Pietro Kobau L'ARTE, UNA SPECIE DI COSA? (UNA - Labont
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<strong>Pietro</strong> <strong>Kobau</strong><br />
L’ARTE, <strong>UNA</strong> <strong>SPECIE</strong> <strong>DI</strong> <strong>COSA</strong>?<br />
(<strong>UNA</strong> SCHEDATURA PARZIALE)<br />
In auto alla galleria, alle 11 c’era una conferenza stampa. 250 giornalisti. Ottusi<br />
e arroganti. Me la sono cavata bene. Firmati molti poster. Poi siamo stati liberi.<br />
Colazione con Gianni Versace al suo castello. Prima era il castello di Rizzoli.<br />
Grandi statue romane e greche. È Suzie Frankfurt che ha persuaso Versace a<br />
comprarle. Facevano impressione: gigantesche, imponenti. Ci siamo trovati bene.<br />
[...]<br />
Milano, giovedì 22 gennaio 1987<br />
Andy Warhol, Diari<br />
Immaginiamo di voler contare delle opere d’arte. Per facilitarci il compito,<br />
consideriamo quelle che sono presenti in uno spazio adeguatamente circoscritto.<br />
In alcuni luoghi non sarà troppo difficile: in un museo, ad esempio, basterà<br />
contare i cartellini collocati nei pressi di ogni singolo dipinto, disegno, o scultura;<br />
e in un teatro sarà certamente rappresentata di volta in volta un’unica opera<br />
drammatica o musicale. (Però, in questo secondo caso, apparirà più usuale chiedersi<br />
quante opere vengono rappresentate in un determinato lasso di tempo;<br />
normalmente: in una stagione.) Fin qui, dunque, il problema risulta ridotto a<br />
una facile individuazione di singoli oggetti (o eventi) fisici. Ma proviamo ad<br />
affrontare il medesimo compito in un ambiente più informale, come è, poniamo,<br />
casa mia. Troveremo appesi alle pareti, intanto, un paio di quadri (autentici,<br />
firmati, ma non autenticati) e un paio di poster che riproducono dei dipinti<br />
che mi piacciono (li riproducono abbastanza bene, voglio dire, da poter essere<br />
fruiti come gli originali, trattandosi di pop art); in qualche cassetto ci saranno<br />
alcuni altri poster (non tutti sono copie di dipinti, alcuni sono manifesti, e nessuno<br />
è firmato) e qualche altro paio di grafiche (di qualche valore commerciale,<br />
firmate e autenticate) che tuttavia non mi paiono particolarmente belle. Che<br />
cosa conterà, in tutto ciò, come un’opera d’arte? Il numero delle opere d’arte<br />
(normalissime, fin qui: grafiche e pittoriche) presenti in casa mia sembra dipendere<br />
da fattori diversi, intrinseci ed estrinseci – e, soprattutto, diversamente<br />
precisabili: dalla loro autenticità, ad esempio, o dal loro valore. Ma altre cose<br />
di questo genere, presenti in casa mia, pongono ancora altri problemi. Troveremo<br />
infatti parecchi CD; diversi di essi saranno incisioni di musica classica, il cui<br />
valore (così come l’autenticità) non entra in questione. Di certo simili oggetti<br />
non sono opere d’arte, ma diremo allora che ognuno di essi è capace di dare<br />
luogo a un’opera d’arte nel momento in cui lo inserisco nel riproduttore? E<br />
ancora: come va affrontato il caso delle diverse versioni di una singola opera, o<br />
quello delle sue diverse esecuzioni, più o meno buone, più o meno canoniche?<br />
Rivista di estetica, n.s., 23 (2 / 2003), XLIII, pp. 55-71 © Rosenberg & Sellier<br />
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Bisognerà dunque, verosimilmente, prendere in considerazione, oltre ai CD,<br />
gli spartiti posati accanto al mio pianoforte, che pongono con maggiore nettezza<br />
questi ultimi problemi: sono da considerarsi opere essi stessi? O sono registrazioni<br />
di tipo diverso (non mere copie di eventi sonori, diremo allora) di singole<br />
opere, intendendo come opere quelle che ascoltiamo mediante il riproduttore<br />
di CD? O invece dispositivi non fisici (dei complessi di istruzioni esecutive,<br />
diciamo) per realizzarle? O piuttosto registrazioni (o istruzioni per la realizzazione)<br />
di cose ancora diverse da un evento sonoro: poniamo, dei contenuti, più<br />
o meno colorati in senso espressivo, che il compositore aveva in mente? E poi,<br />
come c’è da aspettarsi, lo sguardo correrà ai libri su quegli scaffali e ci chiederemo<br />
se le questioni che pongono sono identiche a quelle degli spartiti, o solo<br />
parzialmente tali – sicché i problemi si moltiplicheranno come in un gioco di<br />
specchi. E se infine vorremo considerare quel paio di «oggetti di design» che<br />
tengo in cucina, o quel capo firmato che tengo nell’armadio, o, addirittura, quel<br />
che succede quando accendo il televisore, allora il buonsenso non basterà più:<br />
non sapremo più che cos’è che bisogna contare.<br />
1. Perché l’ontologia dell’arte (ovvero quale)<br />
Nascoste nel precedente cappello stanno parecchie questioni che nell’estetica<br />
analitica vengono rubricate da alcuni decenni sotto il titolo di «ontologia dell’arte»:<br />
domande su «quale tipo di entità siano le opere d’arte» e su quali siano<br />
per esse le condizioni di identità e di individuazione, sulla loro variabilità a<br />
seconda delle diverse forme d’arte, se «le opere d’arte abbiano natura fisica o<br />
mentale, astratta o concreta, singolare o molteplice, e se per esse si debba parlare<br />
di creazione o di scoperta», ciò che si lega strettamente all’indagine circa «lo<br />
status delle contraffazioni, delle riproduzioni, delle copie, delle versioni, delle<br />
traduzioni, delle trascrizioni e degli adattamenti» (Levinson 2002: 438) 1 . Se<br />
questa è l’ontologia dell’arte, sarà facile valutarne il rilievo pratico: immaginiamo,<br />
nello scenario precedente, che io dovessi contare le opere d’arte presenti in<br />
casa mia non per gioco, ma allo scopo di venderle per ripianare un debito; o, più<br />
seriamente, si consideri il caso di un gallerista che debba assicurare delle installazioni,<br />
o delle registrazioni di performance. Tuttavia appare difficile spiegare<br />
perché si debba parlare, di fronte a una simile lista aperta di problemi (e una<br />
strana lista di problemi, oltretutto, pressoché priva di un ordine gerarchico),<br />
proprio di ontologia dell’arte, e non piuttosto di un insieme di questioni<br />
metafisiche riferite a un insieme di entità che (per mere e labili convenzioni, si<br />
potrebbe argomentare) vengono chiamate «opere d’arte». Rispetto a tale problema,<br />
una domanda come «Certe questioni di ontologia trovano nell’estetica e<br />
nella filosofia dell’arte un terreno ideale, oppure certe questioni di estetica e di<br />
filosofia dell’arte sono per loro natura questioni di ontologia?», che (giustamente,<br />
peraltro) chiede di riconoscere come falsa l’alternativa in essa adombrata<br />
(Cometti - Morizot - Pouivet 2002: 51), svela il suo carattere di uscita retorica, o<br />
poco più.<br />
1 Per altri riscontri in opere standard, cfr. almeno Currie G., Art works, ontology of, in Routledge Encyclopedia<br />
of Philosophy, 1998. Sulla differenza tra ontologia dell’arte e problema della definizione dell’arte, nonché sul<br />
suo rilievo per la definizione disciplinare dell’estetica, ci si diffonderà maggiormente più sotto.<br />
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Resta vero che, specie per il lettore italiano, più assuefatto di altri all’ontologia<br />
