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LETTERATURA
ITALIANA
Il nostro rapporto
con l’ambiente
SCIENZE
LETTERATURA
TEDESCA
Indagare il riscaldamento
globale con la
matematica
MATEMATICA
SCIENZE
UMANE
e Cittadinanza
MARIO
RIGONI STERN
I ghiri
ADALBERT
STIFTER
Bunte Steine
Uomo-Natura:
è necessario un
nuovo equilibrio?
Il progetto
Manhattan;
il disastro di
Chernobyl;
i movimenti
ambientalisti
STORIA
IL RAPPORTO
(L’essenza della
religione): l’essere
UOMO-NATURAFEUERBACH
FILOSOFIA umano come ente
dipendente dalla
natura
ARTE
RELIGIONE
e Cittadinanza
Aspetti del rapporto
uomo-natura nella storia
dell’arte
LETTERATURA
INGLESE
J.G. BALLARD
The Concrete Island
Uomo e Natura:
da Tacito
a Greta
LETTERATURA
LATINA
LETTERATURA
FRANCESE
THÉOPHILE
GAUTIER
Le pin des landes
LETTERATURA
SPAGNOLA
RICONNETTERSI
ALL’AMBIENTE
L’eco-etica come
pensiero “globale”
GABRIELA
MISTRAL
Sobre miedo: periodismo
y libertad
LETTERATURA ITALIANA
MARIO RIGONI STERN
I ghiri
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Mario Rigoni Stern (1921-2008) è stato uno scrittore italiano, noto per aver raccontato nel Sergente nella
neve (1953) la sua difficile esperienza come ufficiale degli alpini sul fronte sovietico, durante la Seconda guerra
mondiale. Ma Rigoni Stern non è stato solo un testimone di guerra: ha vissuto gran parte della sua esistenza
nel paese di Asiago, sulle Alpi venete al confine con il Trentino-Alto Adige. Questa condizione gli ha permesso
di diventare un osservatore privilegiato delle trasformazioni dell’ambiente montano nell’Italia del
dopoguerra, al pari di altri scrittori che hanno fatto della devastazione del paesaggio montano un argomento
fondamentale della loro scrittura (come il poeta veneto Andrea Zanzotto, coetaneo di Rigoni Stern). Dotato
di una spiccata sensibilità ecologista, anche se con elementi certamente non moderni e perfino criticabili
agli occhi dei lettori di oggi (era appassionato di caccia), Rigoni Stern ha scritto molti libri dedicati alla flora
e alla fauna alpina, osservate alla luce di quei cambiamenti provocati dall’uomo che le costringono a un
adattamento forzato.
Nel breve racconto I ghiri, di cui è proposto un brano, un iniziale sconvolgimento del bosco causato
dall’uomo porta a una serie di effetti imprevedibili. Qualsiasi ambiente naturale può essere messo in pericolo,
se l’essere umano vi si inserisce con superficialità e senza tenere conto dei pericoli e degli svantaggi che esso
contiene. Lo sapevano le civiltà premoderne e contadine, dove il rapporto con la natura era fondato su un
rispetto pieno di timore; lo scopre chiunque, oggi, scelga di rinunciare agli agi della civiltà urbana per condurre
un’esistenza più “verde” ed essenziale.
Rigoni Stern ci mostra che qualsiasi ecosistema si regge su un equilibrio delicato: non è un insieme di
elementi che l’essere umano può alterare senza provocare conseguenze a catena del tutto inaspettate.
Il fenomeno incominciò nel 1944, quando gli occupanti tedeschi 1 per paura dei partigiani fecero tagliare una
grande macchia di bosco ceduo 2 che copriva le pendici verso la pianura, così che lungo la vecchia strada
militare apparvero i sassi denudati come fossero le bianche ossa della terra.
Gli animali che abitavano quel luogo, per necessità di sopravvivenza, si spostarono anche loro nelle
abetaie 3 delle montagne e in quel sottobosco ripresero dimora. Ma fu per poco, perché l’anno dopo, quando
finalmente ritornò la pace e la libertà 4 , un funzionario mandato quassù da qualche ufficio di città, ebbe la
convinzione che i boschi sarebbero apparsi molto più belli se fossero stati puliti: insomma decise che arbusti
e cespugli e ogni altro albero non produttivo come legname da opera 5 , doveva essere levato.
La manovalanza disponibile era abbondante e a poco costo, la pressione verso le Amministrazioni per avere
un qualsiasi lavoro era tanta poiché erano pochi quelli che avevano i soldi per emigrare in Canada o in
Australia. Così con squadre di opera muniti di scuri, seghe e roncole si diede mano 6 a questo progetto di
ristrutturazione forestale; e in particolare lungo le strade e nei luoghi più visitati da politici o turisti.
Nel giro di un paio di stagioni questi boschi apparvero belli e lindi come parchi, e gli abeti diritti come
candele mostravano delle crescite annuali davvero eccezionali; e poi camminare sotto sul muschio alto e
soffice era come sentirsi dentro una misteriosa cattedrale gotica.
Ma qualche vecchio boscaiolo scrollava il capo e diceva: «Se in aprile viene una nevicata abbondante e
bagnata vedrete quanti schianti 7 !» E io in questi boschi-parco non trovavo nemmeno più una dozzina di
chiocciole, né mezzo chilo di cantarelli 8 .
1. La Germania nazista. Le truppe tedesche durante la
Seconda Guerra Mondiale occuparono il Nord Italia (incluso
il Piemonte, dove il racconto è ambientato) a partire
dall’armistizio italiano dell’8 settembre 1943, per punire l’Italia
di aver rotto la precedente alleanza con la Germania per
schierarsi a fianco dell’esercito Alleato (Stati Uniti, Francia,
Inghilterra, Russia).
2. Bosco che fornisce legna da taglio: è solitamente costituito
da alberi come quercia, carpino, faggio. In Italia i boschi cedui
rappresentano più della metà dell’intera area forestale e si
trovano nelle zone più basse delle principali aree montane
2
(Alpi e Appennini).
3. Foreste di abeti.
4. Ci si riferisce alla fine della Seconda guerra mondiale, con la
liberazione di Milano dall’occupazione nazifascista (25 aprile
1945).
5. Legname destinato alla produzione di imballaggi, di qualità
bassa rispetto a quello usato, per esempio, nelle costruzioni.
6. Si dedicò.
7. Frane, valanghe.
8. Abbreviativo di «cantaro», è un fungo commestibile molto
diffuso.
© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
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Dopo un paio d’anni, verso il 1950, in questi boschi così bene coltivati si incominciarono a notare delle
strane e insolite morie 9 : gli abeti più alti e rigogliosi in autunno ingiallivano gli aghi e nell’estate successiva
rinsecchivano in piedi restando come scheletri. All’abbattimento il legno del tronco non manifestava nessuna
malattia da virus o da insetti ma solamente si presentava asciutto, come senza linfa, dissanguato.
Al primo apparire di questo fenomeno non ci si fece gran caso: sui milioni di alberi la percentuale era bassa;
ma l’anno dopo altri abeti rinsecchirono più numerosi e il fatto incominciò a preoccupare, anche perché si
notò in altre zone del distretto forestale.
Finalmente ci si accorse che tutti gli abeti colpiti da questo essiccamento presentavano una cosa in comune:
verso la cima, tra l’ultima e la penultima crescita annuale, avevano una cicatrice anulare più o meno
appariscente, ma la ferita era stata tale che non aveva permesso alla linfa di raggiungere l’apice. Il perché
del fenomeno ora si sapeva. Ma chi lo cagionava 10 ? Il sospetto venne a una anziana guardia forestale che
ne parlò a un cacciatore di pelo 11 . Così questi due una sera di giugno, muniti di una buona torcia elettrica,
camminarono da soli in una valle dove il bosco appariva più colpito.
Si nascosero in una vecchia trincea della grande guerra 12 e aspettarono in silenzio. A un certo momento della
notte incominciarono a sentire sugli alberi degli strani rumori: un leggero frusciare di rami, qualche squittio
sottile e poi un continuo e sommesso rosicchiare. A questo punto accesero la torcia puntandola in alto e così
poterono vedere decine e decine di ghiri che sui cimali 13 , dopo avere rosicchiato tutt’intorno la corteccia,
come vampiri lambivano e succhiavano la linfa degli abeti.
Visti gli effetti e trovata la causa ora bisognava cercare il rimedio. Vennero fatte riunioni di studio, proposte.
Si capì che la causa dei danni, che veramente stavano diventando preoccupanti per il patrimonio forestale
dei comuni, era stata dapprima il taglio del bosco ceduo voluto dai tedeschi e poi la pulizia del bosco così
ostinatamente praticata da quel tale funzionario che nel frattempo era andato in pensione.
Sì, perché i ghiri che sulle pendici verso la pianura si cibavano di noccioline e bacche, e che nei folti cespugli
erano stati contenuti in numero equilibrato dai loro cacciatori naturali: gufi, volpi, martore 14 , una volta
privati del loro habitat erano emigrati nei nostri boschi di conifere e qui, sempre seguiti dai loro cacciatori,
si erano ambientati nel rigoglioso sottobosco. Ma tagliati poi i cespugli, gli arbusti e gli alberi che non davano
legname ecco che gufi, volpi e martore sul terreno denudato non trovavano dove nascondersi e da vivere in
tranquillità e lasciarono per altri più selvaggi questi luoghi, belli sì agli occhi degli uomini ma non ai loro.
I ghiri non più cacciati dai loro naturali nemici aumentarono progressivamente ma non trovando gli arbusti
dalla tenera corteccia, i cespugli con le bacche, nocciole e faggiole ecco che per sopravvivere dovettero
rivolgersi agli abeti a cui succhiavano la linfa. Così lungo le strade e le mulattiere dei boschi sempre più
numerose erano le cataste di stanghe.
9. Alta mortalità, spesso per cause infettive.
10. Causava.
11. Cacciatore che uccide le sue prede per scuoiarle
e ricavarne pellicce.
12. La Prima Guerra Mondiale (1915-1918).
13. Cime recise degli alberi.
14. Mammifero carnivoro di piccole dimensioni, simile alla faina.
3 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
Analisi del testo
L’azione dell’uomo
Nel racconto, all’autore interessa ricostruire ogni passaggio di una modificazione ambientale che porta
alla crescita smisurata della popolazione dei ghiri. All’origine ci sono due cause: il taglio del bosco, voluto dai
nazisti durante l’ultimo conflitto mondiale per impedire ai partigiani di nascondersi tra gli alberi, e la rimozione
della vegetazione non immediatamente sfruttabile come legname per rendere il bosco più attraente per i
turisti, nel secondo dopoguerra. Due azioni diverse, una svolta in tempo di guerra e l’altra in un momento
di ricostruzione e crescita economica, vengono indirettamente associate: sono entrambe compiute per
ottenere un vantaggio immediato, senza preoccuparsi delle ripercussioni sull’ambiente, la più importante delle
quali è resa con un’immagine lievemente macabra (i ghiri appesi in gran numero alle cime degli alberi come
«vampiri»).
Due diverse prospettive
In quello che sembra un brano asciutto e tutto sommato oggettivo, Rigoni Stern crea nel giro di poche righe, in
modo sottile, una contrapposizione drammatica.
Da una parte c’è “un funzionario mandato quassù da qualche ufficio di città” (r. 6) che decide di eliminare
tutta la vegetazione che non sia immediatamente sfruttabile come legname: è un personaggio che rappresenta
il cittadino, incurante di ciò che comportano le sue azioni e incapace di comprendere la complessità
dell’ecosistema su cui interviene (perciò tanto più ostinato nella sua opera di “pulizia”). È insomma un esempio
di antropocentrismo: la prospettiva che vede i bisogni dell’essere umano al centro di tutto e la natura come
“mezzo” da utilizzare per raggiungere un vantaggio.
Dall’altra parte ci sono le persone che non vengono dalla città, ma abitano la montagna da quando sono nate e
la conoscono nel profondo: sanno esaminare premesse e conseguenze di un intervento nell’ecosistema (come
i vecchi boscaioli che prevedono frane se manca la vegetazione a contenere la neve), conoscono i nomi precisi
delle piante e degli animali, si ingegnano per trovare soluzioni sostenibili ai danni antropici.
Empatia
Oltre a questo, ciò che caratterizza le persone che abitano la montagna, distinguendole dai “cittadini”, è la loro
capacità di mettersi nella prospettiva degli altri animali del bosco. Nel momento in cui gli abitanti capiscono che
gufi, volpi e martore sono andati via perché il nuovo bosco, reso pulito e accogliente per i turisti, è bello “agli
occhi degli uomini ma non ai loro” (r. 46), stanno di fatto andando contro l’antropocentrismo del funzionario. Il
pianeta non ruota attorno ai bisogni dell’uomo, e soddisfare una nostra esigenza confligge spesso con ciò che ci
circonda.
Nel suo racconto Rigoni Stern ci invita, indirettamente, a capire quanto dannoso possa essere rimanere ancorati
alla propria visione del mondo, senza mai provare a mettersi nei panni degli altri: l’empatia, di solito riservata
alle altre persone e funzionale a garantire la concordia sociale, viene proposta come qualità ecologista. È un
discorso profondo e ancora attuale, anche se i boschi veneti de I ghiri degli anni Cinquanta sono molto lontani
da noi (e, in parte, sono stati distrutti per fare spazio a nuove costruzioni, parchi, coltivazioni).
L’ambiente della montagna, con i suoi equilibri millenari, ma fragili, che fa da sfondo al racconto, è allora spia
dei cambiamenti che stanno modificando il rapporto dell’uomo con la natura e, contemporaneamente –
nell’atteggiamento dei suoi abitanti – un modello di comportamento equilibrato e rispettoso dell’ambiente che
l’autore propone a tutti noi. L’impegno a difesa delle sue montagne – quelle dell’Altipiano di Asiago – e più in
generale della natura, contro ogni forma di abuso e di avidità, fu d’altra parte una delle caratteristiche tipiche sia
della produzione letteraria di Rigoni Stern, sia del suo modo di vivere.
Lo stile
La ricostruzione di Rigoni Stern è dettagliata e precisa. Lo stile è chiaro, nitido, ricco dal punto di vista lessicale,
con termini talvolta colloquiali («schianti» per “frane”) accostati ad altri di carattere più tecnico («ceduo»,
«cantarelli» in luogo del più generico “funghi”). Una scrittura essenziale, lontano dalle ridondanze verbali e dalle
complessità sintattiche, ma insieme intensa ed evocativa, che diventa essa stessa simbolo di quel ritorno alla
semplicità nei modi di vita, nel rapporto con la natura e con gli altri uomini, di cui l’autore si fa portavoce.
4 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
Laboratorio
COMPRENDERE
1. Per quali molteplici motivi i boschi vengono ripuliti da arbusti e cespugli?
2. Quale anomalia costituisce il primo segnale che la vita dei boschi è stata profondamente alterata?
ANALIZZARE
3. Che cosa si intende con l’espressione “boschi-parco” (r. 17)?
4. A intuire la causa dell’essicamento del bosco è “una anziana guardia forestale” (r. 29), mentre il funzionario
che ne è in parte responsabile nel frattempo è “andato in pensione” (r. 40). Quale significato potrebbero
assumere queste due circostanze nell’ambito del racconto? Che cosa potrebbe voler dire l’autore?
CONTESTUALIZZARE E INTERPRETARE
5. Individua e spiega i riferimenti e i rimandi storici che appaiono nel racconto di Mario Rigoni Stern.
6. L’uomo si mostra spesso incapace di fare previsioni ambientali di lunga durata. Concentrato sul “qui e
ora”, non appare in grado di avvertire e prendere davvero in considerazione un pericolo, se esso non
è immediatamente presente ai suoi occhi, in quanto lontano nel tempo (in un futuro remoto) o nello
spazio (dall’altra parte del mondo). “Ci penseremo quando sarà il momento” sembra talvolta essere
l’atteggiamento prevalente. Sapresti fare qualche esempio di questo modo di pensare e di agire? Quali
effetti produce? Quali disastri ambientali ha provocato? Come si potrebbe provare a migliorare la
situazione?
7. Sei una persona sensibile alle tematiche ambientali? Perché? Hai mai partecipato a qualche iniziativa a
difesa della natura (come ad esempio i Fridays For Future di Greta Thunberg)? Che cosa fai (o non fai) per
il bene del nostro pianeta?
