STANZE_09_23_UOMO
Un trimestrale di ricerca ed approfondimento culturale
Un trimestrale di ricerca ed approfondimento culturale
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STANZE
ascolti
forme
fotogrammi
ombre
pagine
palchi
visioni
zone
09/23
U O M O
in copertina
Renzo Ferrari
Pollution - Marzo/Agosto 2020
Olio su tela, 142,5 x 200 cm
Un'opera che condensa tutto il repertorio
ferrariano: l'uomo, il problema ecologico,
il movente di cronaca, i colori pulp,
gli stilleben, i vari piani di lettura,
i titoli inseriti e l'atmosfera visionaria.
Per un approfondimento, l'intervista
a Renzo Ferrari è a pag. 18.
EDITORIALE
Marta Silenzi, Paola Ranzini Pallavicini
HOMO HOMINI LUPUS
L’UOMO È UN LUPO PER L’UOMO,
NON UN UOMO
Plauto, da L'Asinaria
MS UOMO. Essere umano. Individuo.
Dalla donna a tutti gli asterischi che
vogliamo mettere.
Uomo. In tutte le sue declinazioni e
identità.
Non uomo in antitesi alla donna. Non
solo uomo come maschio.
È davvero così importante elencare,
distinguere?
Non dovremmo invece perseguire
l'unità?
Essere moderni, non essere retrogradi
(intendendo con questo società
patriarcali e maschiliste, che
perseguono il machismo o il
superomismo – senza neanche
esserne consapevoli e questo è il
danno maggiore) significa specificare
la denominazione dei generi?
Perché c'è ancora bisogno di
contrapporre un femminismo ad un
maschilismo? Non sarebbe importante
eliminare ogni tendenza alla
supremazia, detronizzarla,
disinnescarla?
Sono temi sempre e di nuovo caldi,
complessi, per i quali non ci sono
soluzioni reali oltre la progressiva
presa di coscienza, spinta
all'educazione, all'apertura mentale
che è difficile far coincidere con una
sequenza di sigle e simboli, con una
declinazione di titoli volti al femminile
(a volte davvero inascoltabili).
Uomo è un termine onnicomprensivo,
uomo è sovragenere e la lingua scritta
è un'arma a doppio taglio con la quale
ultimamente stiamo giocando
spudoratamente e dietro la quale ci
stiamo nascondendo per dare parvenze
di parità alle minoranze che, quanto
più si diversificano, tanto più sono
minori, mentre siamo un solo popolo di
uomini sulla terra, e qualche volta
nello spazio e tra gli abissi, se la
Natura ce lo permette.
PRP Siamo donne che amano gli
uomini e li celebrano, ma riusciamo ad
amarli così tanto unicamente perchè
per prima cosa amiamo noi stesse. In
altro modo non sarebbe possibile.
Libertà, desiderio, tenerezza possono
nascere unicamente da questa
premessa. Una vertigine che ci porta a
godere delle diversità molto prima che
delle uguaglianze.
Degli uomini amiamo imperfezioni,
fragilità, bellezza nascosta nei gesti e
nei sogni, inconsapevolezza, candore,
manie, ossessioni, ingegno, paure.
Siamo privilegiate, perchè dagli uomini
esigiamo rispetto e sostegno sapendo
che in troppi paesi nel mondo le nostre
sorelle non aspirano a tanto.
Eppure nemmeno noi abbassiamo mai
del tutto la guardia, perchè ci sono
sottogliezze e sottintesi che ancora
feriscono molto, e ci portiamo nel dna
una sottile inquietudine che stenta ad
abbandonarci, perchè radicata da
generazioni.
La fiducia nell'essere umano resta
l'antidoto più potente, la curiosità nei
confronti dello sconosciuto di Walt
Whitman ci tiene in vita. Questo
vogliamo celebrare ogni mattina
uscendo nel mondo, e ogni sera nelle
nostre stanze.
3/EDITORIALE
Marta Silenzi, marchigiana, classe 1977. Laureata in
Storia e Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo
Storico Artistico e diplomata in Antropologia dell’arte
ad un master dell’Accademia di Belle Arti. Autrice
di testi critici per mostre temporanee e cataloghi
ragionati di artisti nazionali ed internazionali
(pubblicazioni Il Centofiorini, Skira, La Colomba,
Pagine d’Arte). Divoratrice di libri e film, pazza per
la musica, mamma di due bambini. La scrittura creativa
si accompagna da sempre a quella critica, come
momento di riflessione, occasione di ritrovamento,
lascito di una traccia. Interessata a trovare connessioni
e sinergie tra le forme espressive, fino ad una sintesi
di parole, immagini e suoni che non ha confini.
Nata letteralmente in mezzo a libri e periodici nel 1978
alle porte di Milano Nord, cresciuta disegnando prima
e impaginando poi, Paola Ranzini Pallavicini è
un’appassionata e tenace grafica editoriale, che ha
instaurato dagli anni Novanta solide collaborazioni
con le più prestigiose redazioni di mezza Milano
specializzandosi in pubblicazioni di architettura,
urbanistica, design, arte, fotografia, saggistica. Un curioso
decennio è volato tra le altre cose affiancando
gli architetti della EPFL di Losanna nel dare una veste
calzante a ricerche di respiro internazionale. Grazie alla
pandemia e ad alcune interessanti ragazze ha ripreso in
mano prima la matita, poi la penna, per condividere con
chi vorrà tutti i mondi che popolano la sua testa irrequieta.
redazione–stanze
Redazione Stanze
redazionestanze.blogspot.com
in redazione:
Andrea Anconetani
incertipercorsi.eu
Ricky Antolini
instagram.com/rickyantolini
Gianfranco Garavelli
instax240.com
Nicola Guida
nicolaguida.wixsite.com/photography
Chiara Riva
instagram.com/chiarariva80
numeri precedenti:
Stanze 03/22 Natura (sabato 05/03/2022)
Stanze 06/22 Donna (sabato 11/06/2022)
Stanze 09/22 Strade (sabato 10/09/2022)
Stanze 12/22 Corpo (sabato 10/12/2022)
Stanze 03/23 Kids (sabato 11/ 03/2023)
Stanze 06/23 Labirinto (sabato 17/ 06/2023)
4/redazione stanze
"UOMINI!" ESCLAMÒ
PER CONCLUDERE,
COME SE QUELL'UNICA
PAROLA RIASSUMESSE
TUTTI I DIFETTI SU CUI
LE DONNE SONO DISPOSTE
A CHIUDERE UN OCCHIO
E CHE IMPARANO
A TOLLERARE E ALLA FINE
A PERDONARE
AGLI UOMINI CHE SPERANO
DI AMARE PER IL RESTO
DELLA VITA, PUR SAPENDO
CHE NON SARÀ COSÌ.
Andrè Aciman, Cercami
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In copertina
Editoriale
Redazione Stanze
A nudo
Conversazione con Massimo Valentini
MARTA SILENZI
Renzo Ferrari. Sull′uomo
MARTA SILENZI
CON PAOLA RANZINI PALLAVICINI
#album / Sand Men
RICCARDO ANTOLINI
note / Uomini, bugie e videotape
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
Mario Dondero
Il racconto e il talento
MARTA SILENZI
Lorenzo Castore
Essenziale, nomade, intimo
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
Il potere del cane e Stoner:
due modelli di mascolinità
oltre gli stereotipi
CHIARA RIVA
note / collage #1 #2 #3 #4
note / Ex Nihilo
Su una lettura di Carmelo Bene
ANDREA ANCONETANI
In controtendenza
NICOLA GUIDA
#album / Il singolo individuo
dispone solo di frammenti
GIANFRANCO GARAVELLI
note / Prospettiva Van Orton
MARTA SILENZI
ascolti
forme
fotogrammi
ombre
pagine
palchi
visioni
zone
AMarta
Silenzi
NU
DO
CONVERSAZIONE CON MASSIMO VALENTINI
Massimo Valentini, sassofonista nativo di Urbania,
è un musicista raffinato, energico ed
un uomo gentile e divertente, che sa cogliere
le sfumature dell’esistenza e trasformarle
in musica. Sta promuovendo Nudo, il suo
ultimo album, 11 tracce dalle sonorità e atmosfere
che spaziano dal Jazz alla cultura
popolare, frutto di contaminazioni dai viaggi
in Argentina, Brasile, Ungheria e Romania,
senza perdere il sapore della sua terra,
quell’ispirazione che viene dalla natura, dai borghi, dai profumi della Val
Metauro e dal vissuto personale. Il suo è uno stile senza confini che nel
precedente album prendeva il nome di Jumble Music: una sintesi di “eleganza
e rozzezza, precisione e confusione, pazzia e razionalità, dolcezza e
sfrenata passione.” Un tipo di musica che descrive non solo la creatività
espressiva di Valentini ma anche la sua visione del mondo, il suo modo di
porsi, generoso e coinvolgente.
Nudo è un disco da ascoltare con attenzione, ancora di più da apprezzare
dal vivo, per conoscere il musicista nella sua forma espressiva più
intensa, assieme alla sua band di rilievo, con cui ha registrato e portato in
tour questo album candidato ai Grammy 2023.
MS Punto subito al cuore delle cose, Massimo: da dove vengono le
ispirazioni? Ho letto che peschi emozioni persino dal cibo che mangi e che
cucini anche, con passione ed eclettismo...
MV Ho un pianoforte a mezza coda a casa di mia madre, me lo comprò
mio padre quando studiavo in Conservatorio. Usò tutta la liquidazione del
lavoro per comprarmi il pianoforte. Mio padre era un operaio metalmeccanico.
Purtroppo a casa mia non ho spazio per un pianoforte a mezza coda così
ogni tanto vado a casa di mia madre e lo suono, molte delle musiche che ho
scritto sono nate su quella tastiera. Grazie alla musica viaggio molto ed ho
conosciuto molte etnie differenti tra loro, differenti per svariati aspetti ed
uno di questi è il cibo. Non mi lascio ispirare direttamente dal cibo o dai
colori o dai profumi ma dalle emozioni che questi mi trasmettono e quasi
sempre sono legati alle persone con cui li condivido, li assaporo, li osservo.
MS Qual è il racconto dietro le tracce? So di una ragazza che aspettavi
di vedere in un giorno di neve...
MV C’è quasi sempre una storia dietro ad ognuna di esse.
In quel caso la ragazza mi piaceva, altroché se mi piaceva. Mi dissero
che anche a lei piacevo. Abitava vicino casa dei miei genitori. Un giorno mi
chiese di portarla a fare un giro con il motorino, era caldo, era estate, ma
ero fidanzato… con la proprietaria del motorino.
Poi fu inverno, mi piaceva ancora tanto, e non avevo più la fidanzata e
nemmeno il motorino.
La incontrai per caso con le sue amiche e con poche parole mi fece
capire che quel pomeriggio si sarebbe trovata con loro davanti casa sua.
10/ASCOLTI
11/ASCOLTI
Ero pronto a dichiararle il mio amore ma quel pomeriggio iniziò a nevicare,
nevicò e nevicò, nevicò così tanto che il gazebo di casa crollò. Incurante
del freddo e della neve mi presentai sotto casa sua, bagnato fino ai
capelli – che allora avevo – aspettai, aspettai sotto la neve per ore.
Eravamo solo io e la neve. Lei non uscì.
Non esistevano cellulari, non avevo il suo numero di casa…non avevo
nulla. Triste, tornai a casa.
Nel mentre, la neve si sciolse, Adele si fidanzò, poi si sposò, poi fece
figli, poi chissà…
Poi io ho scritto la musica.
MS Qual è l’iter creativo, la fase ideativa, come li affronti, come si
svolgono?
MV Spesso parte tutto da una melodia o da una linea ritmica che mi
nasce in testa, oppure come ho detto prima, mi metto al pianoforte , appoggio
le mani e suono, i primi 30, 40 secondi sono fondamentali, se nasce
qualcosa di interessante in quei secondi bene, altrimenti mi alzo e faccio
altro. Una volta che l’idea principale è fissata inizio a pensare all’armonia
e all’arrangiamento. Poi in fase di prova con i miei musicisti cerchiamo le
soluzioni migliori in base alle caratteristiche di ognuno di loro.
MS Come avviene la registrazione? Generalmente e nel caso di Nudo.
Ci sono musicisti che preferiscono il silenzio e la dimensione domestica di
una studio in casa, cosa ti mette a tuo agio e cosa invece ti disturba in questa
fase?
MV È sempre una bella emozione per me registrare in studio le mie
musiche, è una dimensione che mi è sempre piaciuta. La cosa importante
per me e arrivare molto prima in studio di registrazione e adattarmi all’ambiente,
suonare insieme a i miei musicisti e “trovare il suono”. Ogni ambiente
suona in modo differente e sentirci a nostro agio e fondamentale.
Spesso suoniamo i brani da capo a fondo. C’è molto interplay nella
mia musica ed è fondamentale registrare tutti insieme.
Nel caso di Nudo è stato così per tutti i brani tranne che per quattro
di essi che ho registrato nel mio studio, in casa e da solo. Dico da solo perché
ho registrato io tutte le parti degli strumenti tranne che per alcune
parti di arpa, chitarra, percussioni africane e archi. L’unica cosa che mi disturba
in uno studio di registrazione potrebbe essere trovare un tecnico
audio ansioso e frettoloso, amo le persone pacifiche e tranquille che non
mettono appunto ansia e fretta. Ed è per questo che scelgo gli studi di registrazione
attentamente, non solo per la struttura ma anche per chi gestisce
la parte tecnica.
MS Nudo è frutto degli anni pandemici? Come li hai vissuti?
MV Alcuni brani sono stati scritti precedentemente la pandemia, ad
esempio: Autumn’s Eyes, North Direction, La prima Neve d’Oriente e Sesamo
Sticks, altri durante la pandemia. Durante il periodo di chiusura totale dovuta
al Covid sono riuscito davvero a pensare a me stesso, alle mie esigenze e
12/ASCOLTI
a riflettere su ciò che davvero volevo, mi sono messo a nudo, ed ecco appunto
il titolo dell’album. Il primo periodo di pandemia l’ho vissuto bene per i
motivi che ti ho appena spiegato, poi dopo qualche mese sentivo davvero la
necessità di uscire, vedere le persone che amo e tornare sul palco e suonare.
MS L’album è ricco di stili e influenze. I critici hanno snocciolato lunghi
elenchi a proposito di Nudo, ma io vorrei sentire da te quali sono i confini
da cui entri ed esci con disinvoltura e in cui ti senti comodo. Partiamo dal
Jazz. C’è ancora improvvisazione nella fase ideativa, di registrazione o live?
MV Un pensiero che non mi sono mai posto è quello dei confini. Penso
solo al suono, alle vibrazioni che mi arrivano che, di rimando, saranno le
vibrazioni che arriveranno a chi ascolta, più o meno intense ma è di quelle
che si tratta. Il Jazz, questa parola significa tutto e niente per me. Amo
improvvisare e lo faccio anche mentre scrivo un brano. Ti spiego meglio:
spesso arriva l’idea melodica e la scrivo su carta o su programmi di scrittura
musicale digitale. Fatto questo, inizio a suonarla al pianoforte e ad improvvisare
variazioni su di essa, ed è così che spesso poi arrivano altre idee
per l’arrangiamento. Vedo l’improvvisazione a 360 gradi, non solo sul palco
o mentre registriamo ma anche in fase di scrittura, è un elemento in più
per potermi esprimere.
MS Parlando di influenze: viaggi memorabili?
MV Sicuramente la mia permanenza a Buenos Aires e in Brasile hanno
influito molto ma anche i tanti viaggi e le esperienze fatte nei Balcani e
in Russia.
MS Aneddoti memorabili?
13/ASCOLTI
MV Potrei raccontartene tanti ma amo i dettagli e ci vorrebbe un articolo
solo per questi!
Per esempio quella volta che a Mar del Plata saltai da un treno in
corsa, oppure quando al Django Reinhardt Festival, lungo la Senna, dei
nomadi Gitani ci accolsero nel loro campo e suonammo assieme a loro.
Oppure quando a Vòlogda, in Russia, con l’orchestra di sax facemmo
una prova in una piccola stazione del treno, suonammo un brano tradizionale
russo, i presenti si misero a piangere dalla commozione e tutti noi a
seguire mentre suonavamo. Poi dei ragazzi ci aiutarono a prendere il treno
e, nonostante la loro povertà, ci offrirono aringa secca e pane. Ricordo che
prima di salire sul treno gli lasciai tutti i soldi che avevo in quel momento.
Oppure ricordo bene quando fui accompagnato da un'amica in una
Favela nella periferia di Vitoria, in Brasile, piansi per quello che vidi, ma
non di tristezza, semplicemente ero commosso per l’accoglienza e per l’energia
che percepivo.
E ancora, quando per sbaglio, dopo un concerto nella Plaza de Toros
di Valencia, aprii un cancello che non dovevo aprire…
Ultimo aneddoto e poi mi fermo. Dopo un concerto con Raphael Gualazzi
a Torino, tornammo in hotel. Quella notte non dormii nulla, tossivo in
continuazione, così verso le cinque del mattino decisi di farmi un bagno.
Aprii il rubinetto della vasca per farla riempire e mentre aspettavo mi rimisi
“un attimo” sdraiato. Quell’ attimo durò più di un’ora. La stanza si era allagata,
metà corridoio pure. Cercai di asciugare il più possibile ma il pavimento,
parte in legno e parte in moquette, lo rese impossibile. Tralasciando l’incontro
imbarazzante con il direttore dell’hotel e la bacchettata sulle mani
dalla receptionista ventenne, scesi nell'atrio dell'hotel, c'erano recipienti
posizionati qua e là per raccogliere l'acqua che usciva da giganti lampade a
14/ASCOLTI
muro, sembrava di stare in un centro benessere. Quando i componenti della
band seppero che fu per colpa mia, mi presero in giro per tutta la tournée. Il
direttore dell’hotel fu un signore, dopo il mio racconto riguardo a come tutto
ciò era accaduto, mi rispose: “non si preoccupi, succede”.
MS L’immagine interna del sax soprano nel tuo cd è bellissima. Che
rapporto hai col tuo strumento? Sei un polistrumentista?
MV Conosco molto bene il mio strumento, il Sax. Molti media scrivono
che sono anche cantante e percussionista ma in realtà amo semplicemente
usare la mia voce e suonare flauti e cajon nei miei brani.
MS Quanto ai tuoi precedenti album, pensi ci sia stata un’evoluzione
fino a Nudo o semplicemente ogni lavoro è frutto di diversi momenti, specchio
di diversi stati d’animo e di diverse esperienze?
MV Entrambe le cose. L’evoluzione sicuramente è imprescindibile,
nel frattempo ho fatto tante esperienze, ho conosciuto nuove persone e
sperimentato altre sonorità. Seguo e accolgo sempre il cambiamento naturale
delle cose.
MS Sono molto incuriosita dai titoli delle opere, delle canzoni, dei
libri, vi si condensa la fotografia di un momento preciso e complesso. Come
scegli i titoli delle varie tracce?
MV Quasi sempre i miei brani si ispirano a fatti realmente accaduti, di
conseguenza anche il titolo. Alcuni amici ritengono geniali i miei brani ma
dicono che non sono altrettanto geniale nel dare a loro dei bei nomi… (ride)
Sesamo Sticks, per esempio: amo molto i grissini al sesamo, con questo
brano ho descritto la voracità e la velocità con cui li mangio.
MS Io lo trovo abbastanza geniale. Come si è formata la band con cui
hai registrato e portato in giro Nudo?
MV Anni fa a Bologna. Precisamente nel 2011. Mia madre era ricoverata
all’ospedale di Bologna, mi fermavo spesso per qualche giorno in città
e in ospedale, a volte me ne andavo a studiare sassofono ai Giardini Margherita.
Un giorno mentre stavo suonando seduto a terra, una voce da dietro
mi disse: “Complimenti, che bel suono!” Mi voltai, era Lucio Dalla. Parlammo
per circa un’ora, di musica prevalentemente, gli parlai del desiderio
di creare una band e lui mi disse: “scegli i migliori e possibilmente diventate
amici.” Queste semplici parole, apparentemente scontate, mi risuonarono
a lungo e così feci. Ho impiegato due anni per scegliere “i migliori”, ora
sono otto anni che suono con loro e siamo amici. Paolo Sorci, Andres Langer,
Filippo Macchiarelli e Gianluca Nanni. Oltre alle straordinarie capacità
tecniche, ognuno di loro ha una forte personalità e sensibilità, ed è ciò che
esige la mia musica e il mio suono. Senza dubbio questa è la miglior formazione
che io abbia avuto fino ad ora.
MS Tu porti avanti contemporaneamente diversi progetti e diverse
collaborazioni, ce ne parli?
15/ASCOLTI
MV In realtà quest’anno ho fatto delle scelte, vorrei concentrarmi su
pochi progetti. Il mio quintetto con cui ho registrato Nudo, poi “SuMarte”,
un progetto appena nato con due straordinarie musiciste, Marta Celli all’arpa
celtica e Arianna Cleri alla voce. Abbiamo una nostra pagina Instagram
e YouTube, lì puoi capire meglio cosa facciamo. Poi vorrei riprendere i progetti
già consolidati in Brasile e Argentina con i musicisti Wanderson Lopez,
Roger Corrêa, Renato e Rafael Rocha e Hilário Baggini.
MS Ti ho visto dal vivo quest’estate, dopo anni dall’ultima volta (se
non sbaglio con gli Atem Sax Quartet), e ho ritrovato il tuo completo abbandono
alla musica, la tua energia che batte dieci a uno la timidezza, l’intero
bagaglio di esperienze volteggiarti intorno e trasformare un piccolo set di
una serata bollente di luglio in un angolo magico e luminoso. Preferisci la
dimensione dal vivo a quella in studio?
MV Come dicevo prima, cerco di pensare allo studio come ad un concerto
dal vivo. Do sempre tutto me stesso, sia in studio di registrazione che
sul palco. A volte mi sono sentito dire da colleghi: “certo che tu non ti risparmi
mai sul palco”. È un’affermazione che non ho mai capito, come potrebbe
un musicista non dare tutto se stesso mentre suona?
Comunque amo il palco e forse l’unica differenza tra lo studio di registrazione
e un concerto la fa il pubblico.
MS I Grammy?
MV Quando André Dias, tecnico del suono che ha fatto il mastering
del mio album mi ha detto che l’album sarebbe stato presentato ai Grammy
è stata una “botta” pazzesca. André Dias, che di Grammy ne ha già vinti
quattro, è molto contento di questo album e per me già questa è una vittoria.
Credo che a novembre si saprà. Incrocio le dita.
MS Ma nel mezzo di tutto questo, una sera al telefono mi hai detto:
“voglio solo suonare”...
MV Sì, è un momento difficile per la cultura in generale e vedere che
negli ultimi anni molti bravissimi musicisti hanno dovuto scegliere di fare
un altro lavoro per vivere, mi ha toccato profondamente. Non dico vivere nel
lusso, dico sopravvivere. Io sono figlio di operai e tutto quello che ho fatto
fino ad oggi lo devo ai sacrifici dei miei genitori e miei. So che la mia musica
arriva al cuore delle persone e so anche che il mio modo di suonare il sax è
un marchio riconoscibile e unico. Penserai che sono presuntuoso ma in realtà
sono solo cosciente di quello che accade al pubblico quando suono, solo loro
sono “la verità”. Rendersi conto che tutto questo non è sufficiente per poter
“solo suonare” è triste. Ma non ho mai smesso di sognare e credere in quello
che faccio, solo che a volte è davvero stancante pensare a tutto.
MS Hanno scritto che questo disco va assaporato come un buon Rum
ed è vero, c’è una maturità, un equilibrio ed un’intensità che presuppongono
un prendersi del tempo, un predisporsi a ripetuti ascolti, uno scavare nel
dettaglio, un andare a cogliere suoni e strati. Come ti senti quando riascol-
16/ASCOLTI
ti i tuoi lavori? Ti chiedi mai se gli altri coglieranno
tutto quello che hai voluto esprimere?
MV Quando riascolto i miei brani mi sento
bene, semplicemente perché finché non sono soddisfatto
di essi non si smette di registrare e riprovare.
Sono esigente, nei miei confronti e nei confronti
dei miei musicisti. Non penso mai di suonare
per piacere agli altri, il pubblico semplicemente
ascolta e si fa il proprio viaggio personale.
MS Nel numero sul Labirinto di Stanze ci hai
regalato un avvincente commento all’ascolto di
Cumbia & Jazz Fusion di Charles Mingus, dal quale
è emersa una evidente dote anche nel raccontare,
nel catturare con misura e tono l’attenzione.
Nascondi anche un’attitudine da insegnante?
MV Non saprei, mi piace raccontare, penso di
aver preso questa dote da mio padre. Nonostante
fosse un operaio, era bravo a parlare e ad intrattenere
le persone con aneddoti e racconti. Ammetto
che quando capita, mi piace relazionarmi con i ragazzi e guidarli verso la
conoscenza e la scoperta.
MS Per salutarci ci dici un libro, un album e un film (ma anche più di
uno) che in qualche modo parlano di te?
