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Il problema dell'infinito nella fenomenologia di Husserl. The ... - Labont

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esclusivamente nel suo risvolto infinito, come quel tutto al quale l’uomo può attingere perdare un senso al mondo e alla storia, ma che comunque non ha bisogno dell’uomo per esserevera o per essere reale. Un sistema <strong>di</strong> questo tipo però comincia poi (in un secondo momento)sempre e inevitabilmente a cedere, e l’idealità così considerata (<strong>Husserl</strong> parla a questoproposito <strong>di</strong> idealità dello specifico) a perdere la sua maestosità; al fine <strong>di</strong> risolvere unasituazione <strong>di</strong> questo tipo, le soluzioni possibili sono allora soltanto due: da un lato si può<strong>di</strong>chiarare l’illusorietà dell’ideale stesso, cadendo così in una forma <strong>di</strong> fenomenismo senzaleggi, dall’altro si può invece <strong>di</strong>chiarare la funzione regolativa <strong>di</strong> tale ideale che, pur nonessendo mai dato come un tutto, ha tuttavia sempre il compito <strong>di</strong> stimolare il procedere dellenostre ricerche. E’ questa seconda possibilità che viene fatta propria da <strong>Husserl</strong>. Ogni volta,nel cuore <strong>di</strong> un sistema che si pretendeva fisso e determinato in tutti i suoi aspetti, si manifestal’apertura indefinita dell’idea.L’idea definisce la <strong>fenomenologia</strong> come vera e propria scienza delle possibilità: infatti essain<strong>di</strong>ca quell’indefinito oltrepassamento <strong>di</strong> un orizzonte, sempre approssimato, ma maicompletamente raggiunto, che deve fungere da stimolo e da regola del nostro procedere, nonpotendosi comunque mai offrire come un tutto dato. L’orizzonticità dell’idea non può infattivenire intuita se non attraverso la sua negazione: è per una necessità essenziale che l’originecostitutiva <strong>di</strong> ogni oggetto non può mai definirsi essa stessa come un oggetto, lasciarsifermare da una intuizione ad essa adeguata. L’importanza <strong>di</strong> questo concetto <strong>di</strong> orizzonterisiede infatti nel suo estendere all’infinito il lavoro dell’obiettivazione, nell’aprire lacoscienza verso l’infinito, comunque e sempre indefinito, del suo oggetto. E’ proprio inquesto senso che l’idea si caratterizza come un compito (Aufgabe): ogni singola e parzialeconcretizzazione nel reale, contribuisce veramente alla costituzione dell’ideale, che pur nonessendo mai raggiunto <strong>nella</strong> sua pienezza (anzi, proprio perché non viene mai raggiunto <strong>nella</strong>sua pienezza), si caratterizza tuttavia sempre come la mèta <strong>di</strong> ogni sforzo.Ciò nonostante, l’orizzonte si può propriamente definire come «dato» alla nostra intuizione:in maniera evidente, anche se inadeguata. Questa osservazione è <strong>di</strong> primaria importanza,perché implica una sod<strong>di</strong>sfacente risposta (se non ad<strong>di</strong>rittura, soluzione) al classico <strong>problema</strong>riguardante la potenzialità o l’attualità dell’infinito: per <strong>Husserl</strong> l’infinito si dà, e quin<strong>di</strong> èattuale, però la sua attualità non è assolutamente assimilabile alla attualità del finito 4 . Uninfinito <strong>di</strong> questo tipo, in relazione con il finito (poiché anch’esso si dà) pur mantenendosi daesso <strong>di</strong>stinto (il suo modo <strong>di</strong> darsi non è infatti uguale al modo <strong>di</strong> darsi del finito), può quin<strong>di</strong>ben a ragione costituire quel trait d’union tra empirico e trascendentale del quale <strong>Husserl</strong> èstato alla ricerca sin dalle sue prime analisi.<strong>Il</strong> principio <strong>di</strong> tutti i princìpi della <strong>fenomenologia</strong>, secondo il quale ogni essere ha il suoparticolare modo <strong>di</strong> essere (ogni Dasein ha il suo Sosein) conformemente alla sua essenza,permette <strong>di</strong> comprendere che cosa significhi affermare che l’infinito dell’idea si offre,secondo <strong>Husserl</strong>, in maniera evidente ma inadeguata: è la cosa stessa che determina i mo<strong>di</strong>della sua manifestazione e l’infinito non si manifesta nel finito altrimenti che <strong>nella</strong> suapotenzialità (si manifesta: quin<strong>di</strong> è evidente, ma <strong>nella</strong> sua potenzialità: allora è inadeguato).Inserendo l’infinito <strong>nella</strong> propria trattazione quale momento implicito oscuramentepresupposto da ogni datità, <strong>Husserl</strong> lo sottrae all’ambiguità, creando così le con<strong>di</strong>zioni pervalutarne la funzione e la portata operativa.Tuttavia occorre precisare che, se davvero ogni essere ha il suo specifico modo <strong>di</strong> essere,allora l’evidenza si dovrà caratterizzare necessariamente come relativa, non vi sarà quin<strong>di</strong> piùun unico tipo <strong>di</strong> evidenza, come spesso si era sostenuto (basti anche solo pensare all’univocità4 L’attualità del finito infatti oltre ad essere evidente, dovrebbe anche essere adeguata. Tuttavia le Lezioni sullasintesi passiva (1920-26) argomenteranno come anche la percezione <strong>di</strong> un singolo oggetto comporti in realtà giàuna struttura ideale: questo ampliamento renderà ovviamente ancora più indeterminati i confini stessi della<strong>fenomenologia</strong> come scienza.3


dell’essere <strong>di</strong> Brentano), quale l’evidenza apo<strong>di</strong>ttica, bensì una molteplicità <strong>di</strong> evidenzeassertorie per le quali l’apo<strong>di</strong>tticità non rappresenterà altro che un’idea, cioè il fine ultimo alquale esse costantemente tenderanno. Le conseguenze derivanti da questa nuova concezionesono chiaramente notevoli: ad esempio, la netta <strong>di</strong>stinzione tra verità <strong>di</strong> ragione e verità <strong>di</strong>fatto, proposta da <strong>Husserl</strong> nei Prolegomeni ad una logica pura delle Ricerche logiche, nonpotrà più essere rigidamente mantenuta, ma dovrà piuttosto essere intesa come una reciprocaimplicazione: allora si potrà legittimamente <strong>di</strong>re che la verità <strong>di</strong> ragione abita il cuore dellaverità <strong>di</strong> fatto, come la mèta è già sempre presente nello sforzo che ad essa tende.L’idea in senso kantiano riesce molto bene ad esprimere il modo <strong>di</strong> datità proprio dell’infinitoche, in quanto attualità del potenziale, si offre in realtà solo attraverso la sua negazione, matuttavia si dà e, soprattutto, solo così si può dare: pretendere un’attualità dell’infinito simile aquella del finito, sarebbe come voler quadrare un cerchio: è impossibile un infinito attualecome il finito, per l’ottima ragione che, se lo fosse, non si tratterebbe più <strong>di</strong> infinito, bensì <strong>di</strong>finito. L’idea intesa come inscin<strong>di</strong>bile nesso tra infinito e indefinito, permette <strong>di</strong> cogliere ilpotenziale in quanto tale e dargli un senso che non sia illusorio.<strong>Husserl</strong> presenta tale idea in quattro forme <strong>di</strong>fferenti, al fine <strong>di</strong> riuscire a salvare la<strong>fenomenologia</strong> al tempo stesso da un vuoto idealismo formale e da uno schietto empirismo:nelle Ricerche logiche essa è introdotta quale idea <strong>di</strong> un <strong>di</strong>venire infinito della logica, in Idee Icome idea della totalità infinita delle esperienze temporali, in Esperienza e giu<strong>di</strong>zio essa èl’idea <strong>di</strong> un mondo come suolo infinito <strong>di</strong> tutte le esperienze possibili ed infine nelleMe<strong>di</strong>tazioni cartesiane e ne La crisi delle scienze europee e la <strong>fenomenologia</strong> trascendentale,l’idea si caratterizza come teleologia intenzionale. <strong>Il</strong> ruolo preciso <strong>di</strong> tale idea all’interno della<strong>fenomenologia</strong> non è mai stato tematizzato da <strong>Husserl</strong>, e questo per una ragione essenziale:non è possibile tematizzare ciò che non è mai <strong>di</strong> per sé stesso un tema, ma è possibiledescrivere soltanto il suo procedere, il suo <strong>di</strong>venire. L’idea <strong>di</strong> infinito è infatti un concettooperatore 5 , cioè ha un senso <strong>nella</strong> misura in cui svolge una funzione (in questo casoregolativa) e non <strong>di</strong> per sé stessa. Questo implica che la negatività dell’infinito husserlianointeso come infinito non-compimento (che è però sempre contemporaneamente un indefinitocompimento) includa la positività <strong>di</strong> un compito: l’idea <strong>di</strong> infinito racchiude infatti unapositività assiologica e teleologica che definisce i contorni <strong>di</strong> un’etica del pensiero 6 .L’idea affida all’uomo un compito da svolgere <strong>nella</strong> storia: esso consiste nel portare l’idealenel reale, realizzando così l’unità del sensibile e dell’intelligibile, dando al mondo la formadel senso e al senso il contenuto del mondo. Vi è una notevole forza implicita in un idealismo<strong>di</strong> questo tipo, derivante dal fatto che esso non possa propriamente mai <strong>di</strong>rsi compiuto: esso èuna tensione, uno slancio che non conoscerà mai <strong>di</strong> per sé stesso quel fine che già sempre loguida. A tutto questo non servirebbe obiettare che l’idea nel mondo non ha mai avuto luogo<strong>nella</strong> sua interezza, e che quin<strong>di</strong> non si può propriamente mai parlare <strong>di</strong> realizzazionedell’ideale nel reale: così come si <strong>di</strong>ce che sia «un controsenso (ex pumice aquam, come Kantcitava), voler giustificare o refutare idee me<strong>di</strong>ante fatti» (1911: 90), così è assurdo negare unarealizzazione parziale dell’idea solo perché è parziale: l’idea infatti (proprio in quanto5 Ci si richiama alla <strong>di</strong>stinzione proposta da Fink in una conferenza del 1959 dal titolo «Les concepts opératoiresdans la phénoménologie de <strong>Husserl</strong>». Secondo Fink all’interno della <strong>fenomenologia</strong> si possono <strong>di</strong>stinguere dueserie <strong>di</strong>stinte <strong>di</strong> concetti: i concetti tematici, che sono autonomi ed hanno un significato loro proprio, e i concettioperatori, che hanno un senso solo <strong>nella</strong> misura in cui svolgono una funzione e non <strong>di</strong> per sé stessi; stabilire ilruolo giocato dai concetti operatori all’interno della <strong>fenomenologia</strong> è a suo avviso un compito molto <strong>di</strong>fficile, dalmomento che «<strong>Husserl</strong> non si è posto il <strong>problema</strong> <strong>di</strong> un “linguaggio trascendentale”» (1959: 229).6 In questa <strong>di</strong>rezione dovrebbe essere integrata la critica <strong>di</strong> Gurvitch (1930: 60) alla <strong>fenomenologia</strong>: se infatti ègiusto insistere, come egli fa, sul carattere negativo dell’infinito husserliano, del tutto estraneo a qualsiasi forma<strong>di</strong> infinito assoluto, è del pari opportuno sottolineare la forte positività implicita in questa concezione, secondo laquale essendo per l’appunto l’infinito un compito per l’uomo, esso è fonte <strong>di</strong> norme e <strong>di</strong> valori, che sonoelementi guida del procedere umano nell’ambito pratico e in quello conoscitivo.4


infinita) non potrà mai darsi altrimenti che così, e la costante incompiutezza delle suerealizzazioni, anziché essere l’emblema <strong>di</strong> un fallimento, è segno <strong>di</strong> una manifestazione e <strong>di</strong>una conquista. Questa tensione verso un polo infinito è ciò che caratterizza propriamente lacoscienza del filosofo 7 . Ogni singolo risultato, proprio nel suo essere particolare, costituirà unin<strong>di</strong>ce verso l’infinito: ecco che così è forse dato comprendere il significato della parte inrapporto a quel tutto verso il quale essa costantemente tende, senza che esso possa mai venireraggiunto, tuttavia come se (als ob) esso potesse esserlo. La filosofia come scienza rigorosa(1911: in particolare 85-113) è a questo riguardo illuminante: se l’idea <strong>di</strong> scienza <strong>di</strong> per sémedesima deve essere concepita come sovratemporale e come non limitata da alcunarelazione con lo spirito <strong>di</strong> un certo tempo, essa in rapporto a noi non è altro che una serie <strong>di</strong>Weltanschauungen sempre legate ad un in<strong>di</strong>viduo in un tempo e in un luogo ben precisi.Allora le realizzazioni delle filosofie della Weltanschauung, avvicinandosi asintoticamenteall’infinito dell’idea della scienza, segneranno l’unità <strong>di</strong> un percorso 8 . La filosofia als strengeWissenschaft è quel punto indefinitamente lontano che guida e sorregge i nostri sforzi.E’ questa quell’etica del pensiero alla quale si accennava più sopra: l’uomo (il filosofo) èresponsabile della realizzazione dell’idea nel mondo. Contro ogni sorta <strong>di</strong> dogmatismo che siaccontenta <strong>di</strong> risultati parziali giu<strong>di</strong>candoli definitivi, il filosofo deve <strong>di</strong>mostrarsi capace <strong>di</strong>quella che Kant definiva una fede <strong>problema</strong>tica (cioè una fede razionale che riconosce lapossibilità <strong>di</strong> quel tutto prospettato dall’idea, proprio perché essa rafforza e stimola ilprogre<strong>di</strong>re pratico-conoscitivo dell’uomo), la fede derivante dall’entusiasmo per la grandezza<strong>di</strong> uno scopo e per nulla impaurita dall’entità degli sforzi richiesti per conseguirlo. «Lascienza <strong>di</strong> ciò che è ra<strong>di</strong>cale, deve essere ra<strong>di</strong>cale anche nel suo modo <strong>di</strong> procedere, sotto ogniriguardo» (1911: 112).Questa può essere considerata una, fra le tante <strong>problema</strong>tiche, che hanno guidato il camminofilosofico <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> per oltre quarant’anni: la <strong>fenomenologia</strong> come costante ricerca dellapossibilità <strong>di</strong> una realizzazione dell’idea (<strong>di</strong> una logica pura, <strong>di</strong> un unitario flusso temporale,<strong>di</strong> un mondo e <strong>di</strong> un telos della storia) nel mondo dei fatti.Prima <strong>di</strong> esplicitare i luoghi (le opere verranno esaminate in or<strong>di</strong>ne cronologico) e lespecifiche funzioni dell’idea <strong>di</strong> infinito all’interno dell’orizzonte fenomenologico, èfondamentale fare una precisazione. Tale idea compare per la prima volta, anche se nonancora <strong>nella</strong> sua accezione kantiana, in una fase della filosofia husserliana che non è ancorapropriamente fenomenologica, cioè quella risalente alla Filosofia dell’aritmetica (1891).L’idea <strong>di</strong> infinito e le sue <strong>problema</strong>tiche implicazioni possono infatti essere considerate ilragionevole motivo per il quale il secondo volume <strong>di</strong> tale opera, prospettato dal progettoiniziale, non venne mai compiuto.1. L’infinito come momento figuraleLa Filosofia dell’aritmetica, scritta sotto la <strong>di</strong>retta influenza <strong>di</strong> Brentano, è esplicitamentevolta ad una caratterizzazione psicologica del concetto <strong>di</strong> numero, come infatti già in<strong>di</strong>ca il7 «Idealiter ogni uomo che tende a uno scopo (strebend) è “filosofo” in senso letterale» (1911: 98): è filosofo inquanto aspira all’infinito, tende all’infinito, ricerca l’infinito, ma soprattutto lo realizza: altrimenti questatensione sarebbe sterile e il compito solo una illusione. Infatti non solo il reale ha bisogno dell’ideale per avereun senso e uno scopo, ma anche l’ideale ha bisogno del reale per venire alla luce: che cosa sarebbe l’idealitàdelle forme geometriche se non fosse stata creata (sì, «creata» e non semplicemente «scoperta», come potevavolere Kant) da Talete? L’ideale caratterizzandosi contemporaneamente come l’archeologia e la teleologia delreale, non può ovviamente avere un senso in<strong>di</strong>pendentemente da esso.8 La duplicità dell’idea in senso kantiano, se ben compresa, permette quin<strong>di</strong> <strong>di</strong> chiarire quelle ambiguità che inun primo momento potevano apparire insuperabili: per esempio, l’affermazione secondo la quale «LeWeltanschauungen possono lottare» ma che «solo la scienza può decidere e la sua decisione porta il marchiodell’eternità» (1911: 107), non significa altro che l’idea, <strong>di</strong> per sé vera ed eterna, è incompleta e temporale nellesue realizzazioni particolari.5


sottotitolo Psychologische und logische Untersuchungen, è un tentativo <strong>di</strong> fondaresoggettivamente la matematica e in senso implicito anche la logica. Secondo unafondamentale teoria empiristica che <strong>Husserl</strong> riprende dal suo maestro (ma che si ritrova anchein altri autori, per esempio in J.S. Mill), l’origine del concetto <strong>di</strong> numero deve essere ricercatanei fenomeni concreti <strong>di</strong> molteplicità. Nel senso della Urteilslehre <strong>di</strong> Brentano, tutte lecostruzioni logiche devono potersi spiegare con le operazioni della negazione e dellacongiunzione. Nel caso specifico della matematica alla negazione corrisponde l’astrazione,grazie alla quale non si tiene conto (si astrae, appunto) delle determinazioni particolari deglielementi costitutivi della molteplicità in esame. Se poi si spinge fino al limite la negazionedelle particolarità che li caratterizzano come questo o quell’elemento specifico, allora siottiene una serie <strong>di</strong> elementi completamente indeterminati: la serie degli Etwas überhaupt. Alcarattere <strong>di</strong> insieme che gli elementi conservano nonostante l’astrazione corrisponde poi lacongiunzione, che è l’operazione (soggettiva) esprimentesi con l’und. Quin<strong>di</strong> la formula piùgenerale della molteplicità si può esprimere con «Etwas und Etwas und…».Quin<strong>di</strong> da un punto <strong>di</strong> vista strettamente empiristico, per spiegare l’origine del concetto <strong>di</strong>numero, sono sufficienti una sottrazione e un’ad<strong>di</strong>zione. Come già sosteneva Euclide, ilnumero è l’unità <strong>di</strong> una molteplicità, e qui la molteplicità viene determinata dal concorrere <strong>di</strong>due fattori che sono gli elementi (precedentemente sottoposti ad adeguata astrazione) e larelazione collettiva che riunisce questi elementi in un insieme. Secondo l’interpretazioneempiristica è fondamentale concepire la relazione collettiva come esterna rispetto aglielementi stessi: ecco perché l’analisi del concetto <strong>di</strong> molteplicità rinvia all’atto psicologicodella collezione (così il concetto <strong>di</strong> numero rimanda all’atto del numerare). Dal punto <strong>di</strong> vistaoggettivo il concetto <strong>di</strong> molteplicità è quin<strong>di</strong> determinato numericamente dagli elementi,privati astrattivamente <strong>di</strong> ogni contenuto reale; dal punto <strong>di</strong> vista soggettivo invece, lamolteplicità si caratterizza come numerica me<strong>di</strong>ante l'atto della collezione intesa comeenumerazione.Questa teoria ha chiaramente come modello le operazioni che è possibile fare, ad esempio,con un pallottoliere, secondo cui qualsiasi numero è il risultato derivante dalla somma delleunità che lo compongono (infatti secondo questa teoria risulta <strong>problema</strong>tica la spiegazionedell’unità e dello zero). Anche il caso <strong>di</strong> molteplicità indefinite può essere spiegato con questoproce<strong>di</strong>mento: basta aggiungere alla collezione degli elementi una reiterazione (oecceterazione) uniforme e porre una regola fissa che ne segua il proce<strong>di</strong>mento. Tale infinitosarebbe ovviamente meramente potenziale, poiché verrebbe calcolato e definito a partire daglielementi dati e perciò finiti e non <strong>di</strong> per sé stesso.Fino a qui la posizione <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> pare concordare pienamente con le idee <strong>di</strong> Brentano.Tuttavia un <strong>di</strong>stacco, anche se non ra<strong>di</strong>cale, dal maestro, era già avvenuto nel momento in cuiegli aveva deciso, peraltro già nelle prime pagine della Filosofia dell’aritmetica, <strong>di</strong><strong>di</strong>stinguere il fenomeno dal significato, identificantisi senza residui <strong>nella</strong> teoria brentaniana.Secondo l’autore occorre <strong>di</strong>stinguere il fenomeno dal significato, poiché il fenomeno è sì labase per il significato, ma non è identico ad esso. Questa <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong>viene <strong>di</strong> fondamentaleimportanza proprio nel momento in cui l’analisi psicologica del concetto <strong>di</strong> numero cominciaad avere delle <strong>di</strong>fficoltà <strong>nella</strong> risoluzione dei problemi. Per esempio la teoria <strong>di</strong> Brentano nonè in grado <strong>di</strong> fornire una spiegazione esaustiva riguardo alle cosiddette «molteplicitàmomentanee»: come è possibile che una molteplicità indefinitamente numerosa si percepiscacon un solo colpo d’occhio (per esempio il cielo stellato)? In questo caso il concetto <strong>di</strong>molteplicità non è stato raggiunto con l’atto del contare e con l’aggiunta della ecceterazioneuniforme, <strong>di</strong> conseguenza il significato non può coincidere con il fenomeno: c’è unapercezione, ma non c’è ancora il significato esatto ad essa corrispondente.Questo particolare caso delle molteplicità momentanee è ciò che <strong>Husserl</strong> chiama momentofigurativo (figurales Moment): «momento» perché è una parte non in<strong>di</strong>pendente <strong>di</strong> una6


