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STANZE_09_23_UOMO

Un trimestrale di ricerca ed approfondimento culturale

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STANZE

ascolti

forme

fotogrammi

ombre

pagine

palchi

visioni

zone

09/23

U O M O


in copertina

Renzo Ferrari

Pollution - Marzo/Agosto 2020

Olio su tela, 142,5 x 200 cm

Un'opera che condensa tutto il repertorio

ferrariano: l'uomo, il problema ecologico,

il movente di cronaca, i colori pulp,

gli stilleben, i vari piani di lettura,

i titoli inseriti e l'atmosfera visionaria.

Per un approfondimento, l'intervista

a Renzo Ferrari è a pag. 18.


EDITORIALE

Marta Silenzi, Paola Ranzini Pallavicini

HOMO HOMINI LUPUS

L’UOMO È UN LUPO PER L’UOMO,

NON UN UOMO

Plauto, da L'Asinaria

MS UOMO. Essere umano. Individuo.

Dalla donna a tutti gli asterischi che

vogliamo mettere.

Uomo. In tutte le sue declinazioni e

identità.

Non uomo in antitesi alla donna. Non

solo uomo come maschio.

È davvero così importante elencare,

distinguere?

Non dovremmo invece perseguire

l'unità?

Essere moderni, non essere retrogradi

(intendendo con questo società

patriarcali e maschiliste, che

perseguono il machismo o il

superomismo – senza neanche

esserne consapevoli e questo è il

danno maggiore) significa specificare

la denominazione dei generi?

Perché c'è ancora bisogno di

contrapporre un femminismo ad un

maschilismo? Non sarebbe importante

eliminare ogni tendenza alla

supremazia, detronizzarla,

disinnescarla?

Sono temi sempre e di nuovo caldi,

complessi, per i quali non ci sono

soluzioni reali oltre la progressiva

presa di coscienza, spinta

all'educazione, all'apertura mentale

che è difficile far coincidere con una

sequenza di sigle e simboli, con una

declinazione di titoli volti al femminile

(a volte davvero inascoltabili).

Uomo è un termine onnicomprensivo,

uomo è sovragenere e la lingua scritta

è un'arma a doppio taglio con la quale

ultimamente stiamo giocando

spudoratamente e dietro la quale ci

stiamo nascondendo per dare parvenze

di parità alle minoranze che, quanto

più si diversificano, tanto più sono

minori, mentre siamo un solo popolo di

uomini sulla terra, e qualche volta

nello spazio e tra gli abissi, se la

Natura ce lo permette.

PRP Siamo donne che amano gli

uomini e li celebrano, ma riusciamo ad

amarli così tanto unicamente perchè

per prima cosa amiamo noi stesse. In

altro modo non sarebbe possibile.

Libertà, desiderio, tenerezza possono

nascere unicamente da questa

premessa. Una vertigine che ci porta a

godere delle diversità molto prima che

delle uguaglianze.

Degli uomini amiamo imperfezioni,

fragilità, bellezza nascosta nei gesti e

nei sogni, inconsapevolezza, candore,

manie, ossessioni, ingegno, paure.

Siamo privilegiate, perchè dagli uomini

esigiamo rispetto e sostegno sapendo

che in troppi paesi nel mondo le nostre

sorelle non aspirano a tanto.

Eppure nemmeno noi abbassiamo mai

del tutto la guardia, perchè ci sono

sottogliezze e sottintesi che ancora

feriscono molto, e ci portiamo nel dna

una sottile inquietudine che stenta ad

abbandonarci, perchè radicata da

generazioni.

La fiducia nell'essere umano resta

l'antidoto più potente, la curiosità nei

confronti dello sconosciuto di Walt

Whitman ci tiene in vita. Questo

vogliamo celebrare ogni mattina

uscendo nel mondo, e ogni sera nelle

nostre stanze.

3/EDITORIALE


Marta Silenzi, marchigiana, classe 1977. Laureata in

Storia e Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo

Storico Artistico e diplomata in Antropologia dell’arte

ad un master dell’Accademia di Belle Arti. Autrice

di testi critici per mostre temporanee e cataloghi

ragionati di artisti nazionali ed internazionali

(pubblicazioni Il Centofiorini, Skira, La Colomba,

Pagine d’Arte). Divoratrice di libri e film, pazza per

la musica, mamma di due bambini. La scrittura creativa

si accompagna da sempre a quella critica, come

momento di riflessione, occasione di ritrovamento,

lascito di una traccia. Interessata a trovare connessioni

e sinergie tra le forme espressive, fino ad una sintesi

di parole, immagini e suoni che non ha confini.

Nata letteralmente in mezzo a libri e periodici nel 1978

alle porte di Milano Nord, cresciuta disegnando prima

e impaginando poi, Paola Ranzini Pallavicini è

un’appassionata e tenace grafica editoriale, che ha

instaurato dagli anni Novanta solide collaborazioni

con le più prestigiose redazioni di mezza Milano

specializzandosi in pubblicazioni di architettura,

urbanistica, design, arte, fotografia, saggistica. Un curioso

decennio è volato tra le altre cose affiancando

gli architetti della EPFL di Losanna nel dare una veste

calzante a ricerche di respiro internazionale. Grazie alla

pandemia e ad alcune interessanti ragazze ha ripreso in

mano prima la matita, poi la penna, per condividere con

chi vorrà tutti i mondi che popolano la sua testa irrequieta.

redazione–stanze

Redazione Stanze

redazionestanze.blogspot.com

in redazione:

Andrea Anconetani

incertipercorsi.eu

Ricky Antolini

instagram.com/rickyantolini

Gianfranco Garavelli

instax240.com

Nicola Guida

nicolaguida.wixsite.com/photography

Chiara Riva

instagram.com/chiarariva80

numeri precedenti:

Stanze 03/22 Natura (sabato 05/03/2022)

Stanze 06/22 Donna (sabato 11/06/2022)

Stanze 09/22 Strade (sabato 10/09/2022)

Stanze 12/22 Corpo (sabato 10/12/2022)

Stanze 03/23 Kids (sabato 11/ 03/2023)

Stanze 06/23 Labirinto (sabato 17/ 06/2023)

4/redazione stanze


"UOMINI!" ESCLAMÒ

PER CONCLUDERE,

COME SE QUELL'UNICA

PAROLA RIASSUMESSE

TUTTI I DIFETTI SU CUI

LE DONNE SONO DISPOSTE

A CHIUDERE UN OCCHIO

E CHE IMPARANO

A TOLLERARE E ALLA FINE

A PERDONARE

AGLI UOMINI CHE SPERANO

DI AMARE PER IL RESTO

DELLA VITA, PUR SAPENDO

CHE NON SARÀ COSÌ.

Andrè Aciman, Cercami


so

mm

ar

io

09/23

U O M O


2

3

4

8

18

38

46

50

72

90

98

106

108

114

122

In copertina

Editoriale

Redazione Stanze

A nudo

Conversazione con Massimo Valentini

MARTA SILENZI

Renzo Ferrari. Sull′uomo

MARTA SILENZI

CON PAOLA RANZINI PALLAVICINI

#album / Sand Men

RICCARDO ANTOLINI

note / Uomini, bugie e videotape

PAOLA RANZINI PALLAVICINI

Mario Dondero

Il racconto e il talento

MARTA SILENZI

Lorenzo Castore

Essenziale, nomade, intimo

PAOLA RANZINI PALLAVICINI

Il potere del cane e Stoner:

due modelli di mascolinità

oltre gli stereotipi

CHIARA RIVA

note / collage #1 #2 #3 #4

note / Ex Nihilo

Su una lettura di Carmelo Bene

ANDREA ANCONETANI

In controtendenza

NICOLA GUIDA

#album / Il singolo individuo

dispone solo di frammenti

GIANFRANCO GARAVELLI

note / Prospettiva Van Orton

MARTA SILENZI

ascolti

forme

fotogrammi

ombre

pagine

palchi

visioni

zone


AMarta

Silenzi

NU

DO


CONVERSAZIONE CON MASSIMO VALENTINI


Massimo Valentini, sassofonista nativo di Urbania,

è un musicista raffinato, energico ed

un uomo gentile e divertente, che sa cogliere

le sfumature dell’esistenza e trasformarle

in musica. Sta promuovendo Nudo, il suo

ultimo album, 11 tracce dalle sonorità e atmosfere

che spaziano dal Jazz alla cultura

popolare, frutto di contaminazioni dai viaggi

in Argentina, Brasile, Ungheria e Romania,

senza perdere il sapore della sua terra,

quell’ispirazione che viene dalla natura, dai borghi, dai profumi della Val

Metauro e dal vissuto personale. Il suo è uno stile senza confini che nel

precedente album prendeva il nome di Jumble Music: una sintesi di “eleganza

e rozzezza, precisione e confusione, pazzia e razionalità, dolcezza e

sfrenata passione.” Un tipo di musica che descrive non solo la creatività

espressiva di Valentini ma anche la sua visione del mondo, il suo modo di

porsi, generoso e coinvolgente.

Nudo è un disco da ascoltare con attenzione, ancora di più da apprezzare

dal vivo, per conoscere il musicista nella sua forma espressiva più

intensa, assieme alla sua band di rilievo, con cui ha registrato e portato in

tour questo album candidato ai Grammy 2023.

MS Punto subito al cuore delle cose, Massimo: da dove vengono le

ispirazioni? Ho letto che peschi emozioni persino dal cibo che mangi e che

cucini anche, con passione ed eclettismo...

MV Ho un pianoforte a mezza coda a casa di mia madre, me lo comprò

mio padre quando studiavo in Conservatorio. Usò tutta la liquidazione del

lavoro per comprarmi il pianoforte. Mio padre era un operaio metalmeccanico.

Purtroppo a casa mia non ho spazio per un pianoforte a mezza coda così

ogni tanto vado a casa di mia madre e lo suono, molte delle musiche che ho

scritto sono nate su quella tastiera. Grazie alla musica viaggio molto ed ho

conosciuto molte etnie differenti tra loro, differenti per svariati aspetti ed

uno di questi è il cibo. Non mi lascio ispirare direttamente dal cibo o dai

colori o dai profumi ma dalle emozioni che questi mi trasmettono e quasi

sempre sono legati alle persone con cui li condivido, li assaporo, li osservo.

MS Qual è il racconto dietro le tracce? So di una ragazza che aspettavi

di vedere in un giorno di neve...

MV C’è quasi sempre una storia dietro ad ognuna di esse.

In quel caso la ragazza mi piaceva, altroché se mi piaceva. Mi dissero

che anche a lei piacevo. Abitava vicino casa dei miei genitori. Un giorno mi

chiese di portarla a fare un giro con il motorino, era caldo, era estate, ma

ero fidanzato… con la proprietaria del motorino.

Poi fu inverno, mi piaceva ancora tanto, e non avevo più la fidanzata e

nemmeno il motorino.

La incontrai per caso con le sue amiche e con poche parole mi fece

capire che quel pomeriggio si sarebbe trovata con loro davanti casa sua.

10/ASCOLTI


11/ASCOLTI


Ero pronto a dichiararle il mio amore ma quel pomeriggio iniziò a nevicare,

nevicò e nevicò, nevicò così tanto che il gazebo di casa crollò. Incurante

del freddo e della neve mi presentai sotto casa sua, bagnato fino ai

capelli – che allora avevo – aspettai, aspettai sotto la neve per ore.

Eravamo solo io e la neve. Lei non uscì.

Non esistevano cellulari, non avevo il suo numero di casa…non avevo

nulla. Triste, tornai a casa.

Nel mentre, la neve si sciolse, Adele si fidanzò, poi si sposò, poi fece

figli, poi chissà…

Poi io ho scritto la musica.

MS Qual è l’iter creativo, la fase ideativa, come li affronti, come si

svolgono?

MV Spesso parte tutto da una melodia o da una linea ritmica che mi

nasce in testa, oppure come ho detto prima, mi metto al pianoforte , appoggio

le mani e suono, i primi 30, 40 secondi sono fondamentali, se nasce

qualcosa di interessante in quei secondi bene, altrimenti mi alzo e faccio

altro. Una volta che l’idea principale è fissata inizio a pensare all’armonia

e all’arrangiamento. Poi in fase di prova con i miei musicisti cerchiamo le

soluzioni migliori in base alle caratteristiche di ognuno di loro.

MS Come avviene la registrazione? Generalmente e nel caso di Nudo.

Ci sono musicisti che preferiscono il silenzio e la dimensione domestica di

una studio in casa, cosa ti mette a tuo agio e cosa invece ti disturba in questa

fase?

MV È sempre una bella emozione per me registrare in studio le mie

musiche, è una dimensione che mi è sempre piaciuta. La cosa importante

per me e arrivare molto prima in studio di registrazione e adattarmi all’ambiente,

suonare insieme a i miei musicisti e “trovare il suono”. Ogni ambiente

suona in modo differente e sentirci a nostro agio e fondamentale.

Spesso suoniamo i brani da capo a fondo. C’è molto interplay nella

mia musica ed è fondamentale registrare tutti insieme.

Nel caso di Nudo è stato così per tutti i brani tranne che per quattro

di essi che ho registrato nel mio studio, in casa e da solo. Dico da solo perché

ho registrato io tutte le parti degli strumenti tranne che per alcune

parti di arpa, chitarra, percussioni africane e archi. L’unica cosa che mi disturba

in uno studio di registrazione potrebbe essere trovare un tecnico

audio ansioso e frettoloso, amo le persone pacifiche e tranquille che non

mettono appunto ansia e fretta. Ed è per questo che scelgo gli studi di registrazione

attentamente, non solo per la struttura ma anche per chi gestisce

la parte tecnica.

MS Nudo è frutto degli anni pandemici? Come li hai vissuti?

MV Alcuni brani sono stati scritti precedentemente la pandemia, ad

esempio: Autumn’s Eyes, North Direction, La prima Neve d’Oriente e Sesamo

Sticks, altri durante la pandemia. Durante il periodo di chiusura totale dovuta

al Covid sono riuscito davvero a pensare a me stesso, alle mie esigenze e

12/ASCOLTI


a riflettere su ciò che davvero volevo, mi sono messo a nudo, ed ecco appunto

il titolo dell’album. Il primo periodo di pandemia l’ho vissuto bene per i

motivi che ti ho appena spiegato, poi dopo qualche mese sentivo davvero la

necessità di uscire, vedere le persone che amo e tornare sul palco e suonare.

MS L’album è ricco di stili e influenze. I critici hanno snocciolato lunghi

elenchi a proposito di Nudo, ma io vorrei sentire da te quali sono i confini

da cui entri ed esci con disinvoltura e in cui ti senti comodo. Partiamo dal

Jazz. C’è ancora improvvisazione nella fase ideativa, di registrazione o live?

MV Un pensiero che non mi sono mai posto è quello dei confini. Penso

solo al suono, alle vibrazioni che mi arrivano che, di rimando, saranno le

vibrazioni che arriveranno a chi ascolta, più o meno intense ma è di quelle

che si tratta. Il Jazz, questa parola significa tutto e niente per me. Amo

improvvisare e lo faccio anche mentre scrivo un brano. Ti spiego meglio:

spesso arriva l’idea melodica e la scrivo su carta o su programmi di scrittura

musicale digitale. Fatto questo, inizio a suonarla al pianoforte e ad improvvisare

variazioni su di essa, ed è così che spesso poi arrivano altre idee

per l’arrangiamento. Vedo l’improvvisazione a 360 gradi, non solo sul palco

o mentre registriamo ma anche in fase di scrittura, è un elemento in più

per potermi esprimere.

MS Parlando di influenze: viaggi memorabili?

MV Sicuramente la mia permanenza a Buenos Aires e in Brasile hanno

influito molto ma anche i tanti viaggi e le esperienze fatte nei Balcani e

in Russia.

MS Aneddoti memorabili?

13/ASCOLTI


MV Potrei raccontartene tanti ma amo i dettagli e ci vorrebbe un articolo

solo per questi!

Per esempio quella volta che a Mar del Plata saltai da un treno in

corsa, oppure quando al Django Reinhardt Festival, lungo la Senna, dei

nomadi Gitani ci accolsero nel loro campo e suonammo assieme a loro.

Oppure quando a Vòlogda, in Russia, con l’orchestra di sax facemmo

una prova in una piccola stazione del treno, suonammo un brano tradizionale

russo, i presenti si misero a piangere dalla commozione e tutti noi a

seguire mentre suonavamo. Poi dei ragazzi ci aiutarono a prendere il treno

e, nonostante la loro povertà, ci offrirono aringa secca e pane. Ricordo che

prima di salire sul treno gli lasciai tutti i soldi che avevo in quel momento.

Oppure ricordo bene quando fui accompagnato da un'amica in una

Favela nella periferia di Vitoria, in Brasile, piansi per quello che vidi, ma

non di tristezza, semplicemente ero commosso per l’accoglienza e per l’energia

che percepivo.

E ancora, quando per sbaglio, dopo un concerto nella Plaza de Toros

di Valencia, aprii un cancello che non dovevo aprire…

Ultimo aneddoto e poi mi fermo. Dopo un concerto con Raphael Gualazzi

a Torino, tornammo in hotel. Quella notte non dormii nulla, tossivo in

continuazione, così verso le cinque del mattino decisi di farmi un bagno.

Aprii il rubinetto della vasca per farla riempire e mentre aspettavo mi rimisi

“un attimo” sdraiato. Quell’ attimo durò più di un’ora. La stanza si era allagata,

metà corridoio pure. Cercai di asciugare il più possibile ma il pavimento,

parte in legno e parte in moquette, lo rese impossibile. Tralasciando l’incontro

imbarazzante con il direttore dell’hotel e la bacchettata sulle mani

dalla receptionista ventenne, scesi nell'atrio dell'hotel, c'erano recipienti

posizionati qua e là per raccogliere l'acqua che usciva da giganti lampade a

14/ASCOLTI


muro, sembrava di stare in un centro benessere. Quando i componenti della

band seppero che fu per colpa mia, mi presero in giro per tutta la tournée. Il

direttore dell’hotel fu un signore, dopo il mio racconto riguardo a come tutto

ciò era accaduto, mi rispose: “non si preoccupi, succede”.

MS L’immagine interna del sax soprano nel tuo cd è bellissima. Che

rapporto hai col tuo strumento? Sei un polistrumentista?

MV Conosco molto bene il mio strumento, il Sax. Molti media scrivono

che sono anche cantante e percussionista ma in realtà amo semplicemente

usare la mia voce e suonare flauti e cajon nei miei brani.

MS Quanto ai tuoi precedenti album, pensi ci sia stata un’evoluzione

fino a Nudo o semplicemente ogni lavoro è frutto di diversi momenti, specchio

di diversi stati d’animo e di diverse esperienze?

MV Entrambe le cose. L’evoluzione sicuramente è imprescindibile,

nel frattempo ho fatto tante esperienze, ho conosciuto nuove persone e

sperimentato altre sonorità. Seguo e accolgo sempre il cambiamento naturale

delle cose.

MS Sono molto incuriosita dai titoli delle opere, delle canzoni, dei

libri, vi si condensa la fotografia di un momento preciso e complesso. Come

scegli i titoli delle varie tracce?

MV Quasi sempre i miei brani si ispirano a fatti realmente accaduti, di

conseguenza anche il titolo. Alcuni amici ritengono geniali i miei brani ma

dicono che non sono altrettanto geniale nel dare a loro dei bei nomi… (ride)

Sesamo Sticks, per esempio: amo molto i grissini al sesamo, con questo

brano ho descritto la voracità e la velocità con cui li mangio.

MS Io lo trovo abbastanza geniale. Come si è formata la band con cui

hai registrato e portato in giro Nudo?

MV Anni fa a Bologna. Precisamente nel 2011. Mia madre era ricoverata

all’ospedale di Bologna, mi fermavo spesso per qualche giorno in città

e in ospedale, a volte me ne andavo a studiare sassofono ai Giardini Margherita.

Un giorno mentre stavo suonando seduto a terra, una voce da dietro

mi disse: “Complimenti, che bel suono!” Mi voltai, era Lucio Dalla. Parlammo

per circa un’ora, di musica prevalentemente, gli parlai del desiderio

di creare una band e lui mi disse: “scegli i migliori e possibilmente diventate

amici.” Queste semplici parole, apparentemente scontate, mi risuonarono

a lungo e così feci. Ho impiegato due anni per scegliere “i migliori”, ora

sono otto anni che suono con loro e siamo amici. Paolo Sorci, Andres Langer,

Filippo Macchiarelli e Gianluca Nanni. Oltre alle straordinarie capacità

tecniche, ognuno di loro ha una forte personalità e sensibilità, ed è ciò che

esige la mia musica e il mio suono. Senza dubbio questa è la miglior formazione

che io abbia avuto fino ad ora.

MS Tu porti avanti contemporaneamente diversi progetti e diverse

collaborazioni, ce ne parli?

15/ASCOLTI


MV In realtà quest’anno ho fatto delle scelte, vorrei concentrarmi su

pochi progetti. Il mio quintetto con cui ho registrato Nudo, poi “SuMarte”,

un progetto appena nato con due straordinarie musiciste, Marta Celli all’arpa

celtica e Arianna Cleri alla voce. Abbiamo una nostra pagina Instagram

e YouTube, lì puoi capire meglio cosa facciamo. Poi vorrei riprendere i progetti

già consolidati in Brasile e Argentina con i musicisti Wanderson Lopez,

Roger Corrêa, Renato e Rafael Rocha e Hilário Baggini.

MS Ti ho visto dal vivo quest’estate, dopo anni dall’ultima volta (se

non sbaglio con gli Atem Sax Quartet), e ho ritrovato il tuo completo abbandono

alla musica, la tua energia che batte dieci a uno la timidezza, l’intero

bagaglio di esperienze volteggiarti intorno e trasformare un piccolo set di

una serata bollente di luglio in un angolo magico e luminoso. Preferisci la

dimensione dal vivo a quella in studio?

MV Come dicevo prima, cerco di pensare allo studio come ad un concerto

dal vivo. Do sempre tutto me stesso, sia in studio di registrazione che

sul palco. A volte mi sono sentito dire da colleghi: “certo che tu non ti risparmi

mai sul palco”. È un’affermazione che non ho mai capito, come potrebbe

un musicista non dare tutto se stesso mentre suona?

Comunque amo il palco e forse l’unica differenza tra lo studio di registrazione

e un concerto la fa il pubblico.

MS I Grammy?

MV Quando André Dias, tecnico del suono che ha fatto il mastering

del mio album mi ha detto che l’album sarebbe stato presentato ai Grammy

è stata una “botta” pazzesca. André Dias, che di Grammy ne ha già vinti

quattro, è molto contento di questo album e per me già questa è una vittoria.

Credo che a novembre si saprà. Incrocio le dita.

MS Ma nel mezzo di tutto questo, una sera al telefono mi hai detto:

“voglio solo suonare”...

MV Sì, è un momento difficile per la cultura in generale e vedere che

negli ultimi anni molti bravissimi musicisti hanno dovuto scegliere di fare

un altro lavoro per vivere, mi ha toccato profondamente. Non dico vivere nel

lusso, dico sopravvivere. Io sono figlio di operai e tutto quello che ho fatto

fino ad oggi lo devo ai sacrifici dei miei genitori e miei. So che la mia musica

arriva al cuore delle persone e so anche che il mio modo di suonare il sax è

un marchio riconoscibile e unico. Penserai che sono presuntuoso ma in realtà

sono solo cosciente di quello che accade al pubblico quando suono, solo loro

sono “la verità”. Rendersi conto che tutto questo non è sufficiente per poter

“solo suonare” è triste. Ma non ho mai smesso di sognare e credere in quello

che faccio, solo che a volte è davvero stancante pensare a tutto.

MS Hanno scritto che questo disco va assaporato come un buon Rum

ed è vero, c’è una maturità, un equilibrio ed un’intensità che presuppongono

un prendersi del tempo, un predisporsi a ripetuti ascolti, uno scavare nel

dettaglio, un andare a cogliere suoni e strati. Come ti senti quando riascol-

16/ASCOLTI


ti i tuoi lavori? Ti chiedi mai se gli altri coglieranno

tutto quello che hai voluto esprimere?

MV Quando riascolto i miei brani mi sento

bene, semplicemente perché finché non sono soddisfatto

di essi non si smette di registrare e riprovare.

Sono esigente, nei miei confronti e nei confronti

dei miei musicisti. Non penso mai di suonare

per piacere agli altri, il pubblico semplicemente

ascolta e si fa il proprio viaggio personale.

MS Nel numero sul Labirinto di Stanze ci hai

regalato un avvincente commento all’ascolto di

Cumbia & Jazz Fusion di Charles Mingus, dal quale

è emersa una evidente dote anche nel raccontare,

nel catturare con misura e tono l’attenzione.

Nascondi anche un’attitudine da insegnante?

MV Non saprei, mi piace raccontare, penso di

aver preso questa dote da mio padre. Nonostante

fosse un operaio, era bravo a parlare e ad intrattenere

le persone con aneddoti e racconti. Ammetto

che quando capita, mi piace relazionarmi con i ragazzi e guidarli verso la

conoscenza e la scoperta.

MS Per salutarci ci dici un libro, un album e un film (ma anche più di

uno) che in qualche modo parlano di te?

