la Ciminiera 2020 05
Auto elettriche, Davide Lazzaretti, il profeta dell'Amiata, il Cristo dell'Amiata, Jrò, Personaggi storici in 3D, Roberto Burioni - Virus la grande sfida, arte e ceramica, acrime ed Amore in Isabella Caracciolo, Duchessa di Mesuraca, Epidemie nella storia e nella letteratura antica, I Mosaici di Huqoq, Giuliano e gli Ebrei, Angelo Di Lieto, Francesca Ferraro, Pasquale Natali, Daniele Mancini, Amore e bellezza nella tragica fine della Principessa MARIA D’AVALOS, Gabriele Campagnano
Auto elettriche, Davide Lazzaretti,
il profeta dell'Amiata, il Cristo dell'Amiata, Jrò, Personaggi storici in 3D, Roberto Burioni - Virus la grande sfida, arte e ceramica, acrime ed Amore in
Isabella Caracciolo, Duchessa di Mesuraca, Epidemie nella storia e nella letteratura antica, I Mosaici di Huqoq, Giuliano e gli Ebrei, Angelo Di Lieto, Francesca Ferraro, Pasquale Natali, Daniele Mancini,
Amore e bellezza nella tragica fine della Principessa MARIA D’AVALOS, Gabriele Campagnano
You also want an ePaper? Increase the reach of your titles
YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.
la Ciminiera 1
24 ANNI DI PRESENZA
Le nostre iniziative
Periodico di cultura, informazione e pensiero del Centro
Studi Bruttium (Catanzaro) Registrato al Tribunale di
Catanzaro n. 50 del 24/7/1996. Chiunque può contribuire
alle spese. Manoscritti, foto ecc.. anche se non pubblicati
non si restituiranno. Sono gratuite (salvo accordi
diversamente pattuiti esclusivamente in forma scritta) tutte
le collaborazioni e le prestazioni direttive e redazionali.
Gli articoli possono essere ripresi citandone la fonte. La
responsabilità delle affermazioni e delle opinioni contenute
negli articoli è esclusivamente degli autori.
Anno XXIV
Numero 5 - 2020
Direttore Responsabile
Giuseppe Scianò
Direttore editoriale
Pasquale Natali
Presidente
Raoul Elia
http://csbruttium.altervista.org/
Progetto Grafico
csbruttium.altervista.org
Centrostudibruttium.org
info@centrostudibruttium.org
Direzione, redazione e amministrazione
CENTRO STUDI BRUTTIUM
Iscr. Registro Regionale Volontariato n. 114
Iscr. Registro Regionale delle Ass. Culturali n.
7675
via Bellino 48/a, 88100 - Catanzaro
tel. 339-4089806 - 347 8140141
www.centrostudibruttium.org
info@centrostudibruttium.org
C.F. 97022900795
Stampa:
pubblicato sul sito associativo:
www.centrostudibruttium.org
DISCLAIMER:
Le immagini riprodotte nella
pubblicazione, se non di dominio
pubblico, riportano l’indicazione del
detentore dei diritti di copyright. In
tutti i casi in cui non è stato possibile
individuare il detentore dei diritti, si
intende che il © è degli aventi diritto
e che l’associazione è a disposizione
degli stessi per la definizione degli
stessi.
2 la Ciminiera
EDITORIALE
Pasquale Natali
http://csbruttium.altervista.org/
E Come dico sempre...
FORZA E CORRAGGIO CHE DOPO
APRILE VIENE MAGGIO!
Ancora chiusi in casa e continuamente minacciati dal virus del
secolo, riusciamo con lo stesso entusiasmo a dare luce a questo
quinto numero della La Ciminiera del 2020.
Brevemente vi cito i contributi che abbiamo scelto per questo
numero:
Iniziamo con l’incontro dell’artista calabrese, questa volta è
una imprenditrice e una valente costruttrice di sogni. Chi ama le
cose belle troverà sicuramente degno di lode il lavoro di Giuliana
Furrer. Analizzate con attenzione le sue opere e vedrete che sarete
d’accordo con me. Una cosa: Avete mai pensato che un vaso
potesse essere un vostro ritratto? Ebbene vi invito ad andare subito
in quarta di copertina, per me fenomenale. Ora posso dire che non
solo la pittura o la scultura o la letteratura possono dar vita a un
nostro ritratto.
Per rimanere in tema ritratti, godetevi la seconda parte delle
ricostruzioni facciali di personaggi storici. Daniele Mancini chiude
con altri sei personaggi in 3D.
Suo è anche l’intervento sulle conseguenze dell’epidemie sui
popoli analizzate grazie alla letteratura antica. Anche la letteratura
contemporanea, sulla scia del coronavirus, sta riempiendo gli
scafali delle libreria. Tra tutti Francesca Ferraro ci presenta il
volume di Roberto Burioni, in cui viene evidenziato il ruolo sempre
più significativo della scienza per la sopravvivenza dell’umanità.
Interessante è anche la controversia che Gabriele Campagnano
accende con la prof. Jodi Magness sull’interpretazione dei mosaici
di Huqoq. Chi ha ragione? Leggete e valutate voi.
Raoul Elia ci presenta un personaggio alquanto misterioso e
inquietante, “il Cristo dell’Amiata”. Assassino o santo? di sicuro
fu un “rappresentante della cultura delle classi subalterne che
fatica ad omologarsi alla cultura imposta e in cui si intrecciano le
istanze di uguaglianza e giustizia sociale e un’ansia di redenzione
di tipo messianico-millenaristico”. Questo basta per stimolarne la
lettura.
Chi non ricorda la vera e unica fiat 500, non quella impostura
che oggi chiamano con lo stesso nome? Ebbene questa opera d’arte
non andava solo a benzina “normale” ma udite, udite, ne esisteva
anche una versione elettrica. Leggere per credere.
Chiudo invitandovi a leggere, di Angelo Di Lieto, le tristi storie di
altre due donne e dell’amore e della morte che contraddistinsero la
loro storia terrena. Della principessa Maria d’Avalos ho il piacere
di darvi il link ad una edizione francese molto particolare.
Termino con un abbraccio affettuoso e l’appuntamento al
prossimo numero.
Storia di Donna Maria d’Avalos e del duca di Andria
Manoscritti e luminarie di Léon Lebégue
Librairie des BIBLIOPHILES, Paris, 1902
la Ciminiera 3
Raoul Elia
La sapienza della Forma
e del Colore nell’arte di Irò
L’artista di questo mese opera in un campo
decisamente deldifferente dai consueti canoni
seguiti finora in questa rubrica. Irò, ovvero
Giuliana Ferrer, infatti, lavora la ceramica.
Di certo, non è la prima artista ad esprimere
la propria creatività attraverso la lavorazione
della ceramica. Fra i grandi artisti che hanno
usato la ceramica come mezzo espressivo,
infatti, si annoverano Pablo Picasso, Lucio
Fontana, Giò Ponti, Arturo Martini.
Ognuno di loro ha saputo costruire un proprio
linguaggio attraverso la ceramica.
A differenza della pittura, la ceramica ha
in comune con la scultura la materialità
del gesto, il lavorare la materia grezza con
le mani, modellare la realtà dandole un
tocco di personalità, una scintilla di vita.
Michelangelo diceva di dover “liberare” l’idea
dalla prigione della materia e, in un certo
senso, questo è il lavoro che compie chiunque
lavori manipolando la materia. La creazione
nasce dalla materia grezza, che assume una
forma, che poi deve essere rifinita, “sbozzata”,
per usare il linguaggio del grande maestro
rinascimentale, per definirne “l’anima”, con
cui l’opera esce dal campo artigianale per
entrare nella fascia dell’arte e della creatività.
La ceramica ha avuto un momento di grande
sviluppo a partire dalla seconda rivoluzione
industriale, nell’area inglese, con William
Morris e l’area di Stafford; ma anche la
produzione artigianale toscana si impone
alla nostra memoria, con i suoi prodotti di
gusto delicato e lievemente retrò, ancora oggi
molto ricercati. E’ a queste tradizioni che si
riallaccia la creatività di Giuliana Ferrer, nel
confezionare le sue opere, mescolandole con
la sua perizia artigianale e la grazia creativa
dell’artista dalla sensibilità contemporanea.
La tecnica decorativa della ceramica di Irò
è, infatti, applicata agli oggetti che decorano
le nostre case con grandi effetti coloristici,
come nella lampada con vaso colorato con
decorazioni a spirale, la maschera etnica
bicolore, la lampada a forma di pigna. La
tecnica e la creatività dell’artista, però, danno
il meglio nelle splendide mattonelle di vario
formato e con vari disegni di stampo floreale
o in quelle monocrome con immagini di santi,
in cui l’iconografia dei santi viene pienamente
rispettata in un blu fortemente evocativo,
come nelle targhe votive, secondo la tradizione
inglese della Staffordshire Porcelain e, in
particolare, la decorazione “Willow”, la più
diffusa e famosa fra le cineserie.
Date un’occhiata a questo progetto, che fonde
l’amore per la tradizione artigianale e il gusto
artistico della ricerca e della sperimentazione
applicandoli agli oggetti che ogni giorno
vediamo nella nostra casa.
4 la Ciminiera
Il Bruttium
incontra gli Artisti
Calabresi
Quarta
puntata
Mi presento, sono:
Giuliana
Furrer
e creo gioielli
per chi amma
il bello
Copertina:
Giuliana Furrer e
Vari creazioni artistiche
Catanzaro
Da bambina amavo giocare nel mio “laboratorio dei colori”
dove creavo miscele di ogni tipo con cui dipingevo i miei
capolavori fatti con il Das.
Cresciuta in una casa dove mamma amava dipingere e fare
piccoli lavoretti e papà creare originali presepi artigianali,
da sempre ho amato utilizzare le mani per creare oggetti da
regalare ai miei cari o per costruire i miei giochi, immaginando
il mio futuro in una vera, piccola bottega magica.
Messi da parte i sogni da bambina, ormai adulta e universitaria
fuori sede nella bella Siena, trovai in questa città la mia sliding
door.
Camminare attraverso quelle antiche strade medievali,
armoniosamente e allegramente macchiate ogni pochi metri
dal blu cobalto, il giallo ocra e il verde rame che facevano
capolino sugli usci delle tante botteghe di ceramiche artistiche,
riaccese il sogno. Stavolta lo inseguii strenuamente, cambiando
radicalmente il binario dei miei studi, contro lo stereotipo che
negli anni ’90 ci voleva tutti laureati col pezzo di carta in mano.
Mi dedicai con ogni mezzo alla mia formazione di ceramista
prima in terra toscana, poi con una lunga gavetta nelle piccole
e difficili realtà artigiane della mia amata Calabria.
Sono trascorsi vent’anni da allora e quel sogno non si è mai
più spento! E’ bensì cresciuto e si è trasformato in realtà, sotto il
profumo di limoni e salsedine
del mio Ionio, davanti ai
colori del cielo turchese del
sud e delle colline chiazzate
di fiori di sulla, ulivi e fichi
d’india.
Quel sogno oggi ha una
dimensione e un nome: Irò.
Irò significa “colore” in
giapponese.
la Ciminiera 5
Se pur lontano dalle mie
tradizioni, questo nome mi
rappresenta completamente,
contiene ogni significato che ha
per me il mio lavoro: un piccolo
tributo al Giappone, questa terra
lontana di cui amo la cultura
e dove ha origine l’arte della
maiolica e perché il colore per
me è tutto: arte e ottimismo.
Nel mio laboratorio di
ceramiche artistiche, ogni giorno
il sogno prende forma: sia quello
della bambina creativa diventata
un’artigiana, sia quello dei clienti
che, attraverso la passione e le
competenze di chi vi lavora, possono vedere
realizzato un prodotto come pensato nel
proprio immaginario. Che sia esso un piccolo
oggetto come la bomboniera, personalizzata
e creata “su misura” in base al desiderio
comunicativo del cliente; un omaggio speciale
pensato per la persona cui è destinato; fino ai
rivestimenti, l’illuminazione e i complementi
d’arredo per interni ed esterni, per abitazioni o
strutture ricettive.
Se pure frequentemente mi viene attribuito
l’epiteto di artista, io amo invece definirmi
un’artigiana, intendendo mettere la mia arte e
la mia professionalità al servizio del cliente.
Mi piace soddisfare anche le esigenze più
stravaganti e peculiari, siano esse di carattere
pratico o puramente estetiche, e offrire un
prodotto unico e irripetibile. Walt Disney
amava dire che “fare l’impossibile è una specie
di divertimento”... Tentarci
sempre diverte anche me!
Una sezione della
produzione Irò risponde
invece all’esigenza puramente
espressiva di chi crea, cercando
di coniugare e far convivere
gusto contemporaneo e
modernità con la tradizione
di questa antica arte e del
territorio.
Non viene dimenticata la
tradizione, che rivive, a volte
reinterpretata, attraverso la
produzione di vasellame e
oggettistica tipici della cultura
rurale calabrese.
Nel mio laboratorio l’oggetto vive e restituisce
emozione.
Inoltre, in clima di ecosostenibilità, Irò
porta avanti l’iniziativa “more clay less plastic”,
promuovendo e incentivando l’utilizzo della
ceramica in sostituzione alla plastica, anche
attraverso il ritorno all’uso di stoviglierie e
accessori per la casa in cotto smaltato.
Convinta che l’esperienza e l’arte vadano
condivise e diffuse, mi piace offrire inoltre la
possibilità, a chi volesse, grandi e piccini, di
fare un piccolo viaggio esperenziale all’interno
della bottega, mettendosi alla prova con mani
in pasta e pennelli!
E’ possibile anche seguire corsi strutturati di
modellatura per i più piccoli e di decorazione
su maiolica per i più grandi, della durata di
due mesi.
6 la Ciminiera
Daniele Mancini
danielemancini-archeologia.it
DODICI
PERSONAGGI
STORICI IN 3D
seconda parte
Il Signore di Sipàn
(I-II secolo d.C.)
Spesso annunciato come
uno dei reperti archeologici
più significativi del XX
secolo, il Signore di Sipàn è
stato il primo delle famose
mummie della Civiltà
Moche trovate, nel 1987,
nel sito di Huaca Rajada,
nel nord del Perù.
La mummia, di quasi 2000 anni, era accompagnata
da un ricchissimo corredo funerario, alimentando così
l’importanza della scoperta. Alcuni ricercatori hanno deciso
di ricostruire il volto di questo affascinante personaggio.
Non è stata un’impresa facile perché il cranio del
Signore di Sipàn è stato effettivamente danneggiato in 96
frammenti durante la sua scoperta e a causa della pressione
dei sedimenti del suolo nel corso dei millenni.
Di conseguenza, i ricercatori del team brasiliano di
antropologia forense e odontoiatria forense hanno dovuto
ricostruire scrupolosamente questi numerosi pezzi in modo
virtuale.
Il cranio riassemblato è stato quindi fotografato da varie
angolazioni con la tecnica della fotogrammetria, per una
mappatura digitale precisa dell’oggetto organico.
https://youtu.be/CYboYQqmLQI
la Ciminiera 7
San Nicola
(270-344 d.C.)
Non si può negare che per raffigurare
Babbo Natale si sia adoperata la figura di
San Nicola, un santo cristiano del IV secolo
di origine greca, vescovo di Myra, in Asia
Minore, oggi Demre, in Turchia
Roberto I Bruce di Scozia
(1274-1329 d.C.)