totalità, conseguibile solo per astrazione (come spiegherà poi ampiamente la terza Ricercalogica), e «figurativo» o «figurale» perché le relazioni possono costituire un contenutodescrivibile <strong>di</strong> per sé stesso. Con tale concezione <strong>Husserl</strong> nega fermamente l’ipotesielementaristica <strong>di</strong> stampo brentaniano: la totalità si impone infatti come qualcosa <strong>di</strong>originario che non può legittimamente venire ridotto ai singoli elementi, ma che tuttavia nonpuò neppure fare a meno <strong>di</strong> essi, non essendone in<strong>di</strong>pendente. <strong>Husserl</strong> prende cosìcontemporaneamente le <strong>di</strong>stanze sia da autori quali Stumpf e Von Ehrenfehls - che, purintroducendo il concetto <strong>di</strong> fusione al fine <strong>di</strong> evidenziare la singolarità del tutto rispetto alleparti, non rinunciano definitivamente alla concezione elementaristica <strong>di</strong> stampo empiristico -sia da posizioni tipo quella gestaltista - secondo la quale la forma figurale può stare da solaaccanto ad altri elementi, come un qualsiasi altro momento in<strong>di</strong>pendente. Infatti il cielostellato (l’esempio utilizzato da <strong>Husserl</strong> per spiegare le caratteristiche del momento figurale)non è né riducibile ai suoi elementi, né tantomeno separabile da essi: infatti esso è unmomento quasi 9 -qualitativo (als ob qualitativ).Quin<strong>di</strong> l’associazionismo del pallottoliere non è più sufficiente e deve necessariamenteampliarsi a schemi <strong>di</strong> carattere più strutturalistico: anche la collezione numerica delle unitàinfatti contiene un momento unitario che si può apprendere per intuizione. «Fui alla finecostretto» scrive <strong>Husserl</strong> «a rinviare completamente le mie ricerche <strong>di</strong> filosofia dellamatematica, fino al momento in cui non fossi riuscito a penetrare con sicura chiarezzaall’interno dei problemi fondamentali della teoria della conoscenza e <strong>nella</strong> comprensionecritica della logica come scienza» (1900: 5). <strong>Husserl</strong> non compie così la stesura del secondovolume, contemplato dal programma iniziale, lasciando incompleta la sua Filosofiadell’aritmetica.2. L’idea della logica puraDopo sei anni <strong>di</strong> riflessione, <strong>Husserl</strong> decide <strong>di</strong> affrontare la questione rimasta irrisolta con lopsicologismo, pubblicando i Prolegomeni alla logica pura (che sono un’ampia introduzionealle successive sei Ricerche logiche), che si propongono <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare l’assoluta irriducibilitàdelle oggettività logiche a qualsivoglia processo <strong>di</strong> tipo psicologico. A tal fine vieneesaminata a fondo la controversia riguardante la questione se la logica, in quanto in qualchemodo connessa con atti mentali, si debba o meno considerare come una parte della psicologia.Appoggiandosi alla <strong>di</strong>stinzione leibniziana tra verità <strong>di</strong> ragione e verità <strong>di</strong> fatto, <strong>Husserl</strong>afferma che il regno dei fatti non può essere il terreno della verità, così come la psicologianon può fornire le leggi della logica. La netta <strong>di</strong>stinzione tra ideale e reale quin<strong>di</strong> non vasmussata, ma va riconosciuta e rispettata. Questa è precisamente la ragione per la qualel’interpretazione psicologistica non è atten<strong>di</strong>bile: essa confonde la genesi psicologica deigiu<strong>di</strong>zi logici con i fondamenti degli stessi, insomma non <strong>di</strong>stingue tra inizio e origine.<strong>Husserl</strong> si schiera quin<strong>di</strong> dalla parte dei logicisti (tra i quali nomina Leibniz, Kant, Herbart eLotze), nonostante anche le loro teorie necessitino ancora <strong>di</strong> molte mo<strong>di</strong>fiche. Una domandache sorge spontanea a proposito <strong>di</strong> questo <strong>problema</strong> è: come può <strong>Husserl</strong> non ripetere Kant?Questa sembra una domanda del tutto legittima, soprattutto se si tiene conto del fatto che qui<strong>Husserl</strong> è molto preoccupato <strong>di</strong> salvare il soggetto nel suo essere e nel suo <strong>di</strong>venire empirico eal tempo stesso <strong>di</strong> mantenere l’assoluta obiettività e purezza delle essenze. Un <strong>problema</strong>analogo si era presentato a suo tempo a Kant che, per me<strong>di</strong>are tra una logica fissa e pura e il9 Bisogna ricordare che il quasi tedesco <strong>di</strong> cui qui è questione (als ob), va inteso alla latina qua-si, come se:infatti piuttosto che <strong>di</strong> approssimazione, ha il significato <strong>di</strong> analogia. L’analogia va intesa come una relazione trai piani <strong>di</strong>versi <strong>di</strong> due termini essenzialmente eterogenei. In questo caso, in particolare, <strong>Husserl</strong> definisce ilmomento figurale come quasi-qualitativo poiché vuole sottolineare come l’infinito da esso implicato non siameramente potenziale come quello <strong>di</strong> stampo aristotelico, bensì attuale, come l’infinito qualitativo <strong>di</strong> Hegel, omeglio qua-si: l’infinito husserliano è attuale, però la sua attualità (da intendersi come attualità del potenziale)non è assolutamente assimilabile all’attualità riscontrabile nel finito.7


mondo empirico degli oggetti, aveva inserito lo schema che, figlio dell’immaginazionetrascendentale, la ra<strong>di</strong>ce comune <strong>di</strong> sensibilità ed intelletto, riusciva a me<strong>di</strong>are tra i duecontendenti senza far torto a nessuno e anzi sod<strong>di</strong>sfacendoli entrambi: lo schema determinavala forma a priori dell’intuizione in generale, cioè il tempo, poi con questa determinazione sipotevano applicare i princìpi dell’intelletto a qualsiasi oggetto d’esperienza. <strong>Husserl</strong> noninserisce nessuno schema per uscire dal <strong>di</strong>lemma 10 , bensì un’idea.Già nell’ampia introduzione alle Ricerche logiche, <strong>Husserl</strong> ha spiegato che la ragione per laquale egli vuole risalire alla logica pura è che essa si caratterizza come la custode della veritàe il fondamento <strong>di</strong> tutte le scienze. Ma come è possibile raggiungere la logica <strong>nella</strong> suapurezza, non ancora intaccata da quella normatività che si caratterizza soltanto come suavocazione? Occorre fare le opportune <strong>di</strong>stinzioni e quin<strong>di</strong> togliere dal campo della logica tuttociò che non le è strettamente essenziale. Proprio questa è la funzione delle «<strong>di</strong>stinzioniessenziali» presentate in apertura della prima Ricerca logica (su Espressione e significato),volte a <strong>di</strong>stinguere l’espressione dall’in<strong>di</strong>ce (la <strong>di</strong>stinzione tra in<strong>di</strong>ce ed espressione riflettequella tra verità <strong>di</strong> ragione e verità <strong>di</strong> fatto dei Prolegomeni), quin<strong>di</strong> ciò che ha in sé stesso ilproprio significato da ciò che invece rimanda costitutivamente ad altro e non ha valenzasignificativa <strong>di</strong> per sé stesso; per questo motivo vengono esclusi dall’espressione, in quantoelementi in<strong>di</strong>cativi, i gesti, le espressioni dal punto <strong>di</strong> vista meramente fisico (come suoni olettere), i vissuti psichici che possono venire comunicati a livello informativo e gli attiriempitivi (che possono riempire intuitivamente la pura forma significante). L’unica sfera <strong>di</strong>pura significazione non già implicata in una funzione in<strong>di</strong>cativa, viene in<strong>di</strong>viduata da <strong>Husserl</strong><strong>nella</strong> «sfera psichica isolata», dove nessun rimando ha più luogo e la purezza del significatoregna incontaminata.Per assicurare l’assoluta idealità e quin<strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendenza dall’empirico, <strong>Husserl</strong> si premura <strong>di</strong>sottolineare che il significato non ha alcun nesso necessario con l’oggetto e che anzi, la totalemancanza dell’oggetto non è assolutamente in grado <strong>di</strong> precludere o limitare la comprensionedel significato. Insomma non bisogna confondere Bedeutung con Gegenstand, laGegenstandlosigkeit non è mai infatti al tempo stesso una Bedeutunglosigkeit: un nome come«montagna d’oro» ha un chiaro significato che compren<strong>di</strong>amo <strong>nella</strong> sua interezza, pur nonessendoci un oggetto ad esso corrispondente 11 . <strong>Il</strong> significato è ideale, infatti quando peresempio ci poniamo il <strong>problema</strong> <strong>di</strong> capire il giusto significato <strong>di</strong> una espressione, noninten<strong>di</strong>amo per espressione quello che abbiamo u<strong>di</strong>to o letto qui e ora, ma l’espressione in sé,l’espressione «in specie»; se io chiedo il significato dell’espressione «le tre altezze <strong>di</strong> untriangolo si intersecano in un punto» (è questo l’esempio portato da <strong>Husserl</strong>) non voglioovviamente sapere (perlomeno in una situazione normale, cioè se non penso che mi si stiaingannando o altro) che cosa intendesse il soggetto che lo ha detto e quali fossero i suoivissuti psichici, invece mi interessa conoscere l’autentico significato <strong>di</strong> quell’enunciato,in<strong>di</strong>pendentemente da tutto il resto, significato che rimane identico anche se io lo ripeto, loscrivo e poi domani qualcun altro lo legge. Anche se quell’espressione è stata pronunciata da10 «<strong>Il</strong> <strong>di</strong>lemma era soprattutto confusione», rileva Derrida 1953-54, insistendo molto sulla ossessione <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong>per qualsivoglia tipo <strong>di</strong> genesi, ossessione che lo porta conseguentemente a considerare in maniera troppolimitata sia la logica che la psicologia e che non gli permette <strong>di</strong> uscire da un rigido formalismo logicista. Lasoluzione è secondo Derrida - come paiono d’altronde testimoniare le ultime opere <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong>, che l’autorefrancese adotta come chiave <strong>di</strong> lettura - offerta dal concetto <strong>di</strong> genesi originaria, una genesi che si insinua nelcampo puro della logica Questa genesi si può effettivamente trovare ne L’origine della geometria: gli oggettigeometrici non preesistono all’atto soggettivo che li inventa, la loro origine è storica e il loro statuto è ideale: ilsenso <strong>di</strong>viene e il <strong>di</strong>venire è già un senso.11 E’ proprio basandosi su questa non-identificabilità che <strong>Husserl</strong> critica le posizioni <strong>di</strong> Sigwart e Erdmann,con<strong>di</strong>videndo invece quella <strong>di</strong> Marty : «Se il significato viene identificato, come abbiamo visto or ora, conl’oggettualità dell’espressione, un nome come montagna d’oro sarebbe privo <strong>di</strong> significato. Ma qui si <strong>di</strong>stinguegeneralmente l’assenza dell’oggetto dall’assenza <strong>di</strong> significato» (1901: 320).8


un soggetto in un momento ben preciso, non è ad esso che rinvia il significato, nonostante nonsia che per mezzo <strong>di</strong> esso che quel significato è venuto alla luce (1901: 310). Ovviamente imiei vissuti, che sono qui adesso, possono anche scomparire, ma non il significato, cherimane sempre identico a sé stesso. I giu<strong>di</strong>zi possono essere molti, <strong>di</strong> persone <strong>di</strong>verse in tempi<strong>di</strong>versi, ma ciò che essi vogliono <strong>di</strong>re, ciò che significano è sempre lo stesso: «le tre altezze <strong>di</strong>un triangolo si intersecano in un punto». <strong>Il</strong> significato è quin<strong>di</strong> unità <strong>nella</strong> e nonostante lamolteplicità.La <strong>di</strong>stinzione tra contenuto espresso in senso soggettivo ed oggettivo si rivela inoltre <strong>di</strong>fondamentale importanza per comprendere la fluttuazione dei significati nel permaneredell’unità ideale <strong>di</strong> significato. Infatti le espressioni significative non sono secondo <strong>Husserl</strong>tutte <strong>di</strong> un medesimo tipo, ma si <strong>di</strong>stinguono in obiettive, occasionali e plurivoche. Leespressioni obiettive, tutte le espressioni teoretiche ad esempio, sono quelle per le quali lecircostanze del <strong>di</strong>scorso e il soggetto sono irrilevanti e l’univocità non può venirecompromessa; invece le espressioni plurivoche sono quelle che hanno più <strong>di</strong> un significatoche viene però fissato convenzionalmente in tutte le sue accezioni; infine vi sono leespressioni occasionali, il cui significato varia a seconda della persona che parla e dellecircostanze nelle quali si trova. L’esempio prescelto per chiarire quest’ultimo caso è la parola«io»: se per esempio si legge questa parola senza essere a conoscenza <strong>di</strong> chi l’ha scritta, non sipuò propriamente <strong>di</strong>re <strong>di</strong> avere capito il significato della parola in questione. Infatti questaparola, oltre ad avere una funzione in<strong>di</strong>cativa (<strong>di</strong> rimando), nel senso che in<strong>di</strong>ca che ilsoggetto sta in<strong>di</strong>cando sé medesimo, ebbene oltre a questo significato generale che valeovviamente per tutti gli «io», ha anche un significato in senso più proprio, <strong>di</strong> che cosa siintende qui e ora con questa parola. Quin<strong>di</strong> «io», se viene letto o u<strong>di</strong>to da solo, manca del suopiù autentico significato e, a meno che non venga riempito intuitivamente, la comprensione <strong>di</strong>esso sarà solo generale.Come molto chiaramente sottolinea Derrida ne La voce e il fenomeno (1967: 134), con ladefinizione delle espressioni occasionali, l’in<strong>di</strong>cazione prima scartata rientra potentemente nelcuore dell’espressione, <strong>di</strong>chiarando illusoria la pienezza prima raggiunta con le cosiddette<strong>di</strong>stinzioni essenziali. Ma questa <strong>di</strong>fferenza sussistente tra le espressioni obiettive e quelleoccasionali, come bisogna intenderla? Come se ci fossero dei significati ideali, fissi e perfettiche nessun soggetto potrà mai intaccare e dei significati che variano a seconda dellecircostanze e delle persone? No, <strong>di</strong>ce <strong>Husserl</strong>, «una simile concezione è priva <strong>di</strong> vali<strong>di</strong>tà»(1901: 357). Idealmente infatti ogni espressione soggettiva si può sostituire con unaespressione oggettiva, lasciando intatta l’intenzione che anima il suo significato più proprio.Tuttavia questa sostituibilità è solo ideale e forse non avrà propriamente mai luogo. Alloraperché parlarne? «In realtà è chiaro che quando affermiamo che ogni espressione soggettivapotrebbe essere sostituita da una espressione oggettiva in fondo non vogliamo <strong>di</strong>re altro senon che la ragione oggettiva non ha limiti» (1901: 358).Questa è precisamente la funzione dell’idea in senso kantiano, che pur non delineando unatotalità, ha il compito <strong>di</strong> non porre limiti e <strong>di</strong> spingere verso la ricerca <strong>di</strong> sempre nuovielementi: l’idea in<strong>di</strong>ca verso un orizzonte indeterminatamente lontano che nessuno sforzoumano potrà mai comprendere <strong>nella</strong> sua interezza. E’ soltanto per non porre limiti alla ragioneoggettiva che <strong>Husserl</strong> <strong>di</strong>ce che questa sostituibilità è possibile. Questa argomentazione puòrisultare complicata, ma a ben guardare non lo è, basti tenere a mente che sono due i tavoli suiquali si gioca e non uno solo. Da un lato vi è un insieme <strong>di</strong> unità ideali fissamentedeterminate, rigide, e questi sono i significati considerati <strong>di</strong> per sé stessi, in<strong>di</strong>pendentementeda qualsiasi espressione che li porti alla luce e da qualsiasi soggetto che li porti nel mondo.Dall’altro lato c’è invece l’insieme dei significati obiettivi al quale noi cerchiamocostantemente <strong>di</strong> avvicinarci, ricadendo tuttavia <strong>di</strong> continuo nell’equivocità: qui tutte leespressioni o quasi sono occasionali e l’univocità è indefinitamente lontana. E’ proprio9