MV L’amore ai tempi del colera è un libro che è arrivato nella mia vita

in un momento molto intenso. Amo particolarmente la storia e il messaggio

che racchiude. Letter From Home di Pat Metheny Group ha cambiato la mia

visione della musica, dovrebbero ascoltarlo tutti. The Central Park Concert

di Astor Piazzolla mi tocca le viscere e mi rispecchia molto. Crazy World

degli Scorpions ha al suo interno The Wind of Change: sono figlio degli

anni 90 (strizza l’occhio). Poi Achtung Baby degli U2. Non lo dire a nessuno

ma penso che il mio modo di “fraseggiare” venga da qui. E anche da

Canto de pueblos andinos degli Inti-illimani. Cocciante di Riccardo Cocciante

è un album che mi piace e basta e mi fa pensare a mia madre. Aurora

di Avishai Choen perchè mi sento vicino al suo modo di comporre. Concerto

per flauto e orchestra di Jacques Ibert suonato da James Galway e Concerto

per Saxofono e orchestra suonato da Federico Mondelci. Infine Grace

di Jeff Buckley, l’intero album ma soprattutto il brano che gli dà il titolo,

penso sia l’essenza della musica, qualcosa di davvero ultraterreno. Ho

sempre i brividi quando l’ascolto.

Film... Il Riccio, di Mona Achace. Primavera estate autunno inverno e

ancora primavera, di Kim Ki-Duk. Sussurri e Grida, di Ingmar Bergman. L’incredibile

avventura del 1963 diretto da Fletcher Markle. La spada nella

Roccia; Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, quello del ‘71, di Mel Stuart;

Harry Potter, tutti...

Fermami tu, altrimenti continuo!

17/ASCOLTI


RENZO FERRARI.

SULL′UOMO

18/FORME


di Marta Silenzi

con Paola Ranzini Pallavicini

Renzo Ferrari – pittore, incisore e grande grafomane

svizzero, uomo interessante, dal piglio acuto, la

battuta pronta, la risata di chi la sa lunga – ha una

visione chiara e lucida di quanto e cosa porti alla

sua pittura, alle sue immagini dense di dettagli, ai

suoi cambi di tavolozza, alle sue visioni grottesche

e implacabili che partono dal presente per arrivare

a radici ancestrali, narrando racconti e sottoracconti

che diramano in tante direzioni. Per questo negli

anni e per i suoi numerosi cataloghi ha preferito interviste

e conversazioni rispetto al classico testo critico.

Il termine “critico” oggi ha perso forza, trovo che scrivere un testo che

affianchi una forma d’arte visiva significhi piuttosto fornire parametri di comprensione

per intendere il lavoro di quell’artista e, quando l’artista conosce

bene la sua materia e ha un bagaglio espressivo capace di argomentarla da

sé come Renzo Ferrari, è chiaro che prediliga una forma di dialogo, per mantenere

un controllo su ciò che intende esprimere con competenza di pittore

ma anche con una forte padronanza della parola.

Partendo dal presupposto che è da poco uscito un nuovissimo libro per

Mimesis, Renzo Ferrari. Il pittore e i cardi (a cura di L.P. Nicoletti e F. Pellegrinelli),

che fa il punto sul lavoro dell’artista fino ad oggi attraverso confronti

e testimonianze già molto esaustivo, in questa intervista proveremo a

demarcare e a ricondurre riflessioni e dissertazioni al tema dell’uomo.

Renzo Ferrari nel suo

studio “Barakon”

19/FORME


Scrittura vegetale,

1958, acquarello,

22 x 14,2 cm

Le Fou, 1958-59,

olio su tela,

90 x 65 cm,

Collezione Masi,

Lugano

MS Nella conversazione con Pellegrinelli dici che il tuo interesse per

la figura, per l’elemento antropomorfo ha avuto una specie di momento scatenante

nel 1959 in relazione alla mostra New Images of Man, curata dallo

storico dell’arte Peter Selz, quando l’informale – su cui era sintonizzata la

pittura fino a quel momento – cede in qualche modo il passo, o lascia accedere,

lascia di nuovo penetrare nella materia la figurazione...

RF Dovrei forse precisare che l’esigenza di una figuralità, o come si

diceva allora di una “nuova figurazione”, è presente molto prima nel mio

lavoro rispetto alla visione nel 1959 del catalogo di Peter Selz Images of

Man, alla Biblioteca Americana USIS di via Andegari a Milano. Infatti le mie

prove in ambito informale nella seconda metà degli anni ‘50 (poco documentate

nei cataloghi e in buona parte distrutte) sono bulimiche di molte declinazioni

della lingua già allora planetaria dell’informale. Guardo agli americani:

Tobey, Sam Francis, legati alla cultura Zen, e prediligo le realizzazioni

su carta di riso e i piccoli formati europei. Faccio però eccezione proprio nel

1959 per degli exercises di grande formato su El Greco e l’ultimo Boccioni/

Cezanne. A lungo ho conservato innumerevoli prove di questo periodo in un

grande baule collocato nella attuale parte abitativa dell’atelier Barakon,

prima del riadattamento, per poi deciderne la distruzione.

All’inizio degli anni ‘60, dopo una prima mostra a Lugano – così commentata

dall’amico critico Walter Schõnenberger:

20/FORME


Interno Braun, 1961,

collage e olio su tela,

53,8 x 70 cm,

Collezione Masi,

Lugano

“Renzo Ferrari ha iniziato la sua ricerca da una forma chiaramente non

figurativa di trasposizione dell’esperienza dello spazio. La natura gli

suggerisce, nella ripetizione di elementi ritmati, il senso di un continuo

fluire, di un divenire nello spazio segnato dal passare della luce. Una

ricerca solitaria, ma acuta e sorvegliata, che ha avuto una breve parentesi

figurativa, in cui il giovane pittore, ricordando certamente El Greco

e Cezanne, s’è accinto a fermare le distorsioni della luce sulla superficie

dell’oggetto. Parentesi salutare che ha arricchito di una maggiore

adesione al reale l’attuale ripresa di temi non figurativi, risolti nella rigorosa

monocromia di liquidi tocchi minuti e incalzanti. Renzo Ferrari si

inserisce così nel vivo degli odierni interessi in pittura”

– si definisce la volontà di uscire dal linguaggio informale, per me forse limitatamente

autoreferenziale, e di introdurre una figuralità, un “nuovo racconto”.

Cambia allo stesso tempo il cromatismo che si allontana dal colore

timbrico nordico appreso durante il viaggio a Monaco di Baviera, con la visita

al Lembachaus e la visione dei pittori del Blauer Reiter e le opere giovanili

di Hans Richter, in favore di tonalità basse, terrose, lombarde. Il colore

lungo tutto il mio iter creativo ha un ricambio cromatico anche molto

radicale, può infatti oscillare da una luminosità timbrica a un forte oscuramento

fino all’estremo colore nero (periodo degli allarmi ecologici, nella

seconda metà anni ‘80).

21/FORME


Paesaggio spinoso,

1964, olio su tela,

50 x 40 cm, CSAC,

Università di Parma,

Sezione Arte

MS Il colore è la componente che per prima mi ha catturata incontrando

i tuoi lavori. Il tuo “rosso d’autore”, ricordi?

RF Il colore è il veicolo essenziale – con il disegno – della nostra

mappa esistenziale in continua mutazione. Boccioni per esempio lo collegava

agli stati d’animo, personalmente lo collegherei all’empatia di esperienza/immagine.

MS Nella tua produzione affiora a più riprese l’inevitabile questione

uomo-natura – che tu definisci più specificatamente “artificio-natura”–, una

natura che come tematica artistica oggi non può essere più soltanto un motivo

di bellezza lirica ma solleva problematiche maggiori, problematiche ecologiche,

ontologiche, morali, direttamente legate all’azione dell’uomo...

RF Il movente/tema artificio-natura è una polarità nel mio lavoro che

come un pendolo oscilla nel corso della mia intera esperienza espressiva

ormai più che sessantennale. Ha un punto di avvio come sintesi nella prima

maturità linguistica raggiunta nei primi anni ‘70, dopo un periodo sperimentale

pop. Infatti quanto poteva ritenersi natura e memoria ancestrale del

vissuto rurale dell’infanzia a Cadro, si interiorizza e confronta con il vissuto

della condizione urbana milanese. Tutto questo si sviluppa al ritorno

nella city – dopo il forzato rientro a Cadro del 1962 – durato fino al 1965. Il

mondo invasivo dei manufatti industriali, delle plastiche, della cartellonistica

pubblicitaria, delle insegne al neon, modifica radicalmente l’idea di uno

spazio ancora idilliaco anche quando ci si sposta per ricaricarci nel plein air

agreste. Da qui la dimensione anfibia contaminata

di tante mie pitture dagli Urbani alle

Mimesi (‘70/’80).

MS La natura nelle tue opere è spesso

spinosa, un concetto che prende ad emblema

proprio la pubblicazione cui facevamo riferimento

in apertura, e lo è sempre di più, la pandemia

ce lo ha mostrato inequivocabilmente,

persino la molecola del virus è coronata e pungente.

Eppure nella tua produzione ci sono

dipinti e grafiche di grande poesia legate ad

elementi di natura o paesaggio...

RF I paesaggi spinosi, in particolare

quello dello CSAC di Parma, sono tornati di

attualità a proposito della querelle ecologica

e, negli ultimi lavori, si tratta di un movente/

tema rinnovato quale “Natura difficile” che

ha trovato rilievo per la pubblicazione dal

titolo Il pittore e i cardi.

Nel rientro forzato a Cadro, dopo aver

22/FORME


esposto in una prima personale milanese

alle Ore nel 1962 sopratutto

le “camporelle” (figurazioni antropomorfe

nell’erba), elaboro quanto

mi offre lo sguardo retinico sul territorio

già allarmato da segnali di

degrado della natura.

Con la ripresa dunque di un

paesaggio alterato e vessato da

un’edilizia speculativa, nasce una

mia autodefinizione ironica di allora

come “pittore neuronaturalista”.

Gaio Giulia cerca

la chiave, 1974-75,

olio e acrilico su

carta intelata,

145 x 65,5 cm,

Collezione privata

Gaio ortopedico,

1973, olio e tempera

su carta intelata,

61 x 27,2 cm,

Collezione Masi,

Lugano

MS Forse la tua poesia sta

proprio nell’ironia...

Collegato all’argomento uomo-natura,

nel tuo immaginario esiste

un connubio, più che una dicotomia,

uomo-macchina, ed è una

questione complessa perché si manifesta

col personaggio del Gaio,

siamo negli anni settanta milanesi

e, siccome sei da sempre un catalizzatore, una specie di radar per le questioni

importanti ed attuali, già ti occupi di identità di genere e marginalità

sociale...

RF Due capitoli a parte di pittura, molto apprezzati dalla critica coeva

(oggi per la verità non esiste più questo statuto, per come ci siamo consegnati

all’edonismo di superficie del consumismo), riguardano i periodi appunto

dei paesaggi spinosi, prima meta’ anni ‘60, e dei Gaio (1973/75).

Il periodo dei Gaio è l’accendersi di un immaginario che, come nel caso

delle recenti Facezie, vuole esorcizzare uno stato oscuro e drammatico presente

delle cose. Macroscopie di “visages/teste” (influenza della caricatura),

di figure né maschio né femmina costellate da un’infinità di protesi di

ogni tipo sospese nello spazio. Si tratta di una storia del vissuto notturno

milanese, di un personaggio di nome Giulia, un transessuale che ispira tanti

miei lavori che sprizzano un’inconsueta gioiosa energia.

PRP Parli molto di questo oscillare tra Cadro e Milano, ma come ha

influito sul tuo lavoro il cambio di scenari e città in cui hai vissuto nel corso

della tua vita?

RF Indubbiamente viaggiare visitando luoghi e città, in particolare

fuori dal continente europeo, potrebbe ricaricare le pile dell’immaginario.

Ma posso dire di essere uno “stanziale”, nemmeno incallito ma non ho viaggiato

molto; non sono mai andato per esempio in Etiopia, paese di mia moglie

e di mio figlio, anche questa estate, che loro sono partiti per un soggiorno di

23/FORME


Figure e robot, 1972,

olio e acquarello

su carta intelata,

36,5 x 46 cm

Inverno, robot in

bosco, 2023,

china su carta,

18 x 12 cm

vacanze. In gioventù ho visitato tutti i più importanti musei continentali e ho

fatto due viaggi importanti a New York, un po’ più tardi, nel 1995 e nel 2004,

favorendo così una conoscenza non libresca di storia dell’arte antica e contemporanea

e favorendo la comprensione dei meccanismi del globalismo del

sistema dell’arte. In ogni caso la mia vicenda artistica “a pori aperti e antenne

sempre orientate” si è svolta sopratutto nel ricambio e ricarica anfibia

di due luoghi: Cadro e Milano.

Nel 2006 per problemi di salute ho cominciato a pensare di dover rinunciare

allo studio milanese e di riadattare uno spazio detto delle “carabattole”

che, vivo mio padre, serviva alle sue passioni che, scherzando con

il grande curatore di mostre Harald Szemann, avevo definito da “piccolo

Schwitters”. È così che questo nuovo spazio di lavoro, battezzato “Barakon”,

apre un nuova stagione creativa cadrina.

Non ho mai avuto uno spazio così ottimale per la luce zenitale che

entra solo dai lucernari, perché finestre e porte sono oscurate. Parlando con

Ruggero Savinio, mi riferiva che El Greco, che è pittore di luce, nel secolo di

pittura scura lavorava in un atelier volutamente semi buio.

Tutta una serie di mostre a partire dal 2007 ad oggi – ne cito alcune:

Atelier Barakon, Calendario feriale, Visioni nomadi, World Diary, Rabisch,

Busllis Time, Corona Diary, Tempo sospeso e facezie, Tetrallegro – sono

state realizzate al Barakon.

MS Tornando all’uomo-macchina, l’elemento meccanico si sta trasformando

in elemento tecnologico, che entra nel nostro corpo con l’ingegneria

biomedica ma che ci circonda anche e ci condiziona, con la tendenza a sostituirci

che un tempo attribuivamo alle macchine. Cosa ne pensi dell’Intelligenza

Artificiale, tema scottante del momento?

RF Quanto ci prospettano le novità ultime (limitatamente ai miei interessi

specifici) circa l’intelligenza artificiale, vale a dire la capacità della macchina

per esempio di “mimare” testi di scrittura, di poesia o darci delle repliche

di opere d’arte antica di alta definizione persino nella loro struttura materica,

di primo acchito muovono verso un nostro forte stupore; e la minaccia che la

24/FORME


Renzo Ferrari

a New York

macchina in un futuro molto prossimo possa sostituire l’uomo persino nelle

sue facoltà più intellettive e creative ci mette fortemente in allarme. Ma per

evitare gravose distopie mi immagino invece che l’uomo debba e con urgenza

porre dei limiti a queste velocissime evoluzioni tecnologiche miracolistiche.

La tecnologia non va demonizzata, sopratutto per un suo possibile impiego

positivo in ambito ecologico e nel campo sociale, medico e delle risorse umane,

ma dovrà essere necessario un fondativo codice etico.

È DIFFICILE COMUNQUE OGGI

IMMAGINARSI CHE L’UOMO

FRANKENSTEIN POSSA

RINUNCIARE ALLA

FASCINAZIONE DELLA

SUA DIABOLICA CREATURA.

CHE FAUST RINUNCI

AL PATTO CON IL DIAVOLO.

25/FORME


PRP Come ha influito negli anni sulla

tua routine lavorativa (che per un artista

non è mai routine, ma intreccio di momenti

produttivi molti intensi mescolati a contemplazione

assorta del mondo intorno) la presenza

sempre più assordante dei social nel

quotidiano di tutti?

Hai un legame molto intimo con la

carta stampata, adori il contatto fisico con

cataloghi, libri e riviste, oltre che con i tuoi

moleskine, estensione di te. Hai sviluppato

negli anni abitudini altrettanto appassionate

in rete? La tua caratteristica è sempre

stata quella di una mente adolescente, curiosa,

che attraversa le epoche con una vivacità

talmente moderna da stupirmi ogni

volta...

RF La routine lavorativa oggi è strettamente

legata agli stessi materiali di cronaca

mediatica che ci condizionano e bombardano

radicalmente e di cui tento una difficile esorcizzazione. Mi

riconduco all’estensione dei moventi/temi che mi hanno interrogato nel

tempo: migrazioni, catastrofi naturali, pandemie, guerre etc; in sintesi la

crisi di civiltà che viviamo. Non ci sono risposte che il pittore può dare, ma

un attraversamento empatico da “Walker” con i mezzi semplici di cui dispone,

non dissimili da quelli del suo antenato di Altamira e Lescaux e, per

contraddizione, con il Moleskine, il calepino che mi accompagna quotidianamente

e che ha il valore intimo dei clic del fotoreporter o il lessico trascritto

di un mormorio, di un gemito planetario.

MS In Renzo Ferrari. Opere 1990-2010 (Skira), in una nota scrivi:

“DICONO CHE SONO ‘TROPPO’ COERENTE PER VIA DELLA PER-

SISTENZA DELLA FIGURA, MA IN REALTÀ NEL TEMPO LA FIGURA

È DECLINATA IN TANTI MODI DIVERSI, NON È PERORATA MONO-

DICAMENTE, MA RAPSODICAMENTE.”

In tutta la tua produzione l’uomo ha una dimensione pubblica più che

intimista – nel senso che è legato a fatti di cronaca che sono come micce che

accendono il tuo bisogno di registrare e rappresentare la società che stai

vivendo – e di moltitudine più che di solitudine, cioè la figura è un corpo,

tanti corpi che insieme assumono un significato. Ombre, sagome, spiriti che

si muovo in più piani e più contesti per dire più cose contemporaneamente,

partendo dall’attualità per risalire all’ancestrale. Le letture dei tuoi quadri

raramente sono univoche, suggeriscono più possibilità di comprensione, più

livelli, una complessità articolata...

26/FORME


a sinistra

Lidische Reise, 1969,

tempera su carta,

32,9 x 24,2 cm

Urbani gelb pallido,

1977, olio su tela,

51 x 35 cm,

Collezione Masi,

Lugano

Mimesi elbana, 1980,

olio su tela,

33 x 40,5 cm,

Collezione privata

Liberare l'animale,

1980-81, olio su

tavola, 65 x 40 cm,

CSAC, Università di

Parma, Sezione Arte

27/FORME


Walker sacrificio

time, 2005-2007,

olio e collage

su carta intelata,

133 x 110,2,5 cm,

Collezione Masi,

Lugano

RF La figura nel mio lavoro è effettivamente declinata in modi rapsodici

per la ragione prima che l’uomo è lui stesso natura (deviata dalla condizione,

da un “disagio della civiltà’’) e appartiene a tanti regni contaminanti:

animale, botanico, minerale. Da qui le tante metamorfosi che riguardano

il figurare che pretende un nomadismo linguistico. Alcuni temi sono Mimesi

(1980), un tentativo di far rientrare l’uomo nel vasto disegno della natura,

intesa, e del resto anche oggi, come “Natura difficile”; Urbani (anni ‘80), riguardo

la condizione urbana, post industriale, alienata e l’attuale ricomparire

di figure-robot (la pressione tecno). Accanto a tutto questo esiste poi un

mondo oltre: i Visitors, fantasmi della memoria, della coscienza che ci visitano,

e tornano in varie date, compreso il Walker (vedi Liberare l’animale,

1980, CSAC di Parma) che ci accompagna nel “testa/ coda” del tempo.

MS Infatti forse più solitario è il Walker, figura che segue in linea temporale

quella del Gaio e precede quelle degli Urbani. Ma questo uomo che

cammina non è un trascendentalista, è forse un attraversatore? Di mondi,

epoche, dimensioni?

28/FORME


RF No, infatti non direi che sia un trascendentalista. È un uomo che

cammina e il suo camminare, come il mio, è mentale, sai, le famose “passeggiate

da fermo”; è un esplorare mentalmente il world, un attraversare le dimensioni

che oggi è multidirezionale (grazie alle possibilità del web): il

Walker è un esploratore mentale dell’ubiquità nel mondo.

Comunque prima hai detto: “la figura è un corpo, tanti corpi che insieme

assumono un significato” ed è un passaggio importante perché non è stato

ancora detto quanto sia determinante il corpo nel mio lavoro, come energia

diretta fisiologica, del sistema nervoso e nella formalizzazione nomade del

figurare. Per capirci, anche il robot è un artificio, una replica del corpo.

C’era una bella rivista, fondata da Elvio Fachinelli negli anni sessanta

insieme a un gruppo di filosofi, storici e letterati (tra cui Giancarlo Majorino,

Luciano Amodio, Elio Pagliarani) intitolata Il corpo. Dirompente, di ispirazione.

MS Le tue tematiche, compresa quella sfaccettata della figura che

s’imprime in un contesto ancora materico e insieme segnico, su superfici

graffiate, espressivamente prese dal colore, acutamente ironiche, si manifestano

e poi tornano nel tempo, stabilendo un rapporto duraturo, come parti

di un tuo codice che andando avanti si adatta, cambia, cresce. Il tuo percorso

appare sempre evolutivo.

Agli Urbani seguono i “nomadi”, che ancora una volta prendono avvio

da questioni d’attualità e ancora una volta testimoniano una tua propensione

all’ascolto, una tua capacità di captare situazioni cruciali, come quella

appunto delle migrazioni, ancora oggi attualissima...

RF Anche per le migrazioni ho proposto immagini cruciali del disagio,

in continuità con il ciclo degli Urbani. Daccapo il corpo, i corpi si presentano

con diverse identità e determinano un variare continuo della formalizzazione,

del linguaggio non monodico, ma rapsodico.

MS Rapsodico, quindi discontinuo, frammentario, ritornante. Veloce

anche, ritmico. E velocità, impazienza del risultato, disegno come perno del

tuo lavoro, per cogliere rapidamente le tue visioni, la scelta della puntasecca

tra le tecniche grafiche perché più immediata e vicina al disegno, sono

tutte tue caratteristiche. Il tuo temperamento artistico sembra adattarsi ai

tempi correnti, in cui tutto è azione e riempimento, e all’uomo d’oggi che non

ha spazio per l’attesa.

RF L’atteggiamento operativo che tu definisci veloce nel cogliere delle

visioni, con riferimento sopratutto alle tecniche calcografiche (per loro

caratteristica lente), è determinato dal tentativo di non perdere la vitalità,

l’energia del flusso immaginativo. Tutto questo vale anche per la pittura,

l’esigenza di non sondare troppo il processo tecnico per poter conservare

energia e freschezza del risultato. E questo non è sempre facile da ottenere,

ma mi è congeniale.

29/FORME


MS C’è una frase nel tuo ultimo libro che mi ha molto colpita, dici: “Se

la nostra società è davvero liquida, senza un’identità univoca, significa che

dobbiamo riconsiderare nel tempo chi siamo. Di qui, appunto, il plurilinguismo

che da sempre caratterizza il mio lavoro”. La tua capacità di rinnovarti

e mantenere il tuo sguardo, il tuo linguaggio e la tua mente sempre aperti è

evidente leggendo il tuo lavoro nel tempo, nel quale non ci sono giudizi ma

umori, temperature, colte e restituite in forma pittorica. Parlaci di questo

multilinguismo, di quando i titoli entrano nel quadro, della tua calligrafia

che diventa pittura...

RF La nostra società liquida esige in pittura un plurilinguismo adeguato

ad esprimere le continue oscillazioni identitarie. Quello che in tempi

non lontani nel linguaggio veniva considerato eclettismo, in accezione negativa,

diventa oggi facoltà positiva e contestuale nell’orientare l’espressione

in letteratura, musica, arti. È necessario molte volte accompagnare l’immagine

dipinta con scritture che, come nei Moleskine, ne completino il

significato anche con spunti lessicali in una immersione ritmica dello spazio.

Nei momenti emergenziali della pandemia, Corona Diary 2020, questo coacervo/repertorio

di visioni è divenuto particolarmente febbrile e ossessivo.

MS La calligrafia si fa infatti particolarmente importante nel contesto

delle Moleskine, che abbiamo indagato intensamente insieme in periodo

pandemico per una pubblicazione.

Scrivevo: “Agli schizzi, che hanno il sapore dell’immediatezza ma anche

l’energia dello sviluppo e del divenire, si àncora a corollario o per germinazione

la grafia piena, elegante e frenetica, altra testimone dell’urgenza

produttiva dell’artista, del vivace e a volte indiavolato lavorio mentale.”

In Moleskine Pandemia (Edizioni Zedia, 2020), avevamo circoscritto

l’osservazione delle tue pagine private alla seconda ondata di Corona virus,

nell’imminenza del secondo lockdown, ma in tutto quanti saranno ormai i

taccuini accumulati? Torni mai a guardarli, a viaggiare nel passato?

RF I Moleskine superano oramai il centinaio. Per abitudine non li riguardo,

non li rileggo, non si interrompe però la necessità di continuare a

redigerli con qualche variante di formato e contenuti. Ultimamente infatti ne

ho realizzato uno di quasi trecento pagine che oltre a disegni, progetti scritti,

sogni, valutazioni varie, diario domestico, commenta il lavoro del mio intero

percorso artistico. Lo ho titolato Zibaldone, chiedendo scusa a Leopardi.

