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21 - 22 aprile - ARCIDIOCESI METROPOLITANA DI CATANZARO ...

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ARTICOLO 18La via dell'indennizzoIl capitolo "licenziamenti" nella riforma del lavoroLa parola magica attorno alla quale ilgoverno, le forze politiche e quellesindacali, i mass media e buonaparte dei cittadini italiani hanno proposto,discusso, litigato nelle ultime settimane, èstata “reintegro”. Cioè quel che prevede l’art.18 dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamentoindividuale senza giusta causa,nelle aziende con più di 15 assunti. La giustacausa la valutava il giudice; se non la riscontrava,il lavoratore aveva diritto adessere reintegrato nel suo posto di lavoro.Aveva facoltà di chiedere un indennizzo economico,se preferiva andarsene. Parliamo alpassato perché si presume che il prossimofuturo non sarà più così.Ecco: in verità la parola magica doveva essereun’altra. Indennizzo. Perché è su questoche verte la riforma Fornero-Monti in temadi licenziamenti. Ora l’indennizzo è semprepossibile, e la decisione spetta al giudice dellavoro. Cominciamo dal licenziamento disciplinare.Il lavoratore lo può impugnare,l’azienda deve dimostrare la giusta causa o ilgiustificato motivo che l’hanno spinta a talemisura. Se non lo fa, e cioè se il fatto contestatonon c’è stato o non l’ha commesso il lavoratorein questione; o infine se il fattocontestato aveva un’altra procedura di punizioneprevista dai contratti collettivi, allorail giudice annulla il licenziamento e ordina ilreintegro del lavoratore. Ma solo in questicasi.Altrimenti il giudice – rilevando la mancanzadi giusta causa ma comunque riscontrandola fine del feeling tra le parti –dichiara risolto il contratto di lavoro tra leparti e condanna l’azienda al pagamento diun’indennità risarcitoria variabile tra i 12 e i24 mesi di stipendio mensile.Settimane di acerrime discussioni hannoinfine partorito questa disciplina del licenziamentoeconomico (cioè dovuto alla difficoltào all’impossibilità dell’azienda dipagare quello stipendio). Se impugnato,scatta il reintegro solo nel caso in cui il giudiceriscontri la manifesta insussistenza diun giustificato motivo per licenziare. Dettain parole povere: se dietro al licenziamentoeconomico si nasconde una cacciata per questionidisciplinari o, peggio, discriminatori(in quest’ultimo caso il licenziamento è semprenullo e il reintegro obbligatorio). Se nonriscontra la “manifesta insussistenza” masolo che il licenziamento pare azzardato, eccessivo,allora via libera all’indennizzo. Il lavoratorecomunque se ne va, ma si porta intasca da 12 a 24 mensilità di risarcimento.Si dirà: i tribunali esploderanno di cause.Già oggi… Ecco perché è stato previsto lostrumento della conciliazione presso le Direzioniterritoriali del lavoro (Dtl). A questel’azienda comunicherà la sua intenzione dilicenziare Tizio. Entrambe le parti sarannoconvocate dalla Dtl entro sette giorni, edentro venti si dovrà arrivare ad una conclusione(salvo proroghe chieste da entrambe leparti). Se c’è accordo, si fissa il quantum delrisarcimento economico. Se non c’è, via liberaal licenziamento e al possibile ricorso algiudice che però guarderà anche il comportamentodelle parti in sede di conciliazione.Anche per scoraggiare cause temerarie.Infine la tempistica. La riforma prevedeuna corsia privilegiata per le cause di lavoro,che oggi durano in media 18 mesi (un’eternità)e attualmente ne pendono <strong>21</strong>1mila...Insomma, il meccanismo appare abbastanzaequo. È vero: ripristina il licenziamentoindividuale senza reintegro. Ma suquesto bisogna dire qualche verità. La prima:già oggi milioni di lavoratori (quelli assuntiin aziende con meno di 15 