<strong>al</strong>edire YHWH in faccia, potrebbe veramente vedere<br />

questa faccia di Dio?<br />

7.2.3. I linguaggi degli attori del dramma<br />

7.2.3.1. Il linguaggio della fede popolare<br />

Le prime reazioni di Giobbe <strong>al</strong>le prove che gli sono sopraggiunte sembrano molto pie, soprattutto<br />

se paragonate con le parole successive. Di solito si interpretano le prime parole di<br />

Giobbe come l’espressione della sua fede profonda. D<strong>al</strong> senso che si dà a queste parole dipende<br />

la comprensione dell’insieme del libro. Possiamo così capire l’importanza di questo<br />

approccio. Le esamineremo scrupolosamente tenendo conto della f<strong>al</strong>sa ingenuità del testo,<br />

senza dimenticare le somiglianze e le diversità nelle ripetizioni. Studieremo le due reazioni<br />

separatamente e le metteremo a confronto tra loro per vedere se c’è stata evoluzione in Giobbe.<br />

Le due reazioni hanno tre elementi in comune: l’azione di Giobbe, le parole di Giobbe e la<br />

v<strong>al</strong>utazione del narratore.<br />

1) LA PRIMA REAZIONE DI GIOBBE (1,20-22)<br />

a) Le azioni di Giobbe (1,20)<br />

Allora Giobbe, <strong>al</strong>zatosi, si strappò il manto, si rase il capo e, caduto a terra, prostrato...<br />

Strappare le vesti (Gen 37,29; Ger 41,5), radersi il capo (Is 15,2; Mic 1,16), e prostrarsi<br />

(Gen 23,7; 2Sam 1,2) sono tutti riti convenzion<strong>al</strong>i, soci<strong>al</strong>mente bene accettati, che esprimono<br />

il dolore o il lutto e la riverenza nella Bibbia. Possono tuttavia esprimere la fede o la disperazione<br />

e l’incredulità.<br />

b) Le parole di Giobbe (1,21)<br />

«Nudo sono uscito d<strong>al</strong> ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno!<br />

Il Signore ha dato e il Signore ha tolto;<br />

sia benedetto il nome del Signore».<br />

La prima frase (v. 21a) è un’affermazione dichiarativa, una riflessione di saggezza profana<br />

sulla vita, che ha tutta l’aria di un proverbio popolare, d<strong>al</strong> momento che lo troviamo anche <strong>al</strong>trove<br />

nella Bibbia (Qo 5,14, cfr. Gen 3,19; Qo 12,7; Sir 40,1). Anche la seconda frase (v. 21b)<br />

è un’affermazione dichiarativa, ma, questa volta, una riflessione di saggezza religiosa sulla vita.<br />

Anche questo modo di dire che tutto ciò che succede è una decisione di Dio (1Sam 3,18)<br />

sembra ugu<strong>al</strong>mente proverbi<strong>al</strong>e e si ritrova in <strong>al</strong>tri proverbi religiosi (Pr 10,22; 16,1.9; Sir<br />

11,14). Possiamo accostarlo a una formula araba utilizzata quando un membro della famiglia<br />

muore: «Il Signore l’ha dato, il Signore l’ha tolto», o con il proverbio mesopotamico: «Il re ha<br />

dato, il re ha ripreso; viva il re».


Giobbe 63<br />

L’ultima frase (v. 21c) è un’esclamazione, una benedizione. Essa assomiglia a una formula<br />

liturgica che troviamo anche <strong>al</strong>trove nella Bibbia in termini molto simili (Nm 6,24-26) o addirittura<br />

identici (S<strong>al</strong> 113,2). C’è tuttavia una differenza notevole tra ciò che Giobbe dice e il testo<br />

del s<strong>al</strong>mo. Il s<strong>al</strong>mo aggiunge, dopo la benedizione: «ora e sempre». E questo Giobbe non<br />

lo dice; infatti, non benedirà Dio a lungo. Le prime parole di Giobbe sono dunque due proverbi,<br />

e una benedizione che potremmo chiamare una preghiera giaculatoria.<br />

Tanto le azioni quanto le parole di Giobbe dopo la sua prima prova sono riti e formule tradizion<strong>al</strong>i<br />

e convenzion<strong>al</strong>i. Molti lettori, che potremmo dire «lettori superfici<strong>al</strong>i», interpretano<br />

questa reazione di Giobbe come espressione di una fede profonda. Ma io penso che il testo sia<br />

un testo aperto che obbliga il lettore a fare delle scelte. La f<strong>al</strong>sa ingenuità del testo sta precisamente<br />

nel fatto che esso permette e, credo, favorisce un’<strong>al</strong>tra interpretazione. La reazione di<br />

Giobbe <strong>al</strong>la perdita di tutto quello che ha è un’azione: non sa che dire. E poi, quando parla, le<br />

uniche cose che sa dire sono pie formule stereotipe. Utilizza parole prese a prestito, ma non le<br />

sue parole. È spesso la prima reazione delle persone di fronte <strong>al</strong>la sofferenza. Sono prese <strong>al</strong>la<br />

sprovvista e fanno ricorso a slogan pii, ma vuoti, più per paura che per convinzione. Hanno<br />

paura di dire ciò che succede nel loro profondo, ciò che considerano come indegno di un buon<br />

credente. Ciò che Giobbe dice non è l’espressione di una fede profonda, ma piuttosto di una<br />

fede popolare superfici<strong>al</strong>e, che non resisterà a lungo.<br />

Il contesto conferma quest’interpretazione. La successione rapida e ininterrotta <strong>dei</strong> messaggi<br />

di sventura: «Mentre costui stava ancora parlando...» (1,16.17.18), non lascia nemmeno<br />

il tempo a Giobbe di riflettere e di assimilare quanto gli sta succedendo. Reagisce in modo<br />

convenzion<strong>al</strong>e. Il seguito lo confermerà. Dopo l’arrivo degli amici, tutti stanno in silenzio, ma<br />

quando Giobbe fin<strong>al</strong>mente parla con le sue parole nel monologo, demolisce punto per punto<br />

ciò che ha appena detto con queste formule imparate a memoria.<br />

Quando comincia il di<strong>al</strong>ogo dopo il monologo di Giobbe, i tre amici utilizzano un linguaggio<br />

stereotipo, mentre Giobbe parla un linguaggio person<strong>al</strong>e esistenzi<strong>al</strong>e. Gli autori che interpretano<br />

la prima risposta convenzion<strong>al</strong>e di Giobbe come espressione di una fede profonda<br />

condannano il linguaggio degli amici come disonesto e f<strong>al</strong>so, poiché gli amici rifiutano di rimettere<br />

in discussione i dogmi. Pochi interpreti sono portati a considerare i tre amici come esempi<br />

di fede profonda e, in questo, hanno ragione poiché YHWH stesso condannerà il loro<br />

linguaggio convenzion<strong>al</strong>e (42,7.8). Non dovremo <strong>al</strong>lora concludere che YHWH non fu troppo<br />

impressionato d<strong>al</strong>la prima reazione convenzion<strong>al</strong>e di Giobbe?<br />

b) La v<strong>al</strong>utazione del narratore (1,22)<br />

In tutto ciò Giobbe non commise peccato né proferì [lett. «diede»] insolenza contro Dio.<br />

Giobbe non ha m<strong>al</strong>edetto YHWH come il satana aveva previsto (1,11) e, conseguentemente,<br />

ha superato la prova. Ma dobbiamo osservare che il narratore esprime la sua v<strong>al</strong>utazione con<br />

due formule negative. Questo può forse indicare che apprezza poco la reazione di Giobbe?<br />

2) LA SECONDA REAZIONE DI GIOBBE (2,8-10) A CONFRONTO CON LA PRIMA (1,20-22)<br />

Le due reazioni di Giobbe sono descritte con gli stessi tre elementi. Tuttavia il testo non è<br />

una pura e semplice ripetizione. Il confronto tra i due atteggiamenti mette in luce le somiglianze,<br />

ma anche le differenze significative. Questo indica che qu<strong>al</strong>cosa sta cambiando in<br />

Giobbe.<br />

a) Le azioni di Giobbe (1,20 e 28)<br />

Allora Giobbe, <strong>al</strong>zatosi, si strappò il manto, si rase il capo<br />

e, caduto a terra, prostrato...<br />

Allora Giobbe prese un coccio per grattarsi,<br />

mentre stava seduto in mezzo <strong>al</strong>la cenere.


64 Giobbe<br />

La reazione di Giobbe dopo la seconda prova è spesso tradotta in modi diversi, come ad<br />

es.: «Giobbe prese un coccio per grattarsi e si sistemò in mezzo <strong>al</strong>la cenere» (BJ e TOB). Secondo<br />

queste traduzioni, Giobbe compie due azioni: si gratta e si sistema per terra.<br />

L’ebr<strong>ai</strong>co ha un participio e non precisa quando Giobbe sia andato a sistemarsi in mezzo<br />

<strong>al</strong>la cenere. La vera reazione di Giobbe, conseguentemente, è quella di grattarsi.<br />

Siccome la cenere è utilizzata per i riti legati <strong>al</strong> lutto (2Sam 13,19), <strong>al</strong>cuni autori hanno interpretato<br />

questa sistemazione in mezzo <strong>al</strong>la cenere come un’<strong>al</strong>tra espressione del lutto di<br />

Giobbe. Tuttavia nessun <strong>al</strong>tro testo biblico utilizza l’espressione «si sistemò in mezzo <strong>al</strong>la cenere»,<br />

come rito di lutto. Il testo dice semplicemente che Giobbe si è sistemato sull’immondezz<strong>ai</strong>o<br />

fuori della porta della città, dove si buttavano la spazzatura, la cenere e le stoviglie<br />

rotte, e dove si ritrovavano gli emarginati.<br />

La vera reazione di Giobbe è il grattarsi con un coccio, che può facilmente trovare in mezzo<br />

a quelle immondizie. C’era gente che si faceva delle incisioni, come rito di lutto (Ger 16,6;<br />

41,5; 47,5). Non è il caso di Giobbe, il qu<strong>al</strong>e «si gratta» piuttosto per c<strong>al</strong>mare il prurito.<br />

Tutte le azioni di Giobbe dopo la prima prova erano pii riti convenzion<strong>al</strong>i di lutto o di riverenza;<br />

l’azione di Giobbe dopo la seconda prova è un’azione puramente profana per trovare<br />

un po’ di sollievo. Nel testo è introdotta una differenza importante.<br />

b) Le parole di Giobbe (1,21 e 2,10a)<br />

Giobbe reagisce <strong>al</strong>la prima prova con riti di lutto, seguiti immediatamente da parole. Alla<br />

seconda prova reagisce con un’azione profana e il silenzio. Probabilmente si tratta di una<br />

buona difesa psicologica per dissimulare il suo pensiero. Giobbe dice solo qu<strong>al</strong>che parola dopo<br />

che la moglie gli ha parlato. Ma le parole della moglie sono veramente ambigue, e questo<br />

rende anche la risposta di Giobbe molto ambigua. Dopo il rimprovero rivolto <strong>al</strong>la moglie,<br />

Giobbe dice <strong>al</strong>cune parole che esprimono la sua sofferenza e che possiamo mettere a confronto<br />

con le parole dopo la prima prova.<br />

«Nudo sono uscito d<strong>al</strong> ventre di mia madre<br />

e nudo vi farò ritorno!<br />

Il Signore [YHWH] ha dato e il Signore ha tolto.<br />

Sia benedetto il nome del Signore...».<br />

«Se accettiamo il bene da parte di Dio,<br />

perché non dovremmo accettare anche il m<strong>al</strong>e?».<br />

Il par<strong>al</strong>lelismo (accettare il bene..., accettare il m<strong>al</strong>e) nella seconda risposta di Giobbe fa<br />

pensare che le sue parole, come la prima volta, siano proverbi<strong>al</strong>i. Tuttavia non ripete «da parte<br />

di Dio» anche nella seconda parte. Si dice esplicitamente che il bene viene da Dio, ma di dove<br />

viene il m<strong>al</strong>e? Viene anch’esso da Dio o da un <strong>al</strong>tro? Il verbo può essere tradotto con «accettare»<br />

o con «ricevere», e questo cambia il senso della frase.<br />

Siccome la risposta di Giobbe in ebr<strong>ai</strong>co non è introdotta da una particella interrogativa, la<br />

possiamo leggere anche come un’affermazione dichiarativa: «Noi riceviamo, infatti, il bene<br />

da parte di Dio e non riceviamo il m<strong>al</strong>e». Questo potrebbe aver due significati: «Noi non riceviamo<br />

il m<strong>al</strong>e da Dio, perché il m<strong>al</strong>e viene da un’<strong>al</strong>tra parte», oppure: «Noi non riceviamo il<br />

m<strong>al</strong>e da Dio, perché tutto ciò che Dio ci dona, anche la sofferenza, è un bene». La maggior<br />

parte degli autori tuttavia considera la risposta di Giobbe come una domanda retorica, il che<br />

rende la sua interpretazione ancora più complessa.<br />

Il confronto tra la prima e la seconda risposta di Giobbe è significativo. La prima è lunga, e<br />

comprende tre elementi: una riflessione sapienzi<strong>al</strong>e profana, una riflessione sapienzi<strong>al</strong>e religiosa<br />

e una benedizione. La seconda risposta è molto più corta, e si compone di un unico elemento:<br />

una riflessione sapienzi<strong>al</strong>e religiosa. L’assenza della benedizione va sottolineata, so-


Giobbe 65<br />

prattutto dopo l’invito della moglie a «benedire» o a «m<strong>al</strong>edire» Dio. Avremmo potuto immaginare<br />

che Giobbe rispondesse ora con una benedizione.<br />

Anche la forma letteraria delle due risposte è probabilmente molto diversa. Le prime parole<br />

di Giobbe erano affermazioni positive dichiarative che esprimono la certezza. La seconda risposta,<br />

se accettiamo l’interpretazione comune, è una domanda negativa. Fare una domanda è<br />

segno d’incertezza, tanto più che Giobbe risponde <strong>al</strong>la domanda della moglie con un’<strong>al</strong>tra<br />

domanda. Anche se gener<strong>al</strong>mente è considerata come una domanda retorica, interpretata come<br />

un modo particolare di affermare qu<strong>al</strong>che cosa, non possiamo ricavarne <strong>al</strong>cuna certezza. Ogni<br />

domanda, anche una domanda retorica, può nascondere diverse cose e può anche essere un<br />

modo educato per evitare di svelare il proprio pensiero o un modo indiretto per esprimere certe<br />

osservazioni eterodosse.<br />

Il senso aperto della domanda è confermato d<strong>al</strong> cambiamento d<strong>al</strong> singolare person<strong>al</strong>e, «io»,<br />

della prima risposta, <strong>al</strong> plur<strong>al</strong>e gener<strong>al</strong>e, «noi», della seconda. Siccome Giobbe e la moglie<br />

avevano perduto figli e beni, ci saremmo aspettati il plur<strong>al</strong>e piuttosto dopo la prima prova,<br />

e il singolare dopo la seconda prova che tocca le ossa e la carne di Giobbe soltanto. Eppure<br />

Giobbe dice: «Noi [tu e io] riceviamo [o accettiamo] il bene da parte di Dio, e non riceveremmo<br />

[accetteremmo] [tu e io] anche il m<strong>al</strong>e?». La risposta appropriata sarebbe: «Io<br />

suppongo che dovremmo»; oppure: «forse noi dovremmo»; oppure: «certamente noi dovremmo».<br />

Giobbe, senza dubbio, vuole dare una lezione <strong>al</strong>la moglie: «Certo che dobbiamo<br />

accettare il m<strong>al</strong>e. E tu faresti meglio a seguire il mio esempio. Io lo accetto; tu invece sembri<br />

incapace di farlo». Ma può anche darsi che Giobbe affermi i propri limiti: «Certo che dovremmo<br />

accettare il m<strong>al</strong>e. Ma noi – tu e io – non siamo capaci di farlo».<br />

Anche il contenuto delle due risposte è molto diverso. Nella sua seconda risposta, Giobbe<br />

parla di «accettare», il che presuppone «dare». Questo indica il legame molto stretto tra la seconda<br />

risposta e la seconda parte della prima risposta (1,21b). Nella prima risposta, «dare» (le<br />

cose buone) è opposto a «togliere» (le cose buone), mentre, nella seconda, «accettare il bene»<br />

è opposto non a «togliere il bene», ma ad «accettare il m<strong>al</strong>e». Quando Giobbe ha perduto tutto,<br />

ne parla concretamente come di «togliere», ma ora parla in modo più astratto della sua sofferenza<br />

come di «accettare il m<strong>al</strong>e», il che presuppone il «dare il m<strong>al</strong>e». Giobbe non dice esplicitamente<br />

chi dà il m<strong>al</strong>e. Ha forse paura di dire che è Dio? Perdere tutto è norm<strong>al</strong>e e accettabile,<br />

fa parte della vita. Ma la sua m<strong>al</strong>attia la chiama «un m<strong>al</strong>e». È il primo giudizio di v<strong>al</strong>ore<br />

di Giobbe.<br />

Anche se la seconda risposta di Giobbe e la seconda parte della prima risposta sono entrambe<br />

riflessioni sapienzi<strong>al</strong>i religiose, c’è una differenza importante tra le due. Nella prima<br />

Giobbe parla tre volte di «YHWH» (Signore). È il nome rivelato a Mosè per rassicurarlo nella<br />

sua missione di liberare i figli d’Israele d<strong>al</strong>la loro schiavitù in Egitto (Es 3,15-16). È il nome<br />

speci<strong>al</strong>e del Dio dell’<strong>al</strong>leanza e dice che Dio è con noi per liberarci e custodirci. Nella seconda<br />

risposta «YHWH» è sparito. Giobbe parla ora una volta di «Elohim», un nome che si riferisce<br />

<strong>al</strong>la divinità in gener<strong>al</strong>e, a un Dio che può essere molto lontano e trascendente.<br />

E poi, la prospettiva di Giobbe sugli eventi è diversa. Nella prima risposta, Giobbe osserva<br />

la vita d<strong>al</strong> punto di vista di Dio: Dio è il soggetto <strong>dei</strong> verbi. La formulazione della risposta ha<br />

una risonanza dinamica, YHWH dà e YHWH riprende. Nella risposta spontanea convenzion<strong>al</strong>e,<br />

che proferisce ancora prima di aver avuto il tempo di riflettere sul problema, Giobbe afferma<br />

che Dio può fare ciò che vuole. Nella seconda risposta, Giobbe osserva la vita d<strong>al</strong> punto di vista<br />

dell’uomo: gli esseri umani sono i soggetti <strong>dei</strong> verbi. La sua risposta evoca un atteggiamento<br />

molto più passivo: non abbiamo scelta, non abbiamo che da ricevere e subire la sofferenza.<br />

Il secondo sguardo porta Giobbe a rimettere in discussione il suo primo. È proprio così<br />

scontato che dobbiamo accettare tutto? La conflittu<strong>al</strong>ità tra la prospettiva divina e quella umana<br />

diventerà acuta nel seguito del racconto.


66 Giobbe<br />

c) La v<strong>al</strong>utazione del narratore (1,22 e 2,10b)<br />

In tutto ciò Giobbe non commise peccato né proferì [lett. «diede»] <strong>al</strong>cuna insolenza contro Dio...<br />

In tutto questo Giobbe non peccò con la sua bocca [lett. «con le sue labbra»].<br />

Anche il confronto tra queste due v<strong>al</strong>utazioni è illuminante. E possiamo osservare una prima<br />

differenza notevole: la seconda v<strong>al</strong>utazione è molto più corta della prima, così come le azioni<br />

e le parole di Giobbe erano più corte dopo la seconda prova. Nella prima risposta, Giobbe<br />

dice: «YHWH ha dato», e il narratore conclude che Giobbe «non proferì <strong>al</strong>cuna insolenza<br />

contro Dio». La seconda volta, il narratore abbandona questa affermazione. Giobbe, nella seconda<br />

risposta, pronuncia il primo giudizio di v<strong>al</strong>ore. Chiama la sua m<strong>al</strong>attia un «m<strong>al</strong>e», e<br />

suggerisce che sia Dio a «darglielo». Forse il narratore insinua in questo modo che Giobbe,<br />

questa volta, insulta Dio?<br />

La seconda v<strong>al</strong>utazione ripete parola per parola la prima parte della prima v<strong>al</strong>utazione: «In<br />

tutto ciò Giobbe non peccò». Ma l’autore aggiunge significativamente: «con la sua bocca».<br />

Dobbiamo pensare che Giobbe ha peccato nel suo cuore? Ci troviamo di fronte a un testo aperto.<br />

In molti testi biblici «labbra» e «cuore» sono in par<strong>al</strong>lelismo sinonimico (S<strong>al</strong> 21,2;<br />

45,1; Pr 10,8; 22,11; 24,2). Se Giobbe non ha peccato con le labbra, non ha peccato nemmeno<br />

con il cuore; insomma non ha peccato (33,3). Ma <strong>al</strong>tri testi biblici sottolineano come ciò che è<br />

detto con le labbra può essere diverso da ciò che capita nel cuore (Pr 26,23; S<strong>al</strong> 12,2; Is<br />

29,13; Sir 12,16; Mt 15,8). Raba, citato nel Baba Batra 16a, ha inteso il testo di Giobbe in<br />

questo modo: «Con le sue labbra non ha peccato, ma nel suo cuore ha peccato». Il Targum va<br />

nella stessa direzione e aggiunge: «ma nei suoi pensieri coltivava già parole peccaminose». Il<br />

contesto favorisce questa interpretazione. Perché l’autore avrebbe modificato la prima v<strong>al</strong>utazione<br />

aggiungendo: «con le sue labbra», se avesse semplicemente voluto dire che Giobbe non<br />

aveva peccato per niente? Il cambiamento non è certamente motivato da ragioni artistiche. Lo<br />

attesta il confronto tra la v<strong>al</strong>utazione di Giobbe da parte del narratore: «non peccò con le sue<br />

labbra» e la preoccupazione che tormentava Giobbe a proposito <strong>dei</strong> figli: «Forse i miei figli<br />

hanno peccato e m<strong>al</strong>edetto/benedetto Dio nel loro cuore» (1,5; c’è un <strong>al</strong>tro riferimento <strong>al</strong> cuore<br />

in 1,8 nel testo ebr<strong>ai</strong>co). I due testi parlano di «peccare», ma uno evoca il «cuore», l’<strong>al</strong>tro le<br />

«labbra». La differenza è notevole.<br />

Anche se Giobbe non ha m<strong>al</strong>edetto Dio dopo la sua seconda prova – come il satana aveva<br />

predetto (2,5) –, e di conseguenza non ha peccato con le labbra (31,30), il suo cuore non è più<br />

in pace. Quando Giobbe fin<strong>al</strong>mente «aprì la bocca» (3,1) dopo sette giorni di silenzio e non<br />

parla più in proverbi, ma con le sue parole, egli rivela ciò che si trova nel suo cuore. E, come<br />

vedremo, questo monologo di Giobbe rovescia completamente la risposta data dopo la prima<br />

prova.<br />

Una lettura attenta delle reazioni di Giobbe nella prima parte del libro (1,6–2,10) suggerisce<br />

che Giobbe non è il credente convinto che spesso si ritiene. Quando perde tutto ciò che ha,<br />

è veramente disorientato. Replica solo con riti e parole convenzion<strong>al</strong>i nei qu<strong>al</strong>i non c’è nulla<br />

di person<strong>al</strong>e, ma solo formule puramente superfici<strong>al</strong>i, vuote, anche se pie. Sia Giobbe che la<br />

moglie, quando essa interviene <strong>al</strong> momento della seconda prova, utilizzano quello che potremmo<br />

chiamare il linguaggio della fede popolare. Di fronte <strong>al</strong>le prove, l’atteggiamento della<br />

gente semplice è dello stesso genere. Certe persone rifiutano un Dio che dovesse permettere<br />

che succedano sventure del genere. La moglie di Giobbe – ed è un’interpretazione possibile<br />

del suo intervento – si colloca in questa categoria. Altre persone, invece, accettano questo Dio<br />

con una fede cieca espressa t<strong>al</strong>volta con cliché simili a quelli che Giobbe utilizza. Una fede<br />

del genere, che potremmo dire «la fede della vecchietta», può essere soddisfacente per un certo<br />

tempo, ma è fragile. Prima o poi, finirà per crollare poiché l’individuo non si è ancora veramente<br />

scontrato con il problema. A quel punto, <strong>al</strong>lora, <strong>al</strong>cuni rifiutano tutto; <strong>al</strong>tri, come<br />

Giobbe, approfondiscono la fede con un lungo cammino.<br />

Il confronto tra la prima e la seconda reazione di Giobbe indica che qu<strong>al</strong>cosa è cambiato. I<br />

riti e le parole convenzion<strong>al</strong>i non bastano più. Quando la m<strong>al</strong>attia colpisce Giobbe, egli ha an-


Giobbe 67<br />

cora meno da dire di quanto avesse dopo la perdita <strong>dei</strong> beni e <strong>dei</strong> figli. Reagisce con un’azione<br />

puramente profana per <strong>al</strong>leviare la sofferenza ed è solo quando la moglie lo provoca ad esprimersi,<br />

che fa una domanda. Giobbe si interroga, comincia un po’ <strong>al</strong>la volta a porsi delle<br />

domande.<br />

7.2.3.2. Il linguaggio del silenzio<br />

Nella prima parte del racconto (1,6–2,10) Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare.<br />

Alla prima prova aveva reagito con riti e formule convenzion<strong>al</strong>i, ma il suo atteggiamento,<br />

dopo la seconda prova, era già un po’ diverso. La reazione <strong>dei</strong> tre amici (2,11-13) è in parte<br />

simile a quella di Giobbe: anch’essi seguono un certo numero di riti convenzion<strong>al</strong>i; ma non<br />

ricorrono, come lui, a formule stereotipe, e tacciono. Il racconto ha raggiunto il linguaggio del<br />

silenzio, che è spezzato solo d<strong>ai</strong> pianti degli amici. La letteratura sapienzi<strong>al</strong>e parla spesso del<br />

potere della lingua. La lingua può fare meraviglie o, <strong>al</strong> contrario, ferire profondamente. C’è<br />

tutta un’arte di controllare la lingua. Quando parlare o non parlare? Cosa dire o non dire?<br />

Come dirlo? (Pr 13,3; 14,23; 18,21; 21,23; 26,28).<br />

Se gli amici conoscono i riti convenzion<strong>al</strong>i, devono sapere anche le pie formule superfici<strong>al</strong>i,<br />

ma si rendono conto che non ci sono parole adatte nel momento di una «grande» sofferenza.<br />

Non si può dire nulla, non si ha nemmeno il diritto di parlare. Nessuna parola può consolare.<br />

L’unica cosa che gli amici possono fare è «simpatizzare» con Giobbe, «soffrire con» e «vivere<br />

con» Giobbe. Lo fanno «giorno» e «notte», e non solo un giorno, ma sette. La presenza<br />

prolungata e anche le lacrime di questi tre saggi – gli uomini hanno il diritto di piangere –<br />

provano che sono veri amici. Non vengono certamente per quanto Giobbe ha, d<strong>al</strong> momento<br />

che non ha più nulla. Vengono unicamente per quello che Giobbe è, e non importa ciò che è<br />

diventato. Molte persone hanno paura di visitare <strong>dei</strong> m<strong>al</strong>ati gravi; ma non gli amici! Tutti i<br />

m<strong>al</strong>ati lo dicono: una presenza v<strong>al</strong>e più delle parole. Cosa dire infatti <strong>al</strong> m<strong>al</strong>ato? «Oggi h<strong>ai</strong> un<br />

bell’aspetto!» è una menzogna; e dire <strong>al</strong>lora: «Oggi non ti vedo molto bene!»?<br />

Giobbe è felice di avere amici del genere, che hanno lasciato la famiglia e gli impegni unicamente<br />

per lui. Come loro, anche Giobbe tace. Aveva saputo cosa dire <strong>ai</strong> servi, e aveva mostrato<br />

di essere forte nella replica <strong>al</strong>la moglie, ora non dice più nulla. Vede le lacrime degli<br />

amici che, essi pure, in un certo modo, hanno bisogno di incoraggiamento, ma Giobbe non rivolge<br />

loro <strong>al</strong>cuna parola. Avrebbe potuto ripetere quanto aveva detto <strong>ai</strong> servi o <strong>al</strong>la moglie, o<br />

dire <strong>al</strong>tre pie frasi convenzion<strong>al</strong>i, del genere: «Non piangete, è la volontà di Dio!». Niente di<br />

tutto questo. Per sette giorni e sette notti regna un grande silenzio.<br />

Il silenzio offre l’occasione di riflettere e di guardare profondamente dentro di sé. Quello<br />

che sta succedendo nel cuore di Giobbe e nel cuore di Elifaz, di Bildad, e di Zofar verrà <strong>al</strong>la<br />

luce quando le loro parole interromperanno il silenzio.<br />

7.2.3.3. Il linguaggio del dubbio<br />

Nella sua reazione spontanea di fronte <strong>ai</strong> membri della famiglia, <strong>ai</strong> servi e <strong>al</strong>la moglie,<br />

Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare. Dopo l’arrivo degli amici, Giobbe è passato<br />

<strong>al</strong> linguaggio del silenzio. Anche gli amici tacciono, si rendono conto di non potere dire<br />

nulla e non hanno nemmeno il diritto di parlare. Solamente lo sventurato ha il diritto di rompere<br />

il silenzio, solo lui decide quando è opportuno e permesso parlare.<br />

Infatti, Giobbe è il primo a riprendere la parola. Il suo monologo (cap. 3) rivela ciò che è<br />

successo nel suo spirito e nel suo cuore durante quei sette giorni e sette notti di silenzio. Ha<br />

avuto il tempo di riflettere, ma ha anche sentito il dolore nel suo corpo. Non può più controllarsi.<br />

Il furore e il dolore di Giobbe esplodono in una m<strong>al</strong>edizione e un lamento.<br />

C’è un par<strong>al</strong>lelismo evidente tra questo monologo e le parole della prima parte in cui<br />

Giobbe esprimeva la sua accettazione spontanea, ma ne è il polo opposto. Nella sua reazione<br />

<strong>al</strong>le prove, Giobbe era ricorso a formule convenzion<strong>al</strong>i, a proverbi e a una giaculatoria. Alcuni<br />

lettori vi vedono un’espressione della fede profonda di Giobbe. Ho fatto presente che formule


68 Giobbe<br />

del genere potrebbero essere l’espressione di una fede superfici<strong>al</strong>e e che sarà il seguito del libro<br />

a chiarirci le cose. Nel monologo Giobbe non si esprime più mediante formule imparate a<br />

memoria e imparate da <strong>al</strong>tri, ma parla con parole sue. Confuta punto per punto ciò che aveva<br />

detto in precedenza. La fede superfici<strong>al</strong>e crolla.<br />

Dopo la prima prova, Giobbe diceva <strong>ai</strong> servi che aveva accettato la propria nascita: «Nudo<br />

sono uscito d<strong>al</strong> ventre di mia madre» (1,21a). Nella prima parte del suo monologo Giobbe rifiuta<br />

il giorno della nascita e vorrebbe non aver m<strong>ai</strong> lasciato il seno materno (vv. 3-10): «essa<br />

non chiuse per me il varco della matrice» (v. 10; un <strong>al</strong>tro riferimento <strong>al</strong> seno materno <strong>al</strong> v. 11).<br />

Ai suoi servi Giobbe aveva detto di essere pronto ad accettare la morte: «nudo vi farò ritorno»<br />

(1,21b). Nella seconda parte del monologo Giobbe aspira <strong>al</strong>la morte, che è migliore della vita<br />

(vv. 11-19): «come un aborto interrato» (v. 16). Ai servi, aveva detto: «YHWH ha dato, YHWH<br />

ha tolto» (1,21c). Ora, nella terza parte del monologo, Giobbe s’interroga sul dono della vita<br />

(vv. 20-26): «Perché dare la luce...» (v. 20). In effetti, a cosa serve dare, se è solo per riprendere<br />

ciò che abbiamo dato? Giobbe aveva concluso la sua risposta <strong>ai</strong> servi con una benedizione:<br />

«Sia benedetto il nome di YHWH» (1,21d). Ora, dice l’autore, Giobbe «m<strong>al</strong>edice il giorno della<br />

sua nascita» (v. 1 e v. 8).<br />

Giobbe sembra più incline a seguire il consiglio che la moglie gli ha dato dopo la seconda<br />

prova: «M<strong>al</strong>edici Dio, e muori» (2,9). Giobbe certamente aspira <strong>al</strong>la morte, vuole morire. In<br />

verità non possiamo dire che Giobbe stesso abbia «m<strong>al</strong>edetto», spera piuttosto che <strong>al</strong>tri lo facciano<br />

per lui (v. 8). L’autore ha dunque ragione in un certo modo quando dice che Giobbe ha<br />

«m<strong>al</strong>edetto» (v. 1), <strong>al</strong>meno indirettamente. Rimane il fatto che la m<strong>al</strong>edizione non si rivolge a<br />

Dio direttamente, ma <strong>al</strong>l’esistenza, e dunque <strong>al</strong>l’opera creatrice di Dio.<br />

Giobbe non si accontenta di respingere le formule stereotipe, si pone anche parecchie domande:<br />

«Perché?» (vv. 11.12 [2x].20); e certamente la domanda che colui che soffre si pone<br />

prima o poi: «Perché io?». Una domanda richiede una risposta. Giobbe non rivolge le sue<br />

domande direttamente agli amici o a Dio. Giobbe non capisce più nulla. L’apparente certezza<br />

delle formule stereotipe è scomparsa, se m<strong>ai</strong> c’è stata! Giobbe dubita, cerca risposte nuove.<br />

Forse sarà capace di trovarle lui stesso, oppure <strong>al</strong>tri gliele daranno.<br />

Il dubbio ha condotto Giobbe a certe domande e a una recriminazione, la disperazione lo<br />

ha condotto a una m<strong>al</strong>edizione. L’autore ha ben riassunto il contenuto del monologo <strong>al</strong>l’inizio:<br />

«Dopo di ciò Giobbe aprì la bocca e m<strong>al</strong>edisse il suo giorno [di nascita]» (v. 1). Il satana sembra<br />

sul punto di trionfare, tuttavia non ha ancora vinto la sfida. Anche se Giobbe ha, <strong>al</strong>meno<br />

direttamente, m<strong>al</strong>edetto, non ha ancora m<strong>al</strong>edetto YHWH in faccia.<br />

Giobbe è diventato il credente che si pone delle domande, che cerca di capire. E <strong>al</strong>lora ricorrerà<br />

a un <strong>al</strong>tro linguaggio.<br />

7.2.3.4. Il linguaggio della teologia<br />

Nei capitoli da 4 a 27 Giobbe e gli amici si mettono a confronto, portando avanti ciascuno<br />

le proprie argomentazioni, che possono essere così riassunte:<br />

Le argomentazioni degli amici<br />

- nessuno è puro davanti a Dio (4,17-21; 15,14-16; 25,4-6; ecc.)<br />

- solo Dio è grande (dossologie: 5,9-18; 11,7-11; 22,12; 25,2-3; ecc.)<br />

- Dio punisce sempre i m<strong>al</strong>vagi (4,7-11; 5,2-7; 8,11-15; 11,20; 15,17-35; 18,5-21; 20,4-29; 22,15-18; ecc.)<br />

- Dio ricompensa sempre la fedeltà del giusto (5,17-21.25-26; 8,5-7.20-22; 11,13-19; 22,21-30; ecc.)<br />

Le argomentazioni di Giobbe<br />

- riconosce l’indegnità innata dell’uomo davanti a Dio (7,17; 9,2-3; 13,28-14,6; ecc.)<br />

- riconosce la grandezza di Dio (dossologie: 9,4-13; 12,7-10.13-25; 26,7-14; ecc.)<br />

- rifiuta ampiamente le affermazioni degli amici sul castigo inevitabile degli empi e sulla felicità sicura <strong>dei</strong><br />

giusti; ad esse oppone la smentita dell’esperienza comune (12,6; 21,27-34; ecc. ) e quella della sua stessa<br />

esperienza (9,22-24; 12,2-3; 13,2; 21,2-26; 24,1-17; ecc.)<br />

- rifiuta che si spieghi la sua sofferenza con una pretesa colpevolezza; egli si sente invece oggetto di<br />

un’aggressione da parte di Dio (i lamenti «egli»: 3,23; 6,4; 9,2-3.14-24.32-35; 13,3.7-11.13-19; 16,7-17;


Giobbe 69<br />

19,6-12.21-22; 23,1–24,1; 27,2; ecc.; i lamenti «tu»: 7,7-21; 9,28b-31; 10,1-22; 13,20-28; 14,1-6; 17,4-6;<br />

ecc.).<br />

- lo sbocco della morte è lo «Šeol», luogo di oppressione e di solitudine (7,9-10.21; 10,21-22; 14,7-12; 16,22;<br />

ecc.)<br />

- esprime la speranza nella possibilità di essere riconosciuto innocente di fronte a Dio, prima in maniera implicita<br />

(7,16b; 10,20b; 14,6.13-17; 23,3) e poi in modo più esplicito (16,18-22; 17,3; 19,25-27)<br />

Giobbe aveva reagito <strong>al</strong>le prove dell’inizio con il linguaggio della fede popolare, con formule<br />

stereotipe, imparate a memoria (1,6–2,10). Al momento dell’arrivo degli amici, i tre e<br />

Giobbe stesso sono passati <strong>al</strong> linguaggio del silenzio (2,11-13). Quando fin<strong>al</strong>mente Giobbe<br />

decide di rompere il silenzio, rivela di aver raggiunto il linguaggio del dubbio: Giobbe fa delle<br />

domande (3). Il credente che si pone delle domande cerca risposte. Le formule convenzion<strong>al</strong>i<br />

della fede popolare non soddisfano più. Giobbe cerca di capire.<br />

Arriviamo così <strong>al</strong> linguaggio della teologia. La definizione classica della teologia è fides<br />

quaerens intellectum (la fede che cerca di capire). I tre amici che sono rimasti seduti presso<br />

Giobbe, in silenzio per sette giorni e sette notti, hanno avuto molto tempo per riflettere. Hanno<br />

ascoltato le numerose domande imperson<strong>al</strong>i di Giobbe (3) e si sentono invitati a rispondere<br />

(4,1). Il di<strong>al</strong>ogo tra i tre amici e Giobbe prosegue con affermazioni, domande e risposte. Tutti<br />

parlano di Dio, che è poi il significato del termine «teologia» secondo la sua etimologia: theos<br />

(Dio)-logos (parola). La teologia cerca di comprendere, vuole verificare.<br />

Anche se tutti e quattro parlano il linguaggio teologico, gli amici e Giobbe non praticano lo<br />

stesso tipo di teologia. I cicli di discorsi contengono due tipi di teologia, d<strong>al</strong> momento che ci<br />

sono due punti di partenza.<br />

1) LA TEOLOGIA SCOLASTICA DEI TRE AMICI<br />

Nell’epoca precedente il Concilio Vaticano II si insegnava spesso la teologia servendosi di<br />

un genere particolare di manu<strong>al</strong>i. Un bell’esempio è l’opera di A. Tanquerey, Synopsis Theologiae<br />

Dogmaticae ad usum Seminariorum. Il sottotitolo indica chiaramente che il libro è<br />

scritto prima di tutto per i seminaristi. Si parte da una tesi, che riassume una verità di fede, un<br />

dogma, ad es.: «Gesù è veramente Dio e uomo». Segue la prova di questo dogma in tre punti:<br />

1) la prova ricavata d<strong>al</strong>la Scrittura (Scriptura probatur); 2) la prova ricavata d<strong>al</strong>la tradizione,<br />

che era sempre unanime (Probatur Traditione); 3) siccome un mistero non può essere provato<br />

con la ragione, si mostrava come la tesi fosse accettabile <strong>al</strong>la ragione (Ratione theologica<br />

suadetur). È questa la teologia insegnata nelle scuole per moltissimo tempo. Si provava una<br />

tesi ricorrendo <strong>al</strong>le tre fonti della teologia.<br />

I tre amici seguono questo metodo per trovare una risposta <strong>al</strong>le domande di Giobbe a proposito<br />

della sua sofferenza e di Dio. Gli amici hanno cercato davvero di simpatizzare con<br />

Giobbe, ma come è possibile che qu<strong>al</strong>cuno, pur con tutta la buona volontà di questo mondo,<br />

«simpatizzi» veramente, soffra con l’<strong>al</strong>tro, senta la sofferenza dell’<strong>al</strong>tro? Il loro approccio è<br />

più cerebr<strong>al</strong>e. Ciascuno <strong>dei</strong> tre visitatori si muove a modo suo, ma in ultima an<strong>al</strong>isi hanno tutti<br />

e tre lo stesso approccio. Il loro punto di partenza è il dogma, sono le verità di fede.<br />

Elifaz, il primo amico a prendere la parola nel primo ciclo di discorsi, pone la tesi da cui<br />

parte: «Qu<strong>al</strong>e innocente è m<strong>ai</strong> perito? [...] coloro che coltivano m<strong>al</strong>izia e seminano miseria,<br />

mietono t<strong>al</strong>i cose» (4,7-9). Questa tesi, ripresa poi anche dagli <strong>al</strong>tri due, comporta il principio<br />

causa-effetto della dottrina classica della retribuzione: il bene viene ricompensato e il m<strong>al</strong>e<br />

viene punito. Dio, in quanto giudice giusto, assicura questo ordine nel mondo (20,29). Siccome<br />

a quel tempo non c’era ancora una dottrina chiara su una vita nell’oltretomba, la retribuzione<br />

doveva aver luogo qui in terra. Il giusto è ricompensato con figli numerosi, ricchezze e<br />

una lunga vita; ed era proprio questa la felicità di cui godeva Giobbe <strong>al</strong>l’inizio del libro (1,1-<br />

3). Il m<strong>al</strong>vagio, invece, era punito con sciagure, con la m<strong>al</strong>attia e una morte prematura. Molti<br />

scritti biblici, come, ad esempio, il libro del Deuteronomio, affermano questo principio. Elifaz,<br />

che comincia il di<strong>al</strong>ogo partendo da questa tesi, continua a difenderla costantemente


70 Giobbe<br />

(15,17-35; 22,12-20), e Bildad (18,5-21) e Zofar (20,4-29) parlano <strong>al</strong>lo stesso modo. I tre conoscono<br />

molto bene la teoria e la propongono a Giobbe come risposta <strong>al</strong>le sue domande sul<br />

perché della sua sofferenza.<br />

Gli amici ricorrono <strong>al</strong>le tre fonti della teologia per provare questa tesi della retribuzione.<br />

Essi attingono le loro prove nella rivelazione divina: conoscono le Scritture. Elifaz dice:<br />

«l’infamia chiude la bocca» (5,16), citazione del S<strong>al</strong> 107,42b; e, invece, «i giusti vedono ciò e<br />

si r<strong>al</strong>legrano» (22,19a), citazione dell’<strong>al</strong>tra parte del medesimo versetto del S<strong>al</strong> 107,42a.<br />

Quando Bildad rimanda <strong>al</strong>la grandezza di Dio e <strong>al</strong>la piccolezza dell’essere umano (25,2-6),<br />

sembra ispirarsi <strong>al</strong> S<strong>al</strong> 8. Elifaz dice addirittura di aver avuto una ispirazione privata: «Una<br />

parola mi fu detta furtivamente» (4,12), e di conoscere la parola di Dio (15,11). Anche Zofar<br />

crede di sapere quello che Dio vuole dire (11,5). Per provare la loro tesi, essi ricorrono anche<br />

<strong>al</strong>la tradizione. Come tutti i manu<strong>al</strong>i di teologia avevano l’abitudine di rimandare <strong>al</strong>la posizione<br />

«unanime» <strong>dei</strong> Padri della Chiesa, così i tre amici rimandano <strong>al</strong>la dottrina degli antenati.<br />

Bildad dice: «Interroga le generazioni passate, e rifletti sull’esperienza <strong>dei</strong> loro padri...» (8,8-<br />

10). Elifaz evoca l’autentica tradizione originaria, prima che fosse corrotta da elementi stranieri<br />

(15,18-19), e Zofar parla della tradizione primitiva: «... da sempre, da quando l’uomo fu<br />

posto sulla terra» (20,4). E infine si rifanno <strong>al</strong>la loro esperienza person<strong>al</strong>e e <strong>al</strong>le loro riflessioni.<br />

Elifaz lo ripete spesso: «Ecco..., l’ho visto» (4,7-8; 5,3.27; 15,17) e Zofar parla della «ispirazione<br />

del suo senno» (20,3). La tesi è provata, e non rimane <strong>al</strong>cuna obiezione possibile:<br />

«È così» (5,27).<br />

Che fare ora di fronte <strong>al</strong>la re<strong>al</strong>tà che sembra contraddire la tesi? Giobbe è riconosciuto<br />

dappertutto come un uomo integro e retto (1,1), e anche Dio lo giudica in questo modo (1,8;<br />

2,3; ma solo i lettori lo sanno, mentre gli amici lo ignorano), eppure soffre. Come risolvono<br />

questa contraddizione gli amici? Impossibile intaccare il dogma; ogni sofferenza, e quindi anche<br />

quella di Giobbe, non può essere spiegata che d<strong>al</strong> peccato. Essi <strong>al</strong>lora fanno una distinzione<br />

tra l’essere e il sembrare. Giobbe si dichiara uomo integro, ed è in questo modo che<br />

gli <strong>al</strong>tri lo pensano, ma tutto ciò non è che illusione. Ciò che Giobbe sembra essere, in re<strong>al</strong>tà<br />

non lo è. Qu<strong>al</strong>e essere umano può essere senza peccato? «Può l’uomo essere giusto davanti a<br />

Dio...?» (4,17-19; cfr. 15,14-16; 25,4). I tre amici addirittura accusano Giobbe di «crimine»<br />

(15,5), di «colpa» (11,6), di «grande m<strong>al</strong>vagità» (22,2-11): «Non è piuttosto per la tua grande<br />

m<strong>al</strong>vagità e per le tue innumerevoli colpe... Perciò ti circondano i lacci» (22,5.10). Il principio<br />

causa-effetto è s<strong>al</strong>vo. Giobbe farebbe meglio a riconoscere la sua colpevolezza, e <strong>al</strong>lora Dio lo<br />

s<strong>al</strong>verebbe certamente (11,13-20; 22,21-30). E Dio, anche se non sembra giusto, in re<strong>al</strong>tà è<br />

giusto: «Può forse Dio f<strong>al</strong>sare il diritto?» (8,3). Per gli amici Giobbe è nella menzogna e Dio è<br />

un mistero: «Pretendi forse di sondare l’intimo di Dio...?» (11,7-9).<br />

I tre amici praticano una teologia scolastica, che parte d<strong>al</strong> dogma <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e la vita deve adattarsi,<br />

volente o nolente. Si tratta di una teologia statica senza possibilità di evoluzione, d<strong>al</strong><br />

momento che le risposte sono conosciute in partenza.<br />

2) LA TEOLOGIA ESISTENZIALE DI GIOBBE<br />

Gli amici, pur con tutta la loro buona volontà, fanno un ragionamento astratto, mentre<br />

Giobbe è il solo a soffrire e a ragionare con tutto il suo essere. Gli amici partono d<strong>al</strong> dogma <strong>al</strong><br />

qu<strong>al</strong>e la re<strong>al</strong>tà della vita deve adattarsi. Giobbe, invece, parte d<strong>al</strong>la re<strong>al</strong>tà della vita per confrontarla<br />

con il dogma della dottrina della retribuzione fondata sul principio causa-effetto, che<br />

conosce bene quanto i tre amici (24,18-25; 27,13-23). Anche Giobbe ricorre <strong>al</strong>le tre fonti della<br />

teologia. Egli conosce la rivelazione divina della Scrittura, e rimanda <strong>al</strong> S<strong>al</strong> 8 (7,17-18; 19,9),<br />

lo stesso <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e Bildad si riferisce, e cita anche <strong>al</strong>tri testi biblici (S<strong>al</strong> 12,9 = Is 41,20; S<strong>al</strong><br />

14,11 = Is 19,5). Egli conosce la rivelazione divina a proposito della sapienza e respinge la<br />

«rivelazione» su cui si fondano i suoi amici (26,4). Giobbe si rifà anche <strong>al</strong>la tradizione, senza<br />

ridurla a quella degli antenati; rimanda anche <strong>al</strong>le religioni del mondo, <strong>al</strong>la tradizione univer-


Giobbe 71<br />

s<strong>al</strong>e: «Perché non lo chiedete <strong>ai</strong> viandanti?» (21,29). Ma ci sono anche le sue riflessioni person<strong>al</strong>i:<br />

«Ma anch’io ho senno come voi, non sono da meno di voi» (12,3; 13,1-2). Le tre fonti<br />

non sono utilizzate per provare a ogni costo un dogma, ma per riguardare la vita e per trovare<br />

possibilmente una risposta <strong>al</strong>la domanda esistenzi<strong>al</strong>e a proposito della sofferenza e di Dio.<br />

L’esperienza contraddice il dogma della retribuzione: «Sono tranquille le tende <strong>dei</strong> razziatori,<br />

c’è sicurezza per coloro che provocano Dio» (12,6; cfr. 21,7-6). Se Giobbe costata ciò nel<br />

mondo che gli sta attorno, a quel punto osa interrogarsi anche a proposito della propria sofferenza.<br />

Gli amici cercano di s<strong>al</strong>vare il dogma facendo una distinzione tra ciò che una persona è<br />

e ciò che una persona sembra essere. Questo è inaccettabile per Giobbe, la re<strong>al</strong>tà non può essere<br />

sacrificata <strong>al</strong> dogma. Siccome Giobbe ha visto che gli innocenti non sono sempre ricompensati<br />

e i m<strong>al</strong>fattori non sono sempre puniti, osa proclamare la propria innocenza. Non solo<br />

sembra giusto, ma lo è in re<strong>al</strong>tà: «Fino <strong>al</strong>l’ultimo respiro rivendicherò la mia integrità. Terrò<br />

fermo <strong>al</strong>la mia innocenza, senza cedere!» (27,5-6; cfr. 9,15.20.21; 10,7.15; 16,17; 23,10). Ma<br />

la sofferenza di un innocente fa <strong>al</strong>lora sorgere una domanda su Dio, che soggiace a questa dottrina<br />

della retribuzione. Gli amici risolvono il problema parlando del mistero di Dio. Anche se<br />

Dio non sembra giusto, in re<strong>al</strong>tà è giusto. E anche questo è inaccettabile per Giobbe. Egli arriva<br />

<strong>al</strong>la dolorosa conclusione che Dio, che non sembra giusto, non lo è nemmeno in re<strong>al</strong>tà:<br />

«Sappiate dunque che Dio mi ha fatto torto» (19,6; cfr. 9,22-24; 24,12; 27,2). Giobbe colloca<br />

se stesso nella posizione della verità e Dio nella posizione della f<strong>al</strong>sità.<br />

La teologia esistenzi<strong>al</strong>e di Giobbe parte d<strong>al</strong>la vita. Se la vita contraddice il dogma, <strong>al</strong>lora il<br />

dogma è inesatto e il credente deve continuare la ricerca. Una teologia del genere è dinamica e<br />

permette l’evoluzione. Giobbe, infatti, è in lotta interiormente, si dibatte nelle contraddizioni e<br />

continua a cercare, come possiamo vedere nei diversi passaggi in cui si rivolge a Dio.<br />

Partire d<strong>al</strong>la propria esperienza, e soprattutto se si tratta della sofferenza, anziché partire<br />

d<strong>ai</strong> principi, cambia molte cose. Molti principi che sembravano importanti e chiari crollano e<br />

sembrano vani. Ciò che Giobbe dice ora è ben diverso da ciò che diceva in precedenza. Gli<br />

amici glielo fanno notare: «Le tue parole sostenevano i vacillanti [...]. Ma ora che tocca a te,<br />

sei depresso» (4,4-5). La risposta di Giobbe non manca. Se fossero <strong>al</strong> suo posto, parlerebbero<br />

meglio di lui? «Ora anch’io potrei parlare come voi se foste <strong>al</strong> mio posto» (16,4).<br />

3) DUE TEOLOGIE IN CONFLITTO<br />

Un di<strong>al</strong>ogo tra due teologie così divergenti è difficile e addirittura penoso.<br />

a) Un di<strong>al</strong>ogo senza sbocchi<br />

La conversazione fra i tre amici e Giobbe è come una conversazione tra un teologo conservatore<br />

e un teologo liber<strong>al</strong>e, oppure tra un credente pieno di buon senso e un membro fanatico<br />

di una setta. Praticare due teologie equiv<strong>al</strong>e a parlare due lingue differenti. Gli amici e Giobbe<br />

non possono capirsi, e, anche se t<strong>al</strong>volta da parte di uno degli interlocutori ci troviamo di<br />

fronte a una replica vera e propria, in genere ciascuno parla senza rispondere <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro. Si tratta<br />

di un di<strong>al</strong>ogo tra sordi che in questo modo può durare <strong>al</strong>l’infinito. Bildad si chiede: «Fino a<br />

quando...?» (18,2); Giobbe si pone la stessa domanda: «Fino a quando...?» (19,2). Questo<br />

spiega perché ci siano tre cicli di discorsi senza che si dica granché di nuovo.<br />

È interessante notare la lunghezza <strong>dei</strong> diversi discorsi nel di<strong>al</strong>ogo (4–27). Gli amici parlano<br />

ogni volta per un capitolo, solamente il primo discorso di Elifaz ne comprende due. Nove capitoli<br />

sono consacrati <strong>al</strong>le parole degli amici. Giobbe, da parte sua, risponde quattro volte in<br />

due capitoli e due volte in tre capitoli. L’intervento di Giobbe comprende quindici capitoli e,<br />

se si tiene conto <strong>dei</strong> monologhi (3; 29–31), s<strong>al</strong>e a diciannove.<br />

Ad un certo punto, qu<strong>al</strong>cuno deve pur abbandonare, e questo spiega perché il terzo ciclo si<br />

sf<strong>al</strong>da: Elifaz parla ancora (22), Bildad prende ancora la parola, ma brevemente (solo pochi<br />

versetti: 25,1-6), e Zofar abbandona. I tre amici si dimostrano i più saggi. Giobbe, che vuole<br />

uscire vincitore d<strong>al</strong> combattimento, continua a battersi con lunghi discorsi.