MS Il concetto di “diario” ti accompagna da sempre, prima hai citato il

Corona Diary non a caso. Ma c’erano già stati il Diary Eco, nel periodo nero

in cui mostravi l’avvelenamento della natura in atto, e poi il World Diary a

partire dal nuovo millennio. Ce ne parli?

RF Sì, il diary è un mio modo di denominare quello che chiamerei un

vasto compendio di materiali che vengono da un periodo anche molto dilatato,

materiali che necessitano di un forte metabolismo di assimilazione che

30/FORME


Moleskine

31/FORME


l’istinto del pittore deve orientare per una possibile

meraviglia, una freschezza comunicativa.

Compito non facile, perché può succedere che

per sovraccarico emotivo il flusso creativo si interrompa

e necessiti di pazienti riflessioni per

una ripartenza. Cioè a volte per mantenere una

freschezza di restituzione si deve risalire all’origine,

per schermarsi dalla valanga di informazioni

e anche per uscire dal pericolo dell’assuefazione.

Night, gli sposi e

l'uomo ragno, 2013,

olio su tavola,

126,5 x 90 cm,

Collezione privata

MS Dalle interviste e dalle conversazioni,

anche video, che testimoniano nel tempo il tuo

lavoro, emerge con sempre più evidenza la forte

e stratificata cultura che informa e sostiene la

tua produzione, moltissimi sono i riferimenti ad

altri pittori, a scrittori e pellicole cinematografiche

che fanno strato con i fatti di cronaca e gli

avvenimenti quotidiani che innescano l’ispirazione

e poi si snodano sommandosi al tuo bagaglio

sulla tela.

Se dovessi isolare le figure che più ti hanno colpito e più hanno influito

sul tuo percorso di uomo e pittore, chi sceglieresti?

RF Sorprenderò dicendo che un pittore che ammiro molto è De Pisis,

oltre ai tanti autori modello della mia formazione, elenco lungo che spero

non abbia inficiato il mio entusiasmo/ fedeltà alla pittura. Per le letture,

oggi, oltre i Carver, De Lillo e tanti altri americani, ultimamente ho letto

Guerra inedito di Céline, classico che amo molto. Sorpresa, questa estate ho

letto molto Simenon, ogni settimana in edizioni di Repubblica e, per contrasto

forte, ho riletto Delitto e Castigo e Memorie del sottosuolo di Dostoevskij.

Ascolto tanta musica quando lavoro. Piacevole ascoltare Bollani.

MS Sei un artista che vive il suo tempo, adattandosi a tutti i cambiamenti

che esso esige. Come vivi il cambio di scenario a livello di collezionismo,

di mercato, che è già in atto da tanto e ha sicuramente avuto un’ulteriore

sferzata con lo stallo della pandemia?

RF La pittura oggi può rarissimamente essere individuata per sue qualità

ancora specifiche, dopo quello che è avvenuto già negli anni ‘70, avvertito

con anticipo dal critico americano Harold Rosemberg come “Sdefinizione

dell’arte”. Questa è infatti l’epoca babelica dei mille linguaggi dove torna

difficile potersi orientare e discernere qualcosa che si ponga al di là delle

omologazioni demenziali del mercato della cosiddetta arte contemporanea,

che ha marginalizzato artisti validi di alcune generazioni.

Molto intima è la speranza che nel tempo, una ecologia anche mentale

possa riportare a galla un interesse di nuovo profondo per questo linguag-

32/FORME


Stilleben Piazza

Italia, 2013, olio

e collage su tela,

100 x 145 cm,

Collezione privata

gio straordinario, caduto in una trascuratezza incomprensibile. Chi vivrà

vedrà....se però il pianeta reggerà.

PRP “Io devo scegliere cosa vale la pena raccontare, se l’orrore o il

desiderio. E ho scelto il desiderio... il mio desiderio così impuro, così impossibile,

così immorale, ma non importa. Perché è quello che ci rende vivi.”

(Jimmy Tree/ Paul Dano in Youth, di Sorrentino)

Vorremmo essere tutti più simili agli uomini e alle donne delle tue

opere: esposti al mondo, nudi, con lo sguardo sempre rivolto altrove, pieni di

passione. L’uomo dei tuoi quadri si staglia netto sulla tela, risalta, spesso

violento o sofferente ma mai banale, mai idealizzato, sempre ben conscio

alla sua natura mortale che è anche la sua forza. Sei tu, sotto mille sfaccettature.

È il tuo grande amore per i tuoi simili, che ti spinge continuamente a

indagare.

Parlarne con te nel corso degli anni (e posso dire che metà della mia

vita è stata costellata dalle elettriche e insostituibili conversazioni con te)

mi ha sempre trasmesso una gioia di vivere potentissima.

Questa tua necessità di conoscere l’uomo, e raccontarcelo, è il tuo vero

segreto di giovinezza?

RF Il mio desiderio è che la speranza non si riveli come dice Bukowski:

“eterna e risorgente sempre come un fungo velenoso”.

33/FORME


Mariupol, 2022,

acrilico e olio su tavola,

50 x 35 cm

Facezia Herbst Grottesco,

2022, acquarello,

29,5 x 21 cm

34/FORME


IL MIO DESIDERIO

È CHE LA SPERANZA

NON SI RIVELI COME

DICE BUKOWSKI:

“ETERNA E

RISORGENTE

SEMPRE COME UN

FUNGO VELENOSO”.

MS Un recettore come te non poteva certo rimanere

indifferente all’incubo seguito, quasi in una

staffetta, a quello della pandemia, risvegliando il

tuo completo immaginario, uomo-natura-macchina,

e declinandolo in funzione di un nuovo diario, quello

della guerra russo-ucraina...

RF Alla guerra russo-ucraina ho dedicato una

mostra e pubblicato il catalogo Ombre nel 2022. Era

impensabile che nel continente potesse ricomparire

lo spettro di una nuova belligeranza, dopo l’eccidio

della Seconda Guerra Mondiale. Si riaffacciano

così zone d’ombra di una memoria ancestrale con

momenti di apprensione e di spavento. E da qui le immagini possono accogliere

le scellerate devastazioni dei droni, gli scheletri neri dei palazzi bombardati,

le rovine delle città rase al suolo come Mariupol e delle acciaierie

Azovstal, i massacri di Buca. Tutto questo repertorio di morte potrebbe essere

la dimostrazione estrema di una cancellazione della civiltà. Quello che

però tento da sempre di restituire, anche riguardo al tema della “natura

difficile”, è una trasfigurazione, una possibile catarsi di questi desaster voluti

dall’uomo, attraverso la vitalità del segno/ disegno e la miccia del colore:

una visione.

MS “La bellezza salverà il mondo”. Dato che prima ha nominato Dostoevskij.

Poi c’è una serie di lavori recenti che, pur inglobando le stesse tematiche,

il persistere della guerra, la “natura difficile”, tende ad essere più

giocosa, anche col medium spesso mixato, e quindi grottesca, densa di oggetti

e rimandi. Parlaci di questo “tetrallegro”.

RF La mostra Tetrallegro la sto preparando. La titolazione la devo

all’amico e grande poeta scomparso Giancarlo Majorino. Si tratta di una

suite di opere divertite, delle Facezie che mettono una qualche distanza

dalle altre narrazioni drammatiche spesso insidiate dalla retorica. Sono immagini

nutrite di una qualche ironia in cui tento di uscire dal crunch moment

che stiamo attraversando.

MS L’ironia è sempre un buon antidoto per te, un buon fattore di bilanciamento.

RF Perché l’ironia apre spiracoli che un tantino ci allontanano dalla

cruda smorfia del presente.

35/FORME


CHI HA SCORTO L'UNIVERSO,

NON PUÒ PENSARE A UN UOMO,

ALLE SUE MESCHINE GIOIE

O SVENTURE,

ANCHE SE QUELL'UOMO È LUI.

NON GL'IMPORTA

LA SORTE DI QUELL'ALTRO,

NON GLI IMPORTA

LA SUA AZIONE,

POICHÉ EGLI ORA È NESSUNO.

J. L. Borges, L'Aleph


L'UOMO PORTA DENTRO DI SÉ

LE SUE PAURE BAMBINE

PER TUTTA LA VITA.

ARRIVARE

A NON AVERE PIÙ PAURA,

QUESTA È LA META ULTIMA

DELL'UOMO.

Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno

LA STORIA SI RIPETE,

E COME È VERO

CHE UN UOMO È UN UOMO,

LA STORIA

È L'ULTIMO POSTO

DOVE ANDRÀ A CERCARE

LE SUE LEZIONI

Harper Lee, Va', metti una sentinella


#album


SAND MEN

Riccardo Antolini

39/ALBUM


DISEGNI SULLA SABBIA.

PARLANO DELLA

NATURA TEMPORANEA

DELL'ESISTENZA, DEL

TEMPO CHE SCORRE VIA,

D'IMPERMANENZA.

DI COME NULLA

SIA DURATURO, PER

PRIMO L'AMORE.

E SONO ANCHE UN

ESERCIZIO SUL

LASCIARE ANDARE,

UNA PRATICA DI NON

POSSESSIONE.

SE LI RIPRENDE IL MARE.

40/ALBUM


41/ALBUM


42/ALBUM



44/ALBUM


45/ALBUM

SE LI RIPRENDE IL MARE.


Uomini,

bugie e videotape

Paola Ranzini Pallavicini

L’EX VENDITORE DI AUTO

La pubblicità si basa su un’unica

cosa: la felicità. E sapete cos’è la

felicità? La felicità è una macchina

nuova, è liberarsi dalla paura, è un

cartellone pubblicitario che ti salta

all’occhio e che ti grida a gran voce

che qualunque cosa tu faccia è ben

fatta, e che sei ok.

Richard "Dick" Whitman alias

Don Draper / Jon Hamm

Mad Men di Matthew Weiner

IL LUPO

Lasciate che vi dica una cosa.

Non c’è nobiltà nella povertà. Sono

stato un uomo povero, e sono stato un

uomo ricco. E scelgo di essere ricco

tutta la vita, dannazione!

Jordan Belfort / Leonardo DiCaprio

The wolf of Wall Street

di Martin Scorsese

IL FILOSOFO

Infilarti le penne nel culo non fa

di te una gallina!

Tyler Durden / Brad Pitt

Fight club di David Fincher

L’ASSASSINO NATO

Ogni specie uccide altre specie.

Gli uomini invece le uccidono tutte

allegramente.

Mickey Knox / Woody Harrelson

Natural born killers di Oliver Stone

IL CUOCO

Una buona tazza di cioccolata

verso le undici apre lo stomaco

per il pranzo.

Ugo / Ugo Tognazzi

La grande abbuffata di Marco Ferreri

L’ANTICONFORMISTA

“Lei pensa che la sua mente abbia

qualcosa che non va?"

"No signore, è una meravigliosa

stupenda macchina della scienza.”

Randle Patrick McMurphy / Jack

Nicholson

Qualcuno volò sul nido del cuculo

di Milos Forman

46/FOTOGRAMMI/note


IL DEMONE

Folleggiammo alquanto con altri

viaggiatori della notte da autentici

sbarazzini della strada, poi

decidemmo che era ora di eseguire

il numero visita a sorpresa, un po'

di vita, qualche risata e una

scorpacciata di ultraviolenza.

Alexander De Large / Malcolm

McDowell

Arancia meccanica di Stanley Kubrick

IL FISICO SUICIDA

Ma qual è il significato di tutto?

Niente! Zero! Nulla! Tutto finisce in

niente, anche se non mancano gli

idioti farfuglianti. Non parlo di me, io

la visione ce l’ho, sto parlando di voi,

dei vostri amici, dei vostri colleghi,

dei vostri giornali, della tv. Tutti

molto felici di fare chiacchiere,

completamente disinformati. Morale,

scienza, religione, politica, sport,

amore, i vostri investimenti, i vostri

figli, la salute... Cazzo, se devo

mangiare nove porzioni di frutta e

verdura al giorno per vivere... non

voglio vivere! Io detesto la frutta e la

verdura! E i vostri omega tre e il tapis

roulant e l’elettrocardiogramma e la

mammografia e la risonanza pelvica e,

oh mio Dio, l-la colonscopia... e con

tutto ciò arriva sempre il giorno in cui

vi ficcano in una scatola e avanti con

un’altra generazione di idioti, i quali

vi diranno tutto sulla vita e

decideranno per voi quello che è

appropriato. Mio padre si è suicidato

perché i giornali del mattino lo

deprimevano e lo potete biasimare?

Con l’orrore, la corruzione e

l’ignoranza e la povertà e i genocidi e

l’AIDS e il riscaldamento globale e il

terrorismo e quegli idioti dei valori

della famiglia e quei maniaci delle

armi. «L’orrore» dice Kurtz alla fine di

Cuore di tenebra, «l’orrore». E beato

lui non distribuivano il Times nella

giungla. Eh, se no l’avrebbe visto

l’orrore. Ma che si può fare? Leggete

di qualche massacro nel Darfur o di

uno scuolabus fatto esplodere e

attaccate “Oh, mio Dio l’orrore!” e poi

girate pagina e finite le vostre uova di

gallina ruspante, perché tanto che si

può fare, si è... si è sopraffatti. Anche

io ho tentato di suicidarmi,

ovviamente non ha funzionato. Ma

perché mai volete sentire queste

cose? Cristo, avete già i vostri di

problemi! Sono sicuro che siete

ossessionati da un gran numero di

tristi speranze e sogni, dalle vostre

prevedibilmente insoddisfacenti vite

amorose, dai vostri falliti affari. “Ah

se solo avessi comprato quelle azioni,

se solo... se solo avessi comprato

quella casa anni fa, se solo ci avessi

provato con quella donna...” Se

questo, se quello... Sapete una cosa?

Risparmiatevi i vostri “avrei potuto” o

“avrei dovuto”. Come mia madre

diceva sempre “se mia nonna avesse

le ruote sarebbe una carrozza”. Mia

madre le ruote non le aveva, aveva le

vene varicose. Eppure la signora ha

partorito una mente brillante. Mi

hanno preso in considerazione per il

Nobel per la fisica. Non l’ho ottenuto,

però si sa, è tutta politica come ogni

altra finta onorificenza. Detto tra noi,

non crediate che io sia amareggiato

per qualche batosta personale. Per

gli standard di una insensata e

barbarica civiltà, sono stato piuttosto

fortunato. Ho sposato una bella donna

che era ricca di famiglia, per anni

abbiamo vissuto a Beekman Place.

Insegnavo alla Columbia, teoria delle

stringhe.

Boris Yellnikoff / Larry David

Basta che funzioni di Woody Allen

L’IPOCONDRIACO

Le parole più belle del mondo non

sono “Ti amo” ma... “È benigno”.

Harry Block / Woody Allen

Harry a pezzi di Woody Allen

IL BANDITO TRISTE

Mi dispiace, ragazzi. Non

basterebbero nemmeno tutti i punti

del mondo per ricucirmi. È finita... è

finita... Mi metteranno nel negozio di

pompe funebri di Fernandez sulla

109esima Strada. Ho sempre saputo

che prima o poi sarei finito lì, però

molto più tardi di quanto pensava un

47/FOTOGRAMMI/note


sacco di gente. L’ultimo... dei

Mohiricani. Be’, forse non proprio

l’ultimo. Gail sarà una brava mamma,

di un nuovo e migliore Carlito

Brigante. Spero che li userà per

andarsene, quei soldi: in questa città

non c’è posto per una che ha il cuore

grande come il suo. Mi dispiace,

amore, ho fatto quello che potevo,

davvero... Non ti posso portare con me

in questo viaggio... Me ne sto

andando, lo sento. Ultimo giro di

bevute, il bar sta chiudendo. Il Sole

se ne va. Dove andiamo per colazione?

Non troppo lontano. Che nottata...

Sono stanco, amore. Stanco...

Carlito Brigante / Al Pacino

Carlito’s Way di Brian de Palma

IL SENATORE COMUNISTA

A che ora è la rivoluzione, signora?

Come si deve venire? Già mangiati?

Mario / Vittorio Gassman

La terrazza di Ettore Scola

IL COLONNELLO SURFISTA

Mi piace l’odore del napalm

al mattino.

Bill Kilgore / Robert Duvall

Apocalypse Now

di Francis Ford Coppola

IL CINICO INNAMORATO

No, tu sei sola, sei tutta sola, e non

potrai liberarti di questa sensazione

di completa solitudine finché non

guarderai la morte in faccia. E poi

neanche: guarda, questa non è che

una stronzata romantica. Finché non

sarai capace di guardare nella morte,

nel buco del suo culo, sprofondando

in un abisso di paura. E allora forse,

solamente allora, forse riuscirai a

trovarlo.

Paul / Marlon Brando

Ultimo tango a Parigi

di Bernardo Bertolucci

QUELLO DI MEZZA ETÀ

Ho sempre saputo che ti passa

davanti agli occhi tutta la vita

nell’istante prima di morire. Prima di

tutto, quell’istante non è affatto un

istante: si allunga, per sempre, come

un oceano di tempo. Per me, fu... lo

starmene sdraiato al campeggio dei

boy scout a guardare le stelle

cadenti, le foglie gialle degli aceri

che fiancheggiavano la nostra strada,

le mani di mia nonna, e come la sua

pelle sembrava di carta. E la prima

volta che da mio cugino Tony vidi la

sua nuovissima Firebird. E Janie... e

Janie... e Carolyn. Potrei essere

piuttosto incazzato per quello che mi

è successo, ma è difficile restare

arrabbiati quando c’è tanta bellezza

nel mondo. A volte è come se la

vedessi tutta insieme, ed è troppa.

Il cuore mi si riempie come un

palloncino che sta per scoppiare.

E poi mi ricordo di rilassarmi, e

smetto di cercare di tenermela

stretta. E dopo scorre attraverso me

come pioggia, e io non posso provare

altro che gratitudine, per ogni singolo

momento della mia stupida, piccola,

vita. Non avete la minima idea di cosa

sto parlando, ne sono sicuro, ma non

preoccupatevi: un giorno l’avrete.

Lester Burnham / Kevin Spacey

American Beauty di Sam Mendes

IL MALINCONICO

"Che hai fatto in tutti questi anni,

Noodles?"

"Sono andato a letto presto”.

David "Noodles" Aaronson / Robert

De Niro

C’era una volta in America

di Sergio Leone

IL BUONGUSTAIO

Uno che faceva un censimento una

volta tentò di interrogarmi: mi

mangiai il suo fegato con un bel piatto

di fave e un buon Chianti.

Hannibal Lecter / Anthony Hopkins

Il silenzio degli innocenti

di Jonathan Demme

IL CANDORE

David: "Si tratta di un gioco

o è una cosa vera?"

Joshua: "Che differenza fa?"

David J. Lightman / Matthew

Broderick

Wargames di John Badham

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L'ANTIEROE DARK

Non può piovere per sempre.

Eric / Brandon Lee

Il Corvo di Alex Proyas

IL GURU 1

Rispetto un regime di droghe

piuttosto rigido per mantenere la

mente flessibile.

Jeffrey Lebowski alias "Drugo" / Jeff

Bridges

The Big Lebowski dei fratelli Coen

IL GURU 2

Io non chiederò perdono per quello

che sono. Non chiederò perdono per

le cose di cui ho bisogno!

Frank T.J. Mackey / Tom Cruise

Magnolia di Paul Thomas Anderson

IL MEDICO

Tu non hai mai visto un cuore, é come

un pugno avvolto nel sangue.

Larry / Clive Owen

Closer di Mike Nichols

IL CORAGGIOSO

Non credo nella magia, ma talvolta

nella mia vita ho visto delle cose che

non riesco a spiegare e ho capito che

non è a cosa credi il punto, ma con

quanta forza ci credi!

Henry Walton Jones, Jr. alias Indiana

Jones / Harrison Ford

Il quadrante del destino di James

Mangold

L’ATTORE IMPEGNATO

Io devo scegliere cosa vale la pena

raccontare: l’orrore o il desiderio...

E ho scelto il desiderio, perché

è quello che ci rende vivi.

Jimmy Tree / Paul Dano

Youth di Paolo Sorrentino

IL PROFESSORE AL CREPUSCOLO

Quanto siete arcaici quando fate

i moderni!

Prof. Bruschi / Marcello Mastroianni

Verso sera di Francesca Archibugi

IL SESSO

L'ho rivista solo una volta. È stato

solo per caso, in un aeroporto mentre

cambiavo aereo. Lei non mi ha visto.

Stava con Peter, aveva in braccio

un bambino. Non era diversa da

tutte le altre.

Stephen Fleming / Jeremy Irons

Il danno di Louis Malle

IL CINICO

Nessuno della tua generazione sa

bere: lo fate per le ragioni sbagliate.

La mia generazione beve perché bere

è bello; anche più bello di quando

ti slacci il colletto. Perché noi ce

lo meritiamo; perché tutti gli uomini

bevono. Voi, con le vostre angosce

e i vostri pensieri tristi, state

sempre lì a leccarvi delle ferite

immaginarie.

Roger H. Sterling / John Slattery

Mad Men di Matthew Weiner

IL JAZZISTA

Mi raggomitolerei in un angolo e

morirei e suonerei al mio funerale.

Bleek Gilliam / Denzel Washington

Mo’ Better Blues di Spike Lee

49/FOTOGRAMMI/note


MARIO

DONDERO

IL RACCONTO

E IL TALENTO

50/OMBRE


Marta Silenzi

un ricordo della mostra fotografica A proposito di Robert Capa

e dell’incontro Dondero-Giordana per la presentazione del libro

Lo scatto umano, viaggio nel fotogiornalismo da Budapest a New York

3 ottobre 2014, Galleria Centofiorini, XVI edizione di Cartacanta,

Civitanova Alta

«Siccome al liceo andava bene in italiano, era venuto su con l’idea di

farsi giornalista, ma poi qualcuno gli consigliò, proprio per via della

mole e della pratica del gioco del rugby, di scegliere invece il fotoreportaggio,

un mestiere che richiede buone spalle, se vuoi farti largo

nella calca e scattare il flash al momento buono. Carlone aveva accettato,

e adesso lo vedevo, rincasando, steso sul letto a sfogliare vecchi

numeri di “Life”: così, diceva, per trovare un’idea, uno spunto. Qualche

volta, se non avevo voglia di salire in biblioteca per le mie ricerche, lo

accompagnavo fino alla Mondialpicts, l’agenzia fotografica dove lavorava

assieme ad altri due ragazzi, alloggiati nella camera accanto alla

nostra, Mario e Ugo.»

Luciano Bianciardi, La vita agra

Il bianco e nero, lo scatto etico, l’elemento umano, l’impegno civile sono solo

alcune delle componenti di fotografie e reportage realizzati da Mario Dondero

(Milano 1928-Petritoli 2015).

Del resto un uomo così generoso e vorace allo stesso tempo, dotato di

una curiosità irresistibile e di un senso del racconto così spiccato, non poteva

limitarsi a dei ferrei parametri, doveva seguire l’istinto, doveva seguire

il talento.

E l’istinto lo ha portato nella storia, tra la letteratura, nella politica,

molto vicino agli uomini, con cui ha instaurato per natura rapporti immediati

grazie ad una genuina comunicatività e di cui ha saputo cogliere espressioni

e momenti che si sono fissati nel tempo.

Partito da giornalista e approdato alla fotografia, mezzo veloce del

racconto, con cui poteva essere sincero, rispettoso del momento scelto e

scattato, della semplicità del reale, intendendo per semplicità “il risultato

di un percorso, più che un inizio”, quindi un lavoro consapevole teso all’informazione

chiara e imparziale. Più che fotografo, definizione che non amava

molto, Dondero è diventato reporter, fotogiornalista, applicando ai suoi

reportage una retorica dell’istantaneità, imparata da Robert Capa, da Henri

Cartier-Bresson, coniugata con una tensione verso il fattore umano: “il mio

modo di fotografare”, diceva, “richiede un elemento antropologico.

51/OMBRE


Tutte le foto dell'articolo

sono di Ivano Quintavalle

UNA STRADA NON È UNA STRADA, O

UNA FINESTRA NON È UNA FINESTRA

SE NON C’È LA PRESENZA UMANA.”

Allora umanità diventa la parola chiave per il lavoro di Dondero. Nella

prefazione alla monografia di Simona Guerra, Massimo Raffaeli punta infatti

sul termine Humanitas, riferendo che a Mario interessava esserci, fisicamente,

per dare testimonianza di qualcosa o di qualcuno. Ecco il perché

della scelta delle immagini sulla scrittura (nonostante scrivesse con un

ritmo alla Bianciardi, stimato amico dei tempi del Bar Giamaica che lo ha

inserito come “Mario” ne La vita agra), immagini scattate con un approccio

sempre diretto e dialogico, lo stesso che instaurava con gli uomini, secondo

ideali immutati di libertà e giustizia sociale, quelli della Resistenza, cui

partecipò durante la II Guerra Mondiale e che non lo hanno più lasciato.