Un’interessante collaborazione tra
gli storici dell’Università di Glasgow e
di esperti craniofacciali dell’Università
John Moores di Liverpool ha portato a
quella che potrebbe essere la ricostruzione
credibile dell’attuale volto di Roberto I
Bruce di Scozia, il re del film Braveheart,
per intederci.
Nicola, comunque, era protagonista di
molte leggende riguardanti miracoli a
favore di poveri e defraudati, per questo ne
è ritenuto un santo benefattore e protettore,
specialmente dei bambini.
Per quanto riguarda la ricreazione del suo
volto, aiutata dalla simulazione del software
e dalla tecnologia interattiva 3D del Face
Lab dell’Università di Liverpool John
Moores, il modello 3D è stato il risultato
di analisi dettagliate, sebbene sia ancora
soggetto di varie interpretazioni.
Secondo l’antropologa Caroline
Wilkinson, il progetto si basava su “tutto
il materiale scheletrico e storico” conosciuto.
Nel 2004, alcuni ricercatori hanno
realizzato una ricostruzione basata sullo
studio del cranio di San Nicola attraverso
una serie di fotografie a raggi X e misurazioni
originariamente redatte nel 1950 e hanno
dedotto che San Nicola era probabilmente
un uomo dalla pelle olivastra; il naso rotto,
invece, potrebbe essere stato l’effetto della
persecuzione subita dai Cristiani sotto il
dominio di Diocleziano, durante il primo
periodo di vita di Nicola.
8 la Ciminiera
L’immagine realizzata deriva da un
teschio umano conservato all’ Hunterian
Museum di Londra e mostra un soggetto
maschile al suo apice fisico, dalle
caratteristiche robuste, completato da un
collo muscoloso e un busto piuttosto tozzo.
In sostanza, l’impressionante fisico di
Roberto I Bruce è dovuto a una dieta ricca
di proteine che lo avrebbe “aiutato” per i
brutali combattimenti e le dure cavalcate
medievali.
La storia supporta tale prospettiva e
annovera Roberto I Bruce tra i grandi
condottieri della sua generazione, che
guidò con successo la Scozia durante la
prima guerra di indipendenza scozzese
contro l’Inghilterra, culminando con nella
fondamentale Battaglia di Bannockburn,
nel 1314 d.C., e la successiva invasione del
nord dell’Inghilterra.
L’analisi del cranio ha mostrati la
presenza di probabili segni di lebbra, che
avrebbe sfigurato parti del viso, come la
mascella superiore e il naso. Gli storici
hanno a lungo ipotizzato che Roberto I
Bruce abbia sofferto di un disturbo, forse
proprio la lebbra, che avrebbe influenzato
significativamente la sua salute nelle ultime
fasi della sua vita. Durante un incidente
nel 1327 d.C., si dice che il re fosse così
debole che riusciva a malapena a muovere
la lingua e solo due anni dopo Roberto è
morto all’età di 54 anni.
Secondo gli antropologi forensi, usando il
cast del cranio, è stato possibile stabilire con
precisione la formazione muscolare sulle
ossa del cranio per determinare la forma e
la struttura del viso.
Ora, malattie e caratteristiche
facciali precise potrebbero essere
stabilite analizzando il DNA originale
dell’individuo, ma il cranio dell’Hunterian
è solo uno dei pochissimi calchi dell’attuale
testa di Roberto, il cui originale è stato
rinvenuto tra il 1818 e il 1819 in una tomba
nell’Abbazia di Dunfermline.
Riccardo III
(1452-1485 d.C.)
dimora funeraria di Riccardo III prima
di essere distrutta nel 1538 d.C. I resti del
re sono stati trovati quasi sotto una “R”
approssimativamente dipinta sul bitume,
che ha anche segnato un posto riservato
all’interno del parcheggio dagli anni 2000.
Sempre Caroline Wilkinson si è occupata
della ricostruzione forense del viso di
Riccardo III, essenzialmente basata sulle
mappature 3D del cranio. La ricostruzione
è stata modificata nel 2015, con occhi e
capelli più chiari, a seguito di nuove prove
basate sul DNA.
Enrico IV di Francia
(1553-1610 d.C.)
Enrico IV di Francia è stato una figura
politica fondamentale nella Francia della
fine del XVI secolo. E’ stato il primo
monarca francese della Casa di Borbone
ed era anche noto per le sue inclinazioni
protestanti (si considerava un ugonotto dei
primi tempi…), che lo portò a uno scontro
con l’esercito reale cattolico che si è tradotto
in un conflitto militare a tutti gli effetti noto
come Guerre di Religione, determinato
da affiliazioni religiose e da motivazioni
politiche.
L’ultimo re della Casa di York e anche
l’ultimo della dinastia dei Plantageneti è
Riccardo III, deceduto nella Battaglia di
Bosworth Field, che di solito segna la fine
del “Medioevo” in Inghilterra.
Eppure, anche dopo la sua morte, il
giovane monarca inglese ha continuato a
confondere gli storici, con i suoi resti mortali
che sono sfuggiti a studiosi e ricercatori per
oltre cinque secoli. E’ stato fondamentale
quando, nel 2012, l’Università di Leicester
ha identificato lo scheletro all’interno di un
parcheggio del consiglio comunale, il sito
della Greyfriars Priory Church, ultima
Nonostante gli sconvolgimenti militari,
religiosi e politici nella Francia del XVI
secolo, Enrico IV di Francia è noto anche
come “le bon roi Henri”. L’epiteto proviene,
probabilmente, dalla sua genialità percepita
e dal pensiero di benessere per i suoi sudditi,
nonostante le differenze religiose.
I ricercatori francesi, guidati dal famoso
specialista di ricostruzioni facciali Philippe
Froesch, hanno ricreato con successo il
la Ciminiera 9
volto del monarca francese con tecniche
visive all’avanguardia.
https://youtu.be/DCyH5gEZYew
Maximilien de Robespierre
(1758-1794 d.C.)
Nel 2013, il patologo forense Philippe
Charlier e lo specialista in ricostruzione del
viso Philippe Froesch hanno creato una
ricostruzione facciale realistica in 3D di
Maximilien de Robespierre, il famigerato
uomo-simbolo della Rivoluzione francese.
Originariamente pubblicato sulla rivista
medica Lancet, la ricostruzione è stata
fatta con l’aiuto di varie fonti. Alcune
appartengono ai ritratti e ai racconti
contemporanei di Robespierre, che
mostrano una visione “conforme” del
rivoluzionario. Ma uno degli oggetti
primari che ha più aiutato i ricercatori,
riguarda la famosa maschera mortuaria
di Robespierre, realizzata da Madame
Tussaud. Probabilmente la Tussaud ha
affermato che che la maschera funeraria
sia stata realizzata direttamente con l’aiuto
della testa decapitata di Robespierre, dopo
che fu ghigliottinato il 28 luglio 1794.
Daniele Mancini
EPIDEMIE NELLA STORIA E NELLA
LETTERATURA ANTICA
La “Peste di Atene” del V
secolo a.C. non è l’unico evento
epidemiologico narrato da fonti
letterarie spesso confortate da
quelle archeologiche. Circa
5.000 anni fa, un’epidemia
ha completamente spazzato
via un villaggio preistorico in
Cina. I corpi dei morti sono
stati riuniti in una casa che è
stato successivamente bruciata.
Nessuna fascia d’età è stata
risparmiata, dagli infanti agli
anziani, resti dei corpi sono
stati trovati all’interno della
casa.
Il sito archeologico Hamin
Mangha, nel nord-est della
Cina, è il sito di insediamento
10 la Ciminiera
Arnold Böcklin - La peste(1898)
preistorico più grande e meglio
conservato trovato fino ad
oggi in Cina. Uno studio
archeologico e antropologico
indica che l’epidemia sarebbe
stata rapidissima e non avrebbe
concesso il tempo necessario per
rendere sepolture adeguate agli
abitanti colpiti dall’epidemia.
Il sito non è stato nuovamente
abitato.
Prima della scoperta di Hamin
Mangha, un’altra sepoltura di
massa preistorica che risale
all’incirca allo stesso periodo,
è stata trovata nel sito di
Miaozigou, sempre nella Cina
nord-orientale. Queste scoperte
suggeriscono che un’epidemia
avrebbe devastato l’intera regione.
La prima attestazione di un’epidemia nella
letteratura greca è quella contenuta nel primo
libro dell’Iliade (I, 47 ss.); la malattia è dovuta
all’ira di Apollo per il rifiuto di Agamennone
di restituire la sua schiava Criseide al padre
Crise, sacerdote del dio: dalla peste e dalle sue
conseguenze parte l’ira di Achille, lo scontro
con Agamennone, il ritiro dell’eroe greco dal
combattimento e le tante morti che ne seguono.
Anche l’Edipo re di Sofocle parte da una
pestilenza (vv. 20-35 e 168-187): la tragedia
si apre con i cittadini di Tebe che chiedono
aiuto al re Edipo per fermare il male che li sta
decimando. Il dramma sarebbe stato ispirato
proprio dalla malattia che aveva colpito
la città pochi anni prima, durante gli anni
della peste ateniese. Anche in questo caso il
morbo rappresenta una punizione divina per
l’assassinio, rimasto impunito, del re Laio.
Altri storici imitano Tucidide: Diodoro
Siculo, nella sua Bibliotheca historica
(XIV 70, 4-71), nel I secolo a.C. narra della
Peste di Siracusa di fine IV secolo a.C.;
Procopio di Cesarea, nella Guerra persiana
(II, 22-23), nel VI secolo d.C., è testimone
oculare dell’epidemia di peste che ha colpito
Costantinopoli nel 542 d.C.
A Roma, Virgilio dedica della pagine alla
Peste nel Norico, la regione orientale delle
Alpi, nelle Georgiche (III, 470-566), redatte nel
I secolo a.C. Qui le vittime sono gli animali,
sia domestici che selvatici, di terra o di mare:
nondimeno gli effetti sono comunque terribili,
e tali da far regredire l’umanità a uno stadio
primitivo; senza buoi non si riesce più ad arare i
campi, la contaminazione anche degli animali
sacri rende impossibile celebrare i consueti
sacrifici religiosi, fenomeni eccezionali si
susseguono, come i pesci espulsi sulla terra o i
lupi che cessano di minacciare le pecore.
Altri sono i casi di epidemie che gli storici
riportano nelle loro cronache: la Peste
Antonina, nota anche come Peste di Galeno,
da colui che la descrisse, è stata una pandemia
di vaiolo o morbillo riconducibile ai soldati
di ritorno dalle campagne militari contro i
Parti del II secolo d.C. La peste Antonina ha
devastato l’esercito e potrebbe aver ucciso tra i 5
e i 30 milioni di individui nell’impero romano,
tra cui il co-reggente di Marco Aurelio, Lucio
Vero.
L’epidemia ha contribuito alla fine della Pax
Romana, quel periodo che corre dal 27 a.C.
al 180 d.C., quando Roma è stata al culmine
del suo potere. Dopo il 180 d.C., l’instabilità
è dilagata in tutto l’impero romano, tra guerre
civili, invasioni da parte dei primi gruppi
“barbari” e con il Cristianesimo sempre più
popolare.
Michiel Sweertsr La peste di Atene
la Ciminiera 11
Gabriele Campagnano
Presidente
Centro Studi Zhistorica
http://zweilawyer.com/
I Mosaici di
Huqoq:
Giuliano e gli
Ebrei
I Mosaici di Huqoq, un villaggio della Bassa Galilea, in
Israele, sono stati scoperti diversi anni fa, ma gli studiosi
impegnati a decifrarli sembrano perseverare in un errore
che è, a mio avviso, macroscopico.
Il più interessante è, senza dubbio, il mosaico ritrovato fra
i resti di una sinagoga del V secolo.
Ad effettuare gli scavi è stato il team della Professoressa
Jodi Magness, della University of North Carolina, la
quale, nel 2015, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni:
“[il mosaico] è composto da tre differenti strisce che contengono
figure umane e animali, compresi degli elefanti. Quella più in
altro, la più grande, mostra l’incontro fra due uomini, che forse
rappresentano Alessandro Magno e un alto religioso Ebreo.”
Per la prima volta, dunque, troviamo all’interno di una
sinagoga una scena tratta dalla storia e non dal Vecchio
Testamento.
Pur apprezzando lo sforzo interpretativo della Prof.
ssa Magness, non appena ho visto le foto del mosaico
ho pensato che l’uomo raffigurato non fosse Alessandro
Magno, ma un grande imperatore romano che, però, regnò
solo per tre anni (360-363): Flavio Claudio Giuliano.
Per le sue credenze pagane, egli fu soprannominato
l’Apostata.
Per quale motivo ritengo che il mosaico ritragga Giuliano
e non Alessandro? Ve lo spiego subito.
Giuliano mostrò sempre grande amicizia nei confronti del
popolo ebraico, tanto che le fonti riferiscono unanimemente
che egli aveva intenzione di ricostruire il Tempio.
12 la Ciminiera
Al giorno d’oggi potremmo considerarlo
un conservatore (con tutte le cautele necessarie
all’applicazione di categorie moderne all’evo
antico), ma in realtà Giuliano apprezzava
i popoli che rimanevano fedeli alle proprie
tradizioni. Questo lo portò a lanciare ai
cristiani accuse del genere:
Perché voi Galilei avete dimenticato l’antico
credo degli Ebrei, assieme a tutti i suoi
insegnamenti e le sue cerimonie?
Egli sosteneva la superiorità del
paganesimo rispetto alle altre religioni,
ma ciò non gli impedì di dire, sempre ai
cristiani:
Considerata nel suo complesso, è preferibile
la religione di Israele al vostro credo appena
creato.
Probabilmente Giuliano aveva un’ottima
conoscenza del Vecchio Testamento o,
meglio, della sua traduzione in greco.
Nella sua famosa lettera agli Ebrei, egli
definisce “fratello” il Patriarca Hillel II
(“Iulon”), Nasi del Sinedrio per quasi
65 anni (320-385). Nella stessa missiva,
Giuliano sancisce l’abolizione delle imposte
speciali chieste agli ebrei ed esprime la
volontà di “vederli prosperare ancora di più”.
Il mosaico di Huqoq
Sottovalutata è invece una richiesta fatta
dall’Imperatore agli ebrei, quella di “pregare
il Creatore (“demiurgo”)” per lui.
Nell’estate del 362, Giuliano (oltre a
essere un filosofo si dimostrò un eccellente
generale e guerriero) era ad Antiochia,
pronto a lanciare una violenta campagna
militare contro i Sasanidi. Si mosse alla
testa dell’esercito quasi un anno dopo, nella
primavera del 363.
È questo il periodo, durato meno di un
anno, cui si riferiscono i mosaici di Huqoq?
Dalla testimonianza di un monaco di
Edessa del VI secolo, pubblicata nel 1880 a
Leiden con il titolo Julianos der Abtruennige
e riportata da The Jewish Quarterly
Review, Vol.5, No.4 (Jul. 1893) a pagina
620 , sappiamo che Giuliano, all’inizio
della sua spedizione contro i Sasanidi, fu
raggiunto a Tarso da una processione di
ebrei provenienti da Tiberiade. Costoro gli
chiesero umilmente di poter ricostruire il
Tempio, e Giuliano diede loro il permesso
di iniziare a gettare le fondamenta (visto
che avrebbe ricostruito il Tempio al ritorno
dalla spedizione militare). È proprio questo,
penso, l’episodio rappresentato nei mosaici
scoperti a Huqoq. L’antico insediamento
la Ciminiera 13
ebraico era infatti a 10 km da Tiberiade
e quest’ultima era stata completamente
distrutta dai romani solo nove anni prima
durante la Rivolta contro Gallo.