72 Giobbe<br />

In conversazioni del genere, diventa t<strong>al</strong>volta difficile seguire gli argomenti delle due parti,<br />

e in certi casi si ha quasi l’impressione che i due interlocutori comincino a ripetersi reciprocamente.<br />

Lo possiamo costatare nel terzo ciclo quando Giobbe dice cose che ci aspetteremmo<br />

piuttosto dagli amici. L’apparente disordine del terzo ciclo non è un’indicazione di un testo<br />

corrotto e non è necessario ricostruire questo terzo ciclo secondo lo schema <strong>dei</strong> primi due.<br />

b) L’ossessione per l’ortodossia<br />

Una conversazione del genere porta a nulla e a nessuna «conversione», perché Giobbe e i<br />

tre amici sono <strong>dei</strong> credenti che cercano di comprendere un mistero e vogliono difendere la<br />

«verità». Ciascuna delle due parti è convinta del proprio punto di vista e lo considera come<br />

l’unica verità, qu<strong>al</strong>ificando quella dell’<strong>al</strong>tro come eresia. Elifaz conclude il suo primo discorso<br />

dicendo: «Ecco quanto abbiamo studiato a fondo: è così» (5,27), non c’è dunque <strong>al</strong>cuna<br />

possibilità di discussione. Zofar incoraggia Giobbe a non aderire <strong>al</strong>la f<strong>al</strong>sità: «Non permettere<br />

<strong>al</strong>l’ingiustizia di abitare nella tua tenda» (11,14).<br />

Anche Giobbe, per parte sua, è convinto della verità della propria posizione e dunque della<br />

f<strong>al</strong>sità delle parole <strong>dei</strong> tre amici. «Certo non vi mentirò in faccia. Ritornate, di grazia, non si<br />

faccia ingiustizia! [.. .] C’è forse iniquità sulla mia lingua?» (6,28.29.30). «Voi invece siete<br />

manipolatori di f<strong>al</strong>sità» (13, 4); «Volete forse dire f<strong>al</strong>sità in favore di Dio e per lui parlare con<br />

inganno?» (13,7; cfr. 24,25; 27,4).<br />

c) La rottura dell’amicizia<br />

Una conversazione del genere, ossessionata d<strong>al</strong>la difesa della verità e di Dio, finisce per<br />

portare <strong>al</strong>la rottura delle relazioni umane. I tre erano venuti come veri amici, ma, <strong>al</strong>la fine,<br />

sembrano piuttosto nemici di Giobbe. Elifaz comincia il di<strong>al</strong>ogo in modo molto delicato: «Se<br />

ti rivolgiamo la parola, riuscir<strong>ai</strong> a sopportarla?» (4,2).<br />

Dopo che Giobbe ha risposto con un lungo lamento, Bildad reagisce in modo già più diretto:<br />

«Fino a quando dir<strong>ai</strong> cose del genere?» (8,2). Quando successivamente Giobbe accusa Dio,<br />

Zofar diventa aggressivo e insulta Giobbe, chiamandolo «chiacchierone» (letter<strong>al</strong>mente:<br />

«un eroe delle labbra») (11,2) e «stolto» (11,12). Siccome Giobbe rimane sulle sue posizioni,<br />

gli amici adottano un linguaggio sarcastico nel secondo ciclo di discorsi. Essi cominciano insinuando<br />

che nessun essere umano può essere giusto, e finiscono accusando direttamente<br />

Giobbe di peccato nel terzo ciclo. I tre amici si trovano di fronte a un dilemma, si sentono forzati<br />

a scegliere tra Dio e Giobbe. Per difendere Dio, essi sacrificano la loro amicizia con<br />

Giobbe.<br />

Giobbe non è per niente migliore <strong>dei</strong> tre amici, anche lui diventa sarcastico: «Davvero siete<br />

la voce del popolo e con voi morirà la sapienza!» (12,2.4; cfr. 26,2-4). Giobbe pensava di poter<br />

continuare a contare su di loro, anche se, <strong>ai</strong> loro occhi, proferisce parole sacrileghe:<br />

«L’uomo disfatto ha diritto <strong>al</strong>la pietà del suo prossimo, anche se avesse abbandonato il timore<br />

dell’Onnipotente» (6,14). Giobbe si lamenta degli amici (6,14-30; 19,13-22) che, per difendere<br />

la «verità», sono disposti a «mettere in vendita l’amico» (6,27). Li chiama «manipolatori di<br />

f<strong>al</strong>sità» (13,4), «sventurati consolatori» (16,2), «beffardi» (17,2). Dice che non lo «ascoltano»<br />

per niente (21,2-3; cfr. 13,5), ma che lo «tormentano, affliggono, insultano, torturano, rimproverano»<br />

(19,2-5). Arriva perfino a m<strong>al</strong>edire gli amici (27,7-12). Quelli che un tempo erano<br />

amici sono diventati persone che si feriscono e si fanno del m<strong>al</strong>e reciprocamente. Giobbe dice<br />

a Bildad: «Sono già dieci volte che mi ingiuriate; non avete vergogna di torturarmi?» (19,3), e<br />

Zofar risponde a Giobbe: «Ho ascoltato una lezione umiliante» (20,3), e anche Elifaz si sente<br />

rigettato (15,11). L’ossessione dell’ortodossia ha condotto a uno scisma.<br />

Il lettore che cerca di seguire il di<strong>al</strong>ogo senza schierarsi anticipatamente in favore di Giobbe<br />

o <strong>dei</strong> tre amici opterà prima o poi per uno <strong>dei</strong> due tipi di teologia che sono <strong>al</strong>l’opera: la teologia<br />

scolastica <strong>dei</strong> tre amici che parte d<strong>ai</strong> principi, una teologia d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to; e la teologia di<br />

Giobbe che parte d<strong>al</strong>la sua esperienza, una teologia d<strong>al</strong> basso. Per sapere qu<strong>al</strong>e delle due teo-


Giobbe 73<br />

logie Dio preferisce, il lettore dovrà attendere la fine del libro. Alcuni lettori vedranno confermata<br />

la loro scelta, <strong>al</strong>tri conosceranno forse una sorpresa.<br />

7.2.3.5. Il linguaggio della preghiera<br />

La seconda parte del libro è conclusa. Giobbe l’ha iniziata e conclusa con un monologo,<br />

nel qu<strong>al</strong>e non si rivolge direttamente a nessuno <strong>al</strong>la seconda persona. Chi vuole capire capisca,<br />

sia Dio che gli amici.<br />

Nel monologo inizi<strong>al</strong>e ha fatto ricorso <strong>al</strong> linguaggio del dubbio. Sono seguiti tre cicli di discorsi<br />

che costituiscono un di<strong>al</strong>ogo fra i tre amici e Giobbe; tutti parlavano il linguaggio della<br />

teologia. I tre amici parlano di Giobbe, di Dio, e <strong>dei</strong> principi: essi praticano una teologia<br />

«d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to». Giobbe parla di sé, di Dio, e della propria vita: egli pratica una teologia «d<strong>al</strong> basso».<br />

Ma tutto questo discorso su Dio <strong>al</strong>la terza persona non ha portato a nulla. In apparenza gli<br />

amici sanno tutto su Dio, ma non parlano m<strong>ai</strong> a Dio. Anche Giobbe sa molte cose su Dio, ma<br />

è nel dubbio e decide di rivolgersi a Dio <strong>al</strong>la seconda persona, con quello che è il linguaggio<br />

della preghiera. «Io voglio rivolgermi <strong>al</strong>l’Onnipotente [...]. Voi, invece, non siete che <strong>dei</strong> manipolatori<br />

di f<strong>al</strong>sità» (13,3-4). Gli amici teologi, anche se hanno incoraggiato Giobbe <strong>al</strong>la preghiera,<br />

(5,8; 22,27), sembrano prendersi gioco della preghiera di Giobbe. Giobbe se ne lamenta:<br />

«Sono un oggetto di beffa per il mio vicino, io che gridavo a Dio per avere una risposta!»<br />

(12,4).<br />

Nel primo ciclo di discorsi, Giobbe si rivolge direttamente a Dio <strong>al</strong>l’interno di ciascuna<br />

delle risposte agli amici (dopo Elifaz: 7,7-21; dopo Bildad: 9,25-31 e 10,1-22; dopo Zofar:<br />

13,20-28 e 14,1-22). La preghiera di Giobbe ha un ruolo molto importante in questo ciclo, ma<br />

Dio non risponde. La sua preghiera diventa molto più breve nel secondo ciclo di discorsi, e si<br />

limita <strong>al</strong>la risposta ad Elifaz (<strong>al</strong>cuni versetti nei qu<strong>al</strong>i Giobbe si rivolge a Dio dandogli del tu,<br />

<strong>al</strong>l’interno di testi nei qu<strong>al</strong>i parla di Dio <strong>al</strong>la terza persona, «egli»: 16, 7-8 e 17,3-4). Nel terzo<br />

ciclo non c’è più <strong>al</strong>cuna traccia di preghiera. Un’ultima volta, come un’ultima speranza,<br />

Giobbe si rivolge ancora a Dio nel monologo fin<strong>al</strong>e (30,20-31), proprio prima di passare <strong>al</strong><br />

suo giuramento di innocenza.<br />

Le sue preghiere non sono né inni di lode né preghiere di rendimento di grazie, ma lamentazioni.<br />

Giobbe supplica Dio (7,7), accusa Dio (7,12), e cita in processo Dio perché gli dia una risposta<br />

e delle spiegazioni (10,2). Ma, qu<strong>al</strong>e che sia il contenuto della preghiera, Giobbe dice<br />

sempre quello che sente nel profondo del cuore. «Perciò non terrò chiusa la bocca, parlerò<br />

nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore» (7,11). La preghiera di<br />

Giobbe è un grido di sofferenza, t<strong>al</strong>volta pieno di amarezza e di parole violente. Eppure Giobbe<br />

non ha m<strong>ai</strong> m<strong>al</strong>edetto Dio. Il satana non ha ancora vinto la sua sfida, la sua scommessa.<br />

In diverse <strong>al</strong>tre occasioni Giobbe, anche se non si rivolge direttamente a Dio <strong>al</strong>la seconda<br />

persona, fa vedere di voler mantenere il contatto con Dio e continuare ad appellarsi a lui.<br />

Questo appare chiaramente d<strong>al</strong>le sue espressioni di speranza (16,18–17,1; 19,23-29). Il suo<br />

giuramento di innocenza (27,2-6; 31) è un <strong>al</strong>tro modo per forzare Dio ad agire.<br />

Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare, del silenzio, del dubbio, della teologia<br />

e infine della preghiera. Ma la preghiera non è diventata un vero di<strong>al</strong>ogo. Giobbe ha parlato a<br />

Dio, ma Dio ha mantenuto il silenzio. Giobbe non sa più cosa fare: «Ecco la mia firma [o<br />

«Ecco la mia ultima parola»]! L’Onnipotente mi risponda!» (31,35). L’aspirazione di Giobbe<br />

è di sentire il linguaggio divino, la parola di Dio. Egli non lo chiede più direttamente a Dio,<br />

ma lo esprime <strong>al</strong>la terza persona. Dio non ha ancora risposto, c’è forse qu<strong>al</strong>che <strong>al</strong>tro che può<br />

parlare questo linguaggio divino. Il testo conclude in questo modo: «Fine delle parole di<br />

Giobbe» (31,40c). In effetti, come vedremo, Giobbe non prenderà così spesso la parola nel resto<br />

del libro.


74 Giobbe<br />

7.2.3.6. Una voce fuori campo: Il linguaggio della sapienza<br />

Il capitolo 28 rappresenta una pausa. Non è pronunciato né da Giobbe né d<strong>ai</strong> tre amici, ma<br />

da una voce fuori campo. I discorsi di Giobbe e degli amici erano giunti ad un punto morto.<br />

Gli amici non parleranno più, Giobbe pronuncerà un ultimo monologo (29–31) per poi tacere<br />

anche lui. La voce fuori campo interviene per imprimere <strong>al</strong>la ricerca della soluzione della vicenda<br />

di Giobbe una nuova direzione, quella della tradizione sapienzi<strong>al</strong>e.<br />

Il capitolo è facilmente divisibile in tre parti: vv. 1-12, vv. 13-20, vv. 21-28. Il tema è quello<br />

della ricerca del luogo della sapienza. Nelle prime due parti il luogo è sconosciuto e inaccessibile,<br />

mentre nella terza parte esso viene svelato. Protagonista della ricerca è l’uomo, ma<br />

in ognuna delle parti mette in azione una sua particolare capacità di ricerca: nella prima c’è la<br />

ricerca dell’homo faber, nella seconda la ricerca dell’homo mercator, nella terza la ricerca<br />

dell’homo religiosus.<br />

Soffermiamoci nella lettura del testo.<br />

La ricerca dell’homo faber (28,1-12). La prima ricerca che, pur meritando gli elogi del nostro<br />

autore, non mette però cartelli e segn<strong>al</strong>i veri sulla via della sapienza, è la ricerca<br />

dell’homo faber. “Faber” è l’uomo che lavora con i muscoli delle sue braccia e con l’ardimento<br />

del suo spirito, per penetrare nelle viscere della terra e per strappare <strong>al</strong> sottosuolo le sue ricchezze.<br />

L’autore di Giobbe ha grande stima <strong>dei</strong> ricercatori del sottosuolo, <strong>dei</strong> cercatori e scavatori<br />

di met<strong>al</strong>lo. Ma sa che la loro ricerca è limitata e destinata <strong>al</strong> f<strong>al</strong>limento di fronte <strong>al</strong>la<br />

domanda:<br />

Ma la sapienza da dove si trae?<br />

E il luogo dell’intelligenza dov’è? (v. 12).<br />

Non sono l’arte e l’ardimento dell’homo faber che raggiungono il tesoro della sapienza.<br />

La ricerca dell’homo mercator (28,13-20). Non solo l’homo faber, ma anche l’abisso della<br />

terra da cui l’uomo estrae i met<strong>al</strong>li, e poi addirittura il mare, dichiarano il loro f<strong>al</strong>limento: non<br />

sono in grado di dare indicazioni a chi è in cerca della sapienza.<br />

Se l’homo faber porta <strong>al</strong>la superficie oro e argento, lo fa per commerciarlo, per trovare profitto<br />

economico. Non per nascondere il frutto della sua fatica in chissà qu<strong>al</strong>e luogo o deposito.<br />

Nasce dunque la necessità dello scambio <strong>dei</strong> beni economici, i traffici e l’attività commerci<strong>al</strong>e.<br />

Anche il commercio chiede capacità, esperienza, fatica e coraggio. Ma anche <strong>al</strong>l’homo<br />

mercator viene posta la domanda:<br />

Ma da dove viene la Sapienza?<br />

E il luogo dell’intelligenza dov’è? (Gb 28,20).<br />

La risposta implicita dice che neanche il mercante lo sa. Il testo si chiude dunque come<br />

cominciava: col f<strong>al</strong>limento della conoscenza umana, se essa è lasciata a se stessa.<br />

La ricerca dell’homo religiosus (28,21-28). Da buon maestro di sapienza, l’autore di Gb 28<br />

procede prima negando e poi affermando. Prima esclude che, scendendo negli anfratti della<br />

terra e poi viaggiando fino ad Ofir e fino <strong>al</strong>l’Etiopia, l’uomo possa trovare la sapienza. Poi<br />

presenta il versante positivo della montagna della sapienza, ardua da esplorare e da sc<strong>al</strong>are.<br />

Dopo aver ribadito che la sapienza è nascosta e inaccessibile <strong>ai</strong> viventi che abitano sulla faccia<br />

della terra e che tentano di scendere nelle sue viscere, ed è ignota anche agli uccelli che<br />

d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to del cielo scrutano ogni punto del mare e della terra, esposti <strong>al</strong> loro sguardo corsaro,<br />

acuto e penetrante, <strong>al</strong> v. 23 opera un improvviso e decisivo cambio di soggetto. Prima<br />

l’iniziativa era dell’uomo delle miniere e dell’uomo del commercio e degli scambi. Ora invece<br />

è detto che solo Dio conosce la via e il luogo dove si nasconde la sapienza:<br />

Dio solo ne conosce la via,<br />

lui solo sa dove si trovi (v. 23).


Giobbe 75<br />

Il motivo per cui a Dio è conoscibile ed accessibile ciò che è nascosto agli uomini e agli<br />

uccelli del cielo sta anzitutto nel fatto che il suo sguardo è infinitamente più lungimirante di<br />

quello dell’uomo, perché è lo sguardo del creatore. Al v. 28 si torna a parlare dell’uomo per<br />

dire, però, non che egli raggiunge la sapienza, ma che è Dio a rivelargliela. Ciò che è inaccessibile<br />

<strong>ai</strong> tentativi dell’uomo non è impossibilità assoluta. L’uomo ha un orecchio per ascoltare<br />

gli insegnamenti della sapienza ed ha <strong>dei</strong> piedi per camminare sulla sua via, ma la parola che<br />

giungendo <strong>al</strong> suo orecchio gli fa conoscere la sapienza è la parola di Dio.<br />

Nella vita dell’uomo c’è incessante l’attività della ricerca, ma la ricerca è differenziata. Egli<br />

può cercare i met<strong>al</strong>li nelle miniere, può cercare lo zaffiro o le perle nei centri di mercato,<br />

ma la ricerca della sapienza richiede itinerari diversi, gli itinerari non della terra, del mare o<br />

del deserto, ma gli itinerari dello spirito, sui qu<strong>al</strong>i cade la luce della rivelazione divina.<br />

Qui conviene trarre d<strong>al</strong> testo una citazione brevissima e addirittura monca. Bisogna infatti<br />

metterne in ris<strong>al</strong>to l’importanza, perché segna una svolta, la grande svolta:<br />

E [Dio] disse <strong>al</strong>l’uomo (v. 28a).<br />

Dio che tutto vede e tutto creò, tenendo l’occhio suo di creatore fisso sulla sapienza, in<br />

questo testo, quando parla <strong>al</strong>l’uomo, non gli dice dove è la sapienza, ma gli dice che cosa è:<br />

E [Dio] disse <strong>al</strong>l’uomo:<br />

“Ecco, temere Dio, questo è sapienza<br />

e schivare il m<strong>al</strong>e, questo è intelligenza” (v. 28).<br />

È sapiente dunque chi teme Dio. Chi teme Dio ha uno sguardo più profondo e più acuto di<br />

chi scende nelle profondità della terra per estrarre l’oro e l’argento, ed intraprende una ricerca<br />

più produttiva e gratificante di chi commercia oro di Ofir o topazi d’Etiopia.<br />

“Temere Dio” e “schivare il m<strong>al</strong>e” è l’attività propria dell’uomo religioso, che sa di non essere<br />

autosufficiente ma di dipendere da Dio.<br />

L’homo faber e l’homo mercator svolgono attività degne di ammirazione e indispensabili<br />

<strong>al</strong>l’esistenza. Ma se non hanno il senso di Dio producono ricchezza e mezzi di sostentamento<br />

senza conquistarsi ciò che v<strong>al</strong>e più dell’oro e dell’argento. La loro sarebbe un’attività e<br />

un’esistenza dimezzata. Un’esistenza che tende a seguire le leggi spesso perverse del mercato<br />

e non quelle che tendono ad assicurare una buona e giusta convivenza. Un’esistenza che assolutizza<br />

il lavoro e il profitto tende poi sempre più a fare a meno di Dio e a disconoscere il suo<br />

superiore arbitrato e la sua superiore signoria sul lavoro e sul commercio, sul sacrificio degli<br />

uomini e sul loro mutuo rapporto.<br />

La ricerca dell’homo religiosus, dell’uomo che si pone in attento ascolto della Parola di<br />

Dio, è la ricerca che è destinata <strong>al</strong> successo: a costui Dio rivela la via della sapienza.<br />

Perché a questo punto del libro è stato collocato il poema sulla ricerca della sapienza? Se<br />

nei discorsi di Giobbe e degli amici non si riesce ad intravedere una via d’uscita <strong>al</strong> problema<br />

della situazione di Giobbe, la voce fuori campo del poema sapienzi<strong>al</strong>e invita ad affinare il metodo<br />

di indagine. Finora i ragionamenti e di Giobbe e <strong>dei</strong> tre amici sono partiti d<strong>al</strong> basso ed<br />

hanno preteso, d<strong>al</strong>la stessa prospettiva, di giudicare l’agire di Dio in tutta la vicenda. Occorre<br />

invece tener conto della sapienza che viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to. L’agire di Dio non può essere compreso<br />

da una ricerca che parte solo d<strong>al</strong> basso, occorre aprirsi <strong>al</strong>la rivelazione che viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to. Rivelazione<br />

che l’uomo può disporsi a ricevere in dono. L’atteggiamento che più favorisce<br />

l’accoglienza del dono della sapienza che viene d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>to è quello dell’homo religiosus.<br />

7.2.3.7. Il linguaggio profetico-carismatico<br />

Perché Eliu, il quarto visitatore (capp. 32–37) è presente nel libro di Giobbe? Eliu è introdotto<br />

esattamente a questo punto del libro per ragioni interne <strong>al</strong>l’intreccio, e come ulteriore<br />

mezzo per criticare <strong>al</strong>cune concezioni e tradizioni religiose dure a morire. Il modo in cui la


76 Giobbe<br />

sua comparsa a questo punto del libro serve <strong>al</strong>l’intreccio è collegato col fatto che le sue parole<br />

vengono proposte sotto l’egida di una pretesa di ispirazione divina.<br />

Ad eccezione di Elifaz in 4,12–5,7, Giobbe e gli amici hanno esposto le proprie diatribe<br />

sulla base dell’esperienza umana e dell’osservazione delle cose del mondo. Ripetutamente,<br />

Giobbe ha desiderato, richiesto, persino preteso un confronto con Dio in cui Dio gli parlasse<br />

direttamente. Possiamo quindi ben comprendere tutta la forza delle sue obiezioni <strong>al</strong>la presenza<br />

di Eliu, basate come sono sul fatto che, dopo il capitolo 31, sarebbe natur<strong>al</strong>e aspettarsi di udire<br />

la voce di Dio <strong>dei</strong> capitoli 38–41. E tuttavia, un’ulteriore riflessione suggerisce che t<strong>al</strong>e sequenza<br />

offrirebbe una soluzione troppo scontata.<br />

Qu<strong>al</strong>e rivelazione viene da Dio? Un riferimento a Gen 2–3 e a 1Re 22,5-22 ci <strong>ai</strong>uterà a<br />

comprendere come vada interpretato Eliu. Sia in Gen 2–3 sia in 1Re, un essere umano è posto<br />

di fronte <strong>al</strong>la voce e agli ordini di Dio, e poi a un’<strong>al</strong>tra voce, che anch’essa sostiene di parlare<br />

a nome di Dio. Nel caso della Genesi, il consiglio del serpente non viene offerto in diretta opposizione<br />

a quello di Dio, ma piuttosto come una comunicazione <strong>al</strong>ternativa di ciò che Dio sa<br />

e vuole che gli esseri umani sappiano. An<strong>al</strong>ogamente, nell’episodio di 1Re, sia Mic<strong>ai</strong>a sia il<br />

gruppo <strong>dei</strong> profeti affermano sinceramente di parlare a nome di Dio, e Mic<strong>ai</strong>a si spinge addirittura<br />

a confermare il gruppo <strong>dei</strong> profeti nella sua pretesa di parlare per ispirazione! Ma, subito<br />

dopo, fa notare che la loro ispirazione serve a un fine diverso da quello che essi credono.<br />

In entrambi questi racconti, il lettore dispone di una prospettiva che è negata <strong>ai</strong> personaggi<br />

princip<strong>al</strong>i della vicenda. (La donna infatti non era presente quando Dio parlò <strong>al</strong>l’uomo; e il re<br />

di Israele non era presente <strong>al</strong> consiglio divino.) Da questo punto di vantaggio, il lettore è in<br />

grado di comprendere che colui che deve prendere una decisione si trova di fronte a due rivendicazioni<br />

di verità divina. Il problema, quindi, non è semplicemente se obbedire o no; il<br />

problema è: qu<strong>al</strong> è la vera voce di Dio? In una simile situazione, l’ascoltatore (il primo uomo<br />

e la prima donna; il re di Israele) è rinviato <strong>al</strong>la propria mor<strong>al</strong>ità: la decisione su qu<strong>al</strong>e sia la<br />

vera voce di Dio rivela l’intima re<strong>al</strong>tà mor<strong>al</strong>e e spiritu<strong>al</strong>e dell’ascoltatore, che è poi anche colui<br />

che dovrà dare una risposta.<br />

Abbiamo questa dinamica in atto nel prologo del libro di Giobbe (dove la moglie fedele<br />

svolge il ruolo di avvocato del diavolo nei confronti di Giobbe) e nei di<strong>al</strong>oghi (dove gli amici<br />

fedeli svolgono lo stesso ruolo). Proprio perché la moglie e gli amici argomentano perlopiù in<br />

base <strong>al</strong>l’osservazione e <strong>al</strong>l’esperienza, se le parole conclusive di Giobbe nel capitolo 31 fossero<br />

immediatamente seguite d<strong>ai</strong> discorsi divini di rivelazione <strong>dei</strong> capitoli 38–41, le pretese <strong>al</strong>ternative<br />

degli amici da un lato e di Dio d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro rappresenterebbero una contesa impari. Con<br />

la loro pretesa di essere ispirati da Dio, i discorsi di Eliu si pongono immediatamente prima<br />

<strong>dei</strong> discorsi divini <strong>al</strong> fine di porre in modo vivido, ineludibile e tormentoso a Giobbe<br />

l’esigenza, ancora una volta, di soppesare quanto gli viene detto sul piatto della bilancia della<br />

sua coscienza e del suo spirito.<br />

È questa, dunque, la funzione che gli interventi di Eliu assolvono nel libro di Giobbe, collocandosi,<br />

come si collocano, tra le ultime parole di Giobbe e i discorsi divini d<strong>al</strong> seno della<br />

tempesta: essi sono giustapposti <strong>ai</strong> discorsi divini per creare una situazione in cui Giobbe<br />

debba decidere qu<strong>al</strong>e «rivelazione» venga da Dio.<br />

Siccome la teologia è la fede che cerca di comprendere, essa rimane un linguaggio umano.<br />

Il linguaggio teologico umano non ha condotto ad <strong>al</strong>cun risultato e la conversazione fra i tre<br />

amici e Giobbe si è fermata. Giobbe aveva concluso auspicando il linguaggio divino (31,35).<br />

Gli amici hanno abbandonato il loro discorso perché si rendono conto che Dio solo può rispondere<br />

a Giobbe (32,13). Ci sono tuttavia esseri umani che sono convinti di proclamare la<br />

parola di Dio. I profeti, infatti, introducono i loro oracoli in questo modo: «Così parla il Signore»,<br />

e li concludono con: «Dice il Signore». Non parlano in nome proprio, ma in nome di<br />

Dio. L’«io» nell’oracolo non si riferisce <strong>al</strong> profeta, ma a Dio. Il linguaggio profetico e carismatico<br />

afferma di essere la parola di Dio.


Giobbe 77<br />

Eliu è la persona che offre a Giobbe il linguaggio divino. È cosciente del suo essere un<br />

uomo (33,6), di essere ancora giovane e dunque di aver meno esperienza e saggezza umana<br />

<strong>dei</strong> tre amici, ma questo non è un problema per lui. Le sue parole non trovano la loro origine<br />

nelle tre fonti della teologia, ma nello spirito di Dio. Eliu è un uomo ispirato: «Nell’uomo c’è<br />

uno spirito, il soffio dell’Onnipotente, che rende intelligente» (32,8 [2x].18; 33,4 [2x]; 37,10).<br />

Eliu, su questo punto, è simile <strong>al</strong> profeta Geremia, che, ancora giovane, era invitato a proclamare<br />

la parola di Dio (Ger 1,67). Eliu attinge la sua scienza «da lontano», dunque da Dio,<br />

poiché Dio è lontano (36,3.25). Può dunque affermare di avere, come Dio (37,16), una sapienza<br />

consumata (36,4). È veramente la bocca di Dio. Sente dentro di sé una passione irresistibile<br />

a parlare: «mi preme lo spirito che è dentro di me» (32,18), cosa molto tipica anche nei<br />

profeti (Ger 20,9; Am 3,3-8). Dio fa fremere il cuore di Eliu (37,1), come fa anche con Geremia<br />

(Ger 4,19). Anche il suo nome evoca il profetismo. «Eliu [Elihu]» è da mettere in rapporto<br />

con «Elijahu [Elia]», il profeta che parlò in nome di YHWH, e fu portato via nel turbine<br />

(2Re 2,1), e che doveva ritornare come precursore del giorno del Signore (Ml 3,23-24; Mt<br />

11,10). Dopo che Eliu ha parlato in nome di Dio, Dio stesso appare nel turbine (38,1). Eliu è<br />

veramente il precursore di YHWH.<br />

Eliu parla della collera di Dio (35,15; 36,13.33) come fanno molti profeti (Is 10,5;<br />

13,3.9.13; Ger 4,8.26; 10,24; 12,13). E siccome un profeta ha gli stessi sentimenti di Dio, anche<br />

Eliu è pieno di collera (32,2 [2x].3.5). Quando i profeti si rivolgono a qu<strong>al</strong>cuno, gli parlano<br />

in maniera molto person<strong>al</strong>e. I tre amici non lo hanno m<strong>ai</strong> fatto, Eliu è il solo a farlo. Si rivolge<br />

a Giobbe chiamandolo per nome, «Giobbe» (33,1.31; 37,14; cfr. 34,5.7.35; 35,16).<br />

Eliu è convinto, come lo sono i profeti, che Dio parla <strong>al</strong>l’essere umano. Dio lo fa in vari<br />

modi: attraverso le visioni (33,15-18), frequenti nella vita <strong>dei</strong> profeti stessi (Am 7,1-9; 8,1-3;<br />

9,1-4), e anche attraverso la sofferenza (33,19-22). Gli amici cercavano soprattutto di trovare<br />

la causa della sofferenza di Giobbe; Eliu parla invece dello scopo della sofferenza di Giobbe.<br />

Gli amici partivano d<strong>al</strong> principio causa-effetto. Dio è <strong>al</strong>l’origine dell’ordine, e dunque è giusto.<br />

Se Giobbe soffre, deve essere colpevole. Giobbe, invece, afferma la propria innocenza e<br />

conclude che Dio è ingiusto. Eliu respinge tanto la soluzione degli amici quanto quella di<br />

Giobbe. Dio è giusto, ma la sofferenza può essere una lezione, un avvertimento (33,16-30;<br />

36,8-12) per certi peccati attu<strong>al</strong>i, per condurre l’essere umano <strong>al</strong>la conversione; e anche per<br />

certi peccati possibili, per preservare l’essere umano d<strong>al</strong>l’orgoglio (33,17). La sofferenza conduce<br />

in questo modo <strong>al</strong>la guarigione d<strong>al</strong>l’orgoglio, a una vita nuova e s<strong>al</strong>va d<strong>al</strong>la morte<br />

(33,18.22.24.28.30). Eliu, come un certo numero di uomini carismatici, si sente chiamato <strong>al</strong><br />

ministero di guarigione.<br />

L’essere umano, secondo Eliu, si trova a dover scegliere tra l’ascolto della rivelazione divina<br />

e il suo rifiuto (36,11-12), cosa che i profeti affermano spesso (Ger 17,24-27; 22,4-5). E,<br />

come tutti i profeti, Eliu passa anche <strong>al</strong>l’esortazione: «F<strong>ai</strong> attenzione...» (36,18). Ripete anche,<br />

come un ritornello, l’invito che fanno i profeti ad ascoltare (32,10; 33,1.31.33; 34,2.10.16.34;<br />

37,2 [2x].14; cfr. Am 3,1.13; 4,1; 5,1). Questo dovrebbe essere il cammino per essere accolti<br />

«nell’amore» di Dio (hesed: la le<strong>al</strong>tà, la fedeltà <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>leanza, 37,13), di cui parlano spesso i<br />

profeti (Os 2,21; 10,12). Eliu, come tutti i profeti, è pieno di un ottimismo quasi infantile.<br />

Quando tutti hanno abbandonato ogni speranza, il profeta conserva la fiducia. Dopo le tenebre,<br />

verrà la luce. Anche se Giobbe crede di essere prossimo <strong>al</strong>la morte (33,22), se la caverà e<br />

ne uscirà non solo indenne, ma anche ringiovanito: «tornerà <strong>ai</strong> giorni della sua adolescenza»<br />

(33,25).<br />

Eliu afferma che Dio parla anche in un modo completamente diverso: in particolare attraverso<br />

la natura. La tempesta è la «voce» di Dio (37,2-5). Eliu invita Giobbe a contemplare Dio nella<br />

sua grandezza e nella sua sapienza (36,24–37,24). Egli invita Giobbe a non rimanere ripiegato<br />

su di sé, ma ad aprire gli occhi e a guardarsi intorno: «Contempla il cielo e osserva; considera<br />

le nubi...» (35,5), e a contemplare Dio nelle sue meraviglie: «Ecco, Dio è sublime nella sua potenza...»<br />

(36,22.26). L’essere umano che soffre deve cercare di dimenticare se stesso per pensare


78 Giobbe<br />

ad <strong>al</strong>tra cosa. Ci sono così tante meraviglie da scoprire... La persona potrà anche costatare che ci<br />

sono sofferenze peggiori e che non è la sola <strong>al</strong> mondo a subire <strong>dei</strong> rovesci.<br />

Eliu ha tenuto quattro lunghi discorsi (sei capitoli, contro i quattro di Elifaz, i tre di Bildad<br />

e i due di Zofar). Dopo il suo primo discorso ha invitato Giobbe a rispondergli (33,5.32), e<br />

anche dopo il secondo (34,33). Ma Giobbe non ha detto nulla e <strong>al</strong>lora Eliu ha continuato a<br />

parlare. Giobbe non ha m<strong>ai</strong> risposto e anche i tre amici hanno taciuto. In re<strong>al</strong>tà, chi può confutare<br />

gli argomenti di un profeta? Chi può contraddire uno spirito carismatico? Infatti, i profeti<br />

parlano in nome di Dio; il loro linguaggio è un linguaggio divino ispirato. La teologia, che<br />

rimane un linguaggio umano, permette scambio e discussione; e questo ha reso possibile un<br />

certo di<strong>al</strong>ogo fra i tre amici e Giobbe. D’<strong>al</strong>tra parte Giobbe aveva detto chiaramente <strong>ai</strong> tre amici<br />

che essi non godevano di una ispirazione divina (26,4). Con Eliu la situazione è molto<br />

diversa. Il linguaggio profetico è inconfutabile. Ci sono solo due opzioni: o si accetta il profeta<br />

o lo si rifiuta. O si ascolta il suo linguaggio o lo si riduce <strong>al</strong> silenzio. Giobbe ha ascoltato<br />

Eliu e mantiene il silenzio. Si attiene <strong>al</strong>l’ultima esortazione di Eliu: «Per questo gli uomini lo<br />

[Dio] temono...» (37,24).<br />

Eliu ha avuto un ruolo molto particolare. All’inizio, an<strong>al</strong>izza ciò che gli amici e soprattutto<br />

Giobbe hanno detto, e cita varie volte le parole stesse di Giobbe (33,8-11; 34,5-6.9; 35,2-3).<br />

Dimostra in questo modo che il linguaggio teologico non conduce a nulla. Verso la fine <strong>dei</strong><br />

suoi discorsi, Eliu rimanda <strong>al</strong>la grandezza di Dio nella tempesta e invita Giobbe <strong>al</strong>la meditazione<br />

attraverso le domande che gli pone. Egli ha condotto Giobbe a cambiare il linguaggio<br />

della sua preghiera. Raccomanda a Giobbe di trasformare la sua lamentazione e la sua supplica<br />

– nelle qu<strong>al</strong>i è troppo ripiegato su se stesso (35,9-14) – in linguaggio di adorazione<br />

(36,24), nel qu<strong>al</strong>e l’essere umano esce gradu<strong>al</strong>mente da se stesso per aprirsi agli <strong>al</strong>tri e <strong>al</strong>l’Altro.<br />

7.2.3.8. Il linguaggio della mistica<br />

Giobbe aveva sperato che un linguaggio divino desse una risposta <strong>al</strong>le sue numerose domande<br />

(31,35). Eliu, il profeta, ha voluto rispondere a questa aspettativa di Giobbe, e ha proclamato<br />

la parola di Dio. Mentre Giobbe ascolta Eliu e passa gradu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>l’adorazione, è<br />

preso da un’esperienza meravigliosa. Si rende conto che non sta più sentendo la voce profetica<br />

di Eliu, ma che la voce che gli sta parlando ora è Dio stesso: «Allora YHWH rispose a Giobbe<br />

di mezzo <strong>al</strong> turbine così» (38,1). L’atteggiamento di adorazione ha reso Giobbe atto a udire<br />

il linguaggio divino, non più con la mediazione di un profeta, né con mediatori celesti sui qu<strong>al</strong>i<br />

Giobbe aveva contato (9,33; 16,19-21; 19,25-27), ma direttamente nel suo cuore.<br />

Quasi tutti i personaggi del libro hanno parlato della creazione, ma nel suo legame con il<br />

principio causa-effetto della teoria della retribuzione. La creazione, secondo gli amici, prova<br />

la giustizia di Dio, ma secondo Giobbe essa prova l’arbitrarietà di Dio. Eliu ha posto certi interrogativi<br />

sulla grandezza della creazione e ha così invitato Giobbe ad un atteggiamento di<br />

adorazione. Anche YHWH parla della creazione, ma come di un mistero. Dio non dà risposte,<br />

pone interrogativi, uno dopo l’<strong>al</strong>tro, su molti soggetti, ad eccezione del problema di Giobbe<br />

stesso. Giobbe si rende conto sempre più di quanto sia piccolo nell’insieme immenso della<br />

creazione, continua a uscire da se stesso, a dimenticarsi, e ad adorare. E percepisce nuovamente<br />

la grandezza, l’ordine e la sapienza della divina creazione. Tutto, nella vita di Giobbe,<br />

può riprendere le giuste proporzioni. Giobbe aveva sperato di parlare a Dio da uomo a uomo<br />

(9,32; 16,21), ora è in presenza di Dio come Dio. La prima risposta di Giobbe è quindi il silenzio<br />

(40,4-5).<br />

Ma per Giobbe, il grande interrogativo sul caos nella sua vita rimane. Su questo punto, Dio<br />

gli dà ragione, e affronta dunque nel suo secondo discorso il tema del caos nel mondo. Ma<br />

l’interrogativo essenzi<strong>al</strong>e rimane: Che fare del caos? Il mondo non è perfetto, ed è molto<br />

complesso. L’agricoltore vuole la pioggia, ma il turista vuole il sole. Come può Dio conciliare<br />

tutti questi interessi? Dio è nell’imbarazzo, e soffre quanto Giobbe. Forse Giobbe può risol-


Giobbe 79<br />

vere il problema; in questo caso Dio gli renderà certamente omaggio (40,9-14). Dio ha scelto<br />

di mantenere il caos sotto controllo, ma senza eliminarlo completamente. Questo gli sembra la<br />

soluzione migliore, lo ha imparato per esperienza. Dio aveva sognato un giorno di ottenere<br />

una vittoria completa sul caos (Gen 1,2), ma aveva scoperto rapidamente che il caos continuava<br />

ad esistere (Gen 6,5). Ne soffrì, «si afflisse in cuor suo», e «cambiò idea»; si pentì e decise<br />

di distruggere il mondo con un diluvio (Gen 6,6-7). Allora veramente tutto il caos sarebbe<br />

sparito. Ma la distruzione tot<strong>al</strong>e conduce a un m<strong>al</strong>e ancora più grande e a un caos peggiore.<br />

Dio decide <strong>al</strong>lora di non ricominciare m<strong>ai</strong> più un diluvio e di accettare piuttosto il caos,<br />

l’imperfezione e i limiti nel mondo (Gen 8,21). Il caos fa parte di un mondo che è limitato.<br />

Sarebbe un mondo migliore se Dio distruggesse tutto a causa di questo caos? In presenza di<br />

un Dio del genere, è ora la volta di Giobbe di «cambiare idea» su cosa sia l’essere umano e<br />

cosa sia Dio (42,6).<br />

Il narratore ha avuto ragione quando ha detto, qu<strong>al</strong>che capitolo prima: «Fine delle parole di<br />

Giobbe» (31,40c). Giobbe, infatti, è ritornato <strong>al</strong> silenzio, ma un silenzio diverso da quello<br />

dell’inizio del libro, <strong>al</strong> momento dell’arrivo <strong>dei</strong> tre amici (2,13). Allora né Giobbe né gli amici<br />

sapevano cosa dire. Si potrebbe parlare di un silenzio fondato sull’incomprensione di fronte<br />