Tutto questo emerge solo a sfogliare i suoi libri, a guardare le sue foto,

ad apprendere per quante testate e riviste nazionali ed internazionali ha

lavorato, più di quelle che sembrerebbe possibile far entrare in una vita,

conoscendo e permettendo di conoscere, dalla Milano del dopoguerra alla

Parigi anni ’50, dalla caduta del muro di Berlino all’Africa, all’America latina,

alla Russia, all’Afghanistan con l’equipe di Emergency, intessendo tutto

non solo di interesse storico, politico e civile, ma anche intellettuale, realizzando

numerosi ritratti di artisti, attori, scrittori e personaggi pubblici che

diventavano amici, che lo accompagnavano nel tempo, che ricorrevano nei

suoi ricordi aneddotici. La letteratura lo influenzava, amava molto gli scrittori

fortemente visivi, come Pavese e Pratolini, diceva che non poteva trovarsi

in Spagna senza pensare ai Quarantanove racconti di Hemingway. Uno

dei suoi scatti più celebri è del resto l’immagine degli scrittori del Nouveau

Roman riuniti davanti alla sede delle Éditions de Minuit nel ’59, una foto di

uomini e donne come appena usciti dall’edificio, che si fermano a fumare una

sigaretta, a scambiare qualche parola ancora, con atteggiamenti casuali,

l’istantanea di un momento, fotogiornalismo quindi, che non cerca pose o

spettacolarizzazioni, coglie l’attimo e fa la storia.

Soprattutto c’era l’interesse per la Spagna repubblicana.

Robert Capa era uno dei suoi padri putativi, furono le sue fotografie ad

ispirarlo, a spingerlo verso la stessa professione; si trovò a collaborare con

Regards, la leggendaria rivista comunista che per prima aveva pubblicato le

foto di Capa e Gerda Taro sulla Guerra Civile spagnola, conobbe Guttmann,

lo scopritore e maestro di Capa, e portò avanti un interesse che poi si trasformò

in un viaggio e in una sfida, e quindi in una mostra.

Praticamente una prima nazionale, essendo stata preceduta solamente

da una breve anteprima sarda alla fine del 2013, la mostra fotografica di

Mario Dondero A proposito di Robert Capa veniva ospitata nell’ottobre 2014

alla Galleria Centofiorini di Civitanova Alta (nella sua sede storica e suggestiva

che ha alle spalle quarant’anni di arte contemporanea di particolare

qualità) per la cura di Ivano Quintavalle e all’interno della rassegna Carta-

52/OMBRE


canta, quell’anno concentrata sul tema del fotogiornalismo con molte altre

esposizioni interessanti in altre sedi della cittadella.

I cinquanta scatti erano il prodotto di una lunga attenzione riservata da

Dondero alla Spagna repubblicana, ma anche di un’occasione venutasi a creare

nel 2006 quando, collaborando con Enrico Deaglio per un’edizione speciale

del Diario della settimana intitolata Volver, il fotoreporter decise di tornare

nei luoghi della Guerra Civile, in particolare a Cerro Muriano, dove Robert

Capa nel ‘36 scattò una foto diventata icona di tutte le guerre, di un eroismo

di resistenza, del fotogiornalismo stesso: l’immagine del “miliziano morente”,

che cade in piedi (“meglio morire in piedi che vivere in ginocchio” sembra aver

detto Emiliano Zapata durante la rivoluzione messicana) con grande potenza

rappresentativa, immagine accusata a più riprese di essere un falso, una messa

in posa e quindi di andare contro il fondamento stesso del fotogiornalismo

che vuole l’autenticità del momento in cui il fatto avviene.

Ecco la sfida: Dondero, che conosceva il modo di lavorare di Robert

Capa, non cedette alle accuse e s’incaricò di venire a capo della questione

che pure una puntuale biografia sul reporter ungherese naturalizzato americano

(il cui vero nome era Endre Arnő Friedman), scritta da Richard Whelan,

aveva già posto e risolto.

"In realtà questa mostra era nata da un’idea di Luca Borzani, presidente

di Palazzo Ducale a Genova, che era stato conquistato dalla storia del

miliziano, ma a me sembrava poca cosa rispetto all’intera tragedia spagnola"

rivelò Dondero durante la conversazione con Emanuele Giordana avvenuta la

sera del 3 ottobre all’apertura della mostra alla Centofiorini, occasione per

presentare il loro libro Lo scatto umano – viaggio nel fotogiornalismo da

Budapest a New York che ha al suo interno una bella sezione dedicata alla

53/OMBRE


Guerra Civile di Spagna e a Robert Capa. "Ricorreva l’anniversario della caduta

del muro di Berlino, mi chiese se avevo del materiale sulla Germania ed

io ne avevo parecchio, per cui si fece questa mostra al posto di quella sulla

Spagna che a me però stava particolarmente cara, così poi l’idea s’incrociò

con quella di Deaglio e ne venne fuori questo reportage."

Giordana aggiunse all’aneddoto che Enrico Deaglio era molto titubante

nell’inviare Dondero sulle tracce di quello che poi venne identificato come

Federico Borrel Garcia, il miliziano della foto di Capa, la questione era delicata,

"così Mario diciamo s’inviò da solo, come credo abbia fatto in tutta la

sua vita, e arrivò a mettere insieme i pezzi di questa scoperta."

La scoperta doveva riguardare una testimonianza certa dell’identità e

della morte del miliziano che coincidessero con lo scatto di Robert Capa.

Dondero basò le sue indagini sul libro del sociologo austriaco antifascista

Franz Borkenau che quel giorno era con il reporter e un altro giornalista di Vu,

e riferisce che si ritrovarono assediati dai Regulares, i soldati marocchini del

generale Varela. La situazione precipitò e sopraggiunsero i miliziani della

Columna di Alcoy (città di antiche tradizioni rivoluzionarie), di cui faceva parte

Borrel Garcia, detto Taino, di 24 anni, che perse la vita in una delle offensive

sulla collina di Las Malaguenas, a Cerro Muriano, il 5 settembre 1936.

Con l’aiuto di Ricard Baño, uno studioso di storia locale di Alcoy, Dondero

risalì all’identificazione del miliziano, difficile dato che non esistono atti

di morte per i combattenti antifranchisti, che finivano abitualmente nelle fosse

comuni. Lo scatto di Capa non era mai circolato nella Spagna franchista

perché ritenuto sovversivo, così Baño, la mostrò all’ultimo sopravvissuto della

columna di Alcoy, Mario Brotons Jorda, il quale non identificò Taino ma

confermò che era certamente suo compagno perché le giberne erano quelle

che un artigiano fabbricava in esclusiva per i miliziani locali. Fecero circolare

la foto tra i familiari del miliziano rimasti ed essi infine lo identificarono come

un operaio tessile che aveva una novia da sposare al ritorno dalla guerra.

La vera scoperta di Dondero fu quindi questo professor Baño. E ciò che

in seguito fu in grado di scagionare definitivamente la foto di Capa dalle

accuse, fu il ritrovamento di un’intervista fatta a Robert Capa nel ’47, nella

quale si evince dalla sua stessa voce che mentre si trovava con i combattenti

di Alcoy in una trincea, fotografò gli assalti dei miliziani ad una mitragliatrice

franchista e al quarto assalto alzò il braccio e scattò alla cieca, con la

sua Leica, una foto che egli vide solo al suo rientro dalla guerra (avendo

spedito subito i rullini), già famoso perché l’immagine stava facendo il giro

del mondo, prima con Vu e poi con Life.

"RYSZARD KAPUŚCIŃSKI HA

SEMPRE DETTO CHE UN GIORNALI-

STA E FOTOGIORNALISTA NON DEVE

ESSERE CINICO MA CONSERVARE

UNA PARTE DI INGENUITÀ PER PO-

TER RESTARE VICINO ALLA GENTE"

54/OMBRE



disse Dondero sempre durante la conversazione con Giordana "Una cosa

che Robert Capa ha fatto splendidamente, basti pensare alle foto che ha

realizzato dei piccoli soldati tedeschi della Hitler-Jugend, che avevano

sui 15 anni e che lui ha fotografato con uno sguardo paterno, nonostante

fossero nazisti e persecutori della sua gente. Quindi Robert Capa rimane

un esempio di come può essere felice e creativo il fotogiornalismo quando

non è scioccamente arido e tristemente commerciale."

E questo restare vicino alla gente percorreva anche tutta la mostra di

Mario Dondero, sulle tracce del miliziano, sulle tracce di Federico Garcia

Lorca, di colline e radure teatro di fucilazioni, di facciate calde di sole e crocevia

di ricordi, di scavi nella terra per recuperare morti dalle fosse comuni,

alla ricerca di volti che potessero sapere, che potessero mostrare vecchie

foto con mani rugose di storia passata, con quel bianco e nero prediletto per

la documentazione sociale e pochi scatti a colori ma sobri, in linea con gli

altri, condotti da una stessa poetica del racconto, quello in grado di "cogliere

situazioni che le parole non possono comunicare."

Ad una mia sollecitazione sulla tecnica fotografica, sulla visione compositiva

ed estetica che, nel libro presentato con Giordana e nelle varie interviste,

sembrava sempre in secondo piano rispetto al contenuto dell’immagine,

Dondero rispose che "il fotogiornalismo spinge alla conoscenza

tecnica meno di altre categorie dell’industria della fotografia che si trova ad

utilizzare anche macchine fotografiche più sofisticate. I fotoreporter usano

macchine leggere" (lui preferiva la Leica ma aveva lavorato anche con la

Pentax, la Spotmatic, la Nikon, la Contax) "e quello che conta è ciò che raccontano

con la foto. Io tendo a distinguere tra fotogiornalista e fotografo

fotografo, come il mio amico Ugo Mulas, che ha delle conoscenze specifiche,

vaste, totali di quella che è la produzione della fotografia rispetto al fotoreporter

la cui capacità essenziale è quella di saper raccontare le cose. È

chiaro che la conoscenza tecnica deve comunque essere alta ma passa in

secondo piano rispetto alle pulsioni, ai sentimenti, agli istinti, tutte cose che

devono far dimenticare la tecnica, ed è soprattutto nella scelta delle situazioni

che sta il talento del fotoreporter."

Aveva continuato dicendo che spesso i fotogiornalisti non sanno neanche

stampare, come anche nel caso di Robert Capa, e del resto lo stesso

Dondero si è sempre affidato ad uno stampatore romano per realizzare delle

semplici stampe al sale, come quelle della mostra, che assegnano tutto il

loro potenziale al racconto contenuto e veicolato.

Aveva detto anche che "troppo talento artistico nuoce al racconto"; io

gli avevo parlato della mia fascinazione per la foto della Sorbona occupata

nel ’68, presente tra le immagini scelte del volume, chiedendogli che sensazione

dà trovarsi a cogliere quel momento, ad essere lì mentre la storia

accade, e lui aveva risposto che aveva "passato la vita a cercare la storia,

ancora oggi non ho smesso. Certo ci sono dei momenti appassionanti di comunione

immensa con gli altri, situazioni anche delicate perché ad esempio

in quella foto, che viene molto apprezzata per il suo valore estetico per via

di quella luce che sta entrando nell’aula creando una percezione di felicità

collettiva e grande libertà, la situazione era in realtà di ansia e di pericolo

56/OMBRE


perché le aule erano assediate fuori dal CRS. Quindi

spessissimo la bellezza estetica dell’immagine,

la troppa bellezza, serve a non raccontare."

La serata era stata piena di questi interventi di

Dondero e Giordana, generosi di aneddoti indicativi

delle rispettive vaste esperienze e al contempo

dell’intesa professionale che emerge dal libro, una

sorta di lungo discorso di Mario su una geografia del

fotogiornalismo a partire da Budapest (luogo di coincidenza

e nascita di tante e grandi figure del settore,

da Capa a Guttmann, da Bert Garai a Charles Rado,

da Kertész a Brassaï, da Munkácsi a Zoltán Nagy),

sapientemente raccordata dal giornalista e scrittore,

che riferì di essersi trovato anche a scontrarsi col

fotografo "perché fortunatamente c’è una dialettica e

perché dagli scontri emergono le cose con maggiore

chiarezza. In un certo senso il mio dovere era quello

di incalzarlo e provocarlo. – dice – Una cosa in cui

l’ho provocato tantissimo, perché anche per me era

una delle frontiere vitali del discorso sul fotogiornalismo,

è il confine fragile e labile fra l’impegno civile, sociale, politico nel senso

più alto del termine e la verità: dove un giornalista, un fotografo, un giornalista

televisivo deve fare un passo indietro e dove deve fare un passo avanti?

La lezione che ho imparato da Mario mediandola con la mia esperienza è che

UN GIORNALISTA DEVE ESSERE

SEMPRE IMPARZIALE, DEVE RAC-

CONTARE LA VERITÀ ANCHE QUAN-

DO NON GLI PIACE, MA NON DEVE

ESSERE NEUTRALE, ANZI DEVE DI-

CHIARARE LA SUA POSIZIONE PER-

CHÉ LA NEUTRALITÀ NON ESISTE,

ognuno ha le sue idee giuste o sbagliate ed è attraverso le proprie idee che

si vede la realtà, poi nel momento in cui si va a constatarla con la macchina

fotografica, con la penna, la si deve raccontare per com’è, non la si può falsare,

ciò non vuol dire però che si debba essere neutrali."

I temi toccati furono quelli della guerra, di come era vista e documentata

agli albori del fotogiornalismo e di come sia diventata un’abitudine

visiva oggi, sempre più affidata a scatti tempestivi e di scarsa qualità colti

con telefonini e mezzi di fortuna, a discapito di una professionalità, di un

talento documentaristico, ma anche di una verità della notizia; quelli della

censura, arma pericolosa dei regimi totalitari, falce limitante del lavoro

di reporter spesso incorporati tra i soldati e quindi spinti in situazioni rischiose

eppure in larga parte sconosciuti, morti tra i morti, senza lasciare

57/OMBRE


firma sulle loro foto; quelli delle agenzie intese come cenacoli di volontari

che avevano voglia di fare del giornalismo d’informazione, rastrellate da

monopoli finanziari nei quali si sono perse le individualità dei fotografi;

quelli della narrazione, declinabile in vari ambiti mediatici, dalla fotografia

alla carta stampata, dalla tv alla radio, rispetto ai quali Dondero era a

favore del narratore totale, che deve essere libero di esprimersi anche in

più medium, mentre Giordana sottolineava il fatto che oggi si richiede di

saper far tutto, di accorpare mansioni, perdendo il talento specifico che si

può avere in un ambito espressivo e finendo per inficiare la capacità di una

narrazione affascinante.

Un reportage fotografico e un incontro con due personalità dell’informazione

impegnata che hanno trasmesso tanto, sollecitando l’attenzione,

stimolando l’approfondimento, pungolando la capacità di osservazione di

fatti e immagini, dimostrando che fotoreporter e giornalisti sono uomini tra

gli uomini che fanno esperienze di vita e poi ne raccontano.

LA RIVOLUZIONE DEVE

COMINCIARE DA BEN PIÙ

LONTANO, DEVE COMINCIARE

IN INTERIORE HOMINE.

LUCIANO BIANCIARDI, LA VITA AGRA

58/OMBRE


3 OTTOBRE 2014, GALLERIA CENTOFIORINI

PRESENTAZIONE DEL VOLUME

LO SCATTO UMANO – VIAGGIO

NEL FOTOGIORNALISMO

DA BUDAPEST A NEW YORK

CONVERSAZIONE CON MARIO DONDERO

ED EMANUELE GIORDANA

MS Buonasera e benvenuti alla Galleria Centofiorini che questa sera

inaugura in anteprima la XVI edizione di Cartacanta. Quest’anno il tema portante

della rassegna è il fotogiornalismo, branca della fotografia che abbiamo

qui modo di approfondire nelle sue dinamiche in due modi: attraverso una

mostra delle immagini scattate da Mario Dondero nel luoghi della Guerra

Civile Spagnola, grande teatro del fotogiornalismo, durante la quale il famoso

reporter Robert Capa scattò la leggendaria foto del miliziano morente poi

oggetto di mille polemiche; una cinquantina di scatti per la maggior parte

realizzati nel 2006, quando Dondero fu inviato da Enrico Deaglio del “Diario

della settimana” per affrontare le accuse di falsità rivolte alla foto di Capa,

tacciata di essere una messa in posa, quindi contro gli stessi principi fondanti

del fotogiornalismo che vuole che si colga l’attimo nel momento in cui

accade; mostra che prende appunto il titolo di A proposito di Robert Capa e

che è alla sua prima uscita dopo la brevissima anteprima sarda di fine 2013.

Attraverso la conversazione dello stesso Dondero con Emanuele Giordana,

nostri graditi ospiti, redattori a quattro mani del libro Lo scatto umano

– viaggio nel fotogiornalismo da Budapest a New York, un dialogo iniziato

nell’arco di collaborazioni comuni (tra cui le trasmissioni sulla storia del

fotogiornalismo andate in onda su Radio 3) che finisce per delineare clima

e contesto in cui si mossero i grandi fotoreporter del Novecento. I due ospiti

non hanno bisogno di presentazioni e una loro breve nota biografica la si può

leggere dal loro stesso volume (…) eppure questi curricula non spiegano la

qualità, il significato e l’intento che c’è dietro gli scatti di Mario Dondero né

l’acuto occhio di scrittore e giornalista di Emanuele Giordana, cose che invece

sicuramente emergeranno stasera dallo loro presenza, dalla loro cultura

e dalle loro parole.

EG La collaborazione con Dondero è iniziata in maniera abbastanza

casuale.

MD Le collaborazioni nascono sulla sintonia, sul feeling interpersonale

che si stabilisce misteriosamente, non si sa perché si amano certe

59/OMBRE


persone e non certe altre. La nostra amicizia è nata davanti ai microfoni di

Radio 3, situazione in cui Emanuele è particolarmente brillante, capacissimo

di fare la radio che è una bella attività, molto diversa dalla fotografia, che

è un fatto furtivo – questa sera abbiamo qui il Premio Scanno 2014, Claudio

Marcozzi, che per strappargli tre parole ci vuole molta fatica: di solito i fotografi

non parlano quasi mai, io sono completamente anomalo perché sono

più parole che fotografia in realtà.

Comunque noi ci siamo conosciuti al “Manifesto” la notte che si era

salvata Giuliana Sgrena e la collaborazione con Emanuele è rimasta fervida,

costante, non si ferma e questo libro, continuerà nei secoli.

EG Per quanto riguarda il fatto che Dondero fu inviato da Enrico Deaglio

per gli scatti di questa mostra, in realtà si può dire che Mario si inviò da solo

perché cercava di dimostrare una cosa che in quel momento era vessata da

polemiche enormi da parte di storici importanti e altri fotografi, lui sosteneva

di poter dimostrare la genuinità dello scatto di Capa ma Deaglio era molto

titubante, così diciamo Mario s’inviò da solo, come credo abbia fatto in tutta

la sua vita e arrivò a mettere insieme i pezzi di questa scoperta.

MD Queste foto sono state scattate nel corso degli anni perché la mia

passione per la Spagna repubblicana, per questo periodo storico di questa

nazione straordinaria è andata avanti nel tempo. Deaglio però mi ha dato

l’opportunità di riassumere, anzi feci quattro articoli per quel numero speciale

del “Diario” che prese il nome di “Volver”, e queste foto sono il risultato

di quel viaggio ma anche di tanti anni precedenti; ecco, per esempio c’è

la foto di quel signore lì, Giovanni Pesce, che a Guadalajara, dove le brigate

internazionali sconfissero i fascisti, salvò la vita di tutti gli italiani che sarebbero

stati fucilati dalle camice nere spagnole; lui mi raccontò la storia di

quelle persone, che erano poveri disoccupati, trascinati in Spagna dal fascismo

e quindi anch’essi vittime. In realtà questa mostra era nata da un’idea

di Luca Borzani, presidente di Palazzo Ducale a Genova, che era stato conquistato

dalla storia del miliziano, ma a me sembrava poca cosa rispetto

all’intera tragedia spagnola; ricorreva l’anniversario della caduta del muro

di Berlino, lui mi chiese se avevo del materiale sulla Germania ed io ne avevo

parecchio, per cui si fece questa mostra al posto di quella sulla Spagna

che a me però stava particolarmente cara, così poi l’idea s’incrociò con quella

di Deaglio e ne venne fuori questo reportage. Il viaggio è stato molto

bello e pieno di ricordi, io spero che questa mia passione per la Spagna repubblicana

possa contaminare gli altri in qualche modo.

Mentre un’altra avventura entusiasmante è stata questa esperienza

della radio. Io come fotografo diciamo che ho una certa notorietà ma non è

niente rispetto all’eco che ha avuto questa storia della radio: si ricordavano

solo di quello, ho passato 65 anni a fare foto ma nella memoria della gente,

dopo gli 80 anni sono diventato un autore radiofonico!

MS Comunque questa armonia di racconto che c’è tra voi due, questa

sintonia ed intesa, emerge anche dal libro, nel senso che il discorso diretto

60/OMBRE


di Dondero è poi raccordato dalla narrazione di Giordana, è un’armonia che

emerge dalla scrittura e dalla struttura di tutto il libro. È stato effettivamente

così lavorarci o ci sono stati anche scontri , anche disaccordi?

EG Sicuramente, anche perché per fortuna esiste una dialettica. Naturalmente

ci sono stati scontri perché da questi emergono le cose con maggiore

chiarezza. Col senno di poi posso dire che la maggior parte delle volte

Mario aveva ragione, ma il mio dovere era in un certo senso quello di incalzarlo

e di provocarlo. Per esempio Mario ha una grande avversione nei confronti

della fotografia americana, cosa che ha un suo motivo ma allo stesso

tempo la fotografia degli Stati Uniti e delle riviste ha prodotto molto e ha

dato la possibilità a molti fotografi europei di poter parlare attraverso il loro

lavoro. In queste cose provocavo Mario.

Una cosa in cui l’ho provocato tantissimo, perché anche per me era una

delle frontiere vitali del discorso sul fotogiornalismo, è il confine fragile e

labile fra l’impegno civile, sociale, politico nel senso più alto del termine e

la verità: dove un giornalista, un fotografo, un giornalista televisivo deve fare

un passo indietro e dove deve fare un passo avanti? La lezione che ho imparato

da Mario mediandola con la mia esperienza è che un giornalista deve

essere sempre imparziale, deve raccontare la verità anche quando non gli

piace, ma non deve essere neutrale, anzi deve dichiarare la sua posizione

perché la neutralità non esiste, ognuno ha le sue idee giuste o sbagliate ed

è attraverso le proprie idee che si vede la realtà, poi nel momento in cui si va

a constatarla con la macchina fotografica, con la penna, la si deve raccontare

per com’è, non la si può falsare, ciò non vuol dire però che si debba

essere neutrali.

Questo forse nel libro emerge solo in filigrana ma è stato uno dei grandi

temi di dibattito con Mario su cui io l’ho incalzato molto perché la sua è

un’esperienza più ampia della mia non solo in termini anagrafici, ma anche

geografici: Mario è vissuto a Parigi, ha conosciuto la fotografia fatta dai

britannici, dai tedeschi, anche magari da personaggi minori e questa questione

dell’imparzialità è stata alla fine per me una grande lezione.

61/OMBRE


MD Adesso mi sembra obbligatorio dire perché non mi piace la fotografia

americana, che poi tra l’altro ha magnifici protagonisti come Lewis

Hine, come Eugene Smith, tutti reporter ribelli, non inquadrati. Io per esempio

ho lavorato otto anni a “Newsweek” e ho potuto constatare che le nostre

censure fanno ridere rispetto a quella statunitense.

Un giorno ero sulla Via Crucis in Terra Santa e ho incontrato un americano

– gli americani mi stanno generalmente simpatici perché hanno uno

stile di contatto talmente aperto che sono i primi a stringerti la mano -,

abbiamo fraternizzato, siamo andati insieme a mangiare un falafel e gli ho

chiesto: “tu cosa fai nella vita?” e lui: “sono direttore generale di Newsweek”,

un colpo mica da poco per me! Ho fatto un sacco di reportage per quella

testata ma non vedendo quasi mai le mie foto: ad esempio una volta mi è

capitato uno scoop, qualcosa di straordinario perché sono riuscito a fotografare

l’Abate dell’Abbazia di Monserrat a Barcellona, rifugiato in Italia perché

perseguitato da Franco. Ho girato una quindicina di conventi finché non l’ho

trovato, gli ho fatto un’intervista da stringer e ho quindi consegnato il testo

non da relatore ma da collaboratore esterno del giornale. Era già in pagina

quando il Cardinale Spellman lo fece togliere. Quindi il mito della libertà di

stampa americana non esiste.

Poi c’è anche il fatto che la maggior parte dei talenti americani in realtà

sono tutti europei e non soltanto, sono addirittura quasi tutti ebrei e

dell’Europa centrale, per cui, come emerge dal nostro libro, la questione del

fotogiornalismo nasce in Europa centrale e nello specifico in Ungheria. Del

resto il personaggio che ho amato di più e che mi ha ispirato moltissimo, senza

il quale non avrei scelto la fotografia è Robert Capa: io ero giornalista e mi

sono dato alla fotografia tutto sommato sull’esempio di Robert Capa, che mi

coinvolgeva per via della sua straordinaria umanità priva di cinismo. Ryszard

Kapuściński ha sempre detto che un giornalista e fotogiornalista non deve

essere cinico ma conservare una parte di ingenuità per poter restare vicino

alla gente. Una cosa che Robert Capa ha fatto splendidamente, basti pensare

alle foto che ha realizzato dei piccoli soldati tedeschi della Hitler-Jugend,

che avevano sui 15 anni e che lui ha fotografato con uno sguardo paterno,

nonostante fossero nazisti e persecutori della sua gente. Quindi Robert Capa

rimane un esempio di come può essere felice e creativo il fotogiornalismo

quando non è scioccamente arido e tristemente commerciale.