ermeneutica, la sottolineatura di quanto le questioni centrali per l’estetica e per<br />
la filosofia dell’arte siano «naturalmente» ontologiche potrebbe ugualmente giungere<br />
da due ambiti filosofici per i quali «ontologia» ha sensi molto diversi. Semplificando:<br />
nel primo, vale l’assioma gadameriano secondo cui «l’essere che può<br />
venir compreso è linguaggio», ovvero si assume che «l’essere, nel suo senso più<br />
generale, ha il carattere di essere comprensibile, in quanto è linguaggio» (Vattimo<br />
2000: 58) 2 . Nel secondo, invece, vale innanzitutto la posizione di una sfera degli<br />
enti autonoma rispetto a ogni considerazione epistemologica o (a maggior ragione)<br />
ermeneutica – magari un po’ brutalmente, come Vattimo lamenta, vi si<br />
suppone «che si dia un essere ‘in sé’ che sussisterebbe fuori da ogni comprensione<br />
linguistica» (ibidem). Dunque, ci si trova nel solco della più classica indagine<br />
sull’essere di origine aristotelica. Va allora sottolineato che, nonostante la<br />
condivisione nominalistica di una stessa terminologia, più che di fronte a due<br />
soluzioni diverse entro una medesima tradizione di ricerca 3 , ci si trova dinanzi<br />
all’alternativa fra l’abbandono o la prosecuzione delle indagini denominate, almeno<br />
da qualche secolo, «ontologiche». Da questo punto di vista, volendo domandarsi<br />
quali siano i principali problemi «ontologici» dibattuti oggi in estetica<br />
occorrerà perciò innanzitutto riconoscere una continuità che altrimenti rischia<br />
di venire travisata o di perdersi: quella fra l’ontologia moderna e l’ontologia<br />
contemporanea – identificando quest’ultima, prima ancora che all’interno delle<br />
filosofie di marca analitica, fuori delle filosofie di marca ermeneutica.<br />
Il sospetto, però, leggendo di ontologia dell’arte di impostazione analitica, è<br />
di trovarsi dinanzi a una polverizzazione, su un terreno più o meno fertile, di<br />
genuine questioni metafisiche, ovvero a uno scarso desiderio di elevarsi da singole<br />
analisi di casi più o meno esemplari a domande di carattere più generale.<br />
Ma in effetti, se si guarda alla situazione di qualche decennio fa, si incontra più<br />
di qualche interessante tentativo di generalizzazione di problemi analoghi a<br />
quelli sopra ricordati – che non ha purtroppo ancora dato luogo a teorie condivise.<br />
Di nuovo, una simile diagnosi appare confortata da diversi tentativi di ricostruzione<br />
complessiva; sempre a Levinson, ad esempio, è capitato di valutare<br />
quale distinzione fondamentale dell’ontologia dell’arte (ovvero, come gli sfugge<br />
detto, della «metafisica delle opere d’arte [c.vo mio]») quella<br />
fra le forme artistiche in cui l’opera sembra essere un particolare concreto – un oggetto o un<br />
evento unico e circoscrivibile nello spazio e nel tempo – come nella pittura, nel disegno, nella<br />
scultura scolpita e nel jazz d’improvvisazione; e le forme d’arte in cui l’opera sembra piuttosto<br />
essere un’entità astratta – un tipo, un genere, un universale, un modello o una struttura – come<br />
nell’acquaforte, nella xilografia, nella scultura a stampo, nella composizione musicale, nella poesia<br />
e nel film (Levinson 2002: 438).<br />
2 E qui a Vattimo, volendo passare tra la Scilla e la Cariddi del relativismo e dello hegelismo, non rimane che<br />
optare per un’«ontologia debole», ovvero per un’«idea della differenza ontologica che diventa principio di<br />
movimento» (ibidem). Qualunque cosa significhi esattamente questo pezzo di linguaggio, sembra legittimo<br />
nutrire il timore che l’esito ultimo sia quell’«immaterialismo timido» di cui parla Ferraris (1998: 29) quando<br />
ammonisce che «il primato dell’interpretazione sui fatti comporta la distruzione della ontologia o la perdita<br />
del mondo» (1998: 28).<br />
3 La formula «tradizione di ricerca» viene qui usata in senso tecnico per indicare un’integrazione, sufficientemente<br />
stabile in una storia di medio periodo, fra decisioni circa l’impegno ontologico relativo agli oggetti di<br />
indagine propri di una disciplina e decisioni epistemologiche circa il metodo di indagine a essa adeguato (cfr.<br />
Laudan 1977).<br />
57
E in verità, se si guarda all’estetica analitica di un paio di decenni fa, si osserva<br />
che sotto il titolo di «ontologia» si sono iniziati a trattare eminentemente<br />
problemi di questo tipo – ma la loro descrizione da parte di Levinson va precisata.<br />
Questi assume probabilmente come modello articoli come quello di<br />
Wolterstorff, Toward an Ontology of Art Works (1975), che paradigmaticamente<br />
inizia a chiedersi «Che genere di entità è una sinfonia? E un dramma? E una<br />
danza? E la stampa di un’opera grafica? E una scultura? E un poema? E un<br />
film? E un dipinto?» (ivi: 115) – per poi delineare una fenomenologia delle<br />
differenze tra generi diversi di opere (entro cui assume particolare valore la distinzione<br />
tra arti esecutive e non) e passare dal piano fenomenologico a quello<br />
del problema dell’impegno ontologico da assumersi verso le entità così identificate<br />
4 . Si tratta, comunque, di un genere di lavori che ha già alle spalle una storia<br />
e, soprattutto, al suo centro alcuni classici lavori di Margolis che ha affrontato<br />
tali problemi in modo ben più sistematico, servendosi metodologicamente della<br />
distinzione «type / token» 5 . Da questo punto di vista quello più frequentemente<br />
citato è il suo articolo del 1959 (The Identity of a Work of Art) che però, al di là<br />
dell’ampliamento di precedenti utilizzazioni della medesima distinzione peirceana<br />
su questo terreno 6 , risulta notevole per l’impostazione generale. Volendo<br />
rispondere alla domanda «che cos’è un’opera d’arte?» Margolis dichiara infatti<br />
di non volerne fornire una definizione concettuale, bensì di svolgere alcune osservazioni<br />
preliminari utili all’identificazione di singole opere d’arte in quanto<br />
entità capaci di reggere descrizioni diverse e, quindi, venire raccolte collettivamente<br />
sotto concetti diversi (Margolis 1959: 35-36). Al di là, dunque, del carattere<br />
schiettamente ontologico delle questioni trattabili mediante la categorizzazione<br />
«type / token» – tema poi ampliato in diversi lavori successivi 7 – resta<br />
4 Wolterstorff passa poi (secondo un copione che si ripeterà in molta letteratura successiva) a sostenere che<br />
tale impegno riguarda le opere da intendersi come «generi» o «tipi» (ivi: 126-129 – riecheggiando le<br />
argomentazioni di uno Strawson, 1966, non particolarmente brillante) e a chiarire «quale genere di genere»<br />
siano le opere (ivi: 129-136), per chiudere con un’analisi piuttosto ampia del caso (ormai standard) dell’opera<br />
musicale.<br />
5 Tale distinzione, introdotta da Peirce (Collected Papers, IV, § 537) analizzando il caso del doppio senso di<br />
«parola» (parafrasando: la parola «parola» nella lingua inglese, intesa come entità astratta / le diverse parole<br />
«parola» presenti ad es. fisicamente su questa stessa pagina, intese come oggetti spaziotemporali composti da<br />