facendo riferimento a questa duplicità che si può ritrovare all’interno della trattazionehusserliana la <strong>di</strong>stinzione tra infinito e indefinito sulla quale si era soffermato Kant: per lalogica considerata <strong>nella</strong> sua pura idealità si può parlare infatti <strong>di</strong> progressus in infinitum,poiché essendo data la totalità dell’idea, l’unità ideale del significato, occorre solo trovaresempre nuovi significati, nuovi per noi, poiché tale idea è <strong>di</strong> per sé stessa un sistema fisso erigido <strong>di</strong> significati; invece per la logica considerata <strong>nella</strong> seconda accezione si parla <strong>di</strong>progressus in indefinitum, perché è necessario cercare sempre e continuamente <strong>di</strong> sostituire leespressioni occasionali e soggettive con quelle obiettive, cercare <strong>di</strong> far sì che la logica purafunga per noi da regola, affinché la nostra ricerca continui a procedere, come se (als ob)esistesse un tutto fisso e ideale da raggiungere. Dal momento che la struttura pura della logicaè in ogni caso - per noi - un’idea, anche tutti i risultati delle <strong>di</strong>stinzioni essenziali nonpotranno essere considerati effettivi, tutto quel sistema non sarà quin<strong>di</strong> altro che una strutturateleologica, ancora a venire.Pare opportuno rilevare tuttavia che c’è un punto in cui questa duplicità dei piani nonfunziona, o perlomeno funziona male: è quello relativo alla extra-essenzialità degli attiriempienti rispetto alla idealità del significato. Infatti, posto che il significato basti a sé stessoper essere obiettivo e ideale, senza avere bisogno d’altro, come si potrà comprendere unafrase quale: «Se manca la “possibilità” o la “verità”, l’intenzione dell’enunciato potrà essererealizzata “solo simbolicamente”; essa non può attingere la pienezza che costituisce il suovalore conoscitivo dall’intuizione e dalle funzioni categoriali che si esercitano alla sua base.Allora le manca, come si suol <strong>di</strong>re, un significato “vero”, “<strong>di</strong>retto”» (1901: 311)? In altritermini, le espressioni, per essere vere ed autentiche, devono almeno possedere l’aperturaverso l’intuizione riempiente, non devono precludersi a priori la via verso gli oggetti. <strong>Il</strong>significato veicolato dall’espressione raggiunge la propria pienezza solo se è significato <strong>di</strong>qualche cosa che c’è, o che comunque potrà esserci in una possibile esperienza. Quin<strong>di</strong> anchel’idealità ha bisogno del rimando ad un esistente per essere veramente tale. Non si infrangeforse così l’assoluta <strong>di</strong>stinzione tra verità <strong>di</strong> fatto e verità <strong>di</strong> ragione che sin dai Prolegomenici si era proposti <strong>di</strong> chiarire <strong>nella</strong> loro assoluta eterogeneità? La significatività idealedell’espressione non era forse quella caratterizzata dalla <strong>di</strong>mostrazione (Beweis), essendopropriamente solo dell’in<strong>di</strong>cazione la struttura <strong>di</strong> rimando (Hinweis), inteso come rimando adun esistente? Se l’evidenza della <strong>di</strong>mostrazione deriva dalla non-evidenza dell’in<strong>di</strong>cazione 12 ,dal fatto che io possa poi in<strong>di</strong>care il significato ideale in un qui e ora almeno possibili, allorain che senso Hinweis e Beweis «debbono tuttavia essere tenuti ben <strong>di</strong>stinti l’uno dall’altro»(1901: 293)? <strong>Il</strong> formalismo della logica husserliana viene ora alla luce in tutta la suaambiguità: in fondo, ciò che regge la forma senza renderla vuota, è una specie <strong>di</strong>intuizionismo velato, secondo il quale la forma è sempre la forma <strong>di</strong> una espressione rivoltaverso un oggetto 13 .Un altro aspetto sul quale è importante soffermarsi è quello riguardante l’apertura che<strong>Husserl</strong> considera come una caratteristica fondamentale del proprio sistema logico: da quale12 Come sottolinea Ferraris, la rigida <strong>di</strong>stinzione tra in<strong>di</strong>ce ed espressione non può che risultare <strong>problema</strong>tica,infatti «se l’atto <strong>di</strong> in<strong>di</strong>care il questo è con<strong>di</strong>zione così del tavolo come della tabula, è ben arduo riven<strong>di</strong>care unapriorità della espressione sulla in<strong>di</strong>cazione (a meno che non se ne faccia una priorità <strong>di</strong> puro principio)» (1997:300): proprio <strong>nella</strong> coscienza, che si caratterizza come l’origine pura del significato, non si può non rilevare ilprimato dell’in<strong>di</strong>cazione che si era invano cercato <strong>di</strong> scartare nelle cosiddette <strong>di</strong>stinzioni essenziali. Ferrarisassimila quin<strong>di</strong> la condanna husserliana dell’in<strong>di</strong>cazione, in quanto empirica e non apo<strong>di</strong>ttica, alla condannaplatonica della scrittura: in entrambi i casi infatti «ciò che condanna o reprime (la coscienza contro la scrittura) èa sua volta scrittorio, ossia dello stesso or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> ciò che viene condannato (la mente come tabula rasa)» (1997:300-301). In quanto aggregato <strong>di</strong> tracce, cioè in quanto frutto <strong>di</strong> una scrittura interna, la coscienza non puòpropriamente <strong>di</strong>rsi <strong>di</strong>stinta dall’in<strong>di</strong>cazione, almeno non più <strong>di</strong> quanto essa si caratterizzi come realmente da essacostituita: insomma la coscienza che condanna l’in<strong>di</strong>cazione è a sua volta <strong>di</strong> natura in<strong>di</strong>cativa.13 Questo argomento riceverà gli opportuni approfon<strong>di</strong>menti in Logica formale e trascendentale (1929) e inEsperienza e giu<strong>di</strong>zio (1938).10


prospettiva deve essere guardata la logica per non essere un sistema chiuso? Ovviamente nonda quella della logica ideale, bensì da quella della logica normativa, che ammette un sistema,sì, formale, ma comunque aperto (qui si fonda la critica husserliana nei confronti della Logica<strong>di</strong> Kant). Infatti la logica pura è un tutto chiuso al quale sono in<strong>di</strong>fferenti le espressioniin<strong>di</strong>viduali che possono eventualmente portarla alla luce; in questa accezione i significati sonounità ideali e rigide (1901: 357) e la novità rispetto alla tra<strong>di</strong>zione è pressoché irrilevante.Invece secondo il punto <strong>di</strong> vista adottato da <strong>Husserl</strong>, la logica pura non è data, ma è la risorsae il fine della logica normativa, per darci modo <strong>di</strong> credere che l’oggettività della ragione nonha limiti e che la nostra missione non è impossibile. Non <strong>di</strong>mentichiamo che l’essenza dellinguaggio è nel carattere d’atto che dona il senso, l’aspetto essenziale è l’intenzionalità, comesi sottolineerà <strong>nella</strong> quinta Ricerca logica; ad ogni <strong>di</strong>verso modo <strong>di</strong> rappresentare un oggettocorrisponde una <strong>di</strong>versa intenzione: non c’è significato che non sia significato intenzionato(1901: 173-175). Sono questi significati che mirano all’obiettività, che tendono a sostituire isignificati soggettivi e occasionali in oggettivi e ideali. I singoli atti formano in questo caso ilsignificato idealmente unitario, come se (l’als ob delle idee kantiane) fossero costitutivi,anche se la loro funzione è prettamente regolativa. Nella prima accezione invece, non sitrattava tanto <strong>di</strong> «formare» il significato ideale, quanto piuttosto <strong>di</strong> «coglierlo». Questa<strong>di</strong>stinzione, o meglio alternativa, tra cogliere e formare, si ritroverà ne L’origine dellageometria, e sarà alla base della <strong>di</strong>versità della concezione <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> rispetto a quella <strong>di</strong>Kant: secondo quest’ultimo, come si legge <strong>nella</strong> Critica della ragion pura, il primo geometraha sì scoperto delle oggettualità ideali, e il suo gesto è indubbiamente stato notevole, però ciòche egli ha svelato c’era già prima <strong>di</strong> lui, non c’è nessuna produzione degli oggetti geometrici,ma solo ricezione della loro precostituita idealità, e il gesto dello scopritore originario è soloservito affinché questa potesse entrare nel mondo e <strong>di</strong>ventare <strong>di</strong>sponibile per la collettività.Invece per <strong>Husserl</strong>, gli oggetti geometrici e la scienza conseguente non preesistono all’attosoggettivo, essi sorgono, vengono creati da atti assolutamente soggettivi e instaurativi:l’origine dell’idealità è perciò assolutamente storica (su questo, Derrida 1962). Quella che inquesta tarda opera è l’alternativa tra «creare» e «svelare» o «scoprire», si può ritrovare nelleRicerche logiche <strong>nella</strong> <strong>di</strong>stinzione tra «formare» e «cogliere». Se la logica è un ideale in sensonormativo, ogni mia singola espressione significante contribuirà, con i caratteri d’atto che lacostituiscono, alla costituzione della logica pura dei significati: in questo senso la logica è uncompito e la sua completezza sempre all’orizzonte. Se la logica è un ideale in senso specifico,tutto quello che si potrà fare sarà <strong>di</strong> trovare nuovi e molti significati, ma questo sarà in realtàin<strong>di</strong>fferente al sistema che <strong>di</strong> per sé stesso è compiuto e ideale.Riguardo al rapporto sussistente tra logica pura e logica normativa 14 , la domanda cheoccorrerebbe porsi è forse quella relativa a quel «nulla» (ce rien) <strong>di</strong> cui parla Derrida in«Genesi e struttura» e la <strong>fenomenologia</strong> (1967: 213), nulla che impedendo alle parallele <strong>di</strong>ricongiungersi apre lo spazio <strong>di</strong> una questione trascendentale.3. La corrente infinita dei vissutiDel 1913 sono le Idee per una <strong>fenomenologia</strong> pura e per una filosofia fenomenologica, checostituiscono un insieme positivo <strong>di</strong> considerazioni metodologiche e <strong>di</strong> analisi della strutturagenerale della coscienza pura, da considerarsi quali momenti preliminari ed essenziali <strong>di</strong> unaricerca propriamente fenomenologica.La prima sezione <strong>di</strong> questa imponente «introduzione generale alla <strong>fenomenologia</strong>» ripropone,anche se con termini lievemente mutati, quella <strong>di</strong>fferenza che si era rivelata <strong>di</strong> importanza14 A questo riguardo, illuminanti le osservazioni <strong>di</strong> De Monticelli e Di Francesco in Lingua degli angeli e linguadei bruti (Teoria, 1989), che analizzano parallelamente l’ideografia d i Frege, intesa come lingua totalmente priva<strong>di</strong> fattori <strong>di</strong> occasionalità, e il proposito <strong>di</strong> Russell <strong>di</strong> calare <strong>nella</strong> realtà il linguaggio puramente sintattico deiPrincipia Mathematica.11


fondamentale nelle Ricerche logiche, cioè quella tra verità <strong>di</strong> fatto e verità <strong>di</strong> ragione, che quicompare nuovamente <strong>nella</strong> contrapposizione tra scienze <strong>di</strong> dati <strong>di</strong> fatto e scienze <strong>di</strong> essenze.Se le scienze <strong>di</strong> Tatsachen hanno per oggetto fenomeni e soggetti reali situati in un mondospazio-temporale, le scienze del secondo tipo trattano <strong>di</strong> fenomeni irreali e <strong>di</strong> un soggettotrascendentale. Questa è precisamente la ragione per la quale non è più ammissibileconfondere la psicologia e la <strong>fenomenologia</strong>: la <strong>fenomenologia</strong> è infatti «tanto pocopsicologia, quanto la geometria è scienza naturale» (1913: 8). In maniera più generale si può<strong>di</strong>re che la scienza naturale si occupi dei dati <strong>di</strong> fatto, infatti essa sorge - ha inizio, non origine- con l’esperienza e nell’esperienza permane.<strong>Il</strong> mondo reale fa parte della nostra esistenza, senza che si debba fare nessuno sforzo. Noi cipossiamo mettere in relazione con degli altri mon<strong>di</strong>, per esempio con il mondo aritmetico: maquesto particolare tipo <strong>di</strong> mondo, per <strong>di</strong>ventare un mondo «per noi», esige che ci si ponga daun punto <strong>di</strong> vista speciale, che è per l’appunto quello aritmetico, invece il mondo reale nonrichiede alcun mutamento della nostra posizione, e questo avviene perché esso è il mondoverso il quale si <strong>di</strong>rige naturalmente il nostro pensiero. Tale mondo naturale è composto <strong>di</strong>dati <strong>di</strong> fatto, che sono esseri in<strong>di</strong>viduali e, in quanto tali, casuali, cioè contingenti. Però ilsenso <strong>di</strong> questa contingenza tipica della fatticità viene limitato dal proprio riferirsi ad unanecessità: ogni essere contingente ha infatti un’essenza, un quid, che è ciò che si trovanell’essere proprio <strong>di</strong> ogni in<strong>di</strong>viduo. Ebbene, se questo quid viene messo «in idea», si avrà,anziché una intuizione empirica, una intuizione d’essenza (o eidetica), che è una intuizioneoriginalmente offerente in grado <strong>di</strong> afferrare, per così <strong>di</strong>re, l’essenza in carne ed ossa.Probabilmente <strong>Husserl</strong> è stato messo sulla via dell’intuizione eidetica proprio dalla scoperta <strong>di</strong>quei momenti figurali dei quali aveva trattato <strong>nella</strong> Filosofia dell’aritmetica. Che cos’è infattiil proce<strong>di</strong>mento della Wesensschau, con la quale si coglie l’invariante delle infinite varianti,se non la generalizzazione e la formalizzazione del caso già visto in quel suo primo lavoro?Là si trattava <strong>di</strong> risolvere il <strong>problema</strong> aperto dalla apprensione istantanea <strong>di</strong> un insiemeillimitatamente numeroso, e la risposta in<strong>di</strong>viduava nel momento sintetizzatore <strong>di</strong> ognimolteplice, un terzo elemento capace <strong>di</strong> me<strong>di</strong>are tra la semplice intuizione singolare e larappresentazione simbolica del plurale. Anche l’essenza può venire colta descrittivamente invirtù del momento figurale e delle sue proprietà schematiche: infatti in <strong>Husserl</strong> l’essenza nonè <strong>di</strong> per sé stessa un concetto descrittivo, bensì operativo, essa è ciò che permette <strong>di</strong> pensare ildato empirico sub specie universalis, cioè sussunto al concetto. L’essenza (Wesen)husserliana ha quin<strong>di</strong> la stessa funzione dello schema kantiano, con la sola <strong>di</strong>fferenza chepone nell’empirico, anziché nel formale, il punto <strong>di</strong> partenza: infatti anziché chiedersi «comepuò una categoria applicarsi al mondo dell’esperienza?», si domanda «come può il mondoempirico avere un senso?». L’intuizione eidetica, che nelle Ricerche logiche portava il nome<strong>di</strong> intuizione categoriale, è l’astrazione idealizzatrice che permette che, invece del momentonon in<strong>di</strong>pendente, si presenti alla coscienza l’idea <strong>di</strong> esso, l’universale. L’atto <strong>di</strong> intuizione 15eidetica deve infatti essere presupposto affinché possa esserci data una intuizionedell’universale, della specie in quanto tale (1913: 32-33). Ma attenzione, il fatto che leessenze non vengano colte nel mondo e con l’atteggiamento naturale, non autorizza a pensareche esse siano vuote fantasie: in quanto originalmente offerente, l’intuizione d’essenza èanaloga alla percezione sensibile e non alla immaginazione. Infatti il «principio <strong>di</strong> tutti iprincìpi» recita così: «ogni visione originalmente offerente è sorgente legittima <strong>di</strong>15 La Wesensschau è in realtà una quasi (als ob)-intuizione e questo significa che essa non è né identica, nélontanamente paragonabile ad una intuizione vera e propria, ma solo analoga: cioè identica esclusivamenteriguardo alla funzione. Come hanno già spiegato le Ricerche logiche, e come risulterà poi chiaro dal seguitodella trattazione, l’intuizione dell’universale è <strong>di</strong> un tipo molto particolare, che non può mai <strong>di</strong>rsi propriamente«riempita», quanto piuttosto sempre «anelata». Occorre non <strong>di</strong>menticare mai che per quanto riguarda la specienoi conosciamo solo il lato normativo, mai quello puro, che funge invece da regola.12


conoscenza, tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così <strong>di</strong>re in carne ed ossa) èda assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (1913: 50-51). Inquesto principio fondamentale della <strong>fenomenologia</strong> si avverte innanzitutto il netto <strong>di</strong>stacco <strong>di</strong><strong>Husserl</strong> da Brentano, palesemente causato dall’ammissione dell’essenziale equivocitàdell’essere. L’essere si <strong>di</strong>ce in molti mo<strong>di</strong> perché è sempre relativo al modotrascendentalmente soggettivo del suo darsi (ogni Dasein ha il suo Sosein). Solo un ingenuopregiu<strong>di</strong>zio naturalistico può portare a credere che la semplice intuizione sensibile sia l’unicomodo <strong>di</strong> datità e che, correlativamente, gli unici esseri siano quelli reali. Anche il categoriale(cioè l’essere ideale, l’eidos) può <strong>di</strong>rsi dato, anche se in un suo modo proprio. Se quin<strong>di</strong>l’essere è essenzialmente equivoco, cioè relativo al modo del suo darsi, bisogna concludereche è impossibile in<strong>di</strong>care un ente privilegiato: in corrispondenza <strong>di</strong> <strong>di</strong>versi mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> datitàavremo <strong>di</strong>versi tipi <strong>di</strong> evidenza. Ma come è possibile ottenere o avere tale intuizione eidetica?«Io sono consapevole <strong>di</strong> un mondo, che si estende infinitamente nello spazio e che è ed è statosoggetto ad un infinito <strong>di</strong>venire nel tempo. Esserne consapevole significa innanzitutto che iotrovo il mondo imme<strong>di</strong>atamente e visivamente davanti a me, che lo esperisco» (1913: 57).Questa è la tesi fondamentale dell’atteggiamento naturale. Ebbene, con l’epoché - che èpropriamente ciò che rende possibile l’intuizione eidetica - anziché rimanere in questoatteggiamento, lo si muta ra<strong>di</strong>calmente.Già Descartes con il dubbio ra<strong>di</strong>cale aveva a suo modo neutralizzato il mondo ma, <strong>di</strong>ce<strong>Husserl</strong>, bisogna <strong>di</strong>stinguere rigorosamente la posizione cartesiana da quella adottata dalla<strong>fenomenologia</strong>: infatti se Descartes dubita dell’obiettività della conoscenza al fine <strong>di</strong> riuscirein un secondo momento a giustificarla, la <strong>fenomenologia</strong> rinuncia a porre questo <strong>problema</strong>innanzitutto per potersi piazzare in una sfera che lo preceda. Quin<strong>di</strong> l’interesse prioritario <strong>di</strong><strong>Husserl</strong> non va al dubbio <strong>di</strong> per sé stesso, quanto piuttosto al tentativo <strong>di</strong> dubitare. «Che cosarimane se l’intero mondo, compresi noi uomini, viene escluso, neutralizzato?» (1913: 68). <strong>Il</strong>punto è proprio questo: che cosa rimane? Ciò che resta dopo l’epoché, che non può esseremesso tra parentesi, è un «residuo fenomenologico» 16 quale l’io puro, anche chiamatocoscienza trascendentale.L’io puro si caratterizza secondo <strong>Husserl</strong> come una corrente <strong>di</strong> vissuti (Erlebnisstrom), che siestende oltre la sfera delle semplici cogitationes, poiché non può mai consistere <strong>di</strong> pureattualità. Occorre ancora precisare che ogni attuale cogito è caratterizzato da una <strong>di</strong>mensioneintenzionale, esso è cioè coscienza «<strong>di</strong>» qualcosa; questo tuttavia non implica che tutti ivissuti siano intenzionali, basti pensare ai dati della sensazione, che sono vissuti reali ma nonintenzionali 17 . <strong>Husserl</strong> porta quin<strong>di</strong> l’attenzione sulla <strong>di</strong>stinzione, all’interno dell’insieme deivissuti intenzionali, tra atti immanenti e atti trascendenti. Gli Erlebnisse intenzionaliimmanenti sono quelli che intenzionano oggetti che appartengono alla medesima corrente allaquale appartengono gli atti stessi, quelli trascendenti sono invece rivolti ad essenze o vissutiad essi esterni. La caratteristica più rilevante che <strong>di</strong>stingue l’essere fenomenico dall’essereimmanente è una certa inadeguatezza: infatti per quanto si possano fare progressinell’esperienza, essa rimarrà sempre per principio indeterminata, anche se sempre, ma maicompletamente, determinabile. Quin<strong>di</strong> ogni esperienza si caratterizza come orizzonte e, inquanto tale, non può <strong>di</strong>rsi propriamente finita. Se il trascendente non può offrirsi che16 Derrida osserva a questo proposito che la nozione stessa <strong>di</strong> residuo fenomenologico è in<strong>di</strong>ce del fatto che la<strong>fenomenologia</strong> non abbia «ancora superato ra<strong>di</strong>calmente il <strong>di</strong>battito dei filosofi classici, dell’empirismo e delcriticismo» (1953-54: 168). Infatti o la coscienza è – in quanto residuo – assimilabile alle altre regioniontologiche, e allora si resta intrappolati in un empirismo psicologista; oppure la coscienza è pura, quin<strong>di</strong> néconcreta, né temporale: ma così l’io sarebbe esclusivamente formale e <strong>di</strong> conseguenza incapace <strong>di</strong> caratterizzarsicome l’origine del <strong>di</strong>venire delle rappresentazioni.17 Invece, come si vedrà più oltre, il noema si caratterizzerà come un vissuto intenzionale e non reale: hyle enoema sono quelle «materie informi e forme senza materia» che <strong>Husserl</strong> si astiene qui dall’indagare perché nonancora in possesso degli strumenti metodologici necessari.13