[tratto da C. Giunta-A. Mezzadrelli, 1, 2, 3… Maturità, vol. 2, pp. 35-39]
5 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
ARTE
Aspetti del rapporto uomo-natura
nella storia dell’arte
Indagare la natura: Paesaggio della Valle dell’Arno e Studi botanici, Leonardo da Vinci
Leonardo, Paesaggio della Valle dell’Arno, 1473. Penna e inchiostro su
carta, 19,6x28,7 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni
e delle Stampe.
Leonardo, Studio di piante, 1506 ca.
Windsor, Royal Library.
I manoscritti di Leonardo, distribuiti in numerose raccolte, costituiscono un soggetto di studio particolarmente
impegnativo, poiché quasi ogni foglio contiene un disorganico insieme di disegni, annotazioni, schizzi, osservazioni,
calcoli, dai quali è tuttavia possibile riorganizzare i filoni fondamentali del suo pensiero. Tutti questi disegni
riguardano progetti di architettura, ingegneria e meccanica e studi analitici e puntuali su qualsiasi argomento,
dall’anatomia alla botanica e alla dinamica delle forze. In Leonardo i caratteri distintivi del disegno, la componente
analitica, quella creativa e quella progettuale, si fondono insieme a costituire un’unità indissolubile, che testimonia,
meglio di qualsiasi altra prova, della grande complessità del sapere umanistico e rinascimentale.
Il primo disegno certo dell’artista è il Paesaggio della Valle dell’Arno, datato 1473. Già in questo schizzo giovanile
è possibile cogliere una gigantesca intuizione; Leonardo è consapevole che l’aspetto delle cose non si può
trasferire automaticamente in una riproduzione visiva che sia analoga alla realtà; bisogna ricorrere a una serie
di accorgimenti e trucchi costruttivi che, modificando la convenzionale prospettiva dell’immagine, permettano
di riprodurre la visione sferica dell’occhio umano. La rappresentazione corretta sarebbe dunque realizzata
non solo grazie alle misure prese e ai calcoli fatti, ma anche mediante una modificazione sostanziale e intuitiva
delle stesse leggi prospettiche. Il paesaggio che stiamo ammirando sembra infatti deformato come se lo
osservassimo attraverso una lente sferica – una sorta di grandangolo fotografico –, poiché l’immagine è
allargata, distorta e plurifocale: in primo piano la montagna si piega in una curva impossibile con i due lati estremi
sollevati, mentre nello stesso tempo la lontananza sfoca l’immagine e un velo di nebbia, sollevato dalla cascata, fa
vibrare e rende instabili i profili delle rocce e le sagome degli alberi.
Leonardo si dedica anche al disegno analitico su tutti gli aspetti ancora poco conosciuti del mondo materiale,
naturale e umano: si susseguono così incessanti gli studi di botanica, zoologia, geologia e anatomia, sempre
accompagnati da un testo di commento o di preparazione. Gli studi botanici e anatomici appaiono ancora
oggi di una ricchezza e una precisione sbalorditive. La straordinarietà di questi studi risiede nella combinazione
del tutto eccezionale e unica tra la profondità del sapere, frutto di un’osservazione lucidissima, e l’assoluta qualità
della rappresentazione grafica.
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© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
L’Artista
Leonardo da Vinci
Leonardo (Vinci, 1452 - Amboise, 1519) nasce a Vinci,
nei pressi di Firenze, città nella quale si forma compiendo
il suo apprendistato nella bottega di Verrocchio. Nel
1482 si sposta a Milano e lavora al servizio di Ludovico il
Moro. Nel 1499, alla caduta degli Sforza, fugge a Venezia,
passando per Mantova, per poi fare rientro a Firenze. Dal
1506 al 1513 è di nuovo a Milano. Tra il 1514 e il 1517
è attivo a Roma. Chiamato da Francesco I alla corte di
Amboise, trascorre gli ultimi due anni della sua vita in
Francia.
Leonardo incarna l’immagine ideale dell’artista
rinascimentale polimorfo: è poeta, scrittore, pittore,
scultore, ingegnere, urbanista, inventore di macchine
tecnologiche e scientifiche. Enorme la quantità dei suoi
progetti, i cui disegni e appunti riguardanti i più vari ambiti
del sapere ci sono in gran parte pervenuti. Leonardo può
essere considerato un precursore del ragionamento
scientifico moderno per l’importanza attribuita alla
sperimentazione empirica, metodo che sarà applicato
anche all’opera d’arte.
La corrente
Rinascimento maturo
Indica alcune parole chiave che inquadrano la corrente:
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• Suggerisci almeno un’opera che indaga un soggetto analogo ................................................................................................................
Cristallizzare la natura (la natura come metafora): Canestra di frutta, Caravaggio
Caravaggio, Canestra di
frutta, 1597-1600. Olio su
tela, 54,5x67,5 cm. Milano,
Pinacoteca Ambrosiana.
Tra il 1597 e il 1600 Caravaggio realizza la Canestra di frutta: il cesto è identico a quello stretto dal Giovane con
canestro di frutta del 1593-94 e sembra che sia stato appena deposto sul tavolo dal fanciullo, dopo la lunga posa
del ritratto.
Il genere della natura morta, che il suo primo maestro romano, il Cavalier d’Arpino, gli suggerisce di
frequentare, permette a Caravaggio di aprire una pagina nuova nella storia dell’arte. Egli non ripropone le
soluzioni virtuosistiche della pittura nordica, ma opera una magistrale fusione linguistica di tutte le lezioni che
7 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
ha appreso: ne consegue una nuova soluzione formale e stilistica, del tutto originale e tale da determinare
l’inizio di una storia tutta italiana della natura morta. È fondamentale comprendere l’atteggiamento che
Caravaggio nutre per il “contenuto” dell’opera per capire la modernità con la quale egli si rapporta a un soggetto
del genere. L’artista dichiara che “tanta manifattura gli è a fare un quadro buono di fiori, come di figure”: si tratta di
un’idea assolutamente nuova e provocatoria, che scardina il concetto di “gerarchia dei generi”.
Dal punto di vista compositivo, nulla è più artificiale della disposizione accurata di queste foglie e di questa frutta
nel canestro di vimini: l’artista vuole che ci immaginiamo la studiata preparazione, finalizzata, secondo la peculiare
poetica barocca, a far sentire la naturalezza del reale grazie al massimo di falsificazione della verità. Solo
una maestria da “regista” poteva impaginare una composizione così originale: sembra che il canestro sia al centro
del dipinto, ma, invece, è spostato sulla sinistra e tale asimmetria è compensata sulla destra dal ramo di vite
che, con il peso percettivo delle due foglie e con il suo prolungamento oltre il bordo del quadro, ristabilisce un
magico equilibrio all’insieme. Non possiamo non notare le micro proiezioni di luce su vari dettagli dell’insieme,
chicco per chicco e foglia per foglia; persino i rami dell’intreccio sono colpiti dal sole in punti definiti.
L’ambiente si riduce al bordo del tavolo in primo piano e alla parete monocroma dello sfondo. Tra questi si
colloca, senza altre distrazioni, l’unico oggetto della rappresentazione. Qualche foglia accartocciata e forata,
qualche frutto troppo maturo, già segnato dalla corruzione, fanno intendere che si tratta di un soggetto
moralizzante, che, al pari dei teschi presenti nei dipinti manieristici, ammonisce sulla brevità e la caducità della
vita: ma Caravaggio oltrepassa anche questo contenuto, esercitando fino in fondo la libertà e l’autonomia del
contenuto rappresentativo e dell’invenzione pittorica.
L’Artista
Caravaggio
Michelangelo Merisi detto Caravaggio (Milano, 1571
- Porto Ercole, 1610), intorno al 1592 si trasferisce a
Roma, dove frequenta la bottega del Cavalier d’Arpino,
ed esordisce come pittore di genere, incontrando il gusto
della committenza romana. L’incontro con il Cardinale Del
Monte, suo primo mecenate, gli fa ottenere importanti
commissioni di opere religiose, come le tele per la Chiesa
di San Luigi dei Francesi. Negli anni romani, Caravaggio
continua ad affrontare il tema religioso, realizzando opere
che suscitano scandalo ma consacrano la sua fama. Nel
1606 è coinvolto in una rissa e, condannato per omicidio,
è costretto a fuggire da Roma: si rifugia prima a Napoli,
poi a Malta e in Sicilia. Ferito e malato, muore a soli 39
anni a Porto Ercole, mentre sta cercando di rientrare a
Roma per ricevere la grazia.
Caravaggio è l’artista italiano più rivoluzionario del
secolo, perché non ha confronti nella spregiudicatezza
dei suoi contenuti e nella volontà consapevole di
dare scandalo con la sua amara interpretazione della
condizione umana: un contrasto violento di bene e di
male, di luce e d’ombra. Non esiste per Caravaggio
altro se non il presente, l’esperienza immediata delle
cose e degli eventi, e quindi persino i suoi santi e le sue
madonne non sono che figure tragiche della nostra stessa
realtà. II mito moderno e romantico di un Caravaggio
“pittore maledetto” sintetizza due caratteristiche:
l’effettiva inquietudine di vita e il realismo della sua
pittura.
La corrente
Barocco
Indica alcune parole chiave che inquadrano la corrente:
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• Suggerisci almeno un’opera che indaga un soggetto analogo ................................................................................................................
8 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
Il sublime della natura: Viandante sul mare di nebbia, Caspar David Friedrich
L’infinito di Leopardi.
Caspar David Friedrich, Viandante
sul mare di nebbia, 1818. Olio su
tela, 98x74 cm. Amburgo, Hamburger
Kunsthalle.
Nel dipinto, dal titolo sognante Viandante sul mare di nebbia, il personaggio di spalle è il centro dell’intera
composizione. Tale centralità possiede un significato simbolico importante, poiché, come nel Rinascimento,
costituisce l’elemento focale della rappresentazione. I crinali della valle convergono prospetticamente al centro,
sullo sfondo compaiono delle cime montuose situate simmetricamente rispetto all’asse mediano del dipinto e
altrettanto simmetriche sono le due cime intermedie che affiorano dal mare di nebbia. Il primo piano è riempito
dalla forma piramidale della vetta della montagna appena scalata e dove, con estrema nonchalance il personaggio,
appoggiato al bastone da passeggio, allunga di poco la gamba sinistra sul bordo del precipizio.
Il viandante-spettatore, in contemplazione della natura, sta osservando dalla cima della montagna le dure
e inquietanti materie che si stagliano oltre la distesa coltre di nuvole, verso l’infinito: è il principio o la fine del
mondo, la sua alba o il suo tramonto epocale.
Ѐ interessante notare che Friedrich realizza il dipinto negli stessi mesi in cui, in Italia, Giacomo Leopardi sta
componendo la sua poesia più famosa, L’infinito (uscirà nel 1819). Le differenze concettuali tra le due opere
sono sostanziali. Per Leopardi l’infinito è un’intuizione che nasce dalla liberazione della mente da qualsiasi
distrazione contingente (una siepe, che impedisce al poeta di guardare oltre, è proprio l’elemento casuale che
gli permette di immaginare uno spazio “al di là di essa”, che si protende all’infinito, non solo spaziale ma anche
e soprattutto temporale); per Friedrich invece l’infinito è il luogo mentale dell’attrazione paurosa, fatto di
paesaggi sconfinati e inafferrabili e forza scatenante del sentimento del sublime.
Per Friedrich il paesaggio non rappresenta un elemento accessorio del dipinto, ma è il suo tema principale,
basato sul sentimento dell’inquietudine: perché ciò appaia immediatamente chiaro, usa inserire quasi sempre
una figura di spalle che appare rivolta verso un orizzonte lontano. Questo personaggio rappresenta
lo spettatore stesso, prelevato dal luogo esterno all’opera e immesso direttamente al suo interno, perché,
attraverso un processo di immedesimazione, ne possa condividere l’atmosfera, generalmente malinconica, se non
addirittura crepuscolare o funerea. Nelle opere di Friedrich, l’uomo ignora lo spettatore volgendogli le spalle e
rimane in raccoglimento, in contemplazione della natura, come se avesse trovato un luogo sacro: la sua preghiera
riecheggia nel silenzio della natura.
9 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
L’Artista
Caspar David Friedrich
Caspar David Friedrich (Greifswald, 1774 - Dresda,
1840), si forma all’Accademia di Copenaghen e nel
1798 si trasferisce a Dresda, tra i più importanti centri
del Romanticismo tedesco, dove resterà per tutta la
vita. Nel 1810 entra a far parte dell’Accademia delle
Arti di Berlino: è in questa fase che combina ai paesaggi
mistici l’attenzione verso ripetitive allegorie religiose,
connubio che renderà i suoi quadri molto popolari.
Negli ultimi anni di vita, a causa di depressioni sempre
più forti e incontrollabili, l’artista conduce una vita
sempre più ritirata, orientando le proprie opere verso la
raffigurazione simbolica della morte.
Friedrich è il più grande artista romantico tedesco e
rappresentante significativo della poetica del sublime.
Gli studi artistici lo avvicinano sin da subito alla pittura di
paesaggio, soprattutto quella olandese del Seicento, che,
sotto l’influenza del Romanticismo, rielabora formalmente
e concettualmente. Una delle componenti iniziali della
sua produzione pittorica è legata a un profondo senso
religioso, che, nel tempo, si tramuta in una ricerca più
concettuale, collegata con la dimensione del sublime,
una nozione che era stata indagata dal grande filosofo
tedesco Immanuel Kant, ispirato dalle ricerche di
Burke, vale a dire il sentimento di curiosità, sorpresa,
sgomento e paura, come reazione finale del processo di
appercezione di un elemento, tanto della natura tanto del
mondo dell’arte.
La corrente
Romanticismo tedesco
Indica alcune parole chiave che inquadrano la corrente:
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• Suggerisci almeno un’opera che indaga un soggetto analogo ................................................................................................................
10 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
La natura indecifrabile: Campo di grano con volo di corvi, Vincent van Gogh
Vincent van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890. Olio su tela, 50,5 x 103 cm, Amsterdam, Van Gogh Museum.
Jacob van Ruisdael, Paesaggio con campo di grano,
1655-65. Olio su tela, 40 x 45,7 cm. Los Angeles, J. Paul
Getty Museum.
Campo di grano con volo di corvi non è l’ultima opera di van Gogh, ma è quella che, per il suo carattere, può dirsi
simbolicamente conclusiva della sua intera produzione artistica.
Il confronto con l’opera di van Ruisdael, primo grande paesaggista “moderno”, anche lui olandese, mette in
evidenza alcune analogie: il cielo intensissimo, la netta demarcazione dell’orizzonte, la presenza di una serie
di sentieri che si dipartono da un centro. Il soggetto del quadro di van Gogh è dunque simile a quello di
van Ruisdael: ma il cielo si è incupito, la linea di terra si è alzata e i colori così intensi, quasi urlati, sembrano
concorrere al dolore esistenziale dell’artista.
La parte anteriore del dipinto raffigura un trivio: da che parte andare, verso quale destino? Nel dipinto di
Ruisdael il significato del sentiero è da leggere in termini positivi: tutte le strade sono percorribili, il mondo
non ancora conosciuto è in attesa di essere colonizzato. La scelta di van Gogh è diversa: stare fermo al centro,
abbandonare la speranza di trovare la via giusta. Il sentiero si è interrotto per sempre. La straordinaria
bellezza dell’opera, che quasi inaugura l’arte contemporanea espressionista, consiste proprio nell’impossibilità di
essere decifrata. Neppure i corvi, che vediamo sopraggiungere in folto stormo, hanno qualcosa da rivelarci.
Colpisce il formato orizzontale del dipinto, largo il doppio esatto dell’altezza, come se le consuete misure
usate da van Gogh non fossero sufficientemente capaci di esprimere un orizzonte così vasto di dolore senza
prospettiva di pace.
11 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
L’Artista
Vincent van Gogh
L’attività artistica di Vincent van Gogh è interamente
racchiusa nei dieci anni compresi tra il 1880 e il 1890.
Quando Vincent van Gogh (Groot Zundert, 1853 –
Auvers-sur-Oise, 1890), dopo aver lasciato il suo lavoro
inizia a produrre dipinti, è perfettamente consapevole
di cosa comporti la scelta di dedicarsi completamente
all’arte: miseria, incomprensione, solitudine. Lo dice
chiaramente in una delle innumerevoli lettere al fratello
Theo, già nel 1883, diviso tra l’impegno sociale e quello
pittorico, che si fa sempre più travolgente: «Credo che il
mio corpo reggerà a ogni costo ancora per qualche anno (ha
allora trent’anni), credo tra i sei e dieci. Non ho intenzione
di risparmiarmi (…). Il mondo non mi interessa se non nella
misura del debito che sento di avere verso di esso». Sette
anni dopo morirà suicida.