inchiostro distribuito sulla carta), ha poi conosciuto un’estensione dalla semiologia all’ontologia che ancora<br />
attende una formulazione teorica soddisfacente. Per una succinta rassegna della discussione attuale, cfr. Wetzel<br />
L., Type/token distinction, in Routledge Encyclopedia of Philosophy, 1998.<br />
6 Margolis sviluppa l’articolo come una risposta a Stevenson 1957, ma si avvale esplicitamente anche delle<br />
analisi di Rudner 1950. La tesi che espone conclusivamente non si limita affatto a esibire l’applicabilità della<br />
distinzione «type / token» al caso delle opere d’arte, ma (riprendendo da Stevenson la nozione di «megatype»)<br />
giunge ad affermare che «due occorrenze [di un’opera] appartengono al medesimo megatipo se e solo se<br />
condividono almeno approssimativamente qualcuno degli aspetti [esteticamente significativi] (design) che<br />
rientrano nell’insieme degli aspetti [esteticamente significativi] anche diversi, ovvero contraddittori, che possono<br />
venire riconosciuti [a tali due occorrenze], ossia se gli aspetti [esteticamente significativi] di entrambe,<br />
per quanto differenti, possono venire razionalmente riconosciuti al megatipo che viene significato da una<br />
notazione artistica» (Margolis 1959: 40). A ciò va aggiunto che «affinché un tipo o un megatipo possa avere<br />
un’utilizzazione deve essere realizzato fisicamente in un’occorrenza, cioè in un’istanza del tipo o del megatipo»<br />
(ibidem). Tali teoremi vengono quindi applicati considerando opere di generi artistici diversi, per cui ad es. si<br />
rivela «possibile considerare una poesia stampata come una notazione per quella poesia, ma è impossibile<br />
considerare un dipinto originale alla stregua di una simile notazione» (ivi: 42).<br />
7 Andrà qui ricordato almeno un articolo, del 1977 (The Ontological Peculiarity of Works of Art), svolto<br />
lungo un filo doppio, negativo e positivo. Sul versante negativo e polemico, vengono biasimate (ma meno<br />
duramente che poi in Margolis 1988, in cui compare come bersaglio la koine postmoderna) le innumerevoli<br />
fallacie che nell’estetica analitica hanno avuto corso per la confusione tra la categorizzazione «tipo / occorrenza»<br />
e altre solo apparentemente analoghe (soprattutto quella «universale / particolare», ma anche «genere /<br />
58
il fatto che Margolis ha chiara l’intenzione di risolvere una questione che è<br />
ontologica e anteriore a quella della definizione semantico-concettuale di «opera<br />
d’arte» e di «arte». Nondimeno, il chiedersi quale tipo di esistenza sia peculiare<br />
alle opere d’arte (prima di porre ulteriori distinzioni mediante l’impiego di<br />
categorie metafisiche rispetto a classi omogenee di oggetti artistici, individuabili<br />
nelle cosiddette «forme d’arte» tradizionali: ad esempio, tra forme d’arte spaziali,<br />
o oggettuali, e temporali, o eventuali ecc.) è difficilmente disgiungibile dal chiedersi<br />
che cosa siamo disposti a riconoscere (a quali condizioni, e sotto quali<br />
circostanze) come arte, ovvero come un oggetto d’arte, in generale.<br />
2. Un’altra (questione di) etichetta<br />
Intesa, dunque, in quest’altra accezione (altrettanto intuitiva rispetto a quella<br />
delineata da Margolis, ma travisata da molti suoi prosecutori) l’ontologia dell’arte<br />
esiste da quando esistono l’estetica e la filosofia dell’arte, se non da prima:<br />
è infatti sin troppo agevole, sfogliando un qualsiasi manuale di estetica di taglio<br />
storico, seguire gli sviluppi della filosofia dell’arte come un susseguirsi di risposte<br />
concorrenziali alla domanda su che cosa sia l’arte – una domanda spesso<br />
avanzata, oltretutto, nel contesto di genuini tentativi di «fissare dei criteri per<br />
stabilire che cosa sia ragionevole includere in un accurato inventario del mondo»<br />
(Varzi 2002: 158). Certo, il chiarimento del senso in cui la domanda su che<br />
cosa sia l’arte va intesa come una questione propriamente ontologica ha conosciuto<br />
gradi di sofisticazione teorica differenti. Partendo da quelli più bassi e<br />
più attuali, non sarà allora inutile ricorrere a una metodologia scientifica sempre<br />
più diffusa e interrogare qualche motore di ricerca sulla frequenza con cui si<br />
trovano associati, nei documenti in rete, i termini «ontology» e «art». Ciò che ci<br />
viene restituito consiste, innanzitutto, in una folla di documenti che testimoniano<br />
di come artisti, critici d’arte (in senso lato) ed estetologi (in senso ancor<br />
più lato) si stiano appropriando del termine «ontologia» (e ci si riferisce proprio<br />
all’ontologia di marca analitica) allo scopo di estendere, ad esempio, cataloghi e<br />
presentazioni di mostre. Ma se tale dato andrà considerato lusinghiero, sarà<br />
solo perché potrà venire interpretato come il risvolto essoterico di una situazione<br />
in cui si vede come l’ontologia contemporanea si occupi effettivamente di<br />
arte – e non il contrario. E, in effetti, sempre esplorando la rete, è possibile<br />
trovare notizie ben più interessanti, se si getta cioè uno sguardo ai prodotti delle<br />
cosiddette «ontologie applicate»: strumenti informatici che approssimano un<br />
problema ontologico (quello di stabilire, secondo criteri, che cosa contenga<br />
istanza» o «insieme / membro» – per averne un esempio spiccio, si veda il passo illustrativo di Levinson citato<br />
sopra). Sul versante positivo, si avanzano le tesi ontologiche secondo cui «le (occorrenze di) opere d’arte sono<br />
realizzate fisicamente [embodied] in oggetti fisici, e non sono affatto identiche a essi […]; non solo un particolare<br />
può realizzare fisicamente un altro particolare in un modo determinato (come occorrenza di un tipo),<br />
ma un particolare può realizzare fisicamente un altro particolare (o [per converso] esserne realizzato fisicamente)<br />
rispetto a cui non è (necessariamente) identico […]; la relazione di realizzazione fisica [embodiment]<br />
non suggerisce alcun dualismo, benché richieda una distinzione tra diversi generi di cose e tra diversi generi<br />
di proprietà delle cose rientranti in tali generi» (1977: 48). Da questo punto di vista, per Margolis il caso di<br />
una stampa (individuale) di Melancholia I di Dürer che «ha la proprietà di essere un’occorrenza particolare<br />
di Melancholia I (un tipo di opera d’arte), mentre la carta e la stampa in quanto oggetti fisici non hanno […]<br />
la proprietà di essere occorrenze di un [tale] tipo», rappresenta un caso analogo a quello del rapporto fra<br />
persone e corpi, secondo il suggerimento per cui «soltanto oggetti con proprietà intenzionali […] possono<br />
avere la proprietà di essere occorrenze di tipi» (ibidem).<br />
59
l’«accurato inventario del mondo») al problema di fornire automaticamente delle<br />
equivalenze fra termini di un linguaggio naturale e concetti logicamente organizzati,<br />
consistenti in corrispondenti definizioni poste fra loro in relazione gerarchica.<br />
Fra i più noti prodotti di questo genere è la SUMO 8 , presentata dai<br />
suoi autori come uno strumento, cercato in un’«ontologia superiore comune»,<br />
volto a promuovere «lo scambio operativo di dati, la ricerca e il reperimento di<br />