parzialmente e inadeguatamente, l’immanente è assoluto e privo <strong>di</strong> qualsiasi adombramento.Ovviamente anche un vissuto non è mai percepito <strong>nella</strong> sua interezza come una unità, infattiesso si caratterizza come un flusso e, in quanto tale, può essere percepito solo in quantopercorso, e percorrendo un tratto necessariamente si perdono quelli retrostanti. Ma questaspecie <strong>di</strong> imperfezione (che non bisogna però mai concepire come tale) non è assolutamenteassimilabile agli adombramenti infiniti della percezione trascendente. Gli Erlebnisse infattisono percepibili grazie alla riflessione, tramite la quale il vissuto <strong>di</strong>venta oggetto <strong>di</strong> sé stesso,garantendo così la propria esistenza.Così la riduzione trascendentale mette tra parentesi ogni posizione <strong>di</strong> trascendenza: per poterscoprire il giusto significato della correlazione della coscienza con il mondo, occorre che ilmondo presupposto venga destituito <strong>di</strong> valore.L’epoché sospende la urtante attualità del presente rendendola inattuale, cioè riducendola amera possibilità; a pensarci bene è paradossale, ma non è contrad<strong>di</strong>ttorio 18 che la conoscenzadell’attuale sia in sé stessa un’esperienza inattuale: così come esiste un’attualità dell’inattuale(come datità dell’idea in senso kantiano o come attualità dell’infinito nel senso <strong>di</strong> Bolzano eCantor), esiste anche una inattualità dell’attuale, che sarebbe una conoscenza intesa come<strong>di</strong>scorso sull’esperienza. Inoltre la Urteilsenthaltung, non solo non toglie nulla a ciò che haneutralizzato, ma vi aggiunge anche un nuovo senso 19 : dopo la riduzione infatti l’ente è postosolo come noema, cioè come puro correlato della noesi, come il «senso» dell’essereconsiderato nel «come» del suo modo <strong>di</strong> datità. L’epoché ha quin<strong>di</strong> trasformato in tematicociò che prima non era che operativo, facendo sì che da una con<strong>di</strong>zione anonima e passiva laneutralizzazione passasse ad una con<strong>di</strong>zione esplicita e costitutiva: la riduzione trascendentaleha eliminato il mondo, riuscendo così a scoprire il senso, la struttura dell’esperienza.Quando tutto viene sospeso rimane l’io puro 20 , che si caratterizza come una trascendenzanell’immanenza, quin<strong>di</strong> <strong>di</strong>verso sia da una semplice forma, sia dalla coscienza empirica.L’unità dell’io puro che rimane identico <strong>nella</strong> e nonostante la molteplicità dei vissuti che locostituiscono come flusso, è simile all’unità <strong>di</strong> una cascata: è vero che la cascata è sempreuna, nonostante le gocce che la compongono siano tantissime; però sarebbe possibile, anchesolo immaginare, la cascata senza l’acqua? No, perché la cascata senza l’acqua non sarebbepiù nulla: ebbene, lo stesso vale per l’io puro: lo si definisce come uno ed identico, ma lamolteplicità caotica degli Erlebnisse è già tutta presente.E’ in<strong>di</strong>spensabile a questo punto fare una precisazione: la sfera degli Erlebnisse ècaratterizzata da una sorta <strong>di</strong> duplicità, per la quale in ogni vissuto bisogna <strong>di</strong>stinguere un latoorientato soggettivamente e un lato orientato oggettivamente: il primo si orienta verso la pura18 Bolzano ne I paradossi dell’infinito del 1851, sostiene che il concetto <strong>di</strong> paradossalità va mantenuto <strong>di</strong>stinto daquello <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>ttorietà: per esempio i paradossi dell’infinito non sono assolutamente contrad<strong>di</strong>ttori. Mentreinfatti è assurdo e contrad<strong>di</strong>ttorio definire un numero finito come uguale alla sua metà, per quanto riguardal’infinito, è paradossale, ma non contrad<strong>di</strong>ttorio, asserire che una totalità possa essere equipotente ad una parte <strong>di</strong>sé stessa. Lo stesso può <strong>di</strong>rsi del modo <strong>di</strong> datità dell’infinito: infatti l’infinito essendo attuale <strong>nella</strong> suapotenzialità, sarà chiaramente caratterizzato da un modo <strong>di</strong> datità <strong>di</strong>verso rispetto a quello del finito.19 Mettere tra parentesi non per eliminare, ma per arricchire: come <strong>di</strong>menticare le gran<strong>di</strong> scoperte rese possibilidalla «messa tra parentesi» dell’assioma delle parallele? La sospensione del V postulato <strong>di</strong> Euclide ha infattiarricchito notevolmente la geometria portando da un lato alla scoperta delle geometrie non-euclidee (così comela neutralizzazione del mondo <strong>nella</strong> <strong>fenomenologia</strong> non toglie nulla in realtà, ma crea i presupposti affinchéqualcosa <strong>di</strong> nuovo possa essere raggiunto) e, dall’altro, a prendere coscienza del carattere empirico dellageometria euclidea (dopo l’epoché ogni oggetto ricondotto al suo noema acquista la giusta rilevanza, quellarelativa alla sua struttura eidetica).20 <strong>Il</strong> reines Ich husserliano ha avuto in un primo periodo (anche definito «formalistico») forti analogie con l’Ichdenke kantiano e, in un secondo periodo («trascendentale»), con il cogito cartesiano. Infatti se all’epoca delleRicerche logiche l’io non viene tematizzato che dall’esterno, come forma o struttura categoriale, quin<strong>di</strong> come ciòche permane identico nel flusso <strong>di</strong> coscienza, in seguito, in Idee I, l’io puro viene già caratterizzato come ciò chepiù tar<strong>di</strong> si chiamerà Ich-pol, cioè come un polo <strong>di</strong> trascendenza immanente da cui sorge ogni Erlebnis e a cuiinfine ritorna.14


soggettività (noesi), il secondo tratta invece ciò che inerisce alla costituzione dell’oggettivitàper la soggettività (noema). Vi è tuttavia una caratteristica comune a tutti i vissuti: il tempofenomenologico (che può legittimamente essere definito come il <strong>problema</strong> più complesso <strong>di</strong>tutte queste Idee). Allora l’io puro è temporale - anche se il tempo <strong>di</strong> cui qui è questione non èassimilabile al tempo oggettivo e spazializzato - o meglio, l’io puro si rivela costituito <strong>nella</strong>sua essenza da un io temporale. Le analisi riguardo agli enigmi <strong>di</strong> questa coscienza temporalenon possono tuttavia essere contenute in Idee (lo stu<strong>di</strong>o della coscienza temporale esigerebbeil mutamento delle analisi, da statiche in genetiche, cambiamento che l’autore non reputaopportuno nell’ambito della trattazione in corso), infatti <strong>Husserl</strong> stesso rimanda in nota ad unciclo <strong>di</strong> Lezioni sulla coscienza interna del tempo tenute a Gottinga nel 1905 21 e poipubblicate da Heidegger nel 1928.In quelle Vorlesungen, ciò che la <strong>fenomenologia</strong> si impone è <strong>di</strong> descrivere il tempo così comeesso si presenta alla coscienza <strong>nella</strong> sua Selbstgegebenheit, evitando quin<strong>di</strong>contemporaneamente <strong>di</strong> interpretarlo a partire dal senso atemporale delle categorie utilizzateper descriverlo e, in secondo luogo, <strong>di</strong> caratterizzarlo me<strong>di</strong>ante categorie che a loro voltaimplichino un qualche riferimento al tempo. <strong>Husserl</strong> tenta <strong>di</strong> caratterizzare il tempo inrapporto alla percezione: la percezione vera e propria si ha solo del presente, che presenta(gegenwärtigt) l’oggetto in modo proprio, <strong>nella</strong> sua fresca datità; <strong>di</strong>verso è invece il <strong>di</strong>scorsoper il passato: la rimemorazione ri-presenta (vergegenwärtigt) l’oggetto, che però è presentesolo come mo<strong>di</strong>ficazione della sua datità originaria; anche il futuro, come il passato, non puòdarci l’oggetto in eigener Person, infatti esso si caratterizza come l’anticipazione(Vorerinnerung) della percezione. Secondo <strong>Husserl</strong> - e qui si avverte il più netto <strong>di</strong>stacco neiconfronti delle teorie brentaniane - l’adesso presente (jetzt) non può tuttavia venire spiegatocome semplice identità a sé, poiché esso si inserisce all’interno <strong>di</strong> una complessa strutturatemporale: il presente ha senso solo all’interno <strong>di</strong> una struttura <strong>di</strong> riman<strong>di</strong>. Per questa ragione,la coscienza temporale dovrebbe essere descritta non tanto come un flusso, bensì come unacatena (Kette: <strong>Husserl</strong> definisce in nota la coscienza come una «catena fluente»), che forse èuna immagine più adatta al fine <strong>di</strong> porre in evidenza la razionalità sussistente all’internodell’io temporale. Infatti all’impressione (jetzt) si associa continuamente il ricordo primario oritenzione (Erinnerung als Retention), che salva l’impressione alterandola <strong>nella</strong> forma dellaquasi-presenza. Oltre al ricordo primario vi è anche il ricordo secondario 22(Wiedererinnerung) o rimemorazione, che si caratterizza come una vera e propria riproduzione<strong>di</strong> oggetti temporali. Nelle Vorlesungen del 1905 <strong>Husserl</strong> si sofferma quasiprevalentemente sul rapporto sussistente tra ritenzione e rimemorazione, e l’immagine cheegli propone per spiegare la struttura temporale è una cometa, il cui nucleo è costituitodall’ora sempre attuale e la cui coda è formata dagli ora ormai passati (1928: 66). Poi, neiBernauer Zeitmanuskripte del 1917, la seconda grande esposizione <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> riguardo altema della temporalità, il nesso <strong>di</strong> impressione e protenzione si apre al futuro offerto dallaprotenzione: senza il futuro il nesso temporale si limiterebbe infatti a defluire. Se laprotenzione corrisponde alla ritenzione, l’attesa corrisponde alla rimemorazione: ritenzione eprotenzione sono infatti due quasi-percezioni e il loro nesso con l’impressione presente ènecessario, invece rimemorazione e attesa sono libere. Allora risulta chiaro come il presente21 Anche se già <strong>nella</strong> terza Ricerca logica («Teoria delle parti e del tutto») si possono trovare le ra<strong>di</strong>ci della<strong>problema</strong>tica sul tempo, proprio nelle osservazioni relative al carattere non-in<strong>di</strong>pendente dei momenti del tempo.22 Non si deve pensare che il ricordo primario sia una riproduzione e che il ricordo secondario sia semplicementela riproduzione <strong>di</strong> una riproduzione, infatti se ciò che io ho ritenzionalmente <strong>nella</strong> coscienza è assolutamentecerto ed evidente, <strong>nella</strong> riproduzione implicata dal ricordo secondario sono possibili errori, esattamente per lostesso motivo per il quale il ricordo secondario è libero e quello primario no: infatti l’appena-stato dellaritenzione è necessario (l’impressione non può non venire registrata), invece il già-stato della rimemorazione edella ripresentazione, avendo sempre una vali<strong>di</strong>tà relativa, rientra <strong>nella</strong> sfera della possibilità, dell’errore e quin<strong>di</strong>della libertà.15


producendo così un interesse. «Potremmo anche <strong>di</strong>re che ogni attività conoscitiva è precedutaogni volta da un mondo, come suolo universale» (1938: 28), vi è quin<strong>di</strong> un livello <strong>di</strong> doxapassiva che precede 29 ed è presupposto da qualsiasi attività conoscitiva.<strong>Il</strong> mondo si caratterizza quin<strong>di</strong> come una sorta <strong>di</strong> «sfondo» sul quale ha poi luogo la nostraconoscenza degli oggetti: esso è infatti costantemente già dato in una certezza passiva. Peròoccorre a questo proposito fare una precisazione, al fine <strong>di</strong> evitare future confusioni: nelmomento in cui si pone il <strong>problema</strong> della conoscenza <strong>di</strong> un oggetto, sono due gli orizzonti chesi rivelano determinanti: quello interno (poiché infinite sono le determinazioni che <strong>di</strong> taleoggetto possono essere date) e quello esterno (poiché infiniti sono gli oggetti esterni che lodeterminano e lo caratterizzano, infinito è il mondo sul quale l’oggetto in questione si staglia).La nostra esperienza è infinita da parte a parte. Forse si potrebbe già tentare una prima<strong>di</strong>stinzione, per rendere più chiaro il <strong>di</strong>scorso: l’oggetto potrebbe essere infinito e il mondoindefinito: infatti il modo in cui è infinito l’oggetto consiste nell’infinità delle determinazioniche <strong>di</strong> esso possono essere date, a questo proposito sembrerebbe quin<strong>di</strong> legittimo parlare <strong>di</strong>«regresso all’infinito», in quanto è necessario trovare sempre nuovi membri o con<strong>di</strong>zioniall’insieme dato; nel secondo caso sembrerebbe invece essere in questione il «progressoindefinito», poiché non vi è alcuna esperienza del mondo che possa <strong>di</strong>rsi propriamente data eche possa fare da limite.<strong>Il</strong> mondo però non è solo questo e, come si è già avuto modo <strong>di</strong> rilevare, l’ambiguità oequivocità dei termini (soprattutto se si tratta <strong>di</strong> idee) sono più congeniali a <strong>Husserl</strong> dellabanale univocità. Infatti, oltre ad essere lo sfondo <strong>di</strong> ogni nostra esperienza o la possibilitàinfinita <strong>di</strong> tutte le evidenze, il mondo è anche quel tutto nel quale «esiste» ogni reale, quelsostrato antepre<strong>di</strong>cativo <strong>di</strong> cui gli oggetti reali non sono che determinazioni, peraltro nonin<strong>di</strong>spensabili all’essenza del tutto dal quale emergono (la formula scolastica a cui è spessostata ridotta la Gestalt, «l’intero è più della somma delle parti», viene utilizzata da <strong>Husserl</strong> perspiegare il mondo sotto questo particolare punto <strong>di</strong> vista, 1938: 130). La duplicità dei pianidel <strong>di</strong>scorso già riscontrata nelle Ricerche logiche è tornata in tutta la sua potenza. Da un latoil mondo è l’orizzonte <strong>di</strong> tutti i singoli reali esperibili, dall’altro è l’insieme <strong>di</strong> tutti i realiesperibili: infatti se secondo la prima accezione l’oggetto si può considerare come un prodottodella nostra attività conoscitiva, che cerca <strong>di</strong> determinare con sempre maggiore precisione losfondo sul quale tale oggetto si staglia, poiché ogni nuova determinazione contribuisce adarricchire il senso <strong>di</strong> questo mondo; secondo l’altra invece tale oggetto non viene creato odeterminato da noi <strong>nella</strong> misura in cui lo conosciamo, perché esso non è altro che unaspecificazione <strong>di</strong> quel tutto passivamente già dato che prende il nome <strong>di</strong> mondo.Quin<strong>di</strong> parlando <strong>di</strong> antepre<strong>di</strong>cativo, occorre chiarire che cosa si intende per ante-: se siintende «precedenza reale», perciò fondativa, allora si rimanderà a quel piano d’esperienzaautonomo che per la sua stessa essenza ignora la sua destinazione pre<strong>di</strong>cativa; se l’ante- fainvece riferimento ad una anteriorità funzionale, allora si ritroverà il mondo come orizzonteindeterminato, in cui l’antepre<strong>di</strong>cativo non è autonomo poiché non trova propriamenterealizzazione se non grazie al pre<strong>di</strong>cativo che, esplicitandolo e dandogli un senso, a suo modolo crea. Ovviamente la logica risulterà <strong>di</strong>versamente caratterizzata a seconda che abbia ilprimo o il secondo tipo <strong>di</strong> antepre<strong>di</strong>cativo come fondamento.Poniamo per un attimo che il mondo sia la totalità in cui esiste ogni reale: allora se i terminidella logica elementare sono «S è P», basterà riempire questi vuoti termini <strong>di</strong> contenuti reali;la logica non sarebbe quin<strong>di</strong> altro che una idealizzazione del mondo, «un rivestimento <strong>di</strong> ideesopra il mondo dell’intuizione e dell’esperienza imme<strong>di</strong>ate» (1938: 41). La logica, e <strong>di</strong>conseguenza la scienza, porta alla luce un mondo che c’è già e che non ha assolutamente29Se in Kant l’isolamento dell’Estetica trascendentale dall’Analitica vuole essere solo <strong>di</strong> caratteremetodologico, in <strong>Husserl</strong> si riscontra una effettiva priorità dell’estetica sulla logica trascendentale. <strong>Husserl</strong><strong>di</strong>stingue - almeno nei propositi iniziali - il «fare esperienza» del mondo dal «conoscere» il mondo.19


isogno <strong>di</strong> lei per essere tale. Ecco perché è importante ridurre, sottoporre al proce<strong>di</strong>mentoimplacabile dell’epoché tali idealizzazioni che spengono l’autentica luce della Lebenswelt, alfine <strong>di</strong> riattualizzare il senso originario del mondo.Secondo questa prospettiva l’idea del mondo non si caratterizza più tanto come una mètairraggiungibile, quanto piuttosto come un tutto dato, che è poi la base <strong>di</strong> tutto il resto:insomma è un punto <strong>di</strong> partenza. Ma così non si presuppone forse che il mondo abbia già un«senso», anche se originario, vero e proprio? Però se fosse veramente originario, il sensosarebbe ancora senso? Se il senso è per definizione frutto <strong>di</strong> una costruzione extra-essenzialeal mondo, parlare <strong>di</strong> senso originario non è forse una contrad<strong>di</strong>zione nei termini? Questiproblemi non sono nuovi: li si erano già incontrati in Ideen (terza sez., cap. IV) nel rapportosussistente tra Sinn e Bedeutung.Tuttavia occorre non <strong>di</strong>menticare che il mondo non è solo questo «tutto» puro e originario, maè anche un orizzonte, un’idea in senso kantiano, della quale non viene però fatto un uso<strong>di</strong>alettico se la si intende come un insieme indeterminato <strong>di</strong> tutti i nostri giu<strong>di</strong>zi possibili, <strong>di</strong>tutti i nostri mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> conoscere il mondo. Come conciliare questa sorta <strong>di</strong> potenzialità, <strong>di</strong>indeterminatezza del mondo, con l’attualità e la pienezza prima riscontrate? Non bisognaassolutamente conciliare, bensì <strong>di</strong>stinguere: l’antepre<strong>di</strong>cativo ha infatti un duplice aspetto chenon deve essere essere ridotto, ma va invece messo in luce in tutta la sua ambiguità. Infatti seil mondo fosse una possibilità indefinita, un’idea in senso kantiano, non vi sarebbepropriamente nessun dato da cui partire, ma soltanto un fine a cui tendere: in questo casol’essenza dell’antepre<strong>di</strong>cativo non consisterebbe in altro che nel suo essere in vista delpre<strong>di</strong>cativo che solo lo potrebbe realizzare. Da questa prospettiva quin<strong>di</strong> la logica non può piùessere considerata come un semplice «rivestimento <strong>di</strong> idee», poiché il mondo non può <strong>di</strong>rsieffettivamente tale prima <strong>di</strong> venire in-formato concettualmente: il mondo come possibilità<strong>di</strong>venta reale solo grazie alle attualizzazioni pre<strong>di</strong>cative. Infatti se il mondo «è» solo <strong>nella</strong>misura in cui ha un senso, non può <strong>di</strong>rsi propriamente che esso sia fino a che non ne haeffettivamente uno. Rispetto al caso precedentemente trattato, la <strong>di</strong>rezione della <strong>di</strong>pendenzarisulta chiaramente invertita: se prima il movimento andava dal pre<strong>di</strong>cativoall’antepre<strong>di</strong>cativo che del primo era il legittimo fondamento, adesso si vadall’antepre<strong>di</strong>cativo indeterminatamente possibile al pre<strong>di</strong>cativo reale che del primo è lalegittima realizzazione (questa ambiguità era già stata riscontrata in Ideen).Un interrogativo può sorgere spontaneo: che cosa interessa davvero a <strong>Husserl</strong> nello stu<strong>di</strong>odell’antepre<strong>di</strong>cativo? Che cosa vuole riuscire a mettere in luce? Ciò a cui <strong>Husserl</strong> vuolearrivare è <strong>di</strong> riuscire ad attribuire all’antepre<strong>di</strong>cativo tutte quelle caratteristiche che siritroveranno poi idealizzate, concettualizzate e impoverite nel pre<strong>di</strong>cativo; l’antepre<strong>di</strong>cativonon potrebbe infatti fungere da sostrato inferiore, primo e fondativo rispetto a tutti gli altri, senon contenesse già tutte le determinazioni. Questa è la ragione per la quale egli introduce la<strong>di</strong>stinzione tra esperienze schiette e esperienze fondate, stabilendo l’assoluta originarietà delleprime, nelle quali ci si volge <strong>di</strong>rettamente al percepito, e <strong>di</strong> conseguenza la derivazione delleseconde dalle prime, non essendo la riflessione che un <strong>di</strong>rigersi in<strong>di</strong>rettamente all’oggetto permezzo <strong>di</strong> una variazione della <strong>di</strong>rezione imme<strong>di</strong>ata. Insomma, se l’esperienza schietta è voltaalla esperienza del senso, l’esperienza fondata si impegna nel produrre il sensodell’esperienza. Ma si può davvero avere una esperienza del senso che non sia già il senso <strong>di</strong>quell’esperienza? Proviamoci. Già osservando un sostrato, senza in<strong>di</strong>viduarlopre<strong>di</strong>cativamente come un identico questo o quest’altro (cioè escludendo ogni sorta <strong>di</strong>idealizzazione), io compio un’operazione, che è un’azione vera e propria e non una semplicericezione, è una credenza d’essere, una oggettivazione antepre<strong>di</strong>cativa: viene infatti stabilitociò che è percepito qui, ora, da me. La percezione purificata della logica ha il vantaggio <strong>di</strong>essere estremamente semplice e <strong>di</strong> percepire gli oggetti dati come veramente esistenti: èquesto il fondamento che si cercava sin dall’inizio. Ve<strong>di</strong>amo se una esperienza <strong>di</strong> questo tipo20