<strong>al</strong>la grande sofferenza. Il silenzio della fine è <strong>al</strong>tra cosa. In precedenza, Giobbe parlava di Dio,<br />

ora, ascolta e vede Dio: «Ti ho udito con i miei orecchi, e ora i miei occhi ti hanno visto» [ma<br />

anche: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto»] (42,5). Nel libro<br />

ritorna spesso il verbo «parlare», e par<strong>al</strong>lelamente «udire». Il grande cambiamento è che<br />

Giobbe ha udito YHWH. Ma la grande novità è che il fatto di «istruire» e di «sapere», di cui<br />

tutti avevano parlato, è sostituito d<strong>al</strong> fatto di «vedere». Giobbe ha raggiunto il linguaggio della<br />

mistica nel qu<strong>al</strong>e parlare diventa tacere e sapere diventa vedere.<br />

Giobbe ha fatto l’esperienza che il contatto tra cielo e terra è possibile. Ogni forma umana<br />

di linguaggio religioso può scomparire. Il linguaggio della fede non ha più nulla da offrire, essa<br />

ha compiuto la sua funzione specifica e non può aggiungere nulla <strong>al</strong>l’essere umano che ascolta<br />

e vede Dio. L’azione del libro, che è stata la parola, è sospesa. Il racconto sta per finire.<br />

7.2.4. Il verdetto: «ha parlato di me rettamente»<br />

Il racconto è iniziato dopo che il satana ha lanciato, per ben due volte, una sfida a YHWH:<br />

«Vedr<strong>ai</strong> se non ti m<strong>al</strong>edirà in faccia» (1,11; 2,5). Il grande interrogativo del libro è: Come parlare<br />

di Dio nella sofferenza? I diversi attori hanno parlato diversi linguaggi religiosi. Anche<br />

Giobbe ha spesso cambiato di linguaggio; ha anche parlato duramente, e tuttavia non ha m<strong>ai</strong><br />

m<strong>al</strong>edetto Dio, nemmeno nel momento in cui ha avuto la possibilità di «vedere» Dio (42,5).<br />

Giobbe ha superato la prova. Dio può concludere, egli pure per due volte, che Giobbe «ha parlato<br />

rettamente di lui» (42,7.8).<br />

La sfida ha luogo in cielo, ma tutto il discorso si svolge sulla terra. Il satana ha perduto la<br />

sfida, e non deve più riapparire nel racconto. YHWH dà il suo verdetto <strong>ai</strong> tre amici che, forzando<br />

la re<strong>al</strong>tà, hanno irritato Giobbe. Essi ricoprivano, in un certo modo, il ruolo del satana, qui<br />

sulla terra. Le loro parole avrebbero potuto condurre Giobbe a m<strong>al</strong>edire Dio. Essi non hanno<br />

parlato correttamente di Dio <strong>al</strong>l’essere umano che soffre. Il loro linguaggio era una particolare<br />

specie di linguaggio teologico teorico, sordo <strong>al</strong>la re<strong>al</strong>tà. E così il loro linguaggio non era corretto.<br />

Questo genere di linguaggio teologico non è adatto per parlare <strong>al</strong>l’essere umano che soffre.<br />

In un caso del genere, deve cedere il posto ad <strong>al</strong>tri linguaggi più adeguati.<br />

Giobbe ha percorso un lungo cammino e ha parlato diversi linguaggi religiosi. Anche se<br />

t<strong>al</strong>volta ha utilizzato un linguaggio duro, tuttavia ha sempre parlato di Dio «rettamente», con<br />

giustizia, perché è sempre rimasto corretto, giusto e onesto con se stesso (7,11; 13,14-16).<br />

Molti <strong>dei</strong> protagonisti avevano tutte le risposte. Ma non Giobbe, che, in questo modo, aveva<br />

una possibilità di evoluzione. Partendo d<strong>al</strong>la fede popolare, Giobbe ha raggiunto la mistica.<br />

Si dice t<strong>al</strong>volta che il libro di Giobbe non offre <strong>al</strong>cuna soluzione perché si ritiene che il libro<br />

tratti del problema della sofferenza. Il problema del libro si situa <strong>al</strong>trove, perché pone la


80 Giobbe<br />

domanda: Come parlare di Dio nel momento della sofferenza? E su questo, il libro dà veramente<br />

una soluzione. La sofferenza in sé rimane un problema; non c’è una spiegazione per essa,<br />

e certamente non la teoria della retribuzione basata sul principio di causa-effetto.<br />

7.2.5. La condizione fin<strong>al</strong>e: la restaurazione doppia di Giobbe<br />

Ogni racconto comincia con una condizione inizi<strong>al</strong>e e si conclude, dopo la trasformazione,<br />

con una condizione fin<strong>al</strong>e. Tra queste due condizioni esiste sempre una correlazione. E questo<br />

si verifica in modo eccezion<strong>al</strong>e nel libro di Giobbe. La condizione inizi<strong>al</strong>e (1,1-5) descrive<br />

Giobbe stesso (v. 1), i figli (v. 2), gli anim<strong>al</strong>i (v. 3), le feste (v. 4), e il ruolo di Giobbe come<br />

mediatore (v. 5). La condizione fin<strong>al</strong>e (42,10-17) descrive la stessa cosa ma in ordine inverso:<br />

il ruolo di Giobbe come mediatore (v. 10), le feste (v. 11), gli anim<strong>al</strong>i (v. 12), i figli (vv. 13-<br />

15), e Giobbe stesso (vv. 16-17). Tutto inizia e finisce con Giobbe. Il suo ruolo di mediatore è<br />

in rapporto con il discorso che è l’argomento di tutto il libro. Giobbe intercedeva per i figli,<br />

perché si preoccupava di quello che eventu<strong>al</strong>mente avessero detto: «Forse i miei figli hanno<br />

peccato oltraggiando [m<strong>al</strong>edicendo] Dio nel loro cuore» (1,5); e intercede anche per i tre amici<br />

«perché non hanno parlato rettamente di Dio » (42,8.10). Nella condizione inizi<strong>al</strong>e, si parlava<br />

di «m<strong>al</strong>edire», «oltraggiare» (1,5), nella condizione fin<strong>al</strong>e, di «benedire» (v. 12).<br />

Giobbe, che non ha cessato di parlare nel corso del libro, prende la parola ancora due volte,<br />

<strong>al</strong>la fine. Fa una preghiera di intercessione per gli amici (v. 10) e dà i nomi <strong>al</strong>le figlie (v. 14).<br />

Le parole della sua preghiera non sono riportate. Sappiamo che ha parlato, ma a questo punto<br />

i discorsi non sono più necessari.<br />

Si è detto che la conclusione del libro rovina il libro, perché ritorna <strong>al</strong>la dottrina della retribuzione<br />

secondo il principio causa-effetto, la stessa teoria che il libro avrebbe cercato di mettere<br />

in discussione. Ma il testo non dice che la condizione di Giobbe è restaurata perché ha<br />

parlato correttamente di Dio, o perché ha interceduto per gli amici. Il testo dice semplicemente<br />

ciò che è capitato a quel punto: «YHWH cambiò la sorte di Giobbe, quando intercedette per<br />

gli amici» (v. 10). Il lettore sa che Giobbe ha perduto tutto a causa della sfida celeste, e sa pure<br />

che Giobbe ha superato la prova, e che, conseguentemente, Dio non ha più <strong>al</strong>cuna ragione<br />

di prolungare le sue prove. Dio ha agito «per nulla», «invano» (2,3), e <strong>al</strong>lora è del tutto logico<br />

che cambi la sorte di Giobbe. Lo fa addirittura raddoppiando, forse come in una specie di<br />

compensazione (Is 61,7; Zc 9,12). Ma Giobbe, come non ha m<strong>ai</strong> saputo che le sue sventure<br />

erano legate a una sfida, così non conosce nemmeno la ragione di questa restaurazione raddoppiata.<br />

Se la considerasse come una ricompensa, dovrebbe concludere pure che le sue sventure<br />

erano un castigo per il peccato. Ma Giobbe non è cosciente di peccati e Dio non lo ha m<strong>ai</strong><br />

accusato di peccato. Sia la sventura che la restaurazione fin<strong>al</strong>e sono per Giobbe delle sorprese.<br />

Tutto fa parte dell’ordine misterioso della giustizia di Dio (40,8).<br />

7.3. CONCLUSIONE<br />

7.3.1. I generi di linguaggio religioso di Giobbe<br />

L’approccio sincronico del libro di Giobbe, ricorrendo ad <strong>al</strong>cuni principi dell’an<strong>al</strong>isi semiotica,<br />

ha mostrato che il libro di Giobbe costituisce un’unità perfetta. Ogni parte ha il suo<br />

ruolo proprio. Potrebbe essere utile ripercorrerne il filo conduttore.<br />

Il libro di Giobbe affronta l’interrogativo: Come parlare di Dio nel momento della sofferenza?<br />

7.3.2. Le tappe della crescita interiore di Giobbe<br />

La parola rivela sempre qu<strong>al</strong>cosa di quello che succede <strong>al</strong>l’interno della persona che parla.<br />

Si può dunque pensare che la psicologia possa offrire un contributo <strong>al</strong>la lettura del libro di<br />

Giobbe.


Giobbe 81<br />

La sequenza <strong>dei</strong> diversi tipi di linguaggio religioso di Giobbe corrisponde notevolmente a<br />

un modello utilizzato in psicologia negli studi di Elisabeth Kübler-Ross. Le ricerche da lei fatte<br />

su m<strong>al</strong>ati in fase termin<strong>al</strong>e l’hanno portata a concludere che una persona morente ha molte<br />

possibilità di passare per cinque tappe: rifiuto – collera – discussione – depressione – accettazione.<br />

Dennis e Matthew Linn hanno applicato questo modello a persone che sono emotivamente<br />

provate e ferite. Se si ascoltano i diversi tipi di linguaggio che Giobbe usa nel corso<br />

del racconto, si costata che questi cinque movimenti sembrano descrivere l’esperienza interiore<br />

di Giobbe. Giobbe forse non è morente, non si trova in una m<strong>al</strong>attia termin<strong>al</strong>e, ma è di certo<br />

emotivamente turbato e ferito.<br />

7.3.2.1. Il rifiuto di Giobbe<br />

Quando viene diagnosticata una m<strong>al</strong>attia termin<strong>al</strong>e, la persona passa attraverso una trasformazione<br />

significativa. I suoi sogni sono spezzati. Essa prova uno choc. La prima reazione<br />

è il rifiuto e la negazione. La persona morente rifiuta di accettare di morire, e può ritenere che<br />

la sua m<strong>al</strong>attia non sia grave. Nel caso di una ferita emotiva, essa può arrivare fino a rifiutare<br />

di accettare di essere stata ferita.<br />

Dopo che i messaggeri riferiscono a Giobbe la perdita <strong>dei</strong> beni e <strong>dei</strong> figli (1,13-19), Giobbe<br />

dice: «Il Signore ha dato e il Signore ha tolto» (1,21). Giobbe viene poi colpito nella sua carne<br />

d<strong>al</strong>le ulcere, e nella risposta <strong>al</strong>la moglie dice: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo<br />

accettare anche il m<strong>al</strong>e?» (2,10). Abbiamo chiamato questa risposta: linguaggio della<br />

fede popolare. Queste parole di Giobbe sembrano riflettere un’accettazione, ma, come il resto<br />

del libro dimostra, Giobbe non ha ancora accettato la sofferenza nella sua vita. Si trova a misurarsi<br />

con qu<strong>al</strong>cosa che non ha m<strong>ai</strong> sperimentato in precedenza e che lo supera. Si trova perduto<br />

e cerca di mascherare la sua difficoltà citando un pio proverbio, imparato a memoria.<br />

Una fede popolare di questo genere accetta che Dio possa fare qu<strong>al</strong>siasi cosa, perché è Dio.<br />

Questa fede è chiamata «fede cieca», il che significa che la persona, in un certo modo, chiude<br />

gli occhi sulla re<strong>al</strong>tà della sofferenza. E questo corrisponde bene <strong>al</strong>la categoria del rifiuto o<br />

della negazione. Giobbe sembra accettare, ma, nel più profondo del suo essere, rifiuta di accettare<br />

la pena.<br />

7.3.2.2. La collera di Giobbe<br />

Dopo la negazione inizi<strong>al</strong>e, il paziente passerà attraverso la solitudine, il conflitto interiore,<br />

il sentimento di colpa e il non senso. Questi sentimenti condurranno gradu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong>la collera.<br />

Il m<strong>al</strong>ato se la prenderà con gli <strong>al</strong>tri per la sua imminente morte. La persona ferita emotivamente<br />

se la prenderà con gli <strong>al</strong>tri a causa della pena che la sta distruggendo.<br />

Dopo la prima reazione, Giobbe riceve la visita degli amici. Ma questi, <strong>al</strong> loro arrivo, non<br />

sanno cosa dire: «Si sedettero a terra presso di lui per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolse<br />

la parola, perché avevano visto quanto grande era il suo dolore» (2,13). Giobbe sperimenta<br />

la solitudine. Nessuno sa come consolarlo. Anche con gli amici presso di lui, è solo.<br />

Giobbe è passato <strong>al</strong> linguaggio del silenzio.<br />

Questa solitudine dà a Giobbe il tempo di riflettere. Gli sembra che la vita sia divenuta<br />

vuota e priva di senso. Le emozioni prendono progressivamente il sopravvento. Giobbe <strong>al</strong>la<br />

fine non può più tollerare questo silenzio e questa solitudine, ed è lui a rompere il silenzio:<br />

«Dopo di ciò, Giobbe aprì la bocca e m<strong>al</strong>edisse il suo giorno» (3,1). Giobbe ora si pone degli<br />

interrogativi, soprattutto il grande interrogativo del perché della sua vita. Passa <strong>al</strong> linguaggio<br />

del dubbio e si chiede perché sia venuto <strong>al</strong> mondo. Tutti i perché (vv. 11.12 [2x].20.23) riguardano<br />

lo stesso evento. Il dubbio lo turba. La collera di Giobbe si infiamma. Comincia anche<br />

a prendersela con gli <strong>al</strong>tri. La collera si rivolge contro il padre e la madre: «Perché due ginocchia<br />

mi accolsero, e perché due mammelle per <strong>al</strong>lattarmi?» (3,12).<br />

Quando i tre amici decidono di rispondere agli interrogativi posti da Giobbe, tutti e tre e<br />

anche Giobbe passano <strong>al</strong> linguaggio teologico. Gli amici accusano Giobbe di peccati e d’or-


82 Giobbe<br />

goglio. E questo aumenta ulteriormente la collera di Giobbe. Se la prende con gli amici accusandoli<br />

di non cercare nemmeno di capirlo (6,14-15). La sua ira si rivolge anche contro Dio.<br />

Giobbe lo accusa d’ingiustizia: «Eppure Dio trova pretesti contro di me, e mi considera come<br />

suo nemico» (33,10). «Sono innocente, ma Dio mi nega giustizia» (34,5b). Giobbe continua i<br />

suoi lamenti contro Dio come una scappatoia per la collera che lo divora.<br />

7.3.2.3. La discussione di Giobbe<br />

La persona morente, dopo essersi stancata di prendersela con gli <strong>al</strong>tri, con i medici e con<br />

Dio, comincia a rendersi conto di aver bisogno di loro per sopravvivere, o, <strong>al</strong>meno, per ritardare<br />

la morte. E così comincia a contrattare, a discutere. La persona ferita emotivamente, ugu<strong>al</strong>mente,<br />

mette certe condizioni prima di perdonare.<br />

Giobbe ha espresso la sua collera verso i genitori, che gli hanno dato la vita in questo mondo<br />

di miseria, verso gli amici, che non sono stati di nessun <strong>ai</strong>uto, e verso Dio, che è la causa<br />

ultima di tutte le sue sventure. Ma nel bel mezzo di tutte queste accuse contro amici e contro<br />

Dio, Giobbe ricorre anche a un <strong>al</strong>tro linguaggio, il linguaggio della preghiera. La preghiera di<br />

Giobbe è il suo discutere, il suo mercanteggiare con Dio. Giobbe si rende conto di aver bisogno<br />

di Dio, perché Dio, in fin <strong>dei</strong> conti, potrebbe fare qu<strong>al</strong>cosa per lui. Giobbe chiede, supplica,<br />

e promette: «Ricorda che la vita non è che un soffio, e i miei occhi non rivedranno più il<br />

bene» (7,7). Fa anche del ricatto: «Perché ben presto giacerò nella polvere; mi cercher<strong>ai</strong> e io<br />

più non sarò» (7,21). Dio non può certo rifiutare, perché è in gioco il suo stesso onore. Bisogna<br />

per forza fare qu<strong>al</strong>cosa. Dio deve intervenire. Giobbe è certo che vedrà Dio (19,26).<br />

Giobbe ricorda a Dio tutte le buone azioni compiute durante la sua vita: «Non portavo la<br />

mano contro il povero» (30,24); «Non ho forse pianto con l’oppresso?» (30,25); «Strinsi un<br />

patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo sulle ragazze» (31,1). Dio deve dunque fare<br />

qu<strong>al</strong>cosa. Ma non sembra che Dio reagisca: «Io grido a te e tu non rispondi» (30,20).<br />

7.3.2.4. La depressione di Giobbe<br />

Quando la persona morente sente che le forze stanno diminuendo e si rende conto che tutto<br />

il suo discutere è inutile, comincia a prendere coscienza delle conseguenze re<strong>al</strong>i. Vede <strong>al</strong>lora<br />

tutto ciò che avrebbe potuto fare per evitare questa m<strong>al</strong>attia mort<strong>al</strong>e. Può essere portata a rimproverarsi<br />

certe cose, ma sa anche che orm<strong>ai</strong> è troppo tardi. Il m<strong>al</strong>ato si deprime, può diventare<br />

molto silenzioso e ritirato. E la persona ferita emotivamente seguirà la stessa trafila: in un<br />

primo tempo può farsi <strong>dei</strong> rimproveri e successivamente cadere in una profonda depressione.<br />

Giobbe ha fatto tutta la sua discussione con Dio, ma Dio sembra non ascoltare. Giobbe è<br />

sul punto di abbandonare: «Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco la mia ultima parola!<br />

L’Onnipotente mi risponda!» (31,35). Giobbe entra in un nuovo silenzio. Cessa di parlare:<br />

«Fine delle parole di Giobbe!» (31,40b). Anche gli amici abbandonano la conversazione, non<br />

hanno più nulla da offrirgli come risposta: «Allora quei tre personaggi cessarono di replicare a<br />

Giobbe» (32,1). Giobbe si trova nell’isolamento. E sembra che più nessuno s’interessi a lui.<br />

Giobbe ha supplicato Dio di parlargli. Eliu, il profeta, vuole offrirgli la risposta divina. Il<br />

racconto passa <strong>al</strong> linguaggio profetico-carismatico. Eliu, nel suo discorso, invita ripetutamente<br />

Giobbe a rispondergli, e a uscire d<strong>al</strong> suo isolamento: «Se puoi, rispondimi...» (33,5); «Se<br />

h<strong>ai</strong> qu<strong>al</strong>cosa da dire, rispondimi...» (33,32). Ma Giobbe non trova più parole per replicare.<br />

Cosa dire a qu<strong>al</strong>cuno che si dice profeta? Eliu prosegue dunque: «Se non ne h<strong>ai</strong>, ascoltami; taci...»<br />

(33,33). Giobbe si sente profondamente depresso.<br />

7.3.2.5. L’accettazione di Giobbe<br />

La depressione fin<strong>al</strong>e fa parte della preparazione <strong>al</strong>la morte per il paziente in fase termin<strong>al</strong>e.<br />

Essa può diventare un movimento verso l’accrescimento della coscienza di sé e <strong>dei</strong> contatti<br />

con gli <strong>al</strong>tri per arrivare <strong>al</strong>l’accettazione fin<strong>al</strong>e. Non un’accettazione fat<strong>al</strong>e o finta, ma<br />

un’accettazione con un senso accresciuto di fiducia in sé, un aumento dell’autonomia. La per-


Giobbe 83<br />

sona può anche aspirare <strong>al</strong>la morte. La persona ferita emotivamente, d’<strong>al</strong>tra parte, può uscire<br />

d<strong>al</strong>la depressione, cosciente che anche la ferita che ha subito può farla crescere.<br />

Le ultime parole di Eliu erano un invito per Giobbe a volgersi con ammirazione verso Dio:<br />

«Per questo gli uomini lo (Dio) temono» (37,24). Giobbe è invitato a passare <strong>al</strong> linguaggio<br />

dell’adorazione. La depressione non è l’atteggiamento fin<strong>al</strong>e di Giobbe. Il silenzio di Giobbe<br />

e degli <strong>al</strong>tri interlocutori umani permette fin<strong>al</strong>mente a Dio di parlare a Giobbe nel suo cuore.<br />

Dio invita Giobbe a cedere, ad abbandonare l’opposizione: «Colui che disputa con<br />

l’Onnipotente, lo istruirà? Colui che critica Dio, risponderà?» (40,2). Giobbe non risponde più<br />

nulla, mantiene il silenzio (40,4-5). Ma questo silenzio non è più il silenzio della depressione.<br />

Giobbe addirittura si ricrede <strong>dei</strong> ragionamenti fatti (42,2-3). Gradu<strong>al</strong>mente Giobbe esce d<strong>al</strong>la<br />

depressione. Diventa sempre più cosciente di sé. Il contatto che ora ha con Dio è <strong>dei</strong> più profondi:<br />

«Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (42,5). Il racconto ha<br />

toccato il linguaggio mistico. Giobbe è arrivato <strong>al</strong>l’accettazione: «Perciò cedo e cambio idea<br />

sulla polvere e sulla cenere» (42,6).<br />

Dopo che il morente ha raggiunto la tappa dell’accettazione può aspirare a una vita<br />

nell’<strong>al</strong>dilà, che, secondo le promesse della religione, è una vita migliore. La persona ferita<br />

emotivamente, che è passata attraverso le cinque tappe della crescita, continuerà a vivere come<br />

una persona arricchita. Giobbe è passato attraverso le cinque tappe ed è arrivato<br />

<strong>al</strong>l’accettazione. Anche se è ancora in piena sofferenza, senza beni, senza figli, e ancora m<strong>al</strong>ato,<br />

è diventato un’<strong>al</strong>tra persona. Lui che se l’era presa con Dio per tante ragioni, è ridiventato<br />

amico di Dio, che di lui dice ancora una volta: «il mio servo Giobbe» (42,7-8). Questo Giobbe<br />

nuovo ha un atteggiamento molto diverso nei confronti degli <strong>al</strong>tri. Anche se Giobbe non ha<br />

fatto che opporsi <strong>ai</strong> tre «amici», ora intercede per loro (42,8-9). Giobbe è cambiato e anche la<br />

sua vita è cambiata. È diventato una persona più ricca, ed è quanto la conclusione del libro<br />

racconta in modo molto semplice. Dio reintegra Giobbe nella sua fortuna e addirittura la raddoppia.<br />

E Giobbe ridiventa anche padre di una bella famiglia e vive ancora a lungo, e, a quanto<br />

pare, in buona s<strong>al</strong>ute.<br />

Ciò che Giobbe dice nel libro corrisponde proprio a quanto succede dentro di lui.<br />

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />

ALONSO SCHÖKEL, L. - SICRE, J.L., Giobbe, Roma 1985.<br />

Ottima opera in gener<strong>al</strong>e, della qu<strong>al</strong>e è da segn<strong>al</strong>are l’ampia ed esauriente introduzione e la precisione<br />

e la bellezza della traduzione. La bibliografia è buona e sufficientemente ampia. Lo studio delle<br />

difficoltà testu<strong>al</strong>i, anche se incompleto, affronta molto bene i problemi più urgenti. Il commento presenta<br />

ottimi e notevoli suggerimenti, difficilmente rinvenibili in <strong>al</strong>tre opere del genere.<br />

CLINES, D.J.A., Job 1–20 (WBC 17), D<strong>al</strong>las 1989.<br />

Il lettore può rendersi conto delle ambizioni di questo commento pensando che l’esposizione <strong>dei</strong><br />

primi 20 capitoli di Giobbe occupa 501 pagine. Dopo averlo sfogliato, si deve riconoscere che la sua<br />

qu<strong>al</strong>ità è direttamente proporzion<strong>al</strong>e <strong>al</strong>la voluminosità. L’ampiezza della bibliografia e l’an<strong>al</strong>isi quasi<br />

completa <strong>dei</strong> problemi testu<strong>al</strong>i fanno di quest’opera uno <strong>dei</strong> tre migliori commenti attu<strong>al</strong>i <strong>al</strong> libro di<br />

Giobbe.<br />

DHORME, P., Le lívre de Job, Paris 1926.<br />

Dopo un’ottima introduzione di 178 pagine l’autore dispiega nel commento le sue eccellenti doti di<br />

esegeta e le sue vaste conoscenze di storia dell’esegesi. Un’ampia an<strong>al</strong>isi critico-testu<strong>al</strong>e e un commento<br />

preciso e documentato fanno di quest’opera, nonostante gli anni trascorsi d<strong>al</strong>la sua pubblicazione,<br />

un riferimento obbligato.<br />

DRIVER, S.R. - GRAY, G.B., The Book of Job (ICC), Edinburgh rist. 1971.<br />

Come la collana cui appartiene, l’opera si segn<strong>al</strong>a per il rigore e l’esaustività con cui affronta le<br />

questioni filologiche. L’introduzione è sufficiente, anche se la data di composizione richiede la nostra


84 Giobbe<br />

benevolenza di fronte ad <strong>al</strong>cune prese di posizione attu<strong>al</strong>mente insostenibili. Indispensabile nella biblioteca<br />

degli studiosi della Bibbia.<br />

FOHRER, G., Das Buch Hiob (KAT 16), Gütersloh 1963.<br />

Questo libro è uno <strong>dei</strong> maggiori contributi <strong>al</strong>la storia dell’esegesi del libro di Giobbe. Opera monument<strong>al</strong>e<br />

(565 pagine), affronta la problematica di Giobbe da tutti i possibili punti di vista: retorico,<br />

letterario, testu<strong>al</strong>e, teologico, storico-religioso. Le sue pertinenti osservazioni, la profondità di pensiero<br />

e l’indiscutibile profession<strong>al</strong>ità dell’autore ci pongono di fronte un’opera già classica e molto difficilmente<br />

superabile.<br />

GORDIS, R., The Book of God and Man, Chicago-London 1978.<br />

Non si tratta di un commento nel senso abitu<strong>al</strong>e del termine. La traduzione e il commento occupano<br />

solo le pp. 231-306. Tuttavia ciò che l’autore non dice in queste pagine è già stato esposto nell’ampia<br />

introduzione (pp. 1-228) e nelle ricche note <strong>al</strong> termine del libro (pp. 313-336). L’an<strong>al</strong>isi del testo e la<br />

conoscenza della letteratura giud<strong>ai</strong>ca in proposito costituiscono i migliori contributi del volume.<br />

HABEL, N.C., The Book of Job (OTL), London 1985.<br />

È uno <strong>dei</strong> migliori commenti attu<strong>al</strong>i <strong>al</strong> libro di Giobbe, appartenente <strong>al</strong>la prestigiosa «Old Testament<br />

Library». Se si eccettua l’interpretazione del genere letterario, il libro apparterrebbe <strong>al</strong>la «disputa<br />

giudiziaria», tutto ciò che si può attendere da un commento di questo tipo è affrontato con rigore e profession<strong>al</strong>ità.<br />

LÉVÊQUE, J., Job et son Dieu (EtB), 2 voll., Paris 1970.<br />

L’elemento maggiormente degno di nota di quest’opera è l’ampia e ottima introduzione: la prima<br />

parte dedicata <strong>al</strong> tema del giusto sofferente nelle letterature del Vicino Oriente Antico (Mesopotamia,<br />

Ugarit, Egitto, Arabia), dell’India e della Grecia e le prime due sezioni della seconda parte: problemi<br />

di struttura letteraria e gli attori del dramma.<br />

POPE, M.H., Job (AB 15), Garden City 3 1982.<br />

Il prestigio della collana e la qu<strong>al</strong>ità del commentatore sono univers<strong>al</strong>mente noti. Tuttavia non ci si<br />

può dire soddisfatti del libro, perché <strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi relativamente inadeguata del testo si aggiunge la tendenza<br />

«panugaritica» dell’autore, la qu<strong>al</strong>e toglie interesse a quello che sarebbe potuto essere un ottimo<br />

commento.<br />

RAVASI, G., Giobbe. Traduzione e commento, Roma 1979.<br />

Bisogna rilevare in questo commento l’ottima ed estesa introduzione (174 pagine) nella qu<strong>al</strong>e<br />

l’autore affronta la presentazione del libro di Giobbe secondo le coordinate letterarie e teologiche,<br />

prima di passare <strong>al</strong>lo studio della tradizione di Giobbe secondo la prospettiva della sapienza ortodossa<br />

ed eterodossa. L’opera offre anche tre interessanti sezioni su «Giobbe, nostro contemporaneo» (con<br />

riferimenti <strong>al</strong>le opere, tra gli <strong>al</strong>tri, di Kierkegaard, Melville, Dostoevsky, Jung, Camus, Bloch, Barth,<br />

Jaspers, von B<strong>al</strong>thasar, Henry Lévy), «Giobbe e il teatro» e «Giobbe nell’arte».<br />

VOGELS, W., Giobbe. L’uomo che ha parlato bene di Dio, San Paolo, Cinisello B<strong>al</strong>samo 2001.<br />

Essenzi<strong>al</strong>e ed origin<strong>al</strong>e commento che, adottando i principi del metodo semiotico, mette in ris<strong>al</strong>to il<br />

v<strong>al</strong>ore letterario e linguistico del libro di Giobbe. Secondo l’esegeta canadese l’asse tematico dell’intera<br />

opera è: come parlare di Dio nel momento della sofferenza? A questo interrogativo il libro di<br />

Giobbe tenta di rispondere con i diversi linguaggi usati d<strong>ai</strong> vari attori del dramma: il linguaggio della<br />

fede popolare, il linguaggio del silenzio, il linguaggio del dubbio, il linguaggio della teologia, il linguaggio<br />

della preghiera, il linguaggio profetico-carismatico e il linguaggio della mistica. È a questo<br />

punto che scatta il verdetto divino: «Giobbe ha parlato di me rettamente!».<br />

Inoltre, in it<strong>al</strong>iano, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />

FEDRIZZI, P., Giobbe (SBT), Torino-Roma 1972.<br />

WEISER, A., Giobbe, Brescia 1975.<br />

GUALANDI, D., Giobbe. Nuova versione critica, Roma 1976.<br />

LAURENTINI, G., Giobbe, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la<br />

Bibbia 3), Bologna 1978, 343-376.<br />

VIRGULIN, S., Giobbe (NVB 17), Roma 1980.<br />

RAVASI, G., Giobbe, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988, 633-643.


Giobbe 85<br />

BORGONOVO, G., La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel <strong>Libro</strong> di Giobbe. An<strong>al</strong>isi simbolica (An<strong>al</strong>ecta<br />

Biblica 135), Roma 1995.<br />

MACKENZIE. R.A.F. - MURPHY, R.E., Giobbe, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997,<br />

608-637.<br />

MORLA ASENSIO, V., Il libro di Giobbe, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo studio<br />

della Bibbia 5), Brescia 1997, 117-146.<br />

SCAIOLA, D., Giobbe, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4),<br />

Torino-Leumann 1997, 57-70.<br />

RADERMAKERS, J., Il libro di Giobbe. Dio, l’uomo e la sapienza, Bologna 1999.<br />

MARCONI, G. - TERMINI, C. (ed.), I volti di Giobbe. Percorsi interdisciplinari, Bologna 2002.<br />

JANZEN, J.G., Giobbe, Torino 2003.<br />

Infine, i numeri unici di:<br />

Concilium, n. 19/1983: «Giobbe e il silenzio di Dio».<br />

Parole di Vita, n. 2/2003: «Il libro di Giobbe».


1. UN ENIGMA PER I COMMENTATORI<br />

QOHELET *<br />

La discussione sullo statuto canonico di Qohelet già nel giud<strong>ai</strong>smo è stata accesa, e se la<br />

tesi della canonicità <strong>al</strong>la fine è prev<strong>al</strong>sa, l’utilizzazione di Qohelet è lungi d<strong>al</strong>l’aver raggiunto<br />

l’unanimità. Viene considerato un libro di difficile interpretazione, sconcertante, o addirittura<br />

imbarazzante o sconveniente, troppo terra terra o troppo pessimista.<br />

I dubbi sulla sua canonicità si trovano forse già riflessi nell’appendice del redattore fin<strong>al</strong>e<br />

(12,9-14), che ha tutto il sapore di un tentativo di giustificazione delle parole di Qohelet. Non<br />

si trova, di questo libro, nessuna citazione esplicita nel Nuovo Testamento (fatta eccezione,<br />

forse, di 7,20 in Rm 3,10-12 e 11,5 in Gv 3,8), e le discussioni rabbiniche dimostrano che<br />

c’erano divisioni circa il suo statuto. In campo cattolico, Qohelet incontra ancora delle difficoltà<br />

a trovarsi una collocazione nella liturgia e nel cuore <strong>dei</strong> cristiani. Nel ciclo trienn<strong>al</strong>e delle<br />

letture domenic<strong>al</strong>i vi si trovano solo quattro versetti (1,2 e 2,21-23) nella diciottesima domenica<br />

ordinaria dell’Anno C. È ben poca cosa per rendere giustizia <strong>al</strong>la complessità delle parole<br />

di Qohelet e troppo poco per permettere <strong>ai</strong> credenti di ritrovarsi nei suoi interrogativi e<br />

nella sua ricerca di Dio e del senso della vita.<br />

2. INTERESSE E ATTUALITÀ DI QOHELET<br />

Eppure Qohelet ha qu<strong>al</strong>cosa di moderno nelle sue parole e nel suo linguaggio, nella linea<br />

del pensiero esistenzi<strong>al</strong>ista moderno e soprattutto di un’esperienza comune. In esso si trova<br />

una moltitudine di esperienze umane, descritte con molta acutezza e onestà: fragilità della fortuna,<br />

ritorno ciclico delle cose, ineluttabilità della morte, mistero del tempo; rischi del lavoro<br />

e del susseguirsi delle generazioni, prova dell’invecchiamento e della morte.<br />

La sua grande onestà e il suo gusto per l’assoluto lo portano a denunciare l’illusione delle<br />

belle teorie e delle tranquille certezze: «Anche questo è vanità... Anche questo è un inseguire<br />

il vento», dirà egli di tante avventure ed esperienze umane. Ar<strong>al</strong>do della sapienza critica, con<br />

Giobbe, Qohelet fa un’opera critica in teologia e obbliga a un confronto della teoria con i dati<br />

dell’esperienza.<br />

Infine, il modo di procedere di Qohelet raggiunge gli interrogativi dell’uomo sul suo destino.<br />

Qohelet vive la sua fede ponendo continuamente degli interrogativi: nei primi dieci capitoli<br />

vi si trovano non meno di ventisei domande: «Qu<strong>al</strong>e utilità?... Cosa resta? Perché? Che<br />

differenza?, ecc.» (1,3; 2,12.19.22.25; 3,9.21.22; 4,11; 5,5.10.15; 6,6.8.11.12.; 7,10.13.16.<br />

17.24; 8,1.4.7; 9,4; 10,14).<br />

3. DATA DI COMPOSIZIONE<br />

Qohelet è chiaramente uno scritto tardivo, la cui redazione fin<strong>al</strong>e è da situare verso il 250<br />

a.C. Innanzitutto per la lingua, dove si nota un gran numero di parole affini <strong>al</strong>l’ebr<strong>ai</strong>co biblico<br />

tardivo mentre <strong>al</strong>tre sono di derivazione aram<strong>ai</strong>ca, come pure certi neologismi ebr<strong>ai</strong>ci, sconosciuti<br />

nella Bibbia ma utilizzati nell’ebr<strong>ai</strong>co rabbinico. D’<strong>al</strong>tra parte sembra che il Siracide (si<br />

confronti 3,12; 7,14; 9,10; 11,9 e Sir 14,11-19; 2,15-16 e Sir ebr<strong>ai</strong>co 41,11-13) e il libro della<br />

Sapienza (cfr. anche Sap 2 e 5, che riflettono le posizioni di Qohelet e sostengono la tesi con-<br />

* J.-P. PRÉVOST, Qohelet, in J. AUNEAU (ed.), I s<strong>al</strong>mi e gli <strong>al</strong>tri scritti (Piccola Enciclopedia Biblica 5), Roma<br />

1991, 167-174. Il termine qohelet può essere considerato un aggettivo sostantivato da qa\ha\l, assemblea) e può<br />

essere tradotto con «l’uomo dell’assemblea»; la LXX l’ha reso con e)kklhsiasth/j (ecclēsiastē:s), da cui Ecclesiaste,<br />

<strong>al</strong>tra designazione del libro.


Qohelet 87<br />

traria) conoscano il libro e t<strong>al</strong>volta facciano riferimento ad esso. Sono stati trovati <strong>dei</strong> frammenti<br />

a Qumran ris<strong>al</strong>enti <strong>al</strong> 150 a.C.<br />

4. STRUTTURA LETTERARIA<br />

Qohelet è stato a lungo rimproverato di presentare <strong>dei</strong> discorsi sconnessi, senza un legame<br />

logico e senza una vera e propria coerenza. L’autore, è vero, usa magistr<strong>al</strong>mente il paradosso e<br />

il detto popolare, e non sembra preoccuparsi degli arrangiamenti logici e lineari. Ma rimane il<br />

fatto che i suoi discorsi sono stati raccolti in un libro, che sono stati abilmente incorniciati da<br />

un prologo e da un epilogo (1,2 e 12,8) che formano un’inclusione, e che la nota editori<strong>al</strong>e fin<strong>al</strong>e<br />

(12,9-14) presenta Qohelet come un saggio che sa revisionare e dare forma <strong>ai</strong> discorsi <strong>dei</strong><br />

saggi. Per cui l’impresa, giudicata rischiosa non molto tempo fa, di trovare una struttura<br />

d’insieme comincia a portare frutti interessanti, se non definitivi. Le ricerche di A. G. Wright 1<br />

hanno dato un nuovo impulso e hanno rianimato il fervore <strong>dei</strong> ricercatori. A. Schoors 2 non arriva<br />

a una struttura d’insieme soddisfacente ma il suo studio delle distinte unità si rivela prezioso.<br />

Se la proposta di F. Rousseau 3 non è stata molto seguita d<strong>al</strong> punto di vista della struttura,<br />

ha nondimeno ricevuto una conferma indiretta da R. N. Whybray 4 nel suo studio sul posto<br />

della gioia nell’opera di Qohelet.<br />

La posizione di A. G. Wright sui procedimenti numerici utilizzati d<strong>al</strong>l’autore merita qu<strong>al</strong>che<br />

considerazione. Wright costata innanzitutto con la Masorah che il libro di Qohelet consta<br />

di 222 versetti. Il centro si trova quindi in 6,9 essendo le due parti formate ciascuna di 111<br />

versetti. Ora, osserva Wright, in 1,2 si ritrova tre volte la parola hābel, <strong>al</strong> singolare. Dato che<br />

il suo v<strong>al</strong>ore numerico è 37, si arriva a un tot<strong>al</strong>e di 111, che corrisponde <strong>al</strong> numero di versetti<br />

di ciascuna delle due metà! Bisogna dire anche che la stessa parola appare in principio 38 volte,<br />

ma risulta dubbia in 5,6 e 9,9. Wright ritiene che 9,9 non sia autentico con il risultato che si<br />

ha 37 volte la parola hābel, ossia la cifra corrispondente <strong>al</strong> suo v<strong>al</strong>ore numerico.<br />

D’<strong>al</strong>tra parte, sempre secondo Wright, se si toglie l’epilogo – che non apparteneva <strong>al</strong>l’opera<br />

origin<strong>al</strong>e – si ha un tot<strong>al</strong>e di 216 versetti. Ora l’inclusione di 1,2 e 12,8 (ha¨bel ha¨bālîm ...<br />

ha-kol hābel, vanità delle vanità ... il tutto vanità) ha un v<strong>al</strong>ore numerico di 216, così come il<br />

titolo dibrê ripreso tre volte in 12,10-11 per designare l’insieme del libro.<br />

A questa posizione si può obiettare che non si vede in che modo il versetto 6,9 giochi un<br />

ruolo centr<strong>al</strong>e nella struttura e nell’opera di Qohelet, e che l’epilogo non può essere accettato<br />

o rifiutato secondo le necessità dell’argomentazione perché il tot<strong>al</strong>e coincida con il v<strong>al</strong>ore<br />

numerico ricercato. Lo stesso dicasi del numero di ricorrenze della parola hābel, per la qu<strong>al</strong>e<br />

Wright regola troppo rapidamente l’autenticità di 9,9 in funzione della sua tesi 5 .<br />

5. MESSAGGIO<br />

5.1. SIGNIFICATO DEL SUO DISEGNO TEOLOGICO<br />

Il disegno teologico di Qohelet ha qu<strong>al</strong>cosa di esplorativo. Esso viene collocato sotto il segno<br />

dell’esperienza e della sperimentazione 6 . Si trovano in lui molteplici <strong>al</strong>lusioni <strong>al</strong> suo me-<br />

1<br />

A. G. WRIGHT, The Riddle of the Sphinx: The Structure of the Book of Qoheleth, in CBQ 30 (1968) 313-<br />

334; The Riddle of the Sphinx Revisited: Numeric<strong>al</strong> Patterns in the Book of Qoheleth, in CBQ 42 (1980) 38-51;<br />

Addition<strong>al</strong> Numeric<strong>al</strong> Patterns in Qoheleth, in CBQ 45 (1983) 32-43.<br />

2<br />

A. SCHOORS, La structure littér<strong>ai</strong>re de Qohéleth, in OLoP 13 (1982) 91-116.<br />

3<br />

F. ROUSSEAU, Structure de Qohelet 1,4-11 et plan du livre», in VT 31 (1981) 200-217.<br />

4<br />

R. N. WHYBRAY, Qoheleth, Preacher of Joy, in JSOT 23 (1982) 87-98.<br />

5<br />

Sulla struttura di Qohelet vedi anche il lavoro di V. D’ALARIO, Il libro di Qohelet. Struttura letteraria e retorica<br />

(Suppl. <strong>al</strong>la RivBib 27), Bologna 1992.<br />

6<br />

A. BONORA, Esperienza e timor di Dio in Qohelet, in Teologia 6-2 (1981) 171-182.


88 Qohelet<br />

todo, basato sull’osservazione e sull’esperienza: vedere (37 ricorrenze: «Ho visto tutte le cose<br />

che si fanno sotto il sole...», 1,14), conoscere («Ho deciso <strong>al</strong>lora di conoscere la sapienza e la<br />

scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il<br />

vento», 1,7), ricercare e investigare («Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza<br />

tutto ciò che si fa sotto il cielo», 1,13), riflettere, provare («Vieni, dunque, ti voglio mettere<br />

<strong>al</strong>la prova...», 2,1), trovare («Quello che io cerco ancora e non ho trovato...», 7,28), considerare<br />

(«Ho considerato poi la sapienza, la follia e la stoltezza», 2,12), cercare di conoscere...<br />

Qohelet è un ricercatore avido di comprendere e di trovare un significato <strong>al</strong>le re<strong>al</strong>tà umane.<br />

La sua ricerca vuole anche essere radic<strong>al</strong>e e riguarda l’insieme del re<strong>al</strong>e. Si può notare in<br />

lui la frequenza delle parola «tutto» (91 ricorrenze), come pure delle espressioni di glob<strong>al</strong>ità:<br />

«sotto il sole» (1,3.9.14...); «sotto il cielo» (1,13; 2,3; 3,1); «un tempo per tutte le cose» (3,2-<br />

8). Niente viene escluso a priori; egli si interessa a tutto ciò che forma la vita.<br />

Infine la ricerca di Qohelet lo porta a un acuto senso della fragilità umana, di ciò che egli<br />

chiama hābel, vanità. Il termine è tipico di Qohelet (38 ricorrenze contro le 35 di tutto il resto<br />

dell’AT). Ben poche re<strong>al</strong>tà umane sfuggono <strong>al</strong> verdetto di vanità pronunciato da Qohelet. Per<br />

illustrare la sua tesi che «tutto è vanità», Qohelet dichiara «vanità»: le opere che si compiono<br />

(1,14), l’esperienza della gioia (2,1); il lavoro delle sue mani (2,11), la saggezza (2,15), la<br />

successione <strong>dei</strong> giorni e delle notti (2,23), il denaro e il lusso (5,9) la prolissità (6,11), il riso<br />

dello stolto (7,6), la giustizia (8,14), la vecchi<strong>ai</strong>a (11,8) e la gioventù (11,10).<br />

5.2. QOHELET E IL MISTERO DEL TEMPO (3,1-12)<br />

Questo celebre passo si rivela uno <strong>dei</strong> poemi più profondi, e certamente la riflessione più<br />

sviluppata di tutta la Bibbia, sul mistero del tempo.<br />

La struttura di 3,2-8 si sviluppa come una duplice serie di opposizioni (positivo-negativo o<br />

inversamente). Alle due estremità (versetto 2 e 8), il poema inizia e si conclude con una nota<br />

positiva. La complessità così come la ricchezza del tempo si traduce <strong>al</strong> livello del vocabolario.<br />

L’autore usa qui tre termini. Il primo che appare è z e mān (tradotto in greco xro/noj [chrónos]).<br />

Indica l’aspetto quantitativo del tempo, il tempo numerico, che si può c<strong>al</strong>colare, misurare. Il<br />

secondo, che domina il poema, è ‘et: ricorre trenta volte in questo passo, e dieci volte nel resto<br />

del libro. Il termine indica il tempo qu<strong>al</strong>itativo: da qui la sfumatura di occasione, di tempo favorevole,<br />

di stagione. Infine, il poema si conclude rinviando a un <strong>al</strong>tro aspetto del tempo, questa<br />

volta relativo a Dio: è ‘ôlām, cioè il tempo tot<strong>al</strong>e, la durata eterna, il tempo di Dio.<br />

Qu<strong>al</strong> è il significato di questa serie di opposizioni e della variazione del vocabolario riguardo<br />

<strong>al</strong> tempo? Bisogna fare una lettura successiva della serie di opposizioni? L’autore non<br />

farebbe <strong>al</strong>lora che costatare che la vita è un composto, una successione di elementi e di attività<br />

contrarie che finiscono per annullarsi. Bisogna farne una lettura deterministica? Qohelet sarebbe<br />

dell’avviso che, qu<strong>al</strong>siasi cosa si faccia, non sarà possibile evitare la coesistenza <strong>dei</strong><br />

contrari. O bisogna <strong>al</strong> contrario farne una lettura esclusivistica secondo la qu<strong>al</strong>e l’autore farebbe<br />

una vibrante difesa per invitare a optare per l’una o l’<strong>al</strong>tra delle possibilità offerte d<strong>al</strong><br />

tempo?<br />

Possiamo ritenere che il poema rende giustizia <strong>al</strong>la complessità del mistero del tempo, di<br />

cui rivela l’ambiv<strong>al</strong>enza: <strong>al</strong> tempo stesso grazia (dono offerto) e occasione di libertà (luogo in<br />

cui si prende ogni decisione umana). Il tempo è fatto di molteplici occasioni: il problema per<br />

l’uomo è di far entrare l’occasione, fuggente, nel mistero più profondo e più duraturo del tempo<br />

di Dio 7 .<br />

7<br />

Si vedano le osservazioni in questo senso di D. LYS, L’Être et le Temps. Communication de Qohèlèth, in La<br />

Sagesse de l’AT, 249-258.