informazioni, l’attività inferenziale automatizzata e il trattamento informatico<br />
del linguaggio naturale». Sicché quel particolare dizionario automatico 9 che in<br />
realtà vuole essere la SUMO prevede uno spazio «ontologico» anche per l’arte 10 :<br />
se se ne interroga il browser, cioè, circa il termine «art work», si ottiene in risposta<br />
una schermata come quella che segue.<br />
8 «Suggested Upper Merged Ontology», elaborata come parte del lavoro di ricerca dello «IEEE Standard<br />
Upper Ontology Working Group» (http://suo.ieee.org/). I successivi riferimenti saranno a http://<br />
ontology.teknowledge.com/#FOIS. Date le finalità circoscritte del presente lavoro, il browser di cui ci si<br />
servirà sarà quello semplificato prodotto da Michal Sevcenko (http://virtual.cvut.cz/kifb/en/), mentre per il<br />
grafo riprodotto in singole parti cfr. http://ontology.teknowledge.com:8080/rsigma/sumo-1.36classes.pdf.<br />
9 Dato un simile obiettivo, un’ontologia applicata risulta «simile a un dizionario o a un glossario, ma è molto<br />
più dettagliata e ha una struttura grazie a cui i computer possono elaborarne il contenuto. Un’ontologia<br />
consiste di un insieme di concetti, relazioni e assiomi che formalizzano un ambito di interesse. Un’ontologia<br />
superiore si limita a metaconcetti, ovvero a concetti generici, astratti o filosofici, dunque abbastanza generali<br />
da riferirsi (ad alto livello) a una vasta gamma di aree di dominio. I concetti specifici per domini particolari<br />
non sono inclusi in un’ontologia superiore, ma una simile ontologia fornisce una struttura di base per la<br />
costruzione di ontologie per domini specifici, ad es. medicina, economia, ingegneria ecc.» (http://<br />
ontology.teknowledge.com/#FOIS). Per un panorama teorico sulle ontologie applicate cfr. Smith - Welty<br />
(2001), nonché la rassegna di Davies J. (a c. di) 2003.<br />
10 Per valutare la presenza dell’«arte» in rete, vale la pena dare un’occhiata all’ottimo ArtLex, supportato da<br />
un progetto commerciale, all’indirizzo http://www.artlex.com. In effetti, però, sono altri i «domini specifici»<br />
60
La SUMO, dunque, prevede l’esistenza di (ovvero si impegna a classificare)<br />
opere d’arte, intese come un sottotipo di oggetti fisici che costituirebbero una<br />
specie del genere «artefatto» – una situazione che si può cogliere meglio nei due<br />
seguenti particolari del grafo che la illustra complessivamente.<br />
Il cuore di questa risposta, nei suoi intenti ontologica, alla domanda «che<br />
cos’è l’arte» risiede dunque nella definizione collocata in testa all’albero classificatorio<br />
(«artefatti che sono creati innanzitutto per un apprezzamento estetico»)<br />
– ma è una risposta assai problematica, a diversi livelli e per diversi motivi,<br />
più o meno riconosciuti (e più o meno esplicitamente) dagli stessi autori della<br />
SUMO. A questa definizione di opera d’arte segue, ad esempio, l’avvertenza<br />
che vengono elencati dalla SUMO come particolarmente interessanti e particolarmente coltivati dalla ricerca,<br />
e comprendono un misto di domini autoreferenziali («Quality of Service ontology, covering computer systems<br />
and networks / Ecommerce Services ontology…»), domini riferiti alle scienze di base («… Ontology of<br />
biological viruses… Periodic table of the elements»), e domini di più (o meno) dubbia qualificazione («…<br />
Ontologies of weapons of mass destruction and terrorism / An ontology of Government…»).<br />
61
esplicita che le opere architettoniche («stationary artifact») ne risultano escluse.<br />
Ma che dire del rapporto di tale entità con le «icone» (sottoclasse degli «oggetti<br />
contenitori» – sic) o con i «testi», intesi come sottoclasse degli artefatti e come<br />
sottoclasse ulteriore degli «oggetti contenitori»? Infine, si potrà non essere d’accordo<br />
con le ragioni dello sfondo teorico assunto da un Margolis, tuttavia è chiaro<br />
che l’identificazione immediata dell’opera d’arte con un oggetto fisico non<br />
tiene in minimo conto di alcuna cautela concettuale necessaria a chi volesse<br />
sostenere una simile identificazione 11 . Detto dunque blandamente: questo frammento<br />
della SUMO esibisce (almeno) dei problemi ontologici irrisolti – comuni<br />
però a gran parte dei lavori teorici prodotti dall’estetica analitica che si rivolge<br />
alla questione di definire l’arte. In altre parole ancora: quelli che in un’ontologia<br />
applicata sono risolti mediante una (magari legittima) approssimazione, in campo<br />
teorico rimangono ancora delle questioni dibattute.<br />
Se anche si sorvola sul problema della tenuta del concetto di opera d’arte di<br />
cui fa uso la SUMO, la prima (e forse la più grave) questione che andrebbe<br />
affrontata alla luce dei lavori di Margolis è allora quella dell’equivalenza fra<br />
una risposta definitoria circa il significato di un termine e una risposta a una<br />
questione più propriamente ontologica, come è quella dell’inclusione di ciò che<br />
esso designa in un buon inventario del mondo. Certo, fornire una buona definizione<br />
(ad esempio) di «arte» ci dà al contempo dei criteri per identificare il<br />
referente di questo termine, può servire a classificare in modo utile gli oggetti<br />
facenti parte del dominio ontologico in esame ecc. – tuttavia, né è chiara la<br />
giustificazione di questa equivalenza, né è scontato che per ogni termine referenziale<br />
si possa dare una definizione come quella fornita dalla SUMO per<br />
«opera d’arte». Si tratta di un problema recentemente evidenziato da Moravcsik,<br />
il quale parte dalla constatazione generale di come nelle analisi teoriche della<br />
filosofia analitica contemporanea sia corrente l’assunzione secondo cui le risposte<br />
alle domande di forma «che cosa è F?» (ad esempio: «che cosa è un universale?»)<br />
e a quelle di forma «che cosa significa ‘F’?» (ad esempio: «che cosa significa<br />
‘universale’?») coincidono (1991: 302). Moravcsik, tuttavia, rileva come nei<br />
casi appena esemplificati «abbiamo a che fare con entità teoriche, introdotte dai<br />
filosofi per risolvere problemi filosofici» e che «quando i filosofi trattano concetti<br />
che hanno corso anche al di fuori del loro campo d’indagine, il fatto che i due<br />
tipi di domanda si fondano in uno solo è più problematico» (ibidem). Qui<br />
Moravcsik fa cadere l’esempio della domanda «che cos’è la conoscenza?», che<br />
sembra ammettere diverse interpretazioni ragionevoli per le quali essa non risulta<br />
equivalente alla domanda «che cosa significa ‘conoscenza’?». In quanto<br />
non le equivale, allora, va intesa come la richiesta di indagare circa una (almeno<br />
ipotetica) capacità umana fondamentale, sicché un simile esame potrebbe essere<br />
svolto «anche in paesi dove non esiste alcuna parola corrispondente all’italiana<br />
‘conoscenza’» (ibidem). La seconda domanda, semantico-concettuale, invece,<br />
appare richiedere «un’analisi del significato di una parola, intesa o in un uso<br />
tecnico di tipo filosofico, o in un uso non tecnico e quotidiano, fra i quali sussista<br />
– si spera – un legame» (ibidem). Posto quindi che il problema di differen-<br />