Da Anversa, dove aveva provato a vivere, si trasferisce
a Parigi: è il 1886. Vi trascorre due anni, in cui il suo
stile matura ulteriormente. Ma decide di andare a Sud,
incontro al sole, che dovrà dare luce a tutti i suoi dipinti.
Si trasferisce ad Arles, in Provenza. È il 1888. Riesce
a trovare la sede adatta per lavorare, risiedendo in
una casa vicino alla piazza, la famosa “casa gialla”, che
compare in alcuni dipinti. Scopre un “motivo” pittorico,
che sarà fondamentale: la visione dei campi “a perdita
d’occhio”. Ad Arles spera di creare una “comune” di
artisti; il primo ad essere invitato sarà Gauguin, il quale,
poco dopo, lo abbandonerà. Vincent compirà un gesto
autolesionistico, tagliandosi un orecchio. La sua situazione
psichica si fa sempre più drammatica. Nonostante ciò
continua a dipingere.
La malattia che da tempo lo affligge, che da quel tempo,
in maniera superficiale verrà diagnosticata come epilessia,
lo obbliga a ricoverarsi nell’ospedale locale, con una certa
libertà di movimenti. Nel 1889 si trasferisce a Saint-Remy,
nel cui manicomio egli stesso chiede di essere ospitato.
Da qui si trasferirà ad Auvers-sur-Oise, dove verrà
assistito dal dottor Gachet. È il 1890, morirà pochi mesi
dopo.
La corrente
Post-impressionismo
Indica alcune parole chiave che inquadrano la corrente:
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La natura come fuga e rifugio: Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, Paul Gauguin
Paul Gauguin, Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?, 1897. Olio su tela, 139,1 x 374,6 cm. Boston,
Museum of Fine Arts.
Gauguin realizzò quest’opera, immersa nel colore della notte o dell’inferno, affidandole il compito di
rappresentare una sorta di testamento spirituale. La vasta composizione contiene una sintesi eterogenea
di elementi desunti dalla tradizione folklorica locale, dalla mitologia e dalla semplice illustrazione della vita
quotidiana e, soprattutto, dalla profondità della mente. «Ho voluto mettere in scena in un decór suggestivo il mio
sogno: questo è lo scopo del dipinto».
Dal punto di vista compositivo il dipinto sviluppa una direzione narrativa a partire da destra. È lo stesso artista
a guidarci nell’interpretazione: «Ai due angoli in alto, dipinti in giallo cromo, reca il titolo a sinistra e la mia firma a
destra, come un affresco guasto agli angoli applicato su di un fondo oro. A destra, in basso, un bambino addormentato
e tre donne sedute. Due figure vestite di porpora si confidano i propri pensieri. Una grande figura accovacciata, che
elude volutamente le leggi della prospettiva, leva il braccio e guarda attonita le due donne che osano pensare al loro
destino. Al centro una figura coglie frutti. Due gatti accanto a un fanciullo. Una capra bianca (in realtà nera). Un idolo
(Hina, la dea luna, che, nella mitologia tahitiana, accuratamente studiata da Gauguin, implora il genio della Terra
di rendere gli uomini immortali), con le braccia alzate misteriosamente e ritmicamente, sembra additare l’aldilà.
Una fanciulla seduta pare ascoltare l’idolo. Infine una vecchia, prossima alla morte, placata e presa dai suoi pensieri,
completa la storia, mentre uno strano uccello bianco, che tiene una lucertola con gli artigli, rappresenta la vanità
delle parole. Tutto ciò accade lungo un ruscello, sotto gli alberi. In fondo è il mare e le cime dell’isola vicina. Malgrado i
diversi motivi di colore, il tono del paesaggio è tutto blu e verde veronese. Su questo fondo tutti i nudi staccano in vivo
arancione».
Il senso ultimo del dipinto è quello, dunque, di rappresentare il destino dell’uomo e lo scorrere della vita
fino alla morte. Il bambino che dorme rappresenta la fanciullezza, la donna al centro rappresenta la pienezza
della vita e l’anziana sta a rappresentare la vecchiaia e la morte.
Come sempre, quando si vuole dire tutto si rischia di confondere tra loro questioni davvero essenziali. E
Gauguin è il primo a riconoscere i “difetti” dell’opera e la sua ingenuità: «Forse la meditazione, assente nella
tela, è compensata da un che d’ineffabile (causato) dall’angoscia e dal tormento con cui l’ho dipinta. (...) La forma
è troppo rudimentale (ma) deve esserlo, mentre l’esecuzione è troppo semplice (ma) deve esserlo». Nell’artista ha
preso corpo definitivamente la certezza, più volte intuita, che il suo trascorso nelle isole, ormai rovinate da una
colonizzazione forzata e dalla distruzione della cultura indigena prodotta dalla civiltà occidentale, dal turismo e
dai missionari, non è stato che un’ingenua presenza di una natura vergine che s’abbandona ai piaceri della
vita in un paradiso immaginario.
13 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
L’Artista
Paul Gauguin
La vita di Paul Gauguin (Parigi, 1848 - Atuona, Hiva
Oa, Polinesia Francese, 1903), passata in luoghi diversi
della Francia e persino molto lontani dall’Europa,
è emblematica della nuova cultura “moderna”,
i cui confini si aprono all’esperienza del mondo; a
questo si aggiunga l’attitudine alla ribellione contro
la futilità della vita borghese, di radice anarcoide,
che lo accompagnerà nel corso della sua esistenza. È
interessante notare come artisti come van Gogh o
Gauguin, che furono, soprattutto agli inizi della loro
carriera, fortemente radicali in campo politico, assumendo
le parti dei più deboli e degli sfruttati, non abbiano voluto
accettare la rivoluzione industriale e la grande rivoluzione
tecnologica della loro epoca. Come van Gogh, inoltre,
Gauguin supera l’estetismo formale degli impressionisti
facendo coincidere l’arte con la vita; ma, a differenza
di van Gogh, che fa della pittura l’unica dimensione
dell’esistenza, Gauguin la usa per contrassegnare e
confermare gli episodi «estetici» della sua vita osservati
e considerati già di per sé come dotati di artisticità: la
pittura non è tanto un «sintomo» quanto un «simbolo»
d’una realtà e d’un mondo; i viaggi e i soggiorni nelle isole
dell’Oceania, la cui natura lussureggiante e la cui pacifica
e dolce popolazione Gauguin dipinge con trasporto
amoroso, sono la testimonianza non tanto d’una fuga,
quanto di un’estensione del piacere estetico al di
fuori dell’arte.
Il sentimento di libertà, che proviene da questa
concezione estetica, trova analogia con la libertà con la
quale realizza una pittura selvaggia, che non cura la
rappresentazione realistica, ma quella simbolica, dai toni
cromatici spesso inventati e impossibili, un colore, nel
complesso, piatto, steso à plat, ovvero uniforme.
La corrente
Post-impressionismo
Indica alcune parole chiave che inquadrano la corrente:
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14 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
La natura superata: il paesaggio urbano di Nollendorfplatz, Ernst Ludwig Kirchner
Ernst Ludwig Kirchner, Nollendorfplatz, 1912. Olio su tela,
69 x 59,7 cm. Berlino, Stiftung Stadtmuseum.
«Le luci della città moderna e il movimento delle
strade sono per me un continuo stimolo che sempre
mi rinnova». Con queste parole Kirchner sintetizza
mirabilmente lo spirito dell’intero gruppo della
Brücke. La rivoluzione degli artisti della Brücke nasce
come contrasto al lirismo degli Impressionisti. Il
luogo della sfida non è più infatti il paesaggio naturale,
ma la metropoli, che muta ogni giorno a causa di
nuove architetture, dell’aumento dei commerci e del
traffico veicolare. Nel descrivere questa nuova realtà
artificiale della metropoli il colore non possiede più
alcuna caratteristica naturalistica. Non occorre più
indugiare a raffigurare i particolari di tale mondo,
bastano poche ma precise pennellate per dimostrare
la propria opposizione alla società contemporanea e,
soprattutto, per permettere all’artista di “urlare” tutta
la propria individualità e la propria coscienza sociale
ed etica.
Ernst Ludwig Kirchner, che viene da studi di
architettura, nel raffigurare una piazza di Berlino Nollendorfplatz sembra usare una lente fish-eye, il cui effetto,
sommato all’uso di due soli colori e a un disegno pesante e corsivo, produce una sensazione di profondo
disagio nello spettatore. In questa, come altre sue opere, che distorcono così violentemente il paesaggio urbano,
non si spiegano se non con il prevalere sugli studi rigorosi della volontà artistica di interpretare la città come un
mondo in sfacelo.
Un effetto simile, ma di diverso tenore, è quello ricercato dal film espressionista Metropolis di Fritz Lang: vi si
racconta il tema della robotizzazione operaia e dell’annullamento della libertà per tutti, tranne che per coloro
che sono i “padroni”. L’immagine espressionista della città è senza speranza ed esprime in maniera molto intensa
la coscienza dell’alienazione dell’uomo, soffocato da un sistema sociale feroce ed assurdo.
L’Artista
Ernst Ludwig Kirchner
Ernst Ludwig Kirchner (Aschaffenburg, 1880 – Davos,
1938) divenne il leader del gruppo dichiaratamente
espressionista che si riuniva nel suo atelier: Die Brücke,
“Il Ponte”. Era un nome scelto per i suoi numerosi
riferimenti simbolici, il più importante dei quali deriva da
un concetto sviluppato dal filosofo Friedrich Nietzsche
(1844-1900), cui gli artisti della Brücke erano idealmente
collegati. Al “ponte” Nietzsche fa riferimento nel libro
Così parlò Zarathustra, mentre riflette sul destino
dell’uomo: «L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il
superuomo, un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio
periglioso, un periglioso essere in cammino [...] La grandezza
dell’uomo è di essere un ponte non uno scopo: nell’uomo
si può amare che egli sia una transizione e un tramonto».
L’idea dell’uomo in perenne ricerca di equilibrio sul
filo sospeso sopra l’orrore del mondo diventerà un
riferimento frequente in tutti gli artisti dell’avanguardia.
La corrente
Die Brücke (Espressionismo)
Indica alcune parole chiave che inquadrano la corrente:
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15 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
La natura sacralizzata: Il cervo nel giardino del convento, Franz Marc
Franz Marc, Cervo nel
giardino del convento, 1912.
Olio su tela, 76 x 101 cm.
Monaco, Städtische Galerie in
Lenbachhaus.
Nell’opera di Franz Marc appare il soggetto figurativo più emblematico e anomalo dell’intera pittura dei primi
del Novecento: l’animale, simbolo d’una natura che sembra lanciare il suo ultimo richiamo primordiale. Tuttavia, il
rapporto dell’uomo con l’animale è fondato su una difficile conoscibilità: questi abita il mondo anti o pre-umano,
ovvero il luogo per noi “incomprensibile”.
Il dipinto è caratterizzato da una vibrante scomposizione prismatica delle forme e dall’accostamento di
colori ritmati da contrasti nervosi, che possono far pensare ad alcuni quadri futuristi, caratterizzati dal tentativo di
rappresentare il movimento.
A proposito di tale opera Marc ricordava: «Ero circondato da forme insolite e disegnavo ciò che vedevo: forme dure,
infelici, forme nere, azzurre come l’acciaio e verdi, forme che urtavano con fragore l’una contro l’altra tanto che il mio
cuore gridava per il dolore; io vedevo infatti come tutto era diviso e come tutto si alterava».
Si tratta di un’opera tutt’altro che astratta; è possibile notare, al centro, il muso dell’animale girato di fianco.
Sembra racchiudere un significato importante: per capire la natura dobbiamo farci noi stessi natura, farci quasi
parte della sua sacralità, personificandoci quasi in un animale, che, come il cervo, vede quel mondo con occhi
diversi dai nostri.
L’Artista
Franz Marc
Il tedesco Franz Marc (Monaco di Baviera, 1880 -
Braquis, 1916) è uno degli artisti del gruppo Il cavaliere
azzurro (Der Blaue Reiter), la componente astrattiva
e spiritualista dell’Espressionismo. Con Kandinskij e
Paul Klee prese parte alla redazione dell’unico numero
dell’almanacco Der Blaue Reiter. Nella sua ricerca
relativa ai contenuti interiori dell’espressione e alla
spiritualità dell’arte, accentua l’astrazione formale
l’interpretazione mistica della natura. Partito come
volontario, muore nella Prima guerra mondiale.
La corrente
Der Blaue Reiter (Espressionismo)
Indica alcune parole chiave che inquadrano la corrente:
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16 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
La natura ricostruita: Floating Piers, Christo e Jeanne-Claude
Christo e Jeanne-Claude, Floating Piers,
2016. Lago d’Iseo
Utilizzare il paesaggio stesso come
un elemento su cui intervenire
direttamente, trasformandolo in
opera d’arte: non inserendo in esso
un’opera, il che sempre avviene
quando si colloca in una piazza un
monumento, ma trasformandolo in
opera: questa è la sfida della Land
Art. E tra gli artisti contemporanei di
Land Art più noti sono da annoverare
Christo e Jeanne-Claude, che passano
dall’impacchettamento di piccoli oggetti
all’avvolgimento di grandi strutture
naturali o architettoniche. Tale scelta è determinata intenzionalmente dal proposito, da parte degli artisti, di
giungere a realizzare un intervento nella città o nella natura stessa «al di fuori del sistema dell’arte e inserito –
come dichiarano Christo e Jeanne- Claude – direttamente a contatto della vita di ogni giorno». Il passaggio segna
anche il passaggio da un’arte e da un’economia delle merci materiali ad un’arte e a un’economia degli eventi.
L’intento di Christo e Jeanne-Claude consiste nel trasformare ciò che è ovvio e abitudinario in qualcosa
che improvvisamente, celandosi, si fa manifesto. Ciò che eravamo così abituati a vedere, e che rischiava di
non essere più visto, tutto a un tratto appare dotato di un valore nuovo e prezioso.
Una delle installazioni più monumentali, è Floating Piers (moli galleggianti), eseguita in Italia, sul lago d’Iseo, e
documentata dalle prime pagine dei giornali (in ciò testimoniando lo spostamento avvenuto nell’epoca postmoderna
dalla sfera dell’analisi critica come prioritaria alla dimensione della stampa quotidiana come luogo di
riverberazione dell’opera d’arte). L’intervento è consistito in 100.000 metri quadrati di tessuto giallo scintillante,
trasportati da un sistema modulare di 220.000 cubi di polietilene ad alta densità che galleggiavano sulla superficie
dell’acqua. I visitatori hanno potuto sperimentare l’opera d’arte camminandoci sopra da Sulzano a Monte Isola e
all’isola di San Paolo, che è stata incorniciata da The Floating Piers.
L’Artista
Christo e Jeanne-Claude
Christo, il cui nome completo sarebbe Christo Javacheff, è
nato nel 1935 in Bulgaria. Christo diventa un artista molto
noto già alla fine degli anni Cinquanta, quando, dalla Francia,
si trasferisce negli Stati Uniti, dove realizza i suoi primi lavori,
i famosi “Impacchettamenti” (il vero titolo di questa serie
cospicua di opere è Empaquetages), che ricoprivano di tela,
di diversa consistenza e tipologia, vari oggetti, come bottiglie,
barattoli, bidoni o scatole. Da queste operazioni in scala
ridotta, Christo, che nel frattempo inizia la collaborazione
con Jeanne-Claude (1935-2009), con la quale firmerà
tutte le opere, passerà in breve tempo a impacchettare
elementi sempre più grandi e voluminosi, fino ad avvolgere
completamente interi edifici (questi tipi di operazione
richiederanno un gruppo sempre più numeroso ed esperto
di collaboratori). Jeanne-Claude, deceduta nel 2009, ha
partecipato alla progettazione dei pontili galleggianti a partire
dal 1970, ma non ha visto la realizzazione del progetto sul
lago d’Iseo.