MV L’amore ai tempi del colera è un libro che è arrivato nella mia vita
in un momento molto intenso. Amo particolarmente la storia e il messaggio
che racchiude. Letter From Home di Pat Metheny Group ha cambiato la mia
visione della musica, dovrebbero ascoltarlo tutti. The Central Park Concert
di Astor Piazzolla mi tocca le viscere e mi rispecchia molto. Crazy World
degli Scorpions ha al suo interno The Wind of Change: sono figlio degli
anni 90 (strizza l’occhio). Poi Achtung Baby degli U2. Non lo dire a nessuno
ma penso che il mio modo di “fraseggiare” venga da qui. E anche da
Canto de pueblos andinos degli Inti-illimani. Cocciante di Riccardo Cocciante
è un album che mi piace e basta e mi fa pensare a mia madre. Aurora
di Avishai Choen perchè mi sento vicino al suo modo di comporre. Concerto
per flauto e orchestra di Jacques Ibert suonato da James Galway e Concerto
per Saxofono e orchestra suonato da Federico Mondelci. Infine Grace
di Jeff Buckley, l’intero album ma soprattutto il brano che gli dà il titolo,
penso sia l’essenza della musica, qualcosa di davvero ultraterreno. Ho
sempre i brividi quando l’ascolto.
Film... Il Riccio, di Mona Achace. Primavera estate autunno inverno e
ancora primavera, di Kim Ki-Duk. Sussurri e Grida, di Ingmar Bergman. L’incredibile
avventura del 1963 diretto da Fletcher Markle. La spada nella
Roccia; Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, quello del ‘71, di Mel Stuart;
Harry Potter, tutti...
Fermami tu, altrimenti continuo!
17/ASCOLTI
RENZO FERRARI.
SULL′UOMO
18/FORME
di Marta Silenzi
con Paola Ranzini Pallavicini
Renzo Ferrari – pittore, incisore e grande grafomane
svizzero, uomo interessante, dal piglio acuto, la
battuta pronta, la risata di chi la sa lunga – ha una
visione chiara e lucida di quanto e cosa porti alla
sua pittura, alle sue immagini dense di dettagli, ai
suoi cambi di tavolozza, alle sue visioni grottesche
e implacabili che partono dal presente per arrivare
a radici ancestrali, narrando racconti e sottoracconti
che diramano in tante direzioni. Per questo negli
anni e per i suoi numerosi cataloghi ha preferito interviste
e conversazioni rispetto al classico testo critico.
Il termine “critico” oggi ha perso forza, trovo che scrivere un testo che
affianchi una forma d’arte visiva significhi piuttosto fornire parametri di comprensione
per intendere il lavoro di quell’artista e, quando l’artista conosce
bene la sua materia e ha un bagaglio espressivo capace di argomentarla da
sé come Renzo Ferrari, è chiaro che prediliga una forma di dialogo, per mantenere
un controllo su ciò che intende esprimere con competenza di pittore
ma anche con una forte padronanza della parola.
Partendo dal presupposto che è da poco uscito un nuovissimo libro per
Mimesis, Renzo Ferrari. Il pittore e i cardi (a cura di L.P. Nicoletti e F. Pellegrinelli),
che fa il punto sul lavoro dell’artista fino ad oggi attraverso confronti
e testimonianze già molto esaustivo, in questa intervista proveremo a
demarcare e a ricondurre riflessioni e dissertazioni al tema dell’uomo.
Renzo Ferrari nel suo
studio “Barakon”
19/FORME
Scrittura vegetale,
1958, acquarello,
22 x 14,2 cm
Le Fou, 1958-59,
olio su tela,
90 x 65 cm,
Collezione Masi,
Lugano
MS Nella conversazione con Pellegrinelli dici che il tuo interesse per
la figura, per l’elemento antropomorfo ha avuto una specie di momento scatenante
nel 1959 in relazione alla mostra New Images of Man, curata dallo
storico dell’arte Peter Selz, quando l’informale – su cui era sintonizzata la
pittura fino a quel momento – cede in qualche modo il passo, o lascia accedere,
lascia di nuovo penetrare nella materia la figurazione...
RF Dovrei forse precisare che l’esigenza di una figuralità, o come si
diceva allora di una “nuova figurazione”, è presente molto prima nel mio
lavoro rispetto alla visione nel 1959 del catalogo di Peter Selz Images of
Man, alla Biblioteca Americana USIS di via Andegari a Milano. Infatti le mie
prove in ambito informale nella seconda metà degli anni ‘50 (poco documentate
nei cataloghi e in buona parte distrutte) sono bulimiche di molte declinazioni
della lingua già allora planetaria dell’informale. Guardo agli americani:
Tobey, Sam Francis, legati alla cultura Zen, e prediligo le realizzazioni
su carta di riso e i piccoli formati europei. Faccio però eccezione proprio nel
1959 per degli exercises di grande formato su El Greco e l’ultimo Boccioni/
Cezanne. A lungo ho conservato innumerevoli prove di questo periodo in un
grande baule collocato nella attuale parte abitativa dell’atelier Barakon,
prima del riadattamento, per poi deciderne la distruzione.
All’inizio degli anni ‘60, dopo una prima mostra a Lugano – così commentata
dall’amico critico Walter Schõnenberger:
20/FORME
Interno Braun, 1961,
collage e olio su tela,
53,8 x 70 cm,
Collezione Masi,
Lugano
“Renzo Ferrari ha iniziato la sua ricerca da una forma chiaramente non
figurativa di trasposizione dell’esperienza dello spazio. La natura gli
suggerisce, nella ripetizione di elementi ritmati, il senso di un continuo
fluire, di un divenire nello spazio segnato dal passare della luce. Una
ricerca solitaria, ma acuta e sorvegliata, che ha avuto una breve parentesi
figurativa, in cui il giovane pittore, ricordando certamente El Greco
e Cezanne, s’è accinto a fermare le distorsioni della luce sulla superficie
dell’oggetto. Parentesi salutare che ha arricchito di una maggiore
adesione al reale l’attuale ripresa di temi non figurativi, risolti nella rigorosa
monocromia di liquidi tocchi minuti e incalzanti. Renzo Ferrari si
inserisce così nel vivo degli odierni interessi in pittura”
– si definisce la volontà di uscire dal linguaggio informale, per me forse limitatamente
autoreferenziale, e di introdurre una figuralità, un “nuovo racconto”.
Cambia allo stesso tempo il cromatismo che si allontana dal colore
timbrico nordico appreso durante il viaggio a Monaco di Baviera, con la visita
al Lembachaus e la visione dei pittori del Blauer Reiter e le opere giovanili
di Hans Richter, in favore di tonalità basse, terrose, lombarde. Il colore
lungo tutto il mio iter creativo ha un ricambio cromatico anche molto
radicale, può infatti oscillare da una luminosità timbrica a un forte oscuramento
fino all’estremo colore nero (periodo degli allarmi ecologici, nella
seconda metà anni ‘80).
21/FORME
Paesaggio spinoso,
1964, olio su tela,
50 x 40 cm, CSAC,
Università di Parma,
Sezione Arte
MS Il colore è la componente che per prima mi ha catturata incontrando
i tuoi lavori. Il tuo “rosso d’autore”, ricordi?
RF Il colore è il veicolo essenziale – con il disegno – della nostra
mappa esistenziale in continua mutazione. Boccioni per esempio lo collegava
agli stati d’animo, personalmente lo collegherei all’empatia di esperienza/immagine.
MS Nella tua produzione affiora a più riprese l’inevitabile questione
uomo-natura – che tu definisci più specificatamente “artificio-natura”–, una
natura che come tematica artistica oggi non può essere più soltanto un motivo
di bellezza lirica ma solleva problematiche maggiori, problematiche ecologiche,
ontologiche, morali, direttamente legate all’azione dell’uomo...
RF Il movente/tema artificio-natura è una polarità nel mio lavoro che
come un pendolo oscilla nel corso della mia intera esperienza espressiva
ormai più che sessantennale. Ha un punto di avvio come sintesi nella prima
maturità linguistica raggiunta nei primi anni ‘70, dopo un periodo sperimentale
pop. Infatti quanto poteva ritenersi natura e memoria ancestrale del
vissuto rurale dell’infanzia a Cadro, si interiorizza e confronta con il vissuto
della condizione urbana milanese. Tutto questo si sviluppa al ritorno
nella city – dopo il forzato rientro a Cadro del 1962 – durato fino al 1965. Il
mondo invasivo dei manufatti industriali, delle plastiche, della cartellonistica
pubblicitaria, delle insegne al neon, modifica radicalmente l’idea di uno
spazio ancora idilliaco anche quando ci si sposta per ricaricarci nel plein air
agreste. Da qui la dimensione anfibia contaminata
di tante mie pitture dagli Urbani alle
Mimesi (‘70/’80).
MS La natura nelle tue opere è spesso
spinosa, un concetto che prende ad emblema
proprio la pubblicazione cui facevamo riferimento
in apertura, e lo è sempre di più, la pandemia
ce lo ha mostrato inequivocabilmente,
persino la molecola del virus è coronata e pungente.
Eppure nella tua produzione ci sono
dipinti e grafiche di grande poesia legate ad
elementi di natura o paesaggio...
RF I paesaggi spinosi, in particolare
quello dello CSAC di Parma, sono tornati di
attualità a proposito della querelle ecologica
e, negli ultimi lavori, si tratta di un movente/
tema rinnovato quale “Natura difficile” che
ha trovato rilievo per la pubblicazione dal
titolo Il pittore e i cardi.
Nel rientro forzato a Cadro, dopo aver
22/FORME
esposto in una prima personale milanese
alle Ore nel 1962 sopratutto
le “camporelle” (figurazioni antropomorfe
nell’erba), elaboro quanto
mi offre lo sguardo retinico sul territorio
già allarmato da segnali di
degrado della natura.
Con la ripresa dunque di un
paesaggio alterato e vessato da
un’edilizia speculativa, nasce una
mia autodefinizione ironica di allora
come “pittore neuronaturalista”.
Gaio Giulia cerca
la chiave, 1974-75,
olio e acrilico su
carta intelata,
145 x 65,5 cm,
Collezione privata
Gaio ortopedico,
1973, olio e tempera
su carta intelata,
61 x 27,2 cm,
Collezione Masi,
Lugano
MS Forse la tua poesia sta
proprio nell’ironia...
Collegato all’argomento uomo-natura,
nel tuo immaginario esiste
un connubio, più che una dicotomia,
uomo-macchina, ed è una
questione complessa perché si manifesta
col personaggio del Gaio,
siamo negli anni settanta milanesi
e, siccome sei da sempre un catalizzatore, una specie di radar per le questioni
importanti ed attuali, già ti occupi di identità di genere e marginalità
sociale...
RF Due capitoli a parte di pittura, molto apprezzati dalla critica coeva
(oggi per la verità non esiste più questo statuto, per come ci siamo consegnati
all’edonismo di superficie del consumismo), riguardano i periodi appunto
dei paesaggi spinosi, prima meta’ anni ‘60, e dei Gaio (1973/75).
Il periodo dei Gaio è l’accendersi di un immaginario che, come nel caso
delle recenti Facezie, vuole esorcizzare uno stato oscuro e drammatico presente
delle cose. Macroscopie di “visages/teste” (influenza della caricatura),
di figure né maschio né femmina costellate da un’infinità di protesi di
ogni tipo sospese nello spazio. Si tratta di una storia del vissuto notturno
milanese, di un personaggio di nome Giulia, un transessuale che ispira tanti
miei lavori che sprizzano un’inconsueta gioiosa energia.
PRP Parli molto di questo oscillare tra Cadro e Milano, ma come ha
influito sul tuo lavoro il cambio di scenari e città in cui hai vissuto nel corso
della tua vita?
RF Indubbiamente viaggiare visitando luoghi e città, in particolare
fuori dal continente europeo, potrebbe ricaricare le pile dell’immaginario.
Ma posso dire di essere uno “stanziale”, nemmeno incallito ma non ho viaggiato
molto; non sono mai andato per esempio in Etiopia, paese di mia moglie
e di mio figlio, anche questa estate, che loro sono partiti per un soggiorno di
23/FORME
Figure e robot, 1972,
olio e acquarello
su carta intelata,
36,5 x 46 cm
Inverno, robot in
bosco, 2023,
china su carta,
18 x 12 cm
vacanze. In gioventù ho visitato tutti i più importanti musei continentali e ho
fatto due viaggi importanti a New York, un po’ più tardi, nel 1995 e nel 2004,
favorendo così una conoscenza non libresca di storia dell’arte antica e contemporanea
e favorendo la comprensione dei meccanismi del globalismo del
sistema dell’arte. In ogni caso la mia vicenda artistica “a pori aperti e antenne
sempre orientate” si è svolta sopratutto nel ricambio e ricarica anfibia
di due luoghi: Cadro e Milano.
Nel 2006 per problemi di salute ho cominciato a pensare di dover rinunciare
allo studio milanese e di riadattare uno spazio detto delle “carabattole”
che, vivo mio padre, serviva alle sue passioni che, scherzando con
il grande curatore di mostre Harald Szemann, avevo definito da “piccolo
Schwitters”. È così che questo nuovo spazio di lavoro, battezzato “Barakon”,
apre un nuova stagione creativa cadrina.
Non ho mai avuto uno spazio così ottimale per la luce zenitale che
entra solo dai lucernari, perché finestre e porte sono oscurate. Parlando con
Ruggero Savinio, mi riferiva che El Greco, che è pittore di luce, nel secolo di
pittura scura lavorava in un atelier volutamente semi buio.
Tutta una serie di mostre a partire dal 2007 ad oggi – ne cito alcune:
Atelier Barakon, Calendario feriale, Visioni nomadi, World Diary, Rabisch,
Busllis Time, Corona Diary, Tempo sospeso e facezie, Tetrallegro – sono
state realizzate al Barakon.
MS Tornando all’uomo-macchina, l’elemento meccanico si sta trasformando
in elemento tecnologico, che entra nel nostro corpo con l’ingegneria
biomedica ma che ci circonda anche e ci condiziona, con la tendenza a sostituirci
che un tempo attribuivamo alle macchine. Cosa ne pensi dell’Intelligenza
Artificiale, tema scottante del momento?
RF Quanto ci prospettano le novità ultime (limitatamente ai miei interessi
specifici) circa l’intelligenza artificiale, vale a dire la capacità della macchina
per esempio di “mimare” testi di scrittura, di poesia o darci delle repliche
di opere d’arte antica di alta definizione persino nella loro struttura materica,
di primo acchito muovono verso un nostro forte stupore; e la minaccia che la
24/FORME
Renzo Ferrari
a New York
macchina in un futuro molto prossimo possa sostituire l’uomo persino nelle
sue facoltà più intellettive e creative ci mette fortemente in allarme. Ma per
evitare gravose distopie mi immagino invece che l’uomo debba e con urgenza
porre dei limiti a queste velocissime evoluzioni tecnologiche miracolistiche.
La tecnologia non va demonizzata, sopratutto per un suo possibile impiego
positivo in ambito ecologico e nel campo sociale, medico e delle risorse umane,
ma dovrà essere necessario un fondativo codice etico.
È DIFFICILE COMUNQUE OGGI
IMMAGINARSI CHE L’UOMO
FRANKENSTEIN POSSA
RINUNCIARE ALLA
FASCINAZIONE DELLA
SUA DIABOLICA CREATURA.
CHE FAUST RINUNCI
AL PATTO CON IL DIAVOLO.
25/FORME
PRP Come ha influito negli anni sulla
tua routine lavorativa (che per un artista
non è mai routine, ma intreccio di momenti
produttivi molti intensi mescolati a contemplazione
assorta del mondo intorno) la presenza
sempre più assordante dei social nel
quotidiano di tutti?
Hai un legame molto intimo con la
carta stampata, adori il contatto fisico con
cataloghi, libri e riviste, oltre che con i tuoi
moleskine, estensione di te. Hai sviluppato
negli anni abitudini altrettanto appassionate
in rete? La tua caratteristica è sempre
stata quella di una mente adolescente, curiosa,
che attraversa le epoche con una vivacità
talmente moderna da stupirmi ogni
volta...
RF La routine lavorativa oggi è strettamente
legata agli stessi materiali di cronaca
mediatica che ci condizionano e bombardano
radicalmente e di cui tento una difficile esorcizzazione. Mi
riconduco all’estensione dei moventi/temi che mi hanno interrogato nel
tempo: migrazioni, catastrofi naturali, pandemie, guerre etc; in sintesi la
crisi di civiltà che viviamo. Non ci sono risposte che il pittore può dare, ma
un attraversamento empatico da “Walker” con i mezzi semplici di cui dispone,
non dissimili da quelli del suo antenato di Altamira e Lescaux e, per
contraddizione, con il Moleskine, il calepino che mi accompagna quotidianamente
e che ha il valore intimo dei clic del fotoreporter o il lessico trascritto
di un mormorio, di un gemito planetario.
MS In Renzo Ferrari. Opere 1990-2010 (Skira), in una nota scrivi:
“DICONO CHE SONO ‘TROPPO’ COERENTE PER VIA DELLA PER-
SISTENZA DELLA FIGURA, MA IN REALTÀ NEL TEMPO LA FIGURA
È DECLINATA IN TANTI MODI DIVERSI, NON È PERORATA MONO-
DICAMENTE, MA RAPSODICAMENTE.”
In tutta la tua produzione l’uomo ha una dimensione pubblica più che
intimista – nel senso che è legato a fatti di cronaca che sono come micce che
accendono il tuo bisogno di registrare e rappresentare la società che stai
vivendo – e di moltitudine più che di solitudine, cioè la figura è un corpo,
tanti corpi che insieme assumono un significato. Ombre, sagome, spiriti che
si muovo in più piani e più contesti per dire più cose contemporaneamente,
partendo dall’attualità per risalire all’ancestrale. Le letture dei tuoi quadri
raramente sono univoche, suggeriscono più possibilità di comprensione, più
livelli, una complessità articolata...
26/FORME
a sinistra
Lidische Reise, 1969,
tempera su carta,
32,9 x 24,2 cm
Urbani gelb pallido,
1977, olio su tela,
51 x 35 cm,
Collezione Masi,
Lugano
Mimesi elbana, 1980,
olio su tela,
33 x 40,5 cm,
Collezione privata
Liberare l'animale,
1980-81, olio su
tavola, 65 x 40 cm,
CSAC, Università di
Parma, Sezione Arte
27/FORME
Walker sacrificio
time, 2005-2007,
olio e collage
su carta intelata,
133 x 110,2,5 cm,
Collezione Masi,
Lugano
RF La figura nel mio lavoro è effettivamente declinata in modi rapsodici
per la ragione prima che l’uomo è lui stesso natura (deviata dalla condizione,
da un “disagio della civiltà’’) e appartiene a tanti regni contaminanti:
animale, botanico, minerale. Da qui le tante metamorfosi che riguardano
il figurare che pretende un nomadismo linguistico. Alcuni temi sono Mimesi
(1980), un tentativo di far rientrare l’uomo nel vasto disegno della natura,
intesa, e del resto anche oggi, come “Natura difficile”; Urbani (anni ‘80), riguardo
la condizione urbana, post industriale, alienata e l’attuale ricomparire
di figure-robot (la pressione tecno). Accanto a tutto questo esiste poi un
mondo oltre: i Visitors, fantasmi della memoria, della coscienza che ci visitano,
e tornano in varie date, compreso il Walker (vedi Liberare l’animale,
1980, CSAC di Parma) che ci accompagna nel “testa/ coda” del tempo.
MS Infatti forse più solitario è il Walker, figura che segue in linea temporale
quella del Gaio e precede quelle degli Urbani. Ma questo uomo che
cammina non è un trascendentalista, è forse un attraversatore? Di mondi,
epoche, dimensioni?
28/FORME
RF No, infatti non direi che sia un trascendentalista. È un uomo che
cammina e il suo camminare, come il mio, è mentale, sai, le famose “passeggiate
da fermo”; è un esplorare mentalmente il world, un attraversare le dimensioni
che oggi è multidirezionale (grazie alle possibilità del web): il
Walker è un esploratore mentale dell’ubiquità nel mondo.
Comunque prima hai detto: “la figura è un corpo, tanti corpi che insieme
assumono un significato” ed è un passaggio importante perché non è stato
ancora detto quanto sia determinante il corpo nel mio lavoro, come energia
diretta fisiologica, del sistema nervoso e nella formalizzazione nomade del
figurare. Per capirci, anche il robot è un artificio, una replica del corpo.
C’era una bella rivista, fondata da Elvio Fachinelli negli anni sessanta
insieme a un gruppo di filosofi, storici e letterati (tra cui Giancarlo Majorino,
Luciano Amodio, Elio Pagliarani) intitolata Il corpo. Dirompente, di ispirazione.
MS Le tue tematiche, compresa quella sfaccettata della figura che
s’imprime in un contesto ancora materico e insieme segnico, su superfici
graffiate, espressivamente prese dal colore, acutamente ironiche, si manifestano
e poi tornano nel tempo, stabilendo un rapporto duraturo, come parti
di un tuo codice che andando avanti si adatta, cambia, cresce. Il tuo percorso
appare sempre evolutivo.
Agli Urbani seguono i “nomadi”, che ancora una volta prendono avvio
da questioni d’attualità e ancora una volta testimoniano una tua propensione
all’ascolto, una tua capacità di captare situazioni cruciali, come quella
appunto delle migrazioni, ancora oggi attualissima...
RF Anche per le migrazioni ho proposto immagini cruciali del disagio,
in continuità con il ciclo degli Urbani. Daccapo il corpo, i corpi si presentano
con diverse identità e determinano un variare continuo della formalizzazione,
del linguaggio non monodico, ma rapsodico.
MS Rapsodico, quindi discontinuo, frammentario, ritornante. Veloce
anche, ritmico. E velocità, impazienza del risultato, disegno come perno del
tuo lavoro, per cogliere rapidamente le tue visioni, la scelta della puntasecca
tra le tecniche grafiche perché più immediata e vicina al disegno, sono
tutte tue caratteristiche. Il tuo temperamento artistico sembra adattarsi ai
tempi correnti, in cui tutto è azione e riempimento, e all’uomo d’oggi che non
ha spazio per l’attesa.
RF L’atteggiamento operativo che tu definisci veloce nel cogliere delle
visioni, con riferimento sopratutto alle tecniche calcografiche (per loro
caratteristica lente), è determinato dal tentativo di non perdere la vitalità,
l’energia del flusso immaginativo. Tutto questo vale anche per la pittura,
l’esigenza di non sondare troppo il processo tecnico per poter conservare
energia e freschezza del risultato. E questo non è sempre facile da ottenere,
ma mi è congeniale.
29/FORME
MS C’è una frase nel tuo ultimo libro che mi ha molto colpita, dici: “Se
la nostra società è davvero liquida, senza un’identità univoca, significa che
dobbiamo riconsiderare nel tempo chi siamo. Di qui, appunto, il plurilinguismo
che da sempre caratterizza il mio lavoro”. La tua capacità di rinnovarti
e mantenere il tuo sguardo, il tuo linguaggio e la tua mente sempre aperti è
evidente leggendo il tuo lavoro nel tempo, nel quale non ci sono giudizi ma
umori, temperature, colte e restituite in forma pittorica. Parlaci di questo
multilinguismo, di quando i titoli entrano nel quadro, della tua calligrafia
che diventa pittura...
RF La nostra società liquida esige in pittura un plurilinguismo adeguato
ad esprimere le continue oscillazioni identitarie. Quello che in tempi
non lontani nel linguaggio veniva considerato eclettismo, in accezione negativa,
diventa oggi facoltà positiva e contestuale nell’orientare l’espressione
in letteratura, musica, arti. È necessario molte volte accompagnare l’immagine
dipinta con scritture che, come nei Moleskine, ne completino il
significato anche con spunti lessicali in una immersione ritmica dello spazio.
Nei momenti emergenziali della pandemia, Corona Diary 2020, questo coacervo/repertorio
di visioni è divenuto particolarmente febbrile e ossessivo.
MS La calligrafia si fa infatti particolarmente importante nel contesto
delle Moleskine, che abbiamo indagato intensamente insieme in periodo
pandemico per una pubblicazione.
Scrivevo: “Agli schizzi, che hanno il sapore dell’immediatezza ma anche
l’energia dello sviluppo e del divenire, si àncora a corollario o per germinazione
la grafia piena, elegante e frenetica, altra testimone dell’urgenza
produttiva dell’artista, del vivace e a volte indiavolato lavorio mentale.”
In Moleskine Pandemia (Edizioni Zedia, 2020), avevamo circoscritto
l’osservazione delle tue pagine private alla seconda ondata di Corona virus,
nell’imminenza del secondo lockdown, ma in tutto quanti saranno ormai i
taccuini accumulati? Torni mai a guardarli, a viaggiare nel passato?
RF I Moleskine superano oramai il centinaio. Per abitudine non li riguardo,
non li rileggo, non si interrompe però la necessità di continuare a
redigerli con qualche variante di formato e contenuti. Ultimamente infatti ne
ho realizzato uno di quasi trecento pagine che oltre a disegni, progetti scritti,
sogni, valutazioni varie, diario domestico, commenta il lavoro del mio intero
percorso artistico. Lo ho titolato Zibaldone, chiedendo scusa a Leopardi.
MS Il concetto di “diario” ti accompagna da sempre, prima hai citato il
Corona Diary non a caso. Ma c’erano già stati il Diary Eco, nel periodo nero
in cui mostravi l’avvelenamento della natura in atto, e poi il World Diary a
partire dal nuovo millennio. Ce ne parli?