addetti, quelli“flessibili”), non ce l’avevano. Quindi delledue l’una: o reintegro generalizzato per tutti,o per nessuno. Si è scelto il “nessuno” ancheperché mai la legge ha detto ciò che invece èemerso dall’applicazione che è stata data all’art.18nel corso di questi 42 anni. Lo Statutodei lavoratori infatti prevede illicenziamento individuale “salvo…”. Nellapratica, i giudici hanno costantemente rilevatola mancanza di giusta causa, trasformandoin pratica la licenziabilità individualein illicenziabilità. Una forzatura molto ideologica,che ha quasi sempre dimenticato divalutare con attenzione caso per caso. E lacasistica è piena di situazioni incredibili,sempre giudicate con lo stesso metro. Creandocosì quella rigidità di sistema – fontepure di ingiustizia – che la riforma Fornero-Monti ha inteso ora cancellare.Nicola SalvagninIMPREN<strong>DI</strong>TORICRISTIANIIl lavoronon esclude la fedeVedere, giudicare, agire. Queste, secondoil card. Peter Appiah Turkson, presidente delPontificio Consiglio della giustizia e della pace,le “tre tappe costitutive e correlate” cui è chiamatoil responsabile d’impresa cristiano. Intervenutonei giorni scorsi a Lione (Francia) alCongresso internazionale promosso dall’Uniapac(Union Internationale des AssociationsPatronales Catholiques) e dalle Edc (Entrepreneurset Dirigeants Chrétiens, la sezione diUniapac che riunisce gli imprenditori e i dirigenticristiani francesi), il card. Turkson hapresentato il documento “Vocazione dei responsabilid’impresa alla luce dei valori cristiani”,pubblicazione elaborata anche con ilcontributo dei partecipanti al seminario internazionaledei dirigenti d’impresa e degli universitaritenutosi nel febbraio 2011 a Roma.All’incontro di Lione, intitolato “Business –Source of Hope”, hanno preso parte duemilaimprenditori di tutto il mondo.Le tre tappe. Secondo il porporato, la “malattiaodierna” comune a molti imprenditoricristiani è la tendenza a “dissociare la fede dallavoro”, mentre la dottrina sociale della Chiesainvita a vivere la vita professionale “in manierepiù unificata e feconda in vista del bene comune”.Compito del responsabile d’impresa èallora “essere guida per gli uomini e le donned’affari che tentano di crescere nella virtù dellacarità secondo la propria vocazione”. Ciò richiedeun processo di discernimento scanditoda tre momenti. Anzitutto “vedere”, ossia interpretare“i segni dei tempi con una particolareattenzione” verso le trasformazioni legatea globalizzazione, nuove tecnologie comunicative,finanziarizzazione del commercio su scalamondiale e cambiamenti culturali. I dirigentid’impresa, osserva il porporato, “accordanosempre più importanza alla massimizzazionedel profitto, i dipendenti tengono sempre piùai propri diritti, e i consumatori esigono immediatagratificazione al minor prezzo possibile”.Per questo, “in una società dove i valorisi sono relativizzati e i diritti sono divenuti piùimportanti dei doveri, spesso viene eclissatol’obiettivo di servire il bene comune”. Il secondopasso è “giudicare”, perché, avverte ilcard. Turkson, “le buone decisioni negli affarisono quelle ancorate nei principi sociali eticifondamentali: il rispetto per la dignità dellapersona umana, il servizio al bene comune, euna visione d’impresa come comunità di persone”.Infine “agire”, che invita ad un impegno“motivato da un sentimento che vada oltreil successo finanziario”. Una sorta di “savoirfaire pratico”, chiarisce il presidente del PontificioConsiglio, che “accoglie e affronta le sfidedel mondo non con cinismo o paura, bensì conle virtù della fede, della speranza e dell’amore”.Questo fa sì che i principi etici richiamati vengano“illuminati dal Vangelo”.715 <strong>aprile</strong> 2012

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