11 La classificazione-definizione di «opera d’arte» tentata dalla SUMO, del resto, opera esplicitamente con il<br />
solo rapporto di inclusione fra classi, riferito a concetti, non ponendosi nemmeno il problema della pertinenza<br />
di una categorizzazione «token/type» rispetto agli oggetti da essi denotati.<br />
62
ziare le due domande possa riguardare anche il caso di «arte», Moravcsik distingue<br />
in via generale due estremi fra cui tale caso andrà collocato: nel primo i due<br />
tipi di domanda divergono, mentre nell’altro «troviamo pratiche o istituzioni<br />
entro cui un insieme di attori […] può decidere circa la denominazione di fattori<br />
e componenti della loro pratica», sicché «ciò che battezzano F è ciò che è F; e<br />
che un esemplare di ciò che viene ritenuto un F risponda effettivamente alle<br />
condizioni per essere un F è interamente determinato dagli attori» (ivi: 303).<br />
Non si è troppo distanti dalle teorie ontologiche che prevedono una partizione<br />
fra oggetti «bona fide» e «fiat» (cfr. Smith 2002); d’altro canto, il solo ricorso a<br />
simili teorie (che programmaticamente ignorano ogni questione logicosemantica)<br />
non sembra in grado di fornire un sostegno supplementare alle plausibilissime<br />
tesi che Moravcsik avanza rispetto al caso specifico di «arte» 12 – secondo<br />
le quali, in buona sostanza, tale caso si colloca fra i due estremi appena<br />
contemplati. Ma, soprattutto, una tale impostazione metodica sembra, oltre che<br />
circoscrivere il primo dei problemi teorici che le ontologie applicate annullano<br />
mediante un atto di approssimazione, una via generale per il costituirsi di<br />
un’ontologia dell’arte. Si tratterà, dunque, di individuarne innanzitutto il dominio,<br />
scartando l’ipotesi che si tratti di una questione meramente linguistica e,<br />
magari, riducibile a un problema di mera convenzione.<br />
Detto tutto questo, però, va ancora rilevato come l’ontologia contemporanea<br />
patisca un ulteriore difetto di definizione disciplinare, che si è pesantemente<br />
ripercosso sull’estetica dell’arte. Ritornando sulla fortunata formula dell’«inventario<br />
del mondo», infatti, non sarà difficile coglierne una tensione irrisolta:<br />
quella fra il compito di stilare «semplicemente» un simile inventario (con le<br />
parole di Varzi: «stabilire che cosa esiste», 2002: 158) e il compito di determinarne<br />
rigorosamente i criteri. Tale compito pare allora sempre sul punto di scivolare<br />
fuori di un’ontologia ristretta al solo problema dell’«impegno ontologico» e,<br />
insomma, sfumare in quella che lo stesso Varzi vuole tenere distinta come «metafisica»,<br />
intesa come disciplina che indaga «la natura ultima di tutto ciò che<br />
esiste» (ibidem).<br />
Ma, a questo proposito, forse le parole più lucide risalgono già a un lavoro di<br />
Peltz del 1966 (Ontology and the Work of Art). Qui, asserita brevemente la tesi<br />
di avalutatività che è diventata poi implicita in ogni lavoro di ontologia dell’arte<br />
(«ciò che viene considerato rilevante o irrilevante per l’interpretazione o valutazione<br />
estetica è conseguenza di impegni ontologici impliciti», 1966: 489), si osserva<br />
sobriamente che nessuna disciplina specifica «inizia con l’asserzione “x è”<br />
o “x ha essere”, dove x è la “cosa” o l’oggetto particolare (qui, l’oggetto artistico)<br />
che viene considerato»; e tuttavia «ogni disciplina presuppone – come dice<br />
Aristotele – che quell’asserzione sia vera» (ivi: 490). Ma «le asserzioni che una<br />
disciplina effettivamente avanza circa x e che sono vere suggeriscono quali siano<br />
le condizioni che rendono vera “x è”» – laddove «la discussione di tali condizioni<br />
è il territorio tradizionale dell’ontologia» (ibidem). Ci si trova così dinanzi<br />
alla domanda «che cosa è l’arte?» intesa in senso specificamente ontologico, cioè<br />
12 Specie la prima: «L’arte è più simile alla medicina o alla produzione di artefatti che alle pratiche i cui attori<br />
sono gli unici arbitri di una corretta assegnazione di nomi e descrizioni» (ivi: 303; la seconda appare, piuttosto,<br />
preliminare ad essa: «L’indagine sull’arte e l’analisi semantica di ‘arte’ possono venire ragionevolmente<br />
considerate come due compiti distinti»; ivi: 304). Per il resto, il lavoro di Moravcsik appare un perfezionamento<br />
dell’opera complessiva di Dickie.<br />
63
alla domanda su quali condizioni (epistemologiche) del discorso sull’arte (e<br />
sulle singole opere che la incarnano) possono necessitarci ad assumerla come<br />
un oggetto genuino – con buona pace delle ricostruzioni standard che separano<br />
nettamente dall’ontologia dell’arte la questione della definizione dell’arte 13 .<br />
Dal punto di vista della necessaria integrazione fra l’ontologia dell’arte (à la<br />
Margolis) e il problema della definizione dell’arte, è importante rilevare uno fra<br />
i diversi risultati del famoso articolo di Danto (The Artworld) che nel 1964 segnò<br />
l’uscita dell’estetica analitica dall’impasse provocata dalla fortuna delle tesi<br />
antiessenzialistiche dell’ultimo Wittgenstein – un momento su cui presto si ritornerà.<br />
Non solo, infatti, Danto riesce qui a fornire una definizione non essenzialistica<br />
di arte su cui il dibattito successivo ritornerà continuamente, ma lo fa<br />
interrogandosi sui corretti criteri di identità di un’opera d’arte che, se soddisfatti,<br />
motivano razionalmente un impegno ontologico nei suoi confronti. Tale criterio<br />
consiste nell’applicabilità a un oggetto di «predicati artisticamente rilevanti»<br />
che sono quelli previsti nel «mondo dell’arte» inteso come un insieme di<br />
teorie, strutturabile formalmente e in evoluzione diacronica (Danto 1964: 582-<br />
584). Al di là del sapore quineano, dunque, va rilevato come Danto non dia<br />
affatto una definizione strettamente semantico-concettuale (tantomeno essenzialistica)<br />
dell’arte e, soprattutto, finisca per intende ontologicamente l’opera<br />
d’arte come un’entità teorica. Il personaggio di Testadura, il soggetto dell’esperimento<br />
mentale che Danto allestisce, potrà essere ancora e ulteriormente indagato<br />
dal punto di vista cognitivo, magari con strumenti non disponibili negli<br />
anni Sessanta del secolo scorso. In ogni caso, ciò che rende Testadura incapace<br />
di riconoscere un’opera d’arte in un dipinto «astratto» (o in un’opera «espressionistica»,<br />
o in un’opera «pop» come è un Brillo Box di Warhol) è la mancanza<br />
di attese teoriche circa gli oggetti che può incontrare, un’ottusità (ma il termine<br />
è davvero improprio) che non gli consente di cercare in essi le qualità appropriate<br />
alla loro identificazione e fruizione – e non un semplice difetto psicologico (la<br />
mancanza di «buon gusto»), né (correlativamente) un difetto qualitativo-funzionale<br />
nelle opere che gli stanno davanti, relativo ad esempio alla loro capacità<br />
di dirgli ciò che vogliono essere, o di suscitare una qualche conversazione intorno<br />
a sé. Danto, così, ha buon gioco nell’avanzare la propria dottrina facendo<br />
subire velocissimamente a Testadura le trasformazioni che hanno interessato la<br />