5.3. LA FEDE DI QOHELET<br />

Qohelet 89<br />

Anche se Qohelet arriva fino <strong>al</strong> limite <strong>dei</strong> suoi interrogativi e anche delle sue inquietudini,<br />

rimane nondimeno un grande credente. Come i saggi, il suo credo si basa soprattutto sulla<br />

fondament<strong>al</strong>e bontà e sulla incrollabile solidità dell’opera creatrice di Dio: «Riconosco che<br />

qu<strong>al</strong>unque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere...» (3,14).<br />

E come i profeti, rifiuta un culto chiassoso (4,17–5,6) dove la moltiplicazione delle parole<br />

prev<strong>al</strong>e sull’ascolto della Parola e sul rispetto del mistero di Dio. I suoi discorsi re<strong>al</strong>istici sulla<br />

morte non sono privi di una certa speranza piena di coraggio: anche se non crede ancora nella<br />

risurrezione, sa che «l’uomo se ne va nella dimora eterna» (12,5) e che «il soffio ritorna a Dio<br />

che lo ha dato» (12,7). C’è lì una nota di serenità che non manca di grandezza per uno che ignorava<br />

tutto della rivelazione evangelica sull’<strong>al</strong>dilà.<br />

5.4. «TUTTO È VANITÀ» O «TUTTO È GRAZIA»?<br />

Abbastanza paradoss<strong>al</strong>mente, per un autore ritenuto pessimista, Qohelet punteggia la sua<br />

riflessione con frasi sulla felicità. All’interno stesso <strong>dei</strong> passi che denunciano la vanità delle<br />

re<strong>al</strong>tà umane, l’autore si è preoccupato di inserire sette riflessioni (idea di pienezza?) sulla felicità<br />

(2,24; 3,12.22; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-9) 8 . Ogni volta l’autore esprime un giudizio di v<strong>al</strong>ore<br />

(aôb), quattro volte su sette l’affermazione è esclusiva: «Non c’è di meglio che...» (2,24;<br />

3,12.22; 8,15). Ogni volta l’autore fa riferimento <strong>al</strong>la gioia o <strong>al</strong> godimento, invitando i suoi<br />

discepoli a «gustare la gioia». Si nota anche un crescendo nella raccomandazione della gioia:<br />

d<strong>al</strong>la semplice constatazione (2,24) l’autore passa <strong>al</strong>l’elogio incondizionato della gioia (8,15;<br />

9,7-9; 11,7-9). Bisogna quindi tener presente, con l’editore fin<strong>al</strong>e del libro, la nota risolutamente<br />

ottimista del disegno teologico di Qohelet: «Qohelet cercò di trovare detti piacevoli il<br />

cui esatto tenore viene qui trascritto...» (12,10).<br />

Per fare giustizia a Qohelet è necessario perciò andare <strong>al</strong> di là della prima impressione lasciata<br />

d<strong>al</strong> suo celebre ritornello «tutto è vanità». Anche se egli ha percepito con acutezza ed<br />

espresso con una sensibilità poco comune la caducità di tutte le cose, rimane nondimeno un<br />

assetato di assoluto e un sostenitore incondizionato della felicità, che ha saputo riconoscere le<br />

gioie semplici e quotidiane come autentici doni di Dio.<br />

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />

BARTON, G.A., The Book of Ecclesiastes (ICC), Edinburgh 1908, rist. 1971.<br />

Le caratteristiche <strong>dei</strong> commenti che compongono l’«Internation<strong>al</strong> Critic<strong>al</strong> Commentary» sono una<br />

garanzia a priori del contenuto di quest’opera. Le ottime an<strong>al</strong>isi testu<strong>al</strong>i di questa collana sono univers<strong>al</strong>mente<br />

riconosciute. Il commento vero e proprio occupa 65 pagine; in esso ha una speci<strong>al</strong>e importanza<br />

la problematica relativa <strong>al</strong>le versioni e <strong>al</strong> rapporto tra Qohelet e il pensiero greco. Tanto<br />

l’introduzione quanto il commento seguono coordinate piuttosto tradizion<strong>al</strong>i, il che è comprensibile se<br />

si considera la data dell’edizione origin<strong>al</strong>e.<br />

CRENSHAW, J.L., Ecclesiastes (OTL), Philadelphia 1987.<br />

Gli studiosi della letteratura sapienzi<strong>al</strong>e conoscono molto bene la statura intellettu<strong>al</strong>e e gli ottimi<br />

contributi di questo esegeta <strong>al</strong>la ricerca biblica. In questo commento vengono affrontati senza pregiudizi<br />

e con franchezza i problemi teologici più seri proposti d<strong>al</strong> libro biblico. Simile atteggiamento libero<br />

da parte dell’autore trova corrispondenza nella qu<strong>al</strong>ità del commento. Questo è preceduto da un’introduzione<br />

di 30 pagine, sommaria ma sufficientemente completa. Il miglior pregio del commento sta<br />

nell’affrontare in modo non convenzion<strong>al</strong>e un’opera biblica non convenzion<strong>al</strong>e.<br />

8 F. Rousseau è stato il primo a riconoscere loro una funzione importante nella struttura del libro (Structure<br />

de Qoheleth 1,4-11 et plan du livre, in VT 31 [1981] 200-217). In modo indipendente, R. N. Whybray attribuirà<br />

loro un ruolo chiave nella teologia del libro (Qoheleth, Preacher of Joy, in JSOT 23 [1982] 87-98).


90 Qohelet<br />

DI FONZO, L., Ecclesiaste (BG), Torino-Roma 1967.<br />

Nonostante il passare degli anni la qu<strong>al</strong>ità <strong>dei</strong> commenti biblici della Bibbia di Garof<strong>al</strong>o non cessa<br />

di sorprendere. Il commento <strong>al</strong>l’Ecclesiaste segue t<strong>al</strong>e linea di serietà e profession<strong>al</strong>ità. Dopo una<br />

completa ed erudita introduzione di 102 pagine il lettore si trova di fronte a una bibliografia quasi esaustiva<br />

di 17 pagine. Il commento è ampio e ben elaborato sotto il profilo linguistico e testu<strong>al</strong>e.<br />

L’assenza di sensibilità letteraria è condivisa m<strong>al</strong>auguratamente da quasi tutti i commentatori moderni.<br />

Una prospettiva un po’ più aperta e l’assenza di un certo carattere farraginoso avrebbero certamente<br />

accresciuto l’indiscutibile v<strong>al</strong>ore dell’opera.<br />

FOX, M.V., Qohelet and His Contradictions, Sheffield 1989.<br />

Il commento vero e proprio (pp. 151-329) è preceduto da un’introduzione fin<strong>al</strong>izzata a presentare il<br />

libro del Qohelet <strong>al</strong> lettore moderno e da quattro capitoli più sostanziosi: 1. Significato di hebel e di<br />

r e ‘ût rûă˙; 2. sofferenze e piaceri; 3. epistemologia di Qohelet; 4. giustizia e teodicea. Tutti e quattro<br />

seguono, grosso modo, il seguente schema espositivo: impostazione del problema; terminologia; v<strong>al</strong>utazione<br />

critica. Il commento, ben fatto e ardito, è affrontato dopo una breve esposizione di vari aspetti<br />

connessi <strong>al</strong>la comprensione letteraria dell’opera: <strong>al</strong>cune parole chiave; il linguaggio di Qohelet; la<br />

struttura letteraria; il v<strong>al</strong>ore delle versioni greca e siriaca.<br />

GORDIS, R., Koheleth. The Man and His World, New York 3 1978.<br />

Il commento vero e proprio occupa le pp. 203-355. Le pp. 145-201 contengono il testo e la traduzione.<br />

La prima parte costituisce un’ottima introduzione, le cui dimensioni possono essere apprezzate<br />

d<strong>al</strong> lettore. Vi si affrontano aspetti letterari di carattere gener<strong>al</strong>e, <strong>al</strong>cuni elementi stilistici e la visione<br />

del mondo di Qohelet senza trascurare tematiche più comuni come l’autore, la canonicità, il testo e le<br />

versioni. Il commento è equilibrato ed erudito. Questo commento è uno strumento imprescindibile per<br />

acquisire familiarità con lo stile del pensiero e dell’espressione del Qohelet.<br />

LAUHA, A., Kohelet (BK 19), Neukirchen/Vluyn 1978.<br />

Si tratta probabilmente del miglior commento moderno <strong>al</strong>l’opera di Qohelet, <strong>al</strong>meno come trattazione<br />

d’insieme. Le 24 pagine d’introduzione sono forse troppo brevi, anche se la problematica gener<strong>al</strong>e<br />

del libro è presentata in maniera sufficiente. Manca un’adeguata disamina letteraria, assenza tipica<br />

<strong>dei</strong> commenti del «Biblischer Kommentar». La critica testu<strong>al</strong>e, pur corretta, non è ampia come ci si<br />

sarebbe potuto attendere per <strong>al</strong>cuni versetti.<br />

OGDEN, G., Qoheleth, Sheffield 1987.<br />

Studio piuttosto ampio (circa 200 pagine), considerate le dimensioni del Qohelet. L’an<strong>al</strong>isi testu<strong>al</strong>e<br />

è adeguata; il commento teologico è esauriente e felice; gli aspetti letterari sono correttamente individuati<br />

e accuratamente presentati. Lamentiamo la mancanza di un’introduzione adeguata; non si può dir<br />

molto in 8 pagine. Titolo di merito dell’opera sono due appendici introduttive sul significato di hebel e<br />

jitrôn. Curioso l’excursus conclusivo intitolato «Sapienza cinese e rivelazione biblica».<br />

WHITLEY, CH.F., Koheleth. His Language and Thought (BZAW 148), Berlin - New York 1979.<br />

Come si può cogliere d<strong>al</strong> sottotitolo, questo non è propriamente un commento. Dopo una brevissima<br />

introduzione (A), l’opera è aperta da uno studio del linguaggio di Qohelet (B), esaminato capitolo<br />

per capitolo, che si conclude con una v<strong>al</strong>utazione della tesi di Zimmermann e Dahood (con esito negativo).<br />

Questo esame critico (C) affronta le peculiarità del linguaggio di Qohelet e il suo rapporto con<br />

l’opera di Ben Sira. Lo studio del pensiero dell’autore del Qohelet (D) tiene conto delle teorie sulle influenze<br />

babilonesi, egiziane e greche. Nell’ultima parte (E) l’autore cerca d’impostare una v<strong>al</strong>utazione<br />

delle fonti israelite, del problema dell’influenza greca, del materi<strong>al</strong>e proverbi<strong>al</strong>e comune e della natura<br />

<strong>dei</strong> problemi affrontati da Qohelet. Se si prescinde da <strong>al</strong>cune conclusioni affrettate, questo è senza<br />

dubbio il migliore studio attu<strong>al</strong>e sul Qohelet.<br />

WHYBRAY, R.N., Ecclesiastes, Grand Rapids 1989.<br />

Il commento (pp. 33-174) è preceduto da una breve ma ricca introduzione di 31 pagine: titolo e posizione<br />

nel canone; contesto storico, autore e luogo di composizione; lingua; unità letteraria e struttura;<br />

pensiero; an<strong>al</strong>isi del contenuto. Pur mantenendosi nei limiti di una comprensibile prudenza, il commento<br />

è buono, molto aggiornato, di <strong>al</strong>to livello.


Qohelet 91<br />

Inoltre, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />

SACCHI, P., Ecclesiaste (NVB 20), Roma 1971.<br />

BARUCQ, A., Qohélet (ou Livre de l’Ecclésiaste), in DBS 9 (1977) 609-674.<br />

LAURENTINI, G., Ecclesiaste o Qoelet, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong><br />

<strong>al</strong>la Bibbia 3), Bologna 1978, 423-442.<br />

FESTORAZZI, F., Il Qohelet: un sapiente di Israele <strong>al</strong>la ricerca di Dio. Ragione e fede in rapporto di<strong>al</strong>ettico,<br />

in Quaerere Deum. Atti della XXV Settimana Biblica, Brescia 1980, 173-190.<br />

BONORA, A., Qohelet. La gioia e la fatica di vivere (LoB 1,15), Brescia 1987.<br />

RAVASI, G., Qohelet, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988, 1272-1278.<br />

RAVASI, G., Qohelet (La parola di Dio), Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988.<br />

D’ALARIO, V., Il libro del Qohelet. Struttura letteraria e retorica (Supplementi <strong>al</strong>la Rivista Biblica<br />

27), Bologna 1993.<br />

PAHK, J.Y.-S., Il canto della gioia in Dio. L’itinerario sapienzi<strong>al</strong>e espresso d<strong>al</strong>l’unità letteraria in<br />

Qohelet 8,16–9,10 e il par<strong>al</strong>lelo di Gilgameš Me. iii (Istituto Universitario Orient<strong>al</strong>e. Dipartimento<br />

di Studi Asiatici. Series Minor 42), Napoli 1996.<br />

WRIGHT, A.G., Qohelet, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 638-646.<br />

MORLA ASENSIO, V., Il libro dell’Ecclesiaste, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo<br />

studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 147-174.<br />

BONORA, A., Qoélet, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4), Torino-Leumann<br />

1997, 71-83.<br />

BELLIA, G. - PASSARO, A (edd.), Il <strong>Libro</strong> di Qohelet. Tradizione, redazione, teologia, Milano 2001.<br />

MAZZINGHI, L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, Bologna 2001.<br />

Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 3/2003: «Il libro di Qohelet».


CANTICO DEI CANTICI *<br />

Con il libro <strong>dei</strong> S<strong>al</strong>mi e il vangelo di Giovanni, il Cantico è senza dubbio uno degli scritti<br />

biblici più commentati d<strong>al</strong>la tradizione cristiana, e certamente quello che ha dato origine <strong>al</strong><br />

ventaglio più grande di interpretazioni. Già la sua accettazione nel canone delle Scritture ebr<strong>ai</strong>che<br />

non avvenne senza causare <strong>dei</strong> problemi, come testimoniano le discussioni rabbiniche<br />

riportate nella Mišnah:<br />

Tutte le sante Scritture rendono impure le mani. Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure<br />

le mani. R. Ieudà dice: Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani. R. Ieudà<br />

dice: Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani e intorno <strong>al</strong>l’Ecclesiaste vi è<br />

diversità di opinioni. R. Iosè dice: l’Ecclesiaste non rende impure le mani e intorno <strong>al</strong> Cantico <strong>dei</strong><br />

Cantici vi è diversità di opinioni. R. Simeone dice: l’Ecclesiaste è una di quelle cose in cui la scuola<br />

di Šamm<strong>ai</strong> facilita, mentre la scuola di Hillel è più rigida. Disse R. Simeone figlio di Az<strong>ai</strong>: Io ho<br />

per tradizione d<strong>al</strong>la bocca <strong>dei</strong> settantadue anziani, nel giorno che insediarono R. Eliezer figlio di<br />

Azaria a presidente, che il Cantico <strong>dei</strong> Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani. Disse <strong>al</strong>lora<br />

R. Akibà: Dio guardi! Nessuno si oppone in Israele col dire che il Cantico <strong>dei</strong> Cantici non renda<br />

impure le mani perché il mondo intero non ha tanto v<strong>al</strong>ore come il giorno in cui fu dato a Israele il<br />

Cantico <strong>dei</strong> Cantici, perché tutti gli <strong>al</strong>tri agiografi sono santi ma il Cantico <strong>dei</strong> Cantici è il più santo<br />

di tutti e se ci fu diversità di opinioni ciò fu soltanto rispetto <strong>al</strong>l’Ecclesiaste 1 .<br />

Una volta fissato il canone, le tradizioni ebr<strong>ai</strong>ca e cristiana hanno tenuto il Cantico in grandissima<br />

stima, rileggendo in esso il proprio itinerario spiritu<strong>al</strong>e descritto sotto i tratti dell’amata<br />

che si meraviglia dell’amore che le porta il suo amato e che, nel tempo della separazione o<br />

dell’assenza, non ha pace finché non l’ha ritrovato.<br />

1. ASPETTO LETTERARIO DEL CANTICO<br />

1.1. CONTENUTO<br />

Il Cantico è una raccolta di canti d’amore. Ora in forma di di<strong>al</strong>oghi, ora di monologhi, questi<br />

canti esprimono le diverse fasi dell’esperienza amorosa di una giovane di Gerus<strong>al</strong>emme,<br />

«bruna ma bella» (1,5) e soprannominata la «Sulammita» (7,1: d<strong>al</strong>la radice šālem, «pace», da<br />

cui deriva anche il nome di S<strong>al</strong>omone), e del suo amato, che abita tra i pastori (1,7-8), ma che<br />

il testo identifica anche con il re (1,12) e più specificamente con S<strong>al</strong>omone (3,7-11). Ricchi di<br />

lunghe descrizioni della bellezza fisica dell’uno e dell’<strong>al</strong>tro, questi canti esprimono l’ammirazione<br />

che i due amanti hanno reciprocamente e il desiderio che essi provano l’uno dell’<strong>al</strong>tro.<br />

I canti fanno posto anche a una certa nost<strong>al</strong>gia e <strong>al</strong>le inquietudini provocate d<strong>al</strong>l’assenza<br />

dell’<strong>al</strong>tro. Essi terminano anche con un invito <strong>al</strong>la separazione («Fuggi, mio diletto»: 8,14),<br />

ma non senza aver proclamato con forza la convinzione che attraversa ciascun poema: «Forte<br />

come la morte è l’amore; tenace come gli inferi è la gelosia; le sue vampe sono vampe di fuoco:<br />

un colpo di fulmine sacro» (8,6).<br />

1.2. STRUTTURA<br />

La critica letteraria ha proposto per il Cantico un’infinita varietà di strutture e di divisioni:<br />

si è creduto di individuarvi tra i quaranta e i quarantadue poemi! 2 Al di là di queste varianti, la<br />

tendenza è tuttavia quella di riconoscere una certa unità <strong>al</strong> Cantico, speci<strong>al</strong>mente in ragione<br />

della sua lingua così particolare (vi si trovano una cinquantina di hapax legomena insieme a<br />

*<br />

J.-P. PRÉVOST, Cantico <strong>dei</strong> cantici, in J. AUNEAU (ed.), I s<strong>al</strong>mi e gli <strong>al</strong>tri scritti (Piccola Enciclopedia Biblica<br />

5), Roma 1991, 155-166.189-191.<br />

1<br />

Yad<strong>ai</strong>m III,5; trad. di V. Castiglioni.<br />

2<br />

Cfr. M. H. POPE, The Song of Songs (AncB 7c), Garden City-New York 1977, 40-54, per una panoramica<br />

delle princip<strong>al</strong>i proposte riguardanti la struttura del Cantico.


Cantico <strong>dei</strong> Cantici 93<br />

un numero impressionante di termini rari) e soprattutto della ripetizione di certi ritornelli (risveglio<br />

dell’amore: 2,7; 3,5; 8,4; appartenenza mutua: 2,16; 6,3; 7,11), o di certe espressioni<br />

(«figlie di Gerus<strong>al</strong>emme»: 1,5; 2,7; 3,5.11; 5,8.16; 8,4; «la più bella fra le donne»: 1,8; 5,9;<br />

6,1) o ancora di certi temi (giardino: 4,12.15.16; 5,1; 6,2.11; 8.13; vigna: 1,6; 2,15; 7,13;<br />

8,11.12; ricerca dell’amato: 3,1.2; 5,6; 6,1), ecc. Gli studi recenti sulla struttura del Cantico 3<br />

vanno tutti nel senso dell’omogeneità se non dell’unità dell’insieme.<br />

2. DATA DI COMPOSIZIONE<br />

Appoggiandosi sull’intestazione del libro, un buon numero di autori (Seg<strong>al</strong>, Gerleman,<br />

Ginsberg, Ch<strong>ai</strong>m Rabin, ecc.) propongono come probabile data di composizione del Cantico il<br />

periodo di S<strong>al</strong>omone. Si argomenta a partire d<strong>ai</strong> dati topografici gener<strong>al</strong>i, che corrisponderebbero<br />

<strong>ai</strong> confini territori<strong>al</strong>i di Israele <strong>al</strong> tempo di S<strong>al</strong>omone, o d<strong>al</strong>l’importanza accordata a Tirza<br />

nei confronti di Gerus<strong>al</strong>emme (6,4), o ancora d<strong>al</strong>le descrizioni sontuose del Cantico, perfettamente<br />

in linea con la prosperità e il lusso del regno di S<strong>al</strong>omone. All’<strong>al</strong>tro estremo, autori come<br />

Hartmann e Graetz propongono il periodo ellenistico e sono disposti a scendere fino <strong>al</strong> III<br />

secolo. La maggior parte di commentatori oggi opta per una data postesilica, piuttosto il periodo<br />

persiano, dato che il Cantico porta i segni di un’influenza aram<strong>ai</strong>ca e persiana 4 .<br />

3. LE GRANDI CORRENTI DI INTERPRETAZIONI<br />

Di fronte <strong>al</strong>l’estrema diversità di interpretazioni è bene procedere a un certo raggruppamento<br />

5 e sottolineare già i punti essenzi<strong>al</strong>i delle princip<strong>al</strong>i interpretazioni insieme <strong>al</strong>le questioni<br />

che esse sollevano. Per il Cantico, più che per ogni <strong>al</strong>tro libro biblico, è necessario evitare<br />

le posizioni esclusivistiche ed è senza dubbio più importante porre bene le questioni anziché<br />

pretendere di avere l’interpretazione che si impone su tutte le <strong>al</strong>tre. La storia dell’interpretazione<br />

mostra, se ce ne fosse bisogno, che il Cantico può e deve essere letto a diversi livelli.<br />

3.1. LETTERALE<br />

Si propone di leggere il Cantico come una raccolta di canti d’amore (descrizione concreta<br />

o metaforica). Originariamente questi canti sarebbero stati composti per un matrimonio qu<strong>al</strong>unque,<br />

o più specificamente per il matrimonio di S<strong>al</strong>omone con la figlia del Faraone, o ancora<br />

di un re con una pastorella. Il loro significato sarebbe quindi quello di una celebrazione<br />

dell’amore umano, e il Cantico avrebbe l’apparenza di un commento sviluppato <strong>dei</strong> primi due<br />

capitoli della Genesi.<br />

Benché relativamente poco attestata nel corso della tradizione (con Teodoro di Mopsuestia,<br />

la cui esegesi di questo punto sarebbe stata condannata, e poi più tardi con Bossuet, Dom<br />

C<strong>al</strong>met e Renan), questa interpretazione si impone sempre di più nell’esegesi recente. Essa ha<br />

il vantaggio di rispettare il significato ovvio del testo, rendendo nello stesso tempo conto del<br />

carattere sapienzi<strong>al</strong>e del libro.<br />

D’<strong>al</strong>tra parte, essa non manca di suscitare degli interrogativi: come si spiega il fatto che sia<br />

stata praticamente ignorata da tutta la tradizione ebr<strong>ai</strong>ca e che abbia incontrato così pochi so-<br />

3<br />

J. C. EXUM, A Literary and Structur<strong>al</strong> An<strong>al</strong>ysis of the Song of Songs, in ZAW 85 (1973) 47-79; F. LANDY,<br />

Beauty and the Enigma: An Inquiry into Some Interrelated Episodes of the Song of Songs, in JSOT 17 (1980) 71-<br />

85; R. E. MURPHY, The Unity of the Song of Songs, in VT 29 (1979) 436-443; W. H. SHEA, The Chiastic Structure<br />

of the Song of Songs, in ZAW 92 (1980) 378-396; T. ELLIOTT, The Literary Unity of the Canticle (Europäische<br />

Hochschulschriften XXIII,371), Frankfurt a.M. 1989.<br />

4<br />

A. ROBERT – R. TOURNAY – A. FEUILLET, Le Cantique des Cantiques. Traduction et comment<strong>ai</strong>re (EtB),<br />

Gab<strong>al</strong>da, Paris 1963, 20-22.<br />

5<br />

Per un quadro più completo, con ampli riferimenti bibliografici: POPE, The Song ot Songs, 89-229.


94 Cantico <strong>dei</strong> Cantici<br />

stenitori nella tradizione cristiana antica? Come spiegare le derivazioni d<strong>al</strong> vocabolario profetico?<br />

E, se si tratta di canti d’amore, come spiegare i riferimenti così numerosi <strong>al</strong>la geografia<br />

d’Israele?<br />

3.2. ALLEGORICA<br />

All’opposto dell’interpretazione letter<strong>al</strong>e, questa attribuisce un significato nascosto <strong>ai</strong> personaggi,<br />

<strong>al</strong> loro linguaggio e <strong>al</strong>la loro ricerca amorosa. L’amato non è <strong>al</strong>tro che Dio, mentre la<br />

donna è diversamente interpretata come Israele, la Chiesa o l’anima credente, <strong>al</strong>la ricerca di<br />

Dio. La tradizione giud<strong>ai</strong>ca, fissata nel T<strong>al</strong>mud e più tardi nel Targum e nei vari midrašim, interpreta<br />

il Cantico come uno scambio di lode tra Dio e Israele e non esita ad <strong>al</strong>legorizzare tutti<br />

i dettagli: l’assenza dell’amato è un’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>l’esilio, il vino significa la Torāh, i baci designano<br />

la profezia, ecc. Sul versante cristiano, Origene farà opera di pioniere nel sostituire <strong>al</strong>la<br />

lettura ebr<strong>ai</strong>ca una lettura similmente <strong>al</strong>legorica, ma completamente rivista <strong>al</strong>la luce del mistero<br />

del Cristo e della Chiesa. Egli affermerà senza mezzi termini: «Per “sposo” intendo il Cristo.<br />

Per “sposa senza macchia né ruga” intendo la Chiesa...» 6 .<br />

L’interpretazione <strong>al</strong>legorica è quindi fortemente radicata in ambiente ebr<strong>ai</strong>co e cristiano.<br />

Essa non è m<strong>ai</strong> venuta meno presso gli ebrei, dove è praticamente esclusiva, mentre<br />

nell’esegesi cristiana dopo Origene ha goduto di un forte consenso presso i Padri della Chiesa<br />

e i teologi del Medio Evo, per poi dominare l’esegesi cattolica fino <strong>al</strong>le soglie del Concilio<br />

Vaticano II. Il suo grande vantaggio è quello di armonizzare la teologia del Cantico con<br />

l’insieme della tradizione biblica.<br />

Questa quasi unanimità della tradizione è stata rimessa in discussione recentemente. Per<br />

quanto antica e venerabile, l’interpretazione <strong>al</strong>legorica non s’impone necessariamente <strong>al</strong>la lettura<br />

del testo. Si nota a t<strong>al</strong>e proposito il sorprendente silenzio su Dio, che non viene m<strong>ai</strong> nominato<br />

nel testo, e bisogna ammettere che, se c’è parabola o <strong>al</strong>legoria, la chiave non viene data<br />

nel testo (contrariamente <strong>al</strong>le parabole o <strong>al</strong>legorie che si trovano nei profeti o nei vangeli).<br />

Ciò che lascia ugu<strong>al</strong>mente dubbiosi è il carattere soggettivo, e t<strong>al</strong>volta arbitrario, della decodificazione<br />

<strong>dei</strong> simboli.<br />

In questa scuola è da inserire anche l’interpretazione mistica. Iniziata anch’essa da Origene,<br />

doveva essere ripresa da Gregorio di Nissa, Gregorio di Elvira e Bernardo di Chiarav<strong>al</strong>le,<br />

prima di essere consacrata da Giovanni della Croce e Teresa d’Avila.<br />

3.3. ANTOLOGICA<br />

Sotto molti aspetti, l’interpretazione antologica avanzata da A. Robert 7 , aderisce <strong>al</strong>le tesi di<br />

fondo dell’interpretazione <strong>al</strong>legorica. Appartiene infatti a un metodo che tende a dimostrare la<br />

v<strong>al</strong>idità e la necessità di una lettura <strong>al</strong>legorica. Merita tuttavia di essere distinta da essa per la<br />

serietà della sua documentazione e per il fatto che ha segnato tutta un’epoca dell’esegesi cattolica.<br />

Secondo i sostenitori della lettura antologica, il testo del Cantico sarebbe un midraš, intessuto<br />

di <strong>al</strong>lusioni e di citazioni bibliche. Il metodo antologico cerca di fare una lettura sistematica<br />

<strong>dei</strong> possibili accostamenti (quindi fatti d<strong>al</strong>l’autore?) con <strong>al</strong>tri testi biblici. In pratica questo<br />

metodo porta a una lettura profetica del Cantico secondo la qu<strong>al</strong>e è possibile trovare dietro<br />

ciascuna parola <strong>al</strong>trettante <strong>al</strong>lusioni <strong>al</strong>le diverse fasi della storia della s<strong>al</strong>vezza e delle relazioni<br />

amorose tra Dio e il suo popolo.<br />

Bisogna sottolineare qui la serietà della ricerca e la coerenza del sistema proposto. Uno<br />

studio così minuzioso si rivela estremamente prezioso d<strong>al</strong> punto di vista filologico, aprendo<br />

nello stesso tempo a una più ampia comprensione della Bibbia. Ma la sua forza costituisce an-<br />

6 Prima omelia sul cantico 1.<br />

7 ROBERT – TOURNAY – FEUILLET, Le Cantique des Cantiques, passim.


Cantico <strong>dei</strong> Cantici 95<br />

che la sua debolezza: attaccandosi troppo <strong>ai</strong> dettagli, non si rischia di perdere di vista il significato<br />

ovvio del testo? E se è necessaria una dimostrazione così abbondante e minuziosa per<br />

arrivare a comprendere otto piccoli capitoli, non si cerca di imporre una logica estranea <strong>al</strong> testo?<br />

3.4. CULTUALE<br />

Corrente <strong>al</strong>l’inizio del secolo ventesimo, l’interpretazione cultu<strong>al</strong>e del Cantico è stata avanzata<br />

d<strong>ai</strong> sostenitori dello studio comparativo delle religioni. Secondo loro il Cantico sarebbe<br />

la versione israelitica del matrimonio sacro attestato nella letteratura del Vicino Oriente<br />

Antico (presso i Sumeri, tra il dio Dumuzi e la dea Inanna, e a Babilonia, tra Marduk e Ištar).<br />

Una versione più recente (M. H. Pope) 8 collega il Cantico <strong>al</strong>le celebrazioni funerarie del Vicino<br />

Oriente Antico, impregnate di erotismo e accompagnate da abbondanti libagioni di vino e<br />

di canti.<br />

I sostenitori dell’interpretazione cultu<strong>al</strong>e possono invocare un numero impressionante di<br />

corrispondenze verb<strong>al</strong>i, così come una somiglianza certa nel simbolismo terra-sposa e nel<br />

simbolismo teologico del matrimonio divino. Ma comparare non vuol dire provare, e una simile<br />

spiegazione non rende giustizia <strong>al</strong>l’origin<strong>al</strong>ità d’Israele nei riguardi della sessu<strong>al</strong>ità e ancor<br />

meno <strong>al</strong>l’origin<strong>al</strong>ità del Cantico. In rapporto <strong>ai</strong> suoi vicini, Israele ha proceduto a una vera<br />

e propria demitizzazione della sessu<strong>al</strong>ità umana, della fecondità e della sessu<strong>al</strong>ità divina 9 . E<br />

nel contesto più ampio del monoteismo, bisogna notare che l’ebr<strong>ai</strong>co non ha un termine per<br />

dire dea.<br />

4. UNA TEOLOGIA DELL’AMORE<br />

4.1. VERSO UN’ERMENEUTICA DEL «DUPLICE SIGNIFICATO»<br />

Come orientarsi nella scelta tra queste interpretazioni che, ciascuna a suo modo, rivelano<br />

qu<strong>al</strong>che cosa del testo o del suo ambiente biblico o <strong>dei</strong> suoi legami con le correnti sapienzi<strong>al</strong>i<br />

straniere?<br />

La soluzione potrebbe trovarsi nell’accostamento delle due posizioni che sono apparse a<br />

lungo inconciliabili: quella letter<strong>al</strong>e e quella <strong>al</strong>legorica. In effetti, i sostenitori della prima non<br />

si sono opposti <strong>al</strong>la possibilità di un secondo significato, simbolico o parabolico, mentre i sostenitori<br />

della seconda non hanno m<strong>ai</strong> negato il significato primario del vocabolario del Cantico<br />

e delle sue forti connotazioni sessu<strong>al</strong>i. I sostenitori dell’una e dell’<strong>al</strong>tra interpretazione<br />

concordano nel dire che si tratta indubbiamente dell’amore umano. Mentre per molto tempo il<br />

problema era quello di sapere qu<strong>al</strong>e fosse il significato del Cantico, gli sviluppi recenti delle<br />

scienze del linguaggio e dell’ermeneutica portano a riconoscere la polisemia o plur<strong>al</strong>ità di significato<br />

per uno stesso testo. Non ci si sorprenderà <strong>al</strong>lora di sentire un rappresentante dell’interpretazione<br />

letter<strong>al</strong>e, D. Lys, concludere che il significato del Cantico è <strong>al</strong> tempo stesso sessu<strong>al</strong>e<br />

e sacro: «Sessu<strong>al</strong>e e sacro: è necessario tenere i due insieme <strong>al</strong>trimenti si perde il significato.<br />

Per esempio, se si comprende il Cantico <strong>dei</strong> Cantici come sessu<strong>al</strong>e ma non sacro, <strong>al</strong>lora<br />

è profano, serve da canto convivi<strong>al</strong>e e l’amore è profanato. Ma d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra parte grande è la tentazione,<br />

considerandolo sacro, di rifiutare il suo carattere sessu<strong>al</strong>e che fa paura o vergogna, e<br />

di cadere nell’<strong>al</strong>legorizzazione. In re<strong>al</strong>tà il senso letter<strong>al</strong>e parla di sessu<strong>al</strong>ità e questa non è per<br />

8 POPE, The Song ot Songs, 210-229.<br />

9 «Costatiamo innanzitutto che la fede jahvista ha “de-sacr<strong>al</strong>izzato” il matrimonio, l’ha secolarizzato e ne ha<br />

fatto una re<strong>al</strong>tà di questo mondo terreno» (E. SCHILLEBEECKX, Il matrimonio, re<strong>al</strong>tà terrestre e mistero di s<strong>al</strong>vezza<br />

nell’AT e nel NT e nella storia della Chiesa, Roma 2 1971). Lo stesso giudizio viene espresso da P. GRE-<br />

LOT, Le couple hum<strong>ai</strong>n dans l’Écriture (LeDiv 31), Paris 1962, 28-31.


96 Cantico <strong>dei</strong> Cantici<br />

sua natura oscena e non ha bisogno di essere mor<strong>al</strong>izzata o <strong>al</strong>legorizzata per diventare teologica»<br />

10 .<br />

Ugu<strong>al</strong>mente significativa del cammino percorso nell’ultimo quarto di secolo d<strong>al</strong>l’esegesi<br />

del Cantico è la posizione recente di uno <strong>dei</strong> princip<strong>al</strong>i rappresentanti dell’interpretazione <strong>al</strong>legorica<br />

(con il concorso del metodo antologico), R. J. Tournay, che scrive nella prefazione<br />

<strong>dei</strong> suoi nuovi studi sul Cantico: «Il principio ermeneutico più fecondo sembra essere quello<br />

del duplice significato [...], già applicato, credo, d<strong>al</strong> responsabile ispirato dell’edizione definitiva<br />

del Cantico <strong>dei</strong> Cantici. Questo libretto <strong>al</strong>tamente poetico resiste a ogni tentativo di atomizzazione;<br />

nel suo stato attu<strong>al</strong>e, canonico, biblico, esso si presenta come una parte integrante<br />

dell’Antico Testamento. La lettura che ne propongo cerca di integrare due registri che sarebbe<br />

vano e inutile, secondo me, ridurre a una semplice opposizione dato che mi sembrano correlativi.<br />

Il mistero dell’amore umano è inseparabile da quello dell’Amore divino di cui costituisce<br />

il segno e il simbolo» 11 . Non si potrebbe meglio riassumere il Cantico: «L’amore umano è inseparabile<br />

[...] d<strong>al</strong>l’Amore divino».<br />

4.2. UNA TEOLOGIA DELL’AMORE UMANO<br />

Per rendere conto del messaggio e dell’origin<strong>al</strong>ità del Cantico bisogna dapprima ridare tutto<br />

il suo v<strong>al</strong>ore <strong>al</strong> linguaggio di cui è intessuto. Ora questo linguaggio si distingue da quello di<br />

tutti gli <strong>al</strong>tri libri della Bibbia per il fatto che sfrutta tutti i registri del linguaggio sessu<strong>al</strong>e (amore,<br />

bellezza fisica, baci, carezze e abbracci, desiderio, passione, unione sessu<strong>al</strong>e e appartenenza<br />

mutua).<br />

Letter<strong>al</strong>e o metaforica, il linguaggio del Cantico è ampiamente improntato <strong>al</strong> campo della<br />

sessu<strong>al</strong>ità: amore (dôd, 29 volte e ’āhab, 16 volte), bellezza fisica (yāphāh, 11 volte; nā’āh, 5<br />

volte), desiderio e passione (˙āmad, 2,3 e 5,16; t e šûqāh, 7,11), baci e carezze (nāšaq, 3 volte;<br />

˙ābaq, 2 volte), unione sessu<strong>al</strong>e (1,4.13.16; 3,1.4; 7,12). Una t<strong>al</strong>e abbondanza dà ugu<strong>al</strong>mente<br />

una connotazione sessu<strong>al</strong>e a certe espressioni qu<strong>al</strong>i: la ricerca amorosa (cercare-trovare), il<br />

giardino, la vigna e il vino (si vedano i riferimenti dati sopra).<br />

È, per così dire, la materia prima del Cantico. Certo, l’autore commenta con libertà la visione<br />

fondament<strong>al</strong>mente positiva delle relazioni uomo-donna di Gen 1–2, ma opera anche un<br />

numero impressionante di correzioni in rapporto a una tradizione diventata più diffidente e sospettosa<br />

nei riguardi della sessu<strong>al</strong>ità. Così, in rapporto <strong>al</strong> desiderio: là dove il desiderio era finito<br />

per essere percepito come cupidigia e per diventare oggetto di divieto (Es 20,17; Dt 7,25;<br />

Pr 6,25), il Cantico l’assume in pieno e ne fa l’elogio: «Tutto il suo essere è l’oggetto stesso<br />

del desiderio» (5,16). Stessa cosa in rapporto <strong>al</strong>la passione, vista un tempo come un rapporto<br />

di dominio (Gen 3,16) e celebrata qui con meraviglia: «Io sono per il mio diletto / e la sua<br />

brama è verso di me» (7,11). Rompendo anche con la diffidenza della sapienza tradizion<strong>al</strong>e<br />

circa i baci seduttori e le carezze (Pr 5,20; 7,13), il Cantico non nasconde la sua ammirazione<br />

per i gesti d’amore: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le sue carezze sono più dolci del<br />

vino...» (1,2; cfr. anche 1,4; 4,10; 7,13) 12 .<br />

La visione dell’amore umano che emerge d<strong>al</strong> Cantico si potrebbe riassumere in quattro affermazioni.<br />

1) L’amore umano è una re<strong>al</strong>tà profondamente, intrinsecamente bella e buona. Nel Cantico<br />

non si trova nessuna traccia di riserva, di sospetto o di compromesso. Il tono è in esso di<br />

ammirazione d<strong>al</strong>l’inizio <strong>al</strong>la fine. L’autore non cessa di esprimere l’eccellenza (è buono) e la<br />

bellezza (tutta l’insistenza sulla bellezza fisica) dell’amore umano nella sua dimensione sen-<br />

10<br />

D. LYS, Le Cantique des Cantiques. Pour une sexu<strong>al</strong>ité non ambiguë, in Lumière et Vie 28 (1979) 47.<br />

11<br />

R. J. TOURNAY, Quand Dieu parle aux hommes le langage de l’amour: études sur le cantique des Cantiques<br />

(CRB 21), Paris 1982, 5-6.<br />

12<br />

Cfr. F. RAURELL, Il piacere erotico nel Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in Lineamenti di antropologia biblica, Cas<strong>al</strong>e<br />

Monferrato 1986, 185-226.


Cantico <strong>dei</strong> Cantici 97<br />

su<strong>al</strong>e, carn<strong>al</strong>e e sessu<strong>al</strong>e. Tutti i suoi canti tendono a es<strong>al</strong>tare il piacere di amare, insito nell’innata<br />

bontà della creazione.<br />

2) L’amore umano rimane una re<strong>al</strong>tà terrena. L’autore del Cantico celebra un’avventura e<br />

una storia umana. Matrimonio e sessu<strong>al</strong>ità non derivano da un qu<strong>al</strong>unque archetipo divino e<br />

mitico. Sono due re<strong>al</strong>tà inserite nell’esistenza umana e il cui significato è da scoprire e da costruire<br />

come un progetto umano, che richiede tempo, ricerca di significato e libertà.<br />

3) L’esperienza amorosa è basata su una relazione di uguaglianza e di reciprocità. Gli<br />

studi biblici ispirati d<strong>al</strong> femminismo hanno giustamente sottolineato come il Cantico vada <strong>al</strong><br />

di là <strong>dei</strong> pregiudizi sessisti, particolarmente spiccati nell’Israele antico 13 . Ricordiamo i tratti<br />

princip<strong>al</strong>i che mettono in evidenza l’uguaglianza della donna e dell’uomo nel Cantico. La<br />

donna ha la prima e l’ultima parola nel libro. Non è certo per caso. Essa ha l’iniziativa e la<br />

conserva durante tutto il di<strong>al</strong>ogo. Poi, contrariamente <strong>al</strong>le poesie antiche che celebrano l’amore,<br />

il Cantico non descrive il corpo e la bellezza della donna soltanto, ma anche dell’uomo. E<br />

infine, la donna ha tutto lo spazio desiderato per affermare il suo desiderio. Preso nel suo insieme,<br />

il Cantico è quindi una mirabile illustrazione dell’unità origin<strong>al</strong>e e dell’uguaglianza voluta<br />

da Dio per le relazioni tra l’uomo e la donna.<br />

4) L’amore trova in se stesso la propria giustificazione. Il Cantico non finisce di stupire. Se<br />

tratta intensamente dell’amore umano, non si parla m<strong>ai</strong> del matrimonio e della procreazione.<br />

Parla molto semplicemente di due amanti. Certo, si può vedere in questo il fondamento del<br />

matrimonio, ma è importante rispettare quest’<strong>al</strong>tro silenzio del Cantico. L’amore umano non<br />

ha qui bisogno di essere incorniciato: rimane la re<strong>al</strong>tà più bella e merita di essere continuamente<br />

riscoperto e reinventato.<br />

4.3. UNA PARABOLA DELL’AMORE DIVINO<br />

Questa è l’origin<strong>al</strong>ità del Cantico: celebrando l’amore umano in tutta la sua grandezza,<br />

l’autore ci trasmette la più bella parabola dell’Amore divino. Se l’amore umano è così bello e<br />

così grande è perché porta in sé un mistero più grande: quello dell’amore divino. In <strong>al</strong>tre parole,<br />

l’amore umano così come descritto nel Cantico diventa un luogo teologico, rivelatore del<br />

modo in cui Dio ama. Conoscere l’amore umano così come descritto nel Cantico significa conoscere<br />

qu<strong>al</strong>cosa di Dio: «E chi non vedrebbe chiaro in questo specchio luminoso: ecco come<br />

ama il Dio dell’<strong>al</strong>leanza, con questa passione, questa impazienza e questa gioia» 14 . D’<strong>al</strong>tra<br />

parte, se Dio ama come si ama nel Cantico, la parabola può anche essere rivolta verso di noi.<br />

L’amore umano ha quindi la sua fonte e la sua ispirazione nell’amore stesso di Dio. Eros ha la<br />

sua fonte nell’Agape.<br />

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />

Nell’abbondante letteratura sul Cantico sarebbe opportuno anzitutto selezionare le opere che, per<br />

qu<strong>al</strong>ità, per la disamina esaustiva <strong>dei</strong> problemi, l’equilibrio nella presentazione tematica, l’origin<strong>al</strong>ità<br />

<strong>dei</strong> punti di vista o perché rappresentano una pietra miliare nella storia della ricerca, offrono un <strong>ai</strong>uto<br />

insostituibile e un punto di riferimento per chi le legge per curiosità o qu<strong>al</strong>sivoglia esigenza. Ho scelto<br />

sette commenti:<br />

ROBERT, A. - TOURNAY, R. - FEUILLET, A., Le Cantique des Cantiques, Paris 1963.<br />

È un classico dell’interpretazione <strong>al</strong>legorica pubblicato da Tournay otto anni dopo la morte di Robert,<br />

il suo princip<strong>al</strong>e ispiratore e autore. La traduzione e il commento occupano le pp. 61-329. La critica<br />

testu<strong>al</strong>e e la critica letteraria sono esposte con maestria ed erudizione. Uno degli aspetti più preziosi<br />

dell’opera è costituito d<strong>al</strong>la sezione dedicata <strong>ai</strong> «par<strong>al</strong>leli non biblici», opera di Tournay (pp. 339-<br />

13 POPE, The Song ot Songs, 205-210.<br />

14 G. CASALIS, Le (bon) pl<strong>ai</strong>sir d’<strong>ai</strong>mer, in Une chant d’amour insolite: le Cantique des Cantiques, Paris<br />

1984, 21-22.