è davvero possibile: io sono qui, ora e vedo questo; ciò mi basta per avere un oggettoin<strong>di</strong>viduale, anche se non in<strong>di</strong>viduato tramite specifiche determinazioni, e per percepirlo inquanto tale. Nella sfera antepre<strong>di</strong>cativa quin<strong>di</strong> in<strong>di</strong>viduare un oggetto del mondo significa inqualche modo in<strong>di</strong>carlo, non per altri, perché gli altri sono stati messi tra parentesi, ma soloper me stesso, infatti percepire un oggetto è come in<strong>di</strong>carlo perché la percezionein<strong>di</strong>vidualizza e l’oggetto esiste per me solo se lo in<strong>di</strong>co. Come ha fatto <strong>Husserl</strong> ad arrivare aquesto risultato? Si è servito <strong>di</strong> quelle espressioni che nelle Ricerche logiche venivanodefinite «occasionali», in quanto aventi un ineliminabile rimando al contesto. Nella primaRicerca logica l’esempio portato da <strong>Husserl</strong> era la parola «io»: tale termine, precisaval’autore, contiene un significato generale, che consiste <strong>nella</strong> sua stessa funzione <strong>di</strong> rimando, epoi un significato più proprio, che in<strong>di</strong>ca a chi si riferisce effettivamente questa parola; inoltresi insisteva molto sul fatto che se il significato nel senso più proprio non venivaintuitivamente riempito, non si poteva parlare <strong>di</strong> una comprensione effettiva. Ma - e questo èil trait d’union tra le Ricerche logiche e Esperienza e giu<strong>di</strong>zio - ciò che si caratterizza comecontenuto o riempimento, non necessita costitutivamente <strong>di</strong> una forma per essere veramentetale? Torniamo all’esempio precedentemente portato a proposito della logica originaria: unafrase del tipo «io sono qui, ora e vedo questo», dove io, qui e ora sono dati derivanti dallapercezione sensibile, non è volta, <strong>nella</strong> sua stessa essenza, ad una idealizzazione che riesca astrapparla da quella situazione momentanea, garantendole il possesso stabile <strong>di</strong> unaconoscenza con<strong>di</strong>visibile e comunicabile? Se così fosse la <strong>di</strong>stinzione netta tra pre<strong>di</strong>cativo eantepre<strong>di</strong>cativo si rivelerebbe illusoria e il mondo non potrebbe mai <strong>di</strong>rsi propriamente talesenza <strong>di</strong> noi, che con i nostri giu<strong>di</strong>zi gli <strong>di</strong>amo un senso: la logica sarebbe già sempre unalogica del mondo e il mondo non sarebbe comprensibile se non in quanto potenzialmenteinformato dalla logica (non si trovava forse già tutto questo in nuce nell’idea - intesa comecompito e non come dato - <strong>di</strong> una logica pura delle Ricerche logiche?). <strong>Il</strong> <strong>problema</strong> consisteforse nel fatto che l’antepre<strong>di</strong>cativo è già talmente teleologicamente rivolto al pre<strong>di</strong>cativo cheil suo senso non è altro che mera protensione al futuro riempimento <strong>di</strong> senso oggettivo, chesolo la sfera pre<strong>di</strong>cativa gli può fornire. Allora <strong>Husserl</strong> non solo parte dal pre<strong>di</strong>cativo per poirivolgersi all’antepre<strong>di</strong>cativo, ma anche quest’ultimo non ha propriamente senso se non inquanto illuminato dal primo: le determinazioni dell’antepre<strong>di</strong>cativo <strong>di</strong>pendono dal pre<strong>di</strong>cativoal quale esse sono destinate. Ma allora come può l’antepre<strong>di</strong>cativo essere definito unfondamento, e in quanto tale autonomo, che può essere spiegato <strong>di</strong> per sé stesso? In qualemisura ha senso parlare <strong>di</strong> una logica originaria, se poi questa non viene realizzata che <strong>nella</strong>logica pre<strong>di</strong>cativa? Se l’antepre<strong>di</strong>cativo rimanda a ciò che esso è supposto fondare, alloraforse più che <strong>di</strong> fondamento primo si dovrebbe parlare <strong>di</strong> reciproca determinazione <strong>di</strong> unpiano sull’altro: l’intreccio degli elementi prevale sulla netta <strong>di</strong>stinzione 30 .Queste conclusioni si basano sul fatto che l’aspetto infinito e quello indefinito dell’idea delmondo devono essere strettamente connessi affinché il mondo abbia un senso: noi infattisappiamo che il sostrato del mondo sul quale poi si erge la sfera della pre<strong>di</strong>catività èindeterminato <strong>nella</strong> sua totalità 31 , poiché ciò che si ha sono solo singoli elementi, che si cerca<strong>di</strong> continuo <strong>di</strong> identificare meglio con nuove percezioni, però nonostante questo dobbiamo30 Anche se <strong>Husserl</strong> ha riba<strong>di</strong>to più volte che la sfera antepre<strong>di</strong>cativa è autonoma rispetto a quella pre<strong>di</strong>cativa,non si riesce a vedere come questo sia davvero possibile: si potrebbe pensare che nonostante il primo sia infunzione del secondo, esso si riveli comunque capace <strong>di</strong> mantenere la sua autonomia e la sua originaria datità;tuttavia questa argomentazione non potrebbe comunque spiegare come sia effettivamente possibile esperirel’antepre<strong>di</strong>cativo in quanto tale, poiché ciò che risulterebbe chiaro sarebbe soltanto che è in quanto inglobato nellogico che il pre-logico viene esperito. L’autonomia in questione si caratterizzerebbe allora come il frutto <strong>di</strong> una<strong>di</strong>pendenza originaria.31 Infatti per noi non c’è mai un mondo assoluto, inteso come Welt che esiste come un tutto <strong>di</strong> per sé stesso, mac’è solo sempre un mondo-ambiente, relativo ad uno spazio, ad un tempo, ad un soggetto, sussistente solo comeUmwelt. A questo proposito, fondamentali le osservazioni svolte da Heidegger in Sein und Zeit.21


agire come se il tutto implicato dall’idea fosse davvero possibile e ad esso si potesse, dopoinfiniti sforzi, arrivare. Purché questo come se non conduca alla «ragione pigra» o alla«ragione rovesciata», la sua funzione non potrà essere che positiva, stimolando la ricerca eregolandone il percorso.<strong>Il</strong> mondo come totalità infinita non potrà mai essere frutto <strong>di</strong> alcuna esperienza, a meno cheper «esperienza del mondo» non si intenda quell’esperienza dei singoli corpi che, essendocostantemente insufficiente, rimanda sempre ad altro da sé: il finito è in<strong>di</strong>ce verso l’infinito,caratterizzandosi come una sua costante, ma sempre insufficiente, determinazione. L’idea delmondo non può venire «costruita» a partire da sostrati in<strong>di</strong>viduali, ma soltantoindeterminatamente prospettata da questi, e non è neanche l’oggetto <strong>di</strong> una evidenza semplice,perché il mondo non è mai «dato», o meglio non è mai dato nello stesso modo in cui sonodate le cose finite (non <strong>di</strong>mentichiamo che tra finito e infinito, pur sussistendo forti analogie,vi è una totale incommensurabilità: già Kant si riferiva implicitamente a questaincommensurabilità dei piani quando sosteneva che l’illusione trascendentale della ragioneconsistesse nell’assegnare all’infinito le proprietà appartenenti al finito): l’unità <strong>di</strong> questa ideanon è né unità in<strong>di</strong>viduale né totalità delle parti componenti. Tale idea quin<strong>di</strong> non si può <strong>di</strong>rené ricevuta passivamente dalla sfera dell’antepre<strong>di</strong>cativo (o doxa originaria, che più sopra siera detta fondativa rispetto alla certezza dell’episteme), né tantomeno costruita da un’attivitàlogica. Sull’origine <strong>di</strong> tale idea e sulla sua unità <strong>Husserl</strong> non <strong>di</strong>ce nulla (perché non si puòpropriamente <strong>di</strong>re nulla, bensì solo sempre cercare <strong>di</strong> <strong>di</strong>re qualcosa), ma riba<strong>di</strong>sce soltanto chein quanto idea il mondo è un orizzonte aperto per nuove proprietà determinabili, per questoesso viene definito infinito, perché ammette sempre un plus ultra oltre al già dato. E’ chiaroche <strong>di</strong> conseguenza anche il rapporto tra pre<strong>di</strong>cativo e antepre<strong>di</strong>cativo va reimpostato: nonergendosi più su <strong>di</strong> un terreno fisso e stabile, bensì su <strong>di</strong> una possibilità aperta, il mondo dellalogica si caratterizza come l’idea (lo si era già visto nelle Ricerche logiche che la logica puranon era altro che un’idea, in<strong>di</strong>spensabile per non limitare il procedere della ragione) <strong>di</strong> unaidea (il mondo, sempre e mai completamente definito dalle nostre singole esperienze). Alloraanche la conoscenza, intesa come adaequatio dei concetti con il mondo, non è altro cheun’idea, e tale sarà anche la verità, il fine ultimo <strong>di</strong> ogni conoscere, poiché essa presuppone e<strong>di</strong>nclude una esperienza inferiore che non è mai propriamente data. Coerentemente infatti<strong>Husserl</strong> <strong>di</strong>ce che l’evidenza della datità della sfera pre<strong>di</strong>cativa non può fare altro che rifletterel’evidenza dei sostrati che stanno a fondamento, infatti se questi ultimi «non possono mai perragione d’essenza pervenire ad una datità adeguata, come accade per tutte le oggettività realiove per essenza un’anticipazione appartiene al modo della loro datità, sì che la piena datitàadeguata non è che un’idea all’infinito, allora questa stessa cosa vale anche per gli stati <strong>di</strong>cose che si e<strong>di</strong>ficano su questi oggetti; anche gli stati <strong>di</strong> cose sono quin<strong>di</strong> dati essenzialmenteanticipatoriamente» (1938: 264). Tenendo conto che <strong>Husserl</strong> definisce «stati <strong>di</strong> cose»l’insieme dei giu<strong>di</strong>zi che si riferiscono alle cose, non si può fare a meno <strong>di</strong> rilevare quantoindeterminatamente infinita sia, almeno per noi, la logica del mondo (anche perché per noinon vi sarà mai altro che una logica del mondo, essendo l’idea della logica sempre e mai deltutto formata dalla nostra esperienza del mondo). Anche la verità partecipa a questo nuovomodo <strong>di</strong> essere, non scomparendo ma mo<strong>di</strong>ficandosi: essa <strong>di</strong>venta infatti un’idea, maicompletamente adeguata alla cosa o al giu<strong>di</strong>zio <strong>di</strong> cui è verità, poiché così come la percezionedell’oggetto continuamente cambia e si accresce, così anche il giu<strong>di</strong>zio vero non contiene maila cosa stessa, ma solo il suo senso, <strong>nella</strong> pienezza indefinita che gli è propria. Insomma,come le cose e il loro mondo sono un’idea, non tanto infinita quanto piuttosto indefinita perquanto ci riguarda, così è un’idea anche la totalità del senso che su <strong>di</strong> essi si fonda.Se il proposito iniziale era stato quello <strong>di</strong> rispondere alla domanda «perché il mondo ha unsenso?», ora ci si rende conto che la risposta non può essere una sola e soprattutto non puòessere esaustiva. Per Kant la questione si risolveva grazie allo schema che, me<strong>di</strong>ando tra22


categorie e mondo, faceva sì che la forma non fosse vuota e la materia avesse già un senso,ma questo era possibile proprio perché i due ambiti erano <strong>di</strong>stinti (da un punto <strong>di</strong> vistametodologico) nettamente, anche se complementari. In <strong>Husserl</strong> il <strong>problema</strong> è però piùcomplicato, perché pre<strong>di</strong>cativo e antepre<strong>di</strong>cativo non possono <strong>di</strong>rsi propriamente due campiseparati e autonomi - né effettivamente, né metodologicamente - essendo piuttosto l’uno ilproseguimento dell’altro: infatti l’intuizione del mondo è già teleologicamente rivolta allalogica del mondo, e quest’ultima a sua volta non trova fondamento se non sulla prima. Nonessendoci scissione, ciò che qui si cerca non è tanto un termine me<strong>di</strong>o, quanto piuttostoquell’orizzonte in cui ha luogo la genesi dall’uno all’altro livello, cioè l’idea <strong>di</strong> infinito che,<strong>nella</strong> sua ambiguità, appartiene ad entrambi. Tale idea <strong>di</strong> infinito che è poi sempre indefinito,esplicita molto chiaramente l’essenza <strong>di</strong> quel continuum sussistente tra logica e mondo, per ilquale il mondo si può considerare archeologicamente logico solo perché è tale ancheteleologicamente: il senso finale dell’attività deve già essere tutto contenuto <strong>nella</strong> passivitàpiù originaria. La genesi dell’idea e l’idea della genesi si stagliano su un orizzonte infinito. <strong>Il</strong>compito che adesso si impone a <strong>Husserl</strong>, e che coincide con l’ultima fase della sua filosofia,consiste nell’indagare sull’origine <strong>di</strong> questa stessa genesi, esplicitandone tutte le implicazioni.5. La storia e l’idea della filosofiaLa crisi delle scienze europee e la <strong>fenomenologia</strong> trascendentale è il notevole risultatodell’ultimo sforzo <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> e racchiude un insieme <strong>di</strong> lavori risalenti ad un periodo checomincia nel 1930 per concludersi nel 1938, con la morte dell’autore. Può suscitare a tuttaprima qualche perplessità il nesso istituito tra la storia e la <strong>fenomenologia</strong>, tanto da farepensare ad una sorta <strong>di</strong> svolta o conversione, ma presto risulterà chiaro come in fondo non sitratti che <strong>di</strong> un serio e concreto approfon<strong>di</strong>mento delle <strong>problema</strong>tiche fenomenologiche stesse.Che cosa fa sì che <strong>Husserl</strong> rivolga alla storia la propria attenzione? E’ la coscienza <strong>di</strong> una crisirelativa al senso autentico della storia. Tale consapevolezza invita quin<strong>di</strong> a riaffermare quelsenso, quell’idea <strong>di</strong> cui si è <strong>di</strong>menticata l’importanza.C’è un’idea filosofica infinita immanente alla storia dell’Europa: è un’idea teleologica 32 .L’evento è sede dell’avvento del senso: l’ideale «accade» nel reale dandogli un senso, ed è lastoria.Come appare già da questi brevi cenni, <strong>nella</strong> trattazione della storia <strong>Husserl</strong> vuole evitare, conun solo gesto, tanto una storia empirica, quanto un razionalismo astorico, non accontentandosiperò nemmeno <strong>di</strong> una conciliazione semplicistica tra genesi e struttura, cioè quella checonsiste nel considerare la struttura come il fine prestabilito della genesi: egli riuscirà nel suointento proprio grazie all’idea <strong>di</strong> infinito, che implica che <strong>nella</strong> genesi vi sia sì unapredelineazione <strong>di</strong> senso, ma non una totale coincidenza tra quanto viene predelineato e larealtà. Tuttavia è opportuno non anticipare le conclusioni e seguire <strong>Husserl</strong> <strong>nella</strong> trattazione.La prima e fondamentale nascita, apertura dell’uomo all’idea <strong>di</strong> ragione e <strong>di</strong> filosofia, èavvenuta - spiega l’autore - <strong>nella</strong> Grecia del VI secolo (a.C.). L’infinito si è imposto come32 Questa è l’ultima e la più comp iuta forma che l’idea d’infinito in senso kantiano assume nell’orizzontefenomenologico. Già nelle Ricerche logiche, in Idee e in Esperienza e giu<strong>di</strong>zio si è avuto modo <strong>di</strong> incontrarequesta idea: come idea <strong>di</strong> un <strong>di</strong>venire infinito della logica, come idea <strong>di</strong> un tempo infinito delle evidenze vissutee come idea <strong>di</strong> un mondo come orizzonte delle possibilità infinite dell’esperienza; lo statuto <strong>di</strong> tali idee nonveniva però chiarito a sufficienza e spesso le ambiguità del <strong>di</strong>scorso parevano insuperabili. <strong>Il</strong> <strong>problema</strong> dellateleologia quale viene presentato <strong>nella</strong> Krisis è solidale con l’idea in tutte le sue forme precedentementeincontrate, e forse risulterà tutto sommato anche più chiara. L’essenza dell’Europa, che particolarizzandola (cioè<strong>di</strong>stinguendola da tutti gli altri paesi) la rende universale, è l’idea della filosofia come compito infinito. Ma ciòche davvero sorprende in quest’ultimo lavoro, è che i tratti principali dell’idea della filosofia non possanopropriamente manifestarsi che <strong>nella</strong> storia: se nelle opere precedenti l’empirico veniva chiamato in causa soloimplicitamente per la manifestazione o la realizzazione del trascendentale, qui viene chiaramente affermato che èproprio perché la ragione, per la sua realizzazione, si risolve in un compito infinito che essa implica una storia,una progressività.23