“L’alto religioso Ebreo” menzionato dalla
Prof.ssa Magness potrebbe essere il capo
della delegazione inviata da Tiberiade
all’Imperatore romano, ma, visto che la città
non era stata ancora del tutto ricostruita,
Inoltre, la vicinanza cronologica fra la
sinagoga in cui sono stati trovati i mosaici (V
secolo) e la permanenza di Giuliano in quei
territori (fine IV secolo) lascia presupporre
una connessione molto più stretta con
l’Imperatore che non con Alessandro
Magno. È anche molto probabile che il
mosaico sia stato posato qualche anno
prima dell’abbandono della sinagoga
Giuliano-mosaico
è anche possibile che diversi religiosi si
fossero spostati nei centri vicini com’era,
appunto, Huqoq.
Un altro particolare che mi fa propendere
per questa interpretazione è che tutte
rappresentazioni artistiche di Giuliano sono
estremamente simili al ritratto contenuto
nel mosaico di Huqoq. Al contrario, quelle
di Alessandro non hanno né la barba, né la
sottile fascia per i capelli, che invece sono
sempre presenti in quelle di Giuliano. Per
non parlare, ovviamente, della corazza
muscolare che si intravede sotto il mantello.
Comparazione fra la figura trovata
ad Huqoq e alcune rappresentazioni di
Giuliano l’Apostata.
Anzi, durante la sua permanenza in
Oriente, la satira degli abitanti di Antiochia
su Giuliano riguardava spesso la sua barba,
cosa che lo spinse a scrivere un libello
satirico di risposta intitolato Mispogon (“il
nemico della barba”).
14 la Ciminiera
in questione, portandoci quindi a una
sovrapposizione cronologica perfetta con
l’episodio narrato dal monaco di Edessa.
I soldati sulla destra del mosaico sono
palesemente soldati romani, con tanto
di elmo Berkasovo e scudo tondo con
motivo concentrico (vedi tavole relative agli
scudi nella Notitia Dignitatum). Indossano,
inoltre, la tunica manicata, tipica del tardo
impero, e, in basso a sinistra, si può vedere
anche un soldato (morto) in maglia ad
anelli.
Quanto gli elefanti, che, temo, siano
stati il motivo che ha spinto la Prof.ssa
Magness a dare una didascalia frettolosa dei
mosaici, bisogna sottolineare che furono
utilizzati spessissimo dai sasanidi, specie
contro i Romani. E che gli stessi Romani li
utilizzarono per la logistica.
Sappiamo infatti che, nella decisiva
Battaglia di Maranga, il 22 giugno 363,
Giuliano sconfisse l’esercito sasanide, il cui
centro era formato da elefanti da guerra.
Tuttavia, l’Imperatore morì pochi giorni
dopo per le ferite causate da un giavellotto
(che alcune fonti dicono scagliato da un
legionario cristiano).
Ho inviato una mail alla Prof.ssa Magness
il 5 Agosto 2015, spiegandole lemie
perplessità. In questa scrivevo, tra l’altro:
The mosaic you have found in that ancient
sinagogue it’s of unbelivable value, but i think
the bearded figure in roman dressing depicts
the Emperor Julian the Apostate and not
Alexander the Great.
According to the report compiled by a
monk from Odessa, in 363 Julian met a Jew
delegation from Tiberias (as you know better
than me, it’s very close to Huqoq) on his way
to Sasanian Empire (that had war elephants
to support his infantry). To this delegation, he
promised to rebuild the Temple.
Ovviamente, ho inviato alla Magness
anche tutta la documentazione a supporto.
La sua risposta è stata molto gentile, ma ha
confermato di ritenere più plausibile la sua
spiegazione.
Il mosaico potrebbe essere quindi
fb.cpm/iroceramiche
antecedente alla morte di Giuliano, e
quindi darci un’istantanea dell’incontro fra
Giuliano e gli ebrei nell’imminenza della
campagna contro i sasanidi, oppure essere
successivo.
In questo caso sarebbe una straordinaria
testimonianza di quella pace fra romani ed
ebrei che, sembrata impossibile per secoli,
era stata sancita in modo inequivocabile dal
potere imperiale per finire in frantumi poco
dopo a causa della guerra con i sasanidi
(rappresentati per mezzo della loro unità
militare più rappresentativa, gli elefanti).
Purtroppo, ancora un mese fa, il National
Geographic ha riportato l’interpretazione
“alessandrina”. A questo punto, dubito che
vi sia la reale possibilità di far prevalere la
verità storica sulle opinioni personali degli
archeologi impegnati negli scavi.
Resta da chiedersi, ed è uno scenario
ucronico di eccezionale interesse, cosa
sarebbe accaduto al popolo ebraico se
Giuliano, tornato dalla guerra, avesse
lavorato per farlo prosperare nella sua terra
dopo avergli restituito il Tempio.
la Ciminiera 15
Raoul Elia
Presidente
Centro Studi Bruttium
Il Cristo
dell’Amiata,
una storia di eresia e
spiritualità contadina
dell’ ‘800
Il Cristo dell’Amiata, David Lazzaretti, conosciuto anche
come il “profeta contadino”, assassinato dai carabinieri nel
1978 durante una processione, è sicuramente una figura
emblematica del periodo.
Rappresentante della cultura delle classi subalterne
che fatica ad omologarsi alla cultura imposta e in cui si
intrecciano le istanze di uguaglianza e giustizia sociale e
un’ansia di redenzione di tipo messianico-millenaristico.
Il movimento da lui costituito – di cui ancora sopravvivono
alcuni seguaci, sebbene in una complessa situazione, fra
scismi e rivalse – costituisce (al momento, almeno) l’ultima
eresia popolare italiana.
Chi è Davide Lazzaretti
Le origini del profeta dell’Amiata sono, in effetti,
decisamente “popolari”: Lazzaretti, infatti, nasce il 1
novembre del 1834 ad Arcidosso, un paesino situato sul
Monte Amiata, nella Maremma Toscana, da Giuseppe,
“vetturale” o barrocciaio che dir si voglia, e Biagioli Fausta,
di professione domestica. Nel 1848, il futuro profeta,
cagionevole di salute, inizia a svolgere il mestiere di suo
padre. Sposa poi nel 1856 tale Carolina Minucci da cui avrà
cinque figli (solo due sopravvissuti al loro padre, Turpino
e Bianca).
Nel 1859 si arruola nell’Esercito piemontese e
partecipa alla battaglia di Castelfidardo. Fin qui, nulla di
particolarmente originale. Sembrava essere destinato ad
una vita di stenti e miseria seguendo le orme paterne. Ma
le cose sono lì lì per cambiare…
16 la Ciminiera
La predicazione di Davide Lazzaretti
La vita di Davide Lazzaretti aveva già
avuto una prima svolta a soli quattordici
anni: il 25 aprile del 1848, durante un
viaggio con il barroccio, il non ancora
profeta contadino ha una visione e un
misterioso frate gli predice che la sua vita
sarebbe stata un mistero. Tuttavia, vuoi per
l’età, vuoi per la situazione particolare in
cui si trova, Lazzaretti non sembra dar retta
alla predizione
Ma è nel 1868 che, con una svolta
improvvisa ed inaspettata, Lazzaretti
abbandona tutto ed inizia la predicazione
tra la popolazione locale.
Il 25 aprile 1868, infatti, a distanza di
vent’anni dalla prima, David ha un’altra
visione: lo stesso frate della visione
precedente, dopo avergli riconfermato il
mistero della sua vita, lo invita a recarsi dal
Papa ed a rivelargli quanto visto e sentito.
Nel settembre dello stesso anno, spronato
dalla visione, David si reca a Roma da
Pio IX, dal quale si aspetta chissà quale
accoglienza e investitura; deluso dalle sue
parole di convenienza, si ritira tra i ruderi
di un convento a Montorio Romano. Qui
rimane per circa tre mesi, facendo vita
da penitente, assistito da un frate tedesco
dedito all’ascetismo.
Dopo esser stato a Roma, infatti, il
“Cristo dell’Amiata” decide di cercare il
posto suggerito dall’eremita vagando per
la Sabina fino alle rovine del convento
di Sant’Angelo, abbandonato non da
tanto tempo. Una notte, condotto da una
misteriosa luce, tenuta da un’altrettanto
misteriosa guida, trova una grotta profonda
5 metri: l’eremo del beato
Amedeo.
Il Lazzaretti trascorre
nella caverna tre mesi in
solitudine, eccetto le rare
visite da parte di padre
Ignazio da Heinseusen,
chiamato frate Mikus, che
vive nella cappella di Santa
Barbara.
Nell’antro al Lazzaretti
appare il fantasma di
un antico guerriero, tale
Manfredo Pallavicino, che
afferma di essere un suo lontano avo e lo
informa di essere riuscito a scampare alla
pena capitale decretata dal maresciallo
Lautrec nel 1521 per poi terminare i
suoi giorni proprio dentro la grotta dove
giacevano anche le sue ossa, alle quali prega
David di dare sepoltura.
Durante la sua permanenza all’interno
della grotta, Lazzaretti riceve anche
una particolare sorta di stigmata, una
croce centrale circondata da due lettere
c affrontate. David lascia la grotta il 02
gennaio 1869 e da quel momento si sente
investito del ruolo di nuovo Messia, da cui
il nomignolo di “Cristo dell’Amiata”.
Il 13 aprile 1869, in quello che da allora
viene chiamato il “Campo di Cristo”,
David parla in modo profetico a quanti,
secondo alcune fonti circa 180 persone, si
erano là radunati più per aiutarlo nel lavoro
di bonifica del campo che per ascoltarlo.
Nel Luglio 1869, sulla cima del Monte
Labro, un rilievo montuoso alto 1190
metri sul versante sud-ovest del Monte
Amiata, Lazzaretti inizia la costruzione
della cosiddetta Turris Davidica con pietre
a secco. Accanto ad essa, il profeta del
popolo stabilisce di far erigere una Chiesa
di 12 metri per 12 e, poco distante, anche
l’Eremo, in seguito abitato dagli eremiti
penitenzieri.
Gli anni d’oro del Cristo dell’Amiata
Nel 1870, il Lazzaretti fonda l’Istituto
degli Eremiti Penitenzieri e Penitenti
scegliendo 33 componenti fra gli amici più
fidati. Raggiunge poi l’Isola di Montecristo
la Ciminiera 17
e qui trascorre 40 giorni in preghiere e
digiuno. In questa “location” suggestiva,
anche per l’epoca, verosimilmente il Cristo
dell’Amiata scrive la sua prima opera, “Il
risveglio dei Popoli”, testo dal contenuto
profetico ma anche fondamento della
Società della Santa Lega o Fratellanza
Cristiana che egli aveva fondato nello stesso
anno, agli inizi del 1870. Le Regole della
società sono pubblicate, come si è detto,
nell’estate di quell’anno ne Il Risveglio dei
Popoli, la prima opera a stampa di David
Lazzaretti. La Fratellanza Cristiana ha
per simbolo la carità: si propone il mutuo
soccorso, l’ospitalità, la carità verso gli
infermi, ma anche l’educazione ad un
comportamento religioso, morale e civile di
rispetto e amore nei confronti della Legge
di Dio e delle leggi degli uomini. Nella
pratica, la Santa Lega si configura come
una sorta di società di mutuo soccorso
ante litteram. La Società costituisce
probabilmente l’esperienza più rilevante del
movimento: aperta a contadini, artigiani e
braccianti oltre che a possidenti di capitali,
viene fondata con la messa in comune dei
beni e prevede l’organizzazione sociale
del lavoro e la ripartizione dei proventi. Si
propone come scopo principale la pratica
delle virtù morali e civili da conseguire
mediante l’istruzione; per questo motivo
la Società fonda due scuole, per i figli e le
figlie dei soci. Le Regole prevedono anche
una scuola serale per l’educazione degli
adulti.
Risale al 1871, inoltre, il progetto del terzo
istituto, la Società delle famiglie cristiane,
che riceve per simbolo la speranza ed inizia
le sue attività nel gennaio 1872.
Dopo il ritiro sull’isola, altri quaranta
giorni li passa, sempre in ritiro spirituale,
nella meno suggestiva Palombara Sabina
vivendo in una misera grotta nella boscaglia.
Qui la sua predicazione fa numerosi
“proseliti” come avviene nel Nord Ciociaria
dove la gente accorre in frotta a partecipare
alle sue sedute di preghiera collettiva.
grazie all’aiuto dell’avvocato Giovanni
Salvi. Dopo il rilascio, pubblica “Avvisi
e Predizioni di un Incognito Profeta”,
“Sogni e Visioni di Davide Lazzaretti” ed
altre opere.
Nel 1873 Davide si ritira alla Certosa di
Trisulti.
Si reca poi a Torino dove conosce don
Giovanni Bosco, quindi si trasferisce nel
suo ritiro presso la Certosa di Grenoble,
in Francia, e qui scrive un’altra opera,
“Le livredesFleursCelestes”, di chiaro
contenuto apocalittico.
Tornato una prima volta sul Monte Labro,
Davide Lazzaretti viene di nuovo arrestato
e stavolta condotto direttamente e senza
passare per il via nel carcere di Rieti, dove
viene sottoposto a perizie psichiatriche
inconcludenti. Il profeta subisce in seguito
un processo istruttorio a Rieti ed un
processo d’appello a Perugia. Solo nel
1874 Lazzaretti ottiene la sentenza di piena
assoluzione.
E’ evidente che, di fronte al diffondersi
della predicazione del profeta contadino,
così carica di contenuti apocalittici e
millennaristici, che tanta presa facevano
sulle masse di poveri contadini alla fame,
il Governo, non sapendo che pesci pigliare
(non è il primo caso e, purtroppo, neppure
l’ultimo), decide di agire utilizzando la
“violenza di Stato”, ovvero il carcere
e l’arresto ingiustificati. Ma questa
“attenzione” da parte del potere non fa
che aumentare il consenso del Lazzaretti
nelle classi subalterne e radicalizzarne il
messaggio evangelico.
Il profeta dell’Amiata ritorna di nuovo sul
Monte Labro e qui scioglie le due società,
18 la Ciminiera
Dura LexsedLex
Nel 1871 iniziano i problemi con la legge
per Lazzaretti, che viene infatti arrestato
con l’accusa di truffa e rimesso in libertà
risultate in sua assenza inaffidabili, e
prende in affitto la tenuta di Baccinello.
Nel frattempo, però, non bisogna pensare
che Lazzaretti agisse da solo. Al contrario,
il Cristo dell’Amiata insisteva in un’area
molto vicina al cattolicesimo più avanzato
e popolare; non acaso, infatti, i rapporti
con don Luigi Bosco e il suo entourage
continuano a lungo. E proprio a Torino,
nella casa di Don Bosco, nel 1875, il
Lazzaretti conosce il giudice francese Leon
duVachat, grande sovvenzionatore della
comunità del Monte Labro.