98 Cantico <strong>dei</strong> Cantici<br />

426): Egitto, Mesopotamia e area siro-fenicia (Sumer, Assiria-Babilonia, Ugarit), cultura ellenistica,<br />

mondo giud<strong>ai</strong>co, arabo ed Etiopia.<br />

RUDOLPH, W., Das Buch Ruth. Das Hohe Lied. Die Klagelieder (KAT 17/1-3), Gütersloh 1962.<br />

Il Cantico <strong>dei</strong> cantici occupa le pp. 73-186, suddivise in due parti: introduzione (pp. 77-120) e traduzione<br />

e commento (pp. 121-186). Lo stile espositivo di Rudolph si distingue per la chiarezza, l’ordine,<br />

il rigore scientifico e il costante riferimento <strong>al</strong>le letterature affini. Ragguardevole è il ragionato e<br />

ragionevole equilibrio nell’esposizione <strong>dei</strong> temi. Il commento si segn<strong>al</strong>a per l’ottimo apparato critico,<br />

probabilmente il migliore oggi disponibile. Manca uno studio della retorica del Cantico. Un’edizione<br />

riveduta con una maggiore attenzione per gli aspetti letterari e con un’appendice sulla poesia d’amore<br />

egiziana e mesopotamica renderebbero quest’opera il miglior commento disponibile.<br />

KRINETZKI, L., Das Hohe Lied, Düsseldorf 1964.<br />

L’opera consta essenzi<strong>al</strong>mente di tre parti: introduzione (pp. 21-82), commento (pp. 85-257), testimonianza<br />

del Cantico (pp. 261-290), una serie di capitoletti su vari temi. In gener<strong>al</strong>e si tratta di<br />

un’opera di consultazione imprescindibile, in particolare per quanto riguarda la forma poeticoletteraria<br />

del Cantico (pp. 46-82), una sezione dell’introduzione cui si riferiscono necessariamente tutti<br />

gli studiosi. Krinetzki non ha tuttavia saputo liberarsi da un’interpretazione <strong>al</strong>legorica che in certi casi<br />

non fa che ostacolarne le riflessioni sul v<strong>al</strong>ore dell’amore umano come appare nel Cantico e rendere<br />

oscuro l’ottimo e chiaro sviluppo dell’esposizione.<br />

GERLEMANN, G., Ruth. Das Hohelied (BK 18), Neukirchen/Vluyn 1965.<br />

Il commento <strong>al</strong> Cantico occupa le pp. 43-235. L’opera è composta fondament<strong>al</strong>mente di due parti:<br />

introduzione (pp. 43-92) e commento (pp. 93-223) e un breve excursus sulla lirica del Cantico (pp.<br />

224-227). Il tutto è elaborato con sobrietà e profondità. In particolare spicca l’an<strong>al</strong>isi della forma letteraria,<br />

delle versioni <strong>dei</strong> LXX e della Peshitta e del v<strong>al</strong>ore teologico del Cantico. Nel commento vero e<br />

proprio, anche se povero nello studio del versante poetico, una povertà m<strong>al</strong>auguratamente condivisa da<br />

quasi tutti i commenti moderni, assume particolare rilievo lo studio del testo ebr<strong>ai</strong>co.<br />

POPE, M.H., Song of Songs (AB 7c), New York 1977.<br />

Da questo voluminoso commento <strong>al</strong> Cantico si ricava l’impressione che l’autore non abbia voluto<br />

tr<strong>al</strong>asciare assolutamente nulla. L’opera si compone essenzi<strong>al</strong>mente di tre parti: introduzione (pp. 17-<br />

229), bibliografie (pp. 233-288), traduzione e note (pp. 291-701). Una serie di indici (pp. 703-743)<br />

completa l’opera. Nell’introduzione si segn<strong>al</strong>ano la buona disamina, per quanto breve, delle versioni<br />

del Cantico; lo studio del par<strong>al</strong>lelismo; la presentazione del cosiddetto «Cantico <strong>dei</strong> cantici indiano»<br />

(Gītagovinda); l’interpretazione del Targum e la sezione intitolata «Il Cantico <strong>dei</strong> cantici e la liberazione<br />

della donna». Uno <strong>dei</strong> contributi di maggiore origin<strong>al</strong>ità è il rapporto stabilito d<strong>al</strong>l’autore tra <strong>al</strong>cuni<br />

elementi del Cantico e i culti funerari del Vicino Oriente Antico, feste d’amore r<strong>al</strong>legrate da vino,<br />

donne e canti (pp. 210-229). Considerevole, inoltre, è la conoscenza che l’autore dimostra delle culture<br />

vicine a Israele (Ugarit, Egitto, Mesopotamia). I punti deboli del commento sono individuabili nel costante<br />

disordine espositivo e nella scarsa sensibilità letteraria dell’autore, carenza sorprendente nel<br />

commento di un’opera di così elevata qu<strong>al</strong>ità poetica.<br />

FOX, M.V., The Song of Songs and the Egyptian Love Songs, Wisconsin 1985.<br />

L’opera si compone di due parti: traduzione e commento (pp. 3-177); esposizione letteraria<br />

dell’amore (pp. 181-331). Nella prima, articolata in due capitoli (1-2), l’autore traduce e commenta i<br />

poemi amorosi egiziani e il Cantico <strong>dei</strong> cantici, con una buona e utile an<strong>al</strong>isi testu<strong>al</strong>e, in particolare per<br />

quanto concerne i papiri egiziani. La seconda parte è suddivisa in sei capitoli (3-8), <strong>al</strong>cuni <strong>dei</strong> qu<strong>al</strong>i<br />

dedicati ad aspetti letterari trascurati da <strong>al</strong>tri commentatori. Nel terzo capitolo Fox affronta il problema<br />

del linguaggio, la data di composizione e il contesto storico sia <strong>dei</strong> canti d’amore egiziani sia del Cantico;<br />

il quarto è intitolato «Composizione delle fonti e i Canti» (cioè i canti egiziani e il Cantico); nel<br />

quinto considera la funzione delle due serie di poemi e il loro ambiente soci<strong>al</strong>e; il sesto capitolo è intitolato<br />

«Chi parla e come? Voce e modi di presentazione» ed è incentrato sui caratteri drammatici e sui<br />

tipi di discorso; il settimo capitolo affronta i temi princip<strong>al</strong>i <strong>dei</strong> due tipi di canzoni; l’ottavo s’intitola<br />

«Amore e amanti nei canti d’amore». L’opera è completata da illustrazioni, appendici e bibliografia.<br />

M<strong>al</strong>grado i rischi impliciti nelle opere comparative – non è m<strong>ai</strong> possibile spiegare una manifestazione<br />

letteraria di una cultura determinata a partire da modelli cultur<strong>al</strong>i stranieri – questo è un ottimo lavoro<br />

d’indiscutibile utilità per chi ha affrontato in precedenza uno studio dedicato esclusivamente <strong>al</strong> Cantico.


Cantico <strong>dei</strong> Cantici 99<br />

GARBINI, G., Cantico <strong>dei</strong> cantici. Testo, traduzione, note e commento, Brescia 1992.<br />

Il volume (di 358 pagine) consta di tre parti: il testo – dove sono riprodotte e messe a confronto le<br />

più importanti testimonianze del Cantico: il testo masoretico; il frammento ebr<strong>ai</strong>co di Qumran; le varianti<br />

<strong>dei</strong> manoscritti ebr<strong>ai</strong>ci mediev<strong>al</strong>i; le versioni greche <strong>dei</strong> Settanta e di Aquila, Simmaco, Teodozione;<br />

il cosiddetto codice Ebr<strong>ai</strong>co; la Vetus Latina e la Vulgata; infine la versione siriaca della Peshitta<br />

–, l’interpretazione del testo, il significato del Cantico. L’autore, come precisa a conclusione della<br />

breve introduzione, ha cercato in quest’opera, senza dubbio la più significativa degli studi it<strong>al</strong>iani dedicati<br />

<strong>al</strong> Cantico, «di dare una risposta a... che cosa rappresenti in re<strong>al</strong>tà il Cantico <strong>dei</strong> cantici nella cultura<br />

ebr<strong>ai</strong>ca antica» (p. 19). Ricostruito il testo con rigoroso metodo filologico, si passa <strong>al</strong> commento,<br />

mirante a chiarire il significato letter<strong>al</strong>e e il v<strong>al</strong>ore poetico <strong>dei</strong> componimenti formanti il Cantico, e,<br />

infine, sono affrontati i più importanti problemi – datazione, struttura, le donne, l’amore, la Sapienza,<br />

ecc. – posti d<strong>al</strong> libro biblico, <strong>al</strong>largando l’attenzione <strong>al</strong>l’epoca neotestamentaria, a Simone il Mago e<br />

ad <strong>al</strong>tre figure gnostiche.<br />

Inoltre, in it<strong>al</strong>iano, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />

NOLLI, G., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici (SBT), Torino 1967.<br />

COLOMBO, D., Cantico <strong>dei</strong> Cantici (NVB 21), Roma 1970.<br />

LAURENTINI, G., Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong><br />

<strong>al</strong>la Bibbia 3), Bologna 1978, 405-422.<br />

MANNUCCI, V., Sinfonia dell’amore spons<strong>al</strong>e. Il Cantico <strong>dei</strong> cantici, Torino 1982.<br />

COLOMBO, D., Cantico <strong>dei</strong> Cantici (LoB 1.16), Brescia 1985.<br />

RAURELL, F., Il piacere erotico nel Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in IDEM, Lineamenti di antropologia biblica,<br />

Cas<strong>al</strong>e Monferrato 1986, 185-226.<br />

RAVASI, G., Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988,<br />

237-245.<br />

ALONSO SCHÖKEL, L., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici. La dignità dell’amore, Cas<strong>al</strong>e Monferrato 1990.<br />

RAVASI, G., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici. Commento e attu<strong>al</strong>izzazione, Bologna 1992.<br />

MURPHY, R.E., Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 602-607.<br />

MORLA ASENSIO, V., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo<br />

studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 364-392.<br />

BONORA, A., Cantico <strong>dei</strong> Cantici, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti<br />

(Logos 4), Torino-Leumann 1997, 135-146.<br />

REALI, A.V., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici. Trasposizione poetica d<strong>al</strong>l’ebr<strong>ai</strong>co, Castel Maggiore (BO) 1999.<br />

BARBIERO, G., Il Cantico <strong>dei</strong> Cantici (I libri biblici. Primo Testamento 24), Milano 2004.


SIRACIDE *<br />

1. PRESENTAZIONE D’INSIEME<br />

Con il Siracide passiamo d<strong>al</strong>la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca <strong>al</strong>la traduzione greca cosiddetta «<strong>dei</strong> Settanta»<br />

(ma anche «la Settanta»). Questa traduzione della Bibbia venne re<strong>al</strong>izzata, a partire d<strong>al</strong> III<br />

secolo a.C., d<strong>al</strong>la comunità giud<strong>ai</strong>ca di Alessandria, in Egitto. Il suo scopo continua a essere<br />

oggetto di discussione: se per far riconoscere d<strong>al</strong>l’autorità <strong>dei</strong> Lagidi, che governavano il paese,<br />

i libri regolatori della vita della comunità giud<strong>ai</strong>ca, oppure se per facilitare l’accesso <strong>dei</strong><br />

libri santi a quei giu<strong>dei</strong> <strong>al</strong>essandrini che non parlavano più l’ebr<strong>ai</strong>co. Comunque sia, una caratteristica<br />

della Bibbia <strong>al</strong>essandrina è che essa contiene <strong>dei</strong> libri che la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca non accoglie.<br />

In particolare, <strong>ai</strong> tre libri sapienzi<strong>al</strong>i della Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca, la traduzione <strong>dei</strong> Settanta<br />

aggiunse in greco la Sapienza di Ben Sira e la Sapienza di S<strong>al</strong>omone.<br />

1.1. DI QUALI TESTI DISPONIAMO?<br />

1.1.1. L’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co<br />

La Sapienza di Ben Sira passò per sorprendenti metamorfosi. In origine fu scritta in ebr<strong>ai</strong>co.<br />

Lo dice il Prologo della versione greca (Prologo, versetto 22). Alcuni Padri della Chiesa,<br />

per esempio Girolamo, Ilario di Poitiers, Epifano, lo sapevano. Gli scritti rabbinici ne avevano<br />

già citato questo o quel versetto. Ma il testo in ebr<strong>ai</strong>co era considerato perduto fino <strong>al</strong> 1896,<br />

quando S. Schechter, a Cambridge, ne identificò un foglio proveniente d<strong>al</strong> deposito (ghenizà)<br />

della sinagoga <strong>dei</strong> Car<strong>ai</strong>ti del Vecchio C<strong>ai</strong>ro, in Egitto. A quella scoperta, <strong>al</strong>tre seguirono, fino<br />

<strong>al</strong> 1900. In quella data erano stati ritrovati quasi i due terzi del testo ebr<strong>ai</strong>co. Alcuni complementi<br />

vennero riportati <strong>al</strong>la luce fino <strong>al</strong> 1982. Al momento si dispone così di sei manoscritti<br />

dell’XI secolo, ma molto frammentari e ass<strong>ai</strong> deteriorati, i qu<strong>al</strong>i però, messi insieme, danno<br />

princip<strong>al</strong>mente il testo ebr<strong>ai</strong>co di Sir 3,6–16,26 (manoscritto A) e Sir 30,11–51,30 (quasi per<br />

intero, grazie soprattutto <strong>al</strong> manoscritto B).<br />

C’è chi ha dubitato dell’autenticità di questi testi: non potrebbero essere delle retroversioni<br />

in ebr<strong>ai</strong>co, sulla base del testo greco o della versione siriaca? La risposta venne d<strong>al</strong>le scoperte<br />

di Qumran e della fortezza giud<strong>ai</strong>ca di Masada, sulla riva occident<strong>al</strong>e del mar Morto. Fra il<br />

1956 e il 1964 vi furono scoperti <strong>dei</strong> frammenti in ebr<strong>ai</strong>co del libro di Ben Sira, che per forza<br />

sono anteriori <strong>al</strong> disastro in cui finì la rivolta giud<strong>ai</strong>ca contro i Romani, cioè anteriori <strong>al</strong> 68<br />

d.C. per Qumran e <strong>al</strong> 73 per Masada. Ebbene, questi testi confermano quelli ritrovati nella sinagoga<br />

del Vecchio C<strong>ai</strong>ro.<br />

Sono scoperte d’importanza fondament<strong>al</strong>e per conoscere il messaggio origin<strong>al</strong>e del nostro<br />

autore. E tuttavia, le condizioni <strong>dei</strong> manoscritti ritrovati non permettono ancora, <strong>al</strong> momento,<br />

d’avere un buon testo ebr<strong>ai</strong>co della Sapienza di Ben Sira. Un terzo del libro continua a mancare,<br />

e anche i testi recuperati non sono delle copie accurate. Confrontandoli con le versioni greca<br />

e siriaca, entrambe fatte su un testo ebr<strong>ai</strong>co di Ben Sira, gli esegeti hanno tentato di ricostruire<br />

l’origin<strong>al</strong>e. Il confronto ha anche permesso loro di riscontrare, nei manoscritti ritrovati,<br />

<strong>dei</strong> doppioni, delle aggiunte, senza poi contare gli errori <strong>dei</strong> copisti. Ma ci torneremo.<br />

1.1.2. La versione greca<br />

Il Prologo del libro in greco venne redatto d<strong>al</strong> nipote dell’autore. Arrivato in Egitto nel 132<br />

a.C. (vedi Prologo, versetto 27), costui lì scoprì l’opera del suo avo e decise di tradurla in greco.<br />

Pare che il lavoro gli abbia preso una decina d’anni. Le difficoltà non mancavano (Prologo,<br />

versetti 15-26): non è agevole trasporre il genio di una lingua in un’<strong>al</strong>tra!<br />

* M. GILBERT, La Sapienza del cielo, Cinisello B<strong>al</strong>samo 2005, 137-147; A. BONORA, Siracide, in A. BONORA<br />

- M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4), Torino-Leumann 1997, 90-96.


Siracide 101<br />

In genere si dà credito a questo Prologo, e il confronto, orm<strong>ai</strong> possibile, fra l’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co<br />

e la versione greca permette d’intuire tutto un lavoro di trasposizione, perfino d’adattamento<br />

<strong>al</strong>le circostanze nuove, fatto d<strong>al</strong> traduttore con grande intelligenza, sebbene poi più<br />

d’una volta, come pare, gli sia stato difficile ben capire l’ebr<strong>ai</strong>co del nonno.<br />

Resta il fatto che questa versione greca (ed. A. Rahlfs, 1935) è <strong>al</strong> momento il miglior testimone<br />

testu<strong>al</strong>e dell’opera di Ben Sira, ed è essa che traducono le nostre Bibbie moderne. Qui<br />

il testo è completo, mentre dell’ebr<strong>ai</strong>co abbiamo soltanto un testo frammentario. Inoltre, questa<br />

versione greca venne trasmessa con grande cura. Prova ne è l’eccellenza <strong>dei</strong> manoscritti<br />

onci<strong>al</strong>i – cioè in lettere greche m<strong>ai</strong>uscole – del IV secolo. Si tratta soprattutto <strong>dei</strong> manoscritti<br />

cosiddetti Vaticano, conservato nella Biblioteca vaticana, e Sin<strong>ai</strong>tico, attu<strong>al</strong>mente <strong>al</strong> British<br />

Museum di Londra. Sia l’uno che l’<strong>al</strong>tro danno, di questo libro, come degli <strong>al</strong>tri libri biblici,<br />

un testo greco di qu<strong>al</strong>ità, quello precisamente che traducono le più note Bibbie. Di fatto, il loro<br />

testo sembra provenire d<strong>al</strong>la scuola che Origene aveva creato a Cesarea nel III secolo.<br />

1.1.3. Un’edizione riveduta e con aggiunte<br />

Nell’epoca bizantina, <strong>al</strong>cuni manoscritti trasmettono, a partire d<strong>al</strong> IX secolo, un’<strong>al</strong>tra versione<br />

greca dell’opera di Ben Sira, ma scritta questa volta in caratteri minuscoli (ed. J. Ziegler,<br />

1965). Ebbene, questo testo differisce da quello <strong>dei</strong> grandi manoscritti onci<strong>al</strong>i del IV secolo<br />

per modifiche che incidono anche sul senso stesso delle frasi e per un certo numero di<br />

aggiunte – si contano 135 stichi, o righe – che orientano il testo in una direzione nuova e presumono<br />

una teologia più recente di quella di Ben Sira e del nipote.<br />

Tuttavia, queste modifiche e aggiunte non p<strong>ai</strong>ono d’una sola mano. I manoscritti greci non<br />

le trasmettono sempre <strong>al</strong>la stessa maniera. In più, <strong>al</strong>cune comp<strong>ai</strong>ono anche nei frammenti ebr<strong>ai</strong>ci<br />

(per esempio in Sir 11,15-16; 16,15-16), ma anche nella versione siriaca, chiamata Peshitta,<br />

che ne riporta a sua volta <strong>al</strong>tre ancora (ad esempio, in Sir 1,22-27), o anche nell’antica<br />

versione latina, cosiddetta Vetus Latina, che però traduce da un testo greco. Queste osservazioni<br />

inducono a pensare che il libro di Ben Sira sia stato fatto oggetto di una rilettura non<br />

omogenea ma pluriforme, per un periodo che va dagli anni 80 a.C. a tutto il I secolo d.C. La<br />

maggior parte delle modifiche e aggiunte potrebbe essere d’origine ebr<strong>ai</strong>ca, per<strong>al</strong>tro difficile<br />

da individuare; ma non tutte, dato che <strong>al</strong>cune sembrano ispirarsi <strong>al</strong>la cultura greca. In ogni caso,<br />

ben poche sono d’origine cristiana: nei casi in cui potrebbe parere, bisogna dimostrare che<br />

il testo non può provenire d<strong>al</strong> giud<strong>ai</strong>smo.<br />

1.1.4. L’antica versione latina<br />

Venne fatta nell’Africa cristiana – attu<strong>al</strong>i Algeria e Tunisia –, <strong>al</strong>la fine del II secolo, sulla<br />

base d’un testo greco già arricchito d’aggiunte. Questa versione è arrivata fino a noi, perché<br />

Girolamo, sulla svolta fra il IV e il V secolo, non volle ritradurre in latino un testo che non faceva<br />

parte della Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca. Ma questa Vetus Latina finì per entrare nella Vulgata, probabilmente<br />

già <strong>al</strong>la fine del V secolo, ed è ancora essa che si ritrova, appena ritoccata, nella Nova<br />

Vulgata che Paolo VI aveva chiesto <strong>al</strong>la fine del Concilio Vaticano II e che venne pubblicata<br />

nel 1979.<br />

1.1.5. La versione siriaca<br />

Potrebbe datarsi intorno <strong>al</strong> 300 e sarebbe opera d’un cristiano che traduce da un testo ebr<strong>ai</strong>co<br />

della Sapienza di Ben Sira. Se egli ebbe accesso, come pare, <strong>al</strong>l’opera nel suo stato originario<br />

in ebr<strong>ai</strong>co, pare però anche si sia servito di un’edizione ebr<strong>ai</strong>ca rimaneggiata. Fu un<br />

lavoro difficile, e probabilmente il traduttore non era intenzionato a seguire scrupolosamente i<br />

testi ebr<strong>ai</strong>ci di cui disponeva. In questa versione, gli adattamenti sono innumerevoli.


102 Siracide<br />

Da tutto ciò possiamo ben vedere quanto l’approccio <strong>al</strong>la Sapienza di Ben Sira sia complesso.<br />

L’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co non ci è stato trasmesso nei modi soliti. Del testo possediamo poi<br />

due versioni, una corta e una lunga. L’origine di quest’ultima è sconosciuta.<br />

1.2. LA TRASMISSIONE DEL LIBRO<br />

Nel giud<strong>ai</strong>smo antico la Sapienza di Ben Sira era stata apprezzata, fino a quando, intorno<br />

agli anni 100 d.C., Aquiba ne vietò la lettura. Prima d’<strong>al</strong>lora la si citava, la si tradusse in greco,<br />

se ne fece una nuova edizione rimaneggiata e a Qumran la leggevano.<br />

Nel IV secolo il divieto di Aquiba venne rimesso in discussione e l’opera di Ben Sira in ebr<strong>ai</strong>co<br />

fu di nuovo letta, fino <strong>al</strong>l’arrivo del T<strong>al</strong>mud nel VI secolo. Di nuovo abbandonata, non<br />

ricomparve che nella setta giud<strong>ai</strong>ca <strong>dei</strong> Car<strong>ai</strong>ti. È probabile che costoro ne avessero trovato un<br />

esemplare in una delle grotte di Qumran, scoperte, come si sa, un poco prima dell’anno 800.<br />

Si spiegherebbe così l’origine <strong>dei</strong> frammenti ebr<strong>ai</strong>ci ritrovati <strong>al</strong> C<strong>ai</strong>ro. Ma questa ricomparsa<br />

fu soltanto momentanea.<br />

Nel cristianesimo. Non si può documentare che il Nuovo Testamento abbia utilizzato la<br />

Sapienza di Ben Sira. Eppure, sono stati i cristiani, senza discontinuità, a trasmettercela nelle<br />

varie lingue.<br />

In greco. Già abbiamo detto che il testo breve tradotto in greco ci è pervenuto attraverso i<br />

grandi manoscritti onci<strong>al</strong>i <strong>dei</strong> Settanta, del IV secolo, e che il testo lungo comparve invece in<br />

manoscritti bizantini scritti in minuscolo. Tuttavia, questa duplice versione del testo greco si<br />

lascia intuire già nei Padri greci. Alcuni utilizzano il testo lungo: per esempio Clemente<br />

d’Alessandria, <strong>al</strong>l’inizio del III secolo, e Giovanni Crisostomo, nel IV secolo. Altri si attengono<br />

invece <strong>al</strong> testo corto, come Didimo il Cieco, di Alessandria, ancora nel IV secolo.<br />

In latino. La versione latina trasmette il testo lungo ed è perciò quello che di norma citano i<br />

Padri latini; il primo fu Cipriano di Cartagine, nel III secolo. Ma vi sono due eccezioni: Girolamo<br />

citò Ben Sira un’ottantina di volte, ma traducendo in latino un testo greco di tipo corto, e<br />

qu<strong>al</strong>che volta anche Agostino fece la stessa cosa, benché in genere egli citi il testo lungo della<br />

Vetus Latina.<br />

In siriaco. La versione siriaca, la Peshitta, è trasmessa da molti manoscritti, l’uno o l’<strong>al</strong>tro<br />

<strong>dei</strong> qu<strong>al</strong>i è stato anche edito, ma un’edizione critica di questa versione si dimostra un’impresa<br />

t<strong>al</strong>e che ancora nessuno è riuscito a portarla a termine. Questa versione fu a sua volta tradotta<br />

in arabo fin d<strong>al</strong> Medioevo in due forme diverse, che molti manoscritti ci trasmettono. Una<br />

d’esse si trova nelle Bibbie poliglotte di Parigi e di Londra, edite nel XVII secolo.<br />

Il cristianesimo, sia occident<strong>al</strong>e che orient<strong>al</strong>e, ha dunque trasmesso e citato la Sapienza di<br />

Ben Sira, in traduzioni, utilizzando ora il testo corto e ora il testo lungo.<br />

1.3. L’AUTORITÀ DEL LIBRO<br />

1.3.1. Nel giud<strong>ai</strong>smo<br />

Nonostante l’interesse dimostrato in certe epoche e in t<strong>al</strong>uni ambienti per il libro di Ben Sira,<br />

il giud<strong>ai</strong>smo non lo riconobbe m<strong>ai</strong> come un libro sacro. Nella Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca dunque non<br />

c’è: non ci fu m<strong>ai</strong> e perciò m<strong>ai</strong> ne è stato tolto. Il giud<strong>ai</strong>smo <strong>al</strong>essandrino ne conobbe la versione<br />

greca; e tuttavia dobbiamo chiederci se la raccolta fatta d<strong>ai</strong> Settanta <strong>dei</strong> libri biblici in<br />

greco, in cui anche la versione greca del nipote di Ben Sira venne inclusa, non sia stata essenzi<strong>al</strong>mente<br />

un’iniziativa cristiana: i nostri grandi manoscritti onci<strong>al</strong>i <strong>dei</strong> Settanta ris<strong>al</strong>enti <strong>al</strong> IV<br />

secolo sono d’origine cristiana.<br />

1.3.2. Nel cristianesimo<br />

Un libro canonico? Nella Chiesa latina, la Sapienza di Ben Sira, chiamata (libro) Ecclesiastico<br />

a motivo dell’uso che se ne faceva nelle comunità ecclesi<strong>al</strong>i, a profitto forse <strong>dei</strong> catecu-


Siracide 103<br />

meni, venne accolta, pare, senza problemi, e nessuno dovrà perciò stupirsi di vederla citata nel<br />

canone delle Scritture fissato nel Concilio d’Ippona del 393, cui assisteva anche Agostino, e<br />

poi nei Concili di Cartagine del 397 e del 419, come pure nella lettera che papa Innocenzo I<br />

inviò nel 405 <strong>al</strong> vescovo di Tolosa, Esupero.<br />

In Oriente le cose furono più complicate, a causa probabilmente della vicinanza con le comunità<br />

ebr<strong>ai</strong>che, la cui Bibbia non comprendeva l’opera di Ben Sira. Già nel 170 il problema<br />

viene sollevato da Melitone di Sardi, che porta in P<strong>al</strong>estina una lista di libri biblici in cui Ben<br />

Sira non appare. All’inizio del III secolo, <strong>al</strong> contrario, Clemente d’Alessandria ammette l’autorità<br />

scritturistica della versione greca di Ben Sira, e verso il 240 Origene riconosce la differenza<br />

che c’è fra la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca e l’Antico Testamento cristiano: nel di<strong>al</strong>ogo fra ebrei e cristiani<br />

non si utilizzeranno perciò che i libri ammessi d<strong>ai</strong> primi; anche se ciò non deve indurre<br />

a eliminare d<strong>al</strong>le nostre Bibbie cristiane i libri che il giud<strong>ai</strong>smo non riconosce come Scrittura.<br />

La stessa differenza è percepita, ancora nel IV secolo, da Cirillo di Gerus<strong>al</strong>emme e Atanasio<br />

d’Alessandria, i qu<strong>al</strong>i non sanno bene qu<strong>al</strong>e collocazione dare <strong>ai</strong> libri che i Settanta avevano<br />

aggiunto <strong>al</strong>la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca, come la Sapienza di Ben Sira e la Sapienza di S<strong>al</strong>omone. Ma per<br />

Giovanni Crisostomo e <strong>al</strong>tri, Ben Sira fa parte delle Scritture. A Betlemme, Girolamo, deciso<br />

a tradurre in latino soltanto la Bibbia ebr<strong>ai</strong>ca, esclude apertamente l’autorità canonica della<br />

Sapienza di Ben Sira e della Sapienza di S<strong>al</strong>omone, ma poi si comporta diversamente da questa<br />

presa di posizione chiara e netta: a partire d<strong>al</strong> 404 gli accade di citare come Scrittura un<br />

versetto di Ben Sira, e così pure la Sapienza di S<strong>al</strong>omone. L’influenza di Girolamo fu duratura.<br />

Nel Medioevo, se Tommaso d’Aquino ammette la canonicità di Ben Sira e della Sapienza<br />

di S<strong>al</strong>omone, a motivo dell’uso corrente che ne fanno le Chiese, il grande commentatore Nicola<br />

di Lira la esclude. Le esitazioni perdurano in Occidente per tutto il XV e il XVI secolo,<br />

dato che il mistico Dionigi il Certosino e il cardin<strong>al</strong>e Caetano, rifiutano la canonicità di tutti i<br />

libri aggiunti d<strong>ai</strong> Settanta, dunque anche di Ben Sira. Con Lutero e C<strong>al</strong>vino, la Riforma protestante<br />

farà lo stesso, mentre nel 1545 il Concilio di Trento confermerà solennemente la lista<br />

<strong>dei</strong> libri canonici riconosciuti d<strong>al</strong>la Chiesa cattolica: l’opera di Ben Sira è fra essi.<br />

Oggi la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse includono la Sapienza di Ben Sira, come anche<br />

la Sapienza di S<strong>al</strong>omone, nel canone delle Scritture. Le comunità della Riforma le escludono.<br />

Tuttavia, l’Antico Testamento della Traduzione ecumenica della Bibbia, pubblicato nel<br />

1975, gli riserva un posto fra i libri aggiunti d<strong>ai</strong> Settanta e che sono chiamati «deuterocanonici».<br />

Ma qu<strong>al</strong>e testo di Ben Sira un cattolico deve ritenere canonico? La domanda pare pertinente,<br />

dato che l’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co non ci venne trasmesso nelle forme solite; ci sono poi versioni<br />

differenti e, infine, il testo si presenta sotto due forme, una corta e l’<strong>al</strong>tra lunga. A mio parere,<br />

la risposta è questa: la Chiesa cattolica non ha m<strong>ai</strong> definito la lingua né la forma, breve o lunga,<br />

del libro di Ben Sira, come, per<strong>al</strong>tro, di nessuno <strong>dei</strong> libri che essa ammette nel canone. La<br />

tradizione ecclesi<strong>al</strong>e è la prova, come minimo, che su questi due punti la Chiesa non intende<br />

prendere posizione, s<strong>al</strong>vo a dire che non si può escludere la forma lunga della Volgata. Lo si<br />

desume da una decisione del Concilio di Trento, che aveva anche richiesto una buona edizione<br />

<strong>dei</strong> Settanta, la qu<strong>al</strong>e venne effettivamente pubblicata nel 1587: lì il testo è quello del manoscritto<br />

Vaticano, cioè il testo corto! Nessuno perciò si stupirà di vedere le Bibbie moderne,<br />

cattoliche o ecumeniche, scegliere fra testi diversi. E neppure, a mio parere, si può escludere<br />

la canonicità, o perlomeno l’ispirazione, del testo ebr<strong>ai</strong>co, nei limiti in cui è recuperabile.<br />

1.4. LA PERSONALITÀ DI BEN SIRA<br />

1.4.1. Il suo nome<br />

Fra i sapienti di cui il nostro Antico Testamento conserva gli scritti, è il solo di cui conosciamo<br />

il nome d<strong>al</strong>la stessa sua opera. In greco viene chiamato «Gesù, figlio di Sira», da cui<br />

Gesù Ben Sira (vedi Prologo, versetto 7; Sir 50,27 e la firma, dopo 51,30). Gesù dev’essere il<br />

nome e Ben Sira il cognome, cioè il nome della famiglia. Questi venne tradotto in maniera da


104 Siracide<br />

indicare anche il titolo del libro: il Siracide. In ebr<strong>ai</strong>co, il manoscritto B del C<strong>ai</strong>ro chiama<br />

l’autore «Simone, figlio di Gesù...», ma in genere si dà maggior credito <strong>al</strong>la tradizione greca.<br />

1.4.2. La sua datazione<br />

Se il nipote tradusse l’opera a partire d<strong>al</strong> 132 e il nonno non scrisse il libro che verso la fine<br />

della sua carriera (vedi Prologo, versetti 7-12), possiamo presumere che l’autore compose<br />

il libro durante il primo quarto del II secolo a.C. e dovette nascere verso la metà del III secolo,<br />

nell’epoca in cui insegnava Qohèlet.<br />

Ciò pare confermato ancora da <strong>al</strong>tri indizi. In primo luogo, nell’opera di Ben Sira non si<br />

trova <strong>al</strong>cuna <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la crisi provocata d<strong>al</strong>l’ellenizzazione a oltranza di Antioco IV nel 167<br />

a.C., cui si erano fieramente opposti i Maccabei. In secondo luogo, l’elogio del sommo sacerdote<br />

Simone il Giusto (Sir 50,1-21) suppone la morte di costui; ebbene, egli morì certamente<br />

dopo il 198, probabilmente verso il 187. Infine, il testo ebr<strong>ai</strong>co di Sir 50,24 ancora non sa che<br />

la discendenza del sacerdote Simone perderà il supremo sacerdozio nel 172, con l’ascesa di<br />

Menelao (2Mac 4,23-29); la versione greca dunque modificò il testo, dato che le circostanze<br />

non avevano permesso che l’auspicio dell’avo si re<strong>al</strong>izzasse.<br />

1.4.3. Il contesto storico<br />

Gesù Ben Sira era maestro di sapienza a Gerus<strong>al</strong>emme. La Giudea e la Samaria facevano<br />

parte d’una regione, la Celesiria, che si trovava, nel III secolo a.C., sotto la dominazione <strong>dei</strong><br />

Lagidi d’Egitto. Concupita d<strong>ai</strong> Seleucidi d’Antiochia per il denaro che l’imposta avrebbe procurato,<br />

nel 198 a.C. finì per passare sotto il controllo di Antioco. Antioco III concesse <strong>al</strong>lora a<br />

Gerus<strong>al</strong>emme <strong>dei</strong> favori di cui resta eco nell’inizio dell’elogio del sommo sacerdote Simone il<br />

Giusto (Sir 50,1-4).<br />

A Gerus<strong>al</strong>emme, era una famiglia di finanzieri, quella <strong>dei</strong> Tobiadi, a riscuotere l’imposta,<br />

di cui natur<strong>al</strong>mente tratteneva per sé non piccola parte. Già sostenitori <strong>dei</strong> Lagidi, nel 198 erano<br />

poi passati a sostenere i Seleucidi; eccetto Ircano, il princip<strong>al</strong>e esattore, che, rifugiatosi in<br />

Transgiordania, restò fedele <strong>ai</strong> Lagidi. Ma la sua fortuna era custodita nel tesoro del tempio di<br />

Gerus<strong>al</strong>emme. Ebbene, nel 190 Antioco III era stato battuto d<strong>ai</strong> Romani a Magnesia, presso<br />

Smirne, e i vincitori gli avevano imposto il pagamento d’una forte somma, che il suo successore,<br />

Seleuco IV, non aveva ancora finito di pagare. L’episodio di Eliodoro, del 175, narrato in<br />

2Mac 3, va probabilmente messo in rapporto con questo debito verso i Romani: la fortuna<br />

d’Ircano avrebbe potuto fornire un bell’<strong>ai</strong>uto! A riguardo di questi avvenimenti, vedi Dn<br />

11,10-20.<br />

Ci si può dunque rendere ben conto come l’epoca di Ben Sira sia stata tutt’<strong>al</strong>tro che tranquilla.<br />

Un testo come Sir 10,8 parla per esperienza: «La sovranità passa da una nazione <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra<br />

con ingiustizia, violenza e denaro!».<br />

1.4.4. Il sapiente Ben Sira<br />

È anche il solo sapiente del nostro Antico Testamento che abbia parlato di sé. Fin d<strong>al</strong>la<br />

giovinezza egli chiese, come S<strong>al</strong>omone (1Re 3,4-15), la sapienza <strong>al</strong> Signore, che gliela concesse,<br />

e fedelmente si diede a seguirla (Sir 51,13-17). Ripieno d’essa, decise <strong>al</strong>lora d’aprire<br />

una scuola, o meglio un’accademia, in cui trasmettere la sua esperienza <strong>al</strong>la gioventù (Sir<br />

51,23-30). Dopo aver lungamente meditato la Torāh, i profeti e gli <strong>al</strong>tri libri del patrimonio<br />

spiritu<strong>al</strong>e d’Israele, cominciò a mettere per iscritto l’essenza del suo insegnamento sapienzi<strong>al</strong>e<br />

(Prologo, versetti 7.12). Ripieno della sapienza che Dio gli donava, la lasciava traboccare: attraverso<br />

lui, i suoi discepoli avrebbero avuto accesso <strong>al</strong>la sapienza, in lui l’avrebbero scoperta;<br />

più ancora, la sapienza, di cui egli non era che il can<strong>al</strong>e di trasmissione, avrebbe poi v<strong>al</strong>icato i<br />

limiti del tempo e dello spazio: avrebbe superato le frontiere e le generazioni. Aveva coscienza<br />

di prendere la staffetta d<strong>ai</strong> profeti, di continuare la loro eredità, e forse si augurava che un<br />

giorno la sua opera venisse inserita fra i libri sacri (Sir 24,30-34; 33,16-18). Fu anche, lascia


Siracide 105<br />

intendere, il consigliere di principi (Sir 39,4), e ciò lo portò <strong>al</strong>l’estero, esperienza ben utile per<br />

conoscere il cuore umano e la varietà del mondo, ma non senza rischi (Sir 34,12-13). Dovette<br />

anche subire la c<strong>al</strong>unnia, che stava per rovinarlo; soltanto la preghiera gli ottenne l’<strong>ai</strong>uto divino,<br />

e di ciò ringraziò il suo Dio (Sir 51,1-12).<br />

L’opera permette d’intuire anche t<strong>al</strong>uni aspetti della sua person<strong>al</strong>ità. Da sapiente autentico,<br />

cercò l’equilibrio e il buon senso. In un momento in cui la cultura greca cominciava ad amm<strong>al</strong>iare<br />

il Vicino Oriente, tentò di mostrare che il giud<strong>ai</strong>smo non aveva da arrossire del proprio<br />

patrimonio. Restava aperto <strong>al</strong>l’ellenismo, eccetto quando <strong>dei</strong> ricchi ne facevano pretesto per<br />

un’arroganza sprezzante dell’antica tradizione giud<strong>ai</strong>ca. Fu sedotto d<strong>al</strong>la liturgia del santuario<br />

e per i sacerdoti aveva un’autentica venerazione; era anche convinto del v<strong>al</strong>ore sapienzi<strong>al</strong>e<br />

della Torāh; ma questi interessi non possono far concludere che dovesse per forza essere un<br />

sacerdote.<br />

Più sereno di Qohèlet, trovava la pace nella sapienza e, di fronte <strong>al</strong> mistero, si rimetteva a<br />

Dio (vedi Sir 3,17-24; 39,32-34). Come Qohèlet, neanche lui aveva della luce sull’<strong>al</strong>dilà della<br />

morte. Una vita umana vissuta fino <strong>al</strong>la fine con dignità gli pareva eminentemente rispettabile<br />

e fruttuosa, senza che l’angoscia della morte dovesse farne cosa gretta, lui che confessava: «la<br />

speranza dell’uomo: i vermi» (Sir 7,17b, ebr<strong>ai</strong>co). Nessun’<strong>al</strong>tra retribuzione, pensava, se non<br />

il buon ricordo lasciato quaggiù d<strong>al</strong>l’uomo giusto e onesto e una discendenza non meno giusta<br />

di lui (Sir 16,1-3; 44,8-15). Saranno le posteriori aggiunte della seconda edizione del libro ad<br />

aprire più incoraggianti prospettive sull’<strong>al</strong>dilà.<br />

1.5. COME È STRUTTURATO IL LIBRO DI BEN SIRA?<br />

La Sapienza di Ben Sira è il libro sapienzi<strong>al</strong>e più lungo del nostro Antico Testamento. È evidente<br />

che l’autore avrà impiegato un bel po’ a scriverlo. Ne avrà egli stesso pubblicato una<br />

prima parte (Sir 1–24, o Sir 1–23), dando un testo completo più tardi? È un’ipotesi di cui si<br />

discute. Alcuni passi come Sir 24,34; 33,16-18; 49,14-16; 50,27-29 <strong>al</strong>imentano il dibattito. La<br />

questione più fondament<strong>al</strong>e è però sapere come Ben Sira abbia strutturato la sua opera. Ma su<br />

questo punto gli esegeti non hanno ancora una risposta soddisfacente. È chiaro che Ben Sira<br />

non scrisse <strong>dei</strong> semplici proverbi, <strong>al</strong>la maniera delle collezioni s<strong>al</strong>omoniche di Pr 10,1–22,16<br />

e Pr 25–29. Ben Sira propone invece delle riflessioni più o meno elaborate, <strong>al</strong>la maniera di Pr<br />

1–9; 30–31. È anche chiaro che l’opera di Ben Sira non è costruita come il libro di Giobbe,<br />

che presenta una trama fin nel modo di procedere. In Ben Sira è appunto l’ordine delle pericopi<br />

che il lettore non vede con chiarezza. Soprattutto prima di Sir 42,15, perché poi, da Sir<br />

42,15 fino a Sir 43,43, il sapiente canterà le meraviglie della creazione, e poi ancora da Sir<br />

44,1 a Sir 50,24 ripercorrerà la storia biblica, sulla scorta del Pentateuco, del corpus profetico<br />

e di certi scritti più recenti, da cui estrae soltanto pochi grandi uomini che risollevarono il<br />

tempio e la città di Gerus<strong>al</strong>emme, in particolare Simone il Giusto.<br />

La questione dell’ordine delle pericopi si pone dunque per tutto il testo che precede Sir<br />

42,15, ma anche per il capitolo fin<strong>al</strong>e Sir 51. Una prima risposta la dà l’importanza che Ben<br />

Sira attribuisce <strong>al</strong>le sue esposizioni sulla Sapienza e sul sapiente. La Sapienza ha il ruolo princip<strong>al</strong>e<br />

in Sir 1,1-30 (in relazione con il timore del Signore, necessario per accogliere il dono<br />

divino), Sir 4,11-19 e Sir 6,18-37 (sullo sforzo richiesto per procurarsi la Sapienza), Sir 14,20<br />

-15,10 (sulla felicità di chi l’acquisisce), Sir 24,1-29 (l’elogio della Sapienza). A partire poi<br />

d<strong>al</strong>la conclusione di quest’ultimo testo, collocato <strong>al</strong> centro del libro, è il sapiente stesso a presentarsi<br />

sul proscenio: in Sir 24,30-34 (Ben Sira trabocca di sapienza), Sir 37,16-26 (sul vero<br />

sapiente), Sir 38,24–39,11 (la sapienza dello scriba in confronto con gli <strong>al</strong>tri mestieri), Sir<br />

51,13-30 (Ben Sira, che ha chiesto e ricevuto la Sapienza, apre una scuola).<br />

Questa prima risposta fa vedere che il rapporto fra la Sapienza e il sapiente scandisce tutto<br />

il libro, ma il problema resta: come Ben Sira ha organizzato le <strong>al</strong>tre pericopi che si trovano fra<br />

l’uno e l’<strong>al</strong>tro di questi passi dedicati <strong>al</strong>la Sapienza e <strong>al</strong> sapiente? È esattamente a questa domanda<br />

che <strong>al</strong> momento gli esegeti non sono ancora in grado di dare se non risposte parzi<strong>al</strong>i.