MS Alla fine del libro c’è una scelta di dieci fotogiornalisti, mi chiedevo

se siano i vostri preferiti.

EG È una scelta che credo abbia fatto soprattutto Mario, se non ricordo

male. Sulla fotografia non mi permetto di avere troppa voce in capitolo,

anche perché un giornalista più distante è dalla cosa che tratta meglio lavora

in un certo senso, poi la professione da sì che uno si documenti ma non

si ha la sconoscenza e l’esperienza effettive: ad esempio se mi si chiede di

citare dieci foto di Robert Capa, non so se le ricordo e comunque, rispetto al

mio ruolo nel libro, era secondario coprendo Mario questo aspetto, io dovevo

fare in modo che tutto avesse un equilibrio.

62/OMBRE


Ricordo che nella rosa dei dieci decidemmo di mettere un italiano –

perché il fotogiornalismo italiano è stato un forte tema di dibattito nel trattare

la grande fotografia europea del Novecento – e alla fine la scelta di

Mario è caduta su Franco Pinna. Però sull’Italia abbiamo fatto un passo indietro

perché ci siamo resi conto che significava fare un altro libro dato che

ogni volta che affrontavamo l’argomento usciva fuori una marea d’informazioni

quasi indomabile.

Ad esempio la fotografia italiana durante il fascismo, che è accennata

solo in parte, richiedeva un approfondimento, la lettura di più testi, la raccolta

di testimonianze.

MD Se uno guarda la Guerra di Spagna, altra situazione in cui si è

formato il fascismo, si nota che nessuno conosce i fotografi franchisti, perché

c’era una censura interna già di partenza che rendeva insignificanti queste

fotografie. Cioè per fare delle foto valide bisogna essere liberi, avere un

occhio libero e dei giornali liberi. Il fascismo era pura censura.

EG Se posso aggiungere un dato biografico, io ho avuto un nonno che

è stato un importante giornalista italiano, che nel 1924 ha scritto su “La

tribuna di Roma” – di sua proprietà e di cui era direttore – che il delitto

Matteotti era imputabile a Mussolini pur indirettamente. Non era neanche

comunista o socialista, era liberale ma ebbe una storia travagliatissima perché

il Regime lo obbligò a vendere il giornale e gli impedì per il resto della

sua vita di scrivere, nemmeno di moda o di sport, una cosa terribile per un

giornalista. Mio nonno editò il primo magazine accluso ad un giornale italiano,

si chiamava “Noi e il mondo”, era una rivista di reportage dove c’era

anche spazio per la fotografia, che ricalcava la spinta di molte riviste illustrate

d’inizio secolo che poi finì durante il fascismo e continuò in altre zone.

Questo per dire che c’è stato un mondo dell’editoria italiana agli inizi del

fascismo, poco durante e poi con una ripresa dopo che forse è ancora tutta

da raccontare.

63/OMBRE


MD Avere un nonno giornalista deve aver contribuito alla formazione

di Emanuele, che poi ha anche un fratello regista che è Marco Tullio Giordana.

Per dire che l’informazione, la conoscenza, la ricerca, l’inchiesta fanno

parte del vostro dna. Il cinema di Marco Tullio poi è giornalismo, si tratta di

documentari.

MS Sono tutte forme parallele di racconto in fondo: quella non verbale

della fotografia, quella documentaristica, quella scritta del giornalismo…

anche se immagino che ognuna abbia dei parametri propri. Mi chiedevo quale

sia la differenza tra scattare una fotografia che racconti e scrivere un

testo che racconti, anche se lo avete già accennato precedentemente.

MD Io personalmente sono per il narratore totale, trovo che sia sbagliato

fare il fotografo e basta. Se uno ha la passione del racconto deve tirare

fuori da sé tutte le corde possibili. Scrivere, fare radio, anche la tv che,

quando non è cinicamente commerciale, è un magnifico strumento.

Io ad esempio ho vissuto 40 anni in Francia e non ho mai visto un fotografo

che scrivesse perché c’era un blocco sindacale, non si poteva scrivere

se si era fotografi o fotografare se si era giornalisti, perché si apparteneva

a quella categoria sociale precisa, mentre io scavalcherei questi

ostacoli che sono di stampo, appunto, sindacalista. Laddove c’è il talento

questo va incoraggiato e sostenuto. Lo diceva anche Robert Capa. Anche se

una delle sue frasi assolute era “la migliore propaganda è la verità”, aggiungendo

poi che se si è ungheresi è ancora meglio! Se fosse ancora vivo oggi

probabilmente farebbe televisione perché adesso è quello il mezzo, il fotogiornalismo

è finito. C’è stata una stagione in cui gli illustrati erano la tv di

allora. Un altro ungherese, maestro di Robert Capa, era Guttman, io l’ho

conosciuto che era già sugli 80 anni, lo incontravo nella cantina di Romano

Cagnoni, che del resto era una sua creatura: Cagnoni faceva foto da paparazzo

per la stampa italiana, Guttman l’ha proiettato nel grande fotogiornalismo

internazionale.

Condividevamo una passione per la politica. Aveva un cabaret fantastico

a Berlino, oltre all’agenzia Dephot, dove accolse come fattorino un

giovanotto fuggito dall’Ungheria, appena scarcerato grazie al padre che era

sarto del capo della polizia; poi un giorno Trotskij passò la frontiera dell’Unione

Sovietica e Guttman, che non aveva fotografi disponibili all’agenzia,

mandò questo fattorino, che era Robert Capa, a fare le foto.

EG Noi non ci siamo avventurati nelle diversità del mestiere. Sono

d’accordo con Mario che un buon fotografo possa anche essere un buon

giornalista ecc. però, per venire ad un argomento che so che a Marta sta a

cuore e che ha rimandato…

MS …per lasciarlo per ultimo…

EG …che è la faccenda della tecnica, ecco io credo che nella fotografia,

nella scrittura e anche nella ripresa televisiva, la tecnica conti relativamen-

64/OMBRE


te poco. Quando uno ha imparato quelle tre regole poi dopo c’è il talento. Il

talento uno può averlo per la radio, per la carta stampata, per la capacità di

riprendere o fare fotografie. Io ad esempio per fotografare non ce l’ho, la mia

capacità di osservazione e percezione delle cose verrebbe assorbita dall’ingombro

della macchina, dal doverla tirare fuori, portarla dietro ecc. Nella

radio la tecnica è un attimo. Io ad esempio so che se mi alzo in piedi il mio

diaframma si estende e la mia voce viene percepita meglio e questa è l’unica

tecnica da imparare oltre al fatto di parlare con periodi brevi e poco secondari.

Ma ci sono persone completamente negate per la radio, che hanno

una voce che non funziona o si perdono nelle frasi, così come capita nella

scrittura o nella televisione.

Il problema di oggi è che tutte queste funzionalità tecniche si sommano

insieme. Oggi si deve saper scrivere, fotografare, filmare, cioè utilizzare

quattro tecniche che in sé sono relativamente semplici ma ognuna delle

quali richiederebbe un talento, e se uno quel talento non ce l’ha finisce che

in quel determinato settore il prodotto scade di qualità.

Oggi la richiesta continua di accorpare mansioni – si è iniziato nei

giornali con la grafica: una volta c’era chi faceva le foto, chi scriveva le didascalie,

chi i titoli, chi i sommari, oggi i giornalista deve fare tutto ( forse è

anche logico dato che sa quello che ha scritto e magari se deve estrapolare

un titolo lo fa anche meglio di qualcun altro) – va a discapito di un talento

che ognuno di noi ha e che per ognuno di noi è una cosa diversa, finendo per

inficiare la capacità di una narrazione affascinante che qualcuno sa fare con

la voce, qualcuno con la penna, qualcuno con la macchina fotografica ecc.

MS In effetti, quanto a narrazioni affascinanti, quanto a talento, c’è

una foto nel libro che è la mia preferita tra quelle pubblicate, l’immagine

della Sorbona occupata nel ’68 e mi chiedevo cosa si prova ad essere lì e a

saper cogliere quel momento mentre la storia accade.

MD Ho passato la vita a cercare la storia, ancora oggi non ho smesso.

Certo ci sono dei momenti appassionanti di comunione immensa con gli altri,

65/OMBRE


situazioni anche delicate perché ad esempio in quella foto, che viene molto

apprezzata per il suo valore estetico per via di quella luce che sta entrando

nell’aula creando una percezione di felicità collettiva e grande libertà, la

situazione era in realtà di ansia e di pericolo perché le aule erano assediate

fuori dal CRS. Quindi spessissimo la bellezza estetica dell’immagine, la

troppa bellezza, serve a non raccontare.

Ad esempio raccontare le guerre dopo la sconfitta americana del Vietnam

è diventato quasi impossibile: se un reporter adesso volesse andare

con l’esercito americano a documentare, dovrebbe essere “embended”, cioè

dovrebbe firmare che in nessun modo intende nuocere alla causa. E tutto

questo parte dalla foto della ragazzina nuda che corre mentre lanciano il

napalm o altre immagini del genere che hanno mosso l’opinione pubblica

americana e che sono andate a coincidere con la sconfitta degli Stati Uniti.

Ricordo che una volta ero a Trieste e volevo fotografare una nave ammiraglia

della sesta flotta, la sentinella mi ha chiamato il responsabile della

nave e questo mi ha invitato per un cocktail il mercoledì successivo. Ora

questa cosa non sarebbe più possibile.

MS Per riprendere il discorso iniziato da Emanuele Giordana sulla

questione della tecnica, il mio interesse era leggermente diverso. Il libro è

gonfio di aneddoti, di storia, di politica, che è tutto ciò che informa il fotogiornalismo,

tutto ciò che lo nutre, ma non emerge un’altra questione: se noi

volessimo andare ad approfondire una scelta fotografica di Mario Dondero,

considereremmo il bianco e nero, l’elemento umano, l’impegno civile, ma più

in dettaglio? Esteticamente parlando? Qual è la scelta estetica che rende

uno scatto diverso dall’altro e uno scatto di Dondero diverso da quello di un

altro fotoreporter? Ad esempio Cartier-Bresson parlava di cogliere il momento,

di scattare “à la souvette” ma nel contempo suggeriva di non rinunciare

ad una visione compositiva d’insieme…

MD Allora, diciamo che il fotogiornalismo spinge alla conoscenza tecnica

meno di altre categorie dell’industria della fotografia che si trova ad utilizzare

anche macchine fotografiche più sofisticate. I fotoreporter usano macchine

leggere e quello che conta è ciò che raccontano con la foto. Io tendo a

distinguere tra fotogiornalista e fotografo fotografo, come il mio amico Ugo

Mulas, che ha delle conoscenze specifiche, vaste, totali di quella che è la

produzione della fotografia rispetto al fotoreporter la cui capacità essenziale

è quella di saper raccontare le cose. È chiaro che la conoscenza tecnica deve

comunque essere alta ma passa in secondo piano rispetto alle pulsioni, ai

sentimenti, agli istinti, tutte cose che devono far dimenticare la tecnica, ed è

soprattutto nella scelta delle situazioni che sta il talento del fotoreporter.

Spesso è capitato che grandi fotografi non sapessero sviluppare le

foto, capitò allo stesso Robert Capa. Io poi faccio distinzione tra fotografi del

sud e del nord: quelli del nord sono più germanici, le immagini sono più precise

ma spesso meno emotive, meno passionali. Le foto sono in qualche modo

legate al genio dei popoli.

66/OMBRE


MS In effetti dal libro emerge una sorta di geografia del fotogiornalismo,

ci sono delle zone focali di cui scegliete di parlare ma poi tra le righe

delle esperienze narrate da Mario Dondero, come sta succedendo anche

stasera, emergono delle immensità ulteriori…

EG Questa è stata un’intuizione di Mario riguardo un ragionamento

sviluppato nella sua lunga carriera, da cui emerge un personaggio tipo che

ha tre connotati: è ebreo, ungherese e di sinistra. È un fotogiornalista comunque

contro, vittima del regime, e ha questa connotazione ebraica perché

in qualche modo appartiene a questa comunità duramente vessata dai regimi

totalitari.

Questi due aspetti si possono capire: si tratta di oppositori che fanno

parte di una minoranza finita nell’occhio del ciclone, ma perché ungheresi?

La spiegazione che dà Mario è che è comune agli ungheresi e ai fotografi un

certo spirito nomade, una natura gitana, in una sorta di spiegazione antropologica

che ha un suo senso. I nomi sono tanti, Guttman, Capa, Kertèsz e

molti altri, che poi hanno cambiato nome, si sono naturalizzati americani.

Questo elemento doveva dare origine a questa storia, si trattava di

Budapest, una capitale europea a cui nessuno aveva pensato e così abbiamo

iniziato il ciclo di trasmissioni radiofoniche ed è stato anche l’aspetto che

nel corso del libro ci ha fatto riflettere sui luoghi comuni in cui cadiamo

nell’osservare in genere la storia, quindi anche quella della fotografia, con-

67/OMBRE


siderando soltando Parigi, Londra, New York, invece no, Budapest, ma anche

Barcellona, che ha avuto grandi fotografi narratori della Guerra di Spagna,

solo meno noti di Robert Capa. E poi Hanoi dove abbiamo scoperto esserci

state centinaia di fotografi, forse anche di regime, che hanno raccontato la

guerra del Vietnam vista dall’altra parte.

Io l’unica foto che ricordavo era quella della soldatessa vietnamita che

tiene alla catena un enorme soldato americano, una foto simbolo degli anni

’70 ma l’unica scattata da un vietnamita che avessi visto, invece ce ne sono

molte altre che raccontano cose orrende e aggiungono elementi di verità. E

poi abbiamo pensato ai fotografi indonesiani, cambogiani, cinesi, tutto un

mondo che di solito ignoriamo perché siamo eurocentrici e guardiamo agli

Stati Uniti ma quest’altro mondo potrebbe raccontare altrettanto bene l’altro

pezzo del secolo della fotografia.

MD Riguardo alla fotografia di guerra dei tempi recenti viene in mente

anche che i fotografi non sono soldati (e in alcuni casi si trovano a denunciare

crimini commessi dai soldati della loro parte) e quindi possono prendere

posizione, rifiutarsi di andare in certi luoghi e situazioni. Invece c’è un

capitale immenso di fotografi che in guerra sono morti, come questi vietnamiti,

morti in ben 260 e che erano praticamente dei soldati.

Se si va al museo di Eboli dello sbarco americano a Salerno, si trovano

molte belle immagini, parecchie sicuramente di Robert Capa, e spesso

non firmate perché questi fotografi americani, incorporati nell’esercito come

soldati effettivi, facevano foto che poi finivano negli archivi. E correvano dei

rischi tremendi. Come quando Capa scattò la famosa foto del miliziano alzando

la mano da dietro la trincea e scattando alla cieca, così come si evince

dalla registrazione della sua voce nell’intervista ritrovata.

EG E quindi ecco, anche se lo scatto è stato casuale la tecnica serviva lo

stesso, insomma io avrei preso il cielo! Comunque per tornare ancora su questo

tema avvincente della tecnica, della bellezza fotografica e del racconto, mi

viene in mente una fotografia che circa tre o quattro anni fa ha vinto un premio

importante, tipo il World Press Photo, e che mi ha davvero colpito e sconvolto

perché è una foto tecnicamente bellissima di un soldato americano seduto su

un elicottero mentre si alza in volo con l’espressione del dolore della battaglia,

ma la cosa incredibile è che le pieghe della sua uniforme sono così perfette e lo

svolazzare del suo foulard intorno al collo così elegante, la luce così precisa da

farne una sorta di piccolo mito della moda mimetica contemporanea.

Quella era una foto decisamente bella che, come dice Mario, distraeva

tuttavia non solo distraeva, raccontava anche e raccontava secondo l’abitudine

che ci stiamo facendo della guerra: la guerra è la peggior cosa che

possa esistere e noi riusciamo a trasformarla in immagini che vincono premi

internazionali di fotografia perché sono belle e sono belli i soggetti. La tragedia

umana per eccellenza raccontata come fosse un fatto di moda è una

delle tendenze più preoccupanti del fotogiornalismo di adesso e non credo

dipenda tanto dai fotografi quanto da chi sceglie le fotografie, o le immagini

che passano in tv, che poi sono il nostro immaginario: se pensiamo alla Siria

68/OMBRE


la pensiamo attraverso la fotografia, se pensiamo alla Guerra di Spagna

viene subito in mente il miliziano. Si passa dall’eccesso della barbarie di

vedere una testa tagliata in video o la scena di corpi morti accatastati in una

fossa comune, al bel miliziano che è una specie di icona da attaccarsi in

camera. Sono cose su cui riflettere, anche se è difficile dire se non sia sempre

stato così. Mi preoccupa la superficialità di trattare un tema come la

guerra che sta entrando nella nostra quotidianità. Noi siamo ormai in guerra

da una decina d’anni in varie parti del mondo e siamo così abituati anche a

vederne le immagini che poi alla fine, insomma c’è anche altro a cui pensare.

Quanto ai fotografi ho conosciuto tanti giovani animati da una passione,

se non politica, di fare curiosità civile. Li ho visti partire per la Libia, la

Siria, con la volontà di raccontare quello che non viene raccontato, il problema

è che oggi un fotogiornalista freelance è pagato molto meno di una

volta ed ha in compenso una concorrenza spietata di immagini da telefonino

di scadentissima qualità a cui noi ci stiamo abituando. Questa concorrenza

allora Capa non l’aveva. Se oggi si prendono i quotidiani ci sono almeno due

o tre immagini che non sono di professionisti e c’è chi se ne approfitta.

Mi ha raccontato un editore tre giorni fa di un fotografo italiano che gli

ha portato delle immagini molto forti della Siria e nel momento in cui lui gli

ha chiesto l’alta risoluzione si è capito che le foto non erano sue, usava

scatti di stringer siriani che avevano tenuto gli originali e gli avevano dato

risoluzioni decenti per un giornale ma non buone per un libro. Quindi il problema

non è solo la concorrenza dello streetjournalist tempestivo che fa foto

di scarsa qualità, è che questi prodotti sono facilmente manipolabili, c’è

larga possibilità di falsificazione.

MD Ma poi sono sparite le agenzie, intese come cenacoli. Una volta le

agenzie erano fatte da persone che avevano idee comuni, che avevano voglia

di fare del giornalismo d’informazione, piccole agenzie che oggi sono state

rastrellate, ci sono proprio dei monopoli miliardari nei quali si sono perse le

personalità di fotografi con la tendenza anche a non firmare più i loro scatti,

in qualche modo americanizzando la stampa, perché invece in Europa la

fotografia è sempre stata firmata dagli autori.

MS Direi che è sbalorditiva la memoria e la grande quantità di esperienze

che entrambi avete vissuto e avete da condividere. Per concludere

vorrei chiedere se l’idea appena accennata nel libro di realizzare un volume

solo sul fotogiornalismo italiano è già in atto o è soltanto un’idea.

EG No, è stata un’idea tra le idee, ma ci sono già colleghi di Mario che

se ne stanno occupando.

MS Capisco. Allora se non ci sono domande dal pubblico, vi ringrazio

a nome della Galleria Centofiorini e di Civitanova Alta e invito tutti ad approfittare

della vostra presenza per farvi firmare le copie del vostro libro:

Mario Dondero, Emanuele Giordana, Lo scatto umano – viaggio nel fotogiornalismo

da Budapest a New York.

69/OMBRE


L'UOMO

È NATO PER

CONQUISTARE

A FATICA

OGNI

CENTIMETRO

DI TERRENO.

NATO

PER LOTTARE,

NATO

PER MORIRE

Charles Bukowski, Pulp


A TUTTO

SI ABITUA

QUEL

VIGLIACCO

CHE È

L'UOMO

Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Delitto E Castigo



LORENZO CASTORE.

ESSENZIALE,

NOMADE, INTIMO

Paola Ranzini Pallavicini

Tuffarsi nell’instagram personale di un fotografo offre

spunti di riflessione inediti: ci si domanda inevitabilmente

quale sia, da parte di chi vive di fotografia,

l’approccio al social per eccellenza più

visivo. Come viene vissuto uno strumento del genere

da chi ha iniziato a fotografare ai tempi in cui,

per analizzare insieme delle immagini, ci si telefonava

per mettersi d’accordo ed incontrarsi, ad un

tavolo, fianco a fianco, con le pause sigaretta e

caffè e le bozze stampate su carta?

Scorrere i profili e inevitabilmente pensare: qui è il professionista che

sta presentando il suo ultimo libro; qui è in visita alla mostra di un collega e

ne è entusiasta; qui invece vuole fissare il momento per condividerlo con gli

amici, senza per forza trasformarlo in lavoro. Uno scorcio, lo sguardo di una

persona cara. Qui proprio non è lavoro, qui è vita privata che scorre, o potrebbe

diventarlo? Il fotografo in quel momento è totalmente disinteressato a

inquadrature e luci, o forse no? Magari non si scorda mai della tecnica ma

allo stesso tempo, come tutti, in certi momenti si forza di vivere. E ormai

vivere è anche postare.

Vivere con intensità, con consapevolezza è qualcosa che nel caso di

Lorenzo Castore traspare sempre in ogni passaggio, progetto, intervista. È

una sorta di precetto, un punto fermo dal quale è bene non scostarsi mai. La

curiosità nei confronti del genere umano è forse il motore più potente che

muove il suo percorso, infatti è un appassionato di biografie e colleziona da

anni foto di coppie a lui sconosciute.

Decifrare le vite degli altri attraverso piccoli segni invisibili, molto più

utili dei gesti eclatanti, è quasi un mantra. Ma leggere quella sostanza impalpabile

nelle storie altrui diventa prezioso per proseguire nel viaggio più

complesso dentro se stessi; una vera e propria materia di studio che viene

portata avanti dall’adolescenza e di cui ciclicamente dar conto, in cui il fotografo

fissa quel flusso di vita, quel percorso intimo necessario.

73/OMBRE


Lorenzo Castore è nato nel 1973 ed appartiene all’ultima generazione

di fotografi che ha potuto godere dell’era analogica ed iniziare sia a viaggiare

che a lavorare quando ancora i social non avevano il predominio nella

nostra quotidianità asettica, patinata.

Nel caso di Lorenzo i frequenti viaggi sono iniziati nei primissimi anni

di vita, durante i quali ha cambiato molte case con la madre, che lavorava

alla Valtur e doveva frequentemente spostarsi.

È figlio unico: questo influisce molto e non è detto che lo faccia negativamente;

non fa che aumentare il grado di curiosità nei confronti del mondo

esterno, e la brama di relazioni. Di sicuro è una condizione che alimenta la

voglia di uscire dal nido per buttarsi nella ricerca di altre anime affini. Porta

a dover affrontare lunghi pomeriggi da solo, a sviluppare la capacità di non

annoiarsi perché si è in grado di inventare un mondo da zero, e abitarlo.

Spostarsi così di frequente deve aver sicuramente determinato in lui

un concetto di casa ondivago, allargato, e il desiderio di indagare questo

tema scavandosi dentro, per approdare al forte sentimento di casa come

legame tra persone, fare dei legami il punto fermo per costruirsi un’identità,

senza sentirsi arginati da un luogo in particolare ma attribuendo ai luoghi il

ruolo di collanti di atmosfere.

Sono infatti gli incontri con le persone e con i luoghi in cui esse vivono

– degli innamoramenti - a determinare ciò che siamo, Lorenzo lo rimarca spesso

ed è un concetto talmente forte nella sua opera da risultare nitido non solo

nella produzione che attinge al personale ma anche nei progetti commissionati.

Ewa e Piotr, protagonisti di un importante progetto realizzato a Cracovia,

sono legati a stretto filo alla loro città, a quelle strade e a quelle stanze

polverose; le ragazze dell’Havana (dalla serie Paradiso ambientata a Cuba

74/OMBRE


e a Città del Messico a inizio duemila), senza i colori violenti delle case e

senza il mare negli occhi sarebbero altro. La vita dei minatori nella Sardegna

sud-occidentale è totalmente inzuppata nel nero denso in cui operano, così

forte da dare il nome ad uno dei suoi primi libri. E tuttavia tutte queste persone

riescono a diventare altro nel momento in cui attraverso lo scatto la

loro essenza viene tirata su a galla: le immagini si fanno universali e ci comunicano

qualcosa che ha il potere di far riflettere sul senso della memoria

e del tempo, su noi stessi.

Il tempo non è mai una linea retta, fa dei giri tortuosi e torna sempre

in un viaggio circolare, intrecciato e sinuoso per il mondo; per uscire e rientrare

da se stesso molteplici volte occorre saper prestare attenzione ai

segnali che si raccolgono lungo il tragitto, occupandosi di storie altrui e

della propria e compenetrando continuamente i due bisogni. Questo sa

bene raccontarlo Castore, durante il bel dialogo con Simona Ghizzoni a

Fondazione Forma, dal significativo titolo Self-portrait as Myself.

“PARLARE DEGLI ALTRI CON LA STES-

SA CURA CHE VORRESTI FOSSE USA-

TA PER PARLARE DI TE STESSO”

in un lavoro di analisi che dura anni e che viene definito da Lorenzo “flusso

di coscienza”.