Davide Lazzaretti inizia un pellegrinaggio
in Francia dove scrive il suo libro più
significativo, “La mia Lotta con Dio, ossia il
Libro dei Sette Sigilli”, anch’esso di natura
profetica ed apocalittica.
Nel 1877 compie un viaggio in Inghilterra
per incontrare vari esponenti di chiese
protestanti.
L’inizio della fine
I rapporti con la Chiesa, mai chiariti del
tutto e spesso di opposizione, non dichiarata
ma strisciante, si incrinano definitivamente.
A distanza di pochi mesi dal suo viaggio
nella “perfida Albione”, infatti, David
Lazzaretti viene richiamato a Roma dal
Santo Uffizio e costretto a scrivere ai suoi
sacerdoti sul Monte Labro per convincerli
a sciogliere la congregazione. Il gruppo di
Eremiti, però, decide di rimanere sul Labro
ed elegge anzi i suoi 12 apostoli.
Lo Stato Pontificio, allora, preoccupato
del diffondersi di questa visione “popolare e
millennaristica”, anche se non apertamente
contraria alla gerarchia ecclesiastica,
decide di interrompere la predicazione del
profeta dell’Amiata e proclama gli scritti di
Lazzaretti eretici e sovversivi.
Davide Lazzaretti, nel frattempo, ritorna
sul Monte Labro e annuncia la processione
verso i Santuari di Arcidosso e Castel del
Piano, definita il “manifestarsi al Popolo
Latino”.
Il Delegato di Pubblica sicurezza di
Arcidosso interviene tentando prima di
dissuadere la processione del 18 agosto
con la promessa di un permesso speciale
che tarda ovviamente ad arrivare.
Incalzato dai suoi seguaci (ai quali
lui stesso ha profetizzato accadimenti
miracolosi, mai avveratisi,fin dal giorno
14) Lazzaretti decide di far partire lo stesso
la processione e inizia la discesa dal Labro
alla testa del corteo dei suoi seguaci.
Morte di un profeta
Alle porte di Arcidosso, la situazione
precipita: la folla che assiste alla processione,
pare senza provocazione (ma qualcuno
suggerisce una manovra da parte del clero
locale, sia dietro all’azione di repressione
che di ostracismo) inizia a lanciare sassi dai
lati della strada, sassi che colpiscono sia il
corteo che le forze dell’ordine, schierate fra
la folla e la processione per evitare scontri.
Il Delegato per la Sicurezza, probabilmente
preso di sorpresa, intima a Lazzaretti e
seguaci l’arresto della processione, ma essi
decidono invece di proseguire.
Il Delegato, dimostrando poco sangue
freddo, ordina ai suoi uomini di aprire il
fuoco. Nella confusione che segue gli spari,
Davide Lazzaretti viene colpito alla fronte
da un bersagliere, forse per errore.
Il Cristo dell’Amiata muore la sera stessa
in una abitazione in località Bagnore.
Sulle cause e le responsabilità della morte
dell’uomo non vengono avviate indagini,
anzi…
Dopo la morte
Il cosiddetto “Cristo dell’Amiata” e i suoi
non hanno pace, neanche dopo la morte
del primo.
La salma delsedicente profeta viene accolta
soltanto nel cimitero di Santa Fiora e per
intercessione del parroco del luogo, mentre
gli edifici sul Labro sono immediatamente
depredati e in seguito distrutti a cannonate.
la Ciminiera 19
I lazzarettisti vengono subito arrestati
e processati per attentato alla sicurezza
interna dello Stato e resistenza a pubblico
ufficiale con lesioni gravi, ma la Corte di
Assise di Siena li assolve con formula piena.
Il bersagliere Antonio Pellegrini, che aveva
colpito a morte Lazzaretti, viene ritrovato
cadavere nella città di Livorno, massacrato
con sette coltellate. Anche di questa morte
non si conoscono mandanti ed esecutori,
né è mai stato portato qualcuno davanti
alla giustizia.
Simbolismi e teologia del Cristo
dell’Amiata
La setta è stata, come si diceva più
sopra,prima osteggiata e poi a lungo
perseguitata dalla Chiesa cattolica, per cui è
probabile che i suoi adepti si siano nascosti
e che, per riconoscersi, abbiano utilizzato i
loro simboli, in particolare una Croce su un
Monte per indicare il luogo di provenienza,
la città Santa (Monte Amiata), detta la
“Nuova Sion” o la “Nuova Gerusalemme”,
oltre ad altri segni e simboli, come strumenti
di riconoscimento. Non a caso di simboli
del genere se ne trovano ancora diversi sulle
facciate delle antiche case di campagna
diffuse nell’area dell’Amiata e della Sabina.
Sulle teorie del Lazzaretti, si potrebbe
scrivere a lungo. Poco si sa sulla sua
formazione iniziale, ed è un peccato, perché
ricostruire i percorsi formativi potrebbero
consentire di interpretare meglio soprattutto
la parte millenaristica e profetica dei suoi
scritti, altrimenti un po’ oscuri.
Probabilmente David Lazzaretti colse
nell’aria qualche eco del socialismo
utopistico di Charles Fourier o meglio
ancora di quello cristiano del Lamennais e
del Leroux. Le idee del Lazzaretti tentavano
una conciliazione tra la fede religiosa e
qualche contenuto sociale dell’anarchismo.
Sul Monte Labbro era sorta una comunità
molto vicina a quegli ideali velatamente
umanitari che si mescolavano alle istanze
proto-socialiste. La comunità così nata
aveva dettagliati statuti a base solidaristica
ed era chiamata Nuova Sion. Nuova Sion
avrebbe dovuto essere il primo nucleo di
una messianica “repubblica di Dio” basata
essenzialmente sui movimenti medievali
millennaristici e (più o meno) sulle teorie
di Gioacchino da Fiore ma anche sulle
nascente consapevolezza delle classi
subalterne della propria condizione, che
porterà al diffondersi, sul finire dell’ ‘800,
di forme di socialismo e ai grandi partiti
politici di sinistra del Novecento.
20 la Ciminiera
recensione di
Francesca Ferraro
Letture
consigliate
“Virus, la grande sfida”
non è è un instant book,
maun utile strumento per
capire come si diffondono
le epidemie attraverso il
riesame di eventi passati,
raccontando la storia da altri
punti di vista.
Il prof. Burioni cita
Tucidide, Giovanni di Efeso,
Cassiodoro e cosìscopriamo
che il declino di tante civiltà,
ma anche la ripresa delle
attività produttive, sono
proprio legate alla diffusione
delle epidemie, spesso
determinate dall’utilizzo di
rete stradale e rotte navali.
In questo libro, Roberto
Burioni, con il prof. Pier
Luigi Lopalco, esperto
epidemiologo,utilizza la sua
Roberto Burioni - Virus, la
grande sfida – Dal Coronavirus
alla Peste: come la scienza può
salvare l’umanità.
esperienza scientifica, di medico e ricercatore, per far
capire anche a un lettore comune, la natura e l’andamento
dei virus e come avviene il passaggio (spillover) dagli
animali all’uomo.
Il libro è particolarmente interessante per chi vuole
capire le relazioni tra i comportamenti umani e l’avvento
di malattie sconosciute, il rapporto con l’evoluzione
storica dei luoghi, il legame tra superstizione e realtà,
l’ottusa obbedienza e la libertà assoluta del pensiero
scientifico.
È un libro che si legge piacevolmente, nonostante il
tema sia particolare, e le riflessioni effettuate aprono
nuovi scenari per la ricerca storica, raccontando da
altri punti di vista la causa del declino di civiltà come
quella di Atene e di Costantinopoli, invitando a leggere
contemporaneamente più fattori quali quelli sociali,
economici, politici, e, come oggi scopriamo in maniera
molto evidente, epidemiologici.
Il Prof. Roberto Burioni ha realizzato un’opera
accessibile a tutti, non solo perché comprensibile e
chiara, ma perché i meccanismi narrativi la rendono
particolarmente piacevole e interessante.
Ci spiega che “Per combattere un’epidemia sono
indispensabili rapidità e strategia. Più si tarda, più si rischia
la sconfitta”. I proventi della vendita del volume andranno
alla ricerca sui coronavirus perché “Non possiamo sapere
quando sconfiggeremo il coronavirus. Ma sappiamo che
l’unica arma su cui contare è la scienza.”
la Ciminiera 21
La Fiat 500 elettrica?
mai saputo!
di Lino Natali
Per noi italiani la Fiat 500, nelle
sue numerose versioni, ha segnato
il piacere della gioventù e la guida
spericolata. La ricordo ancora con
nostalgia, io ne avevo una che
chiamavano 500R e un altra 500L
con tettuccio apribile (la mia prima
macchina, pagata da me, a 26.000
lire al mese). Avviamento a levafilo,
cambio marcia con doppia
debraiata e vano motore aperto,
oltre che per farne sentire il rugito,
per raffredarlo.
Tutti ricordi che fanno parte di
una filosofia di vita ormai perduta
e chiusa nel cuore.
In questi giorni mi è capitato
per le mani un numero di un
fumetto del 1967, e precisamente
un Albi dell’Intrepido della casa
editrice Universo, nel sfogliarlo
sono rimasto alquanto stupefatto
da un articolo sulla mitica 500
avente come titolo “Le elettriche
aumentano”. Vi propongo quelle
pagine sicuro di far piacere a molti
della mia generazione e vi chiedo:
“In tempi in cui le auto elettriche sono
un obiettivo della mobilità dei vari
paesi chi era a conoscenza di questa
notizia nel lontano 1967 ?” Io no!.
22 la Ciminiera
Coscienze Umiliate
Il Sud in tragiche storie d’ Amore e di Morte
terzo episodio
Angelo Di Lieto
PRESENTAZIONE
Le grandi figure storiche
femminili non sempre hanno
avuto fortuna nella vita, né
sono vissute felici di stare in
un corpo femminile.
Spesso il prodotto donna è
una negativa manipolazione
della cultura di una società
retta da uomini che relega
la donna in alcuni ruoli e
non consente un’autonomia
ed un’individualità paritaria,
come dovrebbe essere per
tutti gli esseri della terra,
probabilmente imputabile
ad un falso e primitivo
convincimento inerente il suo
stato di essere fragile, debole
e come tale bisognosa sempre
di ricevere, dalla costante
presenza maschile, protezione
e sicurezza.
Lo scontro antropologico tra
sessi, nel consuntivo passato,
è risultato per le donne
perennemente perdente,
perché esse hanno avuto
reiteratamente grandissime
difficoltà ad entrare “in
diretta” nel manipolato ed
adamantino meccanismo
culturale maschile ed a porsi
su un bilanciato e paritario
piano di rispetto e di difesa
dei propri diritti, della propria
indipendenza e dignità.
Le antiche tragiche storie
rinvenute, costituiscono,
nella realtà presente, la prova
del radicale ma anche del
lento cambiamento di una
retrograda e distorta visione
che si aveva nei secoli passati.
Lacrime ed Amore in
Isabella
Caracciolo, Duchessa
di Mesuraca
Nel 1528, dopo l’elezione a Re di Francia di Francesco I di
Valois d’Angoulême (1515-1547), figlio di Carlo d’Orléans,
venti di guerra sorgevano in Calabria.
Il neo eletto aveva deciso di conquistare con le armi il Regno
di Napoli ai danni di Carlo V, Re di Spagna.
Sino al campo di Poggio Reale la campagna di occupazione
era stata affidata a Lotrecco, coraggioso guerriero, mentre
da Napoli in poi, l’incarico era stato assegnato al Duca di
Capaccio, il quale, con un forte esercito, doveva occupare il
resto delle Province Meridionali.
Quando il Governatore della Calabria Don Pietro d’Alarcona
di Mendoza, che stanziava in Calabria, fu informato dell’arrivo
del Duca di Capaccio, si recò a Castrovillari, in provincia di
Cosenza, al fine di avere nella difesa un valido aiuto nella
persona del Duca Ferrante Spinelli, sino a quel momento
strenuo difensore del potere della Casa d’Aragona.
Il Duca Ferrante, com’era stato ben previsto dal Governatore
Don Pietro, subito offrì il suo braccio ed il suo esercito e nello
stesso tempo diede spontanea e sincera ospitalità al Governatore
ed ai suoi soldati. In cambio Don Pietro gli diede il comando
generale dell’intero esercito imperiale.
Intanto il Duca di Capaccio avanzava distruggendo e
bruciando tutti quei paesi che si opponevano al suo passaggio,
nonché trucidando gli uomini che avevano tentato la difesa del
loro sito.
Nel timore che per qualche motivo la situazione volgesse
al peggio, sia Don Pietro che Don Ferrante decisero di farsi
ospitare dalla Città di Catanzaro, che effettivamente li accolse
con grande festosità ed entusiasmo.
Quando si apprese della caduta di Rossano e che il Governatore
la Ciminiera 23
si trovava a Catanzaro, numerosi nobili signori,
con i loro eserciti, fecero rotta verso Essa, per
difendere questa valorosa e fortificata Rocca
imperiale aragonese.
Ad un tratto, però, successe un fatto strano.
Sia il Viceré Don Pietro, che il suo Comandante
Generale Don Ferrante restarono colpiti dalla
visione di una giovane fanciulla, la quale, tra
le lacrime e la commozione degli avvenimenti,
ed anche innanzi alla pietosa curiosità ed
all’intenzione del Governatore di esserle utile
e di aiutarla, raccontò che si chiamava Isabella
Caracciolo e che si era rifugiata nella piazza di
Catanzaro perché “i terrazzani”, cioè i cittadini
di “Mesuraca” (oggi Mesoraca, in provincia di
Catanzaro), temendo l’aggressione del Duca
di Capaccio e le stragi che effettuava verso chi
si opponeva, avevano manifestato l’intenzione
di accoglierlo festosamente con tutto il suo
esercito.
Innanzi a tale insensata decisione, il padre
di Isabella, si era opposto strenuamente,
ribadendo che bisognava sostenere la piena
fedeltà alla Corona Aragonese e non di aprire
le porte della Città al nemico.
Proseguendo nel suo racconto, Isabella
precisava che quel giorno la piazza di
Mesuraca si presentava in pieno tumulto. Il
Duca Caracciolo, sperando di poter calmare
gli animi e di far ragionare la folla impazzita, si
recò personalmente in piazza col figlio cercando
di placare i più facinorosi e di convincerli alla
difesa. Non furono affatto ascoltati, anzi, ad
un certo punto, quei sanguinari inferociti,
pur di risolvere il problema a modo loro e
subito, afferrarono il Duca ed il giovane figlio
e li uccisero barbaramente, trascinando poi in
piena euforia i loro cadaveri per tutte le strade
del paese.
Isabella Caracciolo si era salvata per miracolo
grazie all’immediato intervento di un parente,
il quale, attraverso una porta segreta l’aveva
condotta attraverso i campi sino a Catanzaro.
Innanzi al racconto ed al pianto della donna,
tutti restarono commossi, nel mentre il Duca
Ferrante, da nobiluomo, nel mentre invitava
la giovane Isabella a trovare conforto nella
Fede ed in Dio, dall’altra prometteva che
allorché vi sarebbe stata la vittoria definitiva
sui francesi e la successiva rioccupazione del
territorio di Mesuraca, avrebbe provveduto
immediatamente a punire i colpevoli di
quell’ingiusta strage.