RF Sì, il diary è un mio modo di denominare quello che chiamerei un
vasto compendio di materiali che vengono da un periodo anche molto dilatato,
materiali che necessitano di un forte metabolismo di assimilazione che
30/FORME
Moleskine
31/FORME
l’istinto del pittore deve orientare per una possibile
meraviglia, una freschezza comunicativa.
Compito non facile, perché può succedere che
per sovraccarico emotivo il flusso creativo si interrompa
e necessiti di pazienti riflessioni per
una ripartenza. Cioè a volte per mantenere una
freschezza di restituzione si deve risalire all’origine,
per schermarsi dalla valanga di informazioni
e anche per uscire dal pericolo dell’assuefazione.
Night, gli sposi e
l'uomo ragno, 2013,
olio su tavola,
126,5 x 90 cm,
Collezione privata
MS Dalle interviste e dalle conversazioni,
anche video, che testimoniano nel tempo il tuo
lavoro, emerge con sempre più evidenza la forte
e stratificata cultura che informa e sostiene la
tua produzione, moltissimi sono i riferimenti ad
altri pittori, a scrittori e pellicole cinematografiche
che fanno strato con i fatti di cronaca e gli
avvenimenti quotidiani che innescano l’ispirazione
e poi si snodano sommandosi al tuo bagaglio
sulla tela.
Se dovessi isolare le figure che più ti hanno colpito e più hanno influito
sul tuo percorso di uomo e pittore, chi sceglieresti?
RF Sorprenderò dicendo che un pittore che ammiro molto è De Pisis,
oltre ai tanti autori modello della mia formazione, elenco lungo che spero
non abbia inficiato il mio entusiasmo/ fedeltà alla pittura. Per le letture,
oggi, oltre i Carver, De Lillo e tanti altri americani, ultimamente ho letto
Guerra inedito di Céline, classico che amo molto. Sorpresa, questa estate ho
letto molto Simenon, ogni settimana in edizioni di Repubblica e, per contrasto
forte, ho riletto Delitto e Castigo e Memorie del sottosuolo di Dostoevskij.
Ascolto tanta musica quando lavoro. Piacevole ascoltare Bollani.
MS Sei un artista che vive il suo tempo, adattandosi a tutti i cambiamenti
che esso esige. Come vivi il cambio di scenario a livello di collezionismo,
di mercato, che è già in atto da tanto e ha sicuramente avuto un’ulteriore
sferzata con lo stallo della pandemia?
RF La pittura oggi può rarissimamente essere individuata per sue qualità
ancora specifiche, dopo quello che è avvenuto già negli anni ‘70, avvertito
con anticipo dal critico americano Harold Rosemberg come “Sdefinizione
dell’arte”. Questa è infatti l’epoca babelica dei mille linguaggi dove torna
difficile potersi orientare e discernere qualcosa che si ponga al di là delle
omologazioni demenziali del mercato della cosiddetta arte contemporanea,
che ha marginalizzato artisti validi di alcune generazioni.
Molto intima è la speranza che nel tempo, una ecologia anche mentale
possa riportare a galla un interesse di nuovo profondo per questo linguag-
32/FORME
Stilleben Piazza
Italia, 2013, olio
e collage su tela,
100 x 145 cm,
Collezione privata
gio straordinario, caduto in una trascuratezza incomprensibile. Chi vivrà
vedrà....se però il pianeta reggerà.
PRP “Io devo scegliere cosa vale la pena raccontare, se l’orrore o il
desiderio. E ho scelto il desiderio... il mio desiderio così impuro, così impossibile,
così immorale, ma non importa. Perché è quello che ci rende vivi.”
(Jimmy Tree/ Paul Dano in Youth, di Sorrentino)
Vorremmo essere tutti più simili agli uomini e alle donne delle tue
opere: esposti al mondo, nudi, con lo sguardo sempre rivolto altrove, pieni di
passione. L’uomo dei tuoi quadri si staglia netto sulla tela, risalta, spesso
violento o sofferente ma mai banale, mai idealizzato, sempre ben conscio
alla sua natura mortale che è anche la sua forza. Sei tu, sotto mille sfaccettature.
È il tuo grande amore per i tuoi simili, che ti spinge continuamente a
indagare.
Parlarne con te nel corso degli anni (e posso dire che metà della mia
vita è stata costellata dalle elettriche e insostituibili conversazioni con te)
mi ha sempre trasmesso una gioia di vivere potentissima.
Questa tua necessità di conoscere l’uomo, e raccontarcelo, è il tuo vero
segreto di giovinezza?
RF Il mio desiderio è che la speranza non si riveli come dice Bukowski:
“eterna e risorgente sempre come un fungo velenoso”.
33/FORME
Mariupol, 2022,
acrilico e olio su tavola,
50 x 35 cm
Facezia Herbst Grottesco,
2022, acquarello,
29,5 x 21 cm
34/FORME
IL MIO DESIDERIO
È CHE LA SPERANZA
NON SI RIVELI COME
DICE BUKOWSKI:
“ETERNA E
RISORGENTE
SEMPRE COME UN
FUNGO VELENOSO”.
MS Un recettore come te non poteva certo rimanere
indifferente all’incubo seguito, quasi in una
staffetta, a quello della pandemia, risvegliando il
tuo completo immaginario, uomo-natura-macchina,
e declinandolo in funzione di un nuovo diario, quello
della guerra russo-ucraina...
RF Alla guerra russo-ucraina ho dedicato una
mostra e pubblicato il catalogo Ombre nel 2022. Era
impensabile che nel continente potesse ricomparire
lo spettro di una nuova belligeranza, dopo l’eccidio
della Seconda Guerra Mondiale. Si riaffacciano
così zone d’ombra di una memoria ancestrale con
momenti di apprensione e di spavento. E da qui le immagini possono accogliere
le scellerate devastazioni dei droni, gli scheletri neri dei palazzi bombardati,
le rovine delle città rase al suolo come Mariupol e delle acciaierie
Azovstal, i massacri di Buca. Tutto questo repertorio di morte potrebbe essere
la dimostrazione estrema di una cancellazione della civiltà. Quello che
però tento da sempre di restituire, anche riguardo al tema della “natura
difficile”, è una trasfigurazione, una possibile catarsi di questi desaster voluti
dall’uomo, attraverso la vitalità del segno/ disegno e la miccia del colore:
una visione.
MS “La bellezza salverà il mondo”. Dato che prima ha nominato Dostoevskij.
Poi c’è una serie di lavori recenti che, pur inglobando le stesse tematiche,
il persistere della guerra, la “natura difficile”, tende ad essere più
giocosa, anche col medium spesso mixato, e quindi grottesca, densa di oggetti
e rimandi. Parlaci di questo “tetrallegro”.
RF La mostra Tetrallegro la sto preparando. La titolazione la devo
all’amico e grande poeta scomparso Giancarlo Majorino. Si tratta di una
suite di opere divertite, delle Facezie che mettono una qualche distanza
dalle altre narrazioni drammatiche spesso insidiate dalla retorica. Sono immagini
nutrite di una qualche ironia in cui tento di uscire dal crunch moment
che stiamo attraversando.
MS L’ironia è sempre un buon antidoto per te, un buon fattore di bilanciamento.
RF Perché l’ironia apre spiracoli che un tantino ci allontanano dalla
cruda smorfia del presente.
35/FORME
CHI HA SCORTO L'UNIVERSO,
NON PUÒ PENSARE A UN UOMO,
ALLE SUE MESCHINE GIOIE
O SVENTURE,
ANCHE SE QUELL'UOMO È LUI.
NON GL'IMPORTA
LA SORTE DI QUELL'ALTRO,
NON GLI IMPORTA
LA SUA AZIONE,
POICHÉ EGLI ORA È NESSUNO.
J. L. Borges, L'Aleph
L'UOMO PORTA DENTRO DI SÉ
LE SUE PAURE BAMBINE
PER TUTTA LA VITA.
ARRIVARE
A NON AVERE PIÙ PAURA,
QUESTA È LA META ULTIMA
DELL'UOMO.
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno
LA STORIA SI RIPETE,
E COME È VERO
CHE UN UOMO È UN UOMO,
LA STORIA
È L'ULTIMO POSTO
DOVE ANDRÀ A CERCARE
LE SUE LEZIONI
Harper Lee, Va', metti una sentinella
#album
SAND MEN
Riccardo Antolini
39/ALBUM
DISEGNI SULLA SABBIA.
PARLANO DELLA
NATURA TEMPORANEA
DELL'ESISTENZA, DEL
TEMPO CHE SCORRE VIA,
D'IMPERMANENZA.
DI COME NULLA
SIA DURATURO, PER
PRIMO L'AMORE.
E SONO ANCHE UN
ESERCIZIO SUL
LASCIARE ANDARE,
UNA PRATICA DI NON
POSSESSIONE.
SE LI RIPRENDE IL MARE.
40/ALBUM
41/ALBUM
42/ALBUM
44/ALBUM
45/ALBUM
SE LI RIPRENDE IL MARE.
Uomini,
bugie e videotape
Paola Ranzini Pallavicini
L’EX VENDITORE DI AUTO
La pubblicità si basa su un’unica
cosa: la felicità. E sapete cos’è la
felicità? La felicità è una macchina
nuova, è liberarsi dalla paura, è un
cartellone pubblicitario che ti salta
all’occhio e che ti grida a gran voce
che qualunque cosa tu faccia è ben
fatta, e che sei ok.
Richard "Dick" Whitman alias
Don Draper / Jon Hamm
Mad Men di Matthew Weiner
IL LUPO
Lasciate che vi dica una cosa.
Non c’è nobiltà nella povertà. Sono
stato un uomo povero, e sono stato un
uomo ricco. E scelgo di essere ricco
tutta la vita, dannazione!
Jordan Belfort / Leonardo DiCaprio
The wolf of Wall Street
di Martin Scorsese
IL FILOSOFO
Infilarti le penne nel culo non fa
di te una gallina!
Tyler Durden / Brad Pitt
Fight club di David Fincher
L’ASSASSINO NATO
Ogni specie uccide altre specie.
Gli uomini invece le uccidono tutte
allegramente.
Mickey Knox / Woody Harrelson
Natural born killers di Oliver Stone
IL CUOCO
Una buona tazza di cioccolata
verso le undici apre lo stomaco
per il pranzo.
Ugo / Ugo Tognazzi
La grande abbuffata di Marco Ferreri
L’ANTICONFORMISTA
“Lei pensa che la sua mente abbia
qualcosa che non va?"
"No signore, è una meravigliosa
stupenda macchina della scienza.”
Randle Patrick McMurphy / Jack
Nicholson
Qualcuno volò sul nido del cuculo
di Milos Forman
46/FOTOGRAMMI/note
IL DEMONE
Folleggiammo alquanto con altri
viaggiatori della notte da autentici
sbarazzini della strada, poi
decidemmo che era ora di eseguire
il numero visita a sorpresa, un po'
di vita, qualche risata e una
scorpacciata di ultraviolenza.
Alexander De Large / Malcolm
McDowell
Arancia meccanica di Stanley Kubrick
IL FISICO SUICIDA
Ma qual è il significato di tutto?
Niente! Zero! Nulla! Tutto finisce in
niente, anche se non mancano gli
idioti farfuglianti. Non parlo di me, io
la visione ce l’ho, sto parlando di voi,
dei vostri amici, dei vostri colleghi,
dei vostri giornali, della tv. Tutti
molto felici di fare chiacchiere,
completamente disinformati. Morale,
scienza, religione, politica, sport,
amore, i vostri investimenti, i vostri
figli, la salute... Cazzo, se devo
mangiare nove porzioni di frutta e
verdura al giorno per vivere... non
voglio vivere! Io detesto la frutta e la
verdura! E i vostri omega tre e il tapis
roulant e l’elettrocardiogramma e la
mammografia e la risonanza pelvica e,
oh mio Dio, l-la colonscopia... e con
tutto ciò arriva sempre il giorno in cui
vi ficcano in una scatola e avanti con
un’altra generazione di idioti, i quali
vi diranno tutto sulla vita e
decideranno per voi quello che è
appropriato. Mio padre si è suicidato
perché i giornali del mattino lo
deprimevano e lo potete biasimare?
Con l’orrore, la corruzione e
l’ignoranza e la povertà e i genocidi e
l’AIDS e il riscaldamento globale e il
terrorismo e quegli idioti dei valori
della famiglia e quei maniaci delle
armi. «L’orrore» dice Kurtz alla fine di
Cuore di tenebra, «l’orrore». E beato
lui non distribuivano il Times nella
giungla. Eh, se no l’avrebbe visto
l’orrore. Ma che si può fare? Leggete
di qualche massacro nel Darfur o di
uno scuolabus fatto esplodere e
attaccate “Oh, mio Dio l’orrore!” e poi
girate pagina e finite le vostre uova di
gallina ruspante, perché tanto che si
può fare, si è... si è sopraffatti. Anche
io ho tentato di suicidarmi,
ovviamente non ha funzionato. Ma
perché mai volete sentire queste
cose? Cristo, avete già i vostri di
problemi! Sono sicuro che siete
ossessionati da un gran numero di
tristi speranze e sogni, dalle vostre
prevedibilmente insoddisfacenti vite
amorose, dai vostri falliti affari. “Ah
se solo avessi comprato quelle azioni,
se solo... se solo avessi comprato
quella casa anni fa, se solo ci avessi
provato con quella donna...” Se
questo, se quello... Sapete una cosa?
Risparmiatevi i vostri “avrei potuto” o
“avrei dovuto”. Come mia madre
diceva sempre “se mia nonna avesse
le ruote sarebbe una carrozza”. Mia
madre le ruote non le aveva, aveva le
vene varicose. Eppure la signora ha
partorito una mente brillante. Mi
hanno preso in considerazione per il
Nobel per la fisica. Non l’ho ottenuto,
però si sa, è tutta politica come ogni
altra finta onorificenza. Detto tra noi,
non crediate che io sia amareggiato
per qualche batosta personale. Per
gli standard di una insensata e
barbarica civiltà, sono stato piuttosto
fortunato. Ho sposato una bella donna
che era ricca di famiglia, per anni
abbiamo vissuto a Beekman Place.
Insegnavo alla Columbia, teoria delle
stringhe.
Boris Yellnikoff / Larry David
Basta che funzioni di Woody Allen
L’IPOCONDRIACO
Le parole più belle del mondo non
sono “Ti amo” ma... “È benigno”.
Harry Block / Woody Allen
Harry a pezzi di Woody Allen
IL BANDITO TRISTE
Mi dispiace, ragazzi. Non
basterebbero nemmeno tutti i punti
del mondo per ricucirmi. È finita... è
finita... Mi metteranno nel negozio di
pompe funebri di Fernandez sulla
109esima Strada. Ho sempre saputo
che prima o poi sarei finito lì, però
molto più tardi di quanto pensava un
47/FOTOGRAMMI/note
sacco di gente. L’ultimo... dei
Mohiricani. Be’, forse non proprio
l’ultimo. Gail sarà una brava mamma,
di un nuovo e migliore Carlito
Brigante. Spero che li userà per
andarsene, quei soldi: in questa città
non c’è posto per una che ha il cuore
grande come il suo. Mi dispiace,
amore, ho fatto quello che potevo,
davvero... Non ti posso portare con me
in questo viaggio... Me ne sto
andando, lo sento. Ultimo giro di
bevute, il bar sta chiudendo. Il Sole
se ne va. Dove andiamo per colazione?
Non troppo lontano. Che nottata...
Sono stanco, amore. Stanco...
Carlito Brigante / Al Pacino
Carlito’s Way di Brian de Palma
IL SENATORE COMUNISTA
A che ora è la rivoluzione, signora?
Come si deve venire? Già mangiati?
Mario / Vittorio Gassman
La terrazza di Ettore Scola
IL COLONNELLO SURFISTA
Mi piace l’odore del napalm
al mattino.
Bill Kilgore / Robert Duvall
Apocalypse Now
di Francis Ford Coppola
IL CINICO INNAMORATO
No, tu sei sola, sei tutta sola, e non
potrai liberarti di questa sensazione
di completa solitudine finché non
guarderai la morte in faccia. E poi
neanche: guarda, questa non è che
una stronzata romantica. Finché non
sarai capace di guardare nella morte,
nel buco del suo culo, sprofondando
in un abisso di paura. E allora forse,
solamente allora, forse riuscirai a
trovarlo.
Paul / Marlon Brando
Ultimo tango a Parigi
di Bernardo Bertolucci
QUELLO DI MEZZA ETÀ
Ho sempre saputo che ti passa
davanti agli occhi tutta la vita
nell’istante prima di morire. Prima di
tutto, quell’istante non è affatto un
istante: si allunga, per sempre, come
un oceano di tempo. Per me, fu... lo
starmene sdraiato al campeggio dei
boy scout a guardare le stelle
cadenti, le foglie gialle degli aceri
che fiancheggiavano la nostra strada,
le mani di mia nonna, e come la sua
pelle sembrava di carta. E la prima
volta che da mio cugino Tony vidi la
sua nuovissima Firebird. E Janie... e
Janie... e Carolyn. Potrei essere
piuttosto incazzato per quello che mi
è successo, ma è difficile restare
arrabbiati quando c’è tanta bellezza
nel mondo. A volte è come se la
vedessi tutta insieme, ed è troppa.
Il cuore mi si riempie come un
palloncino che sta per scoppiare.
E poi mi ricordo di rilassarmi, e
smetto di cercare di tenermela
stretta. E dopo scorre attraverso me
come pioggia, e io non posso provare
altro che gratitudine, per ogni singolo
momento della mia stupida, piccola,
vita. Non avete la minima idea di cosa
sto parlando, ne sono sicuro, ma non
preoccupatevi: un giorno l’avrete.
Lester Burnham / Kevin Spacey
American Beauty di Sam Mendes
IL MALINCONICO
"Che hai fatto in tutti questi anni,
Noodles?"
"Sono andato a letto presto”.
David "Noodles" Aaronson / Robert
De Niro
C’era una volta in America
di Sergio Leone
IL BUONGUSTAIO
Uno che faceva un censimento una
volta tentò di interrogarmi: mi
mangiai il suo fegato con un bel piatto
di fave e un buon Chianti.
Hannibal Lecter / Anthony Hopkins
Il silenzio degli innocenti
di Jonathan Demme
IL CANDORE
David: "Si tratta di un gioco
o è una cosa vera?"
Joshua: "Che differenza fa?"
David J. Lightman / Matthew
Broderick
Wargames di John Badham
48/FOTOGRAMMI/note
L'ANTIEROE DARK
Non può piovere per sempre.
Eric / Brandon Lee
Il Corvo di Alex Proyas
IL GURU 1
Rispetto un regime di droghe
piuttosto rigido per mantenere la
mente flessibile.
Jeffrey Lebowski alias "Drugo" / Jeff
Bridges
The Big Lebowski dei fratelli Coen
IL GURU 2
Io non chiederò perdono per quello
che sono. Non chiederò perdono per
le cose di cui ho bisogno!
Frank T.J. Mackey / Tom Cruise
Magnolia di Paul Thomas Anderson
IL MEDICO
Tu non hai mai visto un cuore, é come
un pugno avvolto nel sangue.
Larry / Clive Owen
Closer di Mike Nichols
IL CORAGGIOSO
Non credo nella magia, ma talvolta
nella mia vita ho visto delle cose che
non riesco a spiegare e ho capito che
non è a cosa credi il punto, ma con
quanta forza ci credi!
Henry Walton Jones, Jr. alias Indiana
Jones / Harrison Ford
Il quadrante del destino di James
Mangold
L’ATTORE IMPEGNATO
Io devo scegliere cosa vale la pena
raccontare: l’orrore o il desiderio...
E ho scelto il desiderio, perché
è quello che ci rende vivi.
Jimmy Tree / Paul Dano
Youth di Paolo Sorrentino
IL PROFESSORE AL CREPUSCOLO
Quanto siete arcaici quando fate
i moderni!
Prof. Bruschi / Marcello Mastroianni
Verso sera di Francesca Archibugi
IL SESSO
L'ho rivista solo una volta. È stato
solo per caso, in un aeroporto mentre
cambiavo aereo. Lei non mi ha visto.
Stava con Peter, aveva in braccio
un bambino. Non era diversa da
tutte le altre.
Stephen Fleming / Jeremy Irons
Il danno di Louis Malle
IL CINICO
Nessuno della tua generazione sa
bere: lo fate per le ragioni sbagliate.
La mia generazione beve perché bere
è bello; anche più bello di quando
ti slacci il colletto. Perché noi ce
lo meritiamo; perché tutti gli uomini
bevono. Voi, con le vostre angosce
e i vostri pensieri tristi, state
sempre lì a leccarvi delle ferite
immaginarie.
Roger H. Sterling / John Slattery
Mad Men di Matthew Weiner
IL JAZZISTA
Mi raggomitolerei in un angolo e
morirei e suonerei al mio funerale.
Bleek Gilliam / Denzel Washington
Mo’ Better Blues di Spike Lee
49/FOTOGRAMMI/note
MARIO
DONDERO
IL RACCONTO
E IL TALENTO
50/OMBRE
Marta Silenzi
un ricordo della mostra fotografica A proposito di Robert Capa
e dell’incontro Dondero-Giordana per la presentazione del libro
Lo scatto umano, viaggio nel fotogiornalismo da Budapest a New York
3 ottobre 2014, Galleria Centofiorini, XVI edizione di Cartacanta,
Civitanova Alta
«Siccome al liceo andava bene in italiano, era venuto su con l’idea di
farsi giornalista, ma poi qualcuno gli consigliò, proprio per via della
mole e della pratica del gioco del rugby, di scegliere invece il fotoreportaggio,
un mestiere che richiede buone spalle, se vuoi farti largo
nella calca e scattare il flash al momento buono. Carlone aveva accettato,
e adesso lo vedevo, rincasando, steso sul letto a sfogliare vecchi
numeri di “Life”: così, diceva, per trovare un’idea, uno spunto. Qualche
volta, se non avevo voglia di salire in biblioteca per le mie ricerche, lo
accompagnavo fino alla Mondialpicts, l’agenzia fotografica dove lavorava
assieme ad altri due ragazzi, alloggiati nella camera accanto alla
nostra, Mario e Ugo.»
Luciano Bianciardi, La vita agra
Il bianco e nero, lo scatto etico, l’elemento umano, l’impegno civile sono solo
alcune delle componenti di fotografie e reportage realizzati da Mario Dondero
(Milano 1928-Petritoli 2015).
Del resto un uomo così generoso e vorace allo stesso tempo, dotato di
una curiosità irresistibile e di un senso del racconto così spiccato, non poteva
limitarsi a dei ferrei parametri, doveva seguire l’istinto, doveva seguire
il talento.
E l’istinto lo ha portato nella storia, tra la letteratura, nella politica,
molto vicino agli uomini, con cui ha instaurato per natura rapporti immediati
grazie ad una genuina comunicatività e di cui ha saputo cogliere espressioni
e momenti che si sono fissati nel tempo.
Partito da giornalista e approdato alla fotografia, mezzo veloce del
racconto, con cui poteva essere sincero, rispettoso del momento scelto e
scattato, della semplicità del reale, intendendo per semplicità “il risultato
di un percorso, più che un inizio”, quindi un lavoro consapevole teso all’informazione
chiara e imparziale. Più che fotografo, definizione che non amava
molto, Dondero è diventato reporter, fotogiornalista, applicando ai suoi
reportage una retorica dell’istantaneità, imparata da Robert Capa, da Henri
Cartier-Bresson, coniugata con una tensione verso il fattore umano: “il mio
modo di fotografare”, diceva, “richiede un elemento antropologico.
51/OMBRE
Tutte le foto dell'articolo
sono di Ivano Quintavalle
UNA STRADA NON È UNA STRADA, O
UNA FINESTRA NON È UNA FINESTRA
SE NON C’È LA PRESENZA UMANA.”
Allora umanità diventa la parola chiave per il lavoro di Dondero. Nella
prefazione alla monografia di Simona Guerra, Massimo Raffaeli punta infatti
sul termine Humanitas, riferendo che a Mario interessava esserci, fisicamente,
per dare testimonianza di qualcosa o di qualcuno. Ecco il perché
della scelta delle immagini sulla scrittura (nonostante scrivesse con un
ritmo alla Bianciardi, stimato amico dei tempi del Bar Giamaica che lo ha
inserito come “Mario” ne La vita agra), immagini scattate con un approccio
sempre diretto e dialogico, lo stesso che instaurava con gli uomini, secondo
ideali immutati di libertà e giustizia sociale, quelli della Resistenza, cui
partecipò durante la II Guerra Mondiale e che non lo hanno più lasciato.