guida e al tempo stesso come limite del finito, la ragione si è rivelata come una possibilità perl’uomo che ha il compito <strong>di</strong> realizzarla <strong>nella</strong> storia. <strong>Il</strong> testo principale della Crisi si occupaperò <strong>di</strong> una nuova nascita dell’uomo europeo: il Rinascimento 33 .«Innanzitutto occorre ora comprendere quell’essenziale mutamento dell’idea e dei compitidella filosofia, che avvenne all’inizio dell’epoca moderna al momento della riadozionedell’idea antica» (1935-36: 51). <strong>Il</strong> rinnovamento dell’idea antica orienta e stimola lo sviluppo<strong>di</strong> tutte le singole scienze, che presto cominciano a trasformarsi. Le due gran<strong>di</strong> conquiste dellospirito moderno - che portando a compimento il desiderio innato <strong>di</strong> totalizzazione, hanno altempo stesso alterato l’idea antica <strong>di</strong> filosofia - sono state la generalizzazione della geometriaeuclidea in una mathesis universalis <strong>di</strong> tipo formale e la matematizzazione della natura. Laprima innovazione si può considerare come un proseguimento della scienza antica, anche sepoi si risolve in un superamento decisivo, da un lato con l’elaborazione <strong>di</strong> una assiomatica ingrado <strong>di</strong> circoscrivere il campo chiuso della deduzione, dall’altro con la ra<strong>di</strong>calizzazionedell’astrazione dal suo oggetto: grazie all’algebra, alla geometria analitica e ad un’analisiuniversale ed esclusivamente formale, si giunge infine ad una dottrina delle molteplicità 34 ,che già Leibniz aveva intravisto e assegnato come compito per il futuro. Così si è raggiunto ilcampo dell’assoluta esattezza, quello delle «figure limite» della geometria pura, nei confrontidelle quali qualsiasi figura immaginata o percepita non è che una mera approssimazione;questo regno dell’esattezza è chiuso, razionalmente fondato e <strong>di</strong> grande utilità per la scienzauniversale (1935-36: 52, 72-75).La seconda grande innovazione dell’epoca moderna porta il nome <strong>di</strong> Galileo, al quale <strong>Husserl</strong>de<strong>di</strong>ca un ricco paragrafo (il nono, recante il titolo «La matematizzazione galileiana dellanatura», che si estende per circa trenta pagine <strong>di</strong> analisi), tanto complicato quantointeressante. Galileo viene presentato come colui che ha progettato una scienza capace <strong>di</strong>considerare la natura come una molteplicità matematica, allo stesso titolo delle figure ideali(1935-36: 53). Nonostante la sua genialità, <strong>di</strong>ce <strong>Husserl</strong>, non si può evitare <strong>di</strong> porre inevidenza ciò che la sua scoperta ha d’un sol colpo ricoperto (il termine Lebenswelt racchiudequella totalità <strong>di</strong> elementi che verranno poi singolarmente esaminati). Galileo è ovviamentel’erede <strong>di</strong> un pensiero scientifico già sussistente e consacrato da parte della tra<strong>di</strong>zione, perònel momento in cui egli lo rifiuta per andare oltre, non si rende conto <strong>di</strong> avere perso il sensodell’origine: infatti le operazioni idealizzanti non sentono più alcun legame con quella realtà<strong>di</strong> cui non sono che un’astrazione, e l’Umwelt (ambiente) che dovrebbe essere la matrice <strong>di</strong>ogni umana produzione, perde <strong>di</strong> significato, fino a non venire assolutamente più presa inconsiderazione. Ma non è tutto. Infatti Galileo, in perfetta coerenza con i suoi assunti iniziali,giunge anche a sostenere che le qualità percepite degli oggetti non siano altro che illusioni33 La filosofia moderna viene concepita da <strong>Husserl</strong> come una lotta tra l’obiettivismo, il cui massimorappresentante è Galileo, e il trascendentalismo, che si richiama al dubbio e al cogito <strong>di</strong> Cartesio. Come si avràmodo <strong>di</strong> argomentare più avanti, in questo combattimento si inserisce, ad un certo momento, la <strong>fenomenologia</strong>trascendentale, per portare sino alle sue ultime conseguenze la profonda scoperta cartesiana e mettersi così incon<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> prevalere definitivamente sull’obiettivismo, avviando la crisi verso la sua conclusione.34 «Nel suo senso pieno e completo, essa non è altro che una logica formale onnilaterale (che dev’essere cioèpromossa all’infinito <strong>nella</strong> sua totalità propria ed essenziale), una scienza delle forme <strong>di</strong> senso del “qualcosa ingenerale”, costruibili attraverso il pensiero puro <strong>nella</strong> loro vuota e formale generalità e, su questa base, delle“molteplicità” da costruire sistematicamente e in sé senza contrad<strong>di</strong>zione, secondo le leggi formali elementaridella non-contrad<strong>di</strong>zione; una scienza cioè dell’universo delle “molteplicità” pensabili in generale» (1935-36:74). Questi elementi, costituenti quell’analisi puramente formale che prende anche il nome <strong>di</strong> logistica, sono statitrattati anche in altre opere <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> (non va mai <strong>di</strong>menticato il suo grande interesse per il formalismo, spessoall’origine delle forti ambiguità del suo pensiero): per approfon<strong>di</strong>re il concetto <strong>di</strong> molteplicità definita si puòrimandare a Idee I (1913: 218 e seguenti), invece per l’idea <strong>di</strong> una mathesis universalis alla seconda e<strong>di</strong>zionedelle Ricerche logiche (1913) e a Logica formale e trascendentale (1929).24


soggettive, dal momento che, a suo avviso, la «vera realtà» 35 (1935-36: 58-63) è <strong>di</strong> naturamatematica: è da qui che sorge l’esigenza <strong>di</strong> esaminare matematicamente la natura.<strong>Husserl</strong> non esita a definire «geniale» il superamento dell’ostacolo che <strong>di</strong>videva le qualità dalcalcolo e dalla misura, tramite la valutazione delle qualità soggettive stesse come in<strong>di</strong>ci <strong>di</strong>quantità obiettive; egli però non esita del pari a criticare tale matematizzazione, la cuiestensione conduce inevitabilmente ad una sorta <strong>di</strong> circolo vizioso tra l’anticipazione ipoteticae la verificazione, circolo dal quale sarebbe possibile uscire solo riconoscendo l’assolutaautonomia del mondo antepre<strong>di</strong>cativo, la pre-datità degli oggetti e, conseguentemente, lasecondarietà <strong>di</strong> qualsiasi matematizzazione. Sarà proprio richiamandosi a questi ultimielementi che la <strong>fenomenologia</strong> si schiererà contro l’obiettivismo 36 della scienza naturalematematica, affermando che esso ha prodotto un vero e proprio «occultamento <strong>di</strong> senso».Infatti i successori <strong>di</strong> Galileo ra<strong>di</strong>calizzano tutte le sue scoperte portandole sino alle loroultime conseguenze: la scienza <strong>di</strong>venta una tecnica che «opera con lettere dell’alfabeto, consegni <strong>di</strong> collegamento e <strong>di</strong> relazione (+,3, = , ecc.) e secondo le regole del giuoco della lorocoor<strong>di</strong>nazione» (1935-36: 75), non tenendo assolutamente più conto <strong>di</strong> quelli che sono glieffettivi fondamenti del pensiero. Perdendo la chiave <strong>di</strong> comprensione delle proprieoperazioni, la scienza si aliena, perdendo così il proprio significato. Questi sono i motivi, cheallora non potevano venire compresi <strong>nella</strong> loro interezza, per i quali Galileo «è un genio chescopre e insieme occulta», scopre il mondo come matematica applicata, ma lo occultaconsiderandolo come un’opera della coscienza scientifica 37 .35 Come si è già avuto modo <strong>di</strong> sottolineare nei capitoli precedenti e come si cercherà <strong>di</strong> spiegare anche inquesto, per <strong>Husserl</strong> l’espressione «vera realtà» è già <strong>di</strong> per sé stessa <strong>problema</strong>tica: che cos’è la «vera realtà»? Seper verità si intendesse la verità logica, esattamente quella stessa verità della quale era questione nelle Ricerchelogiche e che reggeva la <strong>di</strong>stinzione tra verità <strong>di</strong> ragione e verità <strong>di</strong> fatto, allora sarebbe errato parlare <strong>di</strong> «verarealtà», poiché così come la verità non potrebbe mai fare parte del mondo, anche il mondo non potrebbe maiessere vero. Poi tenendo conto che quella stessa verità logica non era altro che un’idea (in senso kantiano) lasituazione si complicherebbe ancora <strong>di</strong> più. Certo, si potrebbe obiettare che proprio perché la logica è un’idea, ilmondo deve in qualche modo essere vero: infatti se il mondo non desse il proprio contributo con parziali verità,la logica sarebbe del tutto impossibile. Questa obiezione non toglierebbe nulla comunque al fatto che la veritàlogica <strong>nella</strong> sua interezza non possa mai venire considerata come un dato o una parte del mondo. Invece se per«verità del mondo» si volesse intendere quella verità della logica originaria della quale <strong>Husserl</strong> aveva trattato inEsperienza e giu<strong>di</strong>zio, allora sarebbe sì legittimo affermare che il mondo ha una verità, ma certamente questaverità non sarebbe quella della matematica. Ogni verità <strong>di</strong> questo tipo non potrebbe mai infatti essere concepitacome «nel» o «del» mondo, ma sempre conseguente ad esso, in quanto frutto <strong>di</strong> una categorizzazione comunquee sempre secondaria. Ecco perché la «vera realtà» <strong>di</strong> natura matematica <strong>di</strong> Galileo non potrà mai risultare deltutto convincente per <strong>Husserl</strong>: il compito della <strong>fenomenologia</strong> infatti sarà proprio quello <strong>di</strong> fondaretrascendentalmente un mondo che non è già <strong>di</strong> per sé stesso vero.36 E’ doveroso cercare <strong>di</strong> comprendere <strong>nella</strong> sua essenza questa critica, senza lasciarsi fuorviare da conclusioniaffrettate: in sé il passaggio da una matematica che si applica alle cose alla sua logicizzazione formale (che non èaltro che l’applicazione della matematica su sé stessa), che segna l’ultima grande tappa scientifica dell’epocamoderna, non è sbagliato, anzi è un ampliamento della scoperta iniziale assolutamente legittimo; ciò che perònon è ammissibile è che questo metodo non venga utilizzato coscientemente (per <strong>Husserl</strong> è fondamentale laconsapevolezza: sarà infatti proprio a partire dalla mancanza <strong>di</strong> essa che avrà luogo la confusione tra il mondovero e ciò che in realtà non è altro che un metodo) e che con il tempo l’autentico orizzonte <strong>di</strong> senso sia statotrasformato e degradato.37 Appare già da questi brevi cenni la singolarità del metodo utilizzato da <strong>Husserl</strong> per compiere le proprie analisistoriche, che può essere sintetizzato nel termine tedesco Rückfrage e che Derrida propone <strong>di</strong> tradurre conquestion en retour: la crisi attuale e le cause che l’hanno provocata riportano alla motivazione originaria(Ursprungmotivation) e autentica, che a sua volta rende comprensibile il <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne presente. Infatti, come<strong>Husserl</strong> stesso si premura <strong>di</strong> sottolineare, essendo originaria la sintesi tra fatticità e origine, tra empirico etrascendentale, è necessario procedere a «zig-zag» nel metodo regressivo, poiché con una argomentazione asenso unico si renderebbero possibili pericolosi frainten<strong>di</strong>menti: «Veniamo dunque a trovarci in una specie <strong>di</strong>circolo. Si può giungere ad una piena comprensione degli inizi, soltanto a partire dalla scienza data <strong>nella</strong> suaforma attuale e attraverso la considerazione del suo sviluppo. Ma senza una comprensione degli inizi questosviluppo, in quanto sviluppo <strong>di</strong> senso , è muto. Non ci resta altro: dobbiamo procedere e retrocedere, a “zig-zag”;25


I notevoli risultati ottenuti dalla scienza galileiana portano presto a pensare che sia possibileuna estensione dei suoi meto<strong>di</strong> ad altri campi del sapere, per esempio alla psicologia. Sonopresenti tutti i presupposti affinché una estensione <strong>di</strong> questo tipo possa davvero funzionare: sela scienza matematica aveva considerato il lato fisico delle cose, astraendo da qualsiasicoscienza o soggetto, la psicologia si impegna nel costruire un ambito autonomo dellopsichico sul modello del fisico, cosa peraltro possibile, vista l’universalizzabilità del metododelle scienze della natura. Tuttavia le <strong>di</strong>fficoltà non tardano a farsi sentire, soprattutto quandoci si rende conto che una psicologia <strong>di</strong> questo tipo (cioè <strong>di</strong> stampo naturalistico) perdenecessariamente <strong>di</strong> vista unelemento <strong>di</strong> importanza fondamentale: la soggettività, l’essenzastessa del soggetto.<strong>Husserl</strong> riconduce le prime riflessioni ra<strong>di</strong>cali riguardo alla priorità assoluta della coscienza sututti gli oggetti a Cartesio che, con il motivo trascendentale, <strong>di</strong> cui è a giusto titolo consideratoil fondatore, si presenta come l’unico davvero in grado <strong>di</strong> combattere contro il dogmatismonaturalistico. Può essere curioso constatare che è proprio con il proposito <strong>di</strong> rinforzareulteriormente l’obiettivismo che Cartesio ha fornito le armi per sconfiggerlo: «egli, nelle sueMe<strong>di</strong>tazioni - proprio nel proposito <strong>di</strong> fornire i fondamenti ra<strong>di</strong>cali del razionalismo e, eoipso, del dualismo - giunse a fondare originariamente alcuni pensieri, che nel loro influssostorico (come aderendo ad una nascosta teleologia storica) erano chiamati appunto a<strong>di</strong>rompere questo razionalismo me<strong>di</strong>ante l’esplicitazione del suo nascosto controsenso:proprio quei pensieri che dovevano servire a fondare il razionalismo come un’aeterna veritas,recavano in sé un senso profondamente nascosto 38 , il quale, una volta venuto in luce, losra<strong>di</strong>cò completamente» (1935-36: 103). La portata delle prime due Me<strong>di</strong>tazioni è infatti piùvasta <strong>di</strong> quanto si possa immaginare e più <strong>di</strong> quanto abbia immaginato anche il loro stessoautore.<strong>Il</strong> dubbio cartesiano dà inizio a qualsivoglia critica nei confronti delle presunta sufficienzadelle evidenze matematiche, fisiche e sensibili. Per primo Cartesio decide <strong>di</strong> «passareattraverso l’inferno <strong>di</strong> una epoché quasi scettica, che non poteva essere scavalcata, e <strong>di</strong>raggiungere il portone <strong>di</strong> entrata al cielo <strong>di</strong> una filosofia assolutamente razionale per poicostruirla sistematicamente» (1935-36: 105). L’esito <strong>di</strong> questa epoché ra<strong>di</strong>cale è a tutti noto:se io sospendo qualsiasi vali<strong>di</strong>tà d’essere, allora io che opero l’epoché devo per principioessere escluso dal suo ambito: io che dubito <strong>di</strong> tutto «sono» necessariamente. Esaminando poia dovere questo suolo apo<strong>di</strong>ttico infine raggiunto, si vede che la sua essenza è: Ego cogitocogitata; questo significa che il mondo, perso come quell’in-sé del quale non posso nondubitare, può venire riaffermato come ciò che io penso, cioè come un elemento costitutivodelle mie cogitationes: solo in quanto cogitatum del cogito il mondo è indubitabile.Estendendo fino ai cogitata (o ideae, come le chiama Cartesio) la sfera del cogito esente danel giuoco delle prospettive ogni elemento deve contribuire al chiarimento dell’altro» (1935-36: 87). Quin<strong>di</strong> èin<strong>di</strong>spensabile questo procedere-retrocedere, perché nel momento in cui giungiamo alla fonte costituenteoriginaria (sempre ammesso che lo si possa), il costituito c’è già sempre.38 Questo «senso profondamente nascosto» è particolarmente interessante e racchiude tutte le <strong>di</strong>fficoltà inerentialla effettiva storicità della storia in <strong>Husserl</strong>. Come mai il senso del pensiero dei gran<strong>di</strong> filosofi (che <strong>Husserl</strong>esamina in questa specie <strong>di</strong> storia della filosofia che è il tema centrale del manoscritto principale della Crisi) èsempre quello nascosto e mai quello che <strong>di</strong> essi ha ritenuto e tramandato la tra<strong>di</strong>zione? La posizione particolare<strong>di</strong> ogni singolo filosofo non viene forse così sacrificata a quell’unica <strong>problema</strong>tica che <strong>Husserl</strong> sta affrontando?Porre tutti gli elementi in un’unica prospettiva, non significa forse voler escludere implicitamente tutte quellecaratteristiche che mal si prestano ad una lettura unitaria? Sarebbe prematuro tentare <strong>di</strong> fornire una risposta senzaattendere il seguito della trattazione, tuttavia si può forse già anticipare che la soluzione non va cercata in<strong>di</strong>rezione <strong>di</strong> un elemento o dell’altro, quanto piuttosto <strong>nella</strong> loro reciproca implicazione. La storia del pensieropotrebbe quin<strong>di</strong> essere definita come al tempo stesso continua e <strong>di</strong>scontinua, <strong>di</strong>scontinua perché ogni filosofo èunico e così il suo pensiero, continua perché egli comunque porta avanti, realizza un compito comune, al qualeegli <strong>di</strong>mostra <strong>di</strong> partecipare con la razionalità stessa del suo tentativo particolare. Questa soluzione è comunquesoltanto ipotetica ed esige il seguito della trattazione per venire definitivamente scartata o accettata.26


dubbio, Cartesio ha proposto implicitamente il grande principio dell’intenzionalità, del qualeegli si è servito per collegare qualsiasi conoscenza obiettiva all’evidenza del cogito, anche seperò «in Cartesio non c’è traccia <strong>di</strong> una vera enunciazione e <strong>di</strong> una vera trattazione del tema“intenzionalità”» (1935-36: 111).Nonostante questi importanti presupposti, Cartesio non è stato in grado <strong>di</strong> andare oltre leevidenze nelle quali credeva Galileo: infatti anche per lui la verità della fisica si identifica conla matematica e l’impresa del cogito nel suo insieme non è altro che l’ennesimo tentativo perrinforzare l’obiettivismo. Basti pensare che l’ego che rimane quale suolo apo<strong>di</strong>ttico dopol’epoché, viene definito «res cogitans», quin<strong>di</strong> è ancora qualcosa: è l’anima; ma il fondatoredel motivo trascendentale non si è reso conto del fatto che l’ego demondanizzato dovesseessere concepito come qualcosa <strong>di</strong> totalmente <strong>di</strong>verso (da qualsivoglia res) e non solo come<strong>di</strong>verso dal corpo fisico. Tutti questi elementi (l’ego concepito come una res e il tentativo <strong>di</strong>riconfermare la scienza obiettiva) spiegano lo strano destino del cartesianesimo che da un latoha dato vita al razionalismo (Malebranche, Spinoza, Leibniz e Wolff), che elimina il motivodel dubbio e l’epoché, e dall’altro all’empirismo scettico, che conduce sino alle sue ultimeconseguenze l’interpretazione psicologistica del cogito, sbagliandosi così completamentesulla natura della soggettività fondatrice.Può destare qualche perplessità la circostanza per la quale <strong>Husserl</strong> si impegna così a lungonell’analizzare i pensieri e le motivazioni <strong>di</strong> Galileo e Cartesio, senza fare alcun riferimento aKant. Inoltre, anche quando decide esplicitamente <strong>di</strong> trattare <strong>di</strong> Kant, <strong>Husserl</strong> lo fa in manierapittosto sommaria, senza analizzare a fondo la sua filosofia, quasi come se sapesse già cosacercare e dove trovarlo. Come mai a Kant, che viene <strong>di</strong> solito considerato il filosofotrascendentale per eccellenza, sono de<strong>di</strong>cati soltanto tre paragrafi 39 (<strong>di</strong>eci pagine in tutto: aGalileo ne erano state de<strong>di</strong>cate ad<strong>di</strong>rittura trenta)? Poi perché così tanta reticenzanell’elogiarlo, quando persino Galileo, lo scienziato all’origine dell’obiettivismo moderno, erastato definito un «genio»? La Crisi fornisce la spiegazione <strong>di</strong> questo insolito atteggiamento:secondo <strong>Husserl</strong>, Kant non è un pensatore <strong>di</strong> primaria importanza perché la suainterpretazione è legata a quella <strong>di</strong> Hume (che al <strong>di</strong>re <strong>di</strong> Kant lo risvegliò dal suo sonnodogmatico), e <strong>nella</strong> scepsi humiana si cela un autentico motivo filosofico in grado <strong>di</strong>confutare l’obiettivismo; quin<strong>di</strong> Hume, se rettamente inteso, è chiaramente più prossimo <strong>di</strong>Kant alla vera essenza del dubbio cartesiano. Tutte le perplessità iniziali dovrebbero esserescomparse. Certo, la tra<strong>di</strong>zione ha assimilato Hume ad una sorta <strong>di</strong> «bancarotta della scienzaobiettiva», ad un comodo scetticismo accademico grazie al quale «egli è <strong>di</strong>ventato il padre <strong>di</strong>un fragile positivismo, ancor oggi vivo, che elude gli abissi filosofici oppure li occultasuperficialmente, accontentandosi <strong>di</strong> una spiegazione psicologistica delle scienze positive econsolandosi con i loro successi» (1935-36: 116). Ma il vero motivo filosofico <strong>di</strong> Hume,nascosto all’interno del suo scetticismo, consiste in una ra<strong>di</strong>calizzazione senza precedentidell’epoché cartesiana: se Cartesio aveva deluso le aspettative iniziali in<strong>di</strong>rizzando l’epochéverso una giustificazione dell’obiettivismo, Hume con il suo scetticismo mette in luce comeogni conoscenza del mondo sia un «enigma inau<strong>di</strong>to», realizzando così il dubbio cartesiano<strong>nella</strong> sua interezza (1935-36: 117). Era in<strong>di</strong>spensabile una filosofia <strong>di</strong> questo tipo, unafilosofia assurda, per rendersi conto dell’enigmaticità della conoscenza. Infatti grazie a Humeè possibile rendersi conto che la vita è operante (leistend) nel senso che produce un sensod’essere: «l’intero mondo potrebbe essere un cogitatum costituito dalla sintesi universale dellecogitationes molteplici e fluenti» (1935-36: 118). Questa rinascita, che è al tempo stesso unara<strong>di</strong>calizzazione, del <strong>problema</strong> cartesiano fondamentale, intacca profondamentequell’obiettivismo che per molto tempo aveva dominato.39 I paragrafi dei quali è qui questione sono quelli della sezione specificatamente incentrata sulla crisi, recante iltitolo: «L’origine del contrasto moderno tra obiettivismo fisicalistico e soggettivismo trascendentale».27