storia dell’arte occidentale, a cominciare dalla caduta della teoria platonica dell’imitazione<br />
– fino a che si rendono plausibili poetiche (e poi teorie) secondo<br />
cui l’opera d’arte non è, innanzitutto, identica a un oggetto fisico e sensibile.<br />
Testadura, infine, non appare (più o meno letteralmente) cieco per le proprietà<br />
estetiche degli oggetti che Danto gli fa sfilare dinanzi, semmai si rivela specifi-<br />
13 Cfr. (implicitamente) Levinson 2002, ma pure (esplicitamente e su un piano più generale) l’affermazione<br />
che l’estetica «per come viene attualmente intesa» consiste «di due parti: la filosofia dell’arte e la filosofia<br />
dell’esperienza estetica e del carattere estetico degli oggetti o fenomeni non-artistici» (M. Budd, Aesthetics, in<br />
Routledge Encyclopedia of Philosophy, 1998). Ancora, al di là delle opere di area anglosassone, tale divisione<br />
che quasi circoscrive due discipline distinte sta prendendo tacitamente piede in area tedesca, attualmente la<br />
più influenzata dalle prime (cfr. tra antologie e raccolte di saggi: Bluhm - Schmücker, a c. di, 2002; Hecken -<br />
Spree, a c. di, 2002; Schmücker, a c. di, 2003 – nonché il sito all’indirizzo http://www.phil-fak.uniduesseldorf.de/philo/logicart.html),<br />
tanto che in tale area linguistico-culturale è ormai da tempo diventata<br />
minoritaria l’accezione di ontologia dell’arte derivata da Ingarden (ma cfr. Risch 1986). D’altro canto, che sia<br />
o meno per considerazioni analoghe a quelle di Moravcsik (1991), la questione della definizione dell’arte<br />
viene spesso intesa tacitamente come impresa un’ontologica: cfr. almeno Sparshott 1982, Lüdeking 1988,<br />
Davies 1991, Stecker 1997.<br />
64
camente «cieco» alle opere d’arte, incapace cioè di identificarle, ogni volta che<br />
un’opera risponde a una teoria ulteriore rispetto a quella vigente fino a un dato<br />
momento nel mondo dell’arte 14 . In breve: «Ciò che alla fin fine rende differenti<br />
una scatola di detersivo Brillo e un’opera d’arte che consiste in una scatola di<br />
detersivo Brillo è una determinata teoria dell’arte», una teoria che «la eleva nel<br />
mondo dell’arte e le impedisce di collassare nell’oggetto reale che essa è – secondo<br />
un senso di ‘è’ che è diverso da quello dell’identificazione artistica» (ivi: 581).<br />
3. Una specie di artefatto<br />
Una fra le diverse morali ricavabili dalla storia di Danto, dunque, è che se<br />
fosse rimasto integro il presupposto, rimasto ovvio almeno sino alla Critica del<br />
Giudizio, per cui la filosofia dell’arte ha «semplicemente» bisogno di integrare<br />
una teoria della funzione rappresentativa con una teoria del valore estetico,<br />
l’ontologia dell’arte sarebbe presumibilmente rimasta un’ontologia della rappresentazione<br />
affiancata da un’ontologia delle proprietà estetiche. Finché, infatti,<br />
il compito di definire gli oggetti artistici era demandato a qualche «sistema<br />
delle arti» chiuso e incentrato su una funzione estetico-poetica considerata essenziale<br />
(ad esempio mimetica, espressiva, creativa…) che ne articolava gli elementi<br />
in una tassonomia (di norma fortemente gerarchizzata), i problemi<br />
dell’ontologia analitica dell’arte non potevano emergere pienamente nella loro<br />
autonomia. Fin dal suo mettersi in parallelo con un’impostazione del tutto differente<br />
(come però già è la ricerca di un’essenza o funzione comune alle «arti<br />
belle») l’indagine sulla specificità dei fenomeni estetici ha voluto perciò declinarsi<br />
come un’indagine sulle peculiarità di un modo di conoscere, ovvero, più<br />
in generale, di esperire il mondo – oggettivabile, eventualmente, in «cose» necessariamente<br />
sensibili. In tale prospettiva, dunque, l’arte appare uno fra i diversi<br />
esiti produttivi (più o meno privilegiato) dell’esercizio di una facoltà specificamente<br />
«estetica» unita all’esercizio di ugualmente fondamentali capacità<br />
tecniche, espressive ecc. Che si basi sulla circoscrizione di un sapere puramente<br />
sensibile (Baumgarten), o sull’individuazione delle condizioni trascendentali<br />
del giudizio di gusto (Kant), o sull’indagine dell’intenzionalità specifica dell’esperienza<br />
estetica (nella fenomenologia classica), la definizione della cosa<br />
«arte» svolta in questi termini finisce allora per delimitarla a parte subjecti –<br />
svincolandosi in linea di principio da ogni impostazione ingenuamente realistica.<br />
È un approccio palesemente avveduto sul piano epistemologico, né le soluzioni<br />
di questo tipo si sottraggono alla possibilità di ulteriori svolgimenti su un piano<br />
ontologico anche strettamente inteso 15 . Ma ogni simile approccio all’ontologia<br />
dell’arte patisce difficoltà ormai ben note, innanzitutto perché deve dare ragione<br />
del bello specificamente artistico – e si costringe così o allo scacco, o allo<br />
sviluppo di una teoria dell’esperienza estetica di per sé priva di riferimenti<br />
oggettuali preordinati. Sicché, se non deve rimanere un mistero (o un arbitrio)<br />
la loro articolazione in un’unica disciplina, non basterà riconoscere il problema<br />
14 In tale prospettiva, determinati episodi nella storia dell’arte possono venire trattati analogamente a determinati<br />
episodi nella storia della scienza «in cui si sta realizzando una rivoluzione concettuale» (ivi: 573).<br />
15 I tentativi di sviluppare un’ontologia dell’arte basati sulla strategia di individuare particolari proprietà<br />
estetiche capaci di circoscrivere l’ambito degli oggetti d’arte (cfr., classicamente, almeno Beardsley 1958 e<br />
1983) non sono finiti (cfr. almeno Osborne 1981, Tolhurst 1979, Dziemidok 1988).<br />
65
del rapporto fra esperienza estetica e proprietà cui essa fa capo, ma occorrerà<br />
anche riconoscere la rilevanza del problema di circoscrivere il dominio «arte» in<br />
cui tale rapporto eminentemente si articola 16 . È dunque vero che molte delle<br />
prime definizioni tradizionali (sette e ottocentesche) dell’arte venivano avanzate<br />
«con lo scopo di mettere in rilievo caratteristiche salienti o importanti per un<br />
pubblico che già aveva familiarità con il relativo concetto, piuttosto che di analizzare<br />
l’essenza posseduta da tutte le opere d’arte e solo da esse» 17 : e nonostante<br />
la loro varietà le derivazioni di questo tipo di atteggiamento hanno condiviso<br />
per parecchio tempo la medesima fiducia nella possibilità di rintracciare tutte e<br />
sole le caratteristiche necessarie e sufficienti per una definizione dell’arte, ovvero<br />
per identificare un’opera d’arte – almeno fino alla motivata crisi da cui è nata<br />
l’ontologia analitica attuale.<br />
«La discussione, nell’ambito dell’estetica analitica, sul problema della definizione<br />
dell’arte prende le mosse da un punto di vista scettico – quello scetticismo<br />
che affonda le proprie radici nell’anti-essenzialismo di Wittgenstein» (Levinson<br />
2002: 433): «scetticismo» 18 superato, come si è visto, innanzitutto da Danto. In<br />
un giro d’anni relativamente breve, nell’estetica analitica degli anni Cinquanta<br />
dello scorso secolo si è così assistito non soltanto a una crisi pressoché irreversibile<br />