Tutto questo emerge solo a sfogliare i suoi libri, a guardare le sue foto,
ad apprendere per quante testate e riviste nazionali ed internazionali ha
lavorato, più di quelle che sembrerebbe possibile far entrare in una vita,
conoscendo e permettendo di conoscere, dalla Milano del dopoguerra alla
Parigi anni ’50, dalla caduta del muro di Berlino all’Africa, all’America latina,
alla Russia, all’Afghanistan con l’equipe di Emergency, intessendo tutto
non solo di interesse storico, politico e civile, ma anche intellettuale, realizzando
numerosi ritratti di artisti, attori, scrittori e personaggi pubblici che
diventavano amici, che lo accompagnavano nel tempo, che ricorrevano nei
suoi ricordi aneddotici. La letteratura lo influenzava, amava molto gli scrittori
fortemente visivi, come Pavese e Pratolini, diceva che non poteva trovarsi
in Spagna senza pensare ai Quarantanove racconti di Hemingway. Uno
dei suoi scatti più celebri è del resto l’immagine degli scrittori del Nouveau
Roman riuniti davanti alla sede delle Éditions de Minuit nel ’59, una foto di
uomini e donne come appena usciti dall’edificio, che si fermano a fumare una
sigaretta, a scambiare qualche parola ancora, con atteggiamenti casuali,
l’istantanea di un momento, fotogiornalismo quindi, che non cerca pose o
spettacolarizzazioni, coglie l’attimo e fa la storia.
Soprattutto c’era l’interesse per la Spagna repubblicana.
Robert Capa era uno dei suoi padri putativi, furono le sue fotografie ad
ispirarlo, a spingerlo verso la stessa professione; si trovò a collaborare con
Regards, la leggendaria rivista comunista che per prima aveva pubblicato le
foto di Capa e Gerda Taro sulla Guerra Civile spagnola, conobbe Guttmann,
lo scopritore e maestro di Capa, e portò avanti un interesse che poi si trasformò
in un viaggio e in una sfida, e quindi in una mostra.
Praticamente una prima nazionale, essendo stata preceduta solamente
da una breve anteprima sarda alla fine del 2013, la mostra fotografica di
Mario Dondero A proposito di Robert Capa veniva ospitata nell’ottobre 2014
alla Galleria Centofiorini di Civitanova Alta (nella sua sede storica e suggestiva
che ha alle spalle quarant’anni di arte contemporanea di particolare
qualità) per la cura di Ivano Quintavalle e all’interno della rassegna Carta-
52/OMBRE
canta, quell’anno concentrata sul tema del fotogiornalismo con molte altre
esposizioni interessanti in altre sedi della cittadella.
I cinquanta scatti erano il prodotto di una lunga attenzione riservata da
Dondero alla Spagna repubblicana, ma anche di un’occasione venutasi a creare
nel 2006 quando, collaborando con Enrico Deaglio per un’edizione speciale
del Diario della settimana intitolata Volver, il fotoreporter decise di tornare
nei luoghi della Guerra Civile, in particolare a Cerro Muriano, dove Robert
Capa nel ‘36 scattò una foto diventata icona di tutte le guerre, di un eroismo
di resistenza, del fotogiornalismo stesso: l’immagine del “miliziano morente”,
che cade in piedi (“meglio morire in piedi che vivere in ginocchio” sembra aver
detto Emiliano Zapata durante la rivoluzione messicana) con grande potenza
rappresentativa, immagine accusata a più riprese di essere un falso, una messa
in posa e quindi di andare contro il fondamento stesso del fotogiornalismo
che vuole l’autenticità del momento in cui il fatto avviene.
Ecco la sfida: Dondero, che conosceva il modo di lavorare di Robert
Capa, non cedette alle accuse e s’incaricò di venire a capo della questione
che pure una puntuale biografia sul reporter ungherese naturalizzato americano
(il cui vero nome era Endre Arnő Friedman), scritta da Richard Whelan,
aveva già posto e risolto.
"In realtà questa mostra era nata da un’idea di Luca Borzani, presidente
di Palazzo Ducale a Genova, che era stato conquistato dalla storia del
miliziano, ma a me sembrava poca cosa rispetto all’intera tragedia spagnola"
rivelò Dondero durante la conversazione con Emanuele Giordana avvenuta la
sera del 3 ottobre all’apertura della mostra alla Centofiorini, occasione per
presentare il loro libro Lo scatto umano – viaggio nel fotogiornalismo da
Budapest a New York che ha al suo interno una bella sezione dedicata alla
53/OMBRE
Guerra Civile di Spagna e a Robert Capa. "Ricorreva l’anniversario della caduta
del muro di Berlino, mi chiese se avevo del materiale sulla Germania ed
io ne avevo parecchio, per cui si fece questa mostra al posto di quella sulla
Spagna che a me però stava particolarmente cara, così poi l’idea s’incrociò
con quella di Deaglio e ne venne fuori questo reportage."
Giordana aggiunse all’aneddoto che Enrico Deaglio era molto titubante
nell’inviare Dondero sulle tracce di quello che poi venne identificato come
Federico Borrel Garcia, il miliziano della foto di Capa, la questione era delicata,
"così Mario diciamo s’inviò da solo, come credo abbia fatto in tutta la
sua vita, e arrivò a mettere insieme i pezzi di questa scoperta."
La scoperta doveva riguardare una testimonianza certa dell’identità e
della morte del miliziano che coincidessero con lo scatto di Robert Capa.
Dondero basò le sue indagini sul libro del sociologo austriaco antifascista
Franz Borkenau che quel giorno era con il reporter e un altro giornalista di Vu,
e riferisce che si ritrovarono assediati dai Regulares, i soldati marocchini del
generale Varela. La situazione precipitò e sopraggiunsero i miliziani della
Columna di Alcoy (città di antiche tradizioni rivoluzionarie), di cui faceva parte
Borrel Garcia, detto Taino, di 24 anni, che perse la vita in una delle offensive
sulla collina di Las Malaguenas, a Cerro Muriano, il 5 settembre 1936.
Con l’aiuto di Ricard Baño, uno studioso di storia locale di Alcoy, Dondero
risalì all’identificazione del miliziano, difficile dato che non esistono atti
di morte per i combattenti antifranchisti, che finivano abitualmente nelle fosse
comuni. Lo scatto di Capa non era mai circolato nella Spagna franchista
perché ritenuto sovversivo, così Baño, la mostrò all’ultimo sopravvissuto della
columna di Alcoy, Mario Brotons Jorda, il quale non identificò Taino ma
confermò che era certamente suo compagno perché le giberne erano quelle
che un artigiano fabbricava in esclusiva per i miliziani locali. Fecero circolare
la foto tra i familiari del miliziano rimasti ed essi infine lo identificarono come
un operaio tessile che aveva una novia da sposare al ritorno dalla guerra.
La vera scoperta di Dondero fu quindi questo professor Baño. E ciò che
in seguito fu in grado di scagionare definitivamente la foto di Capa dalle
accuse, fu il ritrovamento di un’intervista fatta a Robert Capa nel ’47, nella
quale si evince dalla sua stessa voce che mentre si trovava con i combattenti
di Alcoy in una trincea, fotografò gli assalti dei miliziani ad una mitragliatrice
franchista e al quarto assalto alzò il braccio e scattò alla cieca, con la
sua Leica, una foto che egli vide solo al suo rientro dalla guerra (avendo
spedito subito i rullini), già famoso perché l’immagine stava facendo il giro
del mondo, prima con Vu e poi con Life.
"RYSZARD KAPUŚCIŃSKI HA
SEMPRE DETTO CHE UN GIORNALI-
STA E FOTOGIORNALISTA NON DEVE
ESSERE CINICO MA CONSERVARE
UNA PARTE DI INGENUITÀ PER PO-
TER RESTARE VICINO ALLA GENTE"
54/OMBRE
disse Dondero sempre durante la conversazione con Giordana "Una cosa
che Robert Capa ha fatto splendidamente, basti pensare alle foto che ha
realizzato dei piccoli soldati tedeschi della Hitler-Jugend, che avevano
sui 15 anni e che lui ha fotografato con uno sguardo paterno, nonostante
fossero nazisti e persecutori della sua gente. Quindi Robert Capa rimane
un esempio di come può essere felice e creativo il fotogiornalismo quando
non è scioccamente arido e tristemente commerciale."
E questo restare vicino alla gente percorreva anche tutta la mostra di
Mario Dondero, sulle tracce del miliziano, sulle tracce di Federico Garcia
Lorca, di colline e radure teatro di fucilazioni, di facciate calde di sole e crocevia
di ricordi, di scavi nella terra per recuperare morti dalle fosse comuni,
alla ricerca di volti che potessero sapere, che potessero mostrare vecchie
foto con mani rugose di storia passata, con quel bianco e nero prediletto per
la documentazione sociale e pochi scatti a colori ma sobri, in linea con gli
altri, condotti da una stessa poetica del racconto, quello in grado di "cogliere
situazioni che le parole non possono comunicare."
Ad una mia sollecitazione sulla tecnica fotografica, sulla visione compositiva
ed estetica che, nel libro presentato con Giordana e nelle varie interviste,
sembrava sempre in secondo piano rispetto al contenuto dell’immagine,
Dondero rispose che "il fotogiornalismo spinge alla conoscenza
tecnica meno di altre categorie dell’industria della fotografia che si trova ad
utilizzare anche macchine fotografiche più sofisticate. I fotoreporter usano
macchine leggere" (lui preferiva la Leica ma aveva lavorato anche con la
Pentax, la Spotmatic, la Nikon, la Contax) "e quello che conta è ciò che raccontano
con la foto. Io tendo a distinguere tra fotogiornalista e fotografo
fotografo, come il mio amico Ugo Mulas, che ha delle conoscenze specifiche,
vaste, totali di quella che è la produzione della fotografia rispetto al fotoreporter
la cui capacità essenziale è quella di saper raccontare le cose. È
chiaro che la conoscenza tecnica deve comunque essere alta ma passa in
secondo piano rispetto alle pulsioni, ai sentimenti, agli istinti, tutte cose che
devono far dimenticare la tecnica, ed è soprattutto nella scelta delle situazioni
che sta il talento del fotoreporter."
Aveva continuato dicendo che spesso i fotogiornalisti non sanno neanche
stampare, come anche nel caso di Robert Capa, e del resto lo stesso
Dondero si è sempre affidato ad uno stampatore romano per realizzare delle
semplici stampe al sale, come quelle della mostra, che assegnano tutto il
loro potenziale al racconto contenuto e veicolato.
Aveva detto anche che "troppo talento artistico nuoce al racconto"; io
gli avevo parlato della mia fascinazione per la foto della Sorbona occupata
nel ’68, presente tra le immagini scelte del volume, chiedendogli che sensazione
dà trovarsi a cogliere quel momento, ad essere lì mentre la storia
accade, e lui aveva risposto che aveva "passato la vita a cercare la storia,
ancora oggi non ho smesso. Certo ci sono dei momenti appassionanti di comunione
immensa con gli altri, situazioni anche delicate perché ad esempio
in quella foto, che viene molto apprezzata per il suo valore estetico per via
di quella luce che sta entrando nell’aula creando una percezione di felicità
collettiva e grande libertà, la situazione era in realtà di ansia e di pericolo
56/OMBRE
perché le aule erano assediate fuori dal CRS. Quindi
spessissimo la bellezza estetica dell’immagine,
la troppa bellezza, serve a non raccontare."
La serata era stata piena di questi interventi di
Dondero e Giordana, generosi di aneddoti indicativi
delle rispettive vaste esperienze e al contempo
dell’intesa professionale che emerge dal libro, una
sorta di lungo discorso di Mario su una geografia del
fotogiornalismo a partire da Budapest (luogo di coincidenza
e nascita di tante e grandi figure del settore,
da Capa a Guttmann, da Bert Garai a Charles Rado,
da Kertész a Brassaï, da Munkácsi a Zoltán Nagy),
sapientemente raccordata dal giornalista e scrittore,
che riferì di essersi trovato anche a scontrarsi col
fotografo "perché fortunatamente c’è una dialettica e
perché dagli scontri emergono le cose con maggiore
chiarezza. In un certo senso il mio dovere era quello
di incalzarlo e provocarlo. – dice – Una cosa in cui
l’ho provocato tantissimo, perché anche per me era
una delle frontiere vitali del discorso sul fotogiornalismo,
è il confine fragile e labile fra l’impegno civile, sociale, politico nel senso
più alto del termine e la verità: dove un giornalista, un fotografo, un giornalista
televisivo deve fare un passo indietro e dove deve fare un passo avanti?
La lezione che ho imparato da Mario mediandola con la mia esperienza è che
UN GIORNALISTA DEVE ESSERE
SEMPRE IMPARZIALE, DEVE RAC-
CONTARE LA VERITÀ ANCHE QUAN-
DO NON GLI PIACE, MA NON DEVE
ESSERE NEUTRALE, ANZI DEVE DI-
CHIARARE LA SUA POSIZIONE PER-
CHÉ LA NEUTRALITÀ NON ESISTE,
ognuno ha le sue idee giuste o sbagliate ed è attraverso le proprie idee che
si vede la realtà, poi nel momento in cui si va a constatarla con la macchina
fotografica, con la penna, la si deve raccontare per com’è, non la si può falsare,
ciò non vuol dire però che si debba essere neutrali."
I temi toccati furono quelli della guerra, di come era vista e documentata
agli albori del fotogiornalismo e di come sia diventata un’abitudine
visiva oggi, sempre più affidata a scatti tempestivi e di scarsa qualità colti
con telefonini e mezzi di fortuna, a discapito di una professionalità, di un
talento documentaristico, ma anche di una verità della notizia; quelli della
censura, arma pericolosa dei regimi totalitari, falce limitante del lavoro
di reporter spesso incorporati tra i soldati e quindi spinti in situazioni rischiose
eppure in larga parte sconosciuti, morti tra i morti, senza lasciare
57/OMBRE
firma sulle loro foto; quelli delle agenzie intese come cenacoli di volontari
che avevano voglia di fare del giornalismo d’informazione, rastrellate da
monopoli finanziari nei quali si sono perse le individualità dei fotografi;
quelli della narrazione, declinabile in vari ambiti mediatici, dalla fotografia
alla carta stampata, dalla tv alla radio, rispetto ai quali Dondero era a
favore del narratore totale, che deve essere libero di esprimersi anche in
più medium, mentre Giordana sottolineava il fatto che oggi si richiede di
saper far tutto, di accorpare mansioni, perdendo il talento specifico che si
può avere in un ambito espressivo e finendo per inficiare la capacità di una
narrazione affascinante.
Un reportage fotografico e un incontro con due personalità dell’informazione
impegnata che hanno trasmesso tanto, sollecitando l’attenzione,
stimolando l’approfondimento, pungolando la capacità di osservazione di
fatti e immagini, dimostrando che fotoreporter e giornalisti sono uomini tra
gli uomini che fanno esperienze di vita e poi ne raccontano.
LA RIVOLUZIONE DEVE
COMINCIARE DA BEN PIÙ
LONTANO, DEVE COMINCIARE
IN INTERIORE HOMINE.
LUCIANO BIANCIARDI, LA VITA AGRA
58/OMBRE
3 OTTOBRE 2014, GALLERIA CENTOFIORINI
PRESENTAZIONE DEL VOLUME
LO SCATTO UMANO – VIAGGIO
NEL FOTOGIORNALISMO
DA BUDAPEST A NEW YORK
CONVERSAZIONE CON MARIO DONDERO
ED EMANUELE GIORDANA
MS Buonasera e benvenuti alla Galleria Centofiorini che questa sera
inaugura in anteprima la XVI edizione di Cartacanta. Quest’anno il tema portante
della rassegna è il fotogiornalismo, branca della fotografia che abbiamo
qui modo di approfondire nelle sue dinamiche in due modi: attraverso una
mostra delle immagini scattate da Mario Dondero nel luoghi della Guerra
Civile Spagnola, grande teatro del fotogiornalismo, durante la quale il famoso
reporter Robert Capa scattò la leggendaria foto del miliziano morente poi
oggetto di mille polemiche; una cinquantina di scatti per la maggior parte
realizzati nel 2006, quando Dondero fu inviato da Enrico Deaglio del “Diario
della settimana” per affrontare le accuse di falsità rivolte alla foto di Capa,
tacciata di essere una messa in posa, quindi contro gli stessi principi fondanti
del fotogiornalismo che vuole che si colga l’attimo nel momento in cui
accade; mostra che prende appunto il titolo di A proposito di Robert Capa e
che è alla sua prima uscita dopo la brevissima anteprima sarda di fine 2013.
Attraverso la conversazione dello stesso Dondero con Emanuele Giordana,
nostri graditi ospiti, redattori a quattro mani del libro Lo scatto umano
– viaggio nel fotogiornalismo da Budapest a New York, un dialogo iniziato
nell’arco di collaborazioni comuni (tra cui le trasmissioni sulla storia del
fotogiornalismo andate in onda su Radio 3) che finisce per delineare clima
e contesto in cui si mossero i grandi fotoreporter del Novecento. I due ospiti
non hanno bisogno di presentazioni e una loro breve nota biografica la si può
leggere dal loro stesso volume (…) eppure questi curricula non spiegano la
qualità, il significato e l’intento che c’è dietro gli scatti di Mario Dondero né
l’acuto occhio di scrittore e giornalista di Emanuele Giordana, cose che invece
sicuramente emergeranno stasera dallo loro presenza, dalla loro cultura
e dalle loro parole.
EG La collaborazione con Dondero è iniziata in maniera abbastanza
casuale.
MD Le collaborazioni nascono sulla sintonia, sul feeling interpersonale
che si stabilisce misteriosamente, non si sa perché si amano certe
59/OMBRE
persone e non certe altre. La nostra amicizia è nata davanti ai microfoni di
Radio 3, situazione in cui Emanuele è particolarmente brillante, capacissimo
di fare la radio che è una bella attività, molto diversa dalla fotografia, che
è un fatto furtivo – questa sera abbiamo qui il Premio Scanno 2014, Claudio
Marcozzi, che per strappargli tre parole ci vuole molta fatica: di solito i fotografi
non parlano quasi mai, io sono completamente anomalo perché sono
più parole che fotografia in realtà.
Comunque noi ci siamo conosciuti al “Manifesto” la notte che si era
salvata Giuliana Sgrena e la collaborazione con Emanuele è rimasta fervida,
costante, non si ferma e questo libro, continuerà nei secoli.
EG Per quanto riguarda il fatto che Dondero fu inviato da Enrico Deaglio
per gli scatti di questa mostra, in realtà si può dire che Mario si inviò da solo
perché cercava di dimostrare una cosa che in quel momento era vessata da
polemiche enormi da parte di storici importanti e altri fotografi, lui sosteneva
di poter dimostrare la genuinità dello scatto di Capa ma Deaglio era molto
titubante, così diciamo Mario s’inviò da solo, come credo abbia fatto in tutta
la sua vita e arrivò a mettere insieme i pezzi di questa scoperta.
MD Queste foto sono state scattate nel corso degli anni perché la mia
passione per la Spagna repubblicana, per questo periodo storico di questa
nazione straordinaria è andata avanti nel tempo. Deaglio però mi ha dato
l’opportunità di riassumere, anzi feci quattro articoli per quel numero speciale
del “Diario” che prese il nome di “Volver”, e queste foto sono il risultato
di quel viaggio ma anche di tanti anni precedenti; ecco, per esempio c’è
la foto di quel signore lì, Giovanni Pesce, che a Guadalajara, dove le brigate
internazionali sconfissero i fascisti, salvò la vita di tutti gli italiani che sarebbero
stati fucilati dalle camice nere spagnole; lui mi raccontò la storia di
quelle persone, che erano poveri disoccupati, trascinati in Spagna dal fascismo
e quindi anch’essi vittime. In realtà questa mostra era nata da un’idea
di Luca Borzani, presidente di Palazzo Ducale a Genova, che era stato conquistato
dalla storia del miliziano, ma a me sembrava poca cosa rispetto
all’intera tragedia spagnola; ricorreva l’anniversario della caduta del muro
di Berlino, lui mi chiese se avevo del materiale sulla Germania ed io ne avevo
parecchio, per cui si fece questa mostra al posto di quella sulla Spagna
che a me però stava particolarmente cara, così poi l’idea s’incrociò con quella
di Deaglio e ne venne fuori questo reportage. Il viaggio è stato molto
bello e pieno di ricordi, io spero che questa mia passione per la Spagna repubblicana
possa contaminare gli altri in qualche modo.
Mentre un’altra avventura entusiasmante è stata questa esperienza
della radio. Io come fotografo diciamo che ho una certa notorietà ma non è
niente rispetto all’eco che ha avuto questa storia della radio: si ricordavano
solo di quello, ho passato 65 anni a fare foto ma nella memoria della gente,
dopo gli 80 anni sono diventato un autore radiofonico!
MS Comunque questa armonia di racconto che c’è tra voi due, questa
sintonia ed intesa, emerge anche dal libro, nel senso che il discorso diretto
60/OMBRE
di Dondero è poi raccordato dalla narrazione di Giordana, è un’armonia che
emerge dalla scrittura e dalla struttura di tutto il libro. È stato effettivamente
così lavorarci o ci sono stati anche scontri , anche disaccordi?
EG Sicuramente, anche perché per fortuna esiste una dialettica. Naturalmente
ci sono stati scontri perché da questi emergono le cose con maggiore
chiarezza. Col senno di poi posso dire che la maggior parte delle volte
Mario aveva ragione, ma il mio dovere era in un certo senso quello di incalzarlo
e di provocarlo. Per esempio Mario ha una grande avversione nei confronti
della fotografia americana, cosa che ha un suo motivo ma allo stesso
tempo la fotografia degli Stati Uniti e delle riviste ha prodotto molto e ha
dato la possibilità a molti fotografi europei di poter parlare attraverso il loro
lavoro. In queste cose provocavo Mario.
Una cosa in cui l’ho provocato tantissimo, perché anche per me era una
delle frontiere vitali del discorso sul fotogiornalismo, è il confine fragile e
labile fra l’impegno civile, sociale, politico nel senso più alto del termine e
la verità: dove un giornalista, un fotografo, un giornalista televisivo deve fare
un passo indietro e dove deve fare un passo avanti? La lezione che ho imparato
da Mario mediandola con la mia esperienza è che un giornalista deve
essere sempre imparziale, deve raccontare la verità anche quando non gli
piace, ma non deve essere neutrale, anzi deve dichiarare la sua posizione
perché la neutralità non esiste, ognuno ha le sue idee giuste o sbagliate ed
è attraverso le proprie idee che si vede la realtà, poi nel momento in cui si va
a constatarla con la macchina fotografica, con la penna, la si deve raccontare
per com’è, non la si può falsare, ciò non vuol dire però che si debba
essere neutrali.
Questo forse nel libro emerge solo in filigrana ma è stato uno dei grandi
temi di dibattito con Mario su cui io l’ho incalzato molto perché la sua è
un’esperienza più ampia della mia non solo in termini anagrafici, ma anche
geografici: Mario è vissuto a Parigi, ha conosciuto la fotografia fatta dai
britannici, dai tedeschi, anche magari da personaggi minori e questa questione
dell’imparzialità è stata alla fine per me una grande lezione.
61/OMBRE
MD Adesso mi sembra obbligatorio dire perché non mi piace la fotografia
americana, che poi tra l’altro ha magnifici protagonisti come Lewis
Hine, come Eugene Smith, tutti reporter ribelli, non inquadrati. Io per esempio
ho lavorato otto anni a “Newsweek” e ho potuto constatare che le nostre
censure fanno ridere rispetto a quella statunitense.
Un giorno ero sulla Via Crucis in Terra Santa e ho incontrato un americano
– gli americani mi stanno generalmente simpatici perché hanno uno
stile di contatto talmente aperto che sono i primi a stringerti la mano -,
abbiamo fraternizzato, siamo andati insieme a mangiare un falafel e gli ho
chiesto: “tu cosa fai nella vita?” e lui: “sono direttore generale di Newsweek”,
un colpo mica da poco per me! Ho fatto un sacco di reportage per quella
testata ma non vedendo quasi mai le mie foto: ad esempio una volta mi è
capitato uno scoop, qualcosa di straordinario perché sono riuscito a fotografare
l’Abate dell’Abbazia di Monserrat a Barcellona, rifugiato in Italia perché
perseguitato da Franco. Ho girato una quindicina di conventi finché non l’ho
trovato, gli ho fatto un’intervista da stringer e ho quindi consegnato il testo
non da relatore ma da collaboratore esterno del giornale. Era già in pagina
quando il Cardinale Spellman lo fece togliere. Quindi il mito della libertà di
stampa americana non esiste.
Poi c’è anche il fatto che la maggior parte dei talenti americani in realtà
sono tutti europei e non soltanto, sono addirittura quasi tutti ebrei e
dell’Europa centrale, per cui, come emerge dal nostro libro, la questione del
fotogiornalismo nasce in Europa centrale e nello specifico in Ungheria. Del
resto il personaggio che ho amato di più e che mi ha ispirato moltissimo, senza
il quale non avrei scelto la fotografia è Robert Capa: io ero giornalista e mi
sono dato alla fotografia tutto sommato sull’esempio di Robert Capa, che mi
coinvolgeva per via della sua straordinaria umanità priva di cinismo. Ryszard
Kapuściński ha sempre detto che un giornalista e fotogiornalista non deve
essere cinico ma conservare una parte di ingenuità per poter restare vicino
alla gente. Una cosa che Robert Capa ha fatto splendidamente, basti pensare
alle foto che ha realizzato dei piccoli soldati tedeschi della Hitler-Jugend,
che avevano sui 15 anni e che lui ha fotografato con uno sguardo paterno,
nonostante fossero nazisti e persecutori della sua gente. Quindi Robert Capa
rimane un esempio di come può essere felice e creativo il fotogiornalismo
quando non è scioccamente arido e tristemente commerciale.