Firenze, Roma e New York sono solo i primi domicili di Castore: se Roma

è legata agli studi in giurisprudenza e ai primi servizi fotografici, è a New York

che inizia a girare per strada accompagnandosi ad

una macchina fotografica per fissare ciò che vede, e

si rende conto in maniera nitida di cosa significhi

rincorrere (fisicamente) qualcuno, qualcosa per cogliere

l’invisibile.

A Firenze, dove da ragazzo tornava abitualmente

per ricongiungersi al resto della famiglia,

durante il solito girovagare si imbatte del tutto casualmente

nella mostra Exils di Josef Koudelka.

Questa esperienza aprirà una sorta di varco, una

coscienza tutta nuova in lui, insieme al fondamentale

viaggio in India dello stesso periodo, con gli amici

del cuore: un’apertura unica e abbagliante di un

certo tipo di sguardo. Lorenzo torna spesso a riflettere

su questa epifania, consapevole che l’india ha

sbloccato in lui un nodo importante di consapevolezza;

l’elenco dei viaggi che si srotolerà di lì in poi

è da fare invidia alla stragrande maggioranza di noi.

«È STATA LA PRIMA CONCRETA

E DECISIVA ESPERIENZA DEI

LIMITI DEL CONTROLLO E

DEL PENSIERO RAZIONALE.

75/OMBRE


NON ERA POSSIBILE CONTINUARE

A FARE RESISTENZA.

CON LA TESTA SI ARRIVA FINO

A UN CERTO PUNTO, POI LE COSE

SEMPLICEMENTE ACCADONO

E NON È LA VOLONTÀ L’UNICO FATTORE

CHE LE MUOVE. È STATO UN PUNTO

DI SVOLTA. NELLA VITA DI TUTTI

CI SONO QUESTI MOMENTI CRUCIALI

DI PASSAGGIO DA UN’ETÀ ALL’ALTRA.»

Da una conversazione con Valeria Moreschi, 2018

Inizialmente si tratta di esperienze in paesi segnati dalla guerra, come

Albania e Kosovo, che gli fanno capire molto di se stesso ma soprattutto che

la strada del fotogiornalismo puro non gli si addice; poi lo spostamento in

Polonia, alla ricerca di una scia ben precisa, quella lasciata da vicende antiche

che con il loro potere devastante hanno impresso traccia

indelebile sulla storia. Ancora il connubio tra universale

e intimo che ritorna, tanto da spingerlo a fermarsi a vivere a

Gliwice (la città dalla quale partì l’inizio della Seconda Guerra

Mondiale) per due anni e dare così un’impronta definitiva

al suo modo di essere, non solo di scattare.

Di lì in poi Castore cerca di far convivere commesse

ufficiali (da parte di studi di architettura e realtà industriali),

insegnamento (all’interno dei workshop che porta avanti costantemente

negli anni) e ricerca personale, che resta il motore

principe delle sue giornate e che culmina - anche con

pause di anni - nel libro finito, il mezzo forse più amato da lui

per veicolare il proprio vissuto e renderlo accessibile a tutti, in parallelo con

l’allestimento di mostre-installazioni, imprescindibili.

La forza del libro sta tutta nel mettere un punto fermo, faticoso emotivamente

perché concludere ricerche di anni è sempre complesso, e allo

stesso tempo aiutare il lettore a non sentirsi vincolato da date ben precise:

un libro è per sempre e sta a noi capire quando è il momento di aprirlo. Ci

aspetta paziente.

Sono molte le letture che hanno segnato la crescita interiore di Castore,

che è un appassionato di letteratura prima ancora che di fotografia. Curiosando

tra le sue scelte, sia letterarie che estetiche, salta all'occhio che

in un libro egli cerchi compagni di viaggio più esperti e illuminati che possano

in qualche modo indicare alcune delle possibili strade, e tenere compagnia

nei momenti in cui è necessario stare da soli a fare i conti con noi

stessi. In questo senso la letteratura sa essere una grande amica, e le immagini

che si vengono a creare dietro alla retina quando si viene assorbiti

dalle pagine assomigliano molto a certe visioni di Lorenzo, offuscate, spes-

76/OMBRE


so in bianco e nero come molti sogni, sfuggenti, restie ad essere inquadrate

da un’angolazione scontata.

Ottocento e contemporaneità si mischiano, la cultura dell’est Europa,

russa va a unirsi con l’America più vivida, perché è così che succede sempre,

nella vita vera. Dostoevskij, Florenskij, Camus, Sebald, Joseph Roth, Benjamin,

Mann, Guenon, Miller, Capote, Bolano…

Il linguaggio cinematografico è un altro grande amore di Lorenzo, che

si è accostato più di recente, con cautela e introspezione, a questa strada,

utile al fine di trasmettere storie a partire da immagini. La cinepresa gli

permette di esplorare il territorio del sonoro, e di amplificare gli appunti

presi in precedenza attraverso gli scatti, completandoli.

Il suo primo cortometraggio, No Peace Without War, è del 2012 ed è

stato girato e diretto a quattro mani con Adam Grossman Cohen. Nel 2014

si dedica al secondo cortometraggio, Casarola, costruito sull’immaginario

nato dal visitare la casa dei Bertolucci nei pressi di Parma. W invece è del

77/OMBRE



2022: una creatura ibrida liberamente ispirata a La morte a Venezia di

Thomas Mann.

È plausibile pensare che l’immagine in movimento affascini Castore

perché gli permette di esplorare la terza dimensione; staccandosi dalla bidimensionalità

della fotografia asseconda la sua naturale inclinazione ad

indagare la relazione tra i suoi soggetti e lo spazio, case e città, attraverso

la ripresa e il montaggio. Il mosso tanto caro mentre scatta si fa reale, rapido,

veloce.

È sempre stato infatti vivo in lui l’impulso - anche un po’ ossessivo - di

leggere le storie quotidiane della gente in relazione continua con gli spazi

occupati dai corpi. L’indagare sulle case di chi non c’è più, o di chi ancora vi

risiede ma convive con il rimbombare delle storie già vissute da altri. Questo

deve aver molto a che vedere con le abitudini nomadi del fotografo, abituato

a riconoscere il senso di appartenenza a qualcosa attraverso il legame con

le persone care, piuttosto che una fissa dimora.

Ultimo domicilio (lavoro costantemente in progress) è il progetto che

più rappresenta questo concetto: opere di grande formato (spesso polittici)

ognuna incentrata su di una abitazione ben precisa; inizia a prendere forma

nel 2008 con un viaggio a Sarajevo e Mostar, durante il quale Castore scatta

all’interno di abitazioni abbandonate durante la guerra, congelate nell’attimo

in cui i loro abitanti hanno preso la fuga, abbandonando i loro oggetti,

i loro ricordi, fino a svilupparsi negli anni in un progetto che coinvolge oltre

alle case della guerra anche la casa della storia (Finale Ligure), la casa

della giovinezza e della poesia (Casarola), la casa della ricerca della figura

paterna (Brooklyn), la casa materna (Fontenay Mauvoisin) e la casa di un

nuovo inizio (Cracovia, prima vera casa appartenuta al fotografo).

Il volume (L’Artiere Editore, 2015) è una delle più poetiche e toccanti

strade espressive sulle quali si è incamminato Lorenzo, una strada che permette

al fotografo di approfondire le tematiche della storia personale che è

sempre in qualche modo collegata alla Storia con la s maiuscola, dell’identità

e dello spazio necessario per creare delle individualità. Lorenzo ci spiega

qualcosa di molto utile alla comprensione del suo modo di mettersi in

gioco nel lavoro e nella ricerca, una modalità interiorizzata negli anni:

«OGNI CASA RAPPRESENTA IL

COMPLESSO MONDO INTERIORE

DI CHI L’HA ABITATA CERTAMENTE LEGATO

ALLA MIA ESPERIENZA MA ANCHE

A UNA PIÙ VASTA, COLLETTIVA. PARLANO

DI UN PASSAGGIO, DI INTIMITÀ

E DI UN TERRITORIO COMUNE. SONO

MAPPE DI UN ATLANTE DOMESTICO

OCCIDENTALE. IL MODO IN CUI QUESTO

LAVORO È STRUTTURATO È

ESTREMAMENTE PERSONALE:

79/OMBRE


SCATURISCE DALLE COINCIDENZE,

DALL’IDENTIFICAZIONE E

DALL’IMMAGINAZIONE E CREA

CORRISPONDENZE CHE SONO

ARBITRARIE E STRUTTURATE

ALLO STESSO TEMPO.»

Ma non è certo l’unico lavoro che segue questa rotta: Ewa & Piotr – Si

vis pacem, para bellum, uscito con Les Editions Noir sur Blanc nel 2018, è il

frutto di un lavoro durato diversi anni e portato avanti a Cracovia con sempre

più partecipazione emotiva grazie alla conoscenza che Lorenzo fa con una

coppia di signori, fratello e sorella, durante gli anni vissuti in quella città,

dove tra l’altro diventa proprietario di una casa per la prima volta nella sua

vita, quindi anche in un momento importante di centratura, di riflessione.

Nel quartiere di Podgórze Lorenzo fa per strada la conoscenza casuale

di Ewa Sosnowski, discendente da una famiglia nobile, decaduta, e poi

entra nelle stanze in cui si è ritirata dalla vita insieme al fratello Piotr con

cui condivide una complessa quotidianità in uno spazio domestico specchio

della loro condizione disagiata ed estrema. Il lavoro è un viaggio nel tempo,

l’età dell’oro fotografata dal padre quando Ewa e Piotr erano bambini e l’epoca

attuale così scura e decadente.

LA VITA È DAVVERO UNA COSA

MERAVIGLIOSA NON PERCHÉ È BELLA

(QUANDO LO È) MA PERCHÉ È UN

MISTERO DAL QUALE - SE TI VA BENE -

INASPETTATAMENTE EMERGONO

LAMPI DI RIVELAZIONE.

da un’intervista a Lorenzo Castore del 2015 su www.phom.it

Per quanto concerne la relazione con lo spazio, le più grandi influenze

di Castore arrivano dall’amato Koudelka, da Eugène Atget, da Gabriele

Basilico. Nel girare Casarola ha modo di avvicinarsi all’immaginario poetico

di Bernardo Bertolucci (da questo lavoro nascerà una profonda amicizia) e

di approfondire la sua figura e l’influenza dei luoghi della sua infanzia nello

sviluppo della sua visione e della sua poetica, e viene spontaneo notare che

nel famoso regista, anche lui guarda caso ossessionato dalle case della

gente, ci sia un impulso molto simile a rendere pittoricamente le energie che

hanno impregnato certi luoghi nei decenni, se non nei secoli.

In questo senso Lorenzo è un ragazzo del novecento, che sicuramente

riesce a gestire la realtà altamente virtuale di oggi grazie all’empatia innata,

ma che non corre il rischio di farsi assorbire dalla dispersione di energie

della vita social, perché saldamente ancorato a una visione d’autore molto

solida nonostante il peregrinare e nonostante non tema la sperimentazione

80/OMBRE


visiva. C’è un progetto grande dietro al suo lavoro che è

mosso da bisogni molto radicati, tipico di una forma mentis

novecentesca, estranea alle nuove generazioni che

hanno una lettura della realtà frammentata.

Gli anni più recenti vedono Castore concentrarsi

su progetti sempre più specifici e nei quali si alza la

posta in termini di intensità e accuratezza, ma non viene

abbandonata la naturalezza dello sguardo.

Dal 2011 al 2018 segue da vicino una piccola comunità

di travestiti a Catania, nel quartiere San Berillo,

che culmina con la realizzazione del catalogo Glitter

Blues (Blow Up Press, 2021).

Anche in questo caso l’interesse è rivolto a dare

testimonianza della vita all’interno di quelle strade, di

quegli spazi racchiusi, esposti e intimi al tempo stesso,

l’energia che scaturisce dalle relazioni tra quei volti in

quei luoghi, con tutto il carico emotivo che questo comporta:

un dialogo tra criminalità, religione, accettazione

di sè, miseria, ricerca di normalità.

Land (anche questo edito da Blow Up Press, 2019)

esplora e interiorizza la Slesia, una regione industriale

a forte caratterizzazione mineraria, un luogo molto caro

a Castore, che qui sente di essere diventato un uomo e comprende che può

servirsi della fotografia documentaria in modo diverso. Il lavoro parte dal

periodo 1999-2001 fino ad approdare all’incarico del 2018, da parte del

Museo di Gliwice, città con una tradizione fotografica radicatissima in Polonia.

Land ci racconta di come questa sua terra d’elezione sia cambiata e si

sia trasformata con lui.

Il minatore è sempre stato una figura della mitologia personale di Lorenzo,

che lo definisce come “l’uomo che va sotto terra con una luce sulla

testa e scava nel buio”. Il fotografo è da sempre appassionato al suo lavorare

in gruppo, perché solo in gruppo è in grado di intraprendere pericolose imprese.

L’aiuto reciproco, la paura e il coraggio; il rispetto, il mettersi a servizio.

La Slesia è un luogo apparentemente ostile sia per la sua storia pesante, sia

per la lingua straniera, eppure lo attrae e sa insegnargli moltissimo. Il ritmo

di quei luoghi è lento, attutito e fa da eco, da cassa di risonanza ai pensieri

che a poco a poco lo trasformano, contribuiscono a costruire la sua storia.

Slesia, New York e India sono tutti luoghi che, destino o coincidenza,

accomunano il percorso di Castore a quello di Michael Ackerman, che insieme

a Anders Petersen diventa per lui non solo un esempio, ma anche un

amico con il quale condividere tante affinità. Avere l’opportunità di frequentare

fotografi più esperti, che semplicemente sono arrivati prima di lui nel

percorso, è mille volte più emozionante e costruttivo di ispirarsi a qualcosa

di astratto.

“Negli anni precedenti i miei maestri erano tutti nei libri e quindi distanti,

era il loro lavoro che mi parlava ed è probabilmente la cosa più importante;

poi ho avuto la fortuna di entrare in contatto con alcuni di quelli

81/OMBRE


che mi hanno ispirato, emozionato, aperto il cuore e la mente e ne ho ammirato

la vitalità incandescente insieme alle debolezze e alle contraddizioni;

questo mi ha scaldato dentro e mi ha dato fiducia perché lì ho visto l’origine

della bellezza.”

Castore ama tornare spesso nei luoghi che ha amato: non può fare a

meno di correre a New York subito dopo l’accaduto delle torri gemelle, e gli

scatti di Ground Zero gli varranno l’esperienza lavorativa in Grazia Neri; anni

dopo ritorna in India, paese che ha visto la sua epifania, e dove ha lasciato

la parte di sé più idealista.

Nel suo instagram risuonano le atmosfere di tanti posti affacciati sul

mare, pieni di vento e di profondità, ma il fotografo pare amare con la stessa

intensità le periferie monocromatiche, che soddisfano la voglia di una vita

impregnata di odori e sovrapposizioni, il desiderio punk di inquadrature slabbrate,

violente, contrastanti.

82/OMBRE


Cerca sempre nei suoi scatti, anche in quelli più luminosi e ottimisti,

una tensione, un contrasto forte dato dalla luce, da un corpo bello in una

strada brutta, da un libro antico in mezzo allo sporco. Un animale selvatico

con la dolcezza negli occhi; un incontro tra due persone vissute agli antipodi.

Gli oggetti sono sempre tanti, e spesso ammassati, come nelle case dove

si è sempre vissuto tanta vita stratificata, e le tappezzerie sono consumate.

Il fogliame è sempre fitto, e depositario di ombre pesanti. Gli sguardi sono

obliqui. Dalle finestre filtra quella luce cinematografica che probabilmente

Lorenzo ha interiorizzato dai film novecenteschi. Il tempo delle sue foto è

sempre sospeso, muto ma urlante, di riflessione dopo azioni coraggiose o

semplicemente sbagliate o di lavoro quotidiano.

Le persone stesse sono sovrapposte, attaccate tra loro, incollate, oppure

sono solitarie e in quei casi si può quasi percepire fisicamente un’assenza

dolorosa.

83/OMBRE


“UNO STRUMENTO PER CONOSCERE

ME STESSO E GLI ALTRI E PROVARE

AD INTUIRE L’INSONDABILE, PER STARE

NELLA REALTÀ MA ALLO STESSO TEMPO

IN UN MONDO TUTTO MIO, PER PORMI

E PORRE DOMANDE, PER COMBATTERE

DEMONI PRIVATI, PER RICREARE

LA TENSIONE TRA GLI OPPOSTI CHE

CI GOVERNANO E CHE AD UN CERTO

PUNTO – ALL’IMPROVVISO – PORTANO

AD UNA RIVELAZIONE.”

The Mammoth’s Reflex, 2014

È stato detto che la fotografia di Castore non è facilmente incasellabile

anche se è ben riconoscibile, e sicuramente questa resta una definizione

precisa e pertinente del suo lavoro, attraverso il quale l’autore cerca di

stimolare se stesso e chi guarda anteponendo il contenuto e l’energia della

sua ricerca a una forma sempre troppo e banalmente riconoscibile che rischia

di diventare caricaturale e inutilmente rassicurante, e al tempo stesso

un obiettivo che dovremmo darci in tanti mentre ci accostiamo ad una

carriera creativa.

La forza che ha acquisito la sua fotografia è quella della consapevolezza

del dopo, della rielaborazione, dell’editing, di tutto ciò che viene oltre

lo scatto. Il saper costruire una selezione e una sequenza sia emozionale che

storica, senza cadere nel didascalico.

Lorenzo è molto sensibile all’impaginazione dei suoi scatti, ritenendo

il contenuto importante quanto il contenitore, cercando di trovare l’equilibrio

tra i due senza indulgere ad un’estetica fine a se stessa. Ma è sensibile e

attento alla veste di libri e mostre perché riconosce per prima cosa l’importanza

assoluta dei pieni e dei vuoti, del bianco e del nero, dei pesi da bilanciare,

e poi perché ha un occhio cinematografico che sa suggerire al “lettore”

cosa è venuto prima, cosa forse accadrà dopo.

Questo nasce probabilmente dalle lunghe attese e dai silenzi a cui la

fotografia lo ha per natura portato. Le pause di sospensione sono tutto, in un

brano musicale così come nel dialogo di un romanzo; in uno scatto è tutto

molto sintetizzato ma l’insieme di molteplici scatti è la storia mai scontata

che ci deve arrivare, e questa arte la si impara con la sottrazione continua,

la rielaborazione, i tempi morti che nella vita di tutti i giorni esistono, eccome,

anche se ultimamente siamo tutti sempre più portati a cercare di riempirli

in modo compulsivo, sfogliando le vite degli sconosciuti su di uno

schermo, ascoltando stories, podcast quando va bene.

Questo è un utilizzo passivo del nostro tempo, si viene inghiottiti, ci si

sazia di immagini e voci in modo bulimico. Inconsciamente, non facciamo

84/OMBRE


85/PAGINE


altro che rielaborare di continuo la sequenza infinita di informazioni visive

e sonore che riceviamo proiettate sulla retina in un flusso costante.

Lorenzo da l’impressione di saper ancora apprezzare molto le lunghe

pause, il vuoto attorno, la vita sotterranea, nascosta, e il suo mistero insieme

allo stupore che può generare.

TIME MAZE è un progetto sentito e intimo, che Castore porta avanti

da anni e che si è fatto sempre più strutturato, valorizzato dal designer olistico

Eloi Gimeno e suddiviso in volumi legati a archi temporali, scanditi da

una cronologia legata a fasi di crescita e circostanze della vita, editi da

L’Artiere. Un lavoro ad immagini che ha una valenza letteraria, e attraverso

il quale si avverte la necessità impellente di indagare lo srotolarsi mai lineare

del tempo.

È nel 2011 che l’autore decide di dare un ordine al suo percorso tenendone

traccia attraverso questi volumi, questo gli permette di acquisire una

nuova consapevolezza del suo lavoro, di prendere distanza, in un certo senso

riuscire a congedarsi da situazioni e stati d’animo, affrontando la sua

storia ad immagini e dando un ordine personale a tutto. Come se TIME MAZE

fosse una sorta di alfabeto Castore.

La primissima foto di TIME MAZE è un autoritratto del 1994, il suo

primo in assoluto, che lo ritrae in un bosco del Montana: è talmente evocativo

dello stato d’animo di ricerca ardente e spaesamento dell’autore, sentimenti

così complementari in lui all’epoca.

Le copertine di Gimeno, in bianco e nero, sono concepite sul concetto

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che il tempo non costituisce una linea retta, ma labirintica, ed è sulla base

di questo che Lorenzo effettua la selezione e gli accostamenti, senza ulteriori

regole su foliazione e lunghezza di ciascun periodo considerato.

Nel 2019 viene pubblicato il primo volume dal titolo 1994-2001 | A BE-

GINNING, nel 2022 il secondo volume 2001-2007 | LACK & LONGING, il terzo

è 2007-2012 | CRACKS, e così via: non un diario, ma una vera e propria autobiografia

di stampo letterario, e dunque totalmente, felicemente soggettiva.

Attualmente Lorenzo sta accompagnando fuori nel mondo il suo ultimo

progetto, Séte, del 2023.

Il libro è edito da Le Bec en lair, la mostra è partita da Sète, in Occitania,

per arrivare ad Arles questa estate.

ImageSingulières è un festival di fotografia documentaristica che ogni

anno (questa è stata la quindicesima e ultima edizione) sceglie un fotografo

per una full immersion di circa due mesi durante i quali l’artista selezionato

deve unicamente concentrarsi in tutta libertà espressiva per scattare sul

territorio di Sète. Quest’anno è toccato a Castore esplorare la città e oltrepassare

la soglia delle abitazioni dei suoi abitanti, tenendo traccia - a volte

in bianco e nero, a volte spezzando con il colore come è sua consuetudine

- della bellezza sfaccettata di ciascuno di loro.

Abbiamo chiesto al fotografo di raccontarci le sensazioni raccolte in

questa recente esperienza, e come ha approcciato questo tipo di ricerca,

consapevole che ogni anno un artista si ritrova nello stesso posto come lui,

e che la ricchezza di tutti questi sguardi in sequenza, anno dopo anno, è essa

stessa un messaggio fortissimo.

LC Le residenze hanno particolarità molto specifiche e sono un modo

di lavorare che mi interessa molto. Ci sono degli aspetti che mi agitano ma

che in fin dei conti mi stimolano, su tutti il fatto che c’è una scadenza entro

la quale il lavoro deve essere portato a termine. Un’altra caratteristica interessante

è che le residenze, seppure dando totale libertà espressiva e di

scelta di direzione, sono pur sempre una commissione… ma l’unica commissione

che assimilo al lavoro personale. A parte possibili eventuali eccezioni

(ma che fino ad oggi non si sono mai verificate) non uso immagini che ho realizzato

per lavori commissionati all’interno del corpo di lavoro personale, con

appunto l’eccezione delle residenze. Una specie di regola che ho è che non

accetto una residenza se non ho più o meno in mente come vorrei realizzare

il lavoro. Mi fa sentire a disagio lavorare su una commissione facendo solo me

stesso in modo turistico, contando sulla possibile ispirazione che il luogo in

cui sono invitato mi dovrebbe dare. L’ispirazione e la forza di un lavoro può

aver bisogno di molto più tempo del mese che di solito è il tempo che si ha in

residenza che nonostante tutto è un tempo generoso, ma se è giusto o poco è

difficile dirlo all’inizio. Quindi quello che cerco di fare ha a che fare con il mio

approccio ai luoghi e alle persone che lo abitano: in poche parole prendo la

residenza alla lettera, cerco di diventare un residente, cerco di entrare in

relazione dal di dentro e non da turista. Ogni volta in modo diverso, adattandomi

a quello che trovo e a come mi sento in quel momento, come sempre.

87/OMBRE


Nelle pagine precedenti

un minuscolo assaggio del

mondo di Lorenzo Castore.

In questa doppia pagina

alcuni scatti tratti dal suo

ultimo progetto Sète#23,

mostra e catalogo


LA TENSIONE TRA GLI OPPOSTI È

CERTAMENTE QUELLO CHE MI ATTRAE

E INTERESSA DI PIÙ, È LA FONTE DEL

MISTERO DELL’ESISTERE E CERCARE

DI FARLO NEL MODO PIÙ ORIGINALE

(NON STRANO O FORZATAMENTE

ECCENTRICO, MA PERSONALE) POSSIBILE

– E NEL PRESENTE – CREDO SIA IL

COMPITO PIÙ IMPORTANTE, DIFFICILE,

DOLOROSO ED INSIEME ESALTANTE

DELLA VITA DI OGNI ESSERE UMANO.

SICURAMENTE DELLA MIA.

Da Present Tense, 2015

www.lorenzocastore.com

www.instagram.com/lorenzocastore

89/OMBRE


IL POTERE DEL

CANE E STONER:

DUE MODELLI

DI MASCOLINITÀ

OLTRE GLI

STEREOTIPI

90/PAGINE


Chiara Riva

La quarta di copertina del Potere del cane di Thomas

Savage (edizione Neri Pozza 2017, traduzione di Luisa

Corbetta) recita, dalla prima riga: “È una storia di quelle

che piaceranno a chi ha divorato Stoner”.

