Il futuro è sempre esistito
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IL FUTURO È SEMPRE ESISTITO
stato il Vietnam, il candore di Disneyland con l’asprezza delle
lotte per i diritti civili – in quella stagione così complessa, insomma,
per quale motivo si era trovato uno spazio per costruire
o immaginare un futuro algido come quello di una vita in piacevoli
residenze, abitate da famiglie felici, e dotate di ogni servizio
che le liberasse dagli affanni del lavoro, del traffico, del ménage
domestico e dello studio grazie al telefono? Che impatto
avevano avuto, specularmente, tutte quelle previsioni in un’Italia
uscita dal dopoguerra? Quale ruolo avrebbe infine giocato la
Penisola, ammesso ne avesse uno – e che poi ebbe – in questa
pre-visione del futuro dal passato? Esisteva un qualche spirito
critico nei confronti di questo fiabesco e rassicurante small
world di un celebre motivetto disneyano?
Man mano che trascorrevano i giorni all’inizio degli anni ’60,
visti con occhio contemporaneo, emergeva che quel futuro si è
realizzato secondo percorsi, quelli sì, allora imprevisti. Ma, paradossalmente,
con la concretizzazione di quella profezia globalizzante,
non solo si è accorciata la nostra percezione di storia,
bensì si è insieme ridotta, fino a quasi sparire, la nostra percezione
del domani. Un processo che, tra l’altro, ha prima visto
cancellare il futuro come tempo, riducendolo concettualmente
a luogo. Era l’America della Space Age, della scienza e della tecnologia
narrata, ad esempio, da Oriana Fallaci in Se il sole
muore 3 . E ora, perdendone pure la localizzazione, si disperde in
un “ovunque” purché interconnesso.
Il futuro è sempre esistito è un titolo che aleggiava insistentemente
tanto più si scavava in quel passato. Ma c’è da chiedersi
pure se, oggi, il futuro esisterà ancora. Troppo veloce e ricco di
3
Oriana Fallaci, Se il sole muore, Rizzoli, 1965.
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