E’ quin<strong>di</strong> questa alta considerazione <strong>di</strong> Hume e del suo motivo nascosto che sta alla basedell’opinione <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> nei confronti <strong>di</strong> Kant: il pensiero <strong>di</strong> Kant infatti è soltanto la rispostaal senso manifesto della filosofia <strong>di</strong> Hume, che però, come si è visto più sopra, non coincidecon il suo senso più proprio; ecco perché egli non può essere considerato come il verosuccessore <strong>di</strong> Hume, caratterizzandosi piuttosto come uno tra gli esponenti del razionalismopost-cartesiano, già estraneo al significato più autentico delle Me<strong>di</strong>tazioni. Infatti Kant non sirichiama all’ego, bensì a delle forme e a dei concetti che sono ancora un momento obiettivodella soggettività: quello che egli cerca <strong>di</strong> <strong>di</strong>mostrare con il suo metodo è che «il mondo cheappare intuitivamente deve già essere un prodotto della facoltà dell’“intuizione pura” e della«ragion pura», <strong>di</strong> quelle stesse facoltà che si esprimono nel pensiero esplicito dellamatematica e della logica» (1935-36: 122). Richiamandosi a questa fondazione soggettiva,Kant è più preoccupato <strong>di</strong> giustificare l’obiettività, che non <strong>di</strong> capire l’operazione stessa,tramite la quale il soggetto dà un senso (e quin<strong>di</strong> un essere) al mondo. Insomma a Kant noninteressa poi tanto l’origine del senso, quanto piuttosto il senso stesso, l’origine non essendoaltro ai suoi occhi che un mezzo per raggiungere lo scopo. Nonostante queste mancanze,<strong>Husserl</strong> ritiene che Kant sia comunque degno del titolo <strong>di</strong> filosofo trascendentale, poichériconduce la possibilità stessa dell’obiettività alle forme concettuali, le categorie, proponendocosì «una grande filosofia sistematica, scientifica in un modo nuovo, in cui il ritornocartesiano alla soggettività della coscienza si ripresenta <strong>nella</strong> forma <strong>di</strong> un soggettivismotrascendentale» (1935-36: 123).Nell’ambito della secolare lotta tra obiettivismo e soggettivismo, <strong>Husserl</strong> propone la suasoluzione (che ai suoi occhi è poi l’unica vera soluzione): la <strong>fenomenologia</strong> trascendentale.Innanzitutto è in<strong>di</strong>spensabile chiarire questo motivo trascendentale, ricco <strong>di</strong> sfumature e <strong>di</strong><strong>problema</strong>tiche implicazioni. <strong>Il</strong> trascendentalismo husserliano si propone fondamentalmentecome una filosofia <strong>nella</strong> forma interrogativa, come un pensiero che si realizza <strong>nella</strong> forma <strong>di</strong>una domanda: è infatti grazie ad una Rückfrage che si ritorna all’io, all’ego come fondamentoultimo (o origine prima, dal momento che il procedere della Rückfrage è a «zig-zag»)dell’essere e del valore: «la <strong>problema</strong>tica trascendentale si aggira attorno al rapporto <strong>di</strong> questomio io - dell’“Ego” - con ciò che dapprima viene posto come ovvio in vece sua: la mia anima;poi attorno al rapporto <strong>di</strong> questo io e della sua vita <strong>di</strong> coscienza con il mondo <strong>di</strong> cui l’io ècosciente, e <strong>di</strong> cui conosce il vero essere, nelle proprie formazioni conoscitive» (1935-36:125). Come si vedrà più avanti, è proprio perché la sua forma è quella <strong>di</strong> una domanda, chequesto pensiero può infine coincidere con l’idea stessa della filosofia.<strong>Il</strong> motivo trascendentale inoltre si concretizza in quell’operazione (Leistung) della coscienzache è una donazione <strong>di</strong> senso e <strong>di</strong> essere e che può venire effettivamente compresa solo unavolta che l’obiettivismo sia stato definitivamente superato. L’ego trascendentale è infatti inprimo luogo vita (Leben) nel senso forte e pieno del termine, vita come azione e comepercezione: il mondo è questo, che in<strong>di</strong>co, che vedo, che tocco e proprio per questo esso ha unsenso per me. Qualsiasi matematizzazione o logicizzazione <strong>di</strong> questo terreno antepre<strong>di</strong>cativonon sarà altro che un «abito ideale, un metodo che deve servire a migliorare me<strong>di</strong>ante“previsioni scientifiche” in un “progressus in infinitum”, le previsioni grezze, le unichepossibili nell’ambito <strong>di</strong> ciò che è realmente esperito ed esperibile nel mondo della vita»(1935-36: 80). Con espressioni che ricordano «il rivestimento <strong>di</strong> idee gettato sopra il mondodell’intuizione» <strong>di</strong> Esperienza e giu<strong>di</strong>zio, <strong>Husserl</strong> riba<strong>di</strong>sce la secondarietà <strong>di</strong> qualsiasi attivitàscientifica, rispetto al darsi originario del mondo, come mondo che c’è già sempre: è questoconcetto <strong>di</strong> Lebenswelt, fondato prima nell’ego che nelle sue categorie, che permette <strong>di</strong>superare ogni obiettivismo.L’obiettivismo ha occultato l’idea <strong>di</strong> ragione <strong>di</strong>spiegantesi <strong>nella</strong> storia. Ci si sente autorizzatiad avanzare un dubbio: come può <strong>Husserl</strong> proporsi <strong>di</strong> ritrovare o riscoprire qualcosa che <strong>di</strong>per sé non è mai dato? L’idea come può essere al tempo stesso un qualcosa, al punto da poter28


venire ricoperto dalle scienze 40 e un progetto, uno stimolo, un in<strong>di</strong>ce puntato verso unorizzonte che mai potrà trasformarsi in un dato? L’idea è al tempo stesso un sensodefinitivamente costituito e un movimento intenzionale la cui unità si costituisceindefinitamente attraverso una serie ininterrotta <strong>di</strong> alienazioni e <strong>di</strong> prese <strong>di</strong> coscienza, proprioperché il telos considerato <strong>di</strong> per sé stesso (l’idea <strong>di</strong> per sé medesima è un «tutto») non siidentifica con il telos quale esigenza della nostra ragione (l’idea per noi non sarà mai altro cheun compito). La meravigliosa duplicità dell’idea in senso kantiano, infinita e indefinita altempo stesso, permette a <strong>Husserl</strong> <strong>di</strong> dare un senso (indefinito) alla stessa esistenza storicadell’uomo a partire dall’idea <strong>di</strong> una storia infinita (come teleologia). Se però nelle opereprecedentemente analizzate questa duplicità veniva sentita come pericolosa e si cercava <strong>di</strong>porla in evidenza il meno possibile, anzi anche <strong>di</strong> nasconderla, facendo apparire solamente ilsuo lato ideale e positivo, adesso sembra quasi che l’intreccio tra la <strong>di</strong>mensione verticale equella orizzontale sia completamente accettato. Certo questo non implica assolutamente chetutte le <strong>di</strong>fficoltà e le ambiguità vengano definitivamente chiarite, ma solo che si possanoosservare gli elementi in questione in un modo nuovo, più da vicino. A tal proposito latematica trattata non può che essere d’aiuto: se prima si trattava della logica, del tempo e delmondo, adesso si tratta <strong>di</strong> noi, uomini della storia, e del nostro contributo alla costituzione delsenso. L’uomo ha un senso 41 in quanto custo<strong>di</strong>sce un’idea, noi però non «sappiamo ancora sequesta Idea possa realizzarsi. Tuttavia, pur sotto questa forma presuntiva e in una universalitàindeterminata e fluida, noi la posse<strong>di</strong>amo; abbiamo dunque l’idea <strong>di</strong> una filosofia, senzasapere se e come sia da realizzare. Noi l’assumiamo come una presunzione provvisoria el’accettiamo a scopo <strong>di</strong> ricerca; da essa ci faremo guidare» (1929-31: 44). Come posse<strong>di</strong>amoquesta idea? <strong>Il</strong> possesso non implica forse già sempre un avere, un tenere, un serbare? Comesi può possedere una tensione? Vivendola. Ma, ci si potrebbe ancora chiedere, si può davverovivere un’idea teleologica pura?In realtà sembra che siano due le tendenze implicate <strong>nella</strong> concezione husserliana: da un latoil senso della storia europea trova il suo fondamento in quel soggettivismo trascendentale che40 <strong>Husserl</strong> parla <strong>di</strong> Kleid: un vestito, certo non è un vestito qualsiasi, ma ein Kleid von Ideen, comunquepresuppone ugualmente un tutto ben definito alla sua base. Infatti il compito della <strong>fenomenologia</strong> trascendentaleconsiste nel cercare <strong>di</strong> togliere questa sovrastruttura che non fa che occultare la vera essenza dell’idea,riattivando così l’origine prima del senso, dell’essere e della storia.Tuttavia la posizione husserliana nei confronti della scienza è ambigua: se da un lato, come progetto, essa vienevalorizzata al massimo, essendo la possibilità stessa <strong>di</strong> una incarnazione dell’idea, dall’altro viene svalorizzata<strong>nella</strong> sua precarietà sovrastrutturale: la scienza come progetto ha ancora quello slancio, quella tensione che lascienza come sistema compiuto ha già perduto. Questa ambiguità nei confronti della scienza non fa in realtà altroche riflettere l’ambiguità generale riguardante l’atteggiamento della <strong>fenomenologia</strong> nei confronti della scrittura(quin<strong>di</strong> nei confronti del rapporto tra ideale e reale del quale la scrittura non è che l’esplicitazione): «Nell’arco<strong>di</strong> pensiero che dalle Logische Untersuchungen conduce sino alla Krisis der Europäischen Wissenschaften,<strong>Husserl</strong> non intermette <strong>di</strong> modulare questa ambiguità. Da una parte, la caduta nell’obiettivismo - la <strong>di</strong>menticanzadella funzione delle scienze e del loro significato per l’uomo, insomma il tecnicismo in cui implode l’umanitàeuropea - si presenta come una forma <strong>di</strong> scrittura generalizzata, <strong>di</strong> cattiva ipomnesi dove il senso dell’originecade nell’oblio insie me al telos più autentico delle scienze; d’altra parte, la verità vivente, proprio perchérichiede una tra<strong>di</strong>zionalizzazione assoluta che la esenti dalle vicissitu<strong>di</strong>ni empiriche dei suoi scopritori, esige ilricorso a una scrittura, più autentica e vera del tecnicismo galileiano, ma non<strong>di</strong>meno sempre legata al ricorso ain<strong>di</strong>ci» (Ferraris 1997: 301). Insomma, la verità che idealizzata viene poi trasposta nel linguaggio al fine <strong>di</strong> potervenire trasmessa ad altri, allo stesso tempo si realizza e si espone al pericolo dell’oblio e della <strong>di</strong>struzione.41 Ovviamente sempre quello europeo: l’umanità europea è infatti caratterizzata da un telos situato in unaprospettiva infinita che attrae, come un polo catalizzatore, tutti i telos particolari delle singole nazioni noneuropeee che, a <strong>di</strong>fferenza della cultura europea (è infatti una questione <strong>di</strong> cultura se «In un senso spiritualerientrano nell’Europa i Dominions inglesi, gli Stati Uniti, ecc., ma non gli esquimesi e gli in<strong>di</strong>ani che ci vengonomostrati nei baracconi delle fiere, o gli zingari vagabon<strong>di</strong> per l’Europa» 1935-36: 332) non hanno ancoraraggiunto il livello della scienza, della filosofia e quin<strong>di</strong> sono culture <strong>di</strong> un tipo antropologico che vivono in unambito ancora finito. Ci sono <strong>di</strong>versi livelli <strong>di</strong> vicinanza allo scopo ultimo, che sono in qualche modo normativi(appen<strong>di</strong>ce XXVI «Gra<strong>di</strong> della storicità. Prima storicità» 1935-36: 529-530).29


Cartesio non era stato capace <strong>di</strong> comprendere nelle sue implicazioni ultime (a questoproposito <strong>Husserl</strong> parla <strong>di</strong> «ritorno all’Ego» e «via <strong>di</strong> coscienza»), dall’altro però si parlaanche <strong>di</strong> uno «Spirito» (Geist) o «Ragione», che <strong>di</strong>viene <strong>nella</strong> storia, che fa <strong>di</strong> essa il luogodella sua rivelazione. Ma è possibile conciliare, senza cadere in pesanti contrad<strong>di</strong>zioni, unafilosofia ra<strong>di</strong>cale dell’ego cogito e una filosofia dello spirito storico? Una filosofiatrascendentale può comprendere una filosofia della storia? Ebbene, l’importanza del tentativo<strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> risiede proprio nell’avere cercato <strong>di</strong> superare questa apparente antinomia. A taleproposito può rivelarsi molto utile il confronto delle tematiche della Crisi con la quintaMe<strong>di</strong>tazione cartesiana, la quale si propone esplicitamente <strong>di</strong> colmare la grande lacuna dellafilosofia <strong>di</strong> Cartesio, cioè la mancanza <strong>di</strong> una teoria dell’esistenza degli altri.Alla base della teoria husserliana dell’alterità, sta la <strong>di</strong>stinzione, tanto netta quantoinsuperabile, tra percezione immanente e percezione trascendente: se la prima può essereoggetto <strong>di</strong> una riflessione fenomenologica pura, in quanto «effettivamente» compresa, laseconda implica comunque e sempre uno scarto, una deficienza che nessuna riflessione potràmai colmare. Infatti gli altri ego sono sempre esterni, trascendenti rispetto a me, ed io li possoconoscere (con tutti i dovuti limiti implicati da una conoscenza <strong>di</strong> questo tipo) solocostituendoli nel mio ego, ma - e qui risiede l’interesse maggiore <strong>di</strong> questa teoria - l’altro sicostituisce in me precisamente come altro, estraneo che mi sfugge, che esiste come me e conil quale io posso entrare in relazione, ma che non sarà mai «me».Sono proprio queste considerazioni sul rapporto tra inglobante e inglobato che possonogettare luce sugli enigmi della storia. Nelle Me<strong>di</strong>tazioni cartesiane <strong>Husserl</strong> propone ilconcetto <strong>di</strong> empatia (Einfühlung) che racchiude in sé il mistero della costituzione dell’altroall’interno stesso del proprio, dell’inerenza dell’altro in quanto altro alla vita propria dell’ego.Da un lato è vero che un fenomeno è tale solo per e in una coscienza, tuttavia dall’altro lato èanche vero che ciò che è <strong>nella</strong> mia «sfera appartentiva» non si caratterizza affatto come unamodalità <strong>di</strong> me stesso, come un contenuto della mia coscienza: infatti l’altro si offre a mesempre in quanto altro. E’ grazie ad una «appresentazione», che è una appercezione peranalogia, che si costituisce in me l’altro («<strong>nella</strong> mia monade un’altra monade» 1929-31: 135),che ha fenomenologicamente luogo come mo<strong>di</strong>ficazione <strong>di</strong> me stesso (non esaminiamo inprofon<strong>di</strong>tà questa Me<strong>di</strong>tazione, che esigerebbe già <strong>di</strong> per sé stessa un’analisi autonoma, macerchiamo <strong>di</strong> ricavare da questi brevi cenni un ausilio per meglio comprendere la<strong>problema</strong>tica storica). Che cos’è in questione <strong>nella</strong> conoscenza dell’altro? La costituzionefenomenologica. Tale costituzione, che si tratti <strong>di</strong> cose o <strong>di</strong> persone, ci pone sempre <strong>di</strong> fronteal paradosso <strong>di</strong> una immanenza che è nel contempo apertura verso una trascendenza. Questoparadosso raggiunge il punto culminante proprio <strong>nella</strong> costituzione dell’altro, perché in questocaso l’oggetto intenzionale è un soggetto, esattamente come chi è all’origine dell’intenzione.Tuttavia non appena ci si rende conto che questa costituzione non è reale, bensì intenzionale,ogni paradossalità svanisce. Ma non è tutto: l’altro che si costituisce in me comecostitutivamente altro da me, si identifica con un’idea, sempre approssimata 42 e tuttavia mairaggiunta, tale però da rivestire una importante funzione regolativa: «nell’esperienzadell’altro, così com’esso mi si dà <strong>di</strong>rettamente quando io ne approfon<strong>di</strong>sco il contenutoontico-noematico (puramente come correlato del mio cogito, la cui struttura particolaredev’essere ancora mostrata), io non ottengo che una guida trascendentale» (1929-31: 114) 43 .42 Dal momento che si tratta della tematica dell’alterità, bisognerebbe forse <strong>di</strong>re «sempre appresentata»; inoltre èinteressante considerare che, come l’appresentazione presuppone sempre un nucleo <strong>di</strong> presentazione, così anchel’approssimarsi all’idea presupporrà sempre un nucleo <strong>di</strong> prossimità: è nello scarto e <strong>nella</strong> negazione che siinsinua la positività dell’infinito.43 A questo proposito è doveroso richiamarsi brevemente alla concezione dell’idea <strong>di</strong> infinito quale è stataesposta da Lévinas, poiché viene esplicitamente esaminata la funzione dell’alterità per la costituzione dell’Idea.Anche Lévinas utilizza come punto <strong>di</strong> partenza per le proprie analisi le Me<strong>di</strong>tazioni metafisiche <strong>di</strong> Cartesio,andando però oltre <strong>di</strong> esse, non seguendo Cartesio nel suo argomentare l’esistenza <strong>di</strong> Dio a partire da un’idea30