Al di là dell’esigenza di marketing di richiamare

l’attenzione di un pubblico potenzialmente interessato

a un certo genere di narrativa, questa affermazione mi

ha spiazzato. In prima battuta, perché Stoner di John

Williams è un romanzo che effettivamente mi è piaciuto

moltissimo, e in seconda perché, pur cogliendo di sot-

91/PAGINE


IL SUO ATTEGGIAMENTO,

LO SCOPRIAMO MAN

MANO NELLA LETTURA,

È UN MODO PER

PRESERVARE IL MONDO

COM’ERA PRIMA, PER

POTERLO CONGELARE.

tofondo un’affinità, mi domandavo che cosa mai accomunasse questi due

libri così diversi, un western atipico con una storia di omosessualità repressa

nel West degli anni Venti, e una altrettanto atipica “campus novel” sulla

vita di un ordinario professore dell’Università del Missouri dal 1891 al 1956.

Ci ho riflettuto, e alla fine, credo, un fil rouge l’ho individuato, nella

matassa aggrovigliata dei vari temi dei due romanzi.

Partendo dai dati formali, le due opere hanno una simile storia editoriale,

nel senso che, scritti entrambi nella seconda metà degli anni Sessanta,

non hanno inizialmente trovato fortuna presso il pubblico. Si tratta di due

recuperi, riscoperti negli anni Duemila, e rilanciati in Italia rispettivamente

da Neri Pozza e Fazi (e, nel caso del Potere del cane, anche con il traino

dell’omonimo film di Jane Campion con Benedict Cumberbatch e Kirsten

Dunst vincitore dell’Oscar per la miglior regia nel 2022).

Già questo dato è interessante; capita che romanzi che in America non

hanno incontrato i favori, se non della critica, dei lettori, siano stati successivamente

“scoperti” in Europa e la fortuna esplosa nel Vecchio continente

abbia fatto da propulsore poi alle vendite internazionali nel resto del mondo.

È proprio grazie a questo meccanismo che

i romanzi oggetto di questa recensione, dal

dimenticatoio dove giacevano, sono diventati

dei veri casi letterari internazionali.

Viene da domandarsi: questione di sensibilità?

A questo proposito è curiosa ma appropriata

la riflessione della scrittrice statunitense

Sylvia Brownrigg che afferma, a

proposito di Stoner: “Il protagonista stesso

sembra molto più inglese o europeo: spento,

fondamentalmente modesto e passivo…

Forse lo scarso successo del romanzo negli

Stati Uniti si deve al fatto che non sembra "uno-di-noi". Siamo un paese di

massimalisti chiassosi” 1 . Per quanto riguarda Il potere del cane, con un’ambientazione

molto più iconicamente americana, il motivo del suo scarso successo

iniziale si può ricercare nella tematica dell’omosessualità che all’epoca

era ancora considerata “scomoda” e imbarazzante soprattutto se

confrontata con il modello di virilità western allora propagandato.

Nel Potere del cane Thomas Savage pesca a piene mani dalla sua

autobiografia: nato nel 1915, cresciuto dalla madre e dal patrigno, entrambi

ricchi e influenti allevatori, è originario dell’Ovest ma nel corso della sua vita

vivrà anche a Est. Prima di diventare scrittore svolge lavori umili, come il

cowboy e il mandriano. Si scopre omosessuale da sposato. Lui il Montana lo

conosce bene. È il luogo della sua infanzia e della sua giovinezza e in particolare,

come scrive Annie Proulx nella prefazione al romanzo, quello dove

1 https://www.ilpost.it/2015/12/29/stoner-john-williams/

92/PAGINE


viveva era “un angolo del Montana ormai scomparso, selvaggio, aspro, maschile,

ancora vicino all’epoca dei pionieri” e lì la gente “ricordava ancora i

campi aperti dove pascolava il bestiame, gli scontri con gli indiani”.

Tutto questo c’è e non c’è nel romanzo.

C’è l’ambiente selvatico, brullo, ostile, spazzato da un vento costante

che fischia estate e inverno sotto il cielo che è una “volta vuota” e in poco

tempo ricopre di polvere ogni cosa; c’è la mascolinità, che però, come vedremo,

in fondo è solo apparenza e nasconde le fragilità del protagonista come

dei suoi mandriani, giovani che si aggrappano ai ricordi di casa per affrontare

“un mondo vasto e ostile” e un lavoro che offre poche prospettive. Non ci

sono più invece gli scontri con gli indiani, ormai tutti confinati nelle riserve:

al loro posto, se non proprio paria, certo osteggiati e disprezzati dai grandi

latifondisti, sono arrivati all’Ovest agricoltori norvegesi, svedesi, austriaci

ingannati da “volantini colorati delle ferrovie” e ritrovatisi con un pugno di

terra arida da coltivare. In compenso iniziano a esserci più automobili che

cavalli, si insinua strisciante il merchandising dei cataloghi con prodotti

firmati per i lavoratori dei ranch e le stelle del cinema si sostituiscono al mito

dei cowboy; quelli veri di una volta ormai sono solo un ricordo passato.

Il mondo dell’Ovest sta cambiando in fretta, e a scanso di equivoci

Thomas Savage mette in bocca questa battuta sarcastica al personaggio di

un commesso viaggiatore: “Sembra proprio il Selvaggio West”. Un confronto

impietoso tra il mito della frontiera e quello che di quel mito rimane.

Il protagonista Phil Burbank (figura ispirata a un parente dell’autore)

è il principale antagonista a questo cambiamento sociale ed epocale.

Proprietario di un esteso ranch insieme al fratello George, si occupa

dell’aspetto pratico nel mandare avanti la proprietà: le bestie e tutte le attività

collegate e la gestione dei mandriani. Al fratello spetta invece la parte

finanziaria. Al di là di questa divisione di ruoli, i due vengono definiti come

un unico gemello, complementari tra loro, in qualche modo non separabili.

Phil, si può dire che sia l’incarnazione del mito del cowboy: aspetto

adolescente nonostante i quarant’anni, dotato di una singolare abilità per

qualsiasi attività “da rancher”, ammirato e rispettato dai lavoratori alle sue

dipendenze, anche perché si pone al loro stesso livello. Oltre a ciò ha una

mente acuta, è laureato, è un fine lettore e suonatore ed è provvisto di una

sensibilità non comune che, tra l’altro, gli fa scorgere nella Natura ciò che

gli altri non vedono. Un concentrato di caratteristiche eccezionali tanto

quanto George appare lento, grosso, senza particolari interessi, il campione

della medietà.

Però Phil appare da subito come un personaggio antipatico e cattivo;

alle sue doti si accompagnano un atteggiamento razzista, misogino e derisorio

nei confronti delle fragilità altrui. La sua mascolinità è ostentata, ogni

minima comodità che non sia strettamente necessaria è da lui bollata come

“roba da femminucce”. Il suo atteggiamento, lo scopriamo man mano nella

lettura, è un modo per preservare il mondo com’era prima, per poterlo congelare.

Phil è un uomo che – si capisce – vive nel mito di un mondo passato

dove i cowboy erano veri uomini e non ragazzi come i suoi braccianti che a

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fare i cowboy ci giocano, con ingenuità e un fondo di disperazione. Soprattutto

vive nel mito di uno di questi cowboy eccezionali, Bronco Henry, figura

sempre citata nei suoi racconti, suo mentore e, come verrà rivelato nel finale

del libro, oggetto della sua passione giovanile, accuratamente repressa e

controllata dopo la sua morte.

L’equilibrio che Phil si è costruito con questo modo di fare entra in

crisi nel momento in cui nella sua proprietà arriva Rose. Rose, che è la vedova

di un onesto medico morto suicida proprio a seguito di un umiliante

affronto di Phil, casualmente conosce George e ne diventa la moglie. Benché

non abbia alcun tipo di pretesa sui fratelli Burbank e non sia certo un’arrampicatrice

sociale, Rose incontra subito la manifesta ostilità di Phil e di fronte

ai suoi reiterati silenzi, al suo rifiuto di comunicazione e al suo atteggiamento

derisorio incomincia a bere.

La sua figura è il contraltare femminile a Phil. Tanto lui oppone al

mondo – che “ha iniziato a odiare prima che il mondo odiasse lui” – un’immagine

di forza e virilità, tanto lei indossa una maschera, esattamente come

indossa gli abiti acquistati nei negozi alla moda: quella della nuova padrona

del ranch più esteso della valle, mentre nel segreto della sua camera cede

totalmente alle sue insicurezze.

L’epilogo a questo punto potrebbe sembrare scontato, se non fosse per

l’arrivo di un altro personaggio che la storia aveva già introdotto: si tratta di

Peter, il figlio di Rose, un ragazzo la cui grande intelligenza è pari all’introversione,

fin da piccolo deriso per i suoi modi di fare effeminati. Peter, che

dal padre ha ereditato la passione per la medicina ma non la fragilità di

carattere, sembra non reagire neppure davanti ai fischi dei mandriani che lo

prendono in giro, aizzati da Phil, e passa avanti incurante con quei suoi “occhi

inespressivi che vedono tutto e niente”.

Peter si accorge che la madre beve di nascosto e capisce il motivo

della sua infelicità. Nello stesso tempo Phil si accorge che Peter è un ragazzo

che ha coraggio da vendere nonostante le apparenze, e decide di “usarlo”,

cercando di farselo amico, per far crollare definitivamente i nervi della madre.

Il ragazzo inizia a risvegliare in lui qualcosa di profondo e mai sopito e

la similitudine con l’amato Bronco Henry affiora quando anche Peter, come

il vecchio amante, si rivela l’unica altra persona in grado di distinguere in

una collina nei pressi del ranch l’immagine di un cane che corre; ma all’improvviso

Phil si ammala e muore in un breve arco di tempo. Ufficialmente a

causa di un’infezione da antrace, ma di fatto – colpo di scena – per mano di

Peter, che aveva utilizzato le sue conoscenze in medicina per infettarlo con

le pelli prelevate da un animale morto.

Phil, il cane predatore, in un tragico contrappasso dal sapore dantesco,

conclude così la sua esistenza da vittima.

Nel portare a compimento la sua vendetta, con effetti drammatici per

Phil ma salvifici per il matrimonio di Rose e George, Peter sembra aver esaudito

l’ultima raccomandazione del padre che, prima di uccidersi, lo aveva

ammonito di essere sempre gentile nella vita, intendendo con "gentilezza"

– una parola che ricorre più volte nel romanzo – la capacità di eliminare gli

ostacoli davanti alle persone a noi care. Il verso "Liberami dalla spada e dal

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potere del cane", che alla fine legge

dal testo della liturgia anglicana

Book of Common Prayer e che dà il

titolo al romanzo, è una preghiera

per se stesso a vivere libero dalle

costrizioni dell’invidia, della paura,

della gelosia, quei demoni interiori

che avevano reso Phil un represso.

Non siamo così lontani dalla

trattazione esplicita del tema

dell’omosessualità in opere come

Brokeback Mountain, ma per il racconto

del premio Pulitzer Annie

Proulx (nella raccolta Storie del

Wyoming/I. Distanza ravvicinata,

minimum fax 2019, traduzione di

Alessandra Sarchi), da cui Ang Lee

nel 2005 ricavò l’omonima trasposizione

cinematografica, bisogna

attendere ancora trent’anni. Intanto nel suo romanzo Thomas Savage ha

scardinato il mito della frontiera, ponendosi tra gli apripista per il filone dei

western crudi, tossici, assolutamente “non sentimentali” (i vari Cormack

McCarthy e Larry McMurtry e Philip Meyer), di pari passo con un cinema che

inizia a superare le regole del genere e in cui l’omoerotismo, se non è subito

palese, è comunque spesso presente in sottotraccia o attraverso riferimenti

e allusioni 2 . Sono arrivati i Sixties.

In questo senso il messaggio e il nuovo portato del Potere del cane, scritto

negli anni Sessanta, è arrivato forte e chiaro fino a noi, alla nostra sensibilità

moderna. Jane Campion, nel sceglierlo come soggetto per il suo film, si era

dichiarata affascinata dalla figura di Phil, così come il suo interprete, l’attore

inglese Benedict Cumberbacht, che lo ha descritto come “una figura poetica

complessa” e che sarebbe riduttivo definire solo come cattivo della storia.

Phil è infatti un cattivo che solo alla fine, negli ultimi momenti di vita, si

rivela per quello che è. Non lo possiamo giustificare, ma capire sì. È l’insegnamento

della Valle dell’Eden di John Steinbeck, storia di due fratelli – fratelli

come Caino e Abele, fratelli come il malvagio Phil e il buon George – e una riflessione

sul bene e sul male: più che chiedersi se la malvagità esiste, ha senso

domandarsi perché esista. È lo stesso Phil che, in una delle sue riflessioni, ce

lo dice: “come avviene con le corde di cuoio intrecciate, il carattere umano si

forma dalla combinazione di tanti fili, a volte con risultati positivi, altre deludenti”.

E dei due Phil sente di essere, nel profondo, il risultato deludente.

Da questo punto di vista, anche William Stoner è l’incarnazione della

vita da perdente.

2 https://www.quartopotere.com/archivio/articoli/incontri-e-reportage/reportage/articolo-185

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La storia di quest’uomo che è appropriato definire “grigio” è riuscita

però nel miracolo di finire in testa alle classifiche dei libri più venduti oggi:

ben diversa era stata la sua odissea verso la pubblicazione nei lontani anni

Sessanta, quando il manoscritto aveva ricevuto ottimi pareri da molti editori

accompagnati però da altrettanti cortesi rifiuti prima di ottenere l’agognata

pubblicazione e, nel giro di un anno, dopo un esiguo numero di copie

vendute, uscire rapidamente di catalogo.

La storia editoriale di Stoner è un miracolo, appunto, indice di alta letteratura.

L’unico che ci aveva visto giusto a quanto pare era proprio l’autore.

John Williams, infatti, anch’egli professore universitario di letteratura inglese

oltre che di scrittura creativa a Denver (ma le analogie con il suo personaggio

finiscono qui), in un carteggio con la sua agente si dimostrava consapevole

delle scarse prospettive commerciali dell’opera ma insisteva sul fatto

che, presentato nel modo giusto, il romanzo avrebbe potuto rivelare sorprese,

soprattutto in futuro. In qualche modo era stato un vero veggente!

Williams definisce Stoner “una specie di santo”, e forse è davvero una

definizione azzeccata per quest’uomo con una così forte etica del lavoro che

diventa la sua ragione di vita.

Tanto la trama del Potere del cane è articolata, quanto quella di Stoner

è riassunta, in poche righe, nel celebre incipit del romanzo: in buona sostanza,

William Stoner è un uomo nato nell’ultimo decennio dell’Ottocento in un

piccolo centro rurale del Mississippi, ha umili origini contadine, si iscrive

all’università di Agraria e, in un esame orale che viene descritto come una

rivelazione epifanica, scopre casualmente una grande passione per la letteratura,

diventando insegnante nella stessa università in cui ha studiato.

È un uomo fondamentalmente incorruttibile, lo dimostra una delle scene

clou del romanzo in cui si scontra con il capo del suo dipartimento intenzionato

a promuovere agli esami un suo protetto, un ragazzo in realtà totalmente

impreparato. Stoner non asseconda i favoritismi del collega, e tra i

due inizia così una “faida” accademica che gli bloccherà la carriera, in un

passo che per induzione assimila i meccanismi interni all’università a quelli

che regolano la società intera. Tuttavia Stoner non cercherà mai, se non

vendetta, almeno rivalsa: il suo atteggiamento resta improntato all’accettazione

delle conseguenze e piuttosto alla coerenza con le proprie convinzioni

di ciò che è giusto o meno fare. È anche per questo un uomo che rimane

fondamentalmente solo, tutta la vita. Resta un docente mediocre, e alla fine

pochi si ricorderanno di lui. La sua vita matrimoniale e familiare è un fallimento,

e anche l’intensa storia d’amore con un’ex allieva è destinata a restare

un bellissimo e distante ricordo. Eppure, l’esistenza – ripeto –, grigia

e fallimentare di quest’uomo viene elevata dalla scrittura e dall’introspezione

psicologica di Williams a rango di letteratura, il cui cuore specifico nel

romanzo è la coerenza morale, l’assoluta autoconsapevolezza del protagonista

che, una volta scoperto chi è, non deroga mai alla sua identità più

profonda, alla piega che ha fatto prendere alla sua vita.

Come emerge dall’intervista a Williams posta a prefazione del libro

nell’edizione Mondadori (2020, p. XV), Stoner incarna l’ideale classico – e

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IL SUO

VERO IO È

INVISIBILE A

TUTTI, UN

SANTUARIO

SEGRETO

COME LA

CAPANNA

TRA GLI

ALBERI

COSTRUITA

DA RAGAZZO

morente, parrebbe oggi – della persona istruita, che studia per il piacere

di studiare, che si nutre della conoscenza senza fini utilitaristici o

pratici, e ogni volta si meraviglia, con uno stupore genuino, di essa. E nel

finale del romanzo questo rapporto identitario emerge con particolare forza

nella scena in cui, in punto di morte, Stoner ha la percezione netta, nel venir

meno di tutti gli altri sensi, che una parte di sé sarebbe rimasta legata al libro

che aveva scritto tanti anni prima. E per un istante ci sembra quasi di sentirlo

questo legame, in un’altra, evanescente e avvolgente epifania.

Stoner e Phil, dai loro due diversissimi ambienti e dalle loro due diversissime

storie, rappresentano due tipi di mascolinità quasi agli antipodi, e

due differenti modi di rapportarsi con la propria identità e di relazionarsi con

il mondo: ma entrambi sono accomunati dal fatto di essere soli.

A differenza di Stoner, Phil sa chi è ma lo ha nascosto a se stesso e

agli altri, congelando la sua vera identità per paura del rifiuto della società.

Il suo vero io è invisibile a tutti, un santuario segreto come la capanna

tra gli alberi costruita da ragazzo con George e ora, col passare degli anni,

totalmente camuffata dalla vegetazione penetrata al suo interno e cresciuta

all’esterno, il suo nocciolo di purezza e innocenza, “l’unico posto al mondo

che appartenesse solo ed esclusivamente a lui”.

Stoner al contrario scopre se stesso con il passare degli anni (esattamente

come chiunque), rimanendo poi fedele alla propria essenza per tutta

la vita. Il suo sé gli si rivela progressivamente nella sequenza della sistemazione

dello studio: “Mentre sistemava la stanza, che lentamente cominciava

a prendere forma, si rese conto che per molti anni, senza neanche

accorgersene, come un segreto di cui vergognarsi, aveva nascosto un’immagine

dentro di sé. Un’immagine che sembrava alludere a un luogo, ma che in

realtà rappresentava lui. Era dunque se stesso che cercava di definire, via

via che sistemava lo studio” (Stoner, Mondadori 2020, traduzione di Stefano

Tummolini, p. 101).

Per lui la scoperta della propria identità non è traumatica, non è un

segreto da celare, ma una conquista, il suo amore per la letteratura e l’abbandono

delle origini contadine un motivo di orgoglio, non una colpa o qualcosa

di cui vergognarsi. Tuttavia anche Stoner, come Phil, è in cerca di un

riparo dalla società, dall’esterno che per carattere non sa affrontare di petto,

e quel riparo sono l’università e la letteratura, “rifugio dei diseredati del

mondo”, dove però riesce a trovare la serenità interiore e a tratti anche a

provare la vera felicità.

Ecco dunque fin dove ci ha condotto il fil rouge che abbiamo seguito

all’inizio di questa riflessione sui due romanzi: Thomas Savage e John Williams

hanno descritto sessant’anni fa, in parte probabilmente influenzati dal

proprio vissuto personale, due nuovi modelli di uomo, oltre gli stereotipi di

genere e alla ricerca, con risultati diversi, della propria identità.

Uomini più moderni, più complessi, più vicini alla nostra sensibilità.

Così in anticipo sui tempi che ce ne siamo accorti solo ora.

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Collage#1

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1. Conversazioni su di me e tutto il resto, Woody Allen con Eric Lax 2. A proposito

di niente. Autobiografia, Woody Allen 3. Il “vizio assurdo”. Storia di Cesare

Pavese, Davide Lajolo 4. Quell'antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese, Lorenzo

Mondo 5. De Kooning. L'uomo l'artista, Mark Stevens - Annalyn Swan 6.

Chiamami col tuo nome, André Aciman 7. Cercami, André Aciman 8 Ogni storia

d'amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace, T. D. Max 9. Come

diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta, David Lipsky 10. Lo

chiamavano “il Prete”. La vita e l'eredità di William S. Burroughs, Graham

Caveney 11. A Love Supreme. Storia del capolavoro di John Coltrane. Ashley

Kahn 12. Blue Trane. La vita e la musica di John Coltrane, Lewis Porter 13.

Uomini senza donne, Haruki Murakami

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Collage#2

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1. La paga del soldato, William Faulkner 2. Paradiso,

Lorenzo Castore 3. Una vita come tante, Hanya

Yanagihara 4. Il nudo e il morto, Norman Mailer 5.

Moravagine, Blaise Cendrars 6. Essere ribelli, David

Bowie 7. Tropico del Cancro, Henry Miller 8. Addio

alle armi, Ernest Hemingway 9. Skull Ring, Iggy Pop

10. Howard Hughes, Michael Drosnin 11. Austerlitz,

W.G. Sebald 12. Moleskine 2020 Pandemia, Renzo

Ferrari 13.Cahier, Michel Houellebecq 14. Albert

Camus. Una vita, Olivier Todd


Collage#3

1. Never Quiet. La mia storia (autorizzata mal

volentieri), Oscar Farinetti 2. Enrico Fermi.

L'ultimo uomo che sapeva tutto, David N.

Schwartz 3. Oppenheimer. Trionfo e caduta

dell'inventore della bomba atomica, Kai Bird -

Martin J. Sherwin 4. Lungo cammino verso la

libertà, Nelson Mandela 5. Sergio Marchionne,

Tommaso Ebhardt 6. Open. La mia storia, Andre

Agassi 7. Come ho progettato il mio sogno, Adrian

Newey 8. Michele Ferrero. Condividere valori per

creare valore, Salvatore Giannella 9. Storia di un

Boxeur latino, Gianni Minà

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Collage#4


1. I segreti di Brokeback

Mountain, Ang Lee 2. Distanza

ravvicinata. Storie

del Wyoming. Vol. 1, Annie

Proulx 3. Meridiano di sangue,

Cormac McCarthy 4. La

valle dell'Eden, Elia Kazan

5. Il figlio, Philipp Meyer 6.

Tex, Giovanni Luigi Bonelli,

Aurelio Galleppini 7. Il potere

del cane, Thomas Savage


EX NIHILO

SU UNA LETTURA DI CARMELO BENE

Andrea Anconetani

Ho avuto la fortuna di poter vedere

dal vivo Carmelo Bene per due volte

nella mia vita.

La prima volta fu nel 1987, a Recanati

quando, allora ventenne, ascoltai

i suoi Canti di Giacomo Leopardi. La

seconda ed ultima volta fu a Roma, in

un teatro di dimensioni medio piccole

che oggi purtroppo non esiste più. Il

Teatro dell’Angelo, in zona Prati. Era

il 1999 e Bene metteva in scena il suo

Concerto d’autore, tratto da La figlia

di Jorio di D’Annunzio, con le musiche

di Giani Luporini, le scene di Tiziano

Fario e i costumi di Luisa Viglietti.

Una lettura personale, in cui l’attore

concentrava in una sintesi i versi

della tragedia dannunziana.

Io, anche e soprattutto per il mestiere

che faccio, assisto a molti spettacoli

(in realtà, da qualche tempo, sempre

di meno, ma questo è un dato poco

importante), spesso dimenticabili, ma

quelli di Carmelo Bene, in particolar

modo quest’ultimo, li ho ben presenti

e hanno segnato per me un vero

spartiacque, qualcosa che ha

radicalmente modificato il mio

sguardo verso il Teatro e verso

il mondo.

Nella platea dalle mura nere, presi

posto, in posizione centrale e assai

fortunata, insieme ad un’attrice che

all’epoca stava lavorando con me.

Le sedie, alcune nere ed altre rosse,

presto si riempirono e mi accorsi che

nella fila davanti alla mia sedeva una

ricca rappresentanza di attori di peso

del panorama nazionale (ricordo

almeno Silvio Orlando e Michele

Placido). Ogni spettacolo di Carmelo

Bene era un evento a cui non si poteva

non presenziare. Il rito del teatro

si stava compiendo, come sempre.

Eravamo pronti. La sala risuonava

del bisbiglìo ovattato che precede

il silenzio. E fu a quel punto che una

voce registrata e piuttosto stentorea

fece il suo esordio con la

presentazione della serata. Dopo

i consueti convenevoli, «Benvenuti al

Teatro dell’Angelo in Roma alla recita

del Maestro …», due raccomandazioni

importanti. La prima intimava

di spegnere qualunque dispositivo

mobile, poiché al primo squillo o

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NELLA

MANCANZA

DI QUESTO

SCAMBIO

E NEL

DESIDERIO

DI POTERLO

AVERE

suono molesto il Maestro avrebbe

interrotto definitivamente lo

spettacolo (nel 1999 già era iniziata

la piaga, oggi devastante, dello

squillo inopportuno del telefono

cellulare in ogni contesto della vita).

La seconda, sorprendente, diceva che

il Maestro imponeva al pubblico di

non applaudire alla fine

dell’esibizione. «La raccomandazione

è che nessuno del pubblico dovrà

applaudire alla fine della recita»,

scandì per due volte l’anonima e ben

impostata voce. Non compresi subito

quel che voleva dire esattamente

questa cosa. Mi sembrò, al momento,

una delle bizzarrie alle quali Carmelo

Bene era affezionato. La presi così.