dei più tradizionali modelli essenzialistici (ovvero funzionalistici), ma anche<br />
alla produzione di una famiglia di modelli alternativi, ossia quelli «istituzionalistici»<br />
o «proceduralistici» 19 , che hanno avuto poi culmine soprattutto nei<br />
lavori di Dickie 20 . Nel suo primo scritto risolutivo in tal senso, Art and the<br />
Aesthetic (1974) 21 , così come in quelli che poi gli si sono ispirati, ciò che definisce<br />
un oggetto come oggetto d’arte non è più ricercato in proprietà intrinseche,<br />
necessarie e sufficienti a determinarlo come tale, né in un mondo dell’arte che<br />
definisce entità teoriche 22 . Invece, ciò che definisce un tale oggetto consiste nelle<br />
operazioni che, effettuate su un artefatto, lo rendono un’opera artistica. Tali<br />
16 A questo punto, chi scrive si sente in dovere di precisare, riguardo alla parte individualmente svolta entro<br />
un più ampio progetto collettivo (Ferraris - <strong>Kobau</strong> 2001), che tale rilievo critico non implica una sconfessione<br />
dell’estetica intesa come disciplina di carattere epistemologico, quanto piuttosto una presa d’atto della necessità<br />
che un’estetica intesa in tal senso si ponga come complementare a una filosofia (ovvero a un’ontologia)<br />
dell’arte – comprese entro una medesima tradizione di ricerca.<br />
17 Davies S., Art, Definition of, in Routledge Encyclopedia of Philosophy, 1998.<br />
18 A grandi linee, è vero, piuttosto, che al centro di un più largo fronte antidefinizionista (cfr. Ziff 1951,<br />
Kennick 1958) si è trovata la corrente degli antiessenzialisti neowittgensteiniani: in prima fila, il famoso<br />
Weitz (1956).<br />
19 I due termini vanno considerati equivalenti, a parte il loro mettere l’accento, rispettivamente, sul ruolo<br />
degli attori istituzionali oppure sulle operazioni e strutture istituzionali che determinano la posizione di un<br />
oggetto come opera d’arte. Per apprezzare il consolidarsi di questa terminologia, cfr. Dickie 1997 e György<br />
1999.<br />
20 Dickie (1997) assegna solo a quella del primo Danto (e non a quella proposta nei suoi lavori successivi,<br />
specialmente 1974 e 1981) l’etichetta di teoria istituzionale – etichetta che però pare dubbia alla luce della sua<br />
caratterizzazione in termini «quineani» sopra proposta.<br />
21 L’altro è The Art Circle, 1984, in cui articola ulteriormente la proposta del primo. Una bibliografia pressoché<br />
completa dei lavori di Dickie la si trova all’indirizzo http://www.ruhr-uni-bochum.de/aesth/Dickie/<br />
Home.html.<br />
22 Come derivazioni della prima teoria di Danto andrebbero allora considerate le posteriori teorie «storiche»<br />
della definizione e identificazione delle opere d’arte, sia nella versione «intenzionale» (e poi «ricorsiva») di<br />
Levinson (1979, 1989, 1993), sia (soprattutto) nella versione che si basa sul metodo della «narrazione storica»<br />
secondo cui la relazione definitoria portante non è quella fra le opere di una serie, bensì quella instaurabile<br />
fra ogni singola opera e un’adeguata narrazione teorica che permetta di identificarla (Carroll 1993, 1994,<br />
1999). Per una loro puntigliosa critica, che finisce per negarne la portata ontologica rispetto a quella epistemica,<br />
cfr. Dickie (1997: 24).<br />
66
operazioni si svolgono fra gli attori che compongono il cosiddetto «mondo dell’arte»<br />
(costituito da produttori, critici, pubblico ecc. – e non innanzitutto da<br />
una serie storica di teorie, come è nel «mondo dell’arte» di Danto), seguono<br />
regole non necessariamente esplicite o esplicitabili, si applicano su artefatti e<br />
sono parse inizialmente caratterizzabili nei termini della teoria wittgensteiniana<br />
dei giochi linguistici, ovvero della teoria austiniana dei performativi. A ogni<br />
modo, nella sua formulazione matura, questa teoria rinuncia completamente a<br />
ispirarsi alla filosofia del linguaggio:<br />
1) Un artista è una persona che partecipa consapevolmente alla produzione di un’opera d’arte.<br />
2) Un’opera d’arte è un artefatto appartenente al genere degli artefatti creati per essere presentati<br />
a un pubblico del mondo dell’arte.<br />
3) Un pubblico è un insieme di persone i cui membri sono in qualche misura preparati a comprendere<br />
l’oggetto che viene loro presentato.<br />
4) Il mondo dell’arte è la totalità di tutti i sistemi del mondo dell’arte.<br />
5) Un sistema del mondo dell’arte è un contesto per la presentazione di un’opera d’arte da parte di<br />
un artista a un pubblico del mondo dell’arte (Dickie 1984: 80-82).<br />
La teoria di Dickie ha conosciuto e conosce tuttora critiche e sviluppi positivi<br />
23 . Ma al di là di ogni giudizio sulla sua consistenza (nonché sulla sua capacità<br />
di fungere da cornice teorica per la soluzione di problemi ulteriormente<br />
regionalizzati e magari di tipo applicativo) ne vanno evidenziati un lato scoperto<br />
e, ancor prima, un fraintendimento. Appare cioè, in primo luogo, enormemente<br />
scorretto assimilarla alle teorie di tipo convenzionalistico, o empiricistico<br />
(neostoricistiche, sociologistiche ecc.), o addirittura ermeneutiche. È chiaro, infatti,<br />
che un’impostazione procedurale se ne distacca nettamente almeno su un<br />
punto: rifiutandosi di ricercare un’essenza intrinseca dell’oggetto d’arte, non<br />
vuole però nemmeno delegare la funzione di una simile essenza a condizioni<br />
estrinseche di tipo empirico, o determinate da fattori convenzionali, o interpretativi<br />
in senso lato.<br />
Quanto alla debolezza principale della teoria di Dickie: questa non sta forse<br />
nel suo impianto formale d’insieme (compresa la sua «circolarità»), bensì nell’assumere<br />
come troppo ovvia la nozione teorica di «artefatto» che ne è parte<br />
determinante. Lascia, cioè, insoddisfatto il bisogno di un’ontologia degli artefatti<br />
capace di dare ragione delle caratteristiche che una simile entità deve possedere<br />
per poter venire investita del ruolo di oggetto d’arte. Ed è una debolezza che si<br />
ripercuote su tre momenti centrali della definizione dickiana, che proviamo<br />
quindi a evidenziare nel modo seguente: «un’opera d’arte è (1) un artefatto appartenente<br />
al genere degli artefatti creati per (2) essere presentati a un pubblico<br />
di un (3) mondo dell’arte» 24 .<br />
23 Tra i più recenti vanno registrati alcuni tentativi di ridurne il carattere circolare. Lord (senza tuttavia<br />
trovare finora adeguata risonanza) nega la tesi della circolarità della definizione di Dickie, affermandone<br />
invece il carattere indessicale, ovvero il fatto che la sua formula definitoria di «opera d’arte» è dotata di estensione,<br />
ma non di intensione nel senso concettuale tradizionale (1987: 231). Tillinghast nega la tesi secondo<br />
cui il senso classificatorio di «arte» si applicherebbe solo ad alcuni generi di artefatti, ma non ad altri, per<br />
sostenere che «tutti i generi artificiali sono arte, in senso classificatorio» (2003: 133).<br />
24 È qui parafrasato Dickie 1974: 34: «Un’opera d’arte è, in senso classificatorio, 1) un artefatto 2) a un<br />