106 Siracide<br />

È possibile che ci sia un rapporto d’inclusione fra Sir 1,1-30 e Sir 51,13-30 e che, <strong>al</strong>lora,<br />

Sir 51,1-12 (il ringraziamento di Ben Sira scampato a una prova) sia in relazione inclusiva<br />

con Sir 2,1-18 (il sapiente deve prepararsi <strong>al</strong>la prova).<br />

Altrove, sono soprattutto <strong>dei</strong> trattatelli che Ben Sira ha inserito. Eccone qui l’uno o l’<strong>al</strong>tro:<br />

Sir 9,17–10,18 è un trattatello a riguardo di coloro che dominano i popoli con arroganza, cui<br />

fa eco Sir 10,19–11,6, che è un poema sulla vera felicità; Sir 15,11–16,14 e Sir 16,17–18,14<br />

sono due discussioni complementari sulla responsabilità mor<strong>al</strong>e dell’uomo e sul perdono divino;<br />

in Sir 22,27–23,27 una duplice preghiera introduce due esposizioni, l’una sulla maniera<br />

di parlare, l’<strong>al</strong>tra sull’appetito sessu<strong>al</strong>e; Sir 25,1–26,18 tratta dell’armonia coniug<strong>al</strong>e; Sir 29,1-<br />

20, della maniera d’usare il proprio denaro per rendere servizio <strong>al</strong> prossimo; Sir 31,12–32,13,<br />

del comportamento da tenere durante un banchetto; Sir 36,23–37,15, del discernimento circa<br />

la scelta d’una persona con cui confidarsi, sposa, amico o consigliere che sia.<br />

Potremmo ancora individuare <strong>al</strong>tri insiemi, ma <strong>al</strong> momento è ben difficile esplicitare in<br />

modo migliore l’ordine che Ben Sira intese mettere nel suo libro.<br />

2. IL MESSAGGIO<br />

Il Siracide non offre una teoria o una teologia sistematica, esposta con ordine e coerenza<br />

logica. I temi trattati sono quelli tradizion<strong>al</strong>i delle Scritture sacre d’Israele, ripresi e variati in<br />

modi differenti. La prospettiva gener<strong>al</strong>e è conservatrice ed è pervasa d<strong>al</strong>lo spirito e d<strong>al</strong>le idee<br />

deuteronomici. Ci limiteremo qui a enucleare ed evidenziare <strong>al</strong>cuni temi teologici portanti del<br />

libro.<br />

2.1. TIMOR DI DIO E SAPIENZA<br />

Il «timor di Dio», da intendersi come «rispetto di Dio», è senza dubbio una delle idee centr<strong>al</strong>i<br />

di Ben Sira. L’espressione o un suo equiv<strong>al</strong>ente ricorre circa 55/60 volte. Questo tema,<br />

che ricorre un po’ in tutta l’opera, è dominante nei cc. 1–2; anche nel c. 10 questo tema è rilevante,<br />

mentre è assente in <strong>al</strong>cune sezioni, come per es. in 3,17–6,4 e 11,1–14,19. J. Haspecker<br />

lo considera il tema centr<strong>al</strong>e e decisivo di tutto il libro; ma <strong>al</strong>tri (G. von Rad e J. Marböck) sostengono<br />

che non il «timor di Dio» bensì la «sapienza» è il tema fondament<strong>al</strong>e, il soggetto del<br />

libro.<br />

Il timor di Dio è un’intensa e viva relazione person<strong>al</strong>e di amore con Dio (1,28–2,6; cfr.<br />

32,14-16), contrassegnata e pervasa da umiltà e sottomissione <strong>al</strong>la sua sovrana maestà (3,17-<br />

20) e da fiducia nella sua bontà e misericordia (2,6-14; cfr. 34,13-17). Significativa è l’esortazione,<br />

composta di due espressioni par<strong>al</strong>lele e sinonimiche, di Sir 7,29-30: «Temi Dio con<br />

tutto il cuore... Ama il tuo Creatore con tutte le tue forze». La spiritu<strong>al</strong>ità di «chi teme il Signore»<br />

appare in modo chiaro nel c<strong>al</strong>oroso invito di 2,1-18.<br />

Non è esclusa l’accezione nomista di «timore di Dio» inteso come osservanza <strong>dei</strong> comandamenti,<br />

come appare da 2,15-16. In 19,20 il timore di Dio è unito indissolubilmente con la<br />

sapienza e l’osservanza della Legge: «Il timore del Signore è sintesi della sapienza, nell’osservare<br />

la sua Legge sta tutta la sapienza». Ben Sira non sembra affatto essere un pensatore superfici<strong>al</strong>e<br />

che propone una mor<strong>al</strong>e piatta e pros<strong>ai</strong>ca. Il suo modo di intendere il «timore del<br />

Signore» rivela un pensatore profondo, che dà un peso decisivo <strong>al</strong>l’intimo, <strong>al</strong> cuore dell’uomo.<br />

Questo primato dell’interiorità nel suo pensiero pedagogico assicura che egli, anche nella<br />

sua dottrina spiritu<strong>al</strong>e, dà un peso peculiare <strong>al</strong>l’intimo rapporto con Dio... rispetto <strong>ai</strong> comportamenti<br />

concreti che da esso fluiscono.<br />

Il timore del Signore è l’inizio (1,14), la pienezza (1,16), la corona (1,18) e la radice (1,29)<br />

della sapienza: soggettivamente, la sapienza è in pratica identica <strong>al</strong> timore di Dio; oggettivamente,<br />

la sapienza è il libro della legge di Mosè (c. 24). «Sapienza» è un termine che in Siracide<br />

ricorre 55 volte (in greco); ben 11 volte solo in Sir 1. La vera essenza della sapienza è il


Siracide 107<br />

timore di Dio, che dà <strong>al</strong>l’israelita una saggezza superiore <strong>al</strong>la sophia della cultura ellenistica.<br />

Essendo dono di Dio, la sapienza può essere accolta soltanto con un atteggiamento di disponibilità<br />

che si concretizza nel timore di Dio e nell’osservanza della torāh. La tesi fondament<strong>al</strong>e<br />

del Siracide, infatti, può essere così formulata: la sapienza, che si identifica concretamente<br />

con la torāh, può essere «acquistata» soltanto da chi ha il timore di Dio e osserva i comandamenti.<br />

2.2. L’UOMO (SIR 16,24–17,14)<br />

Dopo una solenne introduzione (16,24-25) seguono quattro strofe:<br />

a) 16,26-30;<br />

b) 17,1-4;<br />

c) 17,5-10;<br />

d) 17,11-14.<br />

Questo brano offre una profonda visione dell’uomo in rapporto a Dio e <strong>al</strong> creato e ci <strong>ai</strong>uta a<br />

capire l’antropologia di Ben Sira.<br />

Nella pericope l’autore risponde <strong>al</strong>le obiezioni avanzate in 16,17-23 che tendono a negare<br />

che Dio si prende cura dell’uomo. Ben Sira afferma che Dio ha creato l’uomo d<strong>al</strong>la terra,<br />

mort<strong>al</strong>e come tutti gli <strong>al</strong>tri esseri animati, ma vivente immagine di Dio e in quanto t<strong>al</strong>e con il<br />

compito di dominare l’universo. La morte non è vista come castigo del peccato; l’uomo è<br />

mort<strong>al</strong>e per la sua condizione di creatura terrena, secondo il limite fissato da Dio. L’uomo è<br />

un essere intelligente e responsabile, capace di scegliere liberamente (vv. 6-7). Dio «ha posto<br />

il suo occhio nei loro cuori» (v. 8a), cioè ha comunicato <strong>al</strong>l’uomo la conoscenza divina di tutte<br />

le cose; vi è quindi nell’uomo un sapere e un riconoscere che termina nella lode (vv. 9-10).<br />

È compito dell’uomo lodare Dio nella contemplazione delle sue opere.<br />

Nella quarta strofa l’orizzonte è israelitico. Dio ha dato una legge e stabilito un’<strong>al</strong>leanza: si<br />

tratta della Legge data <strong>al</strong> Sin<strong>ai</strong> quando Dio manifestò la sua gloria, una legge v<strong>al</strong>ida per ogni<br />

uomo. Anzi, la legge data ad Israele è v<strong>al</strong>ida in quanto significa per l’uomo capacità di conoscenza<br />

e di scelta: essa è un modello indispensabile perché l’uomo non solo possa capirsi come<br />

creatura, ma perché possa re<strong>al</strong>izzare il suo compito <strong>al</strong>l’interno del cosmo. In <strong>al</strong>tri termini,<br />

la legge è una forma di conoscenza e di sapienza.<br />

Ben Sira parla dell’uomo in gener<strong>al</strong>e, ma d<strong>al</strong> punto di vista di Israele. Ciò significa due cose:<br />

a) In Israele ciò che fu dato <strong>al</strong>l’inizio dell’umanità è re<strong>al</strong>izzato di nuovo. Per mezzo di Israele<br />

possiamo capire o percepire per noi qu<strong>al</strong>i furono gli inizi dell’umanità...; b) Una profonda<br />

tendenza ed esigenza dell’umanità si re<strong>al</strong>izza in Israele per dono ed elezione divini, non<br />

come un monopolio, ma perché Israele possa condividerli con gli <strong>al</strong>tri. La vicenda del popolo<br />

di Israele è un paradigma per capire l’uomo.<br />

2.3. SAPIENZA E LEGGE (SIR 24,1-34)<br />

Questo capitolo è il centro e il culmine di tutto il libro e parte essenzi<strong>al</strong>e per la teologia della<br />

sapienza. Di questo capitolo non possediamo l’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co e quindi lavoriamo sulla<br />

versione greca. Circa la sua struttura letteraria sono state avanzate molte proposte. Noi seguiamo<br />

L. Alonso Schökel, che divide il capitolo in quattro strofe dove parla la sapienza, e <strong>al</strong>tre<br />

due nelle qu<strong>al</strong>i parla il sapiente:<br />

la sapienza cosmica (vv. 3-6);<br />

la sapienza storica (vv. 7-11);<br />

dieci comparazioni (vv. 12-15);<br />

invito agli uomini (vv. 16-22);<br />

il saggio parla della Legge (vv. 23-29);<br />

il saggio parla di sé (vv. 30-34).


108 Siracide<br />

Il discorso della sapienza è pronunciato nel tempio di Gerus<strong>al</strong>emme («nell’assemblea<br />

dell’Altissimo», v. 2), dove si celebra il culto liturgico. Al popolo riunito la Sapienza rivolge il<br />

suo discorso, come fosse una signora, facendo conoscere la sua origine divina, la sua grandezza<br />

e la sua dignità reg<strong>al</strong>e (vv. 3-4). Essa si espande su tutto l’universo e domina su ogni popolo<br />

e nazione (vv. 5-6). Pur avendo un dominio univers<strong>al</strong>e, la Sapienza cerca una dimora tra gli<br />

uomini (v. 7) e riceve d<strong>al</strong> Creatore l’ordine di stabilirsi in Israele (v. 8). Pur essendo creata<br />

«prima <strong>dei</strong> secoli, fin d<strong>al</strong> principio» (v. 9), cioè pur trascendendo il tempo, la sapienza si fa<br />

«storia» unendosi <strong>al</strong> popolo eletto e abitando <strong>al</strong> centro di esso, sul Sion, nel tempio di Gerus<strong>al</strong>emme<br />

(vv. 10-11). Qui essa esercita una funzione liturgica, sacerdot<strong>al</strong>e; anzi, sembra identificarsi<br />

con lo stesso culto israelitico (v. 10). La Sapienza è «cresciuta» (verbo ripetuto 3 volte)<br />

come <strong>al</strong>bero in mezzo <strong>al</strong> popolo di Dio (vv. 12-16): dieci paragoni presi d<strong>al</strong> mondo veget<strong>al</strong>e<br />

descrivono il crescere di quest’<strong>al</strong>bero nel giardino paradisiaco che è il paese di Israele, dove<br />

sono prodotti gli elementi usati per il culto (olio, incenso, aromi).<br />

Nei vv. 17-22 la sapienza enumera i suoi deliziosi prodotti che essa offre a chi accetta il<br />

suo invito; anzi essa dona se stessa (v. 20). Poi l’immagine viene interpretata: la Sapienza è la<br />

stessa torāh, cioè il Pentateuco (v. 23). Per Ben Sira è la sapienza, che è diffusa e si espande<br />

nella creazione e nell’umanità qu<strong>al</strong>e ordine primordi<strong>al</strong>e immanente <strong>al</strong> mondo e voluto da Dio,<br />

trova la sua migliore, concreta e visibile formulazione nella torāh data ad Israele; chi, dunque,<br />

cerca il senso del re<strong>al</strong>e (la sapienza) deve leggere in profondità la torāh: il sapiente israelita<br />

non ha nulla da invidiare agli <strong>al</strong>tri.<br />

Nei vv. 24-27 ritorna il tema del paradiso; ma qui è evidente che Ben Sira vede nella terra<br />

promessa il paradiso dove la sapienza fa abbondare i suoi frutti; la ricchezza della sapienza è<br />

tanto grande che essa è incomprensibile (vv. 28-29).<br />

Se questo è la sapienza, che cos’è il sapiente? Al v. 30 prende la parola il saggio. Il sapiente<br />

è come un can<strong>al</strong>e (v. 31) o come una fonte di luce (v. 32) che illumina tutta la terra e le generazioni<br />

future (v. 33): la sapienza oltrepassa i confini spazi<strong>al</strong>i della terra di Israele e quelli<br />

del tempo. Il sapiente si mette <strong>al</strong> servizio di ogni uomo che davvero cerchi la sapienza (v. 34).<br />

2.4. LA PREGHIERA<br />

Spesso e in varie forme Ben Sira parla della preghiera, <strong>al</strong>meno tanto quanto della Legge.<br />

C’è la preghiera del povero che Dio ascolta (35,14-26) e la supplica dell’intero popolo per la<br />

propria liberazione (36,1-22). L’uomo non può controllare tutto e perciò deve supplicare Dio,<br />

confidare in Lui che tutto dirige con misteriosa sapienza: «Al di sopra di tutto questo prega<br />

l’Altissimo perché guidi la tua condotta secondo verità» (37,15). Il m<strong>al</strong>ato prega per la guarigione<br />

(38,9) e il medico per far bene la diagnosi (38,14). Lo studente che vuole comprendere<br />

la sapienza, oltre che <strong>al</strong>lo studio della Legge deve soprattutto dedicarsi <strong>al</strong>la preghiera (39,5-6),<br />

perché la sapienza è dono di Dio. Un accento particolare è posto sulla preghiera che chiede il<br />

perdono <strong>dei</strong> peccati (17,25-26; 7,10; 18,21; 21,1; 38,9-10; 39,5). L’autentica conversione a<br />

Dio si concretizza nella preghiera (17,25-26.29).<br />

La lode di Dio è il senso ultimo della vita umana (17,10) e conviene <strong>al</strong> sapiente in modo<br />

particolare (15,9-10). Ben Sira invita festosamente <strong>al</strong>la lode di Dio (39,14-15); da 42,15 a<br />

43,33 inn<strong>al</strong>za un inno di lode a Dio per tutte le meraviglie che Egli compie nella natura e nella<br />

storia. La lode è il vero centro del culto (50,16-24); nella liturgia convergono creazione, storia<br />

e timor di Dio.<br />

Non tutti gli studiosi ammettono un atteggiamento positivo di Ben Sira verso la liturgia.<br />

Secondo J.G. Sn<strong>ai</strong>th, Ben Sira attribuirebbe importanza più <strong>al</strong>la giustizia soci<strong>al</strong>e e <strong>al</strong>la legge<br />

mor<strong>al</strong>e che <strong>al</strong>la liturgia. A me non sembra che si debba sminuire l’importanza del culto in Ben<br />

Sira, che tra l’<strong>al</strong>tro visse in un’epoca in cui il culto era praticamente l’unico mezzo per Israele<br />

di affermare la propria identità. Vedi anche quanto dice di Aronne (Sir 45,6-22).<br />

La preghiera di 36,1-22 fa di Israele, Gerus<strong>al</strong>emme, Sion e del tempio il «luogo» dell’agire<br />

e del rivelarsi di Dio, il banco di prova della fedeltà di Dio <strong>al</strong>le sue promesse.


2.5. TEODICEA<br />

Siracide 109<br />

Il problema della teodicea, tanto urgente per Ben Sira in un’epoca in cui il giud<strong>ai</strong>smo era<br />

sfidato d<strong>al</strong>l’ellenismo, resta attu<strong>al</strong>issimo anche per noi. Il termine «teodicea» indica l’interrogativo<br />

che sorge quando d<strong>al</strong>la coscienza di ogni pur minima disarmonia dell’esistenza si impone<br />

il problema più vasto di Dio; per Israele in particolare di quel Dio che si prende a cuore<br />

la sorte del suo popolo.<br />

Nella creazione e tra gli uomini ci sono re<strong>al</strong>tà e aspetti contrari (bene-m<strong>al</strong>e, vita-morte, luce-tenebre,<br />

il buono-il m<strong>al</strong>vagio, ecc.): fin d<strong>al</strong>l’inizio Dio ha creato tutte le cose a due a due,<br />

l’una di fronte <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra (cf. 33,15). Ben Sira non considera la re<strong>al</strong>tà ontologicamente e pertanto<br />

non scinde le creature su due fronti, contrapposti secondo i canoni di un du<strong>al</strong>ismo deterministico;<br />

ma ha una concezione dinamica, nella qu<strong>al</strong>e le cose si rivelano più per quello che v<strong>al</strong>gono<br />

che per quello che sono. Gli elementi creati sono visti nella loro funzion<strong>al</strong>ità storica. In<br />

questa prospettiva vanno considerate sia l’ambiv<strong>al</strong>enza delle cose create, <strong>al</strong>cune delle qu<strong>al</strong>i<br />

hanno una funzione punitiva (39,12-35), sia i fenomeni natur<strong>al</strong>i, come testimonianza della<br />

gloria del Creatore (42,15–43,33). Non c’è posto per un du<strong>al</strong>ismo metafisico.<br />

Anche l’esistenza umana è piena di antinomie e di miserie, e infine è soggetta <strong>al</strong>la morte<br />

(15,11–18,14; 40,1-17; 41,1-13). Ben Sira risponde <strong>al</strong>le obiezioni di coloro che attribuiscono<br />

a Dio il m<strong>al</strong>e dell’uomo o che giustificano il m<strong>al</strong>e con la noncuranza di Dio nei confronti del<br />

mondo. Per lui è chiaro che l’uomo è libero e responsabile. Il m<strong>al</strong>e è il rifiuto della Legge data<br />

da Dio, è insensatezza (16,23) non solo perché resta incomprensibile, essendo rifiuto di sapienza,<br />

ma perché è un non-operare secondo le vie concrete degli insegnamenti della legge e<br />

della storia. Il cosiddetto problema del m<strong>al</strong>e diventa <strong>al</strong>lora una questione esclusivamente storica<br />

ed antropologica. Ben Sira non dice nulla in re<strong>al</strong>tà sull’origine del m<strong>al</strong>e, limitandosi solo<br />

ad affermare la libertà e la responsabilità umana. Dio non può essere la causa del m<strong>al</strong>e. La<br />

morte è la sorte comune a tutti gli uomini e rappresenta la fine norm<strong>al</strong>e cui ogni creatura è<br />

soggetta. Di essa non si può accusare Dio. Il sapiente è consapevole della complessità della<br />

vita umana e di fronte <strong>al</strong> mistero resta in silenzio adorante.<br />

2.6. LE DONNE<br />

Della donna si parla in molti testi, soprattutto nelle seguenti pericopi: 23,16-27; 25,1–<br />

26,28; 41,14–42,14. Ben Sira è un uomo e si rivolge a uomini; egli si mette quasi sempre d<strong>al</strong><br />

punto di vista dell’uomo, non della donna. Anche quando dà un giudizio negativo sulle relazioni<br />

tra uomo e donna, Ben Sira giudica d<strong>al</strong> punto di vista dell’uomo, tenendo conto della<br />

sua debolezza e fragilità. I suoi consigli sono diretti a giovani orientati <strong>al</strong> matrimonio e perciò<br />

tutto quello che dice sulla donna è in funzione della vita coniug<strong>al</strong>e.<br />

La sposa può essere buona o cattiva. L’uomo può rovinare la famiglia, ma quando il m<strong>al</strong>e<br />

viene d<strong>al</strong>la sposa è la morte del focolare domestico: «A causa della donna l’inizio della colpa<br />

e a causa di essa periamo» (25,24). Secondo М. Gilbert questo difficile versetto significa: è la<br />

rovina di un focolare quando la sposa è fonte prima di m<strong>al</strong>vagità.<br />

Tuttavia Ben Sira non è affatto un misogino. In verità, egli dice molto poco della donna in<br />

sé, perché la vede in funzione della famiglia e di ciò che essa è per l’uomo. Non parla di ciò<br />

che ella può e deve attendersi d<strong>al</strong> marito; non parla di un vero di<strong>al</strong>ogo coniug<strong>al</strong>e, benché riconosca<br />

il v<strong>al</strong>ore straordinario dell’armonia tra gli sposi (25,1). Ogni donna resta per l’uomo anche<br />

sposato una potenza di attrazione davanti <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e egli deve riconoscere la sua debolezza.<br />

Ben Sira resta natur<strong>al</strong>mente legato <strong>ai</strong> condizionamenti cultur<strong>al</strong>i e sociologici del suo tempo:<br />

la donna, per quanto responsabile <strong>dei</strong> suoi atti (23,22-23) quanto l’uomo, non ha gli stessi<br />

diritti nella società e nella famiglia, in cui lo sposo è il ba‘<strong>al</strong> (padrone, capo).


110 Siracide<br />

2.7. ELOGIO DEI PADRI (CC. 44–49)<br />

Questa sezione è un insieme letterariamente e contenutisticamente ben compaginato in unità.<br />

Qui è il «climax» dell’opera, cui tendono i capitoli precedenti. La «laus patrum» è anche la<br />

sezione più origin<strong>al</strong>e di tutta l’opera. Si tratta di una rilettura del passato nel genere del midrash<br />

haggadico.<br />

Ben Sira traccia una g<strong>al</strong>leria di «medaglioni» <strong>dei</strong> grandi eroi, buoni e m<strong>al</strong>vagi, del passato<br />

con uno scopo didattico rivolto <strong>al</strong> presente. Il tema dell’<strong>al</strong>leanza percorre tutta la visione siracidea<br />

della storia: nei cc. 44–49 il termine berît ricorre 11 volte. Il concetto di <strong>al</strong>leanza di Ben<br />

Sira si avvicina a quello della tradizione sacerdot<strong>al</strong>e: l’<strong>al</strong>leanza è una benevola e libera disposizione<br />

della divina Provvidenza, una promessa fatta da Dio. Aronne è, tra i personaggi dell’<strong>al</strong>leanza,<br />

quello che ha maggior rilievo; appare così che per Ben Sira la liturgia, il culto pubblico<br />

reso <strong>al</strong> Dio di Israele è la gloria più grande della religione giud<strong>ai</strong>ca. Ma il culto non è affatto<br />

separato d<strong>al</strong>la sapienza e d<strong>al</strong>la legge.<br />

Stranamente, Ben Sira non parla dell’esilio; anzi, si può dire che egli implicitamente lo nega.<br />

Meraviglia anche il suo silenzio su Esdra. È di R.A.F. Mac Kenzie l’ipotesi che Ben Sira<br />

discendesse da una famiglia che non aveva m<strong>ai</strong> conosciuto l’esilio ed era rimasta in P<strong>al</strong>estina;<br />

ciò spiegherebbe anche la sua scarsa simpatia per l’opera di riforme radic<strong>al</strong>i di Esdra.<br />

2.8. LE PROSPETTIVE FUTURE<br />

Ben Sira ne parla poco. Per ciò che concerne la nazione, non pensa a un messia che possa un<br />

giorno stabilire un ordine nuovo 1 . Egli spera che il sacerdozio sadocita continui a mantenersi <strong>al</strong>la<br />

testa del suo popolo (50,24 ebr<strong>ai</strong>co). Prega per la restaurazione d’Israele, il compimento delle<br />

profezie e l’unità del genere umano nel riconoscimento dell’unico vero Dio (36,1-22). Egli è sicuro<br />

della perennità d’Israele (37,25).<br />

Quanto <strong>al</strong> fine ultimo dell’individuo, Ben Sira non è un innovatore 2 . Parla della morte in un<br />

tono disincantato (14,11-19; cfr. 40,1-11; 41,1-4). Per il dopo morte egli prevede solo lo šeol<br />

(14,16), dove nessuno loda il Signore (17,27-28): «Ciò che attende l’uomo sono i vermi!» (7,17<br />

ebr<strong>ai</strong>co). Di uno che è morto rimane solo il ricordo della sua saggezza (39,9-11) o delle sue buone<br />

azioni (41,12-13; 4,10-15).<br />

Alcune aggiunte del testo lungo hanno cercato invece di superare queste prospettive future<br />

abbastanza strette. Secondo queste aggiunte, dopo la morte ogni individuo avrà il suo giorno<br />

di giudizio, in cui Dio lo “visiterà” ed esaminerà tutte le sue azioni. Per i cattivi, sarà un giorno<br />

d’ira e di vendetta; essi saranno gettati nelle profondità della terrà per ricevervi la loro<br />

“sorte” di tenebre e di dolore. Per i giusti sarà l’ingresso nel mondo futuro, il mondo santo, la<br />

“parte” di verità; essi gioiranno della vita eterna, ricompensa senza fine che comporta l’onore<br />

ricevuto da Dio e una gioia perenne. Uno stadio intermedio tra la morte e la sorte fin<strong>al</strong>e della<br />

ricompensa eterna viene segn<strong>al</strong>ata in Sir VL 24,32(45) e forse 44,16 (“nel paradiso”).<br />

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />

Commenti<br />

DUESBERG, H. - FRANSEN, I. (edd.), Ecclesiastico (BG), Torino-Roma 1966.<br />

L’opera è introdotta da un’an<strong>al</strong>isi <strong>dei</strong> problemi critico-testu<strong>al</strong>i e critico-letterari (pp. 1-90). La traduzione<br />

it<strong>al</strong>iana (sulle pagine di sinistra) e il testo latino (pagine di destra) sono accompagnati da un<br />

modesto apparato critico e da commenti relativamente ampi.<br />

1<br />

Cfr. A. CAQUOT, Ben Sira et le messianisme, in Sem 16 (1966) 43-68; J. D. MARTIN, Ben Sira’s Hymn to the<br />

Fathers. A Messianic Perspective, in OTS 24 (1986) 107-123.<br />

2<br />

Cfr. V. HAMP, Zukunft und Jenseits im Buche Sirach, in Festschrift Nötscher (BBB 1), Bonn 1950, 86-97; M.<br />

FANG CHE-YONG, Ben Sira de novissimis hominis, in VD 41 (1963) 21-38.


Siracide 111<br />

LÉVI, I., L’Ecclésiastique ou la Sagesse de Jésus, fils de Sira, 2 voll., Paris 1898, 1901.<br />

È uno <strong>dei</strong> primi grandi commenti che seguirono le scoperte della geniza del C<strong>ai</strong>ro. Nonostante la<br />

precisione mostrata nell’an<strong>al</strong>isi di <strong>al</strong>cuni problemi testu<strong>al</strong>i, l’opera non ha ottenuto la fama, per<strong>al</strong>tro<br />

meritata, <strong>dei</strong> commenti di Smend e di Peters.<br />

MORLA, V., Eclesiástico, S<strong>al</strong>amanca-Madrid-Estella 1992.<br />

Si tratta di uno <strong>dei</strong> pochi commenti (testo compreso) scritti originariamente in spagnolo. Dopo<br />

un’introduzione di dodici pagine, dedicata agli aspetti gener<strong>al</strong>i dell’opera, l’autore affronta il commento<br />

dell’Ecclesiastico suddividendolo in unità letterarie per circa 220 pagine. Non è un commento<br />

scientifico ma un’opera di <strong>al</strong>ta divulgazione concepita più per pastori e studenti che per gli speci<strong>al</strong>isti.<br />

PETERS, N., Das Buch Jesus Sirach oder Ecclesiasticus übersetzt und erklärt, Münster 1913.<br />

Dopo un’introduzione di settantotto pagine l’autore presenta un ampio e ottimo commento (pp. 1-<br />

454) nel qu<strong>al</strong>e spicca l’ottima an<strong>al</strong>isi del testo ebr<strong>ai</strong>co e delle versioni greca e latina. Nonostante la<br />

remota data di pubblicazione lo si può considerare, con l’opera di Smend, il miglior commento moderno<br />

<strong>al</strong>l’opera del Siracide.<br />

SEGAL, M.TS., Sefer Ben Sira hašš<strong>al</strong>em, Yerush<strong>al</strong><strong>ai</strong>m 2 1958.<br />

Commento in ebr<strong>ai</strong>co moderno. La sua maggiore utilità per lo studioso consiste nella riproduzione<br />

del testo ebr<strong>ai</strong>co dell’Ecclesiastico voc<strong>al</strong>izzato. Il commento, t<strong>al</strong>ora superfici<strong>al</strong>e, presenta qu<strong>al</strong>che lacuna.<br />

La bibliografia (pp. 71-72.) è eccessivamente ridotta.<br />

SKEHAN, P.W. - DI LELLA, A.A., The Wisdom of Beп Sira (AB 39), New York 1987.<br />

I nomi degli autori, noti speci<strong>al</strong>isti in materia, sono di per sé una garanzia per questo commento<br />

della «Anchor Bible». La traduzione e le note si devono a Skehan, che morì prima di vedere conclusa<br />

l’opera. L’introduzione e il commento sono opera di Di Lella. L’introduzione (pp. 3-92) è ampia e<br />

completa; la bibliografia (pp. 93-127) è praticamente esaustiva. Il commento (pp. 131-580), accompagnato<br />

d<strong>al</strong>la traduzione, è buono anche se non privo di una certa farraginosità e di scarsa profondità.<br />

Molto utile, infine, l’indice tematico (pp. 593-620).<br />

SMEND, R., Die Weisheit des Jesus Sirach, Berlin 1906.<br />

Senza dubbio si tratta del miglior commento critico e teologico <strong>al</strong> Siracide. A estesi prolegomena –<br />

Gesù Ben Sira e la sua opera, il testo ebr<strong>ai</strong>co, la traduzione greca del nipote, una seconda traduzione<br />

greca, le retrotraduzioni d<strong>al</strong> greco, le traduzioni siriaca e araba, la ricostruzione del testo origin<strong>al</strong>e (pp.<br />

XIV-CLIX) – fa seguito un’approfondita ed erudita an<strong>al</strong>isi testu<strong>al</strong>e (pp. 1-517). Si segn<strong>al</strong>a, in particolare,<br />

l’intuito dell’autore e la sua abilità nel ricostruire a partire d<strong>al</strong> greco un ipotetico testo ebr<strong>ai</strong>co (ove<br />

manca) che in molti casi è stato confermato da successive scoperte.<br />

SNAITH, J.G., Ecclesiasticus, Cambridge 1974.<br />

Questo commento fa parte del «Cambridge Bible Commentary». Opera di <strong>al</strong>ta divulgazione, comporta<br />

la traduzione inglese e il commento articolato per pericopi.<br />

Altre opere interessanti<br />

AA. VV., Sefer Ben Sira, Yerush<strong>al</strong><strong>ai</strong>m 1973.<br />

Viene qui presentato l’origin<strong>al</strong>e ebr<strong>ai</strong>co nella collana «Dizionario Storico della Lingua Ebr<strong>ai</strong>ca». Si<br />

tratta di uno studio dedicato <strong>al</strong> testo, <strong>al</strong>le concordanze e <strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi lessic<strong>al</strong>e del Siracide. Dopo<br />

un’introduzione sulle caratteristiche tecniche del libro, questo è suddiviso in tre parti: 1. il libro di Ben<br />

Sira e le sue versioni (pp. 1-69), con la riproduzione del testo origin<strong>al</strong>e non voc<strong>al</strong>izzato; 2. concordanze<br />

(pp. 71-314); 3. elenchi lessic<strong>al</strong>i (pp. 315-517). Opera di riferimento obbligato.<br />

BOCCACCIO, P. - BERARDI, G., Ecclesiasticus. Textus hebraeus secundum fragmenta reperta, Roma<br />

1986.<br />

L’opera presenta la riproduzione del testo <strong>dei</strong> diversi manoscritti ebr<strong>ai</strong>ci dell’Ecclesiastico. Purtroppo<br />

non sono stati riprodotti i manoscritti di Qumran e Masada.<br />

DI LELLA, A.A., The Hebrew Text of Sirach. A Text-Critic<strong>al</strong> and Historic<strong>al</strong> Study, The Hague 1966.<br />

Opera fondament<strong>al</strong>e per lo studio dell’autenticità <strong>dei</strong> manoscritti della geniza del C<strong>ai</strong>ro. Una prima<br />

parte, dedicata <strong>al</strong>lo stato della questione, consente <strong>al</strong>l’autore di affrontare il problema dell’autenticità


112 Siracide<br />

<strong>dei</strong> manoscritti ebr<strong>ai</strong>ci d<strong>al</strong> punto di vista della critica testu<strong>al</strong>e (pp. 47-77) e d<strong>al</strong> punto di vista storico<br />

(pp. 78-105). Nel cap. IV Di Lella sostiene la retrotraduzione di <strong>al</strong>cuni brevi passi d<strong>al</strong> testo siriaco.<br />

RÜGER, H.P., Text und Textform im hebräischen Sirach. Untersuchungen zur Textgeschichte und<br />

Textkritik der hebräischen Sirach fragmente aus der K<strong>ai</strong>roer Geniza (BZAW 112), Berlin 1970.<br />

Si tratta di un’indispensabile opera di critica testu<strong>al</strong>e basata sulla supposizione di due forme testu<strong>al</strong>i<br />

nell’Ecclesiastico. Presenta uno studio <strong>dei</strong> doppioni nel manoscritto A; <strong>dei</strong> par<strong>al</strong>leli tra i manoscritti A<br />

e C; <strong>dei</strong> par<strong>al</strong>leli tra i manoscritti A e B; il manoscritto A come testimone della trasformazione del testo<br />

ebr<strong>ai</strong>co di Ben Sira; l’età delle due forme testu<strong>al</strong>i dell’Ecclesiastico.<br />

SMEND, R., Griechisch-syrisch-hebräischer Index zur Weisheit des Jesus Sirach, Berlin 1907.<br />

Dopo una breve introduzione (pp. III-XIII) l’autore presenta il lessico greco del Siracide con le corrispondenti<br />

voci ebr<strong>ai</strong>che e siriache accompagnate d<strong>al</strong>le citazioni <strong>dei</strong> passi in cui ricorrono (pp. 1-251).<br />

Si tratta, dunque, della prima concordanza sul Siracide: di grande utilità per il ricercatore.<br />

VATTIONI, F., Ecclesiastico. Testo ebr<strong>ai</strong>co con apparato critico e versioni greca, latina e siriaco, Napoli<br />

1968.<br />

Un’introduzione dedicata a questioni gener<strong>al</strong>i (autore, data, ecc.) e una bibliografia scelta precedono<br />

il testo origin<strong>al</strong>e dell’Ecclesiastico e tre versioni. Il testo ebr<strong>ai</strong>co occupa la parte superiore delle pagine<br />

di destra; nella parte inferiore della stessa pagina viene riprodotta la versione siriaca. Le pagine di<br />

sinistra sono occupate d<strong>al</strong>le versioni greca e latina. Questa disposizione è pratica, perché il lettore può<br />

apprezzare in modo sinottico i punti di contatto e le divergenze. Purtroppo la versione siriaca non è<br />

stata sottoposta a una revisione critica.<br />

YADIN, Y., The Ben Sira Scroll from Masada, Jerus<strong>al</strong>em 1965.<br />

La natura del manoscritto frammentario scoperto a Masada è esposta nell’introduzione. La prima<br />

parte dell’opera è dedicata a un esauriente studio critico-testu<strong>al</strong>e; nella seconda parte l’autore presenta<br />

una traduzione inglese del testo restaurato; l’opera si conclude con la riproduzione fotografica delle<br />

pagine del manoscritto. Fatta eccezione per <strong>al</strong>cune opinioni erronee – sulla natura del manoscritto e la<br />

lettura di <strong>al</strong>cuni passi dubbi –, si tratta di un libro d’indispensabile consultazione.<br />

Inoltre, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />

SISTI, A., Riflessi dell’epoca premaccab<strong>ai</strong>ca nell’Ecclesiastico, in RivBib 12 (1964) 215-256.<br />

PRATO, G.L., Il problema della teodicea in Ben Sira. Composizione <strong>dei</strong> contrari e richiamo <strong>al</strong>le origini<br />

(AnBib 65), Roma 1975.<br />

VIRGULIN, S., Ecclesiastico o Siracide, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong><br />

<strong>al</strong>la Bibbia 3), Bologna 1978, 443-472.<br />

MINISSALE, A., Siracide (NVB 23), Roma 1980.<br />

BOCCACCINI, G., Origine del m<strong>al</strong>e, libertà dell’uomo e retribuzione nella Sapienza di Ben Sira, in Henoch<br />

8 (1986) 1-37.<br />

ADINOLFI, M., Il medico in Sir 38,1-15, in Anton 62 (1987) 172-183.<br />

PRATO, G.L., Classi lavorative e otium sapienzi<strong>al</strong>e. Il significato teologico di una dicotomia soci<strong>al</strong>e<br />

secondo Ben Sira (38,24–39,11)», in G. DE GENNARO (ed.), Lavoro e riposo nella Bibbia (Studio<br />

Biblico Teologico Aquilano), Napoli 1987, 149-175.<br />

RAVASI, G., Siracide, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988, 1490-1496.<br />

MINISSALE, A., Siracide. Le radici nella tradizione (LoB 1,17), Brescia 1988.<br />

ZATELLI, I., Yir’at JHWH nella Bibbia, in Ben Sira e nei rotoli di Qumran: considerazioni sintatticosemantiche,<br />

in RivBib 36 (1988) 229-237.<br />

ZAPPELLA, M., Criteri antologici e questioni testu<strong>al</strong>i nel manoscritto ebr<strong>ai</strong>co C di Siracide, in RivBib<br />

38 (1990) 273-300.<br />

MINISSALE, A., La versione greca del Siracide. Confronto con il testo ebr<strong>ai</strong>co <strong>al</strong>la luce dell’attività<br />

midrascica e del metodo targumico (An<strong>al</strong>ecta Biblica 133), Roma 1995.<br />

DI LELLA, A.A., Siracide, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 647-664.<br />

MORLA ASENSIO, V., Il libro dell’Ecclesiastico, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong><br />

<strong>al</strong>lo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 175-208.<br />

BONORA, A., Siracide, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (Logos 4),<br />

Torino-Leumann 1997, 85-98.


Siracide 113<br />

CALDUCH-BENAGES, N., En el crisol de la prueba. Estudio exegético de Sir 2,1-18 (Asociación<br />

Bíblica Española 32), Estella 1997.<br />

CALDUCH-BENAGES, N., Un gioiello di sapienza. Leggendo Siracide 2 (Cammini nello Spirito.<br />

Biblica 45), Milano 2001.<br />

Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 4/2003: «Il libro del Siracide».


SAPIENZA *<br />

Affascinante ed enigmatica, questa Sapienza di S<strong>al</strong>omone! È l’ultimo libro importante della<br />

sapienza dell’antico Israele, ma il primo a parlare in greco e a confrontarsi con la cultura ellenistica.<br />

Ponte gettato tra l’Antico Testamento e il Nuovo, quest’opera di un fedele giudeo<br />

ellenistico dovette vedere la luce quando stava per nascere il cristianesimo. Trasmesso d<strong>ai</strong> cristiani,<br />

è riconosciuto come libro canonico d<strong>al</strong>la Chiesa cattolica.<br />

Finora poco studiato, questo libro solleva molti problemi, soprattutto di ordine letterario.<br />

Per t<strong>al</strong>e ragione, senza perdere di vista il messaggio dell’anonimo autore, la nostra attenzione<br />

si fermerà sull’an<strong>al</strong>isi del libro.<br />

1. IL LIBRO<br />

1.1. CONTENUTO E STRUTTURA LETTERARIA DEL LIBRO<br />

Per determinare la struttura letteraria del libro, cioè l’organizzazione e la disposizione delle<br />

sue diverse parti, l’esegeta può basarsi sugli indizi verb<strong>al</strong>i offerti d<strong>al</strong> testo stesso. Si notano<br />

così le ricorrenze di parole o di espressioni e la loro collocazione; si individuano <strong>al</strong>lora degli<br />

insiemi le cui estremità hanno, per esempio, le stesse parole; e se ne scoprono <strong>al</strong>tri più lunghi<br />

la cui organizzazione si presenta sotto una forma detta concentrica (a-b-c-b’-a’, per esempio) 1 .<br />

Per chiarezza presenteremo qui in modo schematico il piano delle grandi parti che costituiscono<br />

il <strong>Libro</strong> della Sapienza, ma cominceremo ogni volta col riassumere il contenuto del testo<br />

seguendo le indicazioni fornite d<strong>al</strong>l’an<strong>al</strong>isi della struttura letteraria.<br />

1.1.1. Sap 1–6<br />

In apertura del libro l’autore si rivolge direttamente <strong>ai</strong> lettori, considerati come principi del<br />

mondo, invitandoli ad «amare la giustizia» e a «cercare il Signore» (1,1), a evitare le recriminazioni,<br />

simili a quelle degli ebrei nel deserto, le parole empie e le azioni che meritano la<br />

morte (1,11-12). Infatti i pensieri e i propositi perversi <strong>al</strong>lontanano la Sapienza e il giudizio<br />

attende i colpevoli (1,2-10).<br />

A titolo di illustrazione l’autore dà subito la parola agli empi: la vita appare loro senza <strong>al</strong>cuna<br />

prospettiva di un <strong>al</strong>dilà; <strong>al</strong> momento della morte lo spirito stesso si dissipa come l’aria;<br />

conviene perciò godere il più possibile del tempo presente (2,1-9). Ma la sola presenza del<br />

giusto, la sua fedeltà <strong>al</strong>le tradizioni ancestr<strong>al</strong>i e i rimproveri che egli rivolge agli empi spingono<br />

questi ultimi a perseguitarlo: il giusto è convinto che Dio proteggerà la sua sorte fin<strong>al</strong>e;<br />

ebbene, «condanniamolo a una morte infame e vedremo» (2,10-20).<br />

Questo discorso, in cui gli empi oppongono la loro concezione della morte a quella del giusto,<br />

è inquadrato da due riflessioni fondament<strong>al</strong>i dell’autore: le creature sono portatrici di s<strong>al</strong>vezza<br />

e Dio ha creato l’uomo immort<strong>al</strong>e, incorruttibile (1,13-16; 2,21-24).<br />

Queste affermazioni sono <strong>al</strong>lora applicate a tre categorie di giusti la cui esistenza, agli occhi<br />

di questo mondo, sembra una sciagura: i giusti che muoiono nella sofferenza (3,1-9), la<br />

donna sterile o l’eunuco, tuttavia fedeli (3,11-15; 4,1-2), infine il giusto che muore nel fiore<br />

degli anni (4,7-14a); nessuno di essi avrà conosciuto quaggiù la felicità che si ritiene ricompensa<br />

della virtù, ma riceveranno la loro ricompensa in occasione della «visita» di Dio, cioè <strong>al</strong><br />

*<br />

M. GILBERT, La Sapienza di S<strong>al</strong>omone, in J. AUNEAU (ed.), I S<strong>al</strong>mi e gli <strong>al</strong>tri Scritti (Piccola Enciclopedia<br />

Biblica 5), Roma 1991, 324-355.<br />

1<br />

Cfr. A. G. WRIGHT, The Structure of the Book of Wisdom, in Bib 48 (1967) 165-184; P. BIZZETI, Il libro<br />

della Sapienza. Struttura e genere letterario, Brescia 1984, 49-111; M. GILBERT, Sagesse de S<strong>al</strong>omon (ou Livre<br />

de la Sagesse), in DBS 11 (1986) 65-77 (con bibliografia).


Sapienza 115<br />

di là della morte, quando gli empi, che sono confrontati con essi caso per caso (3,10.16-19;<br />

4,2-6.14b-20), saranno castigati.<br />

L’autore immagina poi l’incontro nell’<strong>al</strong>dilà tra i giusti e gli empi (5,1-3). Facendo eco <strong>al</strong><br />

loro discorso-programma, questi ultimi riprendono la parola, ma questa volta per esprimere il<br />

loro stupore per la felicità del giusto (5,4-5) e riconoscere la vacuità della loro vita (5,6-13).<br />

Infatti – commenta l’autore – Dio interverrà direttamente contro gli empi e in favore <strong>dei</strong> giusti<br />

e prenderà come armi le forze del cosmo (5,14-23).<br />

A mo’ di conclusione l’autore si rivolge nuovamente <strong>ai</strong> re e <strong>ai</strong> principi perché ascoltino il<br />

suo messaggio (6,12.11.21.25): un giudizio più severo li attende perché sono più potenti degli<br />

<strong>al</strong>tri (6,3-10) e, d’<strong>al</strong>tra parte, la Sapienza, garanzia di un regno immort<strong>al</strong>e, non si rifiuta a colui<br />

che la cerca (6,12-20).<br />

Gli ultimi versetti (6,22-24) servono da transizione, annunciando la seconda parte: qu<strong>al</strong> è la<br />

natura della Sapienza, la sua origine, la sua storia?<br />

Il piano di questa prima parte, visto schematicamente, appare concentrico: <strong>al</strong>l’esortazione<br />

inizi<strong>al</strong>e corrisponde l’esortazione fin<strong>al</strong>e che riprende gli stessi temi, ma in ordine inverso; <strong>al</strong><br />

discorso-programma degli empi fa eco quello che essi pronunceranno nell’<strong>al</strong>dilà, riprendendo<br />

le stesse idee, ma nuovamente in ordine inverso; infine nei tre dittici centr<strong>al</strong>i, il contrasto tra<br />

virtù e morte inquadra quello della virtù nella sterilità.<br />

Ecco i dettagli di questa struttura letteraria:<br />

A. Esortazione <strong>ai</strong> principi (1,1-12)<br />

la Sapienza non si rivela <strong>al</strong>l’empio;<br />

egli non dimentichi che ci sarà un giudizio!<br />

B. Progetto degli empi:<br />

<strong>Introduzione</strong> (1,13-16): creazione e immort<strong>al</strong>ità;<br />

critica degli empi.<br />

Discorso degli empi (2,1-20): senso della vita e opzione per il piacere;<br />

complotto contro il giusto.<br />

Conclusione (2,21-24): critica degli empi;<br />

creazione e incorruttibilità.<br />

C. Tre tipi paradoss<strong>al</strong>i di esistenza e loro contrasto (3–4):<br />

il giusto che muore nella sofferenza – gli empi;<br />

la sterile e l’eunuco – la discendenza degli empi;<br />

il giusto che muore prematuramente – le folle degli empi.<br />

B’. Bilancio degli empi:<br />

<strong>Introduzione</strong> (5,1-3): il giusto di fronte agli empi.<br />

Discorso degli empi (5,4-13): il trionfo del giusto;<br />

la loro opzione e il senso della vita.<br />

Conclusione (5,14-23): l’empio e i giusti;<br />

Dio e il combattimento cosmico fin<strong>al</strong>e.<br />

A’. Esortazione <strong>ai</strong> principi (6):<br />

non dimentichino che ci sarà un giudizio!<br />

La Sapienza si rivela a chi la cerca ed è garanzia di immort<strong>al</strong>ità.<br />

Annuncio di ciò che segue (6,22-25).<br />

1.1.2. Sap 7–9<br />

L’autore che, in questa nuova parte come in Sap 6, parla <strong>al</strong>la prima persona singolare, si<br />

presenta, senza dirlo, sotto i tratti di S<strong>al</strong>omone. Egli precisa, per cominciare, di essere nato<br />

come ogni <strong>al</strong>tro uomo; non è quindi un dio e la sapienza non è una questione di eredità o di<br />

atavismo (7,16). Egli ha ricevuto la Sapienza perché l’ha domandata nella preghiera, preferendola<br />

a tutti i beni che sono appannaggio della reg<strong>al</strong>ità; riconosce pure di aver ricevuto ugu<strong>al</strong>mente<br />

questi <strong>al</strong>tri beni, grazie <strong>al</strong>la Sapienza da lui preferita (7,7-12). Egli rinnova poi la<br />

sua intenzione di parlare di essa e domanda a Dio la grazia di poterlo fare adeguatamente; ha


116 Sapienza<br />

ricevuto da Dio una vasta cultura: è ritenuto maestro in tutti i campi del sapere del suo tempo,<br />

ma in re<strong>al</strong>tà è la Sapienza che l’ha istruito (7,13-21).<br />

Egli descrive <strong>al</strong>lora questa Sapienza attribuendo <strong>al</strong>lo spirito che è in essa una lista di ventuno<br />

qu<strong>al</strong>ità: di una purezza assoluta, la Sapienza penetra tutto, cercando solo di re<strong>al</strong>izzare il<br />

bene. Queste qu<strong>al</strong>ità si giustificano per il fatto che la Sapienza emana da Dio di cui è il soffio,<br />

l’effluvio, il riflesso, lo specchio, l’immagine. Così si spiega la sua azione: essa regge l’universo<br />

in modo benefico e forma amici di Dio e profeti (7,22–8,1).<br />

Essendo la Sapienza fin d<strong>al</strong>l’origine del mondo l’intima di Dio, lo pseudo-S<strong>al</strong>omone arriva<br />

a desiderare di averla come sposa poiché è più importante di qu<strong>al</strong>siasi <strong>al</strong>tra cosa che possa<br />

formare un’autentica person<strong>al</strong>ità: benessere, intelligenza, virtù, cultura (8,2-8). Prendendo la<br />

Sapienza come sposa, la sue qu<strong>al</strong>ità di re saranno ancora più evidenti, nel consiglio come nella<br />

guerra, e la sua vita privata sarà felice (8,9-16). Per t<strong>al</strong>e ragione, dotato di buone doti natur<strong>al</strong>i,<br />

ma consapevole che la Sapienza la si riceve solo domandandola, egli si decide a pronunciare<br />

la sua preghiera (8,17-21).<br />

Possiamo presentare così in modo schematico la struttura di Sap 7–8:<br />

A. S<strong>al</strong>omone nacque come ogni <strong>al</strong>tro uomo (7,1-6),<br />

B. ma domandò la Sapienza nella preghiera e ricevette con essa tutti i beni reg<strong>al</strong>i (7,7-12);<br />

C. ricevette ugu<strong>al</strong>mente tutti i beni di carattere cultur<strong>al</strong>e (7,13-21).<br />

D. Descrizione della Sapienza: natura, origine e azione (7,22–8,1).<br />

C’. La Sapienza porta tutto ciò che forma una person<strong>al</strong>ità (8,2-8).<br />

B’. Con essa come sposa, S<strong>al</strong>omone si mostrerà un grande re (8,9-16).<br />

A’. Per l’uomo dotato di buone doti natur<strong>al</strong>i, la Sapienza si ottiene solo con la preghiera (8,17-21).<br />

La preghiera di Sap 9 si divide in tre strofe 2 : la prima (9,1-6) e la terza (9,13-18) riguardano<br />

ogni uomo, mentre la seconda (9,7-12) si riferisce a S<strong>al</strong>omone. L’insieme è strutturato in<br />

modo concentrico: la prima strofa trova un eco nella terza, ma nell’ordine inverso; la strofa<br />

centr<strong>al</strong>e è anch’essa di struttura concentrica. Così la duplice richiesta della Sapienza appare <strong>al</strong><br />

centro della preghiera (9,10), preparata da una prima richiesta <strong>al</strong> centro della prima strofa<br />

(9,4), <strong>al</strong>la qu<strong>al</strong>e fa eco il versetto centr<strong>al</strong>e della terza (9,17). La struttura concentrica, già emersa<br />

in Sap 1–6 e 7–8, riappare quindi nella preghiera di Sap 9; eccone gli elementi princip<strong>al</strong>i:<br />

I. a : Vocazione dell’uomo (9,1-3)<br />

b : richiesta della Sapienza (9,4)<br />

c : a causa della fragilità umana (9,5-6).<br />

II. d : Vocazione di S<strong>al</strong>omone (9,7-8)<br />

e : La Sapienza presso Dio (9,9)<br />

b’ : richiesta della Sapienza (9,10ab).<br />

e’ : La Sapienza presso S<strong>al</strong>omone (9,10c-11)<br />

d’ : re<strong>al</strong>izzazione della vocazione di S<strong>al</strong>omone (9,12).<br />

III. c’ : A causa della fragilità umana (9,13-17a)<br />

b’’ : richiesta implicita della Sapienza (9,17bc)<br />

a’ : re<strong>al</strong>izzazione della vocazione umana (9,18).<br />

1.1.3. Sap 10–19<br />

Ricollegandosi <strong>al</strong>l’ultimo versetto della preghiera di Sap 9 («essi furono s<strong>al</strong>vati per mezzo<br />

della Sapienza»), si apre in Sap 10 un grande affresco in cui vengono evocati i princip<strong>al</strong>i personaggi<br />

e gli eventi fondatori dell’umanità e d’Israele; l’autore si ispira evidentemente <strong>al</strong>la<br />

Bibbia, in particolare a Gen, Es e Num.<br />

Sap 10 passa in rassegna gli eroi biblici che si sono succeduti da Adamo fino a Mosè <strong>al</strong>la<br />

testa del popolo: essi dovettero tutti la loro s<strong>al</strong>vezza <strong>al</strong>la Sapienza, mentre quelli che si separarono<br />

da essa finirono m<strong>al</strong>e. Gli ultimi versetti (10,15-21) ricordano brevemente i grandi<br />

2 M. GILBERT, La structure de la prière de S<strong>al</strong>omon (Sg 9), in Bib 51 (1970) 301-331.


Sapienza 117<br />

eventi dell’esodo e terminano con un’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong> cantico di Es 15. I primi versetti di Sap 11<br />

situano gli ebrei nel deserto, dopo il passaggio del mar Rosso (11,1-3).<br />

I capitoli seguenti (11–19) presentano una struttura complessa. In breve l’autore, senza tuttavia<br />

seguire <strong>al</strong>la lettera i racconti del libro dell’Esodo, oppone un diverso beneficio accordato<br />

da Dio a Israele a ciascuna piaga che colpisce gli egiziani. Questi dittici di contrari sono stabiliti<br />

sulla similitudine dell’elemento cosmico utilizzato d<strong>al</strong> Signore. Due digressioni interrompono<br />

però questa lunga meditazione rivolta tutta quanta <strong>al</strong> Signore.<br />

Primo dittico: avendo il faraone ordinato di gettare nel fiume i neonati maschi di Israele<br />

(11,6; cfr. Es 1,22), l’acqua del Nilo fu mutata in sangue e divenne imbevibile; invece, nel deserto,<br />

Israele ricevette l’acqua della roccia (11,7-14) 3 .<br />

Dittico seguente: le piaghe provocate da diverse bestiole sono dapprima segn<strong>al</strong>ate rapidamente<br />

(11,14); saranno spiegate molto più a lungo solo più avanti nel libro (16,1-14). Nel frattempo<br />

l’autore propone due digressioni.<br />

La prima (11,15–12,27) spiega perché il Signore avesse deciso di punire con uno strumento<br />

così ridicolo. Queste piaghe inflitte d<strong>al</strong>le bestiole inviate contro l’Egitto sono messe in par<strong>al</strong>lelismo<br />

con il castigo <strong>dei</strong> Cananei per mezzo <strong>dei</strong> c<strong>al</strong>abroni; secondo l’autore, Dio castiga in<br />

questo modo non per impotenza ma per preoccupazione di moderazione, perché egli ama le<br />

sue creature e vuole solo la conversione <strong>dei</strong> colpevoli (11,23–12,2); ma se costoro si ostinano<br />

egli proseguirà fino <strong>al</strong> castigo supremo (12,23-27). L’autore ne trae la lezione che il giusto<br />

deve imitare la misericordia di Dio (12,19-22).<br />

La seconda digressione (13–15) 4 spiega la ragione per cui gli egiziani furono castigati proprio<br />

con degli anim<strong>al</strong>i. Il motivo è stato già brevemente annunciato in Sap 11,15-16; 12,23.27,<br />

ma, an<strong>al</strong>izzando i tre tipi fondament<strong>al</strong>i di culto praticati d<strong>ai</strong> pagani del suo tempo – culto degli<br />

elementi della natura (13,1-9), culto degli idoli (13,10–15,13), culto degli anim<strong>al</strong>i viventi<br />

(15,14-19) – l’autore sottolinea il carattere estremamente aberrante di questa zoolatria che gli<br />

egiziani praticavano da vari secoli (cfr. Es 8,22). Quando se ne presenta l’occasione, l’autore<br />

riprende la critica dell’idolatria, ma approfondendo le obiezioni di ordine teologico: <strong>al</strong>l’inizio<br />

e <strong>al</strong>la fine (13,10-19; 15,7-13) egli mostra la follia <strong>dei</strong> fabbricanti di idoli, mentre <strong>al</strong> centro<br />

(14,11-31) an<strong>al</strong>izza il processo degradante inerente <strong>al</strong>l’idolatria: il culto sbagliato genera le<br />

peggiori depravazioni mor<strong>al</strong>i; invece la storia sacra dimostra che Dio s<strong>al</strong>va senza gli idoli<br />

(14,1-7) e che Israele, benché anch’egli peccatore, non è sprofondato nell’abisso dell’idolatria<br />

(15,1-5). La struttura di questa seconda digressione è quindi la seguente:<br />

I. culto della natura (13,1-9).<br />

II. culto degli idoli (13,10–15,13):<br />

A. idoli d’oro, d’argento, di pietra e soprattutto di legno;<br />

ruolo del legn<strong>ai</strong>olo fabbricante di idoli (13,10-19);<br />

B. riferimento <strong>al</strong>la storia sacra; invocazione; annuncio o transizione (14,1-10).<br />

C. Castigo degli idoli;<br />

invenzione e conseguenze dell’idolatria;<br />

castigo degli idolatri (14,11-31).<br />

B’. Riferimento <strong>al</strong>la storia sacra; invocazione;<br />

annuncio o transizione (15,1-6).<br />

A’. Idoli di argilla;<br />

ruolo del vas<strong>ai</strong>o che fabbrica idoli (15,7-13).<br />

III. Culto degli anim<strong>al</strong>i viventi (15,14-19).<br />

Terminate queste digressioni, l’autore riprende il suo racconto degli eventi dell’esodo là<br />

dove l’aveva lasciato in 11,15, cioè <strong>al</strong>le piaghe inflitte d<strong>al</strong>le bestiole. Questa volta però ne distingue<br />

due tipi: da una parte, <strong>al</strong>le rane che tolgono ogni appetito agli egiziani egli oppone le<br />

quaglie (16,1-4); d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra, <strong>ai</strong> tafani e <strong>al</strong>le cav<strong>al</strong>lette, contro i cui morsi non c’era rimedio (qui<br />

3<br />

Es 17,5-6 avvicina già i due prodigi operati da Mosè con lo stesso bastone.<br />

4<br />

Cfr. M. GILBERT, La critique des dieux dans le Livre de la Sagesse (Sg 13–15) (AnBib 53), Rome 1973,<br />

245-257.