Tra gli edifici architettonici sottoposti ad una radicale
copertura mediante gigantesche tele di materiale plastico
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La corrente
Land Art
Indica alcune parole chiave che inquadrano la corrente:
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© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
vanno ricordati il Museo d’Arte Contemporanea di Chicago
(1969), il Pont Neuf di Parigi (1985) e il Reichstag di Berlino
(1995). Ma Christo compie anche altri interventi smisurati,
erroneamente definiti di Land Art, quali l’installazione di
un enorme telo di plastica che occlude un’intera valle nel
Colorado (1970-72) oppure la recinzione, a una a una, di
ben undici isole situate nella baia di Biscayne, vicino a Miami,
in Florida, utilizzando, in questo caso, smisurate strisce di
Poliprylene, colorate in rosa. Per diversi anni (1984 –91)
Christo e Jeanne-Claude hanno proceduto a installare, per un
tempo predeterminato, 3100 grandi ombrelli, in alluminio e
tela, in varie parti del mondo (Giappone e Stati Uniti).
• Suggerisci almeno un’opera che indaga un soggetto analogo ................................................................................................................
Laboratorio
COMPRENDERE E ANALIZZARE
Completa la tabella.
Paesaggio
della Valle
dell’Arno
e Studi
botanici,
Leonardo
da Vinci
Canestra
di frutta,
Caravaggio
Viandante
sul mare
di nebbia,
Caspar
David
Friedrich
Campo di
grano con
volo di corvi,
Vincent van
Gogh
Da dove
veniamo?
Chi siamo?
Dove
andiamo?,
Paul
Gauguin
Nollendorfplatz,
Ernst
Ludwig
Kirchner
Il cervo nel
giardino del
convento,
Franz Marc
Floating
Piers,
Christo
e Jeanne-
Claude
Qual è il soggetto
dell’opera.
A quale tipologia/
genere appartiene
l’opera?
Precisa la tecnica:
che funzione ha
nell’esprimere il
tema?
Ci sono simboli
espliciti che
parlano del
rapporto uomonatura?
Di quali altri
mezzi espressivi si
avvale l’artista per
esprime il tema?
Elementi
compositivi
significativi
CONTESTUALIZZARE
Scegli una delle opere proposte e indaga in maniera interdisciplinare l’aspetto esaminato.
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© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
LETTERATURA INGLESE
J.G. BALLARD
The Concrete Island (1974)
In Ballard’s novel The Concrete Island, a man called Robert Maitland loses control of his car and plunges down
into a large area of waste ground at an intersection between elevated highways. Nobody notices the accident and
Maitland’s cries for help are not heard because of the noise of the traffic. The novel then moves to his acceptance
of the island as his new habitation, a familiar yet unknown territory he must try to dominate and transform. In his
imagining of the novel as an improbable tale of modern survival, Ballard acknowledges his debt to Defoe’s Robinson
Crusoe. But while Crusoe builds a bourgeois model of society on his desert island, Maitland uses the experience to
escape bourgeois modernity. He also encounters two people on the island and has a complicated relationship with
them. By the end of the novel Maitland is suspended between two worlds, delaying any decision to go back to his
old life and taking pleasure in merely planning his escape.
Maitland explores the strange island. He is wounded. He walks slowly taking in what’s around him. The environment
looks like an uninhabited city, with buildings from different times. There are concrete structures, technological remains,
a desolate landscape where concrete and steel represent nature. While he explores this incomprehensible place, he
decides to become part of it, as if his body were torn to pieces and spread throughout the island.
Almost carried by the grass, Maitland climbed on to the roof of an abandoned air-raid shelter. Resting here,
he inspected the island more carefully. Comparing it with the motorway system, he saw that it was far older
than the surrounding terrain, as if this triangular patch 1 of waste ground had survived by the exercise of
a unique guile 2 and persistence, and would continue to survive, unknown and disregarded, long after the
motorways had collapsed into dust. Parts of the island dated from well before World War II. The eastern
end, below the overpass, was its oldest section, with the churchyard and the ground-courses 3 of Edwardian
terraced houses. The breaker’s yard 4 and its wrecked cars had been superimposed on the still identifiable
streets and alleyways. In the centre of the island were the air-raid shelters among which he was sitting.
Attached to these was a later addition, the remains of a Civil Defence post little more than fifteen years old.
Maitland climbed down from the shelter. Supported by the grass blades swirling 5 around him like a flock 6
of eager attendants, he hobbled 7 westwards down the centre of the island. He crossed a succession of low
walls, partly buried under piles of discarded 8 tyres and worn steel cable. Around the ruin of a former paybox,
9 Maitland identified the ground-plan of a post-war cinema, a narrow single-storey 10 flea-pit 11 built from
cement blocks and galvanized iron. Ten feet away, partly screened by a bank of nettles, 12 steps ran down
to a basement. Looking at the shuttered 13 pay-box, Maitland thought unclearly of his own childhood visits
to the local cinema, with its endless programmes of vampire and horror movies. More and more, the island
was becoming an exact model of his head. His movement across this forgotten terrain was a journey not
merely through the island’s past but through his own. His infantile anger as he shouted aloud for Catherine
reminded him of how, as a child, he had once bellowed unwearyingly 14 for his mother while she nursed
his younger sister in the next room. For some reason, which he had always resented, she had never come
to pacify him, but had let him climb from the empty bath himself, hoarse 15 with anger and surprise. Too
exhausted to press on, Maitland sat on a stone wall. Around him the high nettles rose into the sunlight, their
tiered and serrated 16 leaves like the towers of Gothic cathedrals, or the porous 17 rocks of a mineral forest
on an alien planet. Hunger contracted his stomach in a sudden spasm, forcing him to vomit on to his knees.
He wiped away the phlegm and hobbled across the brick courses to the southern embankment. Losing
consciousness for short intervals, he wandered to and fro, his eyes unfocused, following the blunted end of
the crutch. As he tottered about, Maitland found himself losing interest in his own body, and in the pain that
1. patch: area.
2. guile: deceit.
3. ground-courses: foundations.
4. breaker’s yard: rubbish dump for
destroyed or abandoned cars.
5. swirling: spiralling.
6. flock: large group.
7. hobbled: walked with a limp.
8. discarded: abandoned.
9. pay-box: ticket counter.
10. single-storey: one-floor.
11. flea-pit: name given to a small,
dilapidated cinema.
12. nettles: stinging plants.
13. shuttered: closed behind shutters.
14. bellowed unwearyingly: cried
desperately without stopping.
15. hoarse: rough-voiced.
16. tiered and serrated: jaggedly
stratified in layers.
17. porous: full of holes.
19 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
inflamed 18 his leg. He began to shuck off 19 sections of his body, forgetting first his injured hip, then both his
legs, erasing all awareness of his bruised chest and diaphragm. 20 Sustained by the cold air, he moved through
the grass, looking round calmly at those features of the island he had come to know so well during the past
days. Identifying the island with himself, he gazed at the cars in the breaker’s yard, at the wire-mesh fence,
and the concrete caisson 21 behind him. These places of pain and ordeal were now confused with pieces of his
body. He gestured towards them, trying to make a circuit of the island so that he could leave these sections
of himself where they belonged. He would leave his right leg at the point of his crash, his bruised hands
impaled upon the steel fence. He would place his chest where he had sat against the concrete wall. At each
point a small ritual would signify the transfer of obligation from himself to the island.
18. inflamed: made swell.
19. shuck off: mentally remove.
20. diaphragm: muscle which helps one to breathe.
21. caisson: structure used in the construction of bridges.
Other suggestions:
• The research of a relationship with nature: William Wordsworth, Lines Written in Early Spring (1798)
• Celebration of Nature as a powerful force: Percy Bhysse Shelley, Ode to the West Wind (1820)
• Struggle between individual and nature: Herman Melville, Moby Dick (1851), chapter 41
• Nature as celebration of beauty: Walt Whitman, On the Beach at Night Alone (1892)
• The struggle to survive in a hostile environment: Jack London, The Call of the Wild (1903), chapter 1
• Nature as research of a pure life: Jon Krakauer, Into the Wild (1996), The Stampede Trail
20 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
LETTERATURA LATINA
Uomo e Natura: da Tacito a Greta
Il resoconto epistolografico di Plinio il Giovane a Tacito relativo all’eruzione del Vesuvio (79 d.C.) può essere
l’interessante punto di partenza per una riflessione sul tema della Natura in letteratura.
Letteratura latina
1. La morte di Plinio il Vecchio
Caro Tacito,
mi chiedi di narrarti la morte di mio zio affinché tu possa tramandarla ai posteri con maggiore esattezza. E te
ne sono grato: ritengo, infatti, che, se da te narrata, la sua morte sarà destinata a gloria imperitura. Sebbene,
infatti, egli sia morto in mezzo alla distruzione di un paese bellissimo, assieme a intere città e popolazioni,
in una situazione degna di memoria, quasi per sopravvivere per sempre nel ricordo, e sebbene egli stesso
abbia composto molte e durevoli opere, tuttavia, molto aggiungerà, al perdurare della sua fama, l’immortalità
dei tuoi scritti. Io considero, invero, fortunati coloro ai quali, per dono degli dei, è dato di fare cose degne
d’esser narrate o di scriverne degne d’essere lette. Fortunati oltremodo coloro cui è dato questo e quello.
Fra costoro, per i suoi ed i tuoi libri, sarà mio zio. È per questo che sono ben lieto di fare ciò che mi chiedi,
ed anzi te lo chiedo io stesso come favore. Egli era a Miseno, dove personalmente dirigeva la flotta. Il nono
giorno prima delle calende di settembre (24 agosto), verso l’ora settima, mia madre lo avverte di una nube
inconsueta per forma e grandezza. Egli, dopo aver fatto un bagno di sole ed uno d’acqua fredda, se ne stava
disteso, fatta una piccola colazione, a studiare: chiede le calzature e sale in un sito dove poteva osservare
meglio quel fenomeno straordinario. Una nube si formava e non era chiaro all’osservatore da quale monte
s’innalzasse (si seppe, poi, essere il Vesuvio), il cui aspetto, fra gli alberi, era vicino a quello del pino. Essa,
infatti, levatasi verticalmente come un altissimo tronco, s’allargava poi a guisa di rami, probabilmente perché,
sollevata grazie alla spinta di una corrente ascendente e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella,
o cedendo al suo stesso peso, si allargava lentamente: a tratti bianca, a tratti nera e sporca a causa della
terra e della cenere che trasportava. Da persona eruditissima quale era, gli parve che quel fenomeno dovesse
essere osservato meglio e più da vicino. Ordina, allora, che gli sia apprestata una liburna: mi autorizza, se
voglio, ad andare con lui. Io gli rispondo che preferisco restare a studiare. Era sul punto d’uscire di casa,
quando riceve un messaggio di Rettina, moglie di Casco, atterrita dal pericolo che la minacciava (la sua villa
era, infatti, ai piedi del monte, e nessuna possibile via di scampo v’era tranne che con le navi): supplicava
d’essere sottratta a tale pericolo. Egli, allora, mutò consiglio e, quello che intendeva compiere per amor di
scienza, fece per spirito di dovere. Mette in mare le quadriremi e s’imbarca egli stesso, per portare aiuto
non alla sola Rettina, ma a molti perché, per l’amenità del lido, la zona era molto abitata. S’affretta proprio
là donde gli altri fuggono, va diritto, il timone volto verso il luogo del pericolo, così privo di paura da dettare
e descrivere tutti i fenomeni del flagello che si compiva davanti ai suoi occhi. Già la cenere pioveva sulle
navi, sempre più calda e densa quanto più esse si avvicinavano; e si vedevano già pomici e ciottoli anneriti
e bruciati dal fuoco e spezzati; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita dai massi proiettati dal
monte. Dopo una breve esitazione, indeciso se tornare indietro come gli suggeriva il pilota, esclama: «La
fortuna aiuta gli audaci, dirigiti verso Pomponiano! Questi si trovava a Stabia, dall’altro lato del golfo. Quivi
Pomponiano, sebbene il pericolo non fosse imminente, ma considerando che tale potesse presto divenire,
aveva trasferito su navi le sue cose, pronto a fuggire non appena il vento si fosse calmato. Ma il vento era
allora del tutto favorevole a mio zio, che arrivava in direzione opposta. Egli abbraccia l’amico impaurito, lo
incoraggia, lo conforta e, per calmarne le paure con la propria sicurezza, chiede di essere portato al bagno:
si lava, cena allegramente o, assai più probabilmente, fingendo allegria. Frattanto in molte parti del monte
Vesuvio risplendevano larghe fiamme e vasti incendi, il cui chiarore e la cui luce erano resi più vividi dalla
oscurità della notte. Per calmare le paure, mio zio diceva che si trattava di case che bruciavano abbandonate
dai contadini in fuga. Poi se ne andò a dormire e dormì di un autentico sonno, poiché la sua respirazione,
resa più pesante e rumorosa dalla corporatura massiccia, era udita da quanti passavano accanto alla soglia.
Intanto il livello del cortile s’era così tanto innalzato per la caduta di cenere e pomici che, se avesse più a
lungo indugiato, non sarebbe più potuto uscire dalla stanza. Svegliato, egli esce dalla sua camera e raggiunge
Pomponiano e gli altri, che non avevano chiuso occhio. Si consultano tra loro se devono restare in casa
o uscire all’aperto. Continue e prolungate scosse telluriche scuotevano infatti la casa e, quasi l’avessero
strappata dalle fondamenta, sembrava che essa sbandasse ora da una parte, ora dall’altra per poi riassestarsi.
D’altra parte all’aperto si temeva la pioggia di lapilli, per quanto leggeri e porosi. Tuttavia, confrontati i
pericoli, egli sceglie di uscire all’aperto. Messi dei cuscini sul capo li legano bene con lenzuoli. Fu questo il
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loro riparo contro quella pioggia. Già ovunque faceva giorno, ma colà regnava una notte, più scura e fitta
di ogni altra notte, sebbene mitigata da molte fiamme e varie luci. Egli vuole uscire sul lido e guardare da
vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma questo era, tuttavia, agitato e impraticabile. Quivi, riposando
su un lenzuolo disteso, domanda dell’acqua e beve avidamente. Intanto le fiamme e l’odore sulfureo che le
annunciava mettono in fuga alcuni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due servi, si leva in piedi, ma subito
ricade perché, suppongo, l’aria ispessita dalla cenere aveva ostruita la respirazione e bloccata la trachea,
che egli aveva per natura delicata e stretta e frequentemente infiammata. Quando fu giorno (era il terzo
dopo quello della sua morte), il suo corpo fu ritrovato intatto ed illeso, con indosso i medesimi vestiti:
l’aspetto più simile a un uomo che dorme che a un morto. Io e mia madre eravamo intanto a Miseno […] ma
ciò non riguarda questa storia e tu da me non volevi conoscere altro che la sua morte. Dunque concluderò.
Aggiungerò solo che ho fedelmente esposto tutto ciò che ho visto o che ho saputo subito dopo, quando i
ricordi sono più veritieri. Tu cavane fuori il meglio.
Addio
(Plinio il Giovane, Lettere ai familiari, VI, 16)
2. Una fuga rocambolesca
Caro Tacito,
mi dici che, incuriosito dalla lettera che mi hai chiesto di scriverti sulla morte di mio zio, desideri conoscere
non solo quali timori, ma anche quali pericoli io abbia affrontato, quando fui lasciato a Miseno. Stavo infatti
per dirtelo, ma poi mi sono interrotto. Benché l’animo inorridisca al ricordo […] comincerò. Partito lo zio,
trascorsi il restante tempo a studiare (ero rimasto proprio per questo); poi il bagno, la cena ed un sonno
breve ed inquieto. Molti giorni prima si erano sentite scosse di terremoto, senza però che vi si facesse gran
caso, perché in Campania sono frequenti; ma in quella notte furono così forti che sembrò che ogni cosa non
solo si muovesse, ma addirittura si rovesciasse. Mia madre si precipitò nella mia stanza, mentre mi stavo
alzando per andare a svegliarla nel caso stesse dormendo. Ci sedemmo nel cortile che separava la casa dal
mare. Io non so se chiamarlo coraggio o imprudenza (non avevo ancora 18 anni): chiedo un volume di Tito
Livio e così, per ozio, mi metto a leggere. Quand’ecco un amico ed ospite dello zio, appena arrivato dalla
Spagna, alla vista di me e mia madre seduti nel cortile, ed io per giunta che leggevo, rimprovera lei per la
propria indolenza e me per la spensieratezza. Non per questo io sospesi la mia lettura. Era già la prima ora
del giorno, eppure la luce era ancora incerta e languida. Le abitazioni intorno erano squassate e benché
fossimo in un luogo aperto, ma angusto, grande era il timore di un crollo. Allora, finalmente ci sembrò
opportuno uscire dalla città. Quivi assistiamo a molti fenomeni e molti pericoli. Infatti i veicoli che avevamo
fatto predisporre perché ci seguissero, sebbene il terreno fosse pianeggiante, andavano indietro e neppure
con il sostegno di pietre restavano al loro posto. Pareva, inoltre, che il mare fosse riassorbito in sé stesso e
quasi respinto dal terremoto. Certamente la spiaggia si era allargata e molti pesci giacevano sulla sabbia. Dal
lato opposto, una nera ed orrenda nube, squarciata dal rapido volteggiare di un vento infuocato, si apriva in
lunghe lingue di fuoco: esse erano simili a lampi, ma ancor più estese. Allora, quel medesimo amico venuto
dalla Spagna, con più forza ed insistenza disse: «Se tuo zio – disse – se tuo zio è ancora vivo, vuole che voi
siate messi in salvo; se è morto vorrebbe che voi gli sopravviviate. Perché dunque indugiate a scappare?».