Questo è stato il grande tentativo husserliano al fine <strong>di</strong> superare le <strong>di</strong>fficoltà incontrate dallanozione <strong>di</strong> storia in una filosofia del cogito: <strong>Husserl</strong> pensa <strong>di</strong> riuscire, proprio laddove Humee Cartesio avevano fallito, grazie alla sua concezione <strong>di</strong> idealismo intenzionale. Questoidealismo «costituisce» ogni essere estraneo nell’io, ma non riducendolo all’io, bensìlasciandolo persistere <strong>nella</strong> sua alterità 44 . E’ in questo senso che l’alter ego, che si costituiscein me pur non essendo un mio contenuto, può fare luce sulla concezione husserliana dellastoria: l’idea che esso implica rende infatti possibile giustificare una autentica trascendenza(che non si risolve mai in una immanenza, ma sempre in una trascendenza nell’immanenza)della storia sul fondamento del soggettivismo trascendentale. L’idealismo intenzionale riescein questo proposito grazie all’idea in senso kantiano che, forte della sua duplicità, pone inconnessione l’io e la storia, infatti come osserva Ricoeur «occorre sottolineare il ruolome<strong>di</strong>atore tra la coscienza e la storia che viene assegnato ad alcune Idee, Idee in sensokantiano, concepite come dei compiti infiniti, che implicano in effetti un compito senza fine equin<strong>di</strong> una storia» (1949: 282). La storia è quin<strong>di</strong> il luogo nel quale l’uomo cerca <strong>di</strong> realizzarequell’idea <strong>di</strong> ragione che costantemente lo guida: certo dal punto <strong>di</strong> vista dell’idea stessa, cheè <strong>di</strong>sposta all’infinito, qualsiasi mondo circostante finito non sarà altro che una suafinitizzazione (sempre indeterminata in quanto inerente ad un orizzonte) e la sua completarealizzazione in esso sarà sempre ancora a venire.Questo significa che il pensiero può produrre soltanto verità relative? L’idea <strong>di</strong> verità ha unsenso per l’uomo? Sì, perché <strong>di</strong> fatto l’idea <strong>di</strong> verità (o <strong>di</strong> ragione o <strong>di</strong> filosofia) è il motorenoetico e il correlato noematico della stessa soggettività trascendentale: è l’essenza stessadell’intenzionalità. A ben guardare una teleologia è già sempre racchiusa in un idealismointenzionale, per il quale il senso originario non è che il suo senso finale: infatti l’intenzionemira sempre già oltre sé stessa, il suo significato è racchiuso in quella tensione che essarappresenta. Grazie alla <strong>di</strong>mensione intenzionale del cogito trascendentale l’idea <strong>di</strong>vieneevidente nelle sue realizzazioni parziali, non potendolo però mai essere nel suo contenuto piùproprio che, essendo infinito, si nega per definizione ad ogni intuizione: si può avere unaevidenza determinata semplicemente dell’idea (come attualità del potenziale), ma mai <strong>di</strong> ciò(che si avrebbe in noi precedentemente alla conoscenza dell’esistenza <strong>di</strong> Dio), bensì utilizzando la particolarestruttura dell’idea <strong>di</strong> infinito per in<strong>di</strong>care la singolare natura formale della relazione metafisica tra il Medesimo el’Altro: l’Altro rompe l’imperialismo del Medesimo affidandogli un compito. La paradossalità dell’idea <strong>di</strong>infinito risiede secondo Lévinas nel fatto che il suo ideatum, cioè ciò che con essa si pensa o si ha <strong>di</strong> mira, vadacostantemente al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> sé stesso quale atto <strong>di</strong> un pensiero, quin<strong>di</strong> pensando l’idea <strong>di</strong> infinito, il pensiero pensasempre <strong>di</strong> più <strong>di</strong> quanto potrebbe in realtà pensare. Con l’idea <strong>di</strong> infinito emerge l’idea stessa della trascendenza,della vera e propria alterità: «L’infinito è il carattere proprio <strong>di</strong> un essere trascendente in quanto trascendente,l’infinito è l’assolutamente altro. <strong>Il</strong> trascendente è l’unico ideatum <strong>di</strong> cui possiamo avere in noi solo un’idea;esso è infinitamente lontano dalla sua idea - cioè esteriore - perché è infinito» (1961: 47). L’idea dell’infinitoscavalca le barriere dell’immanenza, è una «sporgenza dell’essere sul pensiero che pretende <strong>di</strong> contenerlo»(1961: 24-25), è un interrogativo sempre in grado <strong>di</strong> mettere il soggetto in <strong>di</strong>scussione. Tale idea non può veniretematizzata od oggettivata, poiché così facendo la si ridurrebbe alla presenza dell’Altro nello Stesso, rispetto acui essa segna invece un momento <strong>di</strong> rottura; l’unico termine adatto a descrivere il procedere dell’idea è:Desiderio. Proprio perché il Desiderio pensa sempre <strong>di</strong> più <strong>di</strong> quanto non pensi può «misurare» l’infinitàdell’infinito. Perché Desiderio? Non è forse un termine assimilabile all’amore o al bisogno? No, <strong>di</strong>ce Lévinas,perché al <strong>di</strong> là della fame che può essere saziata e dei sensi che possono venire sod<strong>di</strong>sfatti, esiste l’altro (che ètuttavia sempre l’Altro: la relazione etica lévinassiana è assolutamente asimmetrica, quin<strong>di</strong> non assimilabile alrapporto Ich und Du del quale parla Buber), l’assolutamente altro, il Desiderio nei confronti del quale non puòvenire placato, non perché deriva da una fame infinita, ma semplicemente perché non chiede alcun nutrimento.Ecco che l’idea d’infinito si identifica con la coscienza morale, perché nel suo volto l’Altro mi appare come ciòche mi misura: l’infinito misura il finito, non limitandolo ma mettendo continuamente in questione la sua libertà.In questo senso il Desiderio dell’infinito ha il rigore dell’esigenza morale.44 Questa è precisamente la ragione per la quale la critica che Lévinas rivolge alla quinta delle Me<strong>di</strong>tazionicartesiane <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> non coglie nel segno: <strong>Husserl</strong> non tenta assolutamente <strong>di</strong> ridurre l’alter ego alla stessacoscienza trascendentale dell’ego, l’altro infatti rimane sempre tale e la sua conoscenza (intesa comecomprensione inglobante) è sempre ancora a venire.31


<strong>di</strong> cui essa è idea (questo argomento era già stato affrontato da <strong>Husserl</strong> in Idee I). Ma qualepuò essere l’evidenza dell’idea in quanto tale? E’ l’evidenza <strong>di</strong> una tensione, <strong>di</strong> un compito,vuoti però <strong>di</strong> qualsiasi oggetto determinato.Adesso risulterà chiara la circostanza per la quale si può a ragione affermare che l’ideateleologica racchiuda tutte le altre idee in senso kantiano precedentemente incontrate: essa lecomprende tutte poiché si rivela come la loro con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità: essa è infattil’evidenza stessa della possibilità <strong>nella</strong> sua infinita apertura. Come polo d’intenzione puro,l’idea è la possibilità regolatrice (non <strong>di</strong>mentichiamo che è solo come regola che l’idea puòessere presa in considerazione) dell’apparire e la certezza finita (ecco perché l’ideasemplicemente e non il suo contenuto è evidente) <strong>di</strong> una determinabilità indefinita. L’idea èquin<strong>di</strong> il tramite <strong>di</strong> un rapporto: senza <strong>di</strong> essa la <strong>fenomenologia</strong> si risolverebbe in unsolipsismo e l’obiettività sarebbe impossibile, il cogito non penserebbe il mondo e la storia,ma penserebbe solo sé stesso e l’intenzionalità si risolverebbe in un gioco senza significato.A questo punto occorre fare una precisazione: la <strong>di</strong>stinzione tra intenzione ed intuizione,fondamentale in Kant, è sempre parsa non sussistere (in maniera esplicita) <strong>nella</strong> filosofiahusserliana, secondo la quale solo un nesso inscin<strong>di</strong>bile tra le due poteva generare qualcosacome un senso. Basti pensare che, nelle Ricerche logiche, quei termini che risultavano privi <strong>di</strong>una intuizione riempiente, si <strong>di</strong>ceva che fossero intenzionati solo «simbolicamente», visto cheil loro riferimento era ad una intuizione determinata <strong>nella</strong> sua assenza (ma non ad unaintuizione del tutto mancante!). Intenzione ed intuizione erano (o meglio, sembravano essere)tutt’uno. Tuttavia, anche ammesso che questo sia vero per le opere anteriori 45 , non si può farea meno <strong>di</strong> notare come l’idea teleologica non possa, per la sua stessa essenza, venire inglobatain questa rigida corrispondenza: la certezza, senza intuizione corrispondente, delladeterminabilità infinita dell’oggetto in generale, non è forse una intenzione vuota che fonda erende possibile ogni intuizione fenomenologica determinata (e, <strong>di</strong> conseguenza, anche ogniintenzione particolare)? E non è così anche forse per tutte le altre forme che l’idea teleologicaassume (come idea <strong>di</strong> una logica pura, come idea <strong>di</strong> una corrente infinita dei vissuti e comeidea <strong>di</strong> un mondo-orizzonte)? L’idea infinita della ragione è pura <strong>di</strong> qualsiasi intuizioneperché è con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità <strong>di</strong> qualsiasi intuizione, quin<strong>di</strong> se da un lato segna lo scacco<strong>di</strong> qualsiasi rigida corrispondenza tra intuizione ed intenzione, dall’altro essa ne è la piùcompiuta realizzazione (purché non la si concepisca come un tutto fisso e dato): l’idea èinfatti la possibilità stessa della coscienza <strong>di</strong> intenzionare la totalità infinita degli oggetti.Tuttavia l’idea in senso kantiano non viene mai descritta <strong>di</strong>rettamente o tematizzata da<strong>Husserl</strong> in quanto tale, ma solo sempre nei suoi atti finiti, nelle sue intuizioni e nei suoioggetti: questo avviene perché l’idea in senso kantiano si caratterizza all’interno della<strong>fenomenologia</strong> come un concetto operatore e non come un concetto tematico: l’idea è uncompito (sempre ancora da fare), e non un dato. Da un punto <strong>di</strong> vista ancora più profondo, sipotrebbe osservare che l’intenzionalità pura non può venire tematizzata dalla <strong>fenomenologia</strong>perché essa è proprio ciò a partire da cui la <strong>fenomenologia</strong> si è instaurata, riconoscendo séstessa come lo scopo ultimo <strong>di</strong> tutta la filosofia. La <strong>fenomenologia</strong> non può tematizzare l’ideaper l’ottima ragione che non può tematizzare le proprie origini, infatti la sua Endstiftung saràsempre indefinitamente <strong>di</strong>fferita, mancata nel suo contenuto, anche se sempre evidente nelsuo valore regolatore.45 A questo proposito si veda la posizione <strong>di</strong> Ricoeur – secondo cui la <strong>fenomenologia</strong> <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> è larealizzazione <strong>di</strong> quella <strong>fenomenologia</strong> latente e <strong>di</strong> quella preoccupazione ontologica che avevano animato lafilosofia <strong>di</strong> Kant (infatti egli sostiene che se Kant «limita e fonda» la <strong>fenomenologia</strong>, <strong>Husserl</strong> «la fa») - il qualescrive: «La chiave del <strong>problema</strong> è la <strong>di</strong>stinzione, fondamentale in Kant, ma totalmente sconosciuta in <strong>Husserl</strong>, fral’intenzione e l’intuizione: Kant <strong>di</strong>ssocia ra<strong>di</strong>calmente il rapporto a qualche cosa […] e la visione <strong>di</strong> qualchecosa. Lo Etwas = X è una intenzione senza intuizione. E’ questa <strong>di</strong>stinzione che sot-tende quella del pensare edel conoscere; essa ne mantiene non solamente la tensione, ma l’accordo» (1954-55: 57).32


Dell’idea, così come dell’origine e del fine (non sono forse tutt’uno?), non può esser dettonulla, poiché essi sono precisamente ciò a partire da cui qualcosa in generale può essere detto.Questa è la ragione per la quale l’idea ha bisogno <strong>di</strong> una storia, perché solo la storia le puòfornire quell’evidenza in grado <strong>di</strong> realizzarla sempre (e solo) parzialmente: così l’idea siespone e, in un solo gesto, si rivela e si lascia minacciare. L’evento della storia imponeall’avvento del senso la propria finitu<strong>di</strong>ne.Avviene nel VI secolo a.C. : l’idea <strong>di</strong> ragione si rivela ad alcuni uomini in Grecia. Prima <strong>di</strong>domandarsi «perché», è forse opportuno soffermarsi sugli elementi in questione e sul lororapporto. Un’idea infinita si manifesta ad un uomo finito. Sarà in grado egli <strong>di</strong> comprenderel’infinito? Ovviamente no. Tuttavia l’uomo si può impegnare in una progressivaesplicitazione <strong>di</strong> esso, e questo <strong>di</strong>venterà quel compito capace <strong>di</strong> dare un senso alla suaesistenza. Non bisogna però <strong>di</strong>menticare che, concretizzandosi in una <strong>di</strong>mensione finita, l’ideasi altera, si allontana da quella che si definisce come la sua più autentica essenza: ma se cosìnon fosse, l’idea non sarebbe reale e il mondo non avrebbe un senso. Questo per quantoriguarda l’inizio. Poi, con il passare del tempo 46 , le scienze, quelle stesse scienze che l’ideaaveva reso possibili, occultano la sua infinità, fino a farla scomparire. E’ la crisi delle scienzeeuropee. <strong>Il</strong> filosofo, quale «funzionario dell’umanità», ha in questa situazione (e sempre) ildovere <strong>di</strong> essere responsabile, affinché questa crisi abbia fine, e lo può fare illuminando aritroso, cioè a partire dai risultati, il senso originario. <strong>Il</strong> senso autentico dell’atto costituente sipuò già decifrare a partire dall’oggetto costituito: questo, più che essere una necessitàesteriore, è il riflesso della natura stessa dell’intenzionalità: il senso originario <strong>di</strong> ogni attointenzionale è infatti il fine al quale esso tende.Bisogna <strong>di</strong>sfare tutte le se<strong>di</strong>mentazioni e ridurre la «pericolosa ingenuità» galileiana perridestare il vero senso della storia. Ma ci sarà un senso già <strong>di</strong> per sé stesso costituito sottoquesta molteplicità <strong>di</strong> strati? Non sembrerebbe davvero possibile poter dare a questa domandauna risposta affermativa, dal momento che il senso della storia si è caratterizzato sin dalprincipio come un’idea, e come qualsiasi idea che non sia illusoria, anche questa non saràaltro che un progetto, una tensione alla quale gli uomini potranno indefinitamente partecipare,ma mai realizzare o concretizzare <strong>nella</strong> sua interezza. Ma se è a partire dalle se<strong>di</strong>mentazionistesse che si può risalire al senso originario, allora non avranno anche queste un senso?Nell’indefinito <strong>di</strong>venire dell’idea, non avrà forse avuto anche Galileo il suo posto e la suafunzione? La crisi della quale egli è stato l’iniziatore involontario è stata davvero un erroreoppure è stata semplicemente una necessità della storia 47 ?Non è un <strong>problema</strong> <strong>di</strong> secondaria importanza quello riguardante la funzione attribuita da<strong>Husserl</strong> alla questione della crisi, poiché <strong>nella</strong> sua chiarificazione si stabilisce anche il sensodella teleologia. Se <strong>nella</strong> storia del senso vi fosse un momento <strong>di</strong> non-senso, ciòsignificherebbe che non tutta la storia è dotata <strong>di</strong> un senso, che ci sono delle parentesi; maquesto si potrebbe davvero concepire in una prospettiva teleologica? E’ <strong>Husserl</strong> stesso afornire le in<strong>di</strong>cazioni necessarie affinché non vi sia il rischio <strong>di</strong> cadere in contrad<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong>questo tipo: occorre fare una <strong>di</strong>stinzione netta tra la storicità interna e la storicità esterna, in46 E’ nel tempo che l’idea si realizza: il sovratemporale, che è in realtà l’onnitemporale, si manifesta neltemporale, esplicitando così il suo essere contemporaneamente <strong>di</strong>pendente dal tempo e sua con<strong>di</strong>zione. L’idea ècon<strong>di</strong>zione del tempo poiché solo grazie ad essa esso ha un senso e una <strong>di</strong>rezione; ma è anche <strong>di</strong>pendente daltempo perché solo in esso l’idea può avere luogo.47 La posizione <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> non è a questo proposito molto chiara: talvolta presenta la crisi come un acca<strong>di</strong>mentoempirico, quin<strong>di</strong> contingente ed estraneo alla teleologia della ragione, semplice errore <strong>di</strong> un uomo che ha poicon<strong>di</strong>zionato gli eventi futuri; altre volte invece essa è presentata come il frutto <strong>di</strong> un errore etico-filosoficora<strong>di</strong>cale, che ha segnato il fallimento <strong>di</strong> quella missione <strong>di</strong> responsabilità (ciascuno <strong>di</strong> noi con il suo operare èresponsabile del <strong>di</strong>venire dell’idea) che è propria <strong>di</strong> ogni filosofo; infine si possono trovare alcuni punti, rari, neiquali la crisi viene presentata da <strong>Husserl</strong> come una necessità eidetica implicata, come sua «naturale»conseguenza, dalla se<strong>di</strong>mentazione stessa del senso.33


cui è la prima, quale autentico apriori storico, ad essere il legittimo fondamento della seconda.L’essenza della storia, che è la storicità interna, non potrà mai venire intaccata da nessunadegradazione «esterna»: l’infinità dell’idea non verrà mai oscurata dalle sue realizzazioni. <strong>Il</strong>senso insomma può sì perdere il proprio valore, ma non potrà mai perdere la sua idealità.Come già nelle Ricerche logiche, <strong>Husserl</strong> si appoggia qui alla <strong>di</strong>stinzione tra idealità in senso«specifico» e idealità in senso «normativo», ma - come d’altra parte si era già ampiamenteavuto modo <strong>di</strong> osservare nel secondo paragrafo del presente lavoro - non sembra che tale<strong>di</strong>stinzione possa davvero essere rigidamente mantenuta: non è forse stato l’autore stesso a<strong>di</strong>re che il telos spirituale dell’umanità europea è un’idea infinita che si caratterizza come unfine pratico della volontà e che permette così il delinearsi <strong>di</strong> una fase retta da idee normative?Non è forse vero inoltre che dopo essersi appellato all’imperativo dell’univocità e averecondannato l’equivocità quale sede <strong>di</strong> ogni errore filosofico, egli precisa in nota che «laconoscenza obiettiva e assolutamente assodata della verità è un’idea infinita» (1935-36: 545,nota 10)? Allora è chiaro che se la storicità interna riflette il lato infinito dell’idea, la storicitàesterna riflette quello indefinito: la storia <strong>di</strong> per sé stessa avrà sempre il suo senso puro eideale e non ci sarà mai alcun obiettivismo in grado <strong>di</strong> metterla in <strong>di</strong>scussione; invece la storiaquale la conosciamo noi è un susseguirsi continuo <strong>di</strong> svelamenti e occultamenti, <strong>di</strong> momentinei quali seriamente ci chie<strong>di</strong>amo se essa abbia un senso: questo avviene perché la nostrastoria è tale quale noi giorno dopo giorno la realizziamo, noi che cerchiamo indefinitamente<strong>di</strong> darle un senso, ma che non le daremo comunque mai il «suo» senso, poiché esso non potràmai derivare dal nostro operare.L’identità del senso, come fondamento dell’univocità e come con<strong>di</strong>zione della riattivazionedel senso originario delle scienze obiettive, sarà allora sempre relativa, indeterminata, inquanto scaturente da un progetto (che già per la sua stessa definizione è finito) aperto: essasarà quel compito che l’uomo dovrà sempre cercare (senza mai poterci riuscire) <strong>di</strong> realizzare.Allora l’univocità assoluta è sì inaccessibile, ma come può esserlo un’idea in senso kantiano,cioè sempre raggiungibile, nei suoi risultati parziali, ma mai <strong>nella</strong> sua completa infinità. Inquesto senso l’idea, come indefinito regolatore, è caratterizzata da una negatività che lasciaalla storia i suoi <strong>di</strong>ritti: la falsificazione dell’infinito attuale in un indefinito (ciò stesso <strong>di</strong> cuiHegel criticava Kant e Fichte) permette ad ogni momento della storia <strong>di</strong> contribuire allarealizzazione dell’idea. E quali saranno invece le caratteristiche dell’idea <strong>nella</strong> sua infinità?Quale funzione possiamo noi attribuire al risvolto propriamente infinito dell’idea? L’ideaconsiderata <strong>di</strong> per sé stessa non è assimilabile alla storia, bensì alla sua con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong>possibilità: ma allora come verrà definito l’apriori <strong>di</strong> una storia che si caratterizza come il<strong>di</strong>venire dell’idea? <strong>Il</strong> merito <strong>di</strong> <strong>Husserl</strong> risiede proprio nell’avere in<strong>di</strong>viduato un aprioriconcreto, che si potesse vivere nel modo dell’orizzonte: l’apriori della storia è quin<strong>di</strong> quelsapere originario che racchiude la totalità delle esperienze storiche possibili. Questa nozione<strong>di</strong> apriori «converte dunque la con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> possibilità astratta del criticismo <strong>nella</strong>potenzialità infinita concreta che vi era segretamente presupposta; essa fa così coinciderel’apriorico e il teleologico» (Derrida 1962: 174).L’intenzionalità pura <strong>nella</strong> sua essenza, che si realizza come progetto <strong>di</strong> un senso del mondo,è la ra<strong>di</strong>ce stessa della storicità. Contro qualsiasi speranza <strong>di</strong> un senso unico (da intendersi siacome unico senso, sia come unica <strong>di</strong>rezione), il nostro compito è quin<strong>di</strong> quello <strong>di</strong> procedere a«zig-zag» in una storia <strong>di</strong> cui per capire gli inizi, occorre partire dalla storia e dal senso qualiattualmente esperiti, ma nel contempo se non si sono compresi gli inizi, lo sviluppo non verràmai inteso quale sviluppo <strong>di</strong> senso. Forse risiede proprio in questo «zig-zag» (che esplicitameravigliosamente il nesso infinito-indefinito inerente all’idea) il significato <strong>di</strong> ciò che prendeil nome <strong>di</strong> storia.34


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