118 Sapienza<br />

l’autore va oltre i racconti dell’Esodo), oppone il serpente di bronzo <strong>al</strong>la vista del qu<strong>al</strong>e Israele<br />

riceveva da Dio la guarigione (16,5-14).<br />

Il dittico seguente oppone i raccolti degli egiziani, distrutti d<strong>al</strong>la grandine e d<strong>al</strong>la tempesta,<br />

<strong>al</strong>la manna donata a Israele durante il suo soggiorno nel deserto (16,15-29). Poi <strong>al</strong>le tenebre<br />

che avvolgono gli egiziani viene opposta la luce che illuminava Israele nel paese di Gošen,<br />

come pure in occasione del passaggio del mar Rosso (17,1–18,4).<br />

Infine le piaghe degli ultimi due dittici vengono dapprima presentate insieme, la morte <strong>dei</strong><br />

primogeniti degli egiziani e l’affogamento dell’esercito del faraone nel mar Rosso; esse furono<br />

motivate d<strong>al</strong> decreto infanticida del faraone (18,5; cfr. 11,6). Dopo di che l’autore distingue<br />

i due dittici. Alla morte <strong>dei</strong> primogeniti degli egiziani, quando Israele, riconosciuto figlio di<br />

Dio, celebra la pasqua e attende la s<strong>al</strong>vezza (18,6-19), l’autore oppone l’intercessione di Aronne<br />

che arrestò il flagello mort<strong>al</strong>e che colpiva Israele nel deserto in occasione della rivolta<br />

di Core (18,20-25; cfr. Num 17,11-14). Infine, <strong>al</strong>l’affogamento dell’esercito del faraone viene<br />

opposto il passaggio degli ebrei <strong>al</strong>l’asciutto e ricorda il loro cantico di Es 15 (19,1-9; cfr.<br />

10,20).<br />

Se ora, messe da parte le due digressioni (11,15–12,27; 13–15), guardiamo <strong>al</strong>l’insieme della<br />

struttura di tutti questi dittici, costatiamo che essi sono o del numero di cinque (in cifre romane),<br />

o del numero di sette (in cifre arabe), a seconda che si tenga conto o meno di 11,15 e<br />

di 18,5, in cui l’autore accosta da una parte tutte le piaghe per mezzo delle bestiole e d<strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tra<br />

la morte che colpisce l’Egitto nei suoi primogeniti e nel suo esercito. Si ottiene <strong>al</strong>lora lo<br />

schema seguente:<br />

I = 1: acqua del Nilo – acqua della roccia (11,1-14)<br />

II = 2: rane – quaglie (16,1-4)<br />

= 3: tafani e cav<strong>al</strong>lette – serpente di bronzo (16,5-14)<br />

III = 4: raccolto distrutto d<strong>al</strong>la grandine – manna (16,15-29)<br />

IV = 5 : tenebre – luce (17,1–18,4)<br />

V = 6: morte <strong>dei</strong> primogeniti degli egiziani – Israele risparmiato (18,6-25)<br />

= 7: il mar Rosso uccide – libera (19,1-9)<br />

Inoltre delle <strong>al</strong>lusioni <strong>al</strong> cantico di Es 15 app<strong>ai</strong>ono in 10,20 e 19,9, che incorniciano l’insieme<br />

del racconto. Similmente il decreto infanticida del faraone viene menzionato <strong>al</strong>l’inizio<br />

di I (11,6) e di V (18,5): è una seconda inclusione dell’insieme. Inoltre, i dittici 1 e 7 fanno intervenire<br />

entrambi lo stesso elemento, l’acqua. D’<strong>al</strong>tra parte il dittico centr<strong>al</strong>e, nell’uno e<br />

nell’<strong>al</strong>tro sistema (III=4) offre l’occasione <strong>al</strong>l’autore di precisare che il cosmo lotta con Dio<br />

contro i colpevoli e in favore <strong>dei</strong> giusti (16,24); ora questa affermazione centr<strong>al</strong>e si trova ripresa<br />

in conclusione del libro.<br />

Alle correlazioni di struttura indicate sopra per l’insieme <strong>dei</strong> dittici possiamo aggiungere le<br />

seguenti che abbiamo appena rilevato:<br />

cantico di Es 15 (10,20)<br />

l’acqua (11,6)<br />

decreto infanticida (11,7)<br />

. . .<br />

manna; ruolo del cosmo (16,20.24)<br />

. . .<br />

decreto infanticida (18,5)<br />

l’acqua (19,1-8)<br />

cantico di Es 15 (19,9)<br />

Queste ultime osservazioni dimostrano che l’ultima parte del libro comporta anch’essa degli<br />

elementi di una struttura concentrica.<br />

La conclusione riprende l’essenzi<strong>al</strong>e <strong>dei</strong> princip<strong>al</strong>i avvenimenti dell’esodo: il cosmo si trasforma<br />

per meglio lottare in favore <strong>dei</strong> giusti (19,10-12.18-21) contro <strong>dei</strong> nemici peggiori <strong>dei</strong><br />

sodomiti che avevano accolto m<strong>al</strong>e degli stranieri (19,13-17; cfr. Gen 19,1-11). Questo riassunto<br />

si conclude con un richiamo <strong>al</strong>la manna, spiegata nel dittico centr<strong>al</strong>e (III=4) e qu<strong>al</strong>ificata<br />

qui come ambrosia, cibo celeste degli antichi che assicurava l’immort<strong>al</strong>ità.


Sapienza 119<br />

Infine, secondo l’ultimo versetto del libro (19,22), ciò che il Signore aveva fatto in occasione<br />

dell’esodo in favore del suo popolo, lo ripete in ogni tempo e in ogni luogo sotto forme<br />

diverse: Dio non manca m<strong>ai</strong> di s<strong>al</strong>vare i suoi.<br />

L’insieme della struttura del libro denota delle caratteristiche presenti ovunque. Le strutture<br />

concentriche sono individuabili in tutte le parti, anche nella presentazione degli avvenimenti<br />

dell’esodo. T<strong>al</strong>volta la struttura concentrica si rivela a tre rami: lo stesso tema appare tre volte,<br />

<strong>al</strong>l’inizio, in mezzo e <strong>al</strong>la fine di un insieme e delimita così la sua struttura; t<strong>al</strong>e è il caso in<br />

1,16; 2,9.24 (la parte degli empi); in 6,1-2.9-11.21 (appello <strong>ai</strong> principi); 9,4.10.17bc (richiesta<br />

della Sapienza); in 11,15-16; 12,23-27; 16,1 (la piaga per mezzo delle bestiole).<br />

Quanto <strong>ai</strong> dittici, caratteristici del richiamo agli avvenimenti dell’esodo (11–19), si trovano<br />

anche in 3–4 (i giusti e gli empi), in 11,15–12,27 (egiziani e cananei) e in 13–15 (gli idolatri e<br />

il popolo di Dio).<br />

Infine tutte le parti app<strong>ai</strong>ono fortemente legate tra loro. La seconda, che fa l’elogio esplicito<br />

della Sapienza, viene preparata in 6,12-21 e annunciata in 6,22. La terza si lega molto natur<strong>al</strong>mente<br />

<strong>al</strong>la seconda in quanto sviluppa 9,18, l’ultimo versetto della preghiera, e la lunga<br />

meditazione sull’esodo è preparata d<strong>al</strong> riassunto di 10,15-21; inoltre, la preghiera di Sap 9 si<br />

prolunga nel racconto che prende la forma di inno: da 10,20 fino <strong>al</strong>la fine del libro l’autore si<br />

rivolge il più delle volte <strong>al</strong> Signore stesso.<br />

1.2. GENERE LETTERARIO<br />

Qu<strong>al</strong> è il genere letterario di questo libro preso nella sua tot<strong>al</strong>ità? 5<br />

Dopo Focke e soprattutto Reese 6 si parla spesso di logos protreptikos, di discorso protrettico.<br />

Ma questa ipotesi solleva due difficoltà: innanzitutto del Protreptico di Aristotele, l’esempio<br />

tipo di questo genere letterario, sappiamo in re<strong>al</strong>tà ben poco d<strong>ai</strong> frammenti che ci sono<br />

pervenuti; inoltre, tutta la parte fin<strong>al</strong>e del libro della Sapienza, che sviluppa l’evocazione dell’esodo<br />

con un continuo riferimento <strong>al</strong>la storia, non rientra in questo genere letterario. Comunque<br />

sia, l’ipotesi offre il vantaggio di orientare la ricerca verso il mondo greco, d<strong>al</strong> momento<br />

che nessun genere letterario propriamente biblico rende conto della tot<strong>al</strong>ità del libro<br />

della Sapienza.<br />

Sembra opportuno parlare, con P. Beauchamp, di encomium o di elogio. Accanto <strong>ai</strong> discorsi<br />

deliberativi e giudiziari, Aristotele, nella sua Retorica, e, dopo di lui, Cicerone e Quintiliano,<br />

collocano il discorso epidittico: questo genere letterario non serve, come quello giudiziario, a<br />

giudicare il passato, né, come quello deliberativo, a favorire una decisione che deve orientare<br />

il futuro, ma cerca di incitare l’uditorio ad ammirare e a voler imitare una persona o a praticare<br />

una virtù, una precisa qu<strong>al</strong>ità. In quest’ultimo caso ci troviamo di fronte <strong>al</strong>l’encomium. Le<br />

descrizioni che ne danno Aristotele e i suoi successori si adattano a quanto troviamo nel libro<br />

della Sapienza.<br />

Secondo Aristotele, l’esordio è an<strong>al</strong>ogo a un «preludio di un pezzo di flauto» (Retorica,<br />

1414b). La materia è tratta d<strong>al</strong>l’elogio o d<strong>al</strong> biasimo; interviene anche il consiglio. Si tratta di<br />

risvegliare l’attenzione e l’interesse degli ascoltatori <strong>ai</strong> qu<strong>al</strong>i ci si rivolge direttamente. Si presenta<br />

loro brevemente il tema del discorso esortandoli a metterlo essi stessi in pratica. Per mostrarne<br />

la posta in gioco si cede la parola a coloro che rifiutano il v<strong>al</strong>ore di ciò di cui si vuol<br />

fare l’elogio; si critica questa opinione e, attraverso situazioni dolorose o sorprendenti in cui<br />

possono trovarsi implicati gli stessi ascoltatori, si fa percepire anche quanto sia utile l’oggetto<br />

dell’elogio. L’esordio si conclude con una breve descrizione di ciò che si vuole lodare e con<br />

una traccia del seguito del discorso. Sap 1–6 corrisponde a questa descrizione. Sap 1 e 6 sono<br />

delle esortazioni in cui il contenuto del consiglio è tratto anticipatamente d<strong>al</strong>l’elogio. Sap 2 e<br />

5 Cfr. BIZZETI, Il libro della Sapienza, 113-180; GILBERT, DBS 11, 77-87.<br />

6 F. FOCKE, Die Entstehung der Weisheit S<strong>al</strong>omos, Göttingen 1913, 85 (per Sap 1–5); J. M. REESE, Hellenistic<br />

Influence on the Book of Wisdom and its Consequences (AnBib 41), Roma 1970, 117-121.


120 Sapienza<br />

5 formano l’accusa di un’opinione avversaria e la sua critica. Sap 3–4 oppone <strong>al</strong> comportamento<br />

degli avversari delle situazioni univers<strong>al</strong>i paradoss<strong>al</strong>i. Infine, a mo’ di argomentazione,<br />

viene «congetturato» l’avvenire: immort<strong>al</strong>ità, incorruttibilità e intervento di Dio in favore <strong>dei</strong><br />

giusti mediante le forze cosmiche.<br />

L’elogio, nel senso stretto, deve <strong>al</strong>lora mostrare tre cose: l’origine, la natura e le opere o i<br />

benefici di ciò che si intende lodare. È la parte più ardua sia per l’oratore o lo scrittore che per<br />

l’ascoltatore o il lettore <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e viene chiesto uno sforzo di attenzione. Sap 7–9, annunciato <strong>al</strong><br />

termine dell’esordio (Sap 6,22), corrisponde a questo progetto. Ma a proposito dell’origine<br />

della Sapienza vengono distinti due punti di vista: l’origine della Sapienza stessa e la sua origine<br />

in S<strong>al</strong>omone o nel cuore del saggio. L’autore inizia con questo secondo punto di vista: il<br />

saggio non ha ricevuto la Sapienza fin d<strong>al</strong>la nascita, ma perché l’ha domandata a Dio nella<br />

preghiera; solo la preghiera è <strong>al</strong>l’origine della Sapienza nell’uomo (7,1-7; 8,17-21; 9). Quanto<br />

<strong>al</strong>l’origine della Sapienza stessa, essa si situa in Dio, di cui la Sapienza è il riflesso, lo specchio,<br />

l’immagine e di cui condivide l’intimità (7,25-26; 8,3). La natura della Sapienza viene<br />

descritta con ventuno attributi: è purezza assoluta, capace perciò di penetrare ogni cosa in vista<br />

del bene (7,22-24). Questo porta a parlare della sua attività, in quanto questa deriva d<strong>al</strong>la<br />

sua natura: la Sapienza anima l’universo e forma gli amici di Dio e i profeti (7,27–8,1); è anche<br />

l’artefice di tutte le cose (7,21; 8,4-6), la madre di tutti i beni, che essa porta con sé a colui<br />

che la riceve (7,12). La sua attività è perciò legata <strong>al</strong>la sua origine e <strong>al</strong>la sua natura; essa concede<br />

anche ogni cosa desiderabile (7,8-12.17-21; 8,5-8.10-18). Ma ciò che caratterizza questa<br />

parte del libro è il fatto che l’elogio della Sapienza, la sua origine, la sua natura e la sua azione<br />

esigono non soltanto che essa sia preferita a tutti i beni, ma che sia richiesta nella preghiera:<br />

questo è il motivo per cui l’elogio culmina in una preghiera (Sap 9). Così l’autore, facendo<br />

l’elogio della Sapienza, fa anche in qu<strong>al</strong>che modo l’elogio di S<strong>al</strong>omone, il suo modello, di cui<br />

vanta la nobiltà, la cultura, lo sfarzo e la stima di cui fu circondato: tutte queste circostanze,<br />

che, secondo Aristotele, l’elogio deve esporre, trovano la loro ragion d’essere nel fatto che S<strong>al</strong>omone<br />

domandò prima di ogni cosa la Sapienza.<br />

Per confermare l’ascoltatore o il lettore nel suo desiderio di praticare ciò di cui si sta facendo<br />

l’elogio, i maestri della retorica antica suggeriscono uno sviluppo fatto di esempi ben<br />

noti. Questa parte, più accessibile, può essere elaborata a piacimento dell’oratore o autore.<br />

Uno <strong>dei</strong> modi migliori per presentare questi esempi, sempre continuando a parlare implicitamente<br />

dell’azione o <strong>dei</strong> benefici di ciò di cui si fa l’elogio, consiste nel proporre <strong>dei</strong> confronti<br />

in quanto d<strong>al</strong> contrasto emerge la luce. Questa «amplificazione», stando a quanto dice<br />

Aristotele (Retorica, 1392a), è il luogo comune più proprio dell’epidittico. Il confronto<br />

dev’essere fatto con <strong>dei</strong> personaggi molto famosi per far emergere la superiorità di coloro che<br />

si intende lodare (Retorica, 1368a): questo confronto si chiama in greco syncrisis. Inoltre questa<br />

parte deve trarre dagli esempi addotti una lezione mor<strong>al</strong>e per gli ascoltatori; l’oratore è del<br />

resto libero di introdurre delle digressioni il cui scopo sarà ancora quello di convincere<br />

l’uditorio. Infine il discorso termina con un riassunto succinto di ciò che si può trarre dagli esempi<br />

addotti; viene scagliata un’ultima freccia contro gli avversari e si conclude rapidamente<br />

lasciando <strong>al</strong>l’uditorio il compito di prendere una decisione. Sap 10–19 corrisponde ancora una<br />

volta perfettamente a questa descrizione <strong>dei</strong> maestri della retorica greca e latina. Gli esempi<br />

addotti sono a t<strong>al</strong> punto conosciuti dagli ascoltatori che non è necessario dire il nome proprio<br />

(eccetto per il mar Rosso, in 10,18 e 19,7). Sono famosi: sono <strong>al</strong>la base della tradizione religiosa<br />

propria degli ascoltatori. La syncrisis molto elaborata e due digressioni si inseriscono<br />

appropriatamente. Infine la conclusione del discorso, in particolare l’ultimo attacco (19,13-<br />

17), corrisponde anch’essa <strong>al</strong>la teoria di questo genere epidittico. La grande differenza, in<br />

continuità con quella che caratterizzava l’elogio propriamente detto (7–9), deriva d<strong>al</strong> fatto che<br />

i paragoni che vengono addotti, pur traendo delle lezioni per l’uditorio, si rivolgono diretta-


Sapienza 121<br />

mente <strong>al</strong> Signore e non <strong>al</strong>l’uditorio, eccetto quando si tratta di descrivere le colpe degli avversari<br />

e il loro castigo 7 .<br />

Si può quindi costatare che il libro della Sapienza corrisponde nella sua tot<strong>al</strong>ità <strong>al</strong> genere<br />

letterario degli oratori antichi: è un buon esempio di encomium o elogio.<br />

Questa è la ragione per cui non bisogna cercare di attribuire l’una o l’<strong>al</strong>tra parte <strong>al</strong>la diatriba<br />

o <strong>al</strong> midraš, per la ragione fondament<strong>al</strong>e che né l’una né l’<strong>al</strong>tra costituiscono un genere letterario<br />

propriamente detto. La diatriba 8 infatti, più che un genere letterario, è un insieme di<br />

particolarità stilistiche od oratorie utilizzate d<strong>ai</strong> cinici, e poi dagli stoici, <strong>al</strong>lo scopo di far accettare<br />

d<strong>al</strong> loro uditorio popolare <strong>al</strong>cuni opzioni mor<strong>al</strong>i. Lo stile della diatriba è diretto e di<br />

una estrema vivacità: non costruzione rigida nel discorso, ma tutto ciò che è necessario per tenere<br />

in sospeso gli ascoltatori; interpellanza, di<strong>al</strong>ogo, favola, un tono ora serio ora comico, o<br />

addirittura satirico, ecc. I temi sono nobili: superiorità della mor<strong>al</strong>e, che mira <strong>al</strong>la felicità<br />

dell’uomo; vita semplice e frug<strong>al</strong>e; importanza del saggio per la società; la virtù si rivela nelle<br />

azioni, ecc. Alcune di queste caratteristiche stilistiche e tematiche si ritrovano qua e là nel libro<br />

della Sapienza, senza tuttavia fornirne un genere letterario propriamente detto.<br />

Lo stesso v<strong>al</strong>e per il midraš; anch’esso può difficilmente essere chiamato un genere letterario<br />

9 . Sembra piuttosto una rilettura <strong>dei</strong> testi biblici per svelarne il significato e adattarlo <strong>ai</strong><br />

bisogni della comunità attu<strong>al</strong>e. Prima <strong>dei</strong> midrašim del III secolo della nostra era, si incontrano<br />

solo delle caratteristiche sparse di una tendenza che non è ancora un genere letterario.<br />

Del resto questa tendenza si nota in tutte le parti del libro della Sapienza, e non soltanto in Sap<br />

10–19; Sap 7–9 dipende d<strong>ai</strong> racconti concernenti S<strong>al</strong>omone in 1Re 3–5; 2Cr 1, ma anche d<strong>ai</strong><br />

testi di Pr e di Sir che trattano della Sapienza; non mancano rapporti tra i primi capitoli del libro<br />

e Is 52,13–53,12, il canto del servo sofferente. Come scrive C. Larcher 10 , attraverso tutto<br />

il libro si ritrova, tra l’<strong>al</strong>tro, la «stessa forma di esegesi libera o midrašica».<br />

1.3. UNITÀ DEL LIBRO 11<br />

A partire da Chr. Fr. Houbigant (1753), parecchi critici hanno attribuito le diverse parti del<br />

libro ad autori differenti. Tuttavia, dopo C. L. W. Grimm (1860), la maggior parte <strong>dei</strong> commentatori<br />

del libro ne ha difeso l’unità. Sono stati utilizzati molti argomenti; quanto abbiamo<br />

cercato di spiegare nelle pagine precedenti va nella stessa direzione. Se il testo origin<strong>al</strong>e del<br />

libro è proprio quello greco che ci è stato trasmesso, se la struttura letteraria di questo libro è<br />

omogenea e corrisponde inoltre a un solo genere letterario, quello dell’encomium o elogio, <strong>al</strong>lora<br />

bisogna ritenere che il libro costituisce un’autentica unità.<br />

Sono state avanzate anche <strong>al</strong>tre argomentazioni:<br />

1. P. W. Skehan 12 argomenta a partire d<strong>al</strong>la sticometria, cioè sulla base degli stichi nelle diverse<br />

parti del libro. Ma, se è vero che Sap 1–9 comporta cinquecento stichi, non si può arrivare<br />

a una conclusione certa per il numero degli stichi nei capitoli seguenti, in quanto questo<br />

numero, checché ne dica Skehan, non è sicuro. Conviene perciò abbandonare questo tipo di<br />

argomento.<br />

7 Cfr. M. GILBERT, L’adresse à Dieu dans l’anamnèse hymnique de l’exode (Sg 10–19), in El misterio de la<br />

P<strong>al</strong>abra. Homenaje a L. Alonso Schökel, Madrid 1983, 207-225.<br />

8 Cfr. A. OLTRAMARE, Les Origines de la diatribe rom<strong>ai</strong>ne, Genève 1926, 9-17; 43-65.<br />

9 Cfr. R. LE DÉAUT, A propos d’une definition du midrash, in Bib 50 (1969) 395-413; REESE, Hellenistic Influence,<br />

91-99; nonostante G. M. CAMPS, Midras sobre la historia de las plagues (Ex 1–12), in Miscellanea biblica<br />

B. Ubach, Montserrat 1953, 97-114, e R. T. SIEBENECK, The Midrash of Wisdom 10–19, in CBQ 22 (1966)<br />

176-182.<br />

10 C. LARCHER, Études sur le Livre de la Sagesse (EtB), Paris 1969, 103.<br />

11 Cfr. C. LARCHER, Le Livre de la Sagesse, I (EtB n.s. 1), Paris 1983, 95-119; GILBERT, DBS 11, 87-91.<br />

12 P. W. SKEHAN, Text and Structure of the Book of Wisdom, in Traditio 3 (1945) 2-5.


122 Sapienza<br />

2. A. G. Wright 13 ritiene, da parte sua, che Sap sia stato scritto rispettando le proporzioni<br />

indicate d<strong>al</strong> numero d’oro. Sappiamo che le Georgiche di Virgilio sono costruite sul numero<br />

d’oro. Tuttavia la dimostrazione è poco convincente in quanto <strong>al</strong>cune divisioni del testo proposte<br />

da Wright sembrano artifici<strong>al</strong>i.<br />

3. J. M. Reese 14 trova nelle diverse parti del libro la ripetizione di parole significative o di<br />

una stessa idea origin<strong>al</strong>e. I risultati di questo metodo sono molto più probanti; essi mostrano<br />

come Sap 10–19 sia legato a Sap 1–9.<br />

4. Alcuni autori hanno dimostrato anche la coerenza del libro nel trattamento di <strong>al</strong>cuni temi.<br />

P. Beauchamp 15 ha rilevato che, nelle tre parti del libro, il cosmo gioca continuamente un<br />

ruolo capit<strong>al</strong>e. J. M. Reese 16 aggiunge i temi seguenti ugu<strong>al</strong>mente presenti in modo coerente<br />

in tutto il libro:<br />

– conoscenza religiosa di Dio;<br />

– interazione di m<strong>al</strong>izia e ignoranza;<br />

– immort<strong>al</strong>ità dell’uomo e temi connessi;<br />

– uso didattico della storia.<br />

5. Un’ultima argomentazione condurrà <strong>al</strong> capitolo seguente. Secondo C. Larcher 17 , le differenze<br />

nell’uso <strong>dei</strong> testi biblici anteriori nelle diverse parti del libro «non richiedono necessariamente<br />

autori distinti in quanto il modo di trattare il testo biblico rimane identico: stessa discrezione<br />

nei riguardi delle citazioni implicite, stesso uso abitu<strong>al</strong>e della LXX, stesso problema<br />

posto d<strong>ai</strong> passi in cui l’autore si <strong>al</strong>lontana da questa stessa forma di esegesi libera o midrašica».<br />

1.4. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E L’ANTICO TESTAMENTO<br />

In qu<strong>al</strong>e misura il nostro libro ricorre agli scritti dell’Antico Testamento che lo precedono?<br />

Per rispondere a questo interrogativo sono possibili due metodi: o seguire l’ordine stesso del<br />

libro della Sapienza o seguire l’ordine <strong>dei</strong> libri dell’Antico Testamento. Seguiremo qui il primo<br />

metodo 18 .<br />

Dobbiamo innanzitutto notare che l’autore non facilita la ricerca perché m<strong>ai</strong> fa esplicito riferimento<br />

a un testo anteriore dell’Antico Testamento. Egli svolge il suo discorso senza <strong>al</strong>cuna<br />

citazione esplicita, senza nemmeno fornire un nome proprio, ad eccezione del mar Rosso (Sap<br />

10,18; 19,7), come abbiamo già notato. Ciò non impedisce che colui che conosce la sua Bibbia<br />

– e t<strong>al</strong>i dovevano essere i primi lettori del libro – individui facilmente le <strong>al</strong>lusioni e i riferimenti.<br />

Qu<strong>al</strong>i sono?<br />

1.4.1. L’Antico Testamento in Sap 1–6 19<br />

In questa prima parte del libro le influenze bibliche sono più difficili da individuare. L’insegnamento<br />

dell’autore sull’escatologia emerge su uno sfondo in cui si situavano Giobbe e<br />

Qohelet con i loro interrogativi fondament<strong>al</strong>i. Ma l’autore di Sap supera anche tutta la dottrina<br />

classica della retribuzione affermando l’immort<strong>al</strong>ità e la retribuzione nell’<strong>al</strong>dilà.<br />

13<br />

A. G. WRIGHT, Numeric<strong>al</strong> Patterns in the Book of Wisdom, in CBQ 29 (1967) 524-538.<br />

14<br />

REESE, Hellenistic Influence, 123-140.<br />

15<br />

P. BEAUCHAMP, Le s<strong>al</strong>ut corporel des justes et la conclusion du livre de la Sagesse, in Bib 45 (1964) 491-<br />

526.<br />

16<br />

Hellenistic Influence, 140-145.<br />

17<br />

Études, 103.<br />

18<br />

Già J. FICHTNER, Der AT-Text der Sapientia S<strong>al</strong>omonis, in ZAW 16 (1939) 155-192. Il secondo metodo è<br />

seguito da P. W. SKEHAN. Studies in Israelite Poetry and Wisdom, Washington D.C. 1971, 149-236 (S<strong>al</strong>, Es, Pr,<br />

Gb, Qo) e da LARCHER, Études, 85-103.<br />

19<br />

Cfr. M. J. SUGGS, Wisdom of Solomon II,10-V: A Homily Based on the Fourth Servant Song, in JBL 76<br />

(1957) 28-33; G. W. E. NICKELSBURG, Resurrection, Immort<strong>al</strong>ity and Etern<strong>al</strong> Life in Intertestament<strong>al</strong> Jud<strong>ai</strong>sm<br />

(HThS 26), Cambridge, Mass. 1972, 61-66; J. SCHABERG, Major Midrashic Traditions in Wisdom 1,1–6,25, in<br />

JSJ 13 (1982) 75-101.


Sapienza 123<br />

Tuttavia Sap 2,1-9 non è un quadro ispirato a Qohelet che il nostro autore intenderebbe rifiutare,<br />

in quanto ha di mira piuttosto delle correnti edonistiche e materi<strong>al</strong>istiche della sua epoca.<br />

Tra i testi biblici anteriori <strong>ai</strong> qu<strong>al</strong>i l’autore si ispira in modo particolare va annoverato soprattutto<br />

il S<strong>al</strong> 2, d<strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e Sap 1 e 6,1 prendono delle espressioni. Ma per l’affermazione di<br />

base concernente l’immort<strong>al</strong>ità in Sap 1,13-15 e 2,23-24 punto di ancoraggio è Gen 1–3.<br />

Quanto <strong>al</strong>la descrizione del giusto perseguitato, in Sap 2,10-20 e 5,1-6, essa si ispira in parte<br />

<strong>al</strong> S<strong>al</strong> 22 e forse a Is 53. Tuttavia Is 53 evoca l’idea della sofferenza vicaria subita d<strong>al</strong>la<br />

moltitudine, il che non viene ripreso d<strong>al</strong>l’autore di Sap, e il tema del silenzio di Dio che appare<br />

nel S<strong>al</strong> 22 non figura in Sap. Inoltre in Sap 3,1-9 si possono individuare delle <strong>al</strong>lusioni a<br />

Dan 7,22-27; 12,3.10.<br />

In Sap 1–6 si riconoscono anche delle tracce di Is 40–66: Is 56,4-5 in Sap 3,14 a proposito<br />

dell’eunuco; Is 57,1-2 in Sap 4,14-18 sull’indifferenza delle folle di fronte <strong>al</strong>la morte del giusto.<br />

Dietro la descrizione di questa morte si riconosce invece la figura di Enoch di Gen 5,24<br />

(LXX).<br />

L’autore non segue perciò una sola fonte. Il suo discorso è nuovo e si basa su un’ampia tradizione.<br />

1.4.2. L’Antico Testamento in Sap 7–9 20<br />

Una delle princip<strong>al</strong>i chiavi di letture di Sap 7–9 è da ricercare indiscutibilmente nelle tradizioni<br />

bibliche concernenti S<strong>al</strong>omone, soprattutto in 1Re 3–11 e 2Cr 1–9. Ciò che costituisce il<br />

punto centr<strong>al</strong>e di Sap 7–9 è la preghiera di S<strong>al</strong>omone per ottenere la Sapienza (1Re 3,5-15;<br />

2Cr 1,7-12). La grande preghiera di Sap 9, annunciata in Sap 7,7 e 8,21, si ispira a questi due<br />

testi antichi. Anche l’insistenza di Sap 7,17-21 e 8,8 sul grande sapere del saggio è un adattamento<br />

di 1Re 5,9-14. Ma, fatta eccezione di Sap 9,8, tutto ciò che si riferisce <strong>al</strong>la costruzione<br />

del Tempio viene passato sotto silenzio. Altro silenzio: i matrimoni di S<strong>al</strong>omone; in questo<br />

Sap si avvicina a 2Cr.<br />

Il solo matrimonio di S<strong>al</strong>omone a cui fa riferimento il libro della Sapienza è quello del giovane<br />

re con la Sapienza (Sap 8). Qui l’autore potrebbe ricordarsi del Cantico <strong>dei</strong> Cantici, attribuito<br />

d<strong>al</strong>la Bibbia proprio a S<strong>al</strong>omone. Ma è possibile che siano intervenuti degli intermediari,<br />

come Sir 6,26-28 e 51,13-22, come pure il ritratto della sposa perfetta di Pr 31, interpretato<br />

<strong>al</strong>legoricamente in funzione della figura della Sapienza di Pr 8–9. Pr 31,11.12.23.28 descrive<br />

già il marito felice.<br />

Infine, per parlare della Sapienza stessa, l’autore del nostro libro si ispira a Pr 8 e in misura<br />

minore a Sir 24; l’insistenza sul ruolo attivo della Sapienza nell’azione creatrice (Sap 7,21;<br />

8,5) richiama la lezione «architetto» di Pr 8,30.<br />

1.4.3. L’Antico Testamento in Sap 10–19<br />

In Sap 10,1-14 viene sfruttato soprattutto il libro della Genesi. Ma se l’autore di Sap intraprende<br />

una rilettura sapienzi<strong>al</strong>e degli eventi passati, aveva un precursore in Sir 44–49.<br />

A partire da Sap 10,15 fino <strong>al</strong>la fine del libro il nostro autore si ispira soprattutto <strong>ai</strong> libri<br />

dell’Esodo e <strong>dei</strong> Numeri per le sue descrizioni delle piaghe d’Egitto e <strong>dei</strong> benefici concessi a<br />

Israele nel deserto. I S<strong>al</strong> 78 e 105 sono ugu<strong>al</strong>mente tra le sue fonti preferite. Ma trova ispirazione<br />

anche in <strong>al</strong>tri testi, come per esempio Dt 8,3 in Sap 16,26.<br />

Alcuni passi vanno considerati a parte. Sap 17,3-21, che descrive le angustie degli egiziani<br />

nelle tenebre, deve poco <strong>al</strong>la Bibbia. Nella conclusione, Sap 19,14-17, sulla cattiva ospit<strong>al</strong>ità<br />

20 Cfr. LARCHER, Études, 329-349; M. GILBERT, La figure de S<strong>al</strong>omon en Sg 7–9, in R. KUNTZMANN-J.<br />

SCHLOSSER (ed.), Études sur le jud<strong>ai</strong>sme hellénistique (LeDiv 119), Paris 1984, 225-249.


124 Sapienza<br />

degli abitanti di Sodoma, si riferisce a Gen 19,1-11, mentre Sap 19,6-21, secondo P. Beauchamp<br />

21 , non è senza an<strong>al</strong>ogie con Gen 1,1–2,4, l’azione creatrice di Dio in sette giorni.<br />

Le due digressioni (Sap 11,15–12,27; 13–15) formano anch’esse un tutto a parte, d<strong>al</strong> punto<br />

di vista che ci interessa qui. Le <strong>al</strong>lusioni bibliche sono il più delle volte rapide e diversificate:<br />

per esempio Gen 1,1-2 in Sap 11,17; Is 40,15 in Sap 11,12; Is 44,9-20 in Sap 13,10-19, la descrizione<br />

del legn<strong>ai</strong>olo che fabbrica idoli; Sap 14,5-7 fa <strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>l’arca di Noè; Os 4,2, un<br />

cat<strong>al</strong>ogo di vizi che si ispira <strong>al</strong> Dec<strong>al</strong>ogo, sembra essere dietro a Sap 14,25; Es 34,6, la grande<br />

rivelazione della misericordia divina, traspare in Sap 15,1; S<strong>al</strong> 115,5-7 è <strong>al</strong>la base di Sap<br />

15,15 22 .<br />

Questi sono i dati princip<strong>al</strong>i. Aggiungiamo che il nostro autore segue abbastanza spesso,<br />

quando fa riferimento <strong>al</strong> testo biblico, la versione greca <strong>dei</strong> LXX, ma non si può escludere un<br />

ricorso, diretto o indiretto, <strong>al</strong> testo ebr<strong>ai</strong>co. Comunque sia, tenendo conto <strong>dei</strong> riferimenti praticamente<br />

obbligati a certi libri in Sap 7–9; 10; 16–19, il nostro autore utilizza quasi tutti i libri<br />

biblici anteriori, ma sfrutta le sue fonti con molta libertà.<br />

1.5. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E LA LETTERATURA GIUDAICA<br />

Fermiamo ora la nostra attenzione su <strong>al</strong>cuni scritti del giud<strong>ai</strong>smo anteriori <strong>al</strong> libro della Sapienza<br />

che hanno presumibilmente esercitato un’influenza sul suo autore.<br />

1.5.1. <strong>Libro</strong> di Enoch 23<br />

L’escatologia di Sap 1–6 attira l’attenzione sul libro di Enoch. Scritto in aram<strong>ai</strong>co – <strong>al</strong>cuni<br />

frammenti sono stati trovati a Qumran –, il libro è conosciuto soprattutto nella sua versione<br />

etiopica, fatta sulla versione greca; di questa sono stati conservati parecchi frammenti, speci<strong>al</strong>mente<br />

per la maggior parte <strong>dei</strong> capitoli che interessano l’escatologia.<br />

Enoch 1–5 è un discorso di Enoch che fa da introduzione <strong>al</strong>la raccolta. Vi si annuncia il<br />

giudizio: in esso gli empi riceveranno la punizione delle loro colpe e i giusti la luce, la gioia,<br />

la pace e la saggezza. L’autore di Sap ha forse conosciuto questa introduzione nella sua versione<br />

greca. «Ma egli avrebbe <strong>al</strong>lora legato in un sistema molto più solido delle nozioni escatologiche<br />

abbastanza imprecise trasponendole su un <strong>al</strong>tro piano» 24 , trascendente, sopratempor<strong>al</strong>e.<br />

Enoch 91–105, il «<strong>Libro</strong> dell’Esortazione e della M<strong>al</strong>edizione», scritto di andatura sapienzi<strong>al</strong>e,<br />

rivela il «mistero» delle ricompense trascendenti che saranno accordate <strong>al</strong>le anime <strong>dei</strong><br />

giusti. Con C. Larcher 25 , si può aggiungere Enoch 108, ultimo capitolo dell’appendice; esso<br />

ritorna sul castigo <strong>dei</strong> peccatori e la ricompensa <strong>dei</strong> giusti. È ancora Enoch che parla. Egli afferma<br />

chiaramente la sopravvivenza dell’anima, ma m<strong>ai</strong> la risurrezione <strong>dei</strong> corpi. A causa<br />

dell’ingiustizia e dell’empietà crescenti, il giudizio è vicino: gli empi scenderanno nello šeol e<br />

vi resteranno per la loro punizione, mentre i giusti, purificati d<strong>al</strong>le prove, si leveranno d<strong>al</strong> loro<br />

sonno nello šeol per prendere parte <strong>al</strong>la felicità degli angeli e brillare come i luminari del cielo.<br />

È possibile che l’autore di Sap, la cui escatologia e antropologia si accostano a quelle di<br />

Enoch 91–105.108, abbia conosciuto questo scritto; non è però certo che ne abbia conosciuto<br />

la versione greca.<br />

21 Le s<strong>al</strong>ut corporel, 501-508.<br />

22 Per Sap 13–15, cfr. GILBERT, Critique des dieux.<br />

23 Cfr. P. GRELOT, L’eschatologie de la Sagesse et les apoc<strong>al</strong>ypses juives, in Mémori<strong>al</strong> A. Gelin, Le Puy<br />

1961, 165-178 (= LeDiv 67, Paris 1971, 187-199); LARCHER, Études, 103-112 e 302-305.<br />

24 LARCHER, Études, 106.<br />

25 LARCHER, Études, 110-111.


Sapienza 125<br />

1.5.2. Gli scritti di Qumran 26<br />

Anche qui è il tema dell’escatologia di Sap 1–6 che viene confrontato con quella di Qumran.<br />

Ma quest’ultima è m<strong>al</strong> conosciuta e le opinioni degli speci<strong>al</strong>isti non sono concordi. La comunità<br />

di Qumran prevede sia la sopravvivenza <strong>dei</strong> giusti che degli empi: i primi godranno<br />

nella comunità degli angeli, mentre i secondi saranno gettati negli inferi prima di scomparire;<br />

ad ogni modo Dio procederà a un giudizio escatologico. Il punto controverso riguarda la risurrezione<br />

<strong>dei</strong> corpi, contestata da <strong>al</strong>cuni autori, mentre <strong>al</strong>tri ve ne vedrebbero degli indizi nei<br />

testi. A parte questo punto, si avvicinano a Sap la distinzione netta tra due partiti, giusti ed<br />

empi, il giudizio di Dio sugli uni e gli <strong>al</strong>tri, l’associazione <strong>dei</strong> giusti con gli angeli (cfr. Sap<br />

5,5) nella presenza senza fine di Dio, e la distruzione degli empi.<br />

Ma la dottrina qumranica <strong>dei</strong> due spiriti divide il mondo tra buoni e cattivi, radic<strong>al</strong>mente<br />

distinti e sottomessi a un vero determinismo; non è pensabile <strong>al</strong>lora nessuna conversione. Invece,<br />

per Sap, il Creatore non vuole la morte (Sap 1,14; 2,23), ma la conversione <strong>dei</strong> peccatori<br />

(Sap 11,23; 12,2.20) e sta <strong>al</strong>l’uomo scegliere la vita o la morte (Sap 1,16; 2,21). D’<strong>al</strong>tra parte<br />

la morte fisica preoccupa l’autore di Sap, che la supera con la sua riflessione sulla vita e la<br />

morte spiritu<strong>al</strong>i; a Qumran, invece, la morte fisica non riceve <strong>al</strong>cun rilievo. Infine, <strong>al</strong> contrario<br />

di Sap, Qumran non accorda <strong>al</strong>cuna personificazione <strong>al</strong>la Sapienza e <strong>al</strong>lo Spirito, soprattutto<br />

per un’azione di dimensione cosmica (cfr. Sap 7,24; 8,1; 12,1).<br />

Pertanto, nonostante le differenze che abbiamo segn<strong>al</strong>ato, è possibile che l’autore di Sap<br />

abbia conosciuto, se non i testi stessi di Qumran, <strong>al</strong>meno un ambiente simile, proveniente<br />

quindi d<strong>al</strong> giud<strong>ai</strong>smo p<strong>al</strong>estinese.<br />