Infine, chiedendo l’assenso del governatore,
che acconsentì, aggiunse che l’unica soluzione
per dare un po’ di pace all’animo della nobile
donna era quella di affidarla alle Suore di S.
Chiara di Catanzaro, che sicuramente nella
preghiera e nella spiritualità dell’ambiente, le
avrebbero dato conforto, amore e grande forza.
Risolto umanamente questo caso, Don
Ferrante ritornò con i suoi pensieri ai
preparativi di guerra contro il nemico che
avanzava, e così, per prima, pensò di dividere in
24 la Ciminiera
zone la Città, affidando i quartieri a tutti i fedeli
e nobili difensori della Dinastia aragonese
Nel frattempo il Duca di Capaccio, dopo
aver visitato nei pressi di Simeri il suo
esercito costituito da circa 4000 uomini,
inviò un messaggero verso la Città fortificata
di Catanzaro, assicurando che l’avrebbe
ugualmente distrutta e saccheggiata anche in
caso di immediata e pacifica resa.
Don Pietro d’Alarcona di Mendoza, invece,
rispose pregando l’araldo di riferire al Duca
di Capaccio che se egli, come si vantava, era
così valoroso nelle armi, questa era l’occasione
buona per dimostrare il suo valore alla fedele
Città di Catanzaro.
Il 4 giugno 1528 Francesco di Loria,
Signore di Tortorella, anch’egli con un grosso
esercito alloggiato in un campo nei pressi del
fiume Corace, inviò ai Dignitari della Città di
Catanzaro un altro identico messaggero.
La risposta non mutò, per cui, anch’egli
decise per il giorno dopo di assalire la Città.
Don Pietro, intanto, appena informato
dell’imminente attacco, invece di attendere
l’assalto, preferì affrontare in campo aperto il
forte esercito. Durante la giornata la battaglia,
con fasi alterne, fu sanguinosa ed accanita, ma
alla fine la Città di Catanzaro ebbe la meglio,
finché le truppe nemiche, verso sera, si diedero
alla fuga. Al suono della tromba tutti furono
invitati a rientrare e a portare dentro i morti, i
feriti e gli stessi prigionieri.
Grande fu la gioia della Città innanzi a questa
sudata vittoria, nel mentre i fuochi accesi sugli
spalti illuminavano la festosa allegria di quei
combattenti.
L’8 giugno il Duca di Capaccio, innanzi
alla sconfitta dei giorni precedenti, decise
di assalire nuovamente la Città. Ma il
Governatore, forzato anche da alcuni
ardimentosi che avevano incominciato a fare
stragi dei loro aggressori con gli archibugi,
ancora una volta attaccò in campo aperto il
forte esercito nemico. Moltissime furono le
perdite da entrambi le parti, però ad un certo
punto, quando il Duca di Capaccio si accorse
che era perfettamente inutile resistere, decise di
ritirarsi momentaneamente e di riorganizzarsi.
Anche i soldati del governatore rientrarono
nelle mura della Città.
Il Duca di Capaccio, prima di attaccare
nuovamente, pensò di affamare la Città
distruggendo case coloniche, granai ed alberi
da frutta, ma gli assediati, erano ben forniti
di grano e di bestiame, nel mentre i cittadini
erano ben decisi a difendere la Roccaforte ed
il loro onore.
Numerosi furono in quei giorni i tentativi di
penetrare a qualsiasi costo in Città, ma nelle
scaramucce i soldati francesi subirono sempre
gravi perdite, per cui il loro morale cominciò
a cadere.
Intanto la moglie di Don Pietro d’Alarcona,
per distrarre un po’ tutti da quel particolare stato
di tensione, pensò di organizzare dei giochi,
invitando non solo le donne catanzaresi, ma
anche quelle che potevano venire da fuori città
a vedere le giostre.
Un giorno, il Duca Ferrante Spinelli, che
bruciava d’amore per Isabella Caracciolo,
già da quando l’aveva vista per la prima
volta, si accorse che su di una finestra vi era
la Viceregina, moglie di Don Pietro. Dopo
averla salutata cavallerescamente, le confidò
che amava Isabella e che intendeva sposarla.
La Viceregina ringraziò il nobile duca
della confidenza fattale ed aggiunse che
effettivamente la giovane fanciulla di Mesuraca
era bella, saggia e prudente.
Il Duca, inoltre aggiunse che quando Isabella
Caracciolo era entrata nel monastero, lui
stesso le aveva dato assicurazione che si
sarebbe personalmente adoperato con tutti i
mezzi pur di vendicare il padre ed il fratello
trucidati in quel tumultuoso giorno nella
piazza di Mesuraca.
In ultimo suggerì, dopo il permesso del
Vescovo e di Don Pietro, che sarebbe stato
opportuno farla uscire dal monastero per
distrarla un po’ con le altre signore durante i
giochi e soprattutto per poterle dichiarare il
suo amore.
La Viceregina colse a volo l’occasione e si
recò dal marito e dal vescovo che nel frattempo
stavano insieme e li pregò di promettere di
rendere realizzabile quanto avrebbe loro
chiesto.
Don Pietro ed il Vescovo promisero
immediatamente e così, non appena conobbero
la confidenza, con grande gioia diedero subito
l’assenso affinché Isabella Caracciolo uscisse
dal Monastero per assistere ai giochi.
Infatti concludere il matrimonio con una
persona distinta, molto degna e fedele,
la Ciminiera 25
era anche un obiettivo politico oltre che
sentimentale, perchè significava che la Corona
di Spagna avrebbe sempre potuto contare su
Don Ferrante e sul territorio di Mesuraca.
La Viceregina avrebbe pensato poi a
completare la sua parte invogliando Isabella
ad accettare quest’ottimo partito che le
veniva offerto, ovviamente senza riferire dei
retroscena che già si erano delineati. Infine,
accorse subito dal Duca Don Ferrante a dargli
la notizia che desiderava.
Così alla vigilia dei giochi, la Viceregina,
con la Madre ed altre nobili signore del
territorio, si recarono al Monastero di S.
Chiara per comunicare l’invito prima alla
Madre Superiora e poi ad Isabella, che fu ben
lieta di accettare e di allontanarsi dal Ritiro per
assistere alle competizioni dei cavalieri. In tal
modo, tutti festosamente se ne uscirono per
ritornare a casa, consci, come concordato, che
durante il tragitto Don Ferrante si sarebbe fatto
trovare con altri cavalieri lungo la strada per
offrirsi ed accompagnare al palazzo Isabella
e quelle nobili signore. Ovviamente durante
il cammino il Duca Ferrante ne approfittò
per lanciare sguardi amorosi verso la bella
cortigiana.
Quella sera, in onore di Isabella, fu offerta
una cena suntuosa, festosa ed allegra e tutti si
intrattennero sino a notte tardi conversando
soprattutto dell’orribile disgrazia che
era capitata ad Isabella e del valore e del
coraggio di Don Ferrante Spinelli, Duca di
Castrovillari, nel mentre la Viceregina trovava
in ogni circostanza le parole e gli argomenti
per infiammare il cuore della giovane verso un
così valoroso cavaliere.
26 la Ciminiera
Quando le Signore si resero conto che era
ormai tardi e che i Signori uomini, al mattino
avrebbero dovuto partecipare alla giostra
in piena forma, si ritirarono tutte nelle loro
stanze.
Dopo poche ore la luce del giorno comparve
col sole, mentre i cavalieri incominciarono
a preparare con i finimenti e le armi i loro
destrieri.
Proprio quando i cittadini cominciavano già
a pregustare l’aria di festa, arrivarono alcuni
“terrazzani”, che fuggiti dalle schiere del Duca
di Capaccio, avvisavano il Viceré Don Pietro
che l’esercito nemico, formato da circa 11 mila
uomini, stava per muovere contro la Città per
assalirla e distruggerla rovinosamente.
A questa notizia, scattò immediatamente
l’allarme generale. Il Viceré invitò tutte le
persone abili ad arruolarsi e a difendere le
loro case e le loro famiglie. Nello stesso tempo
le nobili signore, deluse che quella giornata
di divertimento e di festa era ormai svanita,
si diedero ad incoraggiare i loro cavalieri
stimolandoli a combattere con ardimento,
onore e forza, perché solo così avrebbero avuto
la possibilità di uscirne vincitori e sconfiggere
l’odiato Duca di Capaccio.
Innanzi al nemico che avanzava, Don
Pietro pensò di lasciare in Città un certo
numero di soldati per la difesa, nel mentre il
resto dell’esercito, che disponeva di numerosi
cavalli ed armi, lo divise in cinque schiere e li
piazzò nella pianura di Sala, (località nel lato
sud di Catanzaro) per affrontare il nemico non
in difesa, ma in campo aperto ed in un grande
ed inaspettato scontro.
Quando le donne videro che i due eserciti si
stavano per scontrare e che l’animo dei soldati
s’infiammava sempre più per la battaglia,
alimentato dal suono degli strumenti musicali
che accompagnavano gli inni e le urla di guerra,
s’inginocchiarono, mettendosi a pregare.
Isabella guardava il suo uomo ed in cuor
suo sapeva che sarebbe stato il più valoroso di
tutti e che ne sarebbe uscito vittorioso. Però,
quando pensava al peggio subito si rattristava,
nel mentre lacrime di commozione le rigavano
le morbide guance.
La Viceregina, che in quegli attimi la stava
osservando, le chiese il motivo di quelle lacrime
e quando Isabella le riferì che temeva che quel
momento di fortuna potesse nuovamente
girare a suo sfavore, la Viceregina, sorridendo,
la rincuorò precisando che Dio avrebbe dato a
loro la vittoria ed a lei il suo duca.
A quelle parole una grande gioia l’invase e
poi con la Viceregina si mise a osservare con
attenzione e trepidazione la battaglia.
Quando le trombe diedero il segnale d’attacco,
prima si mossero i cavalli e poi i fanti con le
lunghe lance. Lo scontro fu violentissimo tra
i due eserciti, vi furono cavalieri disarcionati,
i quali, anche se storditi dall’impatto e
dalla caduta da cavallo, tentarono subito
un’immediata difesa.
Vi erano cavalli che nell’impeto crollavano
a terra, dopo aver subito un violento scontro
cranico, oppure che si allontanavano smarriti
dopo aver perso il loro padrone; scudi che
si rompevano per lo scontro, lance che si
spezzavano nell’urto, nel mentre a terra vi
erano ovunque morti e feriti. La polvere, poi,
che si alzava, non consentiva di vedere che
ombre che lottavano fra loro.
Il Duca Don Ferrante, come “un drago”
furente, si muoveva per tutto il campo, colpendo
con grande forza tutti i nemici che incontrava.
Ugualmente Don Pietro, con pari abilità ed
ardimento, faceva ruinare a terra morti cavalli
ed uomini. Ugualmente gli altri cavalieri, come
Piterà Giovanni, Antonio Benante, Paolo
dello Stocco, GiovBattista Ricca e Roberto
Susanna, corsi a difesa della corona aragonese,
menavano fendenti con grande vigore e valore.
Non di meno erano i cavalieri francesi.
Intanto man mano nuove schiere, o francesi
o aragonesi, secondo le alterne fasi della
battaglia, scendevano in campo per rinforzare
le file e sostituire i soldati feriti e morenti. Le
grida di incitamento, di dolore e di sofferenza,
si elevavano in cielo, unitamente ai nitriti dei
cavalli ed al suono dei tamburi. Le donne
continuavano a pregare e speravano che
l’ardimento dei loro uomini li facesse uscire
vittoriosi ed incolumi. Anche Isabella seguiva
attentamente il suo uomo, preoccupandosi
ogni tanto quando lo vedeva in pericolo e
rallegrandosi invece quando facendosi largo
tra i nemici menava colpi mortali in tutte le
direzioni. Per i numerosi morti ed i feriti che
giacevano sul campo, unitamente ai diversi
cavalli moribondi, ogni tanto i cavalieri, per
l’impossibilità di muoversi liberamente tra i
corpi, erano costretti a riversarsi verso spazi
liberi per ricominciare a duellare.
Solo coll’avvicinarsi della notte, i francesi
incominciarono a capire che la battaglia era
purtroppo persa, per cui cominciarono a
ritirarsi, addolorati della sconfitta subìta da
quei diavoli aragonesi usciti dall’inferno.
Vinta la battaglia, anche i vincitori, in
prossimità del palazzo del Viceré, cominciarono
a rientrare, nel mentre le grida di allegria e di
gioia delle donne che andavano loro incontro
venivano soffocate dall’abbraccio dei cavalieri.
La Viceregina era invece preoccupata per una
ferita che il Viceré Don Pietro aveva avuto al
fianco, anche se egli la confortò minimizzando
il fendente ricevuto.
Il Duca Don Ferrante era più gravemente
ferito, ma innanzi alle preoccupazioni di
Isabella, l’assicurò che la sua ferita più grave
era nel cuore e che l’aveva ricevuta in tempo
di pace.
D’incontro Isabella replicò che se avesse
potuto guarirlo, sarebbe stata ben felice di
alleviargli il dolore, per intanto era essenziale
curargli la ferita del corpo, per poi poter sanare
anche quella dell’anima. A quelle parole
alleviatrici il Duca le prese la mano e gliela
baciò.
Intanto il Conte di Capaccio preferì ritirarsi
nelle Puglie, mentre Don Pietro ritenne
opportuno rinunciare all’inseguimento, anche
perché si era creato un eccessivo distacco tra
i due contendenti ed anche perché l’esercito
catanzarese non sarebbe stato più nelle
condizioni di raggiungerlo e di aggredirlo.
Dopo il successo militare, a Catanzaro
si stavano preparando i festeggiamenti per
la brillante vittoria ottenuta sui francesi, nel
la Ciminiera 27
mentre il Duca Don Ferrante, per il grande
amore che aveva nel petto, desiderava che il
suo matrimonio con Isabella si svolgesse prima
dei festeggiamenti e non dopo. E così si recò
dalla Viceregina, che intanto s’intratteneva con
alcune signore e con Isabella, perché il contratto
di matrimonio venisse immediatamente messo
in atto.
Isabella fu radiosa di vederlo e gli riferì che
sapeva della sua venuta in quel luogo e dei suoi
propositi, per cui sarebbe stata felicissima “ di
fare tutto quello che il suo cuore desiderava”.
Don Ferrante la ringraziò della sua
“benevolenza” nei suoi confronti e dell’amore
rivoltogli per curargli con i chirurghi la ferita,
sollecitandola a proseguire nell’attenzione
perché la piaga non facesse marcire la carne.
Nel frattempo la Viceregina, rivolgendosi al
Duca Don Pietro suo marito ed ai nobili che
in quel momento confabulavano e discutevano
proprio dell’imminente matrimonio di
Isabella con Ferrante Spinelli, rappresentò
che sarebbe stato opportuno che la cerimonia
nuziale avvenisse, come suggerito, prima dei
festeggiamenti e non dopo.
Don Pietro fu contento perché con quel
matrimonio sarebbe sorto un gran bene per
tutti. Le nobili signore corsero subito da
Isabella ad annunziarle la lieta notizia, che
già aveva appreso anticipatamente dalla
Viceregina. Nella circostanza la Viceregina,
rivolgendosi ad Isabella, aveva incominciato a
riferirle che era giunto il momento di togliersi
“le nere gramaglie” e di indossare invece
abiti più allegri e festosi, ed inoltre, che tutti,
conoscendo ormai il suo animo e la sua bontà,
erano stati contenti di offrirla in isposa ad
un nobile e valoroso cavaliere come il Duca
Ferrante Spinelli.