Allora gli rispondemmo: «Non abbiamo l’animo, incerti della sua salvezza, di provvedere alla nostra». Egli
non esitò oltre, subito ci lasciò e di gran carriera si sottrasse al pericolo. Non passò molto tempo che quella
nube si abbassò fino a terra e coprì il mare. Aveva avvolto e nascosto Capri e tolto dalla vista il promontorio
di Miseno. Allora la madre cominciò a pregarmi, a scongiurarmi, a ordinarmi, che, in qualunque modo io
fuggissi: io potevo perché ero giovane, mentre lei, appesantita dall’età e dalle stanche membra, sarebbe
morta felice di non essere stata la causa della mia morte. Ma io risposi di non volermi salvare senza di lei;
poi, prendendola per mano, la costrinsi ad affrettare il passo. Lei mi seguì a stento, lamentandosi perché
rallentava il mio cammino. Cadeva già della cenere, ma ancora non fitta. Mi volto e vedo sovrastarmi alle
spalle una densa caligine che, come un torrente, spargendosi per terra ci incalzava. «Deviamo – dissi – finché
ci si vede, per non essere travolti, una volta raggiunti dalla folla che ci segue». Ci eravamo appena seduti che
scese la notte. Avresti udito i gemiti delle donne, le urla dei bambini, le grida dei mariti; gli uni cercavano a
gran voce i padri; gli altri i figlioli; gli altri i consorti; chi commiserava la propria sorte; chi quella dei suoi. Vi
erano coloro che, per timore della morte, la invocavano. Molti supplicavano gli dei; molti ritenevano che non
ve ne fossero più e che quella notte dovesse essere l’ultima notte del mondo. Né mancavano quelli che con
immaginari e bugiardi spaventi accrescevano i veri pericoli. Riapparve un debole chiarore, che non sembrava
il giorno, ma piuttosto la luce del fuoco che si avvicinava. Ma il fuoco si arrestò più lontano e di nuovo furono
le tenebre; di nuovo cenere spessa in gran copia. Noi ci alzavamo a tratti per toglierla di dosso, altrimenti
ne saremmo stati, se non coperti, schiacciati. Potrei vantarmi che in una così grande tragedia non mi sia
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lasciato sfuggire un lamento, né una parola che non fosse virile, se non avessi trovato gran conforto alla
morte nel pensiero che in quel momento con me periva tutto il mondo. Finalmente quella caligine si attenuò
e svanì come in fumo e nebbia; quindi fece finalmente giorno ed apparve anche il sole, ma scolorito come
suole essere quando è in eclisse. Agli sguardi ancor tremanti tutto si mostrava cambiato e coperto da un
monte di cenere, come se fosse nevicato. Ritornati a Miseno e ristorate alla meglio le membra, trascorremmo
una notte affannosa ed incerta tra la speranza ed il timore. Ma il timore prevaleva. Continuavano, infatti,
le scosse di terremoto e molti, fuori di senno, con le loro malaugurate predizioni si burlavano del proprio e
del male altrui. Noi, però, benché salvi dai pericoli e in attesa di nuovi, neppure allora pensammo di partire,
finché non ci giungesse notizia dello zio. Questi particolari, non degni certamente di storia, li leggerai senza
servirtene per i tuoi scritti e imputerai a te stesso, che me ne hai richiesto, se non saranno degni neppure di
una lettera.
Addio
(Plinio il Giovane, Lettere ai familiari, VI, 20)
Letteratura italiana
L’immagine del Vesuvio ci offre l’occasione per spostarci alla letteratura italiana (cfr. La Ginestra di G. Leopardi,
specie vv. 1-7: Qui su l’arida schiena / Del formidabil monte / Sterminator Vesevo, / La qual null’altro allegra arbor
né fiore, / Tuoi cespi solitari intorno spargi, / Odorata ginestra, / Contenta dei deserti). In questo caso, anche grazie
al raffronto con le Operette Morali, nello specifico Dialogo della Natura con un Islandese, si potrà sviluppare
un percorso teso a rappresentare il valore filosofico-letterario delle manifestazioni del mondo naturale, ben
espresse dalla tensione del poeta recanatese nel vedere la Natura come madre di parto e di voler matrigna.
Come nel caso di Plinio, l’eruzione è senz’altro terrificante e maestosa ad un tempo, testimonianza fisica
dell’energia primordiale che si sprigiona in un atto di creazione, ma anche di distruzione. Come insegna
la scienza, si pensi che le colate laviche, benché cancellino ogni forma di vita, portano con loro i germi della
rinascita, poiché è proprio sui terreni vulcanici che l’agricoltura è più florida e produttiva. La Natura, in altre
parole, sopravvive a se stessa, come simboleggiato dal fiore della ginestra, stoica forma di resilienza a un
ambiente in drastico cambiamento. Come non pensare, a questo proposito, ai cambiamenti climatici odierni,
alla figura di Greta Thunberg e ai ben noti Fridays for Future, che hanno visto la massiccia partecipazione di
ragazzi di tutto il mondo.
Volendo aumentare il raggio di esplorazione sul rapporto tra Uomo e Natura all’ambito della letteratura
italiana, è quasi d’obbligo citare il panismo di G. D’Annunzio (cfr. soprattutto La pioggia nel pineto e Le stirpi
canore), in cui emerge la fusione totale e simbiotica tra l’elemento naturale e quello umano, che si
intrecciano in un abbraccio di squisita fattura (si prosegue dunque sulla linea della relazione scambievole tra
Uomo e Natura). Altrettanto importanti, per quanto concerne la visione della Natura maestosa e terribile,
ma anche creatrice di vita, sono le liriche di G. Pascoli (cfr. soprattutto Il lampo e Novembre, a cui bisognerebbe
aggiungere Il gelsomino notturno, per l’idea di una Natura misteriosa e velatamente erotica, che nasconde in sé
l’intimo mistero della nascita; cfr. anche, al riguardo, la Digitale Purpurea). Non dimentichiamo infine la Natura
selvaggia e scalcinata della poesia di E. Montale (Meriggiare pallido e assorto, con annessa la poetica del
“correlativo oggettivo”).
Letteratura greca
Diversa angolatura prospettica, cui si può ricorrere per operare un raffronto con il greco, offre invece
il paesaggio bucolico-pastorale di Teocrito (cfr. Le Talisie, Idillio VII). Occorre presentare soprattutto
l’opposizione che s’inscena, in questo componimento, tra la città e la campagna, quella che il grande
critico Oddone Longo ricorda come «la tensione dominante tra mondo civilizzato e urbano (town scape) e
l’universo incontaminato del microcosmo rurale (land scape)». Anche questo tema si riconnette con quanto
detto in precedenza, con particolare riferimento alle mutazioni e alla metamorfosi che la Natura subisce per
interazione con la sfera antropica. Come in Leopardi, d’altronde, anche in Teocrito c’è l’implicita consapevolezza
che questo ambiente incantato ed edenico altro non sia che un sogno sottratto al tempo e allo spazio
(come non citare I Malavoglia di G. Verga, con l’idea del mondo ancestrale e primitivo del Mezzogiorno
oppresso dal nascente capitalismo borghese), un contesto virtuale sospeso, in cui il poeta si rifugia come in
un’illusione. Di fatto, siamo di fronte allo stesso disincanto provato dal Recanatese, consapevole della forza e
dell’indifferenza della Natura, cui cerca di opporre la sua lucida e critica razionalità.
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LETTERATURA FRANCESE
THÉOPHILE GAUTIER
Le pin des landes (1845)
Le pin des Landes est un poème du recueil « España », écrit suite à un voyage de Gautier.
Les Landes, zone de dunes et de forêts de pins le long de la côte Atlantique sud, est le passage vers l’Espagne.
Il s’agit d’une allégorie de la condition du poète qui trouve son inspiration dans la souffrance pour offrir son œuvre
artistique à ses lecteurs.
Dans cette comparaison entre le paysage et le poète, on peut voir encore des traces du Romantisme, notamment
dans la figure du poète souffrant et victime, en quelque sorte, volontaire ; toutefois, on y trouve déjà la tension vers une
poésie de plus en plus descriptive, où l’art réside dans la perfection formelle.
Ce désir de travailler la forme du langage afin d’obtenir un objet esthétiquement parfait est à l’origine du mouvement
poétique de «l’Art pour l’Art».
On ne voit en passant par les Landes désertes,
Vrai Sahara français, poudré 1 de sable blanc,
Surgir de l’herbe sèche et des flaques 2 d’eaux vertes
D’autre arbre que le pin avec sa plaie 3 au flanc,
Car, pour lui dérober ses larmes de résine,
L’homme, avare bourreau 4 de la création,
Qui ne vit qu’aux dépens de ceux qu’il assassine,
Dans son tronc douloureux ouvre un large sillon 5 !
Le poète décrit le paysage en utilisant des expressions
choisies pour solliciter les sens : la vue à travers les couleurs
(« blanc » et « vertes »), l’ouïe grâce à l’allitération du son
« s » dans les deux premier vers.
Au milieu de ce paysage qui représente les hommes, il y a un
pin (symbole du poète), seul arbre qui puisse y surgir, tout de
suite présenté comme souffrant.
“Flanc” est le premier mot indiquant la personnification du pin.
Le mot “larmes” renouvelle la personnification.
La “plaie” du pin, sa blessure, est en réalité un “sillon” qui n’a
pas été ouvert par la nature, mais par l’homme, le véritable
“bourreau de la création” : l’humanité est peinte comme
brutale envers le poète.
Sans regretter son sang qui coule goutte à goutte,
Le pin verse son baume 6 et sa sève 7 qui bout,
Et se tient toujours droit sur le bord de la route,
Comme un soldat blessé qui veut mourir debout.
La personnification est reprise par le terme “sang”.
Le pin est comme un soldat indispensable et héroïque.
Le poète est ainsi dans les Landes du monde ;
Lorsqu’il est sans blessure, il garde son trésor.
Il faut qu’il ait au coeur une entaille profonde
Pour épancher 8 ses vers, divines larmes d’or !
Dans cette dernière strophe, Gautier explicite la comparaison
et dévoile le sens du poème : il faut que le poète souffre
pour faire sortir de son cœur ses “larmes d’or”, ainsi que le
pin quand il est frappé par l’homme “verse son baume et sa
sève”.
1. impolverato
2. pozze
3. piaga
4. avido carnefice
5. solco
6. balsamo
D’après Plumes 2, Valmartina, pag. 30
7. linfa
8. lasciar sgorgare (poet.)
D’autres suggestions :
• L’alliance de l’homme et de la nature : Mme de Stael, De l’Allemagne (1810)
• Le goût romantique pour l’exotisme : François-René de Chateaubriand, Voyage en Italie (1826)
• Le rythme de la nature : Flaubert, Salammbò (1862)
• La beauté de la nature : José Maria de Heredia, Soleil couchant, dans « Les Trophées » (1893)
• Le dialogue avec la nature : Charles Péguy, Adieu, dans Jeanne d’Arc (1897)
• Les grenades comme symbole de l’esprit créateur : Paul Valéry, Les grenades, dans « Charmes » (1922)
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LETTERATURA SPAGNOLA
GABRIELA MISTRAL
La Tierra (1924)
“Sembradores de campos o pueblos, todos han mirado con reverencia a la tierra como al mayor hecho que existe.
No sólo el cielo es la cara de Dios.”
Gabriela Mistral fue una poetisa chilena de fama internacional, tanto que en 1945 se convirtió en la primera
mujer iberoamericana en recibir el premio Nobel de Literatura. En uno de sus poemas más famosos, La Tierra,
esta escritora aborda un tema todavía muy actual como el de la relación entre el ser humano y la Tierra,
asimilable a la relación entre un hijo y su madre.
A este propósito, Gabriela Mistral considera la tierra, entendida como el lugar donde vivimos, el elemento
fundamental que revela la verdadera identidad del hombre. Sin ella, la raza humana nunca habría podido
nacer y evolucionar: de hecho la tierra nos proporciona el sustento vital, como una madre que da de comer
a sus hijos, y también nos acoge, como una cuna que nos mece, y cuando la trabajamos y la cultivamos, nos
sentimos partícipes con ella de toda la creación.
Ya a partir de esta breve reflexión, se puede afirmar que la poetisa chilena quiere proponer una imagen
sagrada de la tierra, junto con una seria preocupación por ella, e incluso podría decirse que anticipa los
movimientos ambientalistas actuales, añadiendo un aspecto que casi ha desaparecido del todo hoy en día,
esto es, el aspecto místico en la relación que hay entre el hombre y el planeta que habita.
En el poema que proponemos, la relación entre un niño indio y la Tierra, escrita con letra mayúscula, muestra
el deseo de la poetisa de hacer reencontrar al hombre americano con la Tierra, devolviéndole así el
alma al suelo, como era en el principio, ya que a causa de la industrialización y la consecuente urbanización, el
aspecto telúrico originario del hombre corre el riesgo de desaparecer definitivamente.
La Tierra
Niño indio, si estás cansado,
tú te acuestas sobre la Tierra,
y lo mismo si estás alegre,
hijo mío, juega con ella...
En la primera estrofa aparecen los dos protagonistas: el niño indio, símbolo
de sencillez y también del choque de civilizaciones entre el hombre europeo
y los indios. Según el pensamiento de la autora, la culpa del distanciamiento
entre los nativos y su tierra se atribuye al hombre europeo, que llegó a
América con el único fin de explotar sus territorios. El segundo protagonista
es la Tierra misma, que sirve tanto de compañera de juego como de lugar
del descanso para el niño: la narradora exhorta al niño a buscar una relación
con la Tierra, cualquiera que sea la situación que esté viviendo.
Se oyen cosas maravillosas
al tambor indio de la Tierra:
se oye el fuego que sube y baja
buscando el cielo, y no sosiega.
Rueda y rueda, se oyen los ríos
en cascadas que no se cuentan.
Se oyen mugir los animales;
se oye el hacha comer la selva.
Se oyen sonar telares indios.
Se oyen trillas, se oyen fiestas.
En la segunda estrofa se invita a escuchar un sonido muy especial: el trabajo
del hombre relacionado con la Tierra (hacha g leñador, telar g tejedor,
trilla g campesino) que, junto con el movimiento incasable del sol, el fluir de
los ríos y la presencia de animales, repican en el “tambor indio de la tierra”.
Aquí tenemos dos temas: la discriminación a los pueblos originarios y
la contaminación del planeta. Se insiste por tanto en el hecho de que
los antiguos tenían un lazo más estrecho con la tierra, mientras que hoy
hemos desaprendido aquella sabiduría para transformarnos en los peores
depredadores.
Donde el indio lo está llamando,
el tambor indio le contesta,
y tañe cerca y tañe lejos,
como el que huye y que regresa...
Se subraya la reciprocidad de la relación entre hombre y tierra: siempre que
el indio llama, la tierra contesta, como el tañido del tambor.
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Todo lo toma, todo lo carga
el lomo santo de la Tierra:
lo que camina, lo que duerme,
lo que retoza y lo que pena;
y lleva vivos y lleva muertos
el tambor indio de la Tierra.
Se resalta el papel fundamental de la Tierra, capaz de sostener todo el peso
de la humanidad, expresada ingeniosamente con un juego de contrarios para
indicar que todo lo que sucede, sucede sobre una Tierra sagrada y divina que
lo soporta todo.
Cuando muera, no llores, hijo:
pecho a pecho ponte con ella,
y si sujetas los alientos
como que todo o nada fueras,
tú escucharás subir su brazo
que me tenía y que me entrega,
y la madre que estaba rota
tú la verás volver entera.