MS Alla fine del libro c’è una scelta di dieci fotogiornalisti, mi chiedevo
se siano i vostri preferiti.
EG È una scelta che credo abbia fatto soprattutto Mario, se non ricordo
male. Sulla fotografia non mi permetto di avere troppa voce in capitolo,
anche perché un giornalista più distante è dalla cosa che tratta meglio lavora
in un certo senso, poi la professione da sì che uno si documenti ma non
si ha la sconoscenza e l’esperienza effettive: ad esempio se mi si chiede di
citare dieci foto di Robert Capa, non so se le ricordo e comunque, rispetto al
mio ruolo nel libro, era secondario coprendo Mario questo aspetto, io dovevo
fare in modo che tutto avesse un equilibrio.
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Ricordo che nella rosa dei dieci decidemmo di mettere un italiano –
perché il fotogiornalismo italiano è stato un forte tema di dibattito nel trattare
la grande fotografia europea del Novecento – e alla fine la scelta di
Mario è caduta su Franco Pinna. Però sull’Italia abbiamo fatto un passo indietro
perché ci siamo resi conto che significava fare un altro libro dato che
ogni volta che affrontavamo l’argomento usciva fuori una marea d’informazioni
quasi indomabile.
Ad esempio la fotografia italiana durante il fascismo, che è accennata
solo in parte, richiedeva un approfondimento, la lettura di più testi, la raccolta
di testimonianze.
MD Se uno guarda la Guerra di Spagna, altra situazione in cui si è
formato il fascismo, si nota che nessuno conosce i fotografi franchisti, perché
c’era una censura interna già di partenza che rendeva insignificanti queste
fotografie. Cioè per fare delle foto valide bisogna essere liberi, avere un
occhio libero e dei giornali liberi. Il fascismo era pura censura.
EG Se posso aggiungere un dato biografico, io ho avuto un nonno che
è stato un importante giornalista italiano, che nel 1924 ha scritto su “La
tribuna di Roma” – di sua proprietà e di cui era direttore – che il delitto
Matteotti era imputabile a Mussolini pur indirettamente. Non era neanche
comunista o socialista, era liberale ma ebbe una storia travagliatissima perché
il Regime lo obbligò a vendere il giornale e gli impedì per il resto della
sua vita di scrivere, nemmeno di moda o di sport, una cosa terribile per un
giornalista. Mio nonno editò il primo magazine accluso ad un giornale italiano,
si chiamava “Noi e il mondo”, era una rivista di reportage dove c’era
anche spazio per la fotografia, che ricalcava la spinta di molte riviste illustrate
d’inizio secolo che poi finì durante il fascismo e continuò in altre zone.
Questo per dire che c’è stato un mondo dell’editoria italiana agli inizi del
fascismo, poco durante e poi con una ripresa dopo che forse è ancora tutta
da raccontare.
63/OMBRE
MD Avere un nonno giornalista deve aver contribuito alla formazione
di Emanuele, che poi ha anche un fratello regista che è Marco Tullio Giordana.
Per dire che l’informazione, la conoscenza, la ricerca, l’inchiesta fanno
parte del vostro dna. Il cinema di Marco Tullio poi è giornalismo, si tratta di
documentari.
MS Sono tutte forme parallele di racconto in fondo: quella non verbale
della fotografia, quella documentaristica, quella scritta del giornalismo…
anche se immagino che ognuna abbia dei parametri propri. Mi chiedevo quale
sia la differenza tra scattare una fotografia che racconti e scrivere un
testo che racconti, anche se lo avete già accennato precedentemente.
MD Io personalmente sono per il narratore totale, trovo che sia sbagliato
fare il fotografo e basta. Se uno ha la passione del racconto deve tirare
fuori da sé tutte le corde possibili. Scrivere, fare radio, anche la tv che,
quando non è cinicamente commerciale, è un magnifico strumento.
Io ad esempio ho vissuto 40 anni in Francia e non ho mai visto un fotografo
che scrivesse perché c’era un blocco sindacale, non si poteva scrivere
se si era fotografi o fotografare se si era giornalisti, perché si apparteneva
a quella categoria sociale precisa, mentre io scavalcherei questi
ostacoli che sono di stampo, appunto, sindacalista. Laddove c’è il talento
questo va incoraggiato e sostenuto. Lo diceva anche Robert Capa. Anche se
una delle sue frasi assolute era “la migliore propaganda è la verità”, aggiungendo
poi che se si è ungheresi è ancora meglio! Se fosse ancora vivo oggi
probabilmente farebbe televisione perché adesso è quello il mezzo, il fotogiornalismo
è finito. C’è stata una stagione in cui gli illustrati erano la tv di
allora. Un altro ungherese, maestro di Robert Capa, era Guttman, io l’ho
conosciuto che era già sugli 80 anni, lo incontravo nella cantina di Romano
Cagnoni, che del resto era una sua creatura: Cagnoni faceva foto da paparazzo
per la stampa italiana, Guttman l’ha proiettato nel grande fotogiornalismo
internazionale.
Condividevamo una passione per la politica. Aveva un cabaret fantastico
a Berlino, oltre all’agenzia Dephot, dove accolse come fattorino un
giovanotto fuggito dall’Ungheria, appena scarcerato grazie al padre che era
sarto del capo della polizia; poi un giorno Trotskij passò la frontiera dell’Unione
Sovietica e Guttman, che non aveva fotografi disponibili all’agenzia,
mandò questo fattorino, che era Robert Capa, a fare le foto.
EG Noi non ci siamo avventurati nelle diversità del mestiere. Sono
d’accordo con Mario che un buon fotografo possa anche essere un buon
giornalista ecc. però, per venire ad un argomento che so che a Marta sta a
cuore e che ha rimandato…
MS …per lasciarlo per ultimo…
EG …che è la faccenda della tecnica, ecco io credo che nella fotografia,
nella scrittura e anche nella ripresa televisiva, la tecnica conti relativamen-
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te poco. Quando uno ha imparato quelle tre regole poi dopo c’è il talento. Il
talento uno può averlo per la radio, per la carta stampata, per la capacità di
riprendere o fare fotografie. Io ad esempio per fotografare non ce l’ho, la mia
capacità di osservazione e percezione delle cose verrebbe assorbita dall’ingombro
della macchina, dal doverla tirare fuori, portarla dietro ecc. Nella
radio la tecnica è un attimo. Io ad esempio so che se mi alzo in piedi il mio
diaframma si estende e la mia voce viene percepita meglio e questa è l’unica
tecnica da imparare oltre al fatto di parlare con periodi brevi e poco secondari.
Ma ci sono persone completamente negate per la radio, che hanno
una voce che non funziona o si perdono nelle frasi, così come capita nella
scrittura o nella televisione.
Il problema di oggi è che tutte queste funzionalità tecniche si sommano
insieme. Oggi si deve saper scrivere, fotografare, filmare, cioè utilizzare
quattro tecniche che in sé sono relativamente semplici ma ognuna delle
quali richiederebbe un talento, e se uno quel talento non ce l’ha finisce che
in quel determinato settore il prodotto scade di qualità.
Oggi la richiesta continua di accorpare mansioni – si è iniziato nei
giornali con la grafica: una volta c’era chi faceva le foto, chi scriveva le didascalie,
chi i titoli, chi i sommari, oggi i giornalista deve fare tutto ( forse è
anche logico dato che sa quello che ha scritto e magari se deve estrapolare
un titolo lo fa anche meglio di qualcun altro) – va a discapito di un talento
che ognuno di noi ha e che per ognuno di noi è una cosa diversa, finendo per
inficiare la capacità di una narrazione affascinante che qualcuno sa fare con
la voce, qualcuno con la penna, qualcuno con la macchina fotografica ecc.
MS In effetti, quanto a narrazioni affascinanti, quanto a talento, c’è
una foto nel libro che è la mia preferita tra quelle pubblicate, l’immagine
della Sorbona occupata nel ’68 e mi chiedevo cosa si prova ad essere lì e a
saper cogliere quel momento mentre la storia accade.
MD Ho passato la vita a cercare la storia, ancora oggi non ho smesso.
Certo ci sono dei momenti appassionanti di comunione immensa con gli altri,
65/OMBRE
situazioni anche delicate perché ad esempio in quella foto, che viene molto
apprezzata per il suo valore estetico per via di quella luce che sta entrando
nell’aula creando una percezione di felicità collettiva e grande libertà, la
situazione era in realtà di ansia e di pericolo perché le aule erano assediate
fuori dal CRS. Quindi spessissimo la bellezza estetica dell’immagine, la
troppa bellezza, serve a non raccontare.
Ad esempio raccontare le guerre dopo la sconfitta americana del Vietnam
è diventato quasi impossibile: se un reporter adesso volesse andare
con l’esercito americano a documentare, dovrebbe essere “embended”, cioè
dovrebbe firmare che in nessun modo intende nuocere alla causa. E tutto
questo parte dalla foto della ragazzina nuda che corre mentre lanciano il
napalm o altre immagini del genere che hanno mosso l’opinione pubblica
americana e che sono andate a coincidere con la sconfitta degli Stati Uniti.
Ricordo che una volta ero a Trieste e volevo fotografare una nave ammiraglia
della sesta flotta, la sentinella mi ha chiamato il responsabile della
nave e questo mi ha invitato per un cocktail il mercoledì successivo. Ora
questa cosa non sarebbe più possibile.
MS Per riprendere il discorso iniziato da Emanuele Giordana sulla
questione della tecnica, il mio interesse era leggermente diverso. Il libro è
gonfio di aneddoti, di storia, di politica, che è tutto ciò che informa il fotogiornalismo,
tutto ciò che lo nutre, ma non emerge un’altra questione: se noi
volessimo andare ad approfondire una scelta fotografica di Mario Dondero,
considereremmo il bianco e nero, l’elemento umano, l’impegno civile, ma più
in dettaglio? Esteticamente parlando? Qual è la scelta estetica che rende
uno scatto diverso dall’altro e uno scatto di Dondero diverso da quello di un
altro fotoreporter? Ad esempio Cartier-Bresson parlava di cogliere il momento,
di scattare “à la souvette” ma nel contempo suggeriva di non rinunciare
ad una visione compositiva d’insieme…
MD Allora, diciamo che il fotogiornalismo spinge alla conoscenza tecnica
meno di altre categorie dell’industria della fotografia che si trova ad utilizzare
anche macchine fotografiche più sofisticate. I fotoreporter usano macchine
leggere e quello che conta è ciò che raccontano con la foto. Io tendo a
distinguere tra fotogiornalista e fotografo fotografo, come il mio amico Ugo
Mulas, che ha delle conoscenze specifiche, vaste, totali di quella che è la
produzione della fotografia rispetto al fotoreporter la cui capacità essenziale
è quella di saper raccontare le cose. È chiaro che la conoscenza tecnica deve
comunque essere alta ma passa in secondo piano rispetto alle pulsioni, ai
sentimenti, agli istinti, tutte cose che devono far dimenticare la tecnica, ed è
soprattutto nella scelta delle situazioni che sta il talento del fotoreporter.
Spesso è capitato che grandi fotografi non sapessero sviluppare le
foto, capitò allo stesso Robert Capa. Io poi faccio distinzione tra fotografi del
sud e del nord: quelli del nord sono più germanici, le immagini sono più precise
ma spesso meno emotive, meno passionali. Le foto sono in qualche modo
legate al genio dei popoli.
66/OMBRE
MS In effetti dal libro emerge una sorta di geografia del fotogiornalismo,
ci sono delle zone focali di cui scegliete di parlare ma poi tra le righe
delle esperienze narrate da Mario Dondero, come sta succedendo anche
stasera, emergono delle immensità ulteriori…
EG Questa è stata un’intuizione di Mario riguardo un ragionamento
sviluppato nella sua lunga carriera, da cui emerge un personaggio tipo che
ha tre connotati: è ebreo, ungherese e di sinistra. È un fotogiornalista comunque
contro, vittima del regime, e ha questa connotazione ebraica perché
in qualche modo appartiene a questa comunità duramente vessata dai regimi
totalitari.
Questi due aspetti si possono capire: si tratta di oppositori che fanno
parte di una minoranza finita nell’occhio del ciclone, ma perché ungheresi?
La spiegazione che dà Mario è che è comune agli ungheresi e ai fotografi un
certo spirito nomade, una natura gitana, in una sorta di spiegazione antropologica
che ha un suo senso. I nomi sono tanti, Guttman, Capa, Kertèsz e
molti altri, che poi hanno cambiato nome, si sono naturalizzati americani.
Questo elemento doveva dare origine a questa storia, si trattava di
Budapest, una capitale europea a cui nessuno aveva pensato e così abbiamo
iniziato il ciclo di trasmissioni radiofoniche ed è stato anche l’aspetto che
nel corso del libro ci ha fatto riflettere sui luoghi comuni in cui cadiamo
nell’osservare in genere la storia, quindi anche quella della fotografia, con-
67/OMBRE
siderando soltando Parigi, Londra, New York, invece no, Budapest, ma anche
Barcellona, che ha avuto grandi fotografi narratori della Guerra di Spagna,
solo meno noti di Robert Capa. E poi Hanoi dove abbiamo scoperto esserci
state centinaia di fotografi, forse anche di regime, che hanno raccontato la
guerra del Vietnam vista dall’altra parte.
Io l’unica foto che ricordavo era quella della soldatessa vietnamita che
tiene alla catena un enorme soldato americano, una foto simbolo degli anni
’70 ma l’unica scattata da un vietnamita che avessi visto, invece ce ne sono
molte altre che raccontano cose orrende e aggiungono elementi di verità. E
poi abbiamo pensato ai fotografi indonesiani, cambogiani, cinesi, tutto un
mondo che di solito ignoriamo perché siamo eurocentrici e guardiamo agli
Stati Uniti ma quest’altro mondo potrebbe raccontare altrettanto bene l’altro
pezzo del secolo della fotografia.
MD Riguardo alla fotografia di guerra dei tempi recenti viene in mente
anche che i fotografi non sono soldati (e in alcuni casi si trovano a denunciare
crimini commessi dai soldati della loro parte) e quindi possono prendere
posizione, rifiutarsi di andare in certi luoghi e situazioni. Invece c’è un
capitale immenso di fotografi che in guerra sono morti, come questi vietnamiti,
morti in ben 260 e che erano praticamente dei soldati.
Se si va al museo di Eboli dello sbarco americano a Salerno, si trovano
molte belle immagini, parecchie sicuramente di Robert Capa, e spesso
non firmate perché questi fotografi americani, incorporati nell’esercito come
soldati effettivi, facevano foto che poi finivano negli archivi. E correvano dei
rischi tremendi. Come quando Capa scattò la famosa foto del miliziano alzando
la mano da dietro la trincea e scattando alla cieca, così come si evince
dalla registrazione della sua voce nell’intervista ritrovata.
EG E quindi ecco, anche se lo scatto è stato casuale la tecnica serviva lo
stesso, insomma io avrei preso il cielo! Comunque per tornare ancora su questo
tema avvincente della tecnica, della bellezza fotografica e del racconto, mi
viene in mente una fotografia che circa tre o quattro anni fa ha vinto un premio
importante, tipo il World Press Photo, e che mi ha davvero colpito e sconvolto
perché è una foto tecnicamente bellissima di un soldato americano seduto su
un elicottero mentre si alza in volo con l’espressione del dolore della battaglia,
ma la cosa incredibile è che le pieghe della sua uniforme sono così perfette e lo
svolazzare del suo foulard intorno al collo così elegante, la luce così precisa da
farne una sorta di piccolo mito della moda mimetica contemporanea.
Quella era una foto decisamente bella che, come dice Mario, distraeva
tuttavia non solo distraeva, raccontava anche e raccontava secondo l’abitudine
che ci stiamo facendo della guerra: la guerra è la peggior cosa che
possa esistere e noi riusciamo a trasformarla in immagini che vincono premi
internazionali di fotografia perché sono belle e sono belli i soggetti. La tragedia
umana per eccellenza raccontata come fosse un fatto di moda è una
delle tendenze più preoccupanti del fotogiornalismo di adesso e non credo
dipenda tanto dai fotografi quanto da chi sceglie le fotografie, o le immagini
che passano in tv, che poi sono il nostro immaginario: se pensiamo alla Siria
68/OMBRE
la pensiamo attraverso la fotografia, se pensiamo alla Guerra di Spagna
viene subito in mente il miliziano. Si passa dall’eccesso della barbarie di
vedere una testa tagliata in video o la scena di corpi morti accatastati in una
fossa comune, al bel miliziano che è una specie di icona da attaccarsi in
camera. Sono cose su cui riflettere, anche se è difficile dire se non sia sempre
stato così. Mi preoccupa la superficialità di trattare un tema come la
guerra che sta entrando nella nostra quotidianità. Noi siamo ormai in guerra
da una decina d’anni in varie parti del mondo e siamo così abituati anche a
vederne le immagini che poi alla fine, insomma c’è anche altro a cui pensare.
Quanto ai fotografi ho conosciuto tanti giovani animati da una passione,
se non politica, di fare curiosità civile. Li ho visti partire per la Libia, la
Siria, con la volontà di raccontare quello che non viene raccontato, il problema
è che oggi un fotogiornalista freelance è pagato molto meno di una
volta ed ha in compenso una concorrenza spietata di immagini da telefonino
di scadentissima qualità a cui noi ci stiamo abituando. Questa concorrenza
allora Capa non l’aveva. Se oggi si prendono i quotidiani ci sono almeno due
o tre immagini che non sono di professionisti e c’è chi se ne approfitta.
Mi ha raccontato un editore tre giorni fa di un fotografo italiano che gli
ha portato delle immagini molto forti della Siria e nel momento in cui lui gli
ha chiesto l’alta risoluzione si è capito che le foto non erano sue, usava
scatti di stringer siriani che avevano tenuto gli originali e gli avevano dato
risoluzioni decenti per un giornale ma non buone per un libro. Quindi il problema
non è solo la concorrenza dello streetjournalist tempestivo che fa foto
di scarsa qualità, è che questi prodotti sono facilmente manipolabili, c’è
larga possibilità di falsificazione.
MD Ma poi sono sparite le agenzie, intese come cenacoli. Una volta le
agenzie erano fatte da persone che avevano idee comuni, che avevano voglia
di fare del giornalismo d’informazione, piccole agenzie che oggi sono state
rastrellate, ci sono proprio dei monopoli miliardari nei quali si sono perse le
personalità di fotografi con la tendenza anche a non firmare più i loro scatti,
in qualche modo americanizzando la stampa, perché invece in Europa la
fotografia è sempre stata firmata dagli autori.
MS Direi che è sbalorditiva la memoria e la grande quantità di esperienze
che entrambi avete vissuto e avete da condividere. Per concludere
vorrei chiedere se l’idea appena accennata nel libro di realizzare un volume
solo sul fotogiornalismo italiano è già in atto o è soltanto un’idea.
EG No, è stata un’idea tra le idee, ma ci sono già colleghi di Mario che
se ne stanno occupando.
MS Capisco. Allora se non ci sono domande dal pubblico, vi ringrazio
a nome della Galleria Centofiorini e di Civitanova Alta e invito tutti ad approfittare
della vostra presenza per farvi firmare le copie del vostro libro:
Mario Dondero, Emanuele Giordana, Lo scatto umano – viaggio nel fotogiornalismo
da Budapest a New York.
69/OMBRE
L'UOMO
È NATO PER
CONQUISTARE
A FATICA
OGNI
CENTIMETRO
DI TERRENO.
NATO
PER LOTTARE,
NATO
PER MORIRE
Charles Bukowski, Pulp
A TUTTO
SI ABITUA
QUEL
VIGLIACCO
CHE È
L'UOMO
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Delitto E Castigo
LORENZO CASTORE.
ESSENZIALE,
NOMADE, INTIMO
Paola Ranzini Pallavicini
Tuffarsi nell’instagram personale di un fotografo offre
spunti di riflessione inediti: ci si domanda inevitabilmente
quale sia, da parte di chi vive di fotografia,
l’approccio al social per eccellenza più
visivo. Come viene vissuto uno strumento del genere
da chi ha iniziato a fotografare ai tempi in cui,
per analizzare insieme delle immagini, ci si telefonava
per mettersi d’accordo ed incontrarsi, ad un
tavolo, fianco a fianco, con le pause sigaretta e
caffè e le bozze stampate su carta?
Scorrere i profili e inevitabilmente pensare: qui è il professionista che
sta presentando il suo ultimo libro; qui è in visita alla mostra di un collega e
ne è entusiasta; qui invece vuole fissare il momento per condividerlo con gli
amici, senza per forza trasformarlo in lavoro. Uno scorcio, lo sguardo di una
persona cara. Qui proprio non è lavoro, qui è vita privata che scorre, o potrebbe
diventarlo? Il fotografo in quel momento è totalmente disinteressato a
inquadrature e luci, o forse no? Magari non si scorda mai della tecnica ma
allo stesso tempo, come tutti, in certi momenti si forza di vivere. E ormai
vivere è anche postare.
Vivere con intensità, con consapevolezza è qualcosa che nel caso di
Lorenzo Castore traspare sempre in ogni passaggio, progetto, intervista. È
una sorta di precetto, un punto fermo dal quale è bene non scostarsi mai. La
curiosità nei confronti del genere umano è forse il motore più potente che
muove il suo percorso, infatti è un appassionato di biografie e colleziona da
anni foto di coppie a lui sconosciute.
Decifrare le vite degli altri attraverso piccoli segni invisibili, molto più
utili dei gesti eclatanti, è quasi un mantra. Ma leggere quella sostanza impalpabile
nelle storie altrui diventa prezioso per proseguire nel viaggio più
complesso dentro se stessi; una vera e propria materia di studio che viene
portata avanti dall’adolescenza e di cui ciclicamente dar conto, in cui il fotografo
fissa quel flusso di vita, quel percorso intimo necessario.
73/OMBRE
Lorenzo Castore è nato nel 1973 ed appartiene all’ultima generazione
di fotografi che ha potuto godere dell’era analogica ed iniziare sia a viaggiare
che a lavorare quando ancora i social non avevano il predominio nella
nostra quotidianità asettica, patinata.
Nel caso di Lorenzo i frequenti viaggi sono iniziati nei primissimi anni
di vita, durante i quali ha cambiato molte case con la madre, che lavorava
alla Valtur e doveva frequentemente spostarsi.
È figlio unico: questo influisce molto e non è detto che lo faccia negativamente;
non fa che aumentare il grado di curiosità nei confronti del mondo
esterno, e la brama di relazioni. Di sicuro è una condizione che alimenta la
voglia di uscire dal nido per buttarsi nella ricerca di altre anime affini. Porta
a dover affrontare lunghi pomeriggi da solo, a sviluppare la capacità di non
annoiarsi perché si è in grado di inventare un mondo da zero, e abitarlo.
Spostarsi così di frequente deve aver sicuramente determinato in lui
un concetto di casa ondivago, allargato, e il desiderio di indagare questo
tema scavandosi dentro, per approdare al forte sentimento di casa come
legame tra persone, fare dei legami il punto fermo per costruirsi un’identità,
senza sentirsi arginati da un luogo in particolare ma attribuendo ai luoghi il
ruolo di collanti di atmosfere.
Sono infatti gli incontri con le persone e con i luoghi in cui esse vivono
– degli innamoramenti - a determinare ciò che siamo, Lorenzo lo rimarca spesso
ed è un concetto talmente forte nella sua opera da risultare nitido non solo
nella produzione che attinge al personale ma anche nei progetti commissionati.
Ewa e Piotr, protagonisti di un importante progetto realizzato a Cracovia,
sono legati a stretto filo alla loro città, a quelle strade e a quelle stanze
polverose; le ragazze dell’Havana (dalla serie Paradiso ambientata a Cuba
74/OMBRE
e a Città del Messico a inizio duemila), senza i colori violenti delle case e
senza il mare negli occhi sarebbero altro. La vita dei minatori nella Sardegna
sud-occidentale è totalmente inzuppata nel nero denso in cui operano, così
forte da dare il nome ad uno dei suoi primi libri. E tuttavia tutte queste persone
riescono a diventare altro nel momento in cui attraverso lo scatto la
loro essenza viene tirata su a galla: le immagini si fanno universali e ci comunicano
qualcosa che ha il potere di far riflettere sul senso della memoria
e del tempo, su noi stessi.
Il tempo non è mai una linea retta, fa dei giri tortuosi e torna sempre
in un viaggio circolare, intrecciato e sinuoso per il mondo; per uscire e rientrare
da se stesso molteplici volte occorre saper prestare attenzione ai
segnali che si raccolgono lungo il tragitto, occupandosi di storie altrui e
della propria e compenetrando continuamente i due bisogni. Questo sa
bene raccontarlo Castore, durante il bel dialogo con Simona Ghizzoni a
Fondazione Forma, dal significativo titolo Self-portrait as Myself.
“PARLARE DEGLI ALTRI CON LA STES-
SA CURA CHE VORRESTI FOSSE USA-
TA PER PARLARE DI TE STESSO”
in un lavoro di analisi che dura anni e che viene definito da Lorenzo “flusso
di coscienza”.