Isabella, un po’ imbarazzata e non volendo
far trapelare che il suo cuore era trepidante
di amore e di gioia, soggiunse che dato che
le era stato “destinato” un marito da persone
così nobili e degne, sarebbe stata scortesia
rifiutare. E così tutti insieme si recarono da
quei cavalieri che in precedenza discutevano
del matrimonio del loro compagno d’armi e
con essi stabilirono la data della celebrazione
delle nozze. Com’era prevedibile quel giorno
Isabella si levò il lutto, nel mentre il Vescovo
di Catanzaro, Antonio de Paula, consacrò il
matrimonio benedicendo il Ferrante e la sua
virtuosa sposa.
Il popolo catanzarese accolse con felicità e
gioia questo matrimonio, mentre la cena che si
svolse in loro onore, fu allietata da danze, balli,
fuochi e giochi. Isabella ballò persino con tanta
grazia ed abilità da essere applaudita e lodata
da tutti gli invitati che s’intrattennero sino al
mattino.
Nel frattempo le azioni di guerra si erano
placate, le feste si protrassero per altri dieci
giorni, nel mentre il Viceré e la Viceregina
si fermarono a Catanzaro per lungo tempo,
con l’intento di godere la Città nella sua
salubrità e bellezza. Dopo i festeggiamenti,
la sposa, con altri nobili signori e signore,
come Roberto Susanna, Giovbattista Ricca,
il Sanseverino, Giovanni Piterà ed altri, per
protezione, li accompagnarono sino alla loro
casa di Mesuraca.
Quando coloro che avevano ucciso il padre
ed il fratello di Isabella seppero dell’arrivo di
Don Ferrante Spinello a Mesuraca, sapendo
che lo sposo era un valoroso guerriero, di
questi alcuni fuggirono, altri chiesero perdono,
mentre quelli invece che avevano osteggiato
i francesi, si recarono dagli sposi con corone
di fiori, assicurando la loro piena e totale
devozione ed obbedienza.
Il Duca Don Ferrante, per come si era
giurato, pian piano fece giustizia di tutti coloro
che avevano ostacolato il padre ed il fratello di
Isabella o che avevano partecipato all’eccidio
ed al dileggio ed anche allo scempio dei loro
corpi.
Quando gli amici che avevano accompagnato
gli sposi si accorsero che ormai tutto il paese
era ritornato alla normalità, partirono per le
loro case, le loro terre e la loro patria.
Questa storia fu scritta dal sacerdote e
canonico della Cattedrale di Catanzaro,
Don Francesco Garcea di Leone, che aveva
partecipato a tutte le vicende ed alle varie
guerre, prima di divenire ministro di Dio,
scrivendo di notte quello che viveva di giorno.
Bibliografia
- “Racconti Calabresi” per Achille Grimaldi : “Isabella Caracciolo” - “Episodio dell’Assedio di
Catanzaro del 1528” - Stamperia del Fibreno - Napoli - Anno 1860.
28 la Ciminiera
Amore e bellezza
nella tragica fine della
Principessa
MARIA D’AVALOS
Maria d’Avalos, famosa per la sua bellezza
e nobiltà, appartenente ad uno dei Casati più
potenti della feudalità italiana, di stirpe reale
d’origine spagnola, i cui membri avevano
avuto tra l’altro grandi onori sui campi
di battaglia, era figlia di Carlo d’Avalos,
Principe di Montesarchio e di Sveva
Gesualdo, sorella di Fabrizio II, Principe di
Venosa.
Il bisavolo di Maria, Innico o Iñigo d’Avalos
(morto in Napoli il 1484) e Gran Camerlengo
dal 1449, figlio di Rodrigo d’Avalos, Conte di
Ribadeo, che aveva seguito Alfonso d’Aragona
a Napoli, aveva sposato Antonella d’Aquino,
discendente di S. Tommaso ed aveva avuto
due figli: Ferdinando Francesco o Ferrante
d’Avalos, che fu Marchese di Pescara e che
nel 1509, a venti anni, sposò Vittoria Colonna,
una delle più famose rimatrici del ‘500, ed
Alfonso, Marchese di Vasto, che sposò Maria
d’Aragona. Da questo matrimonio nacque il
figlio Carlo d’Avalos, che nel 1541 fu battezzato
a Milano proprio dall’imperatore Carlo V, che
volle anche imporgli il suo nome.
Dal matrimonio di Carlo d’Avalos con Sveva
Gesualdo, quest’ultima in seconde nozze
perché già vedova nel 1554 di Pietrantonio
Carafa, Conte di Policastro, nacquero Alfonso
Francesco, Ferdinando e Maria nel 1560.
La madre Sveva Gesualdo, con un
matrimonio combinato nel parentato, nel
marzo del 1575, sposò a quindici anni, la bella
Maria d’Avalos con Federico Carafa, figlio di
Ferrante Carafa, marchese di S. Lucido e di
Donna Beatrice della Marra, definito dai nobili
dell’epoca “un angelo terreno”. Dal Carafa
ebbe due figli.
Bellissima come una Venere lei, lui un
potenziale Achille. Questi parlava in modo
corretto lo spagnolo, il latino ed il greco, solo
che sfortunatamente nell’ottobre del 1578,
improvvisamente morì.
Nel dicembre del 1580, con doppie nozze,
Maria andrà in Sicilia per sposare il marchese
Alfonso Gioieni, mentre il fratello Alfonso
Francesco, si unirà in matrimonio con la
sorella Margherita Gioieni.
Ma la Sicilia non portò fortuna alla famiglia
d’Avalos, perché Alfonso Francesco d’Avalos,
nel 1584, resterà vedovo di Margherita
Gioieni, mentre Maria, a distanza di due anni,
rimarrà anche lei vedova di Alfonso Gioieni.
Alcuni maliziosi cronisti riferirono che i
due mariti erano morti a seguito di reiterati
“congiungimenti” con la bella Maria.
Alfonso Francesco d’Avalos, il fratello di
Maria, morirà nel 1590 per avere accompagnato
via mare a Palermo il Viceré e la Viceregina.
Infatti, all’atto dello sbarco, la banchina, per
carenza di legname, si piegò su se stessa, ed
la Ciminiera 29
Alfonso, con le sue pesanti armi, annegò
miseramente con una cinquantina di guerrieri.
Rientrata a Napoli, a ventisei anni, e
precisamente nel 1586, le fu combinato, con
dispensa papalina di Sisto V, il matrimonio con
Carlo Gesualdo, Signore di Venosa e cugino
di sangue per ramo materno, nato il 1563. Di
lui sapeva soltanto che amava la musica ed
il canto. Appunto perché cugini di 1° grado,
prima il Papa rifiutò di dare loro la dispensa,
ma poi, a seguito di pressioni del patriziato
napoletano, dovette assentire suo malgrado.
Dopo la celebrazione del matrimonio avvenuto
il 1586, i due andarono ad abitare in una casa
reale di vico S. Domenico n° 9 di Napoli, vicino
la Chiesa di S. Domenico, oggi più nota come
Palazzo Sansevero, nel quale dimorò nel XVIII
secolo il Principe di S. Severo, Raimondo de
Sangre, filosofo, alchimista ed appassionato di
magia e di ricerche esoteriche.
Questo palazzo divenne famoso perché il
Principe de Sangre aveva fatto collocare nella
cripta, edificata nel 1753, il famoso Cristo
velato, il cui mistero è legato ad un sudario
di marmo trasparente, il quale con un artifizio
ancora insoluto, fa “trasparire” sotto il
bellissimo viso del Cristo morto.
Di Carlo Gesualdo oggi si conosce
l’immagine, perché su di una tela risulta
raffigurato con un colorito giallastro, col viso
allungato, bocca piccola, occhio spento ed aria
assente e malinconica.
La vita nelle corti seduce, perché uomini
e donne s’incontrano e godono trastullarsi
Ritratto di Carlo Gesualdo
e svagarsi con buone maniere, educazione,
gentilezza e civiltà. Lì si chiacchiera, si danza,
si suona e la musica parla quasi sempre di
amore. Anche durante i banchetti la musica
accompagna il canto. La caccia, che è lo sport
preferito, spesso nasconde trappole agli stessi
cacciatori, perché, proprio durante le battute,
si creano occasioni per far sorgere nuovi ed
infelici amori.
Carlo Gesualdo, Principe di Venosa, era nato
dal matrimonio di Fabrizio II e da Geronima
Borromeo, sorella di Carlo Borromeo, il futuro
Santo, ed era inoltre nipote del Papa Pio IV.
Il padre di Fabrizio II, Luigi IV, il 30 maggio
1561, pur avendo acquistato il feudo vent’anni
prima per 24 mila ducati, su designazione
papalina ed accettazione del Re di Spagna
Filippo II, fu finalmente nominato Principe di
Venosa, con diritto di trasmissione agli eredi,
mentre un fratello di Fabrizio II, Alfonso, per
aver ben gestito il matrimonio tra il germano
e Geronima, il 26 febbraio 1561 fu nominato
cardinale.
I festeggiamenti per il matrimonio della
bella Maria d’Avalos col cugino Don Carlo
Gesualdo, Principe di Venosa, durarono,
com’era costume dell’epoca, giorni e giorni.
La città di Venosa, all’epoca dell’acquisto da
parte di Luigi IV, che era già barone del feudo di
Gesualdo, a seguito del catastrofico terremoto
del 1456 e della terribile peste del 1501, si
ridusse numericamente dai diciottomila
abitanti a poco più di seimila.
La famiglia Gesualdo, grazie sempre ai
matrimoni ben studiati su base politica ed
economica, ed alla contestuale ottima gestione
delle cospicue rendite, contrariamente alla
maggior parte dei feudatari che si erano ridotti
sul lastrico per i divertimenti, per i lussi ed
anche per gli aiuti che offrivano al Re nelle
diverse guerre, aveva un notevole patrimonio
produttivo. Parimenti Fabrizio fu un abile
amministratore dei suoi feudi, (a Venosa
fondò altresì un Monte di Pietà), ed essendo
un appassionato di musica e di Arte, fu anche
un mecenate verso tutti gli artisti.
Questo cenacolo domestico, senza dubbio
dovette influire notevolmente sulla sensibilità
del giovane Carlo Gesualdo, secondogenito.
Il primo, Luigi, morì all’età di 21 anni, in
prossimità delle nozze.
Così Carlo, il Principe Venosino, nato nel
30 la Ciminiera
comprensorio di Napoli intorno al 1563 e
educato con seri e particolari studi nelle arti
musicali dai più insigni musici del viceregno
partenopeo, grazie anche ai numerosi ed illustri
frequentatori del cenacolo di casa Gesualdo,
divenne soprattutto il “Principe dei Musici”.
Portava sempre con sé due voluminosi libri,
che contenevano tutte le sue composizioni e
si esibiva ovunque per suscitare la meraviglia
dei suoi ascoltatori e per diffondere la sua arte.
Veniva ritenuto “un raro suonatore di molti
strumenti e del liuto in special modo…”.
Nel suo Cenacolo vi erano insigni musicisti
del tempo, come l’organista e suonatore di
liuto ed arpa Giandomenico Montella, il
cembalista Scipione Stella, il suonatore di
viola ad arco Antonio Grifone e poi Fabrizio
Gazzella, Rocco Rodio, Scipione Dentice,
Fabrizio Filomarino, questi ultimi tutti esperti
di chitarra a sette corde e di cembalo.
In quel tempo non era dignitoso per un nobile
cimentarsi nelle vesti di musicista, quindi,
quando doveva fare delle pubblicazioni di
madrigali, il principe Carlo li faceva stampare
o sotto falso nome o con altri artifizi editoriali.
. Il Cenacolo era collocato nell’ammezzato
dello stesso Palazzo, nell’area a sinistra del
portale. Attraverso una scala a chiocciola si
arrivava agli appartamenti superiori.
Dopo qualche tempo l’unione fu rallegrata
dalla nascita del primogenito Emanuele, però
questa felicità durò circa quattro anni, e cioè
sino a quando nella vita degli uomini non
s’inseriscono spiritelli disturbatori o forze
Il castello di Gesualdo, residenza del principe
occulte che subdolamente preparano trappole
mortali a chi in quel momento è assolutamente
ignaro di quanto nell’immediatezza può
accadere.
Infatti, in una festa di ballo, Maria d’Avalos,
incantevole e ricca, s’incontrò con Fabrizio
Carafa, duca d’Andria, di circa trentanni, bello
come un Adone e con le sembianze di Marte,
il quale, all’epoca, era considerato il cavaliere
più bello della Città.
Fabrizio, padre di quattro figli, era sposato
con Maria Carafa, figlia di Don Luigi, Principe
di Scigliano e di Donna Lucrezia del Tufo ed
abitava nel Palazzo di largo San Marcellino,
oggi sede dell’Istituto Tecnico Elena di savoia..
Maria Carafa era una donna devota, docile,
che dalla turbolenza e dal libertinaggio del
marito, che aveva sposato a tredici anni, aveva
sempre subìto santamente maltrattamenti e
tormenti.
Così le occasioni di feste varie, di incontri
salottieri, di serate danzanti, non mancarono
ai due, la cui fiamma d’amore si alimentava ed
ardeva sempre più nella loro anima e soprattutto
nel loro corpo. Dagli sguardi alle frasi d’amore
si passò già durante il primo incontro. Però nel
tempo non bastarono più. Infatti, un giorno,
nel mentre la splendida Maria passeggiava in
Via Chiaia a Napoli, finse di accusare un forte
dolore di pancia, perciò fu costretta ad entrare
in una casa dove nascosto l’attendeva Fabrizio
nel giardino. Questo fu l’inizio di altri incontri
che le circostanze di volta in volta offrivano
agli innamorati con diversi artifizi e differenti
la Ciminiera 31
luoghi.
Nonostante le precauzioni, i timori ed i piani
che per ogni incontro erano ben architettati,
la già difficile vita dei due amanti, un giorno
fu interrotta da un evento imprevisto ed
imprevedibile.
Uno zio di Carlo, Don Giulio Gesualdo,
coniugato con Laura Caracciolo, si era invaghito
in tal modo della nipote che non sapeva più
come poter piegare alle sue voglie la splendida
Maria. Tentò con regali, lacrime, suppliche,
ma niente da fare, finchè, tranquillizzatosi,
si convinse che probabilmente si trovava
veramente innanzi ad una novella Penelope,
casta e fedele al suo sposo.
Così quando Don Giulio seppe della relazione
della nipote, fu felicissimo di vendicarsi,
informando immediatamente il marito Carlo
Gesualdo.
Questa notizia distrasse notevolmente il
povero Carlo dai suoi studi musicali, il quale,
frenando nell’immediatezza le sue passioni ed
il suo impeto, cominciò ad indagare e a spiare
la vita privata della moglie.
Il Duca d’Andria e Maria d’Avalos ebbero
sentore del pericolo, però nonostante tutto, pur
raddoppiando le attenzioni ed ogni precauzione,
quando alcune volte alla razionalità prevaleva
in modo irrefrenabile il desiderio, adoperando
nella circostanza mille accorgimenti, facevano
di tutto per incontrarsi e stare insieme.