El poema se cierra de forma dramática, pero a la vez esperanzadora. La
voz narradora pide al niño que cuando ella se muera, él no se ponga triste,
sino que lo invita a acercarse a la Tierra sujetando el aliento para escuchar
mejor. Solo así el niño podrá entender que incluso lo que está muerto y
quebrantado, puede volver a la vida gracias a la presencia consoladora de la
madre Tierra.
Otras sugerencias:
• La canción del pirata (1835) – José de Espronceda
(De: En un lugar de la literatura, De Agostini Scuola, p. 190)
• Rima LII y Rima LIII de: Rimas (1871) – Gustavo Adolfo Béquer
(De: En un lugar de la literatura, De Agostini Scuola, p. 211)
• Poema CXXV, de: Campos de Castilla (1912) – Antonio Machado
(De: En un lugar de la literatura, De Agostini Scuola, p. 287)
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RELIGIONE
e Cittadinanza
Uomo e natura: riconnettersi all’ambiente
La pandemia che stiamo vivendo e subendo impone una
riflessione profonda sul senso del rapporto tra uomo e
natura. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti, non più padroni
del mondo, ma fluttuanti fuscelli in balìa degli eventi. Urge, ora
più che mai, ritrovare punti di riferimento, modelli valoriali in
grado di guidarci in questo cammino di rinascita. L’obiettivo è
quello di un’umanità consapevole della sua fragilità e della sua
finitudine, ma che si apre all’infinito attraverso la fratellanza.
Papa Francesco e il coronavirus: “Dio perdona sempre, la natura mai”
A distanza di 5 anni dall’enciclica verde Laudato si’, il pontefice torna sul rapporto tra uomo e natura:
“Supereremo questa emergenza, ma solo se tutti saremo più vicini all’Ambiente”. Serve un cambio di rotta.
“Vedo segni iniziali di conversione a un’economia più umana”.
L’eco-etica non è attivismo, ma pensiero “globale”
Il teologo Claudio Daniele propone un modello “eco-etico” nel
quale, partendo dall’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, viene
ridefinito il ruolo dell’uomo nel cosmo. La prospettiva nuova è quella
di un antropocentrismo che non sia di superbia, ma di custodia e di
rispetto della natura e delle sue leggi, e soprattutto del prossimo.
… Occorre recuperare il significato e l’origine creaturale di tutti gli
elementi naturali in quanto opera che Dio, nella sua libertà e intelligenza,
ha desiderato creare proprio in vista del benessere umano. Il termine
“eco-etica” appare più appropriato in quanto recupera in maniera
esplicita il carattere fortemente improntato all’agire dell’uomo in vista del
bene, orientando l’azione umana nei confronti del mondo reale che lo
circonda e di cui è responsabile. […] L’umano dunque va ripensato alla
luce del suo rapporto con l’universo che, nell’era del globale, prevede la
considerazione di un pensiero globale capace di riconoscere la differenza,
e nello stesso tempo, la somiglianza degli umani fra loro. […] Recuperare
il valore della complessità nel suo significato etimologico di “legame”, cioè
di un pensiero in grado di legare contesto e sistema sociale, capace di
considerare il rapporto tra il tutto e le singole parti.
(Claudio Daniele, “La Voce e il Tempo”, 12 aprile 2019, adattamento)
La Laudato si’ di papa Francesco
Bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere
politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione
dell’indifferenza. (n. 52)
Per i Paesi poveri le priorità devono essere lo sradicamento della miseria e lo sviluppo sociale dei loro abitanti;
al tempo stesso devono prendere in esame il livello scandaloso di consumo di alcuni settori privilegiati della
loro popolazione e contrastare meglio la corruzione. Certo, devono anche sviluppare forme meno inquinanti di
produzione di energia, ma per questo hanno bisogno di contare sull’aiuto dei Paesi che sono cresciuti molto a
spese dell’inquinamento attuale del pianeta. Lo sfruttamento diretto dell’abbondante energia solare richiede che si
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stabiliscano meccanismi e sussidi in modo che i Paesi in via di sviluppo possano avere accesso al trasferimento di
tecnologie, ad assistenza tecnica e a risorse finanziarie, ma sempre prestando attenzione alle condizioni concrete…
(n. 172)
La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma
efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica
e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana. (n. 189)
Scienza, potere e disuguaglianze: la ricetta di Vandana Shiva
Vandana Shiva, scrittrice e filosofa della scienza di origine indiana, si occupa da anni di tutela della diversità
biologica e contro gli OGM. È un punto di riferimento per quanti si battono per un mondo in cui a tutti sia
riconosciuto il diritto fondamentale alla salute, all’istruzione, al lavoro, a vivere in un ambiente non inquinato. L’analisi
di Vandana Shiva sulla crescente disuguaglianza e disparita economica e lucida e impietosa: dal 2000 a oggi,
secondo la Banca Mondiale, il 50% della ricchezza globale e finito in tasca all’1% della popolazione e solo l’1% e
posseduto dal 50% della popolazione più povera. Le ragioni di tutto questo sono profonde e vanno individuate nel
primato della finanza e della speculazione economica nell’orientare e dirigere l’intero sistema a livello globale, con la
privatizzazione dei servizi, lo sfruttamento di ogni risorsa del pianeta, nell’illusione di una crescita infinita o illimitata.
L’idea di un mondo globalizzato in cui il profitto e l’unico fine delle attività umane e ogni cosa e trasformata in
merce, ha di fatto stravolto e asservito interi popoli, saccheggiato sistematicamente ogni risorsa naturale, inquinato
e contaminato, spesso in modo irreversibile, aria, acqua, suolo, i beni essenziali per la vita. In particolare, difendere
l’agricoltura dall’egemonia delle multinazionali che detengono brevetti di semi e pesticidi, significa salvaguardare
biodiversità, fertilità dei suoli e la vita stessa di tanti piccoli agricoltori strangolati dai debiti e dai prezzi ridicoli con
cui vengono retribuiti i loro raccolti. A molti può sembrare che si tratti di un processo irreversibile, ma non sarebbe
così se solo in numero sempre maggiore ne prendessimo coscienza e concretamente operassimo per invertire la
rotta.
(Patrizia Gentilini in “Il Fatto Quotidiano”, 2 febbraio 2018, adattamento)
CITTADINANZA
AGENDA 2030 per lo Sviluppo Sostenibile
Obiettivo 13 – LOTTA CONTRO IL CAMBIAMENTO CLIMATICO
Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico
Obiettivo 15 – LA VITA SULLA TERRA
Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre
Spunti di riflessione
Partendo dai testi proposti, riflettete e argomentate scegliendo uno o più dei seguenti spunti.
Tenete presente che avrete a disposizione tra i 3 e i 5 minuti al massimo.
• Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita
umana sulla terra. Commentate queste parole del filosofo Hans Jonas (1903-93) alla luce dei testi proposti.
• Quali elementi comuni potete trovare nelle tesi esposte da Vandana Shiva e da papa Francesco?
• Guardate il video Spiritualità e ambiente su ZonaReligione: in che senso possiamo dire che esiste una
spiritualità ambientale?
• L’Agenda 2030 si pone 17 obiettivi per trasformare il mondo nella direzione della sostenibilità. Pensate che
la crisi di questi mesi possa influire in qualche modo sullo sviluppo sostenibile? In che modo? Guardate per
terra camminando, sono comparsi nuovi rifiuti: guanti monouso e mascherine abbandonate per strada…
E questo non aiuta certo a riconnettersi all’ambiente né ad avere cura della casa comune, come dice papa
Francesco.
28
© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
SCIENZE UMANE
e Cittadinanza
Uomo-Natura:
è necessario un nuovo equilibrio?
La lunga quarantena necessaria per contrastare la diffusione del coronavirus ha chiuso gli umani nelle
proprie case lasciando le città deserte. Gli spazi lasciati vuoti dagli umani sono stati in molti casi occupati da
animali selvatici, come numerose immagini e video apparsi sui diversi media hanno ampiamente mostrato.
Queste immagini ci hanno divertito (e ci divertono) e meravigliato. Abbiamo guardato con simpatia a questa
strana realtà in cui gli animali passeggiano per le strade in vece degli umani, ma si tratta probabilmente di
una simpatia “a tempo”, circoscritta a questo insolito e inatteso periodo di emergenza. Al di là del piacere
momentaneo, infatti, speriamo tutti di tornare il più presto possibile alla consueta normalità e di riappropriarci
delle nostre città, riportando gli animali negli spazi in cui, ormai da anni, li abbiamo confinati.
Quelle immagini, però, possono forse essere lo spunto per una riflessione più profonda, che ci porti a
mettere a fuoco le modalità del nostro rapporto con la natura e con l’ambiente, magari domandandoci da
dove derivi la nostra certezza di essere i padroni della Terra, di poterne disporre a nostro piacimento, di
appartenere a un mondo, quello “civile” della “cultura”, ben definito, separato e superiore rispetto a quello
“selvaggio” della “natura” e se, anche alla luce della recente pandemia, questo atteggiamento sia fondato.
https://www.youtube.com/
watch?v=qXQbvzh__Lc&t=6s
29
© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
Modi diversi di pensare la natura
Il nostro modo “moderno” di pensare il mondo ha avuto origine dall’enfasi post Illuminismo sulla razionalità
e sulla scienza. Già i filosofi Thomas Hobbes e J.J. Rousseau avevano opposto la “cultura” civilizzata allo “stato
di natura” non civilizzato. E il Romanticismo ha contribuito alla costruzione della separazione fra natura e
cultura, diffondendo una nozione di “natura” incontaminata opposta
all’industrializzazione e alla “cultura”.
Sono questi i fondamenti del nostro modo di pensare e di essere
“moderni”, quelli che danno forma al nostro mondo. In un libro
intitolato Non siamo mai stati moderni, l’antropologo Bruno Latour
presenta questo modo di pensare come la premessa della grande
divisione fra umano e non umano, fra natura e cultura.
Parallelamente, un antropologo brasiliano, Eduardo Viveiros de
Castro, nella sua riflessione, ci presenta, valorizzandola, la prospettiva
“premoderna”, espressa dalle visioni del mondo e dai sistemi filosofici
dei popoli indigeni. Si tratta di modi di “essere nel mondo” un po’
diversi dal nostro. Per esempio, in essi i valori legati all’utilizzo delle
risorse della Terra non costituiscono solo un valore economico,
premessa dello sfruttamento indiscriminato e della distruzione, ma
sono anche “sociali” e “culturali”, ed esprimono il modo in cui terra e
comunità sono concettualmente uniti.
Tali visioni del mondo destabilizzano l’antropocentrismo occidentale e
la sua convinzione che gli umani siano superiori alla “natura”, o separati
da essa.
Alcuni di questi elementi originari si possono tra l’altro rintracciare in molti campi della riflessione
contemporanea. La fisica quantistica, per esempio, presenta modelli della realtà che indicano che il mondo è
costituito da fenomeni fatti di processi naturali-culturali, esito dell’interazione di umani e non umani. Da molte
altre discipline, sia scientifiche sia umanistiche, emergono nuove configurazioni della connettività di base dei
fenomeni naturali e culturali che lasciano pensare che sia le persone sia le “cose” sono intrecciate, coinvolte
alla pari nel processo di “creazione” del nostro mondo.
Guida alla comprensione
1. In che cosa consiste l’atteggiamento “moderno” nei confronti della natura, e in quali filosofie ha origine?
2. Quali sono le principali differenze tra approccio “moderno” e approccio “premoderno” al mondo naturale?
3. La riflessione contemporanea di molte discipline verso quale dei due approcci sembra propendere?
Ecologia politica, per un nuovo equilibrio uomo-ambiente
Viviamo in un periodo in cui i rischi
ambientali legati all’attività antropogenica
dominano i media. Il cambiamento climatico,
la degradazione della Terra e del suolo,
l’estinzione delle specie, l’inquinamento, la
sovrappopolazione e l’esaurimento delle
risorse energetiche influenzano la vita di ogni
essere umano (e non umano) sul pianeta.
Forse anche le epidemie si possono in
qualche modo riportare a quest’ambito.
Una ontologia della connessione implica
che ogni “essere” è interattivo, e che tutti gli
attori degli attuali processi sociali e culturali
sono simultaneamente prodotti da altri attori.
Ogni danno a una parte qualsiasi del sistema-
30
© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
mondo danneggia inevitabilmente anche le altre. Questo ci obbligherebbe ad ampliare le nostre categorie
economiche e politiche in favore di un’etica che riconosca non solo i diritti degli umani, ma anche quelli dei
non umani: animali, piante, oggetti, luoghi.
Da qui emerge la nozione di ecologia politica che vede la “natura” come la base per definire una collettività
multi-naturalista “sociale”.
In questa ottica, i problemi ambientali apparirebbero come questioni naturali e sociali. La sostenibilità
diverrebbe una questione relativa alla ricerca di un nuovo equilibrio tra uomo e ambiente e non solo uno
strumento per il mantenimento della qualità di vita degli umani.
di Vincenzo Matera
CITTADINANZA
L’Agenda 2030 per lo
Sviluppo Sostenibile
Le politiche ambientali occupano
ormai da tempo una posizione di
preminenza nell’agenda politica
delle principali organizzazioni
internazionali.
L’Agenda 2030 per lo Sviluppo
Sostenibile, varata dall’ONU
nel settembre del 2015, dedica
alla ricerca di un più equilibrato
rapporto tra uomo e ambiente
cinque dei suoi diciassette Obiettivi.
Si tratta degli Obiettivi da 11
a 15, dedicati rispettivamente allo sviluppo di città e comunità sostenibili, al consumo e alla produzione
responsabili, alla lotta contro il cambiamento climatico, alla tutela della vita sott’acqua e sulla Terra.
L’Italia ha aderito all’Agenda 2030 anche se la tutela ambientale non è mai citata espressamente nella
Costituzione. Essa tuttavia si ricava in modo implicito dalla lettura dell’articolo 9, comma 2, dove si
afferma che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Con il
termine paesaggio, al tempo della Costituente, si indicavano semplicemente le bellezze naturali di cui il
nostro Paese è ricco. Nel corso degli anni, la progressiva affermazione della sensibilità ambientalistica ha
portato a una interpretazione estensiva di questo termine che ora, secondo il giudizio comune, comprende
l’intero ambiente naturale.
Guida alla comprensione
1. Che cosa si intende con l’espressione “ontologia della connessione”? E con “ecologia politica”?
2. Che cosa vuol dire l’Autore affermando che la sostenibilità deve diventare la ricerca di un nuovo equilibrio
tra uomo e ambiente e non uno strumento di tutela della qualità di vita degli umani? In che modo, a tuo
parere, può avvenire questa trasformazione?
3. Che cos’è l’Agenda 2030 elaborata dall’ONU?
4. Quale articolo della Costituzione italiana parla della tutela ambientale, e in che modo?
31 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
MATEMATICA
Indagare il riscaldamento globale
con la matematica
Quanto inquiniamo?
Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite,
quasi tutte le recenti epidemie sono state
causate dai cambiamenti ambientali provocati
dalla deforestazione e dall’inquinamento, che è
responsabile di un quarto delle morti premature e
delle malattie nel mondo.
Inquiniamo sempre di più. Per esempio, le emissioni
di anidride carbonica dovute all’uso di combustibili
fossili (petrolio, carbone, gas naturale) hanno ormai
raggiunto 40 miliardi di tonnellate l’anno (dette anche
gigatonnellate e indicate con il simbolo Gt: 1 Gt=10 12
kg); tra i Paesi responsabili emerge il ruolo della Cina
dagli anni Duemila in poi, soprattutto per l’uso del
carbone come sorgente energetica (Fig. 1).
40
emissioni di CO 2
dovute
a combustibili fossili (Gt)
16
emissioni di CO 2
dovute
a combustibili fossili (Gt)
tutti
gli altri
30
20
10
0
1960 1970 1980 1990
anni
2000 2010 2020
12
8
4
0
1960 1970 1980 1990
anni
2000 2010 2020
Cina
USA
Ue
India
Figura 1 Andamento delle emissioni di anidride carbonica negli ultimi decenni.
Quanto consumiamo?
Consumiamo più risorse di quante ne produce la Terra. Ogni anno usiamo beni pari a oltre una volta e mezza
la capacità rigenerativa annuale del nostro pianeta. Di questo passo, nel 2050 l’umanità consumerà il doppio di
quanto la Terra produce (Fig. 2).