Se il Maestro non vuole allora non

applaudirò.

Iniziò quindi lo spettacolo.

Rivedo la dominante della scena,

assolutamente nera; le luci

ghiacciate che davano al tutto una

sensazione terribilmente mortifera.

Carmelo Bene, volto bianchissimo,

reso emaciato dalla luce azzurrina

dei proiettori, apparve come dal nulla

e, aprendo un gigantesco libro

posizionato davanti a sé, cominciò la

lettura. Non riuscii a calcolare più il

tempo. Fu un flusso infernale di

parole, suoni, esplosioni. Ricordo la

sensazione fisica della voce che

scuote lo stomaco. I volumi erano

altissimi. Scoprii più tardi che Bene

aveva fatto posizionare in

corrispondenza della platea del

teatro – che era in legno,

sopraelevata e quindi vuota –,

proprio sotto le sedie del pubblico,

dei subwoofer che a determinate

frequenze generavano uno

scuotimento di tutto il corpo.

Voleva chiaramente che la sua

voce producesse nello spettatore

un’esperienza fisica oltre che

meramente acustica.

Va da sé che nessun cellulare

squillò mai quella sera.

Al sussurrare dei versi finali della

tragedia «La fiamma è bella … la

fiamma è bella», Carmelo Bene

scomparve, come inghiottito nel buio,

così com’era apparso, e non fece più

ritorno.

Nessuno del pubblico applaudì. Calò

una coltre di immenso gelo su tutti.

Compresi lì per la prima volta davvero

quel che vuol dire l’applauso al finale

di una rappresentazione teatrale. Non

è soltanto un commiato rituale

(troppe volte non è che questo) ma un

momento cruciale di scambio tra gli

attori e il pubblico. A significare che

il teatro tutto vive di questo scambio

umano. Una restituzione. Gli attori

hanno dato la loro vita in scena e il

pubblico rende loro grazie. L’ho capito

quella volta proprio nella mancanza

di questo scambio e nel desiderio

(che ha a che fare con la mancanza)

di poterlo avere. Ma Carmelo Bene

non aveva, è chiaro, concepito lo

spettacolo come uno scambio. Non

intendeva né dare né ricevere

alcunché. Non voleva fare uno

“spettacolo” del suo Teatro. Voleva

un evento, qualcosa che,

letteralmente, vien fuori, accade e

basta. Un’epifania la cui ineffabilità

doveva essere totale, completa, come

la sua solitudine disperata. Come

la solitudine desertificata che

si impadronì di ognuno di noi che

avevamo assistito a questa

apparizione.

Tutti uscimmo dalla sala in un

silenzio irreale, con la testa

abbassata e ricominciammo

a respirare solo raggiunto il

marciapiede. La sensazione di

distacco infinito che provai allora,

la porto ancora con me e ha reso

quella serata indimenticabile.

Se il senso vero del Teatro sta

nella capacità di modificare

intimamente la persona umana,

quella serata mi modificò certamente

più di tante altre, di tanti

“spettacoli”, anche meravigliosi, ma

dimenticabili e dimenticati. Dal nulla

era apparso e nel nulla era tornato.

Senza lasciare traccia di sé e senza

nulla volere da noi. Questo era

Carmelo Bene e non auguro a

nessuno – e men che meno a me

stesso – di percorrere la sua via.

107/PALCHI/note


IN

CON

TRO

TEN

DEN

ZA


Nicola Guida

«E IO RITARDATARIO

SULLA MORTE, IN ANTICIPO

SULLA VITA VERA, BEVO

L’INCUBO DELLA LUCE

COME UN VINO SMAGLIANTE.»

«UN CONTINUO TURBAMENTO

SENZA IMMAGINI E SENZA

PAROLE BATTE ALLE

MIE TEMPIE E MI OSCURA.»

Pier Paolo Pasolini

“Ne nascono pochi in un secolo, tre o

quattro”, diceva Moravia, dei poeti.

E nel tumultuoso 1922, l’anno

in cui Mussolini si impadronì del potere,

il 5 marzo a Bologna nacque il

più contestato dei poeti del secolo

scorso: Pier Paolo Pasolini.

Ma Pasolini non fu solo un poeta:

fu un giornalista incisivo, un filosofo

audace e un pittore sperimentale. Il

suo nome rimarrà inciso nella storia del cinema italiano grazie a pellicole

iconiche come Accattone, Mamma Roma, Medea e Uccellacci e Uccellini.

Fu anche un prolifico e instancabile scrittore. Tra le pagine dei suoi

romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Petrolio) dissezionò con raro

acume la realtà mutevole, concentrando la sua lente di ingrandimento su

quell’angolo nascosto e trascurato della società: gli emarginati, le borgate

e quel che un tempo era noto come sottoproletariato, quella parte di popolazione

così disagiata da essere incapace di far sentire la sua voce.

Ma in particolar modo Pasolini fu l’intellettuale che gettò lo sguardo

più avanti di chiunque altro, prevedendo il futuro della nostra società. Sca-

109/VISIONI


gliò una dopo l’altra le sue sfide ai tabù della nascente borghesia del dopoguerra:

aborto, droga, consumismo, ambiente e, soprattutto, l’omologazione

forzata imposta dalla crescente società dei consumi che, tra la fine della

guerra e gli anni settanta, riuscì con gli Italiani in quello che nemmeno il

fascismo, con la sua ideologia, era stato capace di fare: distruggere tradizioni,

usi e costumi, senza neppure il bisogno di agire nell’ombra ma nella piena

luce della democrazia, smantellare in poco tempo la cultura italiana,

uniformando tutti nella frenetica ricerca di un benessere, di un modello di

vita imposto dai media che, appena faticosamente sfiorato dal cittadino italiano,

già sfuggiva sul vento di nuove mode.

La critica di Pasolini alla società dei suoi anni si nutrì delle trasformazioni

che osservava intorno a sé, analizzandole con veemenza. Sulle pagine

del Corriere della Sera scrisse di quei meccanismi sociologici che stavano

plasmandoci, meccanismi che forse solo oggi si sono compiutamente manifestati:

la completa trasformazione culturale e l’omologazione.

Il primo articolo in cui espose questa teoria fu pubblicato sulla prima pagina

de Il giorno dopo il referendum sul divorzio del 10 giugno 1974. Intitolato

GLI ITALIANI NON SONO PIÙ QUELLI,

il pezzo metteva in evidenza come la vittoria del “no” non fosse un trionfo

del progresso o della democrazia, ma piuttosto la testimonianza che il ceto

medio fosse completamente mutato, afflitto non più da quel bigottismo cattolico

di cui anche egli era vittima, in quanto omosessuale, bensì da un’ansia

ossessiva di conformità che travolgeva borghesi, proletari, sottoproletari e

operai: la travolgente e irresistibile presa del modello americano o, quantomeno,

di quello che si percepiva in Italia in quegli anni; la “american way of

life” aveva condizionato le scelte di vita, di libertà, la ricerca della felicità

degli Italiani, come se nel Bel Paese democristiano degli anni settanta potesse

attecchire il sogno americano.

Nuove forme di intrattenimento iniziarono a condizionare nuove abitudini

familiari, e un nuovo uso del tempo libero: la gente incominciava a pensare

non solo a come vivere, ma anche a come godersela, la vita. L’etica della

rinuncia della vecchia classe contadina e operaia, che accumulava beni di

necessità per il timore di guerre e carestia, nella società del dopoguerra era

diventato rapidamente un lontano ricordo: gli italiani iniziarono a spendere

quanto guadagnavano, nel retropensiero di poter così arrivare a quel modello

proposto dalla televisione e dalla pubblicità. Durante lo sviluppo economico

di quegli anni, far soldi era possibile, lo mostravano programmi come Giochi

senza frontiere e il Rischiatutto di Mike Bongiorno, ai quali si alternavano

Canzonissima, presentata dal duo Corrado e Raffaella Carrà, e Carosello.

Pasolini denunciò questo cambiamento con malinconia e pessimismo,

mentre vedeva sgretolarsi il tessuto delle periferie romane e delle borgate

che un tempo aveva tanto amato.

Il 15 giugno 1975 l’autore scrisse l’Abiura dalla Trilogia della vita che

fu pubblicata il 9 novembre, pochi giorni dopo la sua tragica morte, sul Corriere

della Sera.

Pasolini in quell’articolo rinnegava i suoi ultimi tre film: Il Decameron,

I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte, opere che volevano

110/VISIONI


denunciare la repressione sessuale imposta dalla borghesia italiana e dalla

sua visione quasi medioevale degli atti osceni che invece lui aveva l’esigenza

di rappresentare in tutta la loro bellezza.

Ma l’uso dell’erotismo che lo caratterizzava sembrava ora privo di ogni

senso davanti alla nuova ideologia del conformismo e della tolleranza che

accusava di svuotare di ogni potere politico la libertà sessuale; anche il corpo

e il suo linguaggio - che fino a poco prima costituivano qualcosa su cui il capitalismo

non aveva ancora attecchito e che potevano quindi essere utilizzati

come arma politica - erano oramai perduti, massimizzati dalla pubblicità.

La critica di Pasolini non mirava comunque solo al consumismo ma anche

alla politica dell’epoca che lo incoraggiava. Le polemiche con gli intellettuali

del tempo furono infuocate e violente. Pasolini era un “luterano”, un ribelle,

sempre in controtendenza rispetto al perbenismo e al conformismo.

Queste riflessioni furono la base su cui sviluppò il suo ultimo lavoro, Salò

o le 120 giornate di Sodoma, un viaggio nell’orrore e nella depravazione che

avrebbe dovuto essere l’inizio di una Trilogia della morte, a cui sarebbe seguito

l’incompiuto Porno-Teo-Kolossal, di cui ci rimane solo la frammentaria sceneggiatura,

e un terzo film mai esplicitamente nominato nei suoi appunti.

Ammazzato sulla spiaggia di Ostia poco dopo la fine delle riprese, il

poeta non riuscì a completare questo nuovo trittico né a partecipare alla prima

proiezione del film che sarebbe avvenuta venti giorni dopo al Festival di Parigi.

Gli riuscì anche da morto di dar fastidio a tutti, e nemmeno la morte

violenta riuscì a mettere a tacere le polemiche sul suo lavoro e su di lui,

“l’uomo scomodo” come lo definiva la sua amica Oriana Fallaci.

La sua ultima pellicola fu immediatamente bocciata dalla commissione

di censura per le immagini “aberranti e ripugnanti di perversione sessuale

che offendono sicuramente il buon costume”. Ottenuto comunque il visto

da parte della censura di stato arrivò nelle sale nel giugno del 1976, scatenando

proteste durissime: venne ritirata dopo appena tre giorni di programmazione

e il produttore Alberto Grimaldi scontò due mesi in cella per osce-

111/VISIONI


NULLA È PIÙ

ANARCHICO DEL

POTERE.

IL POTERE FA

PRATICAMENTE

CIÒ CHE VUOLE.

nità, subendo lunghi processi per corruzione di minori

per poi venire assolto perché “il fatto non sussiste”.

Salò venne pesantemente tagliato e riportato in

sala, ma il cinema romano che lo proiettava fu devastato

dai neofascisti di Giuseppe Valerio Fioravanti, e la

pellicola venne sequestrata in tutto il territorio nazionale

perché offendeva il comune senso del pudore; le

bobine furono addirittura rubate dalle celle frigorifere

della Techicolor, la società che doveva occuparsi del loro sviluppo, e fu richiesto

un riscatto di due miliardi delle vecchie lire.

Si dovette attendere il 1991 perché Salò o le 120 giornate di Sodoma

riacquistasse dignità artistica e, nonostante questa travagliata storia, il film

è tuttora inedito sui canali televisivi.

Ma cosa c’era di così scandaloso in questa pellicola?

Otto ragazzi e nove ragazze, antifascisti e figli di partigiani, vengono

rapiti dalle SS e rinchiusi in una villa di campagna insieme a quattro Signori

che ne hanno ordinato il sequestro, allegoria dei poteri della Repubblica

Italiana: di casta, politico, economico ed ecclesiastico. I Signori, con l’aiuto

di quattro ex prostitute, instaurano una dittatura sessuale di centoventi giorni

regolamentata da un patto scritto di loro pugno che impone cieca obbedienza,

pena la morte.

Non c’è in loro alcuna morale perché, come afferma il regista sul set

del film, “Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che

vuole”. Pasolini alludeva, prendendo di mira il fascismo più come “sistema”

che come fenomeno storico, all’influenza negativa dei media sui giovani: le

torture, gli abusi, i falsi riti di matrimonio tra vittime e carnefici, la coprofagia,

il concorso per il culo più bello, non sono altro che la rappresentazione

allegorica della mercificazione dei corpi attuate dai media e dalla società.

Non vi ricorda niente?

112/VISIONI


Nel film ci sono gli anni ’40 della repubblica sociale, quelli dell’Italia

spezzata in due tra partigiani e fascisti, gli anni ’70 di Pasolini, quelli della

tensione nelle strade e della rivoluzione economica e sociale. E i giorni nostri,

nei quali la manipolazione dell’informazione attraverso i media e le fake

news plasmano il consenso dell’opinione pubblica per distogliere l’attenzione

dalle cause importanti; giorni in cui l’attenzione della gente viene canalizzata

sui capri espiatori di sempre: omosessuali, migranti, disabili, i diversi,

le donne stuprate e uccise ogni giorno da uomini che pensano così di

poter esercitare controllo e potere su di loro.

Salò, nella sua violenza, come l’Arancia meccanica di qualche anno

prima, è un saggio ancora attualissimo sulla genesi del male, sulla sua banalità

e mediocrità: per perpetrare il male non serve essere dei mostri, essere

speciali, perché il male nasce e si nutre di normalità.

A quasi cinquant’anni dalla sua morte, Pasolini rimane una voce profetica

e una coscienza critica di quello che siamo stati e che siamo diventati:

a dispetto di tutti quegli intellettuali che l’hanno crocifisso, la sua analisi

della società si è rivelata esatta ed attualissima, nonostante il nostro

mondo non somigli quasi per nulla a quello in cui il poeta ha vissuto, e tuttavia

le smaccate analogie ci ricordano che la storia è fatta di ricorsi.

Per comprendere fino in fondo quello che è avvenuto, le trasformazioni

che ci hanno reso quello che siamo, non dobbiamo smettere di leggere le

sue parole, ne’ di osservare le sue immagini.

Pasolini è un autore che continua a mettere paura e, come diceva Alberto

Moravia, sarà uno dei pochi poeti che verranno ricordati.

113/VISIONI


#album

LA FANTASIA…

ABBANDONA

GLI IDEALI

PRESOGNATI:

ESSI CADONO

IN POLVERE,

SI SPEZZANO

IN FRAMMENTI

E SE NON ESISTE

UN’ALTRA VITA,

ALLORA CI

TOCCA

COSTRUIRLA

CON QUESTI

FRAMMENTI

FËDOR DOSTOEVSKIJ

Per la mostra Auto-ritratto #3

Frammenti XL, 2023,

mosaico/caleidoscopio composto

da 64 Fuji Instax Square, 50 x 52 cm

114/ALBUM


IL SINGOLO INDIVIDUO

DISPONE SOLO DI FRAMMENTI

Gianfranco Garavelli

Autoritratto ai tempi del covid,

chiusi tra le sbarre di una prigione casalinga

Per la mostra Auto-ritratto #2

Autoritratto 1, 2020, mosaico composto

da 25 Polaroid Spectra b/n, 49 x 43 cm

115/ALBUM


Per la mostra Intimo

Intimo 1-2-3-4-5-6-7, 2022,

mosaici composti da

4 Fuji Instax Square, 13,5 x 15 cm

116/ALBUM


DIPINGERÒ

I TUOI OCCHI SOLO

QUANDO AVRÒ

CONOSCIUTO LA

TUA ANIMA

AMEDEO MODIGLIANI

117/ALBUM


L’Eros maschile visto dalla parte delle

donne, “deSCRITTO” da Una Chi,

Emanuelle Arsan e Florence Dugas

Per la mostra Eros al maschile

Statua greca - mani - natiche, 2021,

cornici contenenti libri, e mosaici composti

da 4 Fuji Instax Square che fungono da

lenti di ingrandimento del testo dove

vengono descritte le parti raffigurate

da altrettanti mosaici composti

da 2 o 4 Fuji Instax Square

118/ALBUM



Serie Frammenti

Immagini che rappresentano anziché

un autoritratto completo solo alcune parti

dell’artista che in questo momento della sua

vita si sente come descritto da Dostoevskij

Per la mostra Auto-ritratto #3

120/ALBUM


Gianfranco Garavelli è da decenni un'eccellenza

nel mondo dell'informatica (è consulente certificato

Apple, e docente ACMT), ma è il suo lato più

analogico e poetico a definirlo.

Nasce infatti come disegnatore, e la passione per

la fotografia e per l'arte tutta modellano il suo

percorso, che approda agli scatti istantanei in contrapposizione

al bulimico mondo digitale in cui ci

troviamo.

Gianfranco esplora il corpo e tutto ciò che il corpo

contiene - malinconie, inquietudini e grandi gioie

- attraverso la sperimentazione fotografica e materica,

con la passione per la grande letteratura e

per l'essere umano a fare da bussola.

L'ultima collettiva alla quale ha partecipato è stata

Auto-ritratto #3, Firenze, Onart Gallery, nel

maggio 2023.

instax240.com

121/ALBUM


Prospettiva Van Orton

Marta Silenzi

Unmade, 2023

Progetto personale NFT

122/ZONE/note


www.vanortondesign.com

Marco e Stefano Schiavon, una coppia

di creativi piemontesi. Fratelli gemelli.

Quindi molto più di un duo. Artisti

digitali, grafici, disegnatori che

recuperano un immaginario visivo anni

‘80 e una cultura pop che spazia da

Marco Lodola a Roy Lichtenstein.

Outline neri. Tanto colore. Tanta

energia. E collaborazioni col mondo

della moda, della musica, dell’arte,

del cinema, del design, dello sport,

dell’industria e dell’automobilismo,

ispirati da fumetti e manifesti

pubblicitari, dalle copertine dei

rotocalchi, dalle icone del cinema e

del panorama musicale.

Questo mettono in mostra Verticale

D’arte, cioè le curatrici Elisa Mori e

Giorgia Berardinelli, con il Professor

Stefano Papetti per l’estate e

l’autunno 2023, mirando nuovamente

all’inconsueto, al giocoso, alzando il

tiro con due sedi – la Palazzina

Azzurra di San Benedetto del Tronto e

il Forte Malatesta di Ascoli – e sei

mesi di aperture costellate di eventi

come presentazioni e cene gourmet.

L’esposizione celebra i dieci anni di

attività di questi due ragazzi, classe

1983, che, in un’intervista sul web

magazine Picame, così rievocano i

propri esordi: “Il progetto Van Orton

nasce ufficialmente nel 2013.

Lavoravamo come grafici in un’agenzia

di comunicazione a Torino e poi un

pomeriggio, quasi per gioco, Marco ha

iniziato a disegnare il poster di

Ritorno al Futuro, un film molto

importante per la nostra infanzia. E da

lì non ci siamo più fermati e abbiamo

iniziato a farne altri, sempre legati

agli anni ’80 e a quel mondo per noi

speciale e familiare. Abbiamo

pubblicato qualcosa su Behance (in

quel periodo i social non venivano

utilizzati come adesso) e pian piano ci

sono arrivate le prime richieste,

soprattutto dall’America, di persone

che volevano acquistare le nostre

locandine. Praticamente all’inizio

avevamo due lavori: di giorno grafici

d’ufficio e la sera ci occupavamo di

spedire i poster! Siamo andati avanti

così per due anni.”

“Di norma andiamo

molto d’accordo e ogni

progetto è strutturato

in questo modo: Marco

parte con la fase iniziale

della bozza e con la

realizzazione del

disegno in bianco e

nero mentre io [Stefano,

ndr] seguo tutta la

parte della colorazione

e della scelta del

pattern, fino alla

conclusione. Poi

durante il processo

di creazione accade

che ci diamo dei

suggerimenti o che

modifichiamo qualcosa

in corso d’opera.”

123/ZONE/note


124/ZONE/note


Flash, 2016

Progetto personale

Spider Man, 2016

Progetto personale

Dante, 2021

Key visual mostra “Uno,

nessuno e centomila volti” -

DantePlus (Ravenna)

Wheel of Fortune, 2015

Artwork per capsule

collection – Sisley

2001 A space odyssey,

2015–2016

Progetto personale

Il nome Van Orton viene dal film The

Game di David Fincher, interpretato da

Sean Penn e Michael Douglas, ovvero i

fratelli Conrad e Nicholas Van Orton,

l’ultimo dei quali, con una vetrata

come portale di risveglio, rinuncia ai

beni terreni in funzione di quelli

affettivi, partecipando ad un gioco che

non è soltanto un gioco, spingendoci a

comprendere l’importanza di coltivare

un nostro lato più umano e creativo,

spingendoci a “leggere le opere dei

Van Orton in modo meno superficiale,

restituendoci il senso di un percorso

interiore.” (Stefano Papetti)

La mostra punta sul concetto di

un'arte che sfonda i confini

dell’unicità per farsi riproducibile e

declinabile, intensamente fruita e

condivisa e gioca sulla diversità delle

due sedi per cogliere la doppia anima

dei Van Orton.

La Palazzina Azzurra, che accoglie i

visitatori con un sensazionale

pannello-visual in rosa (uno dei

quattro colori scelti per il catalogo,

bellissimo, di Rrose Selavy) e una

Ducati Sclamber Icon customizzata,

esemplare unico, gentilmente

concesso dalla celebre casa

motociclistica bolognese, restituisce

un carattere divertito e divertente,

psichedelico, accattivante per chi ha

vissuto gli anni dei vari Ritorno al

futuro, Star Wars, Ghostbuster, Blade

Runner o Batman – di cui sono esposte

locandine rivisitate – , come per i più

piccoli, ormai padroni della nuova vita

dei personaggi Marvel schierati in

fronte ad una light box super iconica

di David Bowie-Aladdin Sane.

Il Forte Malatesta, poi, ancora una

volta (dopo Seitzinger Alchemica

dello scorso anno) si presta ad un

percorso immersivo e coerente col suo

contesto architettonico che esalta la

“fascinazione profonda per le

atmosfere donate dalle vetrate delle

cattedrali gotiche (con le

raffigurazioni e gli apparati decorativi

realizzati dai maestri con la grisaglia,

e colorati con una miscela di polveri di

vetro e ossidi vari macinati e impastati

con acqua, aceto e resine vegetali), e

per l’utilizzo contemporaneo della

prospettiva” – come spiegano le

Verticali nel testo in catalogo –

completando quanto mostrato a San

Benedetto con le scenografie del tour

europeo 2019 This House is not for

sale dei Bon Jovi.

Il discorso sul cinema, sulle scene più

emblematiche e sui registi più

importanti continua anche qui, dal

bacio di Rhett Butler e Rossella

O’Hara alla Uma Thurman di Pulp

Fiction, dal Chunk de I Goonies

all’omaggio dedicato al poetico regista

giapponese Hayao Miyazaki.

Stanley Kubrick, Woody Allen, Clint

Eastwood e Alfred Hitchcock

stazionano poi come santi protettori

mentre i Fab Four attraversano le

strisce di una luminosa pink Abbey

Road.

Entrambi i percorsi sono punteggiati

dalle collaborazioni varie con Swatch,

Estathè, Colmar, Mercedes,

Lamborghini, dalle incursioni nel

mondo della musica e dello sport, e le

ultime sale al Forte Malatesta

testimoniano le produzioni più recenti,

più libere e personali dei fratelli: un

tripudio di dualismi, specchi, doppi e

maschere nelle vetrate del progetto

Reflection (2022) e nella serie

Unmade (2023) da cui è tratto il

visual della mostra.

La prospettiva cui fa riferimento il

titolo è un richiamo al fondamento

tecnico dell’arte che deve sempre

rinnovarsi nel presente, nei colori,

nelle interpretazioni, nei messaggi,

nelle connessioni stilistiche, trovando

una via individuale e peculiare che

sappia rispondere alle richieste del

proprio tempo, come i Van Orton, da

dieci anni a questa parte, dimostrano

di saper fare.

PROSPETTIVA VAN ORTON

14 luglio 2023 – 7 gennaio

2024

Palazzina Azzurra,

San Benedetto del Tronto

Forte Malatesta,

Ascoli Piceno

125/ZONE/note


Aveva ottantanove anni,

e i suoi occhi scuri

avevano assunto quella

sfumatura di grigio

che solo i bambini

e i vecchi possiedono:

il colore del mare

dal quale proveniamo

tutti, e al quale tutti

faremo ritorno.

Hanya Yanagihara, Una vita come tante


PARCE QUE

C'ÉTAIT LUI,

PARCE QUE

C'ÉTAIT MOI

(perché era lui, perché

sono io)

Michele de Montaigne, De l'amitié, Essais


Tutti a raccontar storie. Perlopiù

uomini. Non perchè avessero storie

migliori, ma perchè non dubitavano

che dovessimo starli a sentire.

LA DONNA

DI WILLESDEN

Zadie

Smith

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