Alla razionalità dell’uomo che temeva non per
la propria vita, ma per la sofferenza che Maria
d’Avalos dovesse patire la stessa fine e che una
sì straordinaria bellezza si dovesse disfare in
una fredda tomba, si controbilanciava con la
folle determinazione della donna di desiderare
la morte insieme a lui e non di patire, invece, la
sua lontananza.
Non vi erano altre soluzioni. Bisognava
incontrarsi accortamente per non rischiare di
morire assieme. Però gli incontri si svolgevano
anche nel palazzo della Principessa Maria
d’Avalos.
Ma un giorno il Principe madrigalista finse
di organizzare una battuta di caccia nell’agro
partenopeo, agli Astroni, ribadendo con
insistenza che, dato che la caccia sarebbe stata
particolarmente impegnativa ed estenuante, per
quella sera non si sarebbe ritirato a casa. Così,
prima di far finta di partire, fece in modo che
le porte della sua casa si aprissero facilmente,
32 la Ciminiera
Costanza d’Avalos e Vittoria Colonna - Convento
di Sant’Antonio ad Ischia
pur restando apparentemente chiuse e poi si
nascose presso un parente poco lontano.
Nella simbologia arcana la caccia è un
simbolo di morte, per cui il fato, a questi segni,
dà un significato infausto e ferale. Quel giorno
era martedì 16 ottobre del 1590.
Maria d’Avalos, quella sera, dopo aver
cenato, era andata a letto verso le ventidue.
La sua cameriera Silvia Albana, poco dopo
fu chiamata dalla sua padrona, perché voleva
vestirsi per recarsi alla finestra, così come
aveva fatto altre volte, poiché aveva sentito
fischiare il duca d’Andria. Nello stesso tempo
le raccomandò di non andare a dormire e di
sorvegliare attentamente che nessuno venisse
nei pressi. La Signora, così si rivestì con un
“sottanello” di panno, si mise una tovaglia in
testa ed uscì sul balcone.
Poco dopo dalla sua fidata serva si fece levare
il sottanello e con la motivazione che quella
che teneva era sudata, si fece contestualmente
portare sul letto, una camicia che aveva un
collarino ed i polsini di seta negra lavorati.
Accese una candela su di un candelabro
d’argento, che posizionò su di una seggiola, ed
uscì.
Dato che la sua padrona le aveva anche
raccomandato di non spogliarsi perché avrebbe
potuto chiamarla, ella si appoggiò sul letto con
l’intento di leggersi un libro, solo che il sonno
ingannatore o complice delle forze occulte, la
colse, sino a quando non sentì un gran fracasso,
che la svegliò di soprassalto.
L’enorme frastuono che sentiva le sembrava
che fosse effetto del suo sonno, ma quando si
destò realmente, si trovò innanzi a tre uomini
armati, che, entrando dal vano comunicante
con l’ala del Principe Carlo attraverso la scala
a chiocciola, s’introdussero velocemente nella
stanza della padrona. Uno di questi aveva in
mano un’alabarda.
Successe tutto così all’improvviso che nel
trambusto si sentirono solo due schioppettate.
Solo dopo entrò nella stanza anche Don Carlo
Gesualdo, anch’egli armato con un’alabarda
ed in compagnia di un suo fido factotum, certo
Pietro Maliziale, di anni 40, detto Bardotti,
al quale raccomandò di non far scappare la
cameriera traditrice, perché dopo avrebbe
ammazzato anche lei. Detto questo entrò
come una furia nella camera della moglie.
Mentre Pietro passava al Principe una torcia
accesa, la cameriera Silvia Albana, cogliendo
l’attimo di disattenzione, scappò nella stanza
della nutrice del piccolo Emanuele, certa Laura
Scala, e lì si nascose sotto il letto.
Quando Don Carlo entrò rumoreggiando
nella stanza del figlio con l’intento di cercare la
cameriera, la nutrice ebbe la prontezza di spirito
di dirgli: «Per l’amor di Dio, non svegliate il
figliolo!». Di colpo i rumori cessarono, Don
Carlo Gesualdo andò via, Silvia Albana uscì
da sotto il letto rassicurata dal Bardotti che in
aggiunta le diceva: «Tutte e due sono morti».
La fidata cameriera non ebbe subito il
coraggio di entrare nella camera della padrona,
lo fece solo al mattino in compagnia di altre
damigelle, tra cui Donna Maria Gesualdo,
marchesa di Vico, zia di Carlo, per vestire
l’uccisa sgozzata nel letto e farla deporre nella
bara. Maria d’Avalos, ancora nel proprio letto,
ebbe la gola recisa.
Lì accanto vi era una camicia da uomo,
mentre su di una sedia, in prossimità del letto,
vi era un giubbone bianco con un paio di
calzoni di seta verde. In prossimità della porta,
v’era il corpo esanime del Duca d’Andria,
il quale indossava una camicia da donna,
quella stessa che la sua padrona aveva chiesto
perché il giovane venuto da lontano era tutto
sudato. Quando la mattina del mercoledì
arrivarono al Palazzo i giudici inquisitori, il
Bardotti, consegnò agli inquirenti una chiave,
facendo intendere che era stata trovata negli
abiti del Duca d’Andria, lasciando il sospetto
che al Duca serviva certamente per entrare
indisturbato nelle stanze dell’amante. La
stanza della morte è da individuare nell’angolo
sinistro del Palazzo, al secondo piano.
Fu abile altresì nell’escludersi da ogni
responsabilità e compartecipazione, coprendo
anche il suo padrone da ogni ipotesi di reato
premeditato. Infatti raccontò che il Principe
aveva cenato nelle sue stanze alle 21 e come
ogni sera era stato messo a letto dopo poco dai
suoi servitori Pietro de Vicario, Alessandro
Abruzzese ed un musico, mentre lui per ultimo,
dopo averlo ben coperto, aveva chiuso la porta
per andarsene a dormire.
Ad un tratto, verso mezzanotte, fu chiamato
da Don Carlo perché voleva un bicchiere
d’acqua, ma quando tornò nella stanza,
vide il suo padrone che era già vestito e che
nonostante fosse mezzanotte sosteneva che
voleva a quell’ora andare a caccia. Però disse:
«Vedrai che caccia faccio io!». Si armò poi di
una daga, di un pugnale e di archibugio e si
avviò verso le stanze della sua Signora seguito
dal Bardotti.
Sul percorso incontrarono il cameriere
Pietro de Vicario, Ascanio Lama e lo staffiere
Francesco de Filippi, i quali, al comando di
Don Carlo che pronunciava epiteti contro
i due amanti, dopo aver aperto la porta, li
ammazzarono entrambi.
Subito dopo uscirono con Don Carlo, il quale,
già tutto insanguinato nelle mani e temendo
che la moglie non fosse ancora morta, come
invece era avvenuto, ritornò nella stanza e
colpì ancora. Infine si sentì un gran rumore di
cavalli e tutti quella notte scapparono lontano.
Anche Laura Scala, la nutrice, pensò che la
soluzione migliore era quella di fuggire, per cui
così fece e non si fece più trovare.
Intanto la mattina successiva alla strage, in
una stanza, su un panno, furono adagiati i
la Ciminiera 33
due corpi. Due guanciali neri mettevano in
evidenza anche nella morte, la loro differente
bellezza. Maria d’Avalos presentava numerose
ferite di punta al seno, al fianco, alle mani, al
braccio ed un taglio alla gola, e chi la guardava
era portato naturalmente a pensare che la sua
bellezza e regalità era tale che rendeva scusabile
l’amore che don Fabrizio aveva avuto per lei
ed entro il quale era rimasto così fatalmente
irretito.
Nei confronti di Don Fabrizio, invece, gli
assassini erano stati particolarmente spietati
ed avevano inoltre infierito con rabbia e
determinazione. Egli aveva avuto un colpo di
archibugio al braccio sinistro, il cui proiettile
si era fermato nel petto, più un colpo di grazia
in testa, sopra l’occhio, a completamento
dell’esecuzione, oltre a varie ferite di punta nel
corpo, in testa ed in viso.
Maria d’Avalos, su disposizione della Madre
Sveva Gesualdo, fu sepolta nel lato destro
della Chiesa di S. Domenico Maggiore, nella
Cappella di Ferrante Carafa, marchese di S.
Lucido, suo primo marito ed ai suoi figlioletti
Ferdinando, che era morto giovanissimo, e
Beatrice, che era andata in sposa, dodicenne,
a Marco Antonio Carafa, e che morì subito
dopo le nozze.
Forse il pittore fiammingo Cornelius Smet
immortalò, nella parte destra del dipinto,
Maria d’Avalos nelle sembianze di una giovane
donna. La tela, che sovrasta l’altare della
Basilica di S. Domenico Maggiore, raffigura
la Madonna del Rosario e personaggi della
Ritratto della bella Maria d’Avalos
34 la Ciminiera
famiglia Carafa.
Fabrizio Carafa, invece, fu posto in una bara
e consegnato al gesuita D. Carlo Mastrillo
per la sepoltura, su disposizione della moglie
Donna Maria Carafa, che all’epoca aveva
24 anni. Non reggendo alla vergogna ed al
dolore, ella si ritirò il 21 novembre 1608 nel
monastero domenicano della Sapienza in Via
Costantinopoli a Napoli, dove prese il nome
di Maria Maddalena. Morì santamente il 29
dicembre del 1615, a 49 anni, per cui ogni
consorella volle custodire come preziosa
reliquia un suo personale oggetto.
Ma la storia si tinge di altre colorazioni che
diventano forse leggenda, ma anche cronaca
morbosa. Forse il seguito fu soltanto ipotizzato
dal marito tradito e non messo in atto, oppure
la scintilla della falsità e della calunnia partì
dal Palazzo per divenire nel Regno un turpe
episodio, raccolto immediatamente dai cronisti
dell’epoca per renderlo più succulento.
Si narrò, infatti, che il Principe di Venosa,
dopo aver ucciso i due amanti, ordinò ai suoi
servi di aprire il portone del palazzo e di
buttare sulle scale i corpi ignudi dei due appena
assassinati, perché la gente vedesse nello stesso
tempo “l’offesa e la vendetta”.
Quando la notizia si diffuse, una folla di
curiosi sfilò innanzi alle scale, compiacendosi
alcuni della fine che avevano fatto, mentre
altri, invece, rattristandosi intimamente, si
guardavano dall’ esternare umani sentimenti
di pietà per tema di essere bastonati dai servi
del padrone.
I giovani, poi, con curiosità osservavano la
principessa nella sua splendida nudità, mentre
i ragazzini, maliziosamente, scoprivano i segni
del frutto proibito, parlottando tra di loro.
Quando arrivò la sera il Principe di Venosa
ordinò ai suoi servi di illuminare il Palazzo con
torce di resina e fuochi, così come veniva fatto
nei giorni di festa, perché tutti continuassero a
vedere, anche durante la notte, i corpi dei due
amanti.
Intorno alla mezzanotte una donna coprì
i due cadaveri con un lenzuolo, ma subito il
Principe ordinò che venisse immediatamente
rimosso.
Quando la sfilata dei curiosi cessò, i servi, pur
lasciando i due corpi sul posto, si ritirarono.
Un uomo, o un uomo vestito da monaco,
che per tutto il giorno aveva osservato il corpo
della Principessa Maria, quando nella notte i
servi abbandonarono l’androne, si avvicinò
silenziosamente e ”violò” la Principessa.
Quando l’ambasciatore di Spagna fu
informato dell’inumano trattamento usato nei
confronti della nobildonna spagnola, cercò
di convincere il Principe, sostenendo che non
si poteva offendere il Duca di Pescara, zio
di Donna Maria e tutti i nobili discendenti
del Casato dei d’Avalos. Ma il Principe fu
irremovibile.
Le indagini avviate quella mattina per ordine
del Viceré, trattandosi di famiglie così in vista
dell’Aristocrazia ed imparentati con papi,
cardinali e potenziali santi, furono dallo stesso
archiviate con la motivazione che l’assassino
aveva lavato col sangue il suo onore e e quello
del suo Casato, anche se si disse che quel
proscioglimento era stato pagato con molto
oro.
A Napoli, in quel clima caldo e rovente di
continue repressioni, quell’archiviazione
scatenò il popolo con polemiche e tafferugli
contro gli Spagnoli.
Il poeta Torquato Tasso, che conobbe il
Principe Carlo Gesualdo tra il febbraio ed il
mese di marzo del 1592, in quanto quest’ultimo
gli aveva musicato otto madrigali, un giorno
scrisse tre sonetti che rievocavano il tragico
evento. In uno diceva: “morte, amor, fortuna,
il ciel v’uniro” e poi “Ora nulla più vi divide”.
I parenti della d’Avalos, soprattutto il nipote
Giulio Carafa, figlio di Giulia, sorella di
Fabrizio Carafa, dal carattere particolarmente
violento, avevano intenzione di vendicarsi nei
confronti del Principe Carlo Gesualdo, non
per l’assassinio perpetrato per motivi d’onore,
ma perché questi aveva soltanto partecipato
alla premeditata esecuzione della d’Avalos
affidando materialmente il compimento del
delitto ai suoi servi mercenari, o forse anche
per lo scempio pubblico messo in atto.
Così, per timore di rappresaglie, Don
Fabrizio, dopo il duplice omicidio, si ritirò
prima a Venosa e poi nell’isolato Castello di
Gesualdo, nei pressi di Avellino, che, con il
grappolo di case disseminate lungo i tornanti
della collina, sembrava una pigna.
Benché inespugnabile, Don Fabrizio lo
fortificò ulteriormente con torri e con altre opere
di difesa, provvedendo altresì all’abbattimento
di un bosco per rendere più aperta e libera la
visuale circostante, e lì rimase alcuni anni,
curando il feudo ed i suoi interessi economici.
Un giorno, e precisamente il 21 febbraio
1594, lunedì, senza alcun fasto, alla presenza
solo dei parenti della moglie, sposò a Ferrara
Eleonora d’Este, nata il 23 novembre 1561,
da Don Alfonso, Marchese di Montecchio e
Donna Giulia della Rovere, figlia del Duca di
Urbino.
La sposa fu definita come graziosa, virtuosa
ed appassionata di musica.
Tra i doni nuziali Don Carlo ebbe un’armatura
finemente lavorata ed arricchita artisticamente
da incisioni che, con figure allegoriche,
riproducevano in note anche frammenti delle
sue composizioni musicali, che attraverso
varie peripezie, oggi corona la collezione degli
oggetti antichi del Castello di Konopiste, in
Boemia.
Don Carlo, allorché sostava a Ferrara,
passava il suo tempo in compagnia di Alfonso
II d’Este, Duca di Ferrara, cugino della moglie,
che nel contempo gli procurava, con altri
insigni musicisti ed editori una frenetica e ricca
attività musicale.
Nonostante tutta la Corte lo avesse sin
dal primo momento accolto con grandi
festeggiamenti che si protraevano con tornei,
pranzi e balli sino al mattino, egli non era mai
entrato, né come carattere, né nell’atmosfera di
quei circoli chiusi, per cui, pur avendo avuto
qualche tresca con cantanti ed ancelle, oltre a
qualche incarico di particolare fiducia da parte
del Duca, il Principe Carlo preferiva sempre di
più ritirarsi nel suo Castello di Gesualdo.