Firenze, Roma e New York sono solo i primi domicili di Castore: se Roma
è legata agli studi in giurisprudenza e ai primi servizi fotografici, è a New York
che inizia a girare per strada accompagnandosi ad
una macchina fotografica per fissare ciò che vede, e
si rende conto in maniera nitida di cosa significhi
rincorrere (fisicamente) qualcuno, qualcosa per cogliere
l’invisibile.
A Firenze, dove da ragazzo tornava abitualmente
per ricongiungersi al resto della famiglia,
durante il solito girovagare si imbatte del tutto casualmente
nella mostra Exils di Josef Koudelka.
Questa esperienza aprirà una sorta di varco, una
coscienza tutta nuova in lui, insieme al fondamentale
viaggio in India dello stesso periodo, con gli amici
del cuore: un’apertura unica e abbagliante di un
certo tipo di sguardo. Lorenzo torna spesso a riflettere
su questa epifania, consapevole che l’india ha
sbloccato in lui un nodo importante di consapevolezza;
l’elenco dei viaggi che si srotolerà di lì in poi
è da fare invidia alla stragrande maggioranza di noi.
«È STATA LA PRIMA CONCRETA
E DECISIVA ESPERIENZA DEI
LIMITI DEL CONTROLLO E
DEL PENSIERO RAZIONALE.
75/OMBRE
NON ERA POSSIBILE CONTINUARE
A FARE RESISTENZA.
CON LA TESTA SI ARRIVA FINO
A UN CERTO PUNTO, POI LE COSE
SEMPLICEMENTE ACCADONO
E NON È LA VOLONTÀ L’UNICO FATTORE
CHE LE MUOVE. È STATO UN PUNTO
DI SVOLTA. NELLA VITA DI TUTTI
CI SONO QUESTI MOMENTI CRUCIALI
DI PASSAGGIO DA UN’ETÀ ALL’ALTRA.»
Da una conversazione con Valeria Moreschi, 2018
Inizialmente si tratta di esperienze in paesi segnati dalla guerra, come
Albania e Kosovo, che gli fanno capire molto di se stesso ma soprattutto che
la strada del fotogiornalismo puro non gli si addice; poi lo spostamento in
Polonia, alla ricerca di una scia ben precisa, quella lasciata da vicende antiche
che con il loro potere devastante hanno impresso traccia
indelebile sulla storia. Ancora il connubio tra universale
e intimo che ritorna, tanto da spingerlo a fermarsi a vivere a
Gliwice (la città dalla quale partì l’inizio della Seconda Guerra
Mondiale) per due anni e dare così un’impronta definitiva
al suo modo di essere, non solo di scattare.
Di lì in poi Castore cerca di far convivere commesse
ufficiali (da parte di studi di architettura e realtà industriali),
insegnamento (all’interno dei workshop che porta avanti costantemente
negli anni) e ricerca personale, che resta il motore
principe delle sue giornate e che culmina - anche con
pause di anni - nel libro finito, il mezzo forse più amato da lui
per veicolare il proprio vissuto e renderlo accessibile a tutti, in parallelo con
l’allestimento di mostre-installazioni, imprescindibili.
La forza del libro sta tutta nel mettere un punto fermo, faticoso emotivamente
perché concludere ricerche di anni è sempre complesso, e allo
stesso tempo aiutare il lettore a non sentirsi vincolato da date ben precise:
un libro è per sempre e sta a noi capire quando è il momento di aprirlo. Ci
aspetta paziente.
Sono molte le letture che hanno segnato la crescita interiore di Castore,
che è un appassionato di letteratura prima ancora che di fotografia. Curiosando
tra le sue scelte, sia letterarie che estetiche, salta all'occhio che
in un libro egli cerchi compagni di viaggio più esperti e illuminati che possano
in qualche modo indicare alcune delle possibili strade, e tenere compagnia
nei momenti in cui è necessario stare da soli a fare i conti con noi
stessi. In questo senso la letteratura sa essere una grande amica, e le immagini
che si vengono a creare dietro alla retina quando si viene assorbiti
dalle pagine assomigliano molto a certe visioni di Lorenzo, offuscate, spes-
76/OMBRE
so in bianco e nero come molti sogni, sfuggenti, restie ad essere inquadrate
da un’angolazione scontata.
Ottocento e contemporaneità si mischiano, la cultura dell’est Europa,
russa va a unirsi con l’America più vivida, perché è così che succede sempre,
nella vita vera. Dostoevskij, Florenskij, Camus, Sebald, Joseph Roth, Benjamin,
Mann, Guenon, Miller, Capote, Bolano…
Il linguaggio cinematografico è un altro grande amore di Lorenzo, che
si è accostato più di recente, con cautela e introspezione, a questa strada,
utile al fine di trasmettere storie a partire da immagini. La cinepresa gli
permette di esplorare il territorio del sonoro, e di amplificare gli appunti
presi in precedenza attraverso gli scatti, completandoli.
Il suo primo cortometraggio, No Peace Without War, è del 2012 ed è
stato girato e diretto a quattro mani con Adam Grossman Cohen. Nel 2014
si dedica al secondo cortometraggio, Casarola, costruito sull’immaginario
nato dal visitare la casa dei Bertolucci nei pressi di Parma. W invece è del
77/OMBRE
2022: una creatura ibrida liberamente ispirata a La morte a Venezia di
Thomas Mann.
È plausibile pensare che l’immagine in movimento affascini Castore
perché gli permette di esplorare la terza dimensione; staccandosi dalla bidimensionalità
della fotografia asseconda la sua naturale inclinazione ad
indagare la relazione tra i suoi soggetti e lo spazio, case e città, attraverso
la ripresa e il montaggio. Il mosso tanto caro mentre scatta si fa reale, rapido,
veloce.
È sempre stato infatti vivo in lui l’impulso - anche un po’ ossessivo - di
leggere le storie quotidiane della gente in relazione continua con gli spazi
occupati dai corpi. L’indagare sulle case di chi non c’è più, o di chi ancora vi
risiede ma convive con il rimbombare delle storie già vissute da altri. Questo
deve aver molto a che vedere con le abitudini nomadi del fotografo, abituato
a riconoscere il senso di appartenenza a qualcosa attraverso il legame con
le persone care, piuttosto che una fissa dimora.
Ultimo domicilio (lavoro costantemente in progress) è il progetto che
più rappresenta questo concetto: opere di grande formato (spesso polittici)
ognuna incentrata su di una abitazione ben precisa; inizia a prendere forma
nel 2008 con un viaggio a Sarajevo e Mostar, durante il quale Castore scatta
all’interno di abitazioni abbandonate durante la guerra, congelate nell’attimo
in cui i loro abitanti hanno preso la fuga, abbandonando i loro oggetti,
i loro ricordi, fino a svilupparsi negli anni in un progetto che coinvolge oltre
alle case della guerra anche la casa della storia (Finale Ligure), la casa
della giovinezza e della poesia (Casarola), la casa della ricerca della figura
paterna (Brooklyn), la casa materna (Fontenay Mauvoisin) e la casa di un
nuovo inizio (Cracovia, prima vera casa appartenuta al fotografo).
Il volume (L’Artiere Editore, 2015) è una delle più poetiche e toccanti
strade espressive sulle quali si è incamminato Lorenzo, una strada che permette
al fotografo di approfondire le tematiche della storia personale che è
sempre in qualche modo collegata alla Storia con la s maiuscola, dell’identità
e dello spazio necessario per creare delle individualità. Lorenzo ci spiega
qualcosa di molto utile alla comprensione del suo modo di mettersi in
gioco nel lavoro e nella ricerca, una modalità interiorizzata negli anni:
«OGNI CASA RAPPRESENTA IL
COMPLESSO MONDO INTERIORE
DI CHI L’HA ABITATA CERTAMENTE LEGATO
ALLA MIA ESPERIENZA MA ANCHE
A UNA PIÙ VASTA, COLLETTIVA. PARLANO
DI UN PASSAGGIO, DI INTIMITÀ
E DI UN TERRITORIO COMUNE. SONO
MAPPE DI UN ATLANTE DOMESTICO
OCCIDENTALE. IL MODO IN CUI QUESTO
LAVORO È STRUTTURATO È
ESTREMAMENTE PERSONALE:
79/OMBRE
SCATURISCE DALLE COINCIDENZE,
DALL’IDENTIFICAZIONE E
DALL’IMMAGINAZIONE E CREA
CORRISPONDENZE CHE SONO
ARBITRARIE E STRUTTURATE
ALLO STESSO TEMPO.»
Ma non è certo l’unico lavoro che segue questa rotta: Ewa & Piotr – Si
vis pacem, para bellum, uscito con Les Editions Noir sur Blanc nel 2018, è il
frutto di un lavoro durato diversi anni e portato avanti a Cracovia con sempre
più partecipazione emotiva grazie alla conoscenza che Lorenzo fa con una
coppia di signori, fratello e sorella, durante gli anni vissuti in quella città,
dove tra l’altro diventa proprietario di una casa per la prima volta nella sua
vita, quindi anche in un momento importante di centratura, di riflessione.
Nel quartiere di Podgórze Lorenzo fa per strada la conoscenza casuale
di Ewa Sosnowski, discendente da una famiglia nobile, decaduta, e poi
entra nelle stanze in cui si è ritirata dalla vita insieme al fratello Piotr con
cui condivide una complessa quotidianità in uno spazio domestico specchio
della loro condizione disagiata ed estrema. Il lavoro è un viaggio nel tempo,
l’età dell’oro fotografata dal padre quando Ewa e Piotr erano bambini e l’epoca
attuale così scura e decadente.
LA VITA È DAVVERO UNA COSA
MERAVIGLIOSA NON PERCHÉ È BELLA
(QUANDO LO È) MA PERCHÉ È UN
MISTERO DAL QUALE - SE TI VA BENE -
INASPETTATAMENTE EMERGONO
LAMPI DI RIVELAZIONE.
da un’intervista a Lorenzo Castore del 2015 su www.phom.it
Per quanto concerne la relazione con lo spazio, le più grandi influenze
di Castore arrivano dall’amato Koudelka, da Eugène Atget, da Gabriele
Basilico. Nel girare Casarola ha modo di avvicinarsi all’immaginario poetico
di Bernardo Bertolucci (da questo lavoro nascerà una profonda amicizia) e
di approfondire la sua figura e l’influenza dei luoghi della sua infanzia nello
sviluppo della sua visione e della sua poetica, e viene spontaneo notare che
nel famoso regista, anche lui guarda caso ossessionato dalle case della
gente, ci sia un impulso molto simile a rendere pittoricamente le energie che
hanno impregnato certi luoghi nei decenni, se non nei secoli.
In questo senso Lorenzo è un ragazzo del novecento, che sicuramente
riesce a gestire la realtà altamente virtuale di oggi grazie all’empatia innata,
ma che non corre il rischio di farsi assorbire dalla dispersione di energie
della vita social, perché saldamente ancorato a una visione d’autore molto
solida nonostante il peregrinare e nonostante non tema la sperimentazione
80/OMBRE
visiva. C’è un progetto grande dietro al suo lavoro che è
mosso da bisogni molto radicati, tipico di una forma mentis
novecentesca, estranea alle nuove generazioni che
hanno una lettura della realtà frammentata.
Gli anni più recenti vedono Castore concentrarsi
su progetti sempre più specifici e nei quali si alza la
posta in termini di intensità e accuratezza, ma non viene
abbandonata la naturalezza dello sguardo.
Dal 2011 al 2018 segue da vicino una piccola comunità
di travestiti a Catania, nel quartiere San Berillo,
che culmina con la realizzazione del catalogo Glitter
Blues (Blow Up Press, 2021).
Anche in questo caso l’interesse è rivolto a dare
testimonianza della vita all’interno di quelle strade, di
quegli spazi racchiusi, esposti e intimi al tempo stesso,
l’energia che scaturisce dalle relazioni tra quei volti in
quei luoghi, con tutto il carico emotivo che questo comporta:
un dialogo tra criminalità, religione, accettazione
di sè, miseria, ricerca di normalità.
Land (anche questo edito da Blow Up Press, 2019)
esplora e interiorizza la Slesia, una regione industriale
a forte caratterizzazione mineraria, un luogo molto caro
a Castore, che qui sente di essere diventato un uomo e comprende che può
servirsi della fotografia documentaria in modo diverso. Il lavoro parte dal
periodo 1999-2001 fino ad approdare all’incarico del 2018, da parte del
Museo di Gliwice, città con una tradizione fotografica radicatissima in Polonia.
Land ci racconta di come questa sua terra d’elezione sia cambiata e si
sia trasformata con lui.
Il minatore è sempre stato una figura della mitologia personale di Lorenzo,
che lo definisce come “l’uomo che va sotto terra con una luce sulla
testa e scava nel buio”. Il fotografo è da sempre appassionato al suo lavorare
in gruppo, perché solo in gruppo è in grado di intraprendere pericolose imprese.
L’aiuto reciproco, la paura e il coraggio; il rispetto, il mettersi a servizio.
La Slesia è un luogo apparentemente ostile sia per la sua storia pesante, sia
per la lingua straniera, eppure lo attrae e sa insegnargli moltissimo. Il ritmo
di quei luoghi è lento, attutito e fa da eco, da cassa di risonanza ai pensieri
che a poco a poco lo trasformano, contribuiscono a costruire la sua storia.
Slesia, New York e India sono tutti luoghi che, destino o coincidenza,
accomunano il percorso di Castore a quello di Michael Ackerman, che insieme
a Anders Petersen diventa per lui non solo un esempio, ma anche un
amico con il quale condividere tante affinità. Avere l’opportunità di frequentare
fotografi più esperti, che semplicemente sono arrivati prima di lui nel
percorso, è mille volte più emozionante e costruttivo di ispirarsi a qualcosa
di astratto.
“Negli anni precedenti i miei maestri erano tutti nei libri e quindi distanti,
era il loro lavoro che mi parlava ed è probabilmente la cosa più importante;
poi ho avuto la fortuna di entrare in contatto con alcuni di quelli
81/OMBRE
che mi hanno ispirato, emozionato, aperto il cuore e la mente e ne ho ammirato
la vitalità incandescente insieme alle debolezze e alle contraddizioni;
questo mi ha scaldato dentro e mi ha dato fiducia perché lì ho visto l’origine
della bellezza.”
Castore ama tornare spesso nei luoghi che ha amato: non può fare a
meno di correre a New York subito dopo l’accaduto delle torri gemelle, e gli
scatti di Ground Zero gli varranno l’esperienza lavorativa in Grazia Neri; anni
dopo ritorna in India, paese che ha visto la sua epifania, e dove ha lasciato
la parte di sé più idealista.
Nel suo instagram risuonano le atmosfere di tanti posti affacciati sul
mare, pieni di vento e di profondità, ma il fotografo pare amare con la stessa
intensità le periferie monocromatiche, che soddisfano la voglia di una vita
impregnata di odori e sovrapposizioni, il desiderio punk di inquadrature slabbrate,
violente, contrastanti.
82/OMBRE
Cerca sempre nei suoi scatti, anche in quelli più luminosi e ottimisti,
una tensione, un contrasto forte dato dalla luce, da un corpo bello in una
strada brutta, da un libro antico in mezzo allo sporco. Un animale selvatico
con la dolcezza negli occhi; un incontro tra due persone vissute agli antipodi.
Gli oggetti sono sempre tanti, e spesso ammassati, come nelle case dove
si è sempre vissuto tanta vita stratificata, e le tappezzerie sono consumate.
Il fogliame è sempre fitto, e depositario di ombre pesanti. Gli sguardi sono
obliqui. Dalle finestre filtra quella luce cinematografica che probabilmente
Lorenzo ha interiorizzato dai film novecenteschi. Il tempo delle sue foto è
sempre sospeso, muto ma urlante, di riflessione dopo azioni coraggiose o
semplicemente sbagliate o di lavoro quotidiano.
Le persone stesse sono sovrapposte, attaccate tra loro, incollate, oppure
sono solitarie e in quei casi si può quasi percepire fisicamente un’assenza
dolorosa.
83/OMBRE
“UNO STRUMENTO PER CONOSCERE
ME STESSO E GLI ALTRI E PROVARE
AD INTUIRE L’INSONDABILE, PER STARE
NELLA REALTÀ MA ALLO STESSO TEMPO
IN UN MONDO TUTTO MIO, PER PORMI
E PORRE DOMANDE, PER COMBATTERE
DEMONI PRIVATI, PER RICREARE
LA TENSIONE TRA GLI OPPOSTI CHE
CI GOVERNANO E CHE AD UN CERTO
PUNTO – ALL’IMPROVVISO – PORTANO
AD UNA RIVELAZIONE.”
The Mammoth’s Reflex, 2014
È stato detto che la fotografia di Castore non è facilmente incasellabile
anche se è ben riconoscibile, e sicuramente questa resta una definizione
precisa e pertinente del suo lavoro, attraverso il quale l’autore cerca di
stimolare se stesso e chi guarda anteponendo il contenuto e l’energia della
sua ricerca a una forma sempre troppo e banalmente riconoscibile che rischia
di diventare caricaturale e inutilmente rassicurante, e al tempo stesso
un obiettivo che dovremmo darci in tanti mentre ci accostiamo ad una
carriera creativa.
La forza che ha acquisito la sua fotografia è quella della consapevolezza
del dopo, della rielaborazione, dell’editing, di tutto ciò che viene oltre
lo scatto. Il saper costruire una selezione e una sequenza sia emozionale che
storica, senza cadere nel didascalico.
Lorenzo è molto sensibile all’impaginazione dei suoi scatti, ritenendo
il contenuto importante quanto il contenitore, cercando di trovare l’equilibrio
tra i due senza indulgere ad un’estetica fine a se stessa. Ma è sensibile e
attento alla veste di libri e mostre perché riconosce per prima cosa l’importanza
assoluta dei pieni e dei vuoti, del bianco e del nero, dei pesi da bilanciare,
e poi perché ha un occhio cinematografico che sa suggerire al “lettore”
cosa è venuto prima, cosa forse accadrà dopo.
Questo nasce probabilmente dalle lunghe attese e dai silenzi a cui la
fotografia lo ha per natura portato. Le pause di sospensione sono tutto, in un
brano musicale così come nel dialogo di un romanzo; in uno scatto è tutto
molto sintetizzato ma l’insieme di molteplici scatti è la storia mai scontata
che ci deve arrivare, e questa arte la si impara con la sottrazione continua,
la rielaborazione, i tempi morti che nella vita di tutti i giorni esistono, eccome,
anche se ultimamente siamo tutti sempre più portati a cercare di riempirli
in modo compulsivo, sfogliando le vite degli sconosciuti su di uno
schermo, ascoltando stories, podcast quando va bene.
Questo è un utilizzo passivo del nostro tempo, si viene inghiottiti, ci si
sazia di immagini e voci in modo bulimico. Inconsciamente, non facciamo
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85/PAGINE
altro che rielaborare di continuo la sequenza infinita di informazioni visive
e sonore che riceviamo proiettate sulla retina in un flusso costante.
Lorenzo da l’impressione di saper ancora apprezzare molto le lunghe
pause, il vuoto attorno, la vita sotterranea, nascosta, e il suo mistero insieme
allo stupore che può generare.
TIME MAZE è un progetto sentito e intimo, che Castore porta avanti
da anni e che si è fatto sempre più strutturato, valorizzato dal designer olistico
Eloi Gimeno e suddiviso in volumi legati a archi temporali, scanditi da
una cronologia legata a fasi di crescita e circostanze della vita, editi da
L’Artiere. Un lavoro ad immagini che ha una valenza letteraria, e attraverso
il quale si avverte la necessità impellente di indagare lo srotolarsi mai lineare
del tempo.
È nel 2011 che l’autore decide di dare un ordine al suo percorso tenendone
traccia attraverso questi volumi, questo gli permette di acquisire una
nuova consapevolezza del suo lavoro, di prendere distanza, in un certo senso
riuscire a congedarsi da situazioni e stati d’animo, affrontando la sua
storia ad immagini e dando un ordine personale a tutto. Come se TIME MAZE
fosse una sorta di alfabeto Castore.
La primissima foto di TIME MAZE è un autoritratto del 1994, il suo
primo in assoluto, che lo ritrae in un bosco del Montana: è talmente evocativo
dello stato d’animo di ricerca ardente e spaesamento dell’autore, sentimenti
così complementari in lui all’epoca.
Le copertine di Gimeno, in bianco e nero, sono concepite sul concetto
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che il tempo non costituisce una linea retta, ma labirintica, ed è sulla base
di questo che Lorenzo effettua la selezione e gli accostamenti, senza ulteriori
regole su foliazione e lunghezza di ciascun periodo considerato.
Nel 2019 viene pubblicato il primo volume dal titolo 1994-2001 | A BE-
GINNING, nel 2022 il secondo volume 2001-2007 | LACK & LONGING, il terzo
è 2007-2012 | CRACKS, e così via: non un diario, ma una vera e propria autobiografia
di stampo letterario, e dunque totalmente, felicemente soggettiva.
Attualmente Lorenzo sta accompagnando fuori nel mondo il suo ultimo
progetto, Séte, del 2023.
Il libro è edito da Le Bec en lair, la mostra è partita da Sète, in Occitania,
per arrivare ad Arles questa estate.
ImageSingulières è un festival di fotografia documentaristica che ogni
anno (questa è stata la quindicesima e ultima edizione) sceglie un fotografo
per una full immersion di circa due mesi durante i quali l’artista selezionato
deve unicamente concentrarsi in tutta libertà espressiva per scattare sul
territorio di Sète. Quest’anno è toccato a Castore esplorare la città e oltrepassare
la soglia delle abitazioni dei suoi abitanti, tenendo traccia - a volte
in bianco e nero, a volte spezzando con il colore come è sua consuetudine
- della bellezza sfaccettata di ciascuno di loro.
Abbiamo chiesto al fotografo di raccontarci le sensazioni raccolte in
questa recente esperienza, e come ha approcciato questo tipo di ricerca,
consapevole che ogni anno un artista si ritrova nello stesso posto come lui,
e che la ricchezza di tutti questi sguardi in sequenza, anno dopo anno, è essa
stessa un messaggio fortissimo.
LC Le residenze hanno particolarità molto specifiche e sono un modo
di lavorare che mi interessa molto. Ci sono degli aspetti che mi agitano ma
che in fin dei conti mi stimolano, su tutti il fatto che c’è una scadenza entro
la quale il lavoro deve essere portato a termine. Un’altra caratteristica interessante
è che le residenze, seppure dando totale libertà espressiva e di
scelta di direzione, sono pur sempre una commissione… ma l’unica commissione
che assimilo al lavoro personale. A parte possibili eventuali eccezioni
(ma che fino ad oggi non si sono mai verificate) non uso immagini che ho realizzato
per lavori commissionati all’interno del corpo di lavoro personale, con
appunto l’eccezione delle residenze. Una specie di regola che ho è che non
accetto una residenza se non ho più o meno in mente come vorrei realizzare
il lavoro. Mi fa sentire a disagio lavorare su una commissione facendo solo me
stesso in modo turistico, contando sulla possibile ispirazione che il luogo in
cui sono invitato mi dovrebbe dare. L’ispirazione e la forza di un lavoro può
aver bisogno di molto più tempo del mese che di solito è il tempo che si ha in
residenza che nonostante tutto è un tempo generoso, ma se è giusto o poco è
difficile dirlo all’inizio. Quindi quello che cerco di fare ha a che fare con il mio
approccio ai luoghi e alle persone che lo abitano: in poche parole prendo la
residenza alla lettera, cerco di diventare un residente, cerco di entrare in
relazione dal di dentro e non da turista. Ogni volta in modo diverso, adattandomi
a quello che trovo e a come mi sento in quel momento, come sempre.
87/OMBRE
Nelle pagine precedenti
un minuscolo assaggio del
mondo di Lorenzo Castore.
In questa doppia pagina
alcuni scatti tratti dal suo
ultimo progetto Sète#23,
mostra e catalogo
LA TENSIONE TRA GLI OPPOSTI È
CERTAMENTE QUELLO CHE MI ATTRAE
E INTERESSA DI PIÙ, È LA FONTE DEL
MISTERO DELL’ESISTERE E CERCARE
DI FARLO NEL MODO PIÙ ORIGINALE
(NON STRANO O FORZATAMENTE
ECCENTRICO, MA PERSONALE) POSSIBILE
– E NEL PRESENTE – CREDO SIA IL
COMPITO PIÙ IMPORTANTE, DIFFICILE,
DOLOROSO ED INSIEME ESALTANTE
DELLA VITA DI OGNI ESSERE UMANO.
SICURAMENTE DELLA MIA.
Da Present Tense, 2015
www.lorenzocastore.com
www.instagram.com/lorenzocastore
89/OMBRE
IL POTERE DEL
CANE E STONER:
DUE MODELLI
DI MASCOLINITÀ
OLTRE GLI
STEREOTIPI
90/PAGINE
Chiara Riva
La quarta di copertina del Potere del cane di Thomas
Savage (edizione Neri Pozza 2017, traduzione di Luisa
Corbetta) recita, dalla prima riga: “È una storia di quelle
che piaceranno a chi ha divorato Stoner”.