insieme dei cui aspetti è stato conferito lo statuto di candidato all’apprezzamento da parte di una persona o di<br />
alcune persone che agiscono per tramite di una determinata istituzione sociale (il mondo dell’arte)».<br />
67
1) Quanto al primo momento, occorrerebbe precisare meglio che per «artefatto»<br />
qui non è possibile intendere semplicemente un prodotto (materiale) dotato<br />
di una funzione (o, ancor peggio, di una funzione rappresentativa o espressiva):<br />
si pensi al caso della adeguata presentazione al pubblico di oggetti naturali e<br />
afunzionali che è tuttavia in grado di istituzionalizzarli come opere d’arte 25 . Si<br />
tratterebbe dunque di attendere gli ulteriori e necessari sviluppi di quel desideratum<br />
che ancora rimane l’ontologia degli artefatti 26 . Nell’attesa, pare necessario<br />
almeno rilevare una serie di rettifiche apportate da Dipert (1995) rispetto<br />
al suo precedente Artifacts, Agency and Art Works (1993). Un risultato di quell’opera<br />
rimane costante, e cioè la differenza tra «strumenti (instruments)» e «utensili<br />
(tools)» sotto un rispetto intenzionale: «gli strumenti sono considerati rispetto<br />
alla loro utilità, mentre gli utensili sono considerati (anche) rispetto al<br />
loro essere stati modificati intenzionalmente per incrementare la loro utilità»,<br />
1995: 124). E da un punto di vista classificatorio rimane ugualmente vero che<br />
«gli utensili sono una sottoclasse degli strumenti, e gli artefatti una sottoclasse<br />
degli utensili» (ibidem). Tuttavia, la differenza tra strumenti e utensili appare<br />
sottile quanto cruciale: da un lato, ciò che rende tale uno strumento può essere<br />
una proprietà del tutto naturale, e tali proprietà possono ampiamente comprendere<br />
«proprietà estetiche, nutritive, difensive (l’ombra di un albero) e molte altre<br />
proprietà “utili” o desiderabili» (ibidem). D’altro canto, «alcuni individui<br />
talvolta considerano persino degli oggetti attentamente progettati semplicemente<br />
come oggetti strumentali che sono caduti, come manna dal cielo, nel loro ambiente<br />
locale» (ibidem). Il punto decisivo, dunque, è il fatto che oggetti ed eventi<br />
siano o meno considerati (riconosciuti, viene da dire, ma non è la terminologia<br />
di Dipert) «rispetto alle loro origini e rispetto a (le menti di) altri agenti», che<br />
venga cioè riconosciuto il loro «contenuto “sociale”» (ibidem). Si invoca chiaramente<br />
un fattore cognitivo, ovvero epistemico – e le considerazioni che Dipert<br />
ne deriva sono diverse: ma qui soprattutto importano quelle che si riferiscono<br />
all’altra faccia della medaglia, cioè al correlativo oggettivo di questo atto di (possibile,<br />
ma non necessario) riconoscimento. In tale prospettiva, Dipert sottolinea<br />
che gli artefatti «segnalano intenzionalmente (e, più esattamente, comunicano)<br />
che sono strumenti», o in altre parole «comprendono proprietà che comunicano<br />
la propria strumentalità (tool-communicating)» (ivi: 127). Ancora, se si vuole,<br />
sono «utensili che sono intenzionalmente posti sul mercato (marketed) come<br />
tali», ovvero «“pubblicizzano” la propria natura di utensili» (ibidem). In particolare,<br />
dunque, occorrerebbe evidenziare che un artefatto può sostenere funzioni<br />
estetiche che alcuni suoi tratti sensibili possono ulteriormente «pubblicizzare»<br />
(ad esempio: rappresentativa ed espressiva, di sollecitazione alla valutazione<br />
o alla conversazione ecc.) 27 – ma non si tratta ancora di una condizione sufficiente<br />
per farne un’opera d’arte. Occorrerà, almeno, che tali proprietà gli vengano<br />
riconosciute come oggettive. In altri termini: l’artefatto artistico deve appari-<br />
25 Un caso che Margolis (1977) è in grado di analizzare senza ricorrere alla condizione di artefuattualità.<br />
26 Il settore è però in movimento. Cfr. Hilpinen (1992, 1993), Dipert 1993, Denkel 1995, Dipert 1995, Simons<br />
- Dement 1996, Kroes 2002, Vermaas - Houkes 2003: tutti (Dipert poi è un caso particolarmente importante)<br />
toccano questioni centrali per l’ontologia degli artefatti artistici, ovvero le riservano un posto d’onore.<br />
27 E fin qui, tali considerazioni risultano (almeno) compatibili con le considerazioni di Danto 1964.<br />
68
e come un artefatto che esibisce delle qualità estetiche, a prescindere da qualsiasi<br />
intervento di giudizio e interpretazione intenzionale da parte del fruitore.<br />
2) Affermando che un artefatto, per essere identificabile come un’opera d’arte,<br />
deve essere presentato secondo procedure determinate (dickianamente: essere<br />
offerto all’apprezzamento di un pubblico come parte di un mondo delle opere<br />
d’arte) 28 affinché venga riconosciuto specificamente come tale, occorrerebbe<br />
sottolineare maggiormente che non basta che venga presentato in tal modo in<br />
quanto singola entità – ciò che va oltre al modello «comunicativo» ricavabile da<br />
Dipert, nonché al raffinamento della nozione di «presentazione» mediante<br />
un’analisi conversazionale come proposto da Wieand (1983) 29 . L’apprezzamento,<br />
cioè, per distinguersi dal più classico giudizio estetico (incapace, di per sé, di<br />
determinare un oggetto come opera d’arte), deve per forza configurarsi come<br />
comparativo e differenziale. Se si vuole, il carattere di opera d’arte è un valore<br />
che chiede di essere riconosciuto, ma in modo del tutto analogo a quello della<br />
merce nell’analisi di Marx: come una proprietà che non si ritrova nel «corpo<br />
della merce» in quanto singolo oggetto utile. In tale prospettiva il valore artistico<br />
come proprietà oggettiva appare come il valore di un artefatto immateriale, e<br />
mai come una proprietà estetica derivante dal solo incontro di fattori oggettuali<br />
e fattori cognitivi.<br />
3) Il mondo dell’arte (nel senso di Dickie) andrebbe, infine, più decisamente<br />
descritto come determinato, a sua volta, da condizioni strettamente procedurali<br />
e normative, prima che da fattori empirici: ad esempio sociologici, economici,<br />
tecnologici – o cognitivi ecc. Di nuovo, esibisce strutture e relazioni concrete e<br />
astratte proprie più di un mercato (inteso sempre in senso marxiano) che di<br />
altre istituzioni. E allora ci si stupisce che Dipert si stupisca osservando (e, si<br />
badi bene, rispetto agli artefatti in generale, non ancora specificamente rispetto<br />
a quelli artistici) che il «“pubblicizzare” [sc. proprietà funzionali], normalmente<br />
considerato come un effetto collaterale, disprezzato e gratuito, del comportamento<br />
capitalistico» andrebbe propriamente visto come una caratteristica essenziale<br />
di queste «preziose entità» (1995: 130).<br />
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28 Fin qui, tale caratterizzazione risulta (almeno) compatibile anche con le teorie storiche della definizione<br />
dell’arte.<br />
29 Wieand, comunque, non aderisce alle teorie istituzionalistiche, seguendo la tesi per cui «non esistono<br />
gruppi istituzionali o pratiche convenzionali associate all’arte che possano venire adoperati per costruire una<br />
teoria di questo tipo» (1983: 411).<br />
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