Ad imitazione della Corte Estense e sulle
orme del padre Fabrizio II, tenterà, nella veste
di Mecenate, di creare quel clima culturale e di
la Ciminiera 35
arte, ospitando Artisti e promovendo concerti
e rappresentazioni teatrali.
Nel suo Castello fonderà anche una Stamperia
musicale.
Intanto la moglie Eleonora, ogni volta che
rientrava nella dimora di Gesualdo dopo i
diversi soggiorni a Ferrara, lo trovava sempre più
ammalato e chiuso nella sua vita rinunciataria,
anche se egli, con i Musicisti napoletani, i più
famosi, mirasse probabilmente, attraverso i vari
componimenti, a fondare più una tradizione
musicale partenopea che restasse nel tempo,
piuttosto che un movimento che fosse un vento
di breve durata.
Nel 1596 morì Don Giulio Gesualdo, lo zio
delatore, che lo lasciò erede universale. Il 22
ottobre del 1600, ad appena tre anni, morirà
l’unico figlio Alfonsino, nato dal matrimonio
con Eleonora d’Este.
Intanto Cesare d’Este, fratello di Eleonora,
alla morte del cugino Alfonso II, avvenuta
il 27 ottobre 1597, alle ore 22, si fece
proclamare Duca di Ferrara, ma l’irremovibile
Roma papalina, invece di legittimare la sua
proclamazione, lo scomunicò. Anche il popolo,
abilmente alimentato dagli oppositori, si ribellò
all’idea di avere un Duca scomunicato, per cui,
Cesare d’Este, contrastato dentro e fuori, dopo
un umiliante accordo e la contestuale revoca
dell’anatema pontificio, il 29 gennaio del 1598
si allontanò da Ferrara, accontentandosi a
malincuore del piccolo Ducato di Modena.
Durante questi eventi, il Principe di Venosa
Carlo Gesualdo aveva tentato più volte
di combinare un matrimonio del proprio
figlio Emanuele, bello come la madre Maria
d’Avalos, con la figlia di Cesare, ma questi
nicchiando aveva sempre fatto cadere nel vuoto
ogni specifica richiesta. Pertanto, il 22 ottobre
1607, Emanuele sposerà in Boemia la Contessa
Donna Maria Polissena di Firstemberg e
Pernestan.
Emanuele, uomo colto, appassionato di
poesia e di astrologia, ed anch’egli mecenate,
abiterà con la moglie nella città di Venosa,
dove fonderà l’Accademia dei Rinascenti, con
l’intento di far rinascere lo spirito e la poetica
dei grandi cinquecentisti che avevano fondato
all’epoca l’Accademia dei Piacevoli.
L’Accademia avrà vita breve, perché il 20
agosto del 1613, Emanuele morirà per una
doppia caduta da cavallo durante una battuta
36 la Ciminiera
di caccia, lasciando la figlia Isabella di due
anni e la moglie in stato di gravidanza. Dopo
pochi mesi nascerà l ’8 novembre del 1613
Leonora Emanuela Carlina che finirà monaca
a Santa Maria della Pazienza a Napoli, mentre
Isabella, nata il 13 settembre 1611, sposerà
Niccolò Ludovisio, Duca di Zagarolo e nipote
del papa Gregorio XV. Morirà l’8 maggio del
1629, lasciando erede dei suoi beni la figlia
Lavinia, i cui feudi, per mancanza di successivi
eredi, furono devoluti alla Regia Corte.
Donna Maria Polissena, invece, in seconde
nozze, andrà in sposa al Principe di Caserta,
Andrea Matteo Acquaviva e Cavaliere del
Toson d’oro.
Dopo diciotto giorni dalla morte del figlio
Emanuele, e cioè il 3 settembre del 1613,
le condizioni di salute di Don Carlo, per
blocco intestinale, asma ed un’infezione ad
una gamba, si aggravarono a tal punto ed in
maniera così irreversibile, che l’ 8 settembre
1613 morì e fu sepolto in Napoli nella Chiesa
del Gesù Nuovo.
Si dice che per lenire il dolore che lo affliggeva,
si faceva percuotere da robusti giovani due o tre
volte al giorno. Queste percosse non alleviavano
il dolore primario, come a prima vista si è
portati a pensare, ma dovevano servire a far
scappare il diavolo da quel corpo. All’epoca,
Don Fabrizio Carafa, duca di Andria
invero, vi era la credenza che chi era ammalato,
era necessariamente posseduto dal diavolo, per
cui si sarebbe trovato sempre in quello stato
d’infermità, finché il diavolo non fosse stato
scacciato. Col metodo della bastonatura, il
diavolo doveva capire, che finché fosse rimasto
in quel corpo e non si fosse deciso a trasferirsi
altrove, quotidianamente e più volte al giorno,
avrebbe dovuto subire percosse anche lui.
Insomma il Maligno doveva rendersi conto che
lì non poteva più vivere tranquillamente e che
quindi necessariamente doveva allontanarsi o
insediarsi in altre persone.
In quel periodo, un ammalato, anche se
grave, per guarire, non doveva ricorrere alle
cure del medico, ma doveva obbligatoriamente
chiamare prima un prete che doveva benedirlo,
e poi, nel caso che non fosse guarito con le
preghiere, poteva affidarlo ad un cerusico.
Anche se il medico era sul posto, non poteva
iniziare le sue prestazioni, se prima non avesse
chiamato il prete, perciò, chi trasgrediva subiva
delle pesantissime sanzioni.
Ciò perchè si credeva che chi aveva
un’infermità, era ammalato perché posseduto
dal demonio. Perciò per guarire si doveva
scacciare prima il demonio e che solo
successivamente, dopo le pratiche religiose
messe in atto da un prete, questi autorizzava il
medico di intervenire con i suoi metodi, che poi
non erano meno ortodossi della stessa pratica
religiosa adottata per allontanare il maligno.
La moglie Eleonora, che era andata a
Venosa per assistere al parto della nuora
Polissena, potè ritornare al Castello il giorno
dopo il decesso di Don Carlo.
Alla morte del marito, Eleonora si ritirò
definitivamente a Modena il 12 gennaio 1615,
finchè decise di entrare nel Monastero di S.
Eufemia, dove morirà il 26 novembre 1637.
Questa triste e lunga storia fu grandemente
magnificata nella letteratura dell’epoca da
poeti, rimatori e cantastorie, ma fu anche
riportata su di una tela fatta dipingere dallo
stesso Don Carlo Gesualdo, sicuramente a
ricordo, nel tempo, del tragico episodio e ad
espiazione delle colpe di tutti.
A parte il Cristo Redentore ed un gruppo
di Santi, dipinti quasi per intercedere per il
perdono sulle miserie umane, vi è sulla destra
Eleonora d’Este, mentre sulla sinistra vi è
posizionato il malinconico ed assente Don
Carlo Gesualdo che è accompagnato dal
cognato S. Carlo Borromeo. In basso, poi, al
centro, tra anime che espiano i loro peccati
terreni tra le fiamme dell’inferno, v’erano i due
amanti Maria d’Avalos e Fabrizio Carafa, il
Duca d’Andria.
Però, stranamente, al centro vi è un bimbo
ignudo con le ali, che è circondato da angeli.
Questo bambino, come si disse, probabilmente
doveva ricordare il figlio nato dalla relazione
della moglie Maria d’Avalos con il Duca
d’Andria e che lo stesso Don Carlo, nella notte
del duplice assassinio, avendo visto nel suo
viso le sembianze del legittimo padre Fabrizio
Carafa, accecato dall’ira, sistemò il bambino in
una culla appesa a dei chiodi con due cordoni
di seta e che poi, con tecnica raffinata e sadica,
la fece oscillare e dondolare tanto, sino a far
mancare a quell’innocente creatura il respiro,
facendolo così morire asfissiato.
Carlo Gesualdo non ha voluto essere sepolto
nella basilica di S. Domenico Maggiore, più
vicino al Palazzo S. Severo, dove egli abitava,
perché là era stata sepolta la moglie Maria
d’Avalos, da lui fatta uccidere.
Sulla sua tomba, nella Chiesa del Gesù
Nuovo, è apposta una lapide molto semplice,
posizionata sul pavimento del transetto
sinistro dell’Altare Maggiore, sulla quale, in
latino, si legge. “Carlo Gesualdo, Conte di
Conza, Principe di Venosa, nato dalla sorella
di San Carlo Borromeo, più illustre per la
santa parentela che per la discendenza dai Re
Normanni, sotto questo altare sepolcrale eretto
per sé e per i suoi, protegge con le proprie
ceneri quelle dei suoi parenti sino a quando
insieme risorgeranno. La Compagnia di Gesù
la Ciminiera 37
in seguito, a piena testimonianza della sua
grande devozione verso di lei, lo ricorda…”.
Secondo alcuni la lapide è stata redatta dai
Gesuiti in modo particolarmente elogiativa, e
ciò di solito avveniva, perché in questo modo
essi speravano di avere sempre nelle loro chiese
dei sontuosi mausolei a spese dei nobili defunti.
Infatti, nella lapide viene ricordata non solo
l’illustre discendenza dai Re Normanni, ma
quanto viene altresì celebrato il legame di
sangue con il Carlo Borromeo, cardinale a 24
anni, nonché segretario di Pio IV, suo zio.
S. Carlo Borromeo era legato con i Gesuiti da
particolare affetto e predilizione, perché erano
stati essi stessi ad indirizzarlo verso la vita
ascetica. E quando fu consacrato sacerdote,
ebbe il privilegio di dire messa nella stanza
dove era morto S. Ignazio di Loyola. Pertanto,
allorché divenne Arcivescovo di Milano,
omaggiò i Gesuiti del Palazzo di Brera che fu
destinato a Collegio, ed in più affidò loro la
direzione del Seminario della Diocesi.
S. Carlo Borromeo (1538-1584), sarà
canonizzato il 1 novembre del 1610, dopo 26
anni dalla morte.
Ma nella Chiesa del Gesù Nuovo vi è un’altra
strana, innocente coincidenza. Alla sinistra
dell’altare maggiore, vi è una semplice lapide
intestata a Padre Vincenzo Carafa, morto a
Roma l’ 8 giugno 1649, all’età di 65 anni.
Ma chi era questo Padre? Vincenzo era
uno dei quattro figli di Maria Carafa, vedova
di Fabrizio Carafa, Duca d’Andria, l’amante
38 la Ciminiera
L’uccisione di Maria D’Avalos in un’illustrazione di Leon Lebegue (1902)
della moglie di Carlo Gesualdo, Maria
d’Avalos, Principessa di Venosa.
Vincenzo era nato nel 1585 dal matrimonio di
Maria Carafa e Fabrizio Carafa, ma nel 1604,
sebbene ostacolato da tutti, probabilmente
perché aveva risentito profondamente della
tragedia familiare, entrò nel 1604 nella
Compagnia di Gesù, dove divenne prima
insegnante di filosofia al Collegio napoletano
del Gesù Nuovo e poi anche rettore e maestro
dei novizi alla Casa del Gesù Nuovo. Infine,
fu prima Provinciale dei Gesuiti Napoletani
e poi fu il VII Generale della Compagnia di
Gesù. Morì a Roma l’8 giugno 1649, all’età di
65 anni.
Don Carlo Gesualdo, invece, nella sua vita,
con i suoi oculati proventi, fece costruire
chiese, edifici di finalità sociale ed ospedali,
come pure fondò monti di pietà, corporazioni
e gratificò qualche povero bisognoso. Ma il
suo unico e vero interesse furono i madrigali
e la musica sacra. Nel 1603 pubblicò “Sacres
Cantiones” a cinque, sei e sette voci, mentre
nel 1611, per l’Ufficio della Settimana Santa,
pubblicò “Responsoria” a sei voci.
In una lettera dell’8 gennaio 1616, Padre
Giovanni Giovene sollecitava il neo-generale
Padre Muzio Vitelleschi, per la realizzazione di
una Cappella nella Chiesa del Gesù Nuovo, per
la quale il Principe Don Carlo Gesualdo, alla
sua morte, aveva elargito nel suo testamento,
aperto dal notaio il 9 settembre 1613, la somma
di trentamila ducati per la sua edificazione e
per il trasferimento delle sue ossa.
Ribera che andò irrimediabilmente perduta.
La Cappella fu riconsacrata nel 1950.
Del Principe di Venosa Carlo Gesualdo si
conoscono sei libri di madrigali a cinque e
sei voci, che furono pubblicati nel 1594.
Mentre la Scuola romantica tedesca mise
in ombra la musica di Carlo Gesualdo,
Stravinski ha rilanciato le sue melodie. Oggi
il Principe Carlo Gesualdo da Venosa è
considerato uno dei più grandi musicisti del
‘600.
Innanzi a tanti complicati avvenimenti e
violenti passioni, come pure innanzi a tanta
tristezza e delusione, viene spontaneo dire:
”…quanta miseria umana…! e quante vittime
innocenti ha generato un folle amore…”.
Bibliografia
L’opera fu assegnata, per una serie di ritardi,
solo nel 1637 a Cosimo Fanzago per le due
stupende statue del Davide da posizionare
sulla sinistra, e del Profeta Geremia sul lato
destra, le quali furono scolpite tra il 1646 ed
il 1654. Il pittore Ribera dipingerà le tele nel
1641, mentre gli affreschi verranno realizzati
da Belisario Corenzio.
La Cappella subirà dei danni a seguito
del terremoto del 13 giugno 1688, per cui i
marmi li restaurò nel 1693 Pietro Ghetti, le
tele del Ribera le recuperò nel 1690 il pittore
Luca Giordano, meglio conosciuto per la sua
velocità di realizzazione e di produzione di
opere d’arti come Luca “fa ‘ampresse” (= fai
presto), mentre gli affreschi del Corenzio li
restaurò nel 1698 Paolo de Matteis.
Le spese di restauro furono sostenute
dal Marchese di Santo Stefano Domenico
Gesualdo, come si rileva da una lapide del
1705.
Durante la IIª Guerra Mondiale, il
bombardamento aereo del 4 agosto 1943,
distrusse notevolmente la Cappella di S.
Ignazio di Loyola e quella di Carlo Gesualdo.
Dalle macerie tutto risorse, meno che la tela del
- B. Croce = “ Storia del Regno di
Napoli “ - Laterza - Bari - 1967.
- Romeo De Maio = “Donna e
Rinascimento” - Mondadori - Milano
- 1987.
- Olwen Hufton = “Destini femminili
“ - Mondadori - Milano - 1996.
- A. Famiglietti = “Storia di
Gesualdo “ - Accademia Partenopea -
Napoli - 1977.
- A. Graf = “La singolare vita delle
cortigiane di lusso del ‘500 “ - Pesaro
- 1980.
- Filippo Iappelli S.I. =”Carlo
Gesualdo ed il Gesù Nuovo” - da
“Societas”- Rivista dei Gesuiti
dell’Italia Meridionale -Napoli -
Anno LII - maggio-agosto 2004 - n/
ri 3-4.
- Maria Ludovica Lenzi = “Donne e
Madonne, L’educazione femminile nel
primo
Rinascimento italiano” - Loescher -
Torino - 1982.
- A. Vaccaro = “Carlo Gesualdo -
Principe di Venosa “ - Ediz. Osanna
- Venosa - 1994.
- F. Vatielli = “Il Principe di Venosa-
Leonora d’Este “ - Milano - 1941.
la Ciminiera 39