Al di là dell’esigenza di marketing di richiamare
l’attenzione di un pubblico potenzialmente interessato
a un certo genere di narrativa, questa affermazione mi
ha spiazzato. In prima battuta, perché Stoner di John
Williams è un romanzo che effettivamente mi è piaciuto
moltissimo, e in seconda perché, pur cogliendo di sot-
91/PAGINE
IL SUO ATTEGGIAMENTO,
LO SCOPRIAMO MAN
MANO NELLA LETTURA,
È UN MODO PER
PRESERVARE IL MONDO
COM’ERA PRIMA, PER
POTERLO CONGELARE.
tofondo un’affinità, mi domandavo che cosa mai accomunasse questi due
libri così diversi, un western atipico con una storia di omosessualità repressa
nel West degli anni Venti, e una altrettanto atipica “campus novel” sulla
vita di un ordinario professore dell’Università del Missouri dal 1891 al 1956.
Ci ho riflettuto, e alla fine, credo, un fil rouge l’ho individuato, nella
matassa aggrovigliata dei vari temi dei due romanzi.
Partendo dai dati formali, le due opere hanno una simile storia editoriale,
nel senso che, scritti entrambi nella seconda metà degli anni Sessanta,
non hanno inizialmente trovato fortuna presso il pubblico. Si tratta di due
recuperi, riscoperti negli anni Duemila, e rilanciati in Italia rispettivamente
da Neri Pozza e Fazi (e, nel caso del Potere del cane, anche con il traino
dell’omonimo film di Jane Campion con Benedict Cumberbatch e Kirsten
Dunst vincitore dell’Oscar per la miglior regia nel 2022).
Già questo dato è interessante; capita che romanzi che in America non
hanno incontrato i favori, se non della critica, dei lettori, siano stati successivamente
“scoperti” in Europa e la fortuna esplosa nel Vecchio continente
abbia fatto da propulsore poi alle vendite internazionali nel resto del mondo.
È proprio grazie a questo meccanismo che
i romanzi oggetto di questa recensione, dal
dimenticatoio dove giacevano, sono diventati
dei veri casi letterari internazionali.
Viene da domandarsi: questione di sensibilità?
A questo proposito è curiosa ma appropriata
la riflessione della scrittrice statunitense
Sylvia Brownrigg che afferma, a
proposito di Stoner: “Il protagonista stesso
sembra molto più inglese o europeo: spento,
fondamentalmente modesto e passivo…
Forse lo scarso successo del romanzo negli
Stati Uniti si deve al fatto che non sembra "uno-di-noi". Siamo un paese di
massimalisti chiassosi” 1 . Per quanto riguarda Il potere del cane, con un’ambientazione
molto più iconicamente americana, il motivo del suo scarso successo
iniziale si può ricercare nella tematica dell’omosessualità che all’epoca
era ancora considerata “scomoda” e imbarazzante soprattutto se
confrontata con il modello di virilità western allora propagandato.
Nel Potere del cane Thomas Savage pesca a piene mani dalla sua
autobiografia: nato nel 1915, cresciuto dalla madre e dal patrigno, entrambi
ricchi e influenti allevatori, è originario dell’Ovest ma nel corso della sua vita
vivrà anche a Est. Prima di diventare scrittore svolge lavori umili, come il
cowboy e il mandriano. Si scopre omosessuale da sposato. Lui il Montana lo
conosce bene. È il luogo della sua infanzia e della sua giovinezza e in particolare,
come scrive Annie Proulx nella prefazione al romanzo, quello dove
1 https://www.ilpost.it/2015/12/29/stoner-john-williams/
92/PAGINE
viveva era “un angolo del Montana ormai scomparso, selvaggio, aspro, maschile,
ancora vicino all’epoca dei pionieri” e lì la gente “ricordava ancora i
campi aperti dove pascolava il bestiame, gli scontri con gli indiani”.
Tutto questo c’è e non c’è nel romanzo.
C’è l’ambiente selvatico, brullo, ostile, spazzato da un vento costante
che fischia estate e inverno sotto il cielo che è una “volta vuota” e in poco
tempo ricopre di polvere ogni cosa; c’è la mascolinità, che però, come vedremo,
in fondo è solo apparenza e nasconde le fragilità del protagonista come
dei suoi mandriani, giovani che si aggrappano ai ricordi di casa per affrontare
“un mondo vasto e ostile” e un lavoro che offre poche prospettive. Non ci
sono più invece gli scontri con gli indiani, ormai tutti confinati nelle riserve:
al loro posto, se non proprio paria, certo osteggiati e disprezzati dai grandi
latifondisti, sono arrivati all’Ovest agricoltori norvegesi, svedesi, austriaci
ingannati da “volantini colorati delle ferrovie” e ritrovatisi con un pugno di
terra arida da coltivare. In compenso iniziano a esserci più automobili che
cavalli, si insinua strisciante il merchandising dei cataloghi con prodotti
firmati per i lavoratori dei ranch e le stelle del cinema si sostituiscono al mito
dei cowboy; quelli veri di una volta ormai sono solo un ricordo passato.
Il mondo dell’Ovest sta cambiando in fretta, e a scanso di equivoci
Thomas Savage mette in bocca questa battuta sarcastica al personaggio di
un commesso viaggiatore: “Sembra proprio il Selvaggio West”. Un confronto
impietoso tra il mito della frontiera e quello che di quel mito rimane.
Il protagonista Phil Burbank (figura ispirata a un parente dell’autore)
è il principale antagonista a questo cambiamento sociale ed epocale.
Proprietario di un esteso ranch insieme al fratello George, si occupa
dell’aspetto pratico nel mandare avanti la proprietà: le bestie e tutte le attività
collegate e la gestione dei mandriani. Al fratello spetta invece la parte
finanziaria. Al di là di questa divisione di ruoli, i due vengono definiti come
un unico gemello, complementari tra loro, in qualche modo non separabili.
Phil, si può dire che sia l’incarnazione del mito del cowboy: aspetto
adolescente nonostante i quarant’anni, dotato di una singolare abilità per
qualsiasi attività “da rancher”, ammirato e rispettato dai lavoratori alle sue
dipendenze, anche perché si pone al loro stesso livello. Oltre a ciò ha una
mente acuta, è laureato, è un fine lettore e suonatore ed è provvisto di una
sensibilità non comune che, tra l’altro, gli fa scorgere nella Natura ciò che
gli altri non vedono. Un concentrato di caratteristiche eccezionali tanto
quanto George appare lento, grosso, senza particolari interessi, il campione
della medietà.
Però Phil appare da subito come un personaggio antipatico e cattivo;
alle sue doti si accompagnano un atteggiamento razzista, misogino e derisorio
nei confronti delle fragilità altrui. La sua mascolinità è ostentata, ogni
minima comodità che non sia strettamente necessaria è da lui bollata come
“roba da femminucce”. Il suo atteggiamento, lo scopriamo man mano nella
lettura, è un modo per preservare il mondo com’era prima, per poterlo congelare.
Phil è un uomo che – si capisce – vive nel mito di un mondo passato
dove i cowboy erano veri uomini e non ragazzi come i suoi braccianti che a
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fare i cowboy ci giocano, con ingenuità e un fondo di disperazione. Soprattutto
vive nel mito di uno di questi cowboy eccezionali, Bronco Henry, figura
sempre citata nei suoi racconti, suo mentore e, come verrà rivelato nel finale
del libro, oggetto della sua passione giovanile, accuratamente repressa e
controllata dopo la sua morte.
L’equilibrio che Phil si è costruito con questo modo di fare entra in
crisi nel momento in cui nella sua proprietà arriva Rose. Rose, che è la vedova
di un onesto medico morto suicida proprio a seguito di un umiliante
affronto di Phil, casualmente conosce George e ne diventa la moglie. Benché
non abbia alcun tipo di pretesa sui fratelli Burbank e non sia certo un’arrampicatrice
sociale, Rose incontra subito la manifesta ostilità di Phil e di fronte
ai suoi reiterati silenzi, al suo rifiuto di comunicazione e al suo atteggiamento
derisorio incomincia a bere.
La sua figura è il contraltare femminile a Phil. Tanto lui oppone al
mondo – che “ha iniziato a odiare prima che il mondo odiasse lui” – un’immagine
di forza e virilità, tanto lei indossa una maschera, esattamente come
indossa gli abiti acquistati nei negozi alla moda: quella della nuova padrona
del ranch più esteso della valle, mentre nel segreto della sua camera cede
totalmente alle sue insicurezze.
L’epilogo a questo punto potrebbe sembrare scontato, se non fosse per
l’arrivo di un altro personaggio che la storia aveva già introdotto: si tratta di
Peter, il figlio di Rose, un ragazzo la cui grande intelligenza è pari all’introversione,
fin da piccolo deriso per i suoi modi di fare effeminati. Peter, che
dal padre ha ereditato la passione per la medicina ma non la fragilità di
carattere, sembra non reagire neppure davanti ai fischi dei mandriani che lo
prendono in giro, aizzati da Phil, e passa avanti incurante con quei suoi “occhi
inespressivi che vedono tutto e niente”.
Peter si accorge che la madre beve di nascosto e capisce il motivo
della sua infelicità. Nello stesso tempo Phil si accorge che Peter è un ragazzo
che ha coraggio da vendere nonostante le apparenze, e decide di “usarlo”,
cercando di farselo amico, per far crollare definitivamente i nervi della madre.
Il ragazzo inizia a risvegliare in lui qualcosa di profondo e mai sopito e
la similitudine con l’amato Bronco Henry affiora quando anche Peter, come
il vecchio amante, si rivela l’unica altra persona in grado di distinguere in
una collina nei pressi del ranch l’immagine di un cane che corre; ma all’improvviso
Phil si ammala e muore in un breve arco di tempo. Ufficialmente a
causa di un’infezione da antrace, ma di fatto – colpo di scena – per mano di
Peter, che aveva utilizzato le sue conoscenze in medicina per infettarlo con
le pelli prelevate da un animale morto.
Phil, il cane predatore, in un tragico contrappasso dal sapore dantesco,
conclude così la sua esistenza da vittima.
Nel portare a compimento la sua vendetta, con effetti drammatici per
Phil ma salvifici per il matrimonio di Rose e George, Peter sembra aver esaudito
l’ultima raccomandazione del padre che, prima di uccidersi, lo aveva
ammonito di essere sempre gentile nella vita, intendendo con "gentilezza"
– una parola che ricorre più volte nel romanzo – la capacità di eliminare gli
ostacoli davanti alle persone a noi care. Il verso "Liberami dalla spada e dal
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potere del cane", che alla fine legge
dal testo della liturgia anglicana
Book of Common Prayer e che dà il
titolo al romanzo, è una preghiera
per se stesso a vivere libero dalle
costrizioni dell’invidia, della paura,
della gelosia, quei demoni interiori
che avevano reso Phil un represso.
Non siamo così lontani dalla
trattazione esplicita del tema
dell’omosessualità in opere come
Brokeback Mountain, ma per il racconto
del premio Pulitzer Annie
Proulx (nella raccolta Storie del
Wyoming/I. Distanza ravvicinata,
minimum fax 2019, traduzione di
Alessandra Sarchi), da cui Ang Lee
nel 2005 ricavò l’omonima trasposizione
cinematografica, bisogna
attendere ancora trent’anni. Intanto nel suo romanzo Thomas Savage ha
scardinato il mito della frontiera, ponendosi tra gli apripista per il filone dei
western crudi, tossici, assolutamente “non sentimentali” (i vari Cormack
McCarthy e Larry McMurtry e Philip Meyer), di pari passo con un cinema che
inizia a superare le regole del genere e in cui l’omoerotismo, se non è subito
palese, è comunque spesso presente in sottotraccia o attraverso riferimenti
e allusioni 2 . Sono arrivati i Sixties.
In questo senso il messaggio e il nuovo portato del Potere del cane, scritto
negli anni Sessanta, è arrivato forte e chiaro fino a noi, alla nostra sensibilità
moderna. Jane Campion, nel sceglierlo come soggetto per il suo film, si era
dichiarata affascinata dalla figura di Phil, così come il suo interprete, l’attore
inglese Benedict Cumberbacht, che lo ha descritto come “una figura poetica
complessa” e che sarebbe riduttivo definire solo come cattivo della storia.
Phil è infatti un cattivo che solo alla fine, negli ultimi momenti di vita, si
rivela per quello che è. Non lo possiamo giustificare, ma capire sì. È l’insegnamento
della Valle dell’Eden di John Steinbeck, storia di due fratelli – fratelli
come Caino e Abele, fratelli come il malvagio Phil e il buon George – e una riflessione
sul bene e sul male: più che chiedersi se la malvagità esiste, ha senso
domandarsi perché esista. È lo stesso Phil che, in una delle sue riflessioni, ce
lo dice: “come avviene con le corde di cuoio intrecciate, il carattere umano si
forma dalla combinazione di tanti fili, a volte con risultati positivi, altre deludenti”.
E dei due Phil sente di essere, nel profondo, il risultato deludente.
Da questo punto di vista, anche William Stoner è l’incarnazione della
vita da perdente.
2 https://www.quartopotere.com/archivio/articoli/incontri-e-reportage/reportage/articolo-185
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La storia di quest’uomo che è appropriato definire “grigio” è riuscita
però nel miracolo di finire in testa alle classifiche dei libri più venduti oggi:
ben diversa era stata la sua odissea verso la pubblicazione nei lontani anni
Sessanta, quando il manoscritto aveva ricevuto ottimi pareri da molti editori
accompagnati però da altrettanti cortesi rifiuti prima di ottenere l’agognata
pubblicazione e, nel giro di un anno, dopo un esiguo numero di copie
vendute, uscire rapidamente di catalogo.
La storia editoriale di Stoner è un miracolo, appunto, indice di alta letteratura.
L’unico che ci aveva visto giusto a quanto pare era proprio l’autore.
John Williams, infatti, anch’egli professore universitario di letteratura inglese
oltre che di scrittura creativa a Denver (ma le analogie con il suo personaggio
finiscono qui), in un carteggio con la sua agente si dimostrava consapevole
delle scarse prospettive commerciali dell’opera ma insisteva sul fatto
che, presentato nel modo giusto, il romanzo avrebbe potuto rivelare sorprese,
soprattutto in futuro. In qualche modo era stato un vero veggente!
Williams definisce Stoner “una specie di santo”, e forse è davvero una
definizione azzeccata per quest’uomo con una così forte etica del lavoro che
diventa la sua ragione di vita.
Tanto la trama del Potere del cane è articolata, quanto quella di Stoner
è riassunta, in poche righe, nel celebre incipit del romanzo: in buona sostanza,
William Stoner è un uomo nato nell’ultimo decennio dell’Ottocento in un
piccolo centro rurale del Mississippi, ha umili origini contadine, si iscrive
all’università di Agraria e, in un esame orale che viene descritto come una
rivelazione epifanica, scopre casualmente una grande passione per la letteratura,
diventando insegnante nella stessa università in cui ha studiato.
È un uomo fondamentalmente incorruttibile, lo dimostra una delle scene
clou del romanzo in cui si scontra con il capo del suo dipartimento intenzionato
a promuovere agli esami un suo protetto, un ragazzo in realtà totalmente
impreparato. Stoner non asseconda i favoritismi del collega, e tra i
due inizia così una “faida” accademica che gli bloccherà la carriera, in un
passo che per induzione assimila i meccanismi interni all’università a quelli
che regolano la società intera. Tuttavia Stoner non cercherà mai, se non
vendetta, almeno rivalsa: il suo atteggiamento resta improntato all’accettazione
delle conseguenze e piuttosto alla coerenza con le proprie convinzioni
di ciò che è giusto o meno fare. È anche per questo un uomo che rimane
fondamentalmente solo, tutta la vita. Resta un docente mediocre, e alla fine
pochi si ricorderanno di lui. La sua vita matrimoniale e familiare è un fallimento,
e anche l’intensa storia d’amore con un’ex allieva è destinata a restare
un bellissimo e distante ricordo. Eppure, l’esistenza – ripeto –, grigia
e fallimentare di quest’uomo viene elevata dalla scrittura e dall’introspezione
psicologica di Williams a rango di letteratura, il cui cuore specifico nel
romanzo è la coerenza morale, l’assoluta autoconsapevolezza del protagonista
che, una volta scoperto chi è, non deroga mai alla sua identità più
profonda, alla piega che ha fatto prendere alla sua vita.
Come emerge dall’intervista a Williams posta a prefazione del libro
nell’edizione Mondadori (2020, p. XV), Stoner incarna l’ideale classico – e
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IL SUO
VERO IO È
INVISIBILE A
TUTTI, UN
SANTUARIO
SEGRETO
COME LA
CAPANNA
TRA GLI
ALBERI
COSTRUITA
DA RAGAZZO
morente, parrebbe oggi – della persona istruita, che studia per il piacere
di studiare, che si nutre della conoscenza senza fini utilitaristici o
pratici, e ogni volta si meraviglia, con uno stupore genuino, di essa. E nel
finale del romanzo questo rapporto identitario emerge con particolare forza
nella scena in cui, in punto di morte, Stoner ha la percezione netta, nel venir
meno di tutti gli altri sensi, che una parte di sé sarebbe rimasta legata al libro
che aveva scritto tanti anni prima. E per un istante ci sembra quasi di sentirlo
questo legame, in un’altra, evanescente e avvolgente epifania.
Stoner e Phil, dai loro due diversissimi ambienti e dalle loro due diversissime
storie, rappresentano due tipi di mascolinità quasi agli antipodi, e
due differenti modi di rapportarsi con la propria identità e di relazionarsi con
il mondo: ma entrambi sono accomunati dal fatto di essere soli.
A differenza di Stoner, Phil sa chi è ma lo ha nascosto a se stesso e
agli altri, congelando la sua vera identità per paura del rifiuto della società.
Il suo vero io è invisibile a tutti, un santuario segreto come la capanna
tra gli alberi costruita da ragazzo con George e ora, col passare degli anni,
totalmente camuffata dalla vegetazione penetrata al suo interno e cresciuta
all’esterno, il suo nocciolo di purezza e innocenza, “l’unico posto al mondo
che appartenesse solo ed esclusivamente a lui”.
Stoner al contrario scopre se stesso con il passare degli anni (esattamente
come chiunque), rimanendo poi fedele alla propria essenza per tutta
la vita. Il suo sé gli si rivela progressivamente nella sequenza della sistemazione
dello studio: “Mentre sistemava la stanza, che lentamente cominciava
a prendere forma, si rese conto che per molti anni, senza neanche
accorgersene, come un segreto di cui vergognarsi, aveva nascosto un’immagine
dentro di sé. Un’immagine che sembrava alludere a un luogo, ma che in
realtà rappresentava lui. Era dunque se stesso che cercava di definire, via
via che sistemava lo studio” (Stoner, Mondadori 2020, traduzione di Stefano
Tummolini, p. 101).
Per lui la scoperta della propria identità non è traumatica, non è un
segreto da celare, ma una conquista, il suo amore per la letteratura e l’abbandono
delle origini contadine un motivo di orgoglio, non una colpa o qualcosa
di cui vergognarsi. Tuttavia anche Stoner, come Phil, è in cerca di un
riparo dalla società, dall’esterno che per carattere non sa affrontare di petto,
e quel riparo sono l’università e la letteratura, “rifugio dei diseredati del
mondo”, dove però riesce a trovare la serenità interiore e a tratti anche a
provare la vera felicità.
Ecco dunque fin dove ci ha condotto il fil rouge che abbiamo seguito
all’inizio di questa riflessione sui due romanzi: Thomas Savage e John Williams
hanno descritto sessant’anni fa, in parte probabilmente influenzati dal
proprio vissuto personale, due nuovi modelli di uomo, oltre gli stereotipi di
genere e alla ricerca, con risultati diversi, della propria identità.
Uomini più moderni, più complessi, più vicini alla nostra sensibilità.
Così in anticipo sui tempi che ce ne siamo accorti solo ora.
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Collage#1
98/PAGINE/note
1. Conversazioni su di me e tutto il resto, Woody Allen con Eric Lax 2. A proposito
di niente. Autobiografia, Woody Allen 3. Il “vizio assurdo”. Storia di Cesare
Pavese, Davide Lajolo 4. Quell'antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese, Lorenzo
Mondo 5. De Kooning. L'uomo l'artista, Mark Stevens - Annalyn Swan 6.
Chiamami col tuo nome, André Aciman 7. Cercami, André Aciman 8 Ogni storia
d'amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace, T. D. Max 9. Come
diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, David Lipsky 10. Lo
chiamavano “il Prete”. La vita e l'eredità di William S. Burroughs, Graham
Caveney 11. A Love Supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane. Ashley
Kahn 12. Blue Trane. La vita e la musica di John Coltrane, Lewis Porter 13.
Uomini senza donne, Haruki Murakami
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Collage#2
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101/PAGINE/note
1. La paga del soldato, William Faulkner 2. Paradiso,
Lorenzo Castore 3. Una vita come tante, Hanya
Yanagihara 4. Il nudo e il morto, Norman Mailer 5.
Moravagine, Blaise Cendrars 6. Essere ribelli, David
Bowie 7. Tropico del Cancro, Henry Miller 8. Addio
alle armi, Ernest Hemingway 9. Skull Ring, Iggy Pop
10. Howard Hughes, Michael Drosnin 11. Austerlitz,
W.G. Sebald 12. Moleskine 2020 Pandemia, Renzo
Ferrari 13.Cahier, Michel Houellebecq 14. Albert
Camus. Una vita, Olivier Todd
Collage#3
1. Never Quiet. La mia storia (autorizzata mal
volentieri), Oscar Farinetti 2. Enrico Fermi.
L'ultimo uomo che sapeva tutto, David N.
Schwartz 3. Oppenheimer. Trionfo e caduta
dell'inventore della bomba atomica, Kai Bird -
Martin J. Sherwin 4. Lungo cammino verso la
libertà, Nelson Mandela 5. Sergio Marchionne,
Tommaso Ebhardt 6. Open. La mia storia, Andre
Agassi 7. Come ho progettato il mio sogno, Adrian
Newey 8. Michele Ferrero. Condividere valori per
creare valore, Salvatore Giannella 9. Storia di un
Boxeur latino, Gianni Minà
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Collage#4
1. I segreti di Brokeback
Mountain, Ang Lee 2. Distanza
ravvicinata. Storie
del Wyoming. Vol. 1, Annie
Proulx 3. Meridiano di sangue,
Cormac McCarthy 4. La
valle dell'Eden, Elia Kazan
5. Il figlio, Philipp Meyer 6.
Tex, Giovanni Luigi Bonelli,
Aurelio Galleppini 7. Il potere
del cane, Thomas Savage
EX NIHILO
SU UNA LETTURA DI CARMELO BENE
Andrea Anconetani
Ho avuto la fortuna di poter vedere
dal vivo Carmelo Bene per due volte
nella mia vita.
La prima volta fu nel 1987, a Recanati
quando, allora ventenne, ascoltai
i suoi Canti di Giacomo Leopardi. La
seconda ed ultima volta fu a Roma, in
un teatro di dimensioni medio piccole
che oggi purtroppo non esiste più. Il
Teatro dell’Angelo, in zona Prati. Era
il 1999 e Bene metteva in scena il suo
Concerto d’autore, tratto da La figlia
di Jorio di D’Annunzio, con le musiche
di Giani Luporini, le scene di Tiziano
Fario e i costumi di Luisa Viglietti.
Una lettura personale, in cui l’attore
concentrava in una sintesi i versi
della tragedia dannunziana.
Io, anche e soprattutto per il mestiere
che faccio, assisto a molti spettacoli
(in realtà, da qualche tempo, sempre
di meno, ma questo è un dato poco
importante), spesso dimenticabili, ma
quelli di Carmelo Bene, in particolar
modo quest’ultimo, li ho ben presenti
e hanno segnato per me un vero
spartiacque, qualcosa che ha
radicalmente modificato il mio
sguardo verso il Teatro e verso
il mondo.
Nella platea dalle mura nere, presi
posto, in posizione centrale e assai
fortunata, insieme ad un’attrice che
all’epoca stava lavorando con me.
Le sedie, alcune nere ed altre rosse,
presto si riempirono e mi accorsi che
nella fila davanti alla mia sedeva una
ricca rappresentanza di attori di peso
del panorama nazionale (ricordo
almeno Silvio Orlando e Michele
Placido). Ogni spettacolo di Carmelo
Bene era un evento a cui non si poteva
non presenziare. Il rito del teatro
si stava compiendo, come sempre.
Eravamo pronti. La sala risuonava
del bisbiglìo ovattato che precede
il silenzio. E fu a quel punto che una
voce registrata e piuttosto stentorea
fece il suo esordio con la
presentazione della serata. Dopo
i consueti convenevoli, «Benvenuti al
Teatro dell’Angelo in Roma alla recita
del Maestro …», due raccomandazioni
importanti. La prima intimava
di spegnere qualunque dispositivo
mobile, poiché al primo squillo o
106/PALCHI/note
NELLA
MANCANZA
DI QUESTO
SCAMBIO
E NEL
DESIDERIO
DI POTERLO
AVERE
suono molesto il Maestro avrebbe
interrotto definitivamente lo
spettacolo (nel 1999 già era iniziata
la piaga, oggi devastante, dello
squillo inopportuno del telefono
cellulare in ogni contesto della vita).
La seconda, sorprendente, diceva che
il Maestro imponeva al pubblico di
non applaudire alla fine
dell’esibizione. «La raccomandazione
è che nessuno del pubblico dovrà
applaudire alla fine della recita»,
scandì per due volte l’anonima e ben
impostata voce. Non compresi subito
quel che voleva dire esattamente
questa cosa. Mi sembrò, al momento,
una delle bizzarrie alle quali Carmelo
Bene era affezionato. La presi così.