1.6. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E LA CULTURA GRECA 27<br />

Scrivendo direttamente in greco, l’autore di Sap doveva essere natur<strong>al</strong>mente molto aperto<br />

<strong>al</strong>la cultura greca. Il suo vocabolario presenta già delle caratteristiche. Su 1734 parole differenti<br />

usate nel libro, 315, secondo C. Larcher 28 che esclude 3-4Mac, non app<strong>ai</strong>ono nella LXX;<br />

e se si escludono le parole che si leggono solo in Sap e 2Mac, libro anch’esso fortemente segnato<br />

d<strong>al</strong>la cultura greca, la cifra delle parole non presenti nel resto della LXX è ancora più<br />

elevato. È possibile che il nostro autore abbia creato <strong>dei</strong> neologismi 29 . T<strong>al</strong>volta delle parole<br />

greche prendono sotto la sua penna un significato inusitato, <strong>al</strong>meno per quanto ne sappiamo<br />

noi, e non sembra che egli usi il greco spigliatamente.<br />

L’impatto con la cultura greca si può percepire più chiaramente nella scelta del genere letterario<br />

dell’opera. Abbiamo mostrato sopra che Sap corrisponde <strong>al</strong>le leggi dell’encomium o<br />

elogio, così come furono descritte d<strong>ai</strong> maestri della retorica antica.<br />

Seguendo l’ordine <strong>dei</strong> capitoli di Sap è possibile rilevare <strong>al</strong>cune precise influenze di questa<br />

cultura ellenistica:<br />

– in Sap 2,1-3, nella prima parte del discorso degli empi si notano delle tracce della dottrina<br />

degli epicurei; ma questi non sono gli unici <strong>ai</strong> qu<strong>al</strong>i si pensa, e in ogni caso non sarebbero<br />

diventati <strong>dei</strong> persecutori 30 ;<br />

– in 7,17-20, l’autore traspone secondo i gusti del suo tempo i dati tradizion<strong>al</strong>i sul sapere<br />

enciclopedico di S<strong>al</strong>omone (speci<strong>al</strong>mente 1Re 5,13);<br />

– in 7,22-23, la descrizione dello spirito della Sapienza con ventuno attributi ricorda la definizione<br />

del bene dello storico Cleante 31 ;<br />

26<br />

Cfr. A.-M. DUBARLE, Une source du livre de la Sagesse, in RSPhTh 37 (1953) 425-443; M. DELCOR,<br />

L’immort<strong>al</strong>ité de l’ame dans le livre de la Sagesse et dans les documents de Qumran, in NRTh 77 (1955) 614-<br />

630; LARCHER, Études, 112-119.<br />

27<br />

Cfr. LARCHER, Études, 179-262 e 349-361; REESE, Hellenistic Influence; GILBERT, DBS 11, 98-100.<br />

28<br />

LARCHER, Études, 181.<br />

29<br />

LARCHER, Études, 182, n. 1; D. WINSTON, The Wisdom of S<strong>al</strong>omon (AncB 43), Garden City 1979, 15, n 5.<br />

30 Cfr. LARCHER, Études, 215-216.


126 Sapienza<br />

– in 7,24; 8,1, insistendo sull’idea che la Sapienza penetra tutto l’universo, l’autore le attribuisce<br />

una qu<strong>al</strong>ità essenzi<strong>al</strong>e dello pneuma cosmico degli stoici (cfr. anche Sap 1,17) 32 ;<br />

– in 8,7, le quattro virtù che saranno poi chiamate «cardin<strong>al</strong>i» sono enumerate secondo la<br />

formula tipicamente stoica;<br />

– in 9,15 si riconosce una tesi di Platone: il corpo ostacola le aspirazioni dell’anima (cfr.<br />

Fedone, 79C ss);<br />

– in 11,20, la triade «numero, pesi, misura» è un bene comune della cultura greca 33 ; ma Filone<br />

l’utilizzerà, come il nostro autore, a proposito del Dio creatore;<br />

– in 12,4-6, nella sua descrizione <strong>dei</strong> cananei, l’autore ricorre, <strong>al</strong> di là della testimonianza<br />

della Scrittura, <strong>al</strong>la leggenda greca degli Atridi 34 ; ciò facendo egli ha di mira sia i greci che i<br />

cananei;<br />

– 12,19, il tema della «filantropia», nel senso di humanitas, ha conosciuto un ampio sviluppo<br />

nella letteratura greca e fu univers<strong>al</strong>izzato dagli stoici. Ma la Lettera di Aristea ne aveva<br />

già fatto, nel giud<strong>ai</strong>smo, una virtù reg<strong>al</strong>e 35 ;<br />

– in 13,1-9, l’an<strong>al</strong>isi del culto degli elementi della natura si spiega soprattutto con la teodicea<br />

del giovane Aristotele, ripresa dagli stoici 36 ;<br />

– in 14,15, lo sviluppo dell’idolatria a partire d<strong>al</strong> culto di un defunto riprende verosimilmente<br />

una delle forme del mito di Dioniso secondo una fonte che si ispirava <strong>al</strong>l’evemerismo.<br />

Il culto <strong>dei</strong> sovrani, stigmatizzato in 14,16-20, ha anch’esso delle tendenze dionisiache, mentre<br />

in 14,23-26 l’autore sembra fare <strong>al</strong>lusione <strong>ai</strong> baccan<strong>al</strong>i. Invece 14,22 parla forse dell’inganno<br />

della pax romana 37 ;<br />

– in 15,12, le concezioni pagane della vita che sono evocate dipendono d<strong>al</strong> mondo grecoromano;<br />

– in Sap 17, nell’an<strong>al</strong>isi psicologica della piaga delle tenebre si può riconoscere il gusto <strong>dei</strong><br />

greci. In ogni caso, la descrizione della natura in movimento, in 17,17-18, è più greca che biblica;<br />

– in 19,18, il confronto music<strong>al</strong>e è anch’esso molto greco;<br />

– in 19,21, infine, considerare la manna come ambrosia significa applicare ad essa l’idea<br />

omerica di incorruttibilità e immort<strong>al</strong>ità (Iliade 19,38; Odissea 5,93).<br />

A questi temi vanno aggiunte la dottrina dell’autore sull’immort<strong>al</strong>ità. In ogni caso questi rilievi<br />

denotano una grande quantità di correnti greche ed ellenistiche. Non si può perciò dire<br />

che il nostro autore dipenda, per esempio, da una filosofia particolare. Appare piuttosto come<br />

un eclettico, prendendo ciò che si adatta <strong>al</strong> suo scopo là dove lo trova e integrandolo nella sua<br />

sintesi; ma, in compenso, non si può negare una re<strong>al</strong>e influenza del mondo ellenistico.<br />

31<br />

Cfr. È. DES PLACES, Épithètes et attributs de la "Sagesse" (Sg 7,22-23) et SVF I 557 Arnim, in Bib 57<br />

(1976) 414-419.<br />

32<br />

Cfr. G. VERBEKE, L’Évolution de la doctrine du Pneuma du stoicisme à St Augustin, Paris-Louv<strong>ai</strong>n 1945,<br />

223-236.<br />

33<br />

Cfr. E. GENZMER, Pondere, numero, mensura, in Archives d’histoire du droit orient<strong>al</strong> – Revue internation<strong>al</strong>e<br />

des droits de l’Antiquité 1 (1952) 469-494.<br />

34<br />

Cfr. D. GILL, The Greek Sources of Wisdom XII 3-7, in VT 15 (1965) 383-386.<br />

35<br />

C. SPICQ, La Philanthropie hellénistique, vertu divine et roy<strong>al</strong>e, in StTh 12 (1958) 169-191; R. LE DÉAUT,<br />

Philanthropia dans la littérature grecque jusqu’au Nouveau Testament, in Mélanges E. Tisserant, 1 (Studi e Testi<br />

168), Rome 1964, 255-294.<br />

36<br />

Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 1-52; A.-M. DUBARLE, La Manifestation naturelle de Dieu d’après<br />

l’Écriture (LeDiv 91), Paris 1976, 127-154.<br />

37<br />

Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 146-149.


2. IL MESSAGGIO<br />

Sapienza 127<br />

2.1. MORTE, IMMORTALITÀ ED ESCATOLOGIA<br />

L’autore affronta queste tematiche soprattutto in Sap 1–6 38 , ma il suo pensiero è ricco di<br />

sfumature e perciò difficile da esplicitare; dovrà essere completato <strong>al</strong>la luce del resto del libro.<br />

La morte, secondo lui, ha due livelli. C’è, natur<strong>al</strong>mente, la morte fisica. Gli empi danno ad<br />

essa un t<strong>al</strong>e rilievo distruttore dell’uomo che, <strong>ai</strong> loro occhi, <strong>al</strong> di là di essa non c’è nulla (2,1-<br />

5). D<strong>al</strong>la loro tesi sulla morte fisica essi deducono la v<strong>al</strong>idità di un comportamento sulla terra<br />

tot<strong>al</strong>mente immor<strong>al</strong>e (2,6-20): ciò che essi rivendicano come vita quaggiù è in re<strong>al</strong>tà una morte<br />

spiritu<strong>al</strong>e, dove non c’è evidentemente <strong>al</strong>cun posto per Dio.<br />

Ora, rileggendo Gen 1–3, il nostro autore è convinto che Dio, nel suo progetto inizi<strong>al</strong>e, abbia<br />

destinato l’essere umano <strong>al</strong>l’immort<strong>al</strong>ità (a)Janasi/a; 1,13-16), <strong>al</strong>l’incorruttibilità (a)fJarsi/a;<br />

2,23-24). Ciò suppone che l’essere umano rimanga in amicizia con il suo Creatore. Ma il<br />

diavolo, identificato per la prima volta con il serpente di Gen 3, introdusse la morte nel mondo<br />

(2,24). Questa ha nuovamente due livelli: disobbedendo, l’essere umano si separa da Dio –<br />

è la morte spiritu<strong>al</strong>e – e la morte fisica diventa di conseguenza il suo destino.<br />

Questa morte fisica, che ora colpisce tutti, non è però l’ultima parola. Infatti, se il progetto<br />

inizi<strong>al</strong>e del Creatore è stato svilito, non è stato tot<strong>al</strong>mente abbandonato. I giusti, coloro che restano<br />

fedeli <strong>al</strong> Signore, passano come tutti attraverso la morte fisica, ma per essi questa morte<br />

è solo un passaggio verso la vera vita di amicizia con Dio (3,9; 4,14-15; 5,5). Per il giusto, la<br />

morte fisica non domina la vita spiritu<strong>al</strong>e: questa non sarà annientata, ma riceverà, <strong>al</strong> di là della<br />

morte fisica, la sua pienezza. Il progetto del Creatore non è caduco.<br />

Praticando sulla terra la giustizia, l’essere umano si assicura l’immort<strong>al</strong>ità (1,15). L’autore<br />

di Sap, quando parla di incorruttibilità, pensa anche <strong>al</strong>la risurrezione <strong>dei</strong> corpi? Esplicitamente<br />

no 39 .<br />

Durante la vita terrena degli uomini Dio, onnipresente con la sua Sapienza e il suo Spirito,<br />

indaga con cura (1,6-10). Al momento della resa <strong>dei</strong> conti, <strong>al</strong> di là della morte fisica, i giusti<br />

saranno ammessi <strong>al</strong>la corte divina (5,5), mentre contro gli empi Dio si armerà delle forze cosmiche<br />

per annientare ogni potere terreno; affiora qui l’apoc<strong>al</strong>ittica. L’autore lega quindi<br />

l’escatologia a una cosmologia. Il mondo di quaggiù, regno degli empi, sparirà con essi; ma<br />

l’autore non si pronuncia sulla sorte fin<strong>al</strong>e degli empi. Rimarrà soltanto il regno <strong>dei</strong> giusti con<br />

Dio e i suoi angeli nell’<strong>al</strong>dilà.<br />

Ma, se il dominio terreno degli empi sarà distrutto da Dio armato delle forze del cosmo, bisogna<br />

pensare che i corpi <strong>dei</strong> giusti sfuggiranno <strong>al</strong>la distruzione tot<strong>al</strong>e? Non viene detto, ma<br />

sembra essere suggerito implicitamente.<br />

2.2. LA SAPIENZA E LO SPIRITO 40<br />

Per il nostro autore parlare della Sapienza significa collegarla <strong>al</strong>lo Spirito e quindi a Dio,<br />

ma anche <strong>al</strong> saggio, <strong>al</strong> mondo e <strong>al</strong>la storia. Più di ogni <strong>al</strong>tro testo biblico anteriore (cfr. Is 11,2;<br />

Sir 1,9-10), Sap 1,6; 7,22 e 9,17 41 accostano Sapienza e Spirito. Essendo abitata d<strong>al</strong>lo Spirito<br />

(7,22), la Sapienza gode delle sue stesse prerogative. Il problema princip<strong>al</strong>e del nostro autore<br />

potrebbe essere stato quello di ogni pensiero religioso: come conciliare la trascendenza e l’immanenza<br />

di Dio? Accostare Sapienza e Spirito poteva <strong>ai</strong>utare a risolvere il problema. Da Pr 8<br />

38<br />

Cfr. M.-J. LAGRANGE, Le Livre de la Sagesse, sa doctrine des fins dernièrs, in RB, n.s., 4 (1907) 85-104;<br />

R. SCHULZ, Les Idées eschatologiques du Livre de la Sagesse, Paris-Strasbourg 1935; J. P. WEISENGOFF, Death<br />

and Immort<strong>al</strong>ity in the Book of Wisdom, in CBQ 3 (1941) 104-133; R. TAYLOR, The Eschatologic<strong>al</strong> Meaning of<br />

Life and Death in the Book of Wisdom I–V, in EThL 42 (1966) 77-137; LARCHER, Études, 237-337.<br />

39<br />

Testi veterotestamentari sulla risurrezione <strong>dei</strong> corpi: Dan 12,2; 2Macc 7,11.14.23.29.36; 12.36-46; 14,46.<br />

40<br />

Cfr. LARCHER, Études, 362-414.<br />

41<br />

Cfr. M. GILBERT, Volonté de Dieu et don de la Sagesse (Sg 9,17s.), in NRTh 93 (1971) 145-166.


128 Sapienza<br />

e Sir 1,10 e 24,3-22, si sapeva che la Sapienza ha la sua origine in Dio. E l’autore di Sap 7 si<br />

sforza di situarla il più possibile nella sfera del divino (7,25-26; 8,3). Ma per parlare della sua<br />

immanenza, la dottrina stoica dello pneuma o soffio cosmico offriva una delucidazione <strong>al</strong>la<br />

qu<strong>al</strong>e si rifà il nostro autore, senza però cadere nel panteismo del Portico (cfr. 1,7 e 12,1). Con<br />

queste due correnti, biblica e stoica, si spiega l’accostamento tra la Sapienza e lo Spirito operato<br />

d<strong>al</strong> nostro autore.<br />

Di conseguenza la Sapienza esercita un’attività cosmica e storica. Nella creazione del<br />

mondo essa ha un ruolo attivo: ne è l’artefice (7,12.22a; 8,6; 9,1-2) e continua a penetrarlo tot<strong>al</strong>mente<br />

(7,22-24), a rinnovarlo (7,26), a reggerlo (8,1). Di conseguenza essa entra anche negli<br />

uomini se però questi non la rifiutano (1,4); offre se stessa e viene incontro a colui che la<br />

cerca (6,12-16); penetra nelle anime <strong>dei</strong> santi per farne degli amici di Dio e <strong>dei</strong> profeti (7,27).<br />

Essa opera in loro la correzione mor<strong>al</strong>e di cui hanno bisogno (9,18–10,1); li s<strong>al</strong>va da ogni pericolo<br />

(10,6.9-14), li conserva irreprensibili davanti a Dio (10,5); fu essa a guidare Mosè e il<br />

popolo ebr<strong>ai</strong>co nel deserto (10,15–11,1). Se il saggio domanda a Dio la Sapienza, gli sarà accordata,<br />

ed egli sarà <strong>al</strong>lora in grado di re<strong>al</strong>izzare la sua vocazione di uomo e la missione person<strong>al</strong>e<br />

che ha ricevuto da Dio (9); essa lo aprirà a tutte le scienze il cui oggetto è il mondo che<br />

essa anima (7,17-21; 8,8); gli accorderà i vantaggi della reg<strong>al</strong>ità (7,8-11; 8,10-15) e le virtù<br />

(8,7). Altro fatto, enigmatico: il saggio sarà il suo amante, il suo sposo (6,18; 8,2.9.16.18) 42 .<br />

Di conseguenza, l’immort<strong>al</strong>ità, l’incorruttibilità saranno assicurate a colui che la desidera,<br />

l’ama e gli è fedele (6,17-19).<br />

2.3. STORIA E COSMO 43<br />

La lunga rilettura in forma di preghiera degli episodi dell’esodo conferma le tesi princip<strong>al</strong>i<br />

del nostro autore. La particolare importanza dell’esodo sta nel fatto che quanto accadde in occasione<br />

dell’uscita d<strong>al</strong>l’Egitto e nel deserto costituisce l’evento fondatore d’Israele. Ora, questo<br />

evento fondatore continua a segnare tutta la sua storia, anzi tutta la storia, a esservi presente,<br />

ed è <strong>al</strong>la luce dell’esodo che Israele può rileggere la sua storia e la sua situazione presente.<br />

Al momento dell’esodo si trovarono a confronto due gruppi umani. L’uno per rifiutare il<br />

piano di Dio, disconoscerlo, o addirittura per travisarlo adorando gli elementi del mondo:<br />

questi sono gli empi (11,9). L’<strong>al</strong>tro per sottomettersi <strong>al</strong>la pedagogia divina (11,10), accogliere<br />

le lezioni che offrono gli eventi (16,6.12; ecc.) e pentirsi delle loro colpe (16,5-6, ecc.): questi<br />

sono i giusti (11,14; ecc.). Il vero combattente non è nessuno di questi due gruppi, ma il Signore<br />

(11,7-14; ecc.).<br />

Ora, il Signore prende le sue armi d<strong>al</strong> cosmo: <strong>al</strong>cuni elementi del cosmo diventano nella<br />

mano di Dio degli strumenti della sua lotta contro gli empi e in favore <strong>dei</strong> giusti. L’autore, riflettendo<br />

sui racconti biblici dell’esodo, individua in essi due principi complementari<br />

dell’azione divina: 1) lo stesso elemento del cosmo serve a castigare gli empi e a s<strong>al</strong>vare i giusti<br />

(11,5); 2) gli empi vengono puniti con lo stesso strumento delle loro colpe (11,15). Questo<br />

secondo principio stabilisce un rapporto di caus<strong>al</strong>ità tra la colpa e la punizione; il primo vede<br />

un’antitesi tra le piaghe d’Egitto e i benefici accordati a Israele nel deserto. Questi due principi<br />

funzionano nella mano di Dio: per esempio, per aver deciso di annegare i primogeniti di Israele<br />

gli egiziani non poterono più bere l’acqua del fiume, mentre gli ebrei si dissetarono <strong>al</strong>la<br />

roccia (11,5-14). Si può quindi vedere l’importanza dell’arma cosmica.<br />

In effetti, in questo combattimento di Dio l’autore vede la nuova creazione (16,24, <strong>al</strong> centro<br />

del dittico e sviluppato in conclusione: 19,10-12.18-21). Ora, questa creazione nuova cul-<br />

42<br />

Cfr. P. BEAUCHAMP, Épouser la Sagesse – ou n’épouser qu’elle? Une énigme du Livre de la Sagesse, in La<br />

Sagesse de l’AT, 347-369.<br />

43<br />

Cfr. H. EISING, Die theologische Geschichtbetrachtung im Weisheitbuche, in Vom Worl des Lebens. Festschrift<br />

M. Meinertz, Münster 1951, 28-40; P. BEAUCHAMP, Le s<strong>al</strong>ut corporel; J. P. M. SWEET, The Theory of Miracles<br />

in the Wisdom of S<strong>al</strong>omon, in C. F. D. MOULE (ed.), Miracles, London 1965, 115-126; J. J. COLLINS, Cosmos<br />

and S<strong>al</strong>vation: Jewish Wisdom and Apoc<strong>al</strong>yptic in the Hellenistic Age, in HThR 17 (1977-1978) 121-142.


Sapienza 129<br />

mina nel dono della manna agli ebrei, simbolo della Parola che nutre (16,25-26), <strong>al</strong>imento di<br />

immort<strong>al</strong>ità (19,21). La storia implica così una cosmologia e fonda nello stesso tempo una escatologia.<br />

Non sorprende <strong>al</strong>lora vedere l’autore affermare, <strong>al</strong> termine del suo esordio (5,17-<br />

23), che <strong>al</strong>la fine della storia umana Dio si servirà del cosmo per castigare gli empi e difendere<br />

i giusti; questi beneficeranno dell’immort<strong>al</strong>ità, il che implica probabilmente un elemento<br />

cosmico nella linea di ciò che noi chiamiamo risurrezione <strong>dei</strong> corpi. L’azione di Dio <strong>al</strong>le origini<br />

è infatti esemplare di ciò che egli fa continuamente e farà <strong>al</strong>la fine.<br />

3. L’AUTORE<br />

3.1. L’AUTORE 44<br />

Il libro della Sapienza è anonimo. L’attribuzione a S<strong>al</strong>mone, proposta d<strong>al</strong> titolo greco del<br />

libro, è natur<strong>al</strong>mente fittizia.<br />

Qu<strong>al</strong> è <strong>al</strong>lora il suo autore re<strong>al</strong>e? Alcuni studiosi hanno cercato di dargli un nome. Si è pensato<br />

<strong>al</strong> nipote di Ben Sira che, secondo il prologo del Siracide, avrebbe tradotto in greco<br />

l’opera del nonno; ma Sap non può essere stato scritto nel II secolo prima della nostra era,<br />

come vedremo. Fin d<strong>al</strong>l’antichità cristiana <strong>al</strong>cuni, come per esempio Girolamo, hanno pensato<br />

a Filone d’Alessandria; ma, anche se non mancano le corrispondenze tra Sap e le opere del filosofo<br />

<strong>al</strong>essandrino, quest’ultimo si interessa quasi esclusivamente <strong>al</strong> Pentateuco, mentre<br />

l’autore di Sap si ispira chiaramente anche <strong>ai</strong> profeti e agli «Scritti» dell’Antico Testamento;<br />

inoltre, Filone suppone un’esegesi <strong>al</strong>legorica che non si incontra nel libro della Sapienza; infine,<br />

Filone attribuisce una grande importanza <strong>al</strong>la teoria platonica delle Idee, che invece è ignorata<br />

completamente da Sap 45 .<br />

Appare molto probabile che l’autore di Sap, rimasto sconosciuto, sia un ebreo di Alessandria.<br />

Ebreo, certamente, dato che nella sua opera non traspare niente di cristiano (Sap 2,10-20<br />

non è un’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la passione di Gesù, <strong>al</strong>meno nelle intenzioni dell’autore). Alessandrino, è<br />

verosimile, perché così si spiegherebbe la sua cultura ellenistica: la comunità giud<strong>ai</strong>ca di Alessandria<br />

era aperta <strong>al</strong>l’ellenismo, come dimostra l’opera di Filone. Inoltre, Sap accorda un<br />

posto del tutto particolare agli egiziani: la scelta stessa del suo soggetto in Sap 11–19 potrebbe<br />

rivelare la sua origine geografica.<br />

3.2. DATAZIONE 46<br />

Se fino a poco tempo fa molti critici optavano per gli anni 100-50 a.C., attu<strong>al</strong>mente c’è la<br />

tendenza a situare la composizione di Sap o dopo il 50 a.C. o <strong>al</strong> più presto a partire d<strong>al</strong> 30, anno<br />

che segna l’inizio del trionfo di Augusto.<br />

In effetti, anche se il libro forma un’unità organica in cui non si può vedere <strong>al</strong>cuna interpretazione<br />

cristiana, il fatto che vi si incontrino delle parole come Jrhskei/a (thrêskéia) e se/basma<br />

(sébasma), nel senso di venerazione cultu<strong>al</strong>e e di oggetto di questa venerazione, è un principio<br />

sufficiente per datare il libro nel periodo augusteo dato che questi due termini conobbero la<br />

loro fortuna proprio sotto il regno di Augusto; l’<strong>al</strong>lusione <strong>al</strong>la pax romana in 14,22 può essere<br />

una conferma 47 .<br />

44 Cfr. LARCHER, Le Livre de la Sagesse I, 125-139.<br />

45 Cfr. LARCHER, Études, 151-178.<br />

46 Cfr. LARCHER, Le livre de la Sagesse, 141-161; GILBERT, DBS 11, 91-93.<br />

47 Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 126-173.


130 Sapienza<br />

3.3. SCOPO E AMBIENTE<br />

Anche per determinare l’intenzione dell’autore disponiamo solo degli indizi forniti d<strong>al</strong>la<br />

sua opera. Secondo Reese 48 , «il Saggio scrive con uno scopo ben preciso: permettere <strong>ai</strong> futuri<br />

leader intellettu<strong>al</strong>i del suo popolo di sviluppare un atteggiamento positivo di fronte <strong>al</strong>la loro<br />

presente situazione». Cosa significa?<br />

Il genere letterario scelto d<strong>al</strong>l’autore lascia intendere che la sua opera voglia rivolgersi a un<br />

pubblico accademico. Come tutti i saggi dell’Antico Testamento, è possibile che egli abbia<br />

avuto il compito di preparare la gioventù migliore della sua comunità ad assumere un giorno<br />

le responsabilità in seno a questa comunità.<br />

D’<strong>al</strong>tra parte, da profondo credente, egli intende riformulare per il suo tempo e in piena fedeltà<br />

l’essenzi<strong>al</strong>e del messaggio ricevuto dagli antenati. Il suo ricorso a tante parti della Bibbia<br />

dimostra pure che egli intendesse offrire una specie di sintesi. Ciò risponde del resto ad <strong>al</strong>cune<br />

particolari preoccupazioni. La comunità è divisa (Sap 2). Alcuni sono a t<strong>al</strong> punto sedotti<br />

d<strong>al</strong>la cultura greca da rifiutare il patrimonio ancestr<strong>al</strong>e; questi arrivano fino <strong>al</strong> punto di suscitare<br />

tumulti nella comunità. L’autore certamente non approva il loro atteggiamento e annuncia<br />

loro lo smacco fin<strong>al</strong>e. Egli non si chiude però <strong>al</strong>l’ellenismo, <strong>al</strong> qu<strong>al</strong>e sa attingere con discernimento<br />

senza m<strong>ai</strong> diventarne schiavo, non mancando di criticarlo quando lo ritiene opportuno.<br />

Questa apertura la insegna implicitamente col suo esempio <strong>al</strong>l’<strong>al</strong>tro gruppo di coloro che<br />

vogliono restare fedeli <strong>al</strong>la loro fede. Egli mostra loro anche il cammino della speranza nelle<br />

difficoltà e nelle sofferenze attu<strong>al</strong>i. Il Signore non abbandona i suoi: restando fedeli a Lui, essi<br />

conosceranno la vita e la pace; la Sapienza non è forse una guida, come a suo tempo guidò gli<br />

antenati? E l’evento fondatore d’Israele, l’esodo, non è un puro avvenimento del passato: rimane<br />

come esempio per il presente perché ciò che il Signore ha fatto lo rinnova sempre e dovunque<br />

in favore <strong>dei</strong> suoi fedeli (Sap 19,22).<br />

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA<br />

Una bibliografia completa di M. GILBERT, in C. LARCHER, Le Livre de la Sagesse, 11-48.<br />

Commenti<br />

LARCHER, C., Le livre de la Sagesse ou la Sagesse de S<strong>al</strong>omon (EtB n.s.), Paris 1983-1985.<br />

È il commento <strong>al</strong> libro della Sapienza più ampio, più maturo e meglio concepito. L’opera consta di<br />

tre volumi. Il primo è dedicato <strong>al</strong>la bibliografia (molto ricca, pp. 11-48), a opera di M. Gilbert;<br />

<strong>al</strong>l’introduzione gener<strong>al</strong>e (pp. 53-161): testo e versioni, an<strong>al</strong>isi letteraria, autore e data di composizione;<br />

<strong>al</strong> commento di 1,1–3,19 (pp. 163-311). Nel secondo volume (continua la numerazione di pagina<br />

del primo: pp. 312-648) l’autore commenta i capp. 4–10; nel terzo (pp. 649-1094) vengono commentati<br />

i capp. 11–19.<br />

SCARPAT, G., <strong>Libro</strong> della Sapienza, 3 voll., Brescia 1989-1999.<br />

È un commento ambizioso. L’introduzione, eccessivamente breve (vol. I, pp. 13-29) è dedicata a<br />

una disamina erudita del problema della data di composizione della Sapienza. Il commentario studia il<br />

libro della Sapienza secondo due prospettive: il testo <strong>dei</strong> LXX e il testo e il commento della Vetus Latina.<br />

Si tratta di un’opera di grande erudizione, in cui l’autore mostra le sue vaste conoscenze<br />

nell’ambito delle lingue e letterature greca e latina. T<strong>al</strong>volta la preoccupazione di citare par<strong>al</strong>leli dottrin<strong>al</strong>i<br />

da questi due ambiti letterari toglie qu<strong>al</strong>che profondità <strong>al</strong> commento biblico propriamente detto.<br />

VÍLCHEZ LÍNDEZ, J., Sapienza, Roma 1990.<br />

È il miglior commento scritto in lingua spagnola (e tradotto in it<strong>al</strong>iano) e, senza dubbio, uno <strong>dei</strong> più<br />

qu<strong>al</strong>ificati nel panorama internazion<strong>al</strong>e. Il libro si apre con un’introduzione di 125 pagine, completata<br />

da una bibliografia scelta ma sufficiente (pp. 126-140). Nell’introduzione viene affrontata la problematica<br />

propria dell’opera, con discussioni ampie e, in certi casi, erudite. Il commento, ampio (pp. 141-<br />

48 Hellenistic Influence, 148.


Sapienza 131<br />

543), evidenzia la maestria dell’autore e l’equilibrio <strong>dei</strong> suoi criteri. Tre utilissime appendici chiudono<br />

l’opera: 1. I giu<strong>dei</strong> in Egitto. 2. Lo statuto <strong>dei</strong> giu<strong>dei</strong> ad Alessandria. 3. La letteratura giudeoellenistica<br />

<strong>al</strong>essandrina.<br />

WINSTON, D., The Wisdom of S<strong>al</strong>omon (AB 43), Garden City, N.Y. 1979.<br />

Questo commento segue la linea caratteristica della «Anchor Bible»: ampia introduzione; testo e<br />

commento, quest’ultimo ridotto in sostanza <strong>ai</strong> problemi testu<strong>al</strong>i. Nell’introduzione (pp. 3-69) si segn<strong>al</strong>a<br />

la sezione relativa <strong>al</strong>le idee religiose p<strong>al</strong>esi o soggiacenti <strong>al</strong> libro della Sapienza. Questo libro, pur<br />

raccomandabile, abusa del ricorso <strong>al</strong>la metodologia storico-religiosa.<br />

Altre opere<br />

GILBERT, M., La critique des dieux dans le livre de la Sagesse (AnBib 53), Roma 1973.<br />

Pregevole tesi di dottorato in scienze bibliche. Benché la tematica riduca il campo d’osservazione<br />

<strong>ai</strong> soli capp. 13–15, il lettore può ricavarne una visione glob<strong>al</strong>e dell’intero libro della Sapienza.<br />

LARCHER, C., Études sur le livre de la Sagesse (EtB), Paris 1969.<br />

L’opera è servita <strong>al</strong>l’autore per maturare il proprio pensiero sulla Sapienza in vista della pubblicazione<br />

del suo ottimo commento in tre volumi. Consta di cinque capitoli: 1. Il libro della Sapienza nella<br />

chiesa di Cristo (Nuovo Testamento, Padri della Chiesa, <strong>al</strong>tre chiese cristiane: pp. 11-84). 2. Il libro<br />

della Sapienza e la letteratura biblica e giud<strong>ai</strong>ca (Antico Testamento, Enoc, Qumran, giud<strong>ai</strong>smo ellenizzato,<br />

Filone: pp. 85-178). 3. L’influenza dell’ellenismo (pp. 179-236). 4. L’immort<strong>al</strong>ità dell’anima e<br />

le retribuzioni trascendenti (pp. 237-327). 5. La sapienza e lo Spirito (pp. 329-414). Molto utile<br />

l’indice an<strong>al</strong>itico (pp. 427-433). Opera da cui non si può prescindere.<br />

MACK, B.L., Logos und Sophia. Untersuchungen zur Weisheitstheologie im hellenistischen Judentum<br />

(SUNT 10), Göttingen 1973.<br />

Sebbene l’esame del libro della Sapienza occupi solo un terzo del volume (pp. 63-107), il quadro<br />

nel qu<strong>al</strong>e questa è inserita consente di apprezzare il contenuto e la portata del concetto di sapienza nel<br />

suo sviluppo d<strong>al</strong>la letteratura biblica vera e propria sino a Filone, grazie <strong>al</strong>l’abilità magistr<strong>al</strong>e con cui<br />

l’autore passa in rassegna la figura della sapienza nei Proverbi, Giobbe, Ecclesiastico, Sapienza e<br />

nell’opera dell’illustre giudeo <strong>al</strong>essandrino.<br />

OFFERHAUS, U., Komposition und Intention der Sapientia S<strong>al</strong>omonis, Bonn 1981.<br />

Eccellente an<strong>al</strong>isi storico-letteraria del libro della Sapienza elaborata a partire d<strong>al</strong>le sue tre sezioni<br />

1,1–6,8; 6,9–9,18; 10,1–19,22. L’autore offre uno studio magistr<strong>al</strong>e di par<strong>al</strong>lelismi, inclusioni e corrispondenze<br />

interne <strong>dei</strong> diversi sviluppi tematici. L’opera si conclude con più di cento pagine di note critiche<br />

e un’ampia bibliografia.<br />

REESE, J.M., Hellenistic Influence on the Book of Wisdom and Its Consequences, Roma 1970.<br />

L’opera è composta di cinque parti: 1. Portata dell’influenza ellenistica nel libro della Sapienza<br />

(studio lessic<strong>al</strong>e e stilistico). 2. Profondità dell’influenza ellenistica (sviluppo di tre temi: rapporto<br />

dell’uomo con Dio; natura dell’immort<strong>al</strong>ità dell’uomo; antropologia della sapienza). 3. Il genere letterario<br />

del libro della Sapienza. 4. Unità e destinatari. 5. Riassunto e conclusioni.<br />

Inoltre, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:<br />

CONTI, M., Sapienza (NVB 22), Roma 1975.<br />

VIRGULIN, S., Sapienza, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, S<strong>al</strong>mi, <strong>Sapienzi<strong>al</strong>i</strong> (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>la<br />

Bibbia 3), Bologna 1978, 473-500.<br />

BIZZETI, P., Il libro della Sapienza. Struttura e genere letterario (Supplementi <strong>al</strong>la Rivista Biblica 11),<br />

Brescia 1984.<br />

GILBERT, M., Sagesse de S<strong>al</strong>omon (ou Livre de la Sagesse), in DBS 11 (1986) 58-119.<br />

PRIOTTO, M., La prima pasqua in Sap 18,5-25, Bologna 1987.<br />

RAVASI, G., Sapienza (<strong>Libro</strong> della), in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello B<strong>al</strong>samo 1988,<br />

1442-1447.<br />

BONORA, A., Proverbi-Sapienza: sapere e felicità (LoB 1.14), Brescia 1990<br />

SISTI, A., Il libro della Sapienza, Assisi 1992.


132 Sapienza<br />

MAZZINGHI, L., Notte di paura e di luce. Esegesi di Sap 17,1–18,4 (An<strong>al</strong>ecta Biblica 134), Roma<br />

1995.<br />

GILBERT, M., La Sapienza di S<strong>al</strong>omone, 2 voll., Roma 1995.<br />

DE CARLO, G., «Ami, infatti, gli esistenti, tutti». Studio di Sap 11,24, in Laur 36 (1995) 391-434.<br />

WRIGHT, A.G., La Sapienza, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 665-681.<br />

MORLA ASENSIO, V., Il libro della Sapienza, in IDEM, <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti (<strong>Introduzione</strong> <strong>al</strong>lo<br />

studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 209-230.<br />

BONORA, A., <strong>Libro</strong> della Sapienza, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i e <strong>al</strong>tri scritti<br />

(Logos 4), Torino-Leumann 1997, 99-114.<br />

FABBRI, M. V., Creazione e s<strong>al</strong>vezza nel libro della Sapienza. Esegesi di Sapienza 1,13-15 (Studi di<br />

teologia 6), Roma 1998.<br />

DE CARLO, G., L’amore provvidente e univers<strong>al</strong>e di Dio in Sap 11,24–12,1, in G. BORTONE (a cura di),<br />

La Provvidenza nella Bibbia (Studio Biblico Teologico Aquilano 21), L’Aquila 2001, 103-142.<br />

BELLIA, G. - PASSARO, A (edd.), Il <strong>Libro</strong> della Sapienza. Tradizione, redazione, teologia (Studia Biblica<br />

1), Roma 2004.<br />

Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 5/2003: «Il libro della Sapienza».


INDICE<br />

Prima parte<br />

LIBRI SAPIENZIALI<br />

<strong>Introduzione</strong> gener<strong>al</strong>e – <strong>Introduzione</strong> a ciascun libro sapienzi<strong>al</strong>e<br />

INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE SAPIENZALE BIBLICA ___________________ 4<br />

<strong>Introduzione</strong> ___________________________________________________________________ 4<br />

1. Terminologia _________________________________________________________________ 4<br />

2. Le forme di espressione ________________________________________________________ 5<br />

3. Sapienze del Vicino Oriente Antico non biblico _____________________________________ 5<br />

3.1. Le liste _________________________________________________________________________ 6<br />

3.2. Le antiche raccolte di sentenze _______________________________________________________ 6<br />

3.3. Altri testi ________________________________________________________________________ 6<br />

3.4. Cos’è la sapienza? _________________________________________________________________ 7<br />

3.5. La Bibbia e le sapienze pagane _______________________________________________________ 8<br />

4. La sapienza biblica ____________________________________________________________ 8<br />

4.1. I <strong>Libri</strong> sapienzi<strong>al</strong>i _________________________________________________________________ 8<br />

4.2. Negli <strong>al</strong>tri libri biblici ______________________________________________________________ 8<br />

5. Origine della sapienza in Israele ________________________________________________ 10<br />

5.1. S<strong>al</strong>omone modello <strong>dei</strong> saggi ________________________________________________________ 10<br />

5.2. Scribi e scuole ___________________________________________________________________ 11<br />

5.3. Origine popolare della sapienza _____________________________________________________ 11<br />

6. Il fine della sapienza __________________________________________________________ 11<br />

7. L’atteggiamento <strong>dei</strong> saggi _____________________________________________________ 12<br />

7.1. Il consiglio _____________________________________________________________________ 12<br />

7.2. I limiti della sapienza _____________________________________________________________ 12<br />

7.3. La sapienza di Do ________________________________________________________________ 13<br />

7.4. Il problema della retribuzione _______________________________________________________ 13<br />

7.5. Una riflessione sulla storia della s<strong>al</strong>vezza ______________________________________________ 14<br />

8. La personificazione della sapienza nell’AT _______________________________________ 14<br />

8.1. I testi __________________________________________________________________________ 14<br />

8.2. Interpretazione __________________________________________________________________ 16<br />

9. Gesù e la sapienza nel NT _____________________________________________________ 17<br />

9.1. Nei Vangeli Sinottici ______________________________________________________________ 17<br />

9.2. In Paolo ________________________________________________________________________ 17<br />

9.3. In Giovanni _____________________________________________________________________ 18<br />

9.4. Interpretazione __________________________________________________________________ 18<br />

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 19<br />

PROVERBI _______________________________________________________________ 22<br />

1. Presentazione d’insieme _______________________________________________________ 22<br />

1.1. Il contesto ______________________________________________________________________ 22<br />

1.2. La struttura del libro ______________________________________________________________ 22<br />

1.3. Il ruolo di S<strong>al</strong>omone ______________________________________________________________ 23<br />

1.4. D<strong>al</strong>l’elaborazione d’un proverbio <strong>al</strong>la raccolta __________________________________________ 24<br />

1.5. Gli argomenti affrontati ___________________________________________________________ 26


134 Indice<br />

2. Il prologo (Pr 1–9), l’epilogo (Pr 31,10-31) e la sapienza_____________________________ 34<br />

2.1. Le caratteristiche del prologo _______________________________________________________ 34<br />

2.2. Il discorso della Sapienza in Pr 8 ____________________________________________________ 35<br />

2.3. Il banchetto della Sapienza (Pr 9,1-6) ________________________________________________ 39<br />

2.4. L’epilogo: Il ritratto della donna forte (Pr 31,10-31) _____________________________________ 41<br />

Conclusione ___________________________________________________________________ 45<br />

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 45<br />

GIOBBE _________________________________________________________________ 48<br />

1. Giobbe nella storia ___________________________________________________________ 48<br />

2. Il personaggio di Giobbe ______________________________________________________ 50<br />

3. Par<strong>al</strong>leli extra-biblici _________________________________________________________ 52<br />

3.1. Mesopotamia ____________________________________________________________________ 52<br />

3.2. Egitto _________________________________________________________________________ 53<br />

4. Genere letterario ____________________________________________________________ 54<br />

4.1. Un dramma _____________________________________________________________________ 54<br />

4.2. Un procedimento giudiziario _______________________________________________________ 54<br />

4.3. Una disputa sapienzi<strong>al</strong>e ___________________________________________________________ 54<br />

4.4. Una lamentazione s<strong>al</strong>mica _________________________________________________________ 55<br />

5. La struttura del libro _________________________________________________________ 55<br />

6. Le tappe della composizione ___________________________________________________ 56<br />

6.1. Il racconto popolare primitivo ______________________________________________________ 57<br />

6.2. L’opera poetica del V secolo ________________________________________________________ 57<br />

6.3. I discorsi di Eliu _________________________________________________________________ 57<br />

6.4. Il poema sulla Sapienza introvabile (Gb 28) ____________________________________________ 58<br />

7. Percorso di lettura del libro di Giobbe ___________________________________________ 58<br />

7.1. La posta in gioco _________________________________________________________________ 58<br />

7.1.1. I molteplici sensi ______________________________________________________________ 58<br />

7.1.2. Il filo conduttore del libro _______________________________________________________ 59<br />

7.2. Lo svolgimento del dramma ________________________________________________________ 59<br />

7.2.1. La condizione inizi<strong>al</strong>e: la felicità di Giobbe _________________________________________ 59<br />

7.2.2. La sfida: «scommetto che ti m<strong>al</strong>edirà in faccia» ______________________________________ 60<br />

7.2.3. I linguaggi degli attori del dramma _______________________________________________ 62<br />

7.2.4. Il verdetto: «ha parlato di me rettamente» __________________________________________ 79<br />

7.2.5. La condizione fin<strong>al</strong>e: la restaurazione doppia di Giobbe _______________________________ 80<br />

7.3. Conclusione ____________________________________________________________________ 80<br />

7.3.1. I generi di linguaggio religioso di Giobbe __________________________________________ 80<br />

7.3.2. Le tappe della crescita interiore di Giobbe __________________________________________ 80<br />

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 83<br />

QOHELET _______________________________________________________________ 86<br />

1. Un enigma per i commentatori _________________________________________________ 86<br />

2. Interesse e attu<strong>al</strong>ità di Qohelet _________________________________________________ 86<br />

3. Data di composizione _________________________________________________________ 86<br />

4. Struttura letteraria ___________________________________________________________ 87<br />

5. Messaggio __________________________________________________________________ 87<br />

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 89<br />

CANTICO DEI CANTICI ___________________________________________________ 92<br />

1. Aspetto letterario del Cantico __________________________________________________ 92<br />

1.1. Contenuto ______________________________________________________________________ 92<br />

1.2. Struttura _______________________________________________________________________ 92<br />

2. Data di composizione _________________________________________________________ 93


Indice 135<br />

3. Le grandi correnti di interpretazioni ____________________________________________ 93<br />

3.1. Letter<strong>al</strong>e _______________________________________________________________________ 93<br />

3.2. Allegorica ______________________________________________________________________ 94<br />

3.3. Antologica ______________________________________________________________________ 94<br />

3.4. Cultu<strong>al</strong>e ________________________________________________________________________ 95<br />

4. Una teologia dell’amore _______________________________________________________ 95<br />

4.1. Verso un’ermeneutica del «duplice significato» _________________________________________ 95<br />

4.2. Una teologia dell’amore umano _____________________________________________________ 96<br />

4.3. Una parabola dell’amore divino _____________________________________________________ 97<br />

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 97<br />

SIRACIDE ______________________________________________________________ 100<br />

1. Presentazione d’insieme ______________________________________________________ 100<br />

1.1. Di qu<strong>al</strong>i testi disponiamo? ________________________________________________________ 100<br />

1.2. La trasmissione del libro __________________________________________________________ 102<br />

1.3. L’autorità del libro ______________________________________________________________ 102<br />

1.4. La person<strong>al</strong>ità di Ben Sira _________________________________________________________ 103<br />

1.5. Come è strutturato il libro di Ben Sira? ______________________________________________ 105<br />

2. Il messaggio ________________________________________________________________ 106<br />

2.1. Timor di Dio e sapienza __________________________________________________________ 106<br />

2.2. L’uomo (Sir 16,24–17,14) _________________________________________________________ 107<br />

2.3. Sapienza e Legge (Sir 24,1-34) _____________________________________________________ 107<br />

2.4. La preghiera ___________________________________________________________________ 108<br />

2.5. Teodicea ______________________________________________________________________ 109<br />

2.6. Le donne ______________________________________________________________________ 109<br />

2.7. Elogio <strong>dei</strong> padri (cc. 44–49) _______________________________________________________ 110<br />

2.8. Le prospettive future _____________________________________________________________ 110<br />

Bibliografia commentata _______________________________________________________ 110<br />

SAPIENZA ______________________________________________________________ 114<br />

1. Il libro ____________________________________________________________________ 114<br />

1.1. Contenuto e struttura letteraria del libro ______________________________________________ 114<br />

1.2. Genere letterario ________________________________________________________________ 119<br />

1.3. Unità del libro __________________________________________________________________ 121<br />

1.4. Il libro della Sapienza e l’Antico Testamento __________________________________________ 122<br />

1.5. Il libro della Sapienza e la letteratura giud<strong>ai</strong>ca _________________________________________ 124<br />

1.6. Il libro della Sapienza e la cultura greca ______________________________________________ 125<br />

2. Il messaggio ________________________________________________________________ 127<br />

2.1. Morte, immort<strong>al</strong>ità ed escatologia __________________________________________________ 127<br />

2.2. La Sapienza e lo Spirito __________________________________________________________ 127<br />

2.3. Storia e cosmo __________________________________________________________________ 128<br />

3. L’autore ___________________________________________________________________ 129<br />

3.1. L’autore _______________________________________________________________________ 129<br />

3.2. Datazione _____________________________________________________________________ 129<br />

3.3. Scopo e ambiente _______________________________________________________________ 130<br />

Bibliografia commentata _______________________________________________________ 130

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