1970-2020
Sfruttamento delle risorse ambientali
Terre consumate
2,5
Previsione 2020-2060
se continuiamo così
se rallentiamo subito
2,0
1,5
1,0
0,5
0
1980 1990
2000 2010 2020
anni
2030 2040 2050 2060
Figura 2 Dalla fine del secolo scorso consumiamo più risorse di quante ne produce la Terra.
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© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
Poiché consumiamo più risorse di quante ne produce la Terra, ogni anno c’è un giorno in cui esauriamo
le risorse generate dal pianeta nel corso di quell’anno. Questo giorno è chiamato Earth Overshoot Day (in
inglese overshoot significa “andare oltre”). Da quel momento in poi viviamo in debito, sfruttando beni che la
Terra ha prodotto nell’arco di milioni di anni, come i combustibili fossili, e che non sono rinnovabili: una volta
finiti, non li avremo più. Nel 2019 l’Earth Overshoot Day è caduto il 29 luglio, mai così presto da quando
negli anni Settanta del Novecento si è iniziato a calcolarlo. Da allora, la data fatidica si è via via allontanata dal
termine dell’anno.
La Fig. 3 mostra quante Terre sarebbero necessarie se la popolazione mondiale vivesse come vivono
attualmente alcuni dei principali Paesi del mondo. Il problema è che di Terre ne abbiamo una sola.
Australia 5,2
USA 5,0
Sud Corea 3,4
Russia 3,4
Germania 3,2
Svizzera 3,1
Francia 3
Regno Unito 3
Giappone 2,9
Italia 2,6
Spagna 2,4
Cina 2,1
Brasile 1,8
India 0,6
Mondo intero 1,7
Figura 3 Quante Terre sarebbero necessarie se la popolazione mondiale vivesse come…
Che cos’è il riscaldamento globale?
Il clima della Terra è cambiato più volte nel corso
della sua storia: il nostro pianeta ha attraversato
ere glaciali alternate a periodi più caldi. Queste
variazioni sono state causate dai cambiamenti
periodici dell’assetto orbitale del nostro pianeta,
dall’attività solare e dalle eruzioni vulcaniche.
Il riscaldamento globale è invece l’aumento della
temperatura media della superficie terrestre non
riconducibile a cause naturali. Questo fenomeno,
riscontrato a partire dalla fine dell’Ottocento
e tuttora in corso, è accompagnato da siccità,
desertificazione, scioglimento dei ghiacci,
innalzamento degli oceani e alluvioni.
Secondo la comunità scientifica, il riscaldamento globale è causato dall’attività umana, soprattutto dalle
emissioni nell’atmosfera terrestre di gas serra, come l’anidride carbonica, prodotti quando si bruciano i
combustibili fossili. I gas serra sono responsabili dell’effetto serra: nell’atmosfera si accumula l’energia termica
proveniente dal Sole e la temperatura terrestre si alza.
Secondo l’IPCC (dall’inglese Intergovernmental Panel on Climate Change, “Gruppo intergovernativo di scienziati
sul cambiamento climatico”), una commissione di esperti istituita dalle Nazioni Unite, la temperatura media
della superficie terrestre è aumentata di quasi un grado negli ultimi cento anni (Fig. 4).
33 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
T(°C)
14,5
14,3
14,1
13,9
13,7
13,5
1000 1100 1200 1300 1400
Figura 4 Andamento della temperatura negli ultimi mille anni.
1500 1600 1700 1800 1900 2000
anni
Si può barare con i grafici?
Qualche “negazionista” non condivide le conclusioni della comunità scientifica e sostiene che i cambiamenti
climatici non dipendono dall’emissione dei gas serra. Nel 2016 alcuni negazionisti hanno presentato al
Congresso americano il grafico presentato in Fig. 5, riproposto da molti giornali e sul web. L’immagine
confronta la temperatura dell’atmosfera terrestre con le stime dei modelli climatici elaborati dalla comunità
scientifica, con l’obiettivo di mostrare che questi modelli non sono attendibili nel prevedere i cambiamenti
climatici.
°C Global Bulk Atmospheric Temperature
1
(Surface-50k ft)
0,8
0,6
0,4
Average of 102 IPCC CMIP-5
Climate Model runs
0,2
0,0
Observations
Circles - Avg 4 Balloon datasets
Squares - Avg 3 Satellite datasets
–0,2
1975 1980 1985 1990 1995
2000 2005 2010 2015 2020
anni
2025
Figura 5 Andamento delle emissioni di anidride carbonica negli ultimi decenni.
Il grafico, però, è stato ottenuto manipolando i dati. Innanzitutto i punti rappresentati sono sbagliati: la loro
posizione è stata scelta apposta per esagerare visivamente la differenza tra i dati reali e quelli previsti dal
modello. Inoltre mancano le barre d’incertezza sui dati; basterebbe aggiungerle per vedere che c’è accordo fra
essi. Infine, gli autori non dicono di quali dati si sono serviti sembrano aver “dimenticato” quelli che riportano
temperature più alte.
Ora tocca a te
• Tra i grafici riportati nella Fig. 1 in quali casi l’andamento dell’emissione di anidride carbonica può essere
modellizzato ragionevolmente bene da una retta di regressione lineare?
• Per descrivere la situazione dell’ambiente e il rapporto uomo-natura si usano spesso dei grafici per
illustrare le tesi proposte. Setaccia i giornali e il web alla ricerca di grafici relativi ai temi dell’ambiente e
del rapporto uomo-natura. Trova in particolare qualche esempio di “grafico trappola”, cioè manipolato in
modo da sostenere una certa tesi (come nel caso della Fig. 1).
• Mark Twain ha detto: «La gente di solito usa le statistiche come un ubriaco i lampioni: più per sostegno
che per illuminazione». E Gregg Easterbrook ha affermato: «Se torturi i numeri abbastanza a lungo,
confesseranno qualsiasi cosa». Sai spiegare, con parole tue, che cosa significano queste affermazioni?
34 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
LETTERATURA TEDESCA
ADALBERT STIFTER
Bunte Steine (1853)
In den Werken Stifters spielt die Handlung keine Rolle, viel wichtiger ist die fast minuziöse und
wissenschaftliche Beschreibung der Natur und der Menschen, die im Einklang mit ihr leben. Stifter
verstand sich selbst nicht primär als Schriftsteller, sondern als Maler. Von Anfang an bilden die lebendigen
Naturbeschreibungen von Wäldern, Gebirgen, Bächen, Flüssen, Seen und Feldern das typische Kennzeichen
seines Schreibens.
Der Wald und die Steine symbolisieren die große Unbeweglichkeit und Beständigkeit der Natur.
Stifters Protagonisten leben immer mitten im Wald oder in einem kleinen Dorf am Rande des Waldes. Die
meisten seiner Erzählungen spielen im ländlichen Raum, um die Flüsse Donau und Moldau, in einer Gegend,
die bis heute von Dörfern und großen Waldgebieten charakterisiert ist und im Grenzgebiet von Deutschland,
Tschechien und Österreich liegt.
In der Vorrede zum Novellenzyklus Bunte Steine aus dem Jahr 1853 (insgesamt sechs thematisch durch Wald
und Stein gekennzeichnete Novellen mit beispielhaften Titeln wie Turmalin, Bergkristall, Granit, Kalkstein) erklärt
Stifter den zentralen Begriff seiner Weltanschauung: das sanfte Gesetz.
Das sanfte Gesetz
Es ist einmal gegen mich bemerkt worden, dass ich nur das Kleine bilde und dass meine Menschen stets
gewöhnliche Menschen seien. Wenn das wahr ist, bin ich heute in der Lage, den Lesern ein noch Kleineres
und Unbedeutenderes anzubieten, nämlich allerlei Spielereien 1 für junge Herzen. [...]
Weil wir aber schon einmal von dem Großen und Kleinen reden, so will ich meine Ansichten darlegen 2 ,
die wahrscheinlich von denen vieler anderer Menschen abweichen 3 . Das Wehen der Luft, das Rieseln 4
des Wassers, das Wachsen der Getreide, das Wogen 5 des Meeres, das Grünen der Erde, das Glänzen des
Himmels, das Schimmern der Gestirne halte ich für groß; das prächtig einherziehende Gewitter 6 , den Blitz,
welcher Häuser spaltet 7 , den Sturm, der die Brandung 8 treibt, den feuerspeienden Berg 9 , das Erdbeben 10 ,
welches Länder verschüttet, halte ich nicht für größer als obige Erscheinungen, ja, ich halte sie für kleiner,
weil sie nur Wirkungen so viel höherer Gesetze sind. Sie kommen auf einzelnen Stellen vor und sind die
Ergebnisse einseitiger 11 Ursachen. [...]
So wie es in der äußeren Natur ist, so ist es auch in der inneren, in der des menschlichen Geschlechtes. Ein
ganzes Leben voll Gerechtigkeit, Einfachheit [...], Wirksamkeit in seinem Kreise, Bewunderung des Schönen,
verbunden mit einem heiteren, gelassenen Sterben, halte ich für groß [...].
Wir wollen das sanfte Gesetz zu erblicken suchen, wodurch das menschliche Geschlecht geleitet wird.
Es ist das Gesetz dieser Kräfte, das Gesetz der Gerechtigkeit, das Gesetz der Sitte [...]. Dieses Gesetz liegt
überall, wo Menschen neben Menschen wohnen, und es zeigt sich, wenn Menschen gegen Menschen wirken.
Es liegt in der Liebe der Ehegatten zueinander, der Liebe der Eltern zu den Kindern, der Kinder zu den
Eltern, in der Liebe der Geschwister, der Freunde zueinander, in der süßen Neigung der Geschlechter, in der
Arbeitsamkeit 12 , wodurch wir erhalten werden, in der Tätigkeit, wodurch man für seinen Kreis, für die Ferne,
für die Menschheit wirkt, und endlich in der Ordnung und Gestalt, womit ganze Gesellschaften und Staaten
ihr Dasein umgeben und zum Abschlusse bringen 13 .
(Focus KonTexte Neu, Cideb, S. 131-133)
1. e Spielerei, -en: divertimento
2. darlegen: spiegare
3. abweichen: scostare
4. s Rieseln (v. sost.): il dolce scorrere
5. s Wogen (v. sost.): l’ondeggiare
6. das prächtig einherziehende Gewitter: il passaggio
imponente del temporale
7. spalten: spaccare
8. e Brandung, -en: la risacca
9. der feuerspeiende Berg: il monte che sputa fuoco
10. s Erdbeben, -: il terremoto
11. einseitig: unilaterale
12. e Arbeitsamkeit: laboriosità
13. zum Abschluss bringen: portare a compimento
35 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
Focus
Das „sanfte Gesetz“ ist das göttliche Gesetz, das Kleines und Großes regelt, weil die kleinen Dinge dieselbe
Würde wie die großen Dinge oder eine noch größere Würde haben. Die wahre Größe liegt in den kleinen
Dingen. Natürliche Ereignisse, wie das Murmeln des Wassers, das Wachsen des Korns, das Wehen des Windes
usw. sind so groß, wie Sturm und Erdbeben, d. h. wie Phänomene, die den Menschen erschüttern. Vor allen
Erscheinungen der Natur muss der Mensch Demut zeigen, denn in allen Dingen ist das göttliche Gesetz
anwesend. Der Mensch, der sich diesem Gesetz nicht unterordnet und sein Schicksal selbst bestimmen will,
macht einen großen Fehler und wird den Weg zurück zum sanften Gesetz nicht mehr finden.
Auch im Seelenleben des Menschen muss dieses sanfte Gesetz gelten. Alle Menschen sollen ruhig miteinander
leben und ihre Pflicht erfüllen. Das Glück besteht in einem ruhigen und einfachen Leben, wo jeder Mensch
Teil einer Gemeinschaft ist, wo er arbeiten, die anderen Menschen lieben und jede Ungerechtigkeit vermeiden
soll. Die Familie gilt als wichtigstes Mittel zur Bewahrung der Tradition und der Kontinuität. Die
Kinder sind die Hauptfiguren in vielen Novellen. Während die Großeltern die Vergangenheit verkörpern, stellen
die Kinder die Zukunft dar, aber keine Spannung trennt die zwei Generationen voneinander. Vergangenheit,
Gegenwart und Zukunft bestehen harmonisch nebeneinander; es gibt keine Generationskonflikte.
Das sanfte Gesetz will, dass jeder geachtet, geehrt, ungefährdet neben dem anderen bestehe.
Als Naturwesen soll der Mensch in Stifters konservativer Weltanschauung wie ein Baum oder ein Stein im
Einklang mit allen anderen Naturschöpfungen leben.
Diese für seine Zeit neuartigen Landschaftsbeschreibungen haben Stifter paradoxerweise den zweifelhaften Ruf
eines Heimatschriftstellers eingebracht. Bis heute besteht die Idee, er habe die ländliche Lebenswelt als Idylle
idealisiert.
Doch Stifters Darstellung der Natur kann ambivalent angesehen werden. Einerseits gibt es viele heitere
Naturszenen, die man als „Idylle“ bezeichnen kann, weil das harmonische Miteinander von Mensch, Tier und
Landschaft im Vordergrund steht. Andererseits darf nicht vergessen werden, dass seine Erzählungen zugleich
um Themen brennender Aktualität kreisen, wie die Frage nach dem Stellenwert von Tradition,
Wertorientierung oder Schicksalsglauben.
Tipps:
• Die Natur in der Romantik (Caspar David Friedrichs Gemälde)
• Die Natur im magischen Idealismus von Novalis: „Hymnen an die Nacht“ (1797-1800) und „Heinrich von
Ofterdingen“ (1798)
• Die zwielichtige Natur in Joseph von Eichendorffs „Lockung“ und „Aus dem Leben eines Taugenichts“ (1826)
• Die Natur als Todeslandschaft in der Trümmerliteratur und in der Lyrik des Expressionismus
• Natur-Stadt als Chiffre einer nahen Weltkatastrophe in den Gedichten von Georg Heym und Georg Trakl
36 © De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
SCIENZE
Il nostro rapporto con l’ambiente
Ambiente è un termine che si usa di frequente e soprattutto in diversi ambiti: l’ambiente è sociale quando ci
si riferisce a un gruppo di persone che interagiscono, virtuale quando si parla di tecnologie digitali, ma esiste
anche l’ambiente urbano, culturale e via discorrendo. Volendo fare una generalizzazione, quando si parla di
ambiente si fa riferimento a tutto ciò che ci circonda e che interagisce con noi. Nelle scienze naturali questo
termine ha un significato preciso e indica un contesto spaziale definito, che comprende tutti gli elementi,
viventi e non, che lo costituiscono. La Terra è costituita da diversi ambienti, di differenti dimensioni, spesso
contenuti l’uno nell’altro un po’ come una matrioska: il mare è un ambiente, ma anche una specifica zona del
mare, caratterizzata dalla presenza di una particolare barriera corallina, può essere considerata un ambiente a
se stante con le sue peculiarità. Il pianeta Terra, nella sua interezza, è un ambiente che contiene a sua volta dei
macroambienti: la biosfera, la litosfera, l’atmosfera, le acque, ma in questo percorso abbiamo scelto di inserire
anche un ambiente non Naturale, o almeno un ambiente che è il risultato dell’interazione dell’uomo con il
suo pianeta, l’ambiente urbano.
La biosfera
La biosfera è definita come l’insieme delle zone del pianeta in cui le condizioni ambientali rendono possibile
la nascita e lo sviluppo della vita. In un certo senso, possiamo anche definirla come l’insieme di tutti gli
ecosistemi esistenti. La biosfera non ha limiti ben precisi, come invece gli altri elementi che formano la Terra,
la litosfera, l’idrosfera e l’atmosfera, ma può essere considerata la porzione di tali elementi in cui è possibile la
sopravvivenza degli organismi viventi.
Rispetto al diametro del pianeta, lo spessore della biosfera è davvero esiguo, costituendo coi suoi circa 20
kilometri appena un trecentesimo del raggio terrestre. Eppure la sua importanza è enorme, e di fatto fa la
differenza tra gli invivibili pianeti del Sistema solare e la Terra, unico luogo che può ospitare la vita. Una delle
caratteristiche che rendono la Terra adatta alla vita è la sua posizione, non troppo vicino al Sole (dove fa
troppo caldo, come nel caso di Venere), né troppo lontano (dove fa troppo freddo, come nel caso di Marte).
Si trova, insomma, alla distanza giusta dalla nostra stella.