Se il Maestro non vuole allora non
applaudirò.
Iniziò quindi lo spettacolo.
Rivedo la dominante della scena,
assolutamente nera; le luci
ghiacciate che davano al tutto una
sensazione terribilmente mortifera.
Carmelo Bene, volto bianchissimo,
reso emaciato dalla luce azzurrina
dei proiettori, apparve come dal nulla
e, aprendo un gigantesco libro
posizionato davanti a sé, cominciò la
lettura. Non riuscii a calcolare più il
tempo. Fu un flusso infernale di
parole, suoni, esplosioni. Ricordo la
sensazione fisica della voce che
scuote lo stomaco. I volumi erano
altissimi. Scoprii più tardi che Bene
aveva fatto posizionare in
corrispondenza della platea del
teatro – che era in legno,
sopraelevata e quindi vuota –,
proprio sotto le sedie del pubblico,
dei subwoofer che a determinate
frequenze generavano uno
scuotimento di tutto il corpo.
Voleva chiaramente che la sua
voce producesse nello spettatore
un’esperienza fisica oltre che
meramente acustica.
Va da sé che nessun cellulare
squillò mai quella sera.
Al sussurrare dei versi finali della
tragedia «La fiamma è bella … la
fiamma è bella», Carmelo Bene
scomparve, come inghiottito nel buio,
così com’era apparso, e non fece più
ritorno.
Nessuno del pubblico applaudì. Calò
una coltre di immenso gelo su tutti.
Compresi lì per la prima volta davvero
quel che vuol dire l’applauso al finale
di una rappresentazione teatrale. Non
è soltanto un commiato rituale
(troppe volte non è che questo) ma un
momento cruciale di scambio tra gli
attori e il pubblico. A significare che
il teatro tutto vive di questo scambio
umano. Una restituzione. Gli attori
hanno dato la loro vita in scena e il
pubblico rende loro grazie. L’ho capito
quella volta proprio nella mancanza
di questo scambio e nel desiderio
(che ha a che fare con la mancanza)
di poterlo avere. Ma Carmelo Bene
non aveva, è chiaro, concepito lo
spettacolo come uno scambio. Non
intendeva né dare né ricevere
alcunché. Non voleva fare uno
“spettacolo” del suo Teatro. Voleva
un evento, qualcosa che,
letteralmente, vien fuori, accade e
basta. Un’epifania la cui ineffabilità
doveva essere totale, completa, come
la sua solitudine disperata. Come
la solitudine desertificata che
si impadronì di ognuno di noi che
avevamo assistito a questa
apparizione.
Tutti uscimmo dalla sala in un
silenzio irreale, con la testa
abbassata e ricominciammo
a respirare solo raggiunto il
marciapiede. La sensazione di
distacco infinito che provai allora,
la porto ancora con me e ha reso
quella serata indimenticabile.
Se il senso vero del Teatro sta
nella capacità di modificare
intimamente la persona umana,
quella serata mi modificò certamente
più di tante altre, di tanti
“spettacoli”, anche meravigliosi, ma
dimenticabili e dimenticati. Dal nulla
era apparso e nel nulla era tornato.
Senza lasciare traccia di sé e senza
nulla volere da noi. Questo era
Carmelo Bene e non auguro a
nessuno – e men che meno a me
stesso – di percorrere la sua via.
107/PALCHI/note
IN
CON
TRO
TEN
DEN
ZA
Nicola Guida
«E IO RITARDATARIO
SULLA MORTE, IN ANTICIPO
SULLA VITA VERA, BEVO
L’INCUBO DELLA LUCE
COME UN VINO SMAGLIANTE.»
«UN CONTINUO TURBAMENTO
SENZA IMMAGINI E SENZA
PAROLE BATTE ALLE
MIE TEMPIE E MI OSCURA.»
Pier Paolo Pasolini
“Ne nascono pochi in un secolo, tre o
quattro”, diceva Moravia, dei poeti.
E nel tumultuoso 1922, l’anno
in cui Mussolini si impadronì del potere,
il 5 marzo a Bologna nacque il
più contestato dei poeti del secolo
scorso: Pier Paolo Pasolini.
Ma Pasolini non fu solo un poeta:
fu un giornalista incisivo, un filosofo
audace e un pittore sperimentale. Il
suo nome rimarrà inciso nella storia del cinema italiano grazie a pellicole
iconiche come Accattone, Mamma Roma, Medea e Uccellacci e Uccellini.
Fu anche un prolifico e instancabile scrittore. Tra le pagine dei suoi
romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Petrolio) dissezionò con raro
acume la realtà mutevole, concentrando la sua lente di ingrandimento su
quell’angolo nascosto e trascurato della società: gli emarginati, le borgate
e quel che un tempo era noto come sottoproletariato, quella parte di popolazione
così disagiata da essere incapace di far sentire la sua voce.
Ma in particolar modo Pasolini fu l’intellettuale che gettò lo sguardo
più avanti di chiunque altro, prevedendo il futuro della nostra società. Sca-
109/VISIONI
gliò una dopo l’altra le sue sfide ai tabù della nascente borghesia del dopoguerra:
aborto, droga, consumismo, ambiente e, soprattutto, l’omologazione
forzata imposta dalla crescente società dei consumi che, tra la fine della
guerra e gli anni settanta, riuscì con gli Italiani in quello che nemmeno il
fascismo, con la sua ideologia, era stato capace di fare: distruggere tradizioni,
usi e costumi, senza neppure il bisogno di agire nell’ombra ma nella piena
luce della democrazia, smantellare in poco tempo la cultura italiana,
uniformando tutti nella frenetica ricerca di un benessere, di un modello di
vita imposto dai media che, appena faticosamente sfiorato dal cittadino italiano,
già sfuggiva sul vento di nuove mode.
La critica di Pasolini alla società dei suoi anni si nutrì delle trasformazioni
che osservava intorno a sé, analizzandole con veemenza. Sulle pagine
del Corriere della Sera scrisse di quei meccanismi sociologici che stavano
plasmandoci, meccanismi che forse solo oggi si sono compiutamente manifestati:
la completa trasformazione culturale e l’omologazione.
Il primo articolo in cui espose questa teoria fu pubblicato sulla prima pagina
de Il giorno dopo il referendum sul divorzio del 10 giugno 1974. Intitolato
GLI ITALIANI NON SONO PIÙ QUELLI,
il pezzo metteva in evidenza come la vittoria del “no” non fosse un trionfo
del progresso o della democrazia, ma piuttosto la testimonianza che il ceto
medio fosse completamente mutato, afflitto non più da quel bigottismo cattolico
di cui anche egli era vittima, in quanto omosessuale, bensì da un’ansia
ossessiva di conformità che travolgeva borghesi, proletari, sottoproletari e
operai: la travolgente e irresistibile presa del modello americano o, quantomeno,
di quello che si percepiva in Italia in quegli anni; la “american way of
life” aveva condizionato le scelte di vita, di libertà, la ricerca della felicità
degli Italiani, come se nel Bel Paese democristiano degli anni settanta potesse
attecchire il sogno americano.
Nuove forme di intrattenimento iniziarono a condizionare nuove abitudini
familiari, e un nuovo uso del tempo libero: la gente incominciava a pensare
non solo a come vivere, ma anche a come godersela, la vita. L’etica della
rinuncia della vecchia classe contadina e operaia, che accumulava beni di
necessità per il timore di guerre e carestia, nella società del dopoguerra era
diventato rapidamente un lontano ricordo: gli italiani iniziarono a spendere
quanto guadagnavano, nel retropensiero di poter così arrivare a quel modello
proposto dalla televisione e dalla pubblicità. Durante lo sviluppo economico
di quegli anni, far soldi era possibile, lo mostravano programmi come Giochi
senza frontiere e il Rischiatutto di Mike Bongiorno, ai quali si alternavano
Canzonissima, presentata dal duo Corrado e Raffaella Carrà, e Carosello.
Pasolini denunciò questo cambiamento con malinconia e pessimismo,
mentre vedeva sgretolarsi il tessuto delle periferie romane e delle borgate
che un tempo aveva tanto amato.
Il 15 giugno 1975 l’autore scrisse l’Abiura dalla Trilogia della vita che
fu pubblicata il 9 novembre, pochi giorni dopo la sua tragica morte, sul Corriere
della Sera.
Pasolini in quell’articolo rinnegava i suoi ultimi tre film: Il Decameron,
I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte, opere che volevano
110/VISIONI
denunciare la repressione sessuale imposta dalla borghesia italiana e dalla
sua visione quasi medioevale degli atti osceni che invece lui aveva l’esigenza
di rappresentare in tutta la loro bellezza.
Ma l’uso dell’erotismo che lo caratterizzava sembrava ora privo di ogni
senso davanti alla nuova ideologia del conformismo e della tolleranza che
accusava di svuotare di ogni potere politico la libertà sessuale; anche il corpo
e il suo linguaggio - che fino a poco prima costituivano qualcosa su cui il capitalismo
non aveva ancora attecchito e che potevano quindi essere utilizzati
come arma politica - erano oramai perduti, massimizzati dalla pubblicità.
La critica di Pasolini non mirava comunque solo al consumismo ma anche
alla politica dell’epoca che lo incoraggiava. Le polemiche con gli intellettuali
del tempo furono infuocate e violente. Pasolini era un “luterano”, un ribelle,
sempre in controtendenza rispetto al perbenismo e al conformismo.
Queste riflessioni furono la base su cui sviluppò il suo ultimo lavoro, Salò
o le 120 giornate di Sodoma, un viaggio nell’orrore e nella depravazione che
avrebbe dovuto essere l’inizio di una Trilogia della morte, a cui sarebbe seguito
l’incompiuto Porno-Teo-Kolossal, di cui ci rimane solo la frammentaria sceneggiatura,
e un terzo film mai esplicitamente nominato nei suoi appunti.
Ammazzato sulla spiaggia di Ostia poco dopo la fine delle riprese, il
poeta non riuscì a completare questo nuovo trittico né a partecipare alla prima
proiezione del film che sarebbe avvenuta venti giorni dopo al Festival di Parigi.
Gli riuscì anche da morto di dar fastidio a tutti, e nemmeno la morte
violenta riuscì a mettere a tacere le polemiche sul suo lavoro e su di lui,
“l’uomo scomodo” come lo definiva la sua amica Oriana Fallaci.
La sua ultima pellicola fu immediatamente bocciata dalla commissione
di censura per le immagini “aberranti e ripugnanti di perversione sessuale
che offendono sicuramente il buon costume”. Ottenuto comunque il visto
da parte della censura di stato arrivò nelle sale nel giugno del 1976, scatenando
proteste durissime: venne ritirata dopo appena tre giorni di programmazione
e il produttore Alberto Grimaldi scontò due mesi in cella per osce-
111/VISIONI
NULLA È PIÙ
ANARCHICO DEL
POTERE.
IL POTERE FA
PRATICAMENTE
CIÒ CHE VUOLE.
nità, subendo lunghi processi per corruzione di minori
per poi venire assolto perché “il fatto non sussiste”.
Salò venne pesantemente tagliato e riportato in
sala, ma il cinema romano che lo proiettava fu devastato
dai neofascisti di Giuseppe Valerio Fioravanti, e la
pellicola venne sequestrata in tutto il territorio nazionale
perché offendeva il comune senso del pudore; le
bobine furono addirittura rubate dalle celle frigorifere
della Techicolor, la società che doveva occuparsi del loro sviluppo, e fu richiesto
un riscatto di due miliardi delle vecchie lire.
Si dovette attendere il 1991 perché Salò o le 120 giornate di Sodoma
riacquistasse dignità artistica e, nonostante questa travagliata storia, il film
è tuttora inedito sui canali televisivi.
Ma cosa c’era di così scandaloso in questa pellicola?
Otto ragazzi e nove ragazze, antifascisti e figli di partigiani, vengono
rapiti dalle SS e rinchiusi in una villa di campagna insieme a quattro Signori
che ne hanno ordinato il sequestro, allegoria dei poteri della Repubblica
Italiana: di casta, politico, economico ed ecclesiastico. I Signori, con l’aiuto
di quattro ex prostitute, instaurano una dittatura sessuale di centoventi giorni
regolamentata da un patto scritto di loro pugno che impone cieca obbedienza,
pena la morte.
Non c’è in loro alcuna morale perché, come afferma il regista sul set
del film, “Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che
vuole”. Pasolini alludeva, prendendo di mira il fascismo più come “sistema”
che come fenomeno storico, all’influenza negativa dei media sui giovani: le
torture, gli abusi, i falsi riti di matrimonio tra vittime e carnefici, la coprofagia,
il concorso per il culo più bello, non sono altro che la rappresentazione
allegorica della mercificazione dei corpi attuate dai media e dalla società.
Non vi ricorda niente?
112/VISIONI
Nel film ci sono gli anni ’40 della repubblica sociale, quelli dell’Italia
spezzata in due tra partigiani e fascisti, gli anni ’70 di Pasolini, quelli della
tensione nelle strade e della rivoluzione economica e sociale. E i giorni nostri,
nei quali la manipolazione dell’informazione attraverso i media e le fake
news plasmano il consenso dell’opinione pubblica per distogliere l’attenzione
dalle cause importanti; giorni in cui l’attenzione della gente viene canalizzata
sui capri espiatori di sempre: omosessuali, migranti, disabili, i diversi,
le donne stuprate e uccise ogni giorno da uomini che pensano così di
poter esercitare controllo e potere su di loro.
Salò, nella sua violenza, come l’Arancia meccanica di qualche anno
prima, è un saggio ancora attualissimo sulla genesi del male, sulla sua banalità
e mediocrità: per perpetrare il male non serve essere dei mostri, essere
speciali, perché il male nasce e si nutre di normalità.
A quasi cinquant’anni dalla sua morte, Pasolini rimane una voce profetica
e una coscienza critica di quello che siamo stati e che siamo diventati:
a dispetto di tutti quegli intellettuali che l’hanno crocifisso, la sua analisi
della società si è rivelata esatta ed attualissima, nonostante il nostro
mondo non somigli quasi per nulla a quello in cui il poeta ha vissuto, e tuttavia
le smaccate analogie ci ricordano che la storia è fatta di ricorsi.
Per comprendere fino in fondo quello che è avvenuto, le trasformazioni
che ci hanno reso quello che siamo, non dobbiamo smettere di leggere le
sue parole, ne’ di osservare le sue immagini.
Pasolini è un autore che continua a mettere paura e, come diceva Alberto
Moravia, sarà uno dei pochi poeti che verranno ricordati.
113/VISIONI
#album
LA FANTASIA…
ABBANDONA
GLI IDEALI
PRESOGNATI:
ESSI CADONO
IN POLVERE,
SI SPEZZANO
IN FRAMMENTI
E SE NON ESISTE
UN’ALTRA VITA,
ALLORA CI
TOCCA
COSTRUIRLA
CON QUESTI
FRAMMENTI
FËDOR DOSTOEVSKIJ
Per la mostra Auto-ritratto #3
Frammenti XL, 2023,
mosaico/caleidoscopio composto
da 64 Fuji Instax Square, 50 x 52 cm
114/ALBUM
IL SINGOLO INDIVIDUO
DISPONE SOLO DI FRAMMENTI
Gianfranco Garavelli
Autoritratto ai tempi del covid,
chiusi tra le sbarre di una prigione casalinga
Per la mostra Auto-ritratto #2
Autoritratto 1, 2020, mosaico composto
da 25 Polaroid Spectra b/n, 49 x 43 cm
115/ALBUM
Per la mostra Intimo
Intimo 1-2-3-4-5-6-7, 2022,
mosaici composti da
4 Fuji Instax Square, 13,5 x 15 cm
116/ALBUM
DIPINGERÒ
I TUOI OCCHI SOLO
QUANDO AVRÒ
CONOSCIUTO LA
TUA ANIMA
AMEDEO MODIGLIANI
117/ALBUM
L’Eros maschile visto dalla parte delle
donne, “deSCRITTO” da Una Chi,
Emanuelle Arsan e Florence Dugas
Per la mostra Eros al maschile
Statua greca - mani - natiche, 2021,
cornici contenenti libri, e mosaici composti
da 4 Fuji Instax Square che fungono da
lenti di ingrandimento del testo dove
vengono descritte le parti raffigurate
da altrettanti mosaici composti
da 2 o 4 Fuji Instax Square
118/ALBUM
Serie Frammenti
Immagini che rappresentano anziché
un autoritratto completo solo alcune parti
dell’artista che in questo momento della sua
vita si sente come descritto da Dostoevskij
Per la mostra Auto-ritratto #3
120/ALBUM
Gianfranco Garavelli è da decenni un'eccellenza
nel mondo dell'informatica (è consulente certificato
Apple, e docente ACMT), ma è il suo lato più
analogico e poetico a definirlo.
Nasce infatti come disegnatore, e la passione per
la fotografia e per l'arte tutta modellano il suo
percorso, che approda agli scatti istantanei in contrapposizione
al bulimico mondo digitale in cui ci
troviamo.
Gianfranco esplora il corpo e tutto ciò che il corpo
contiene - malinconie, inquietudini e grandi gioie
- attraverso la sperimentazione fotografica e materica,
con la passione per la grande letteratura e
per l'essere umano a fare da bussola.
L'ultima collettiva alla quale ha partecipato è stata
Auto-ritratto #3, Firenze, Onart Gallery, nel
maggio 2023.
instax240.com
121/ALBUM
Prospettiva Van Orton
Marta Silenzi
Unmade, 2023
Progetto personale NFT
122/ZONE/note
www.vanortondesign.com
Marco e Stefano Schiavon, una coppia
di creativi piemontesi. Fratelli gemelli.
Quindi molto più di un duo. Artisti
digitali, grafici, disegnatori che
recuperano un immaginario visivo anni
‘80 e una cultura pop che spazia da
Marco Lodola a Roy Lichtenstein.
Outline neri. Tanto colore. Tanta
energia. E collaborazioni col mondo
della moda, della musica, dell’arte,
del cinema, del design, dello sport,
dell’industria e dell’automobilismo,
ispirati da fumetti e manifesti
pubblicitari, dalle copertine dei
rotocalchi, dalle icone del cinema e
del panorama musicale.
Questo mettono in mostra Verticale
D’arte, cioè le curatrici Elisa Mori e
Giorgia Berardinelli, con il Professor
Stefano Papetti per l’estate e
l’autunno 2023, mirando nuovamente
all’inconsueto, al giocoso, alzando il
tiro con due sedi – la Palazzina
Azzurra di San Benedetto del Tronto e
il Forte Malatesta di Ascoli – e sei
mesi di aperture costellate di eventi
come presentazioni e cene gourmet.
L’esposizione celebra i dieci anni di
attività di questi due ragazzi, classe
1983, che, in un’intervista sul web
magazine Picame, così rievocano i
propri esordi: “Il progetto Van Orton
nasce ufficialmente nel 2013.
Lavoravamo come grafici in un’agenzia
di comunicazione a Torino e poi un
pomeriggio, quasi per gioco, Marco ha
iniziato a disegnare il poster di
Ritorno al Futuro, un film molto
importante per la nostra infanzia. E da
lì non ci siamo più fermati e abbiamo
iniziato a farne altri, sempre legati
agli anni ’80 e a quel mondo per noi
speciale e familiare. Abbiamo
pubblicato qualcosa su Behance (in
quel periodo i social non venivano
utilizzati come adesso) e pian piano ci
sono arrivate le prime richieste,
soprattutto dall’America, di persone
che volevano acquistare le nostre
locandine. Praticamente all’inizio
avevamo due lavori: di giorno grafici
d’ufficio e la sera ci occupavamo di
spedire i poster! Siamo andati avanti
così per due anni.”
“Di norma andiamo
molto d’accordo e ogni
progetto è strutturato
in questo modo: Marco
parte con la fase iniziale
della bozza e con la
realizzazione del
disegno in bianco e
nero mentre io [Stefano,
ndr] seguo tutta la
parte della colorazione
e della scelta del
pattern, fino alla
conclusione. Poi
durante il processo
di creazione accade
che ci diamo dei
suggerimenti o che
modifichiamo qualcosa
in corso d’opera.”
123/ZONE/note
124/ZONE/note
Flash, 2016
Progetto personale
Spider Man, 2016
Progetto personale
Dante, 2021
Key visual mostra “Uno,
nessuno e centomila volti” -
DantePlus (Ravenna)
Wheel of Fortune, 2015
Artwork per capsule
collection – Sisley
2001 A space odyssey,
2015–2016
Progetto personale
Il nome Van Orton viene dal film The
Game di David Fincher, interpretato da
Sean Penn e Michael Douglas, ovvero i
fratelli Conrad e Nicholas Van Orton,
l’ultimo dei quali, con una vetrata
come portale di risveglio, rinuncia ai
beni terreni in funzione di quelli
affettivi, partecipando ad un gioco che
non è soltanto un gioco, spingendoci a
comprendere l’importanza di coltivare
un nostro lato più umano e creativo,
spingendoci a “leggere le opere dei
Van Orton in modo meno superficiale,
restituendoci il senso di un percorso
interiore.” (Stefano Papetti)
La mostra punta sul concetto di
un'arte che sfonda i confini
dell’unicità per farsi riproducibile e
declinabile, intensamente fruita e
condivisa e gioca sulla diversità delle
due sedi per cogliere la doppia anima
dei Van Orton.
La Palazzina Azzurra, che accoglie i
visitatori con un sensazionale
pannello-visual in rosa (uno dei
quattro colori scelti per il catalogo,
bellissimo, di Rrose Selavy) e una
Ducati Sclamber Icon customizzata,
esemplare unico, gentilmente
concesso dalla celebre casa
motociclistica bolognese, restituisce
un carattere divertito e divertente,
psichedelico, accattivante per chi ha
vissuto gli anni dei vari Ritorno al
futuro, Star Wars, Ghostbuster, Blade
Runner o Batman – di cui sono esposte
locandine rivisitate – , come per i più
piccoli, ormai padroni della nuova vita
dei personaggi Marvel schierati in
fronte ad una light box super iconica
di David Bowie-Aladdin Sane.
Il Forte Malatesta, poi, ancora una
volta (dopo Seitzinger Alchemica
dello scorso anno) si presta ad un
percorso immersivo e coerente col suo
contesto architettonico che esalta la
“fascinazione profonda per le
atmosfere donate dalle vetrate delle
cattedrali gotiche (con le
raffigurazioni e gli apparati decorativi
realizzati dai maestri con la grisaglia,
e colorati con una miscela di polveri di
vetro e ossidi vari macinati e impastati
con acqua, aceto e resine vegetali), e
per l’utilizzo contemporaneo della
prospettiva” – come spiegano le
Verticali nel testo in catalogo –
completando quanto mostrato a San
Benedetto con le scenografie del tour
europeo 2019 This House is not for
sale dei Bon Jovi.
Il discorso sul cinema, sulle scene più
emblematiche e sui registi più
importanti continua anche qui, dal
bacio di Rhett Butler e Rossella
O’Hara alla Uma Thurman di Pulp
Fiction, dal Chunk de I Goonies
all’omaggio dedicato al poetico regista
giapponese Hayao Miyazaki.
Stanley Kubrick, Woody Allen, Clint
Eastwood e Alfred Hitchcock
stazionano poi come santi protettori
mentre i Fab Four attraversano le
strisce di una luminosa pink Abbey
Road.
Entrambi i percorsi sono punteggiati
dalle collaborazioni varie con Swatch,
Estathè, Colmar, Mercedes,
Lamborghini, dalle incursioni nel
mondo della musica e dello sport, e le
ultime sale al Forte Malatesta
testimoniano le produzioni più recenti,
più libere e personali dei fratelli: un
tripudio di dualismi, specchi, doppi e
maschere nelle vetrate del progetto
Reflection (2022) e nella serie
Unmade (2023) da cui è tratto il
visual della mostra.
La prospettiva cui fa riferimento il
titolo è un richiamo al fondamento
tecnico dell’arte che deve sempre
rinnovarsi nel presente, nei colori,
nelle interpretazioni, nei messaggi,
nelle connessioni stilistiche, trovando
una via individuale e peculiare che
sappia rispondere alle richieste del
proprio tempo, come i Van Orton, da
dieci anni a questa parte, dimostrano
di saper fare.
PROSPETTIVA VAN ORTON
14 luglio 2023 – 7 gennaio
2024
Palazzina Azzurra,
San Benedetto del Tronto
Forte Malatesta,
Ascoli Piceno
125/ZONE/note
Aveva ottantanove anni,
e i suoi occhi scuri
avevano assunto quella
sfumatura di grigio
che solo i bambini
e i vecchi possiedono:
il colore del mare
dal quale proveniamo
tutti, e al quale tutti
faremo ritorno.
Hanya Yanagihara, Una vita come tante
PARCE QUE
C'ÉTAIT LUI,
PARCE QUE
C'ÉTAIT MOI
(perché era lui, perché
sono io)
Michele de Montaigne, De l'amitié, Essais
Tutti a raccontar storie. Perlopiù
uomini. Non perchè avessero storie
migliori, ma perchè non dubitavano
che dovessimo starli a sentire.
LA DONNA
DI WILLESDEN
Zadie
Smith