37
© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
I limiti della biosfera non sono, dunque, definiti esattamente. È tuttavia accettabile considerarne l’estensione
dalle massime profondità oceaniche, oltre i cinquemila metri di profondità e gli undicimila metri delle fosse
abissali, dove vivono alcuni organismi chemiosintetici, sino ai diecimila metri di altezza dalla superficie del mare,
dove si possono trovare ancora pollini e spore. Una ventina di kilometri di spessore, appunto. Eppure, tutta la
vita del pianeta, e per quel che ne sappiamo anche dell’universo, si trova concentrata qui.
Si ritiene che la biosfera abbia cominciato a ospitare la vita almeno quattro miliardi di anni fa, quando ebbero
origine le prime forme viventi grazie a meccanismi ancora in parte ignoti. All’epoca la Terra era assai diversa
da come ci appare adesso, l’atmosfera era priva di ossigeno (come vedremo, un prodotto della vita stessa),
e i primi composti organici, amminoacidi e proteine, potevano trovare rifugio solo al di sotto del livello di
antichissimi mari di cui oggi non resta più traccia, al riparo dal costante bombardamento di raggi ultravioletti
provenienti dal Sole.
Facciamo un balzo in avanti di qualche miliardo di anni e arriviamo ai primi passi della nostra specie sul
pianeta. Per milioni di anni gli ominidi più primitivi, ma anche i nostri antenati più vicini di dieci o ventimila anni
fa, hanno avuto con la biosfera un rapporto di rispetto e dipendenza. I primi esseri umani non avevano le
conoscenze e i mezzi per modificare in modo apprezzabile l’ambiente intorno a loro. Le cose sono cambiate
relativamente di recente, neanche trecento anni fa, quando con la Rivoluzione industriale abbiamo cominciato
a modificare la composizione dell’atmosfera e con l’energia ricavata dai combustibili fossili abbiamo avviato la
sostanziale trasformazione del pianeta che continua ancora oggi. Il futuro della biosfera, degli equilibri delicati
di tutti gli ecosistemi che la compongono, è nelle mani della nostra capacità di trovare un compromesso tra
sviluppo tecnologico e rispetto per quello che è l’unico luogo dell’universo conosciuto in grado di ospitare la
vita: la nostra Terra.
La litosfera
La litosfera è la parte solida più esterna del nostro pianeta. È quella parte della Terra che consente, con le sue
rocce e soprattutto con il suolo, di ospitare la vita degli organismi animali e vegetali e le attività umane.
Lo strato esterno del nostro pianeta è costituito da minerali e rocce, e dai prodotti della loro elaborazione a
opera degli agenti esogeni: pioggia, ghiaccio, vento e forza di gravità.
Le rocce più antiche risalgono a oltre quattro miliardi e mezzo di anni fa, e affiorano in Australia, in Canada e
in Groenlandia. Esse sono testimonianza dell’evoluzione della vita, attraverso i resti fossili contenuti nelle rocce
sedimentarie e metamorfiche, e della continuità dei fenomeni naturali e geologici col passare dei miliardi di anni.
Cambiamenti lenti, della durata di centinaia di milioni di anni. Le rocce testimoniano anche la presenza di un
38
© De Agostini Scuola S.p.A. – Novara
campo geomagnetico, che si è evoluto cambiando polarità (il polo magnetico Nord e Sud che si sono scambiati
di posto decine e forse centinaia di volte). Nell’insieme, sembra che la Terra abbia manifestato cambiamenti
ciclici, ma non sia mutata sostanzialmente nel tempo. Al punto che la sua evoluzione può trovare riscontro anche
nei fenomeni che osserviamo ai giorni nostri, attraverso attività vulcaniche e sismiche e lenti movimenti delle
placche in cui la litosfera è frantumata. Tutti questi fenomeni continuano oggi proprio come avvenivano centinaia
di milioni di anni fa. Questo ha portato allo sviluppo di teorie come l’attualismo (o uniformismo), già avanzato da
scienziati come James Hutton prima, alla fine del Diciottesimo secolo, e Charles Lyell un secolo dopo. Secondo
questo modo di interpretare i processi geologici, oggi quasi universalmente accettato dalla geologia moderna, i
processi avvenuti nel passato sono gli stessi che avvengono ancora oggi, anche se sono spesso troppo lenti per
essere osservati secondo la scala umana.
L’atmosfera
La Terra non è l’unico pianeta in grado di ospitare un’atmosfera, quel guscio di gas trattenuto dalla forza di
gravità che può avvolgere un corpo celeste. Anche Marte ha una sua atmosfera, benché sia molto rarefatta
e abbia una pressione pari ad appena un millesimo di quella terrestre. Venere ha invece un’atmosfera molto
più densa e concentrata della nostra, mentre la Luna non ne possiede alcuna, se non in tracce. A quanto ne
sappiamo però, solo la Terra possiede un’atmosfera sufficientemente densa da consentire la vita. Non solo: la
nostra atmosfera ha anche la giusta temperatura. L’effetto serra, ossia il fenomeno naturale che consente ai
raggi solari di essere intrappolati dai gas atmosferici scaldando così la superficie del pianeta, è infatti sufficiente
a permettere la sopravvivenza dei viventi e a mantenere l’acqua allo stato liquido, condizione indispensabile
alla vita come noi la conosciamo. Su Marte l’effetto serra non è sufficiente a riscaldare adeguatamente la
superficie, mentre su Venere un effetto serra esasperato porta a temperature infernali, superiori al punto di
fusione del piombo (oltre 450 °C).
Non è però solo questione di temperatura, anche la composizione è importante. Le atmosfere di Marte e
Venere sono costituite per lo più da diossido di carbonio, che sulla Terra costituisce appena lo 0,04% del
totale. Un miliardo di anni fa anche sulla Terra l’atmosfera era molto diversa. In un certo senso, quella attuale
è il prodotto dell’azione stessa degli organismi viventi. Per almeno un miliardo di anni dopo la comparsa delle
prime forme di vita batteriche, l’atmosfera terrestre è rimasta priva di ossigeno, mentre erano abbondanti
l’azoto, il metano e il diossido di carbonio. Tre miliardi di anni fa le prime forme di vita autotrofe, attraverso la
fotosintesi clorofilliana, cominciarono a produrre e liberare nell’atmosfera l’ossigeno, che verosimilmente era
in generale tossico per le forme di vita dell’epoca. La maggior parte delle forme di vita esistenti oggi, ossia
tutte quelle che hanno bisogno di ossigeno per sopravvivere, discendono dagli organismi che si dimostrarono
in grado non solo di sopravvivere in presenza di questo gas, letale per altri, ma di diventarne addirittura
dipendenti. Oggi l’ossigeno forma poco più di un quinto dell’intera atmosfera, ed è rimasto pressoché
costante nel corso degli ultimi cinquecento milioni di anni.
Negli ultimi tre secoli l’uomo, attraverso le sue attività, ha modificato la composizione dell’atmosfera così
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come la sua temperatura. Per centinaia di milioni di anni, l’attività fotosintetica dei batteri autotrofi, delle
alghe e delle piante ha consentito al diossido di carbonio di restare immagazzinato nei resti degli organismi
vegetali, sotto forma di quelli che oggi chiamiamo combustibili fossili: carbone, gas naturale e petrolio. Nel
giro di appena centocinquant’anni l’uomo, bruciando questi combustibili per ricavarne energia, ha liberato
nell’atmosfera il diossido di carbonio che si era accumulato nel sottosuolo nel corso delle ere geologiche. Il
diossido di carbonio, insieme ad altri gas (come il metano) è responsabile dell’effetto serra che per milioni di
anni, come abbiamo visto, ha consentito alla Terra di non essere troppo fredda e di essere adatta a ospitare
la vita. Oggi però, questo equilibrio si è rotto e la concentrazione di questo gas serra è cresciuta in modo
inarrestabile, passando dallo 0,028% dell’era pre-industriale all’attuale 0,042%, un aumento di almeno il 50%
rispetto a trecento anni fa. E il 25% di questo aumento risale agli ultimi sessant’anni. Attualmente si stima che
la concentrazione nell’atmosfera del diossido di carbonio aumenti di circa 2 ppm (parti per milione) ogni
anno, e la crescita sembra inarrestabile. La conseguenza è il “riscaldamento globale”: l’effetto serra porta a un
aumento progressivo della temperatura dell’aria, con pesanti e imprevedibili effetti sul clima, lo scioglimento
dei ghiacciai e il sollevamento del livello di mari e oceani.
Il riscaldamento globale non è l’unico impatto prodotto dalle attività umane sull’atmosfera. Ce ne
sono almeno altri tre, e ciascuno da solo basterebbe a produrre enormi scompensi nella biosfera. C’è
l’inquinamento dell’aria, dovuto alle emissioni di fabbriche, autoveicoli e altri mezzi di trasporto, con effetti
chimici ma anche fisici nell’ambiente e pericolosi per la salute umana. Ci sono le piogge acide, dovute
sempre al rilascio di composti come il biossido di zolfo, che a contatto con l’umidità atmosferica portano alla
formazione di acido carbonico e acido solforico, con aumento del pH delle precipitazioni e danni a livello
degli apparati radicali delle piante. E ancora, l’uso per molti decenni di composti del fluoro, come i CFC
utilizzati nei sistemi di condizionamento dell’aria e come propellenti per le bombolette spray, ha portato
all’aumento di questi gas nell’atmosfera con l’effetto, conosciuto dagli anni Ottanta del secolo scorso, di
erodere il tenue strato di ozono atmosferico, che si trova tra 15 e 35 km di altitudine e ci protegge dai raggi
ultravioletti del Sole, estremamente dannosi per i tessuti viventi.
Mari e oceani
Una delle caratteristiche che distinguono la Terra dagli altri pianeti del Sistema solare è la grande abbondanza
di acqua, per lo più allo stato liquido, ma anche solido e aeriforme, rispettivamente sotto forma di ghiaccio e
di vapore acqueo.
Se avessimo davanti a noi la Terra ridotta alle dimensioni di un pallone da calcio, l’acqua di mari e oceani
ci sembrerebbe appena una sottile patina di umidità sulla sua superficie. In realtà, la profondità media degli
oceani è di 3800 metri (meno dello 0,06% del raggio terrestre), un valore superiore all’altitudine media delle
montagne.
In nessun altro pianeta del Sistema solare l’acqua potrebbe presentarsi allo stato liquido in tali enormi
quantità: mari e oceani, infatti, ricoprono oltre i due terzi dell’intera superficie terrestre. Se la Terra fosse più
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vicina al Sole (come Venere, o Mercurio), la temperatura sarebbe troppo elevata e manterrebbe l’acqua allo
stato di vapore, rendendo l’atmosfera enormemente densa. Se fosse invece più lontana, come Marte, farebbe
troppo freddo e l’acqua sarebbe allo stato solido. La Terra, come già abbiamo osservato, si trova alla distanza
giusta dal Sole.
L’acqua ha alcune caratteristiche che la rendono unica e preziosa per la vita. La struttura chimica, formata da
due atomi di idrogeno uniti attraverso legami covalenti a un singolo atomo di ossigeno, conferisce a questo
composto delle proprietà particolari: un elevatissimo calore specifico, per esempio. Per riscaldare una certa
quantità di acqua ci vuole più calore rispetto a quello necessario, per esempio, per riscaldare un’uguale
quantità di ammoniaca. L’acqua si comporta quindi come un enorme immagazzinatore di calore, per questo
motivo il clima in prossimità di grandi masse d’acqua (come mari, oceani, ma anche grandi laghi) si mantiene
mite. L’acqua accumula calore, riscaldandosi lentamente, e lo restituisce altrettanto lentamente.
Un’altra caratteristica dell’acqua è quella di aumentare il proprio volume quando passa dallo stato liquido a
quello solido, al contrario di quanto avviene per altre sostanze. Può sembrare una questione da poco, ma
per la vita è importantissimo. Quando l’acqua, nei periodi o nelle aree più fredde, passa allo stato solido
trasformandosi in ghiaccio, diventa meno densa (aumentando di volume a parità di massa). Ciò significa che il
ghiaccio galleggia. Il congelamento, quindi, anziché dal fondo parte dalla superficie, e il primo strato di ghiaccio
che si forma fa da isolante all’acqua sottostante. In questo modo, il ghiaccio impedisce che uno specchio
d’acqua, come un lago, geli totalmente e consente alle forme di vita di sopravvivere.
Infine, l’acqua è uno dei migliori solventi, e poiché i processi biochimici avvengono per lo più in ambiente
acquoso, ecco che la vita non può esistere senza l’acqua. La presenza di acqua, in altri pianeti, costituisce infatti
per gli scienziati uno dei principali requisiti per ipotizzare l’esistenza di una qualche forma di vita, per quanto
primitiva.
A causa delle attività antropiche, il mare è oggi un gigante malato, le cui condizioni peggiorano negli anni. I
problemi sono innumerevoli: l’inquinamento, dovuto agli scarichi industriali e urbani, alle perdite accidentali
di idrocarburi da parte delle petroliere, la dispersione in mare di enormi quantità di materiali plastici, che col
tempo si sono concentrati al punto da formare isole galleggianti grandi quanto piccoli continenti. Non è un
problema di poco conto, considerando che molte plastiche hanno tempi di decomposizione di centinaia o
anche migliaia di anni.
Inoltre, abbiamo già parlato dell’aumento progressivo della temperatura del mare, che porta a un
sollevamento generalizzato del livello medio degli oceani, che potrebbe essere anche di 5-6 metri entro la
fine del secolo.
Infine, l’eccessivo sfruttamento delle risorse marine con metodi di pesca intensiva, poco rispettosi della
capacità di rigenerazione delle forme di vita, porta al depauperamento delle popolazioni ittiche, ostacolando
soprattutto la riproduzione dei pesci, sempre meno abbondanti, ma anche dei molluschi e dei crostacei.
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L’ambiente urbano
L’ambiente urbano, tra i vari ambienti, è quello che più dipende dall’esistenza stessa dell’uomo, con profondi
mutamenti che spesso non lasciano più spazio a nessuna forma di equilibrio naturale, essendo finalizzato
esclusivamente all’urbanizzazione, alle infrastrutture e all’industria. Nonostante questa tendenza, uno degli
indicatori di civiltà e rispetto dell’ambiente, condizionato da elementi culturali e storici, è la previsione e la
cura di aree ricoperte da vegetazione, anche all’interno delle metropoli: veri polmoni verdi come i parchi e i
giardini pubblici.
Il progressivo ampliamento delle città, che arrivano a ospitare milioni di abitanti e occupare centinaia o anche
un migliaio di kilometri quadrati di estensione, ha portato inevitabilmente all’emergere di problemi di degrado
sempre più evidenti, soprattutto nelle periferie più povere e sottosviluppate.
L’inquinamento dell’aria al di sopra delle grandi città è sempre più preoccupante, in particolare nelle aree più
sviluppate e caratterizzate da sistemi di riscaldamento centralizzati e da consistenti flussi di traffico su gomma;
il problema è ancora più grave nelle aree meno esposte a venti in grado di disperdere lo smog. In particolare,
si evidenzia il pericolo derivante dalle cosiddette polveri sottili, materiali di dimensioni così piccole da restare a
lungo in sospensione e penetrare in profondità nel nostro apparato respiratorio, causando problemi seri che
vanno dalle semplici allergie e irritazioni alle gravi forme tumorali. Di recente, si è proposto un coinvolgimento
delle polveri sottili, e delle particelle dello smog in generale, nel veicolare il virus responsabile dell’epidemia
COVID-19, permettendo una maggiore diffusione e favorendo il contagio tra la popolazione.
Ora provaci tu
• Il geologo scozzese Charles Lyell, nella sua opera Principles of geology del 1830, introdusse un concetto
fondamentale nelle scienze della Terra, espresso e riassunto dalla frase: “il passato è la chiave del presente”.
Che cosa intendeva dire? Estendi il concetto e spiega in che modo oggi tale affermazione può essere
confermata dalle scoperte effettuate negli ultimi cento anni.
• L’epidemia COVID-19 ha portato a un improvviso mutamento negli equilibri relativi all’uso delle fonti di
energia, con un abbassamento del prezzo del petrolio e un incremento dello sfruttamento di fonti alternative.
Sapresti spiegare perché?
• Cerca informazioni in rete sulla cosiddetta “piccola era glaciale”, avvenuta tra il 1500 e il 1850, e analizzane le
implicazioni socio-culturali e tecnologiche, sulla base delle testimonianze storiche che riesci a reperire.
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