You also want an ePaper? Increase the reach of your titles
YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.
STANZE
ascolti
forme
fotogrammi
ombre
pagine
palchi
visioni
zone
03/23
KIDS
Guardano
altrove.
Guardano
oltre.
IN copertinA
Kids of tomorrow
Illustrazione inedita
di Luca Morandi
I bambini sembrano come noi,
magari in scala più ridotta, ma
non sono come noi.
Nemmeno per sogno.
Ci assomigliano, ma hanno
tutto al posto sbagliato.
Proporzioni diverse,
dimensioni alterate, persino
il mondo lo vedono diverso
– viaggiano a una latitudine
diversa dalla nostra, e chissà
quante robe vedono che noi
abbiamo smesso di notare da
un bel pezzo.
Sono più avanti. Ci hanno
sorpassato già quando sono
nati, con tutte quelle cellule
nuove di zecca e quei banchi
di memoria vergini, come
quando comperi un computer
nuovo e hai quell’hard disk
enorme, più grande di quello
che avevi prima, tutto da
scrivere, tutto da riempire.
Non sono come noi.
Vogliono cose diverse.
Guardano altrove. Guardano
oltre. Si interfacciano meglio
con questo e con quello.
Avete mai visto un bambino
nel passeggino che regge uno
smartphone? Che scorre con
le dita minuscole le icone e
fa succedere cose? Le cose
che vuole lui? Ditemi se non
appartiene a una specie
diversa dalla nostra.
I bambini di oggi ci superano
oggi, figuriamoci quelli di
domani.
Come quelli in copertina. Che
hanno e avranno un rapporto
con le macchine che noi non
ci immaginiamo neppure, e
nemmeno faremo in tempo
a vedere – ma loro sì, anzi,
saranno proprio loro ad
averlo immaginato, concepito,
progettato e poi costruito.
E, alla fine, indossato.
Sposeranno la tecnologia per
fini misteriosi, oscuri, nuovi.
Guarderanno un mondo nuovo
con strumenti nuovi. Sì, come
quei due marmocchi che
vedete nella copertina, che ci
attraversano come fossimo
trasparenti. Poco interessanti.
Superati.
Io non sapevo bene come
mostrarveli, così ho chiesto
di farlo alla mia AI, che, nel
tempo che ci metto a girare il
dolcificante nel mio caffè, mi
ha proposto questa visione
di domani – un domani che
è cominciato oggi, anzi,
probabilmente ieri, mentre
dormivo.
L’ho guardata, appena
formatasi sullo schermo
supersplendente 5K del mio
iMac, ho corretto una cosetta
qui, un dettaglio là.
Ma era già praticamente
perfetta.
I bambini e le AI nascono
oggi, ma spadroneggeranno
domani.
Oggi gli dedico questa
copertina, così magari domani
saranno clementi con noi.
Forse.
LM
I bambini sanno arrivare
al centro delle cose
Marta Silenzi, Paola Ranzini Pallavicini
Bambini. Dai nerd stramboidi che sembrano
provenire da un altro decennio a
quelli già attenti al cibo biologico e ai problemi
del pianeta (entrambi sotto l’influenza
diretta dei genitori); da quelli che
conservano un genuino stupore per tutto
– piumaggio sfumato di uccellini grassocci,
teatro di grottesche marionette vestite
di stracci, palloncini senza fine di ogni
colore e dimensione – agli intellettuali
dell’infanzia già esperti di animazione
giapponese, arti marziali e lingua inglese.
Dai prodotti di un’Intelligenza Artificiale
che ci avvicina sempre più ad un
futuro che sembrava lontanissimo nei
film e invece è già arrivato, ai preadolescenti
e adolescenti che hanno un piede
nelle favole e l’altro nella porta aperta di
una trasformazione inarrestabile. E anche
bambini inzuppati di realtà, quelli
che perdono i genitori, restano senza
casa, sono contesi dai parenti e magari
gli tolgono anche il cane.
Sono tutti bambini di oggi, quelli che crescono
nell’epoca che si affida periodicamente
alla terminologia di moda: questa
settimana, mese, anno, è il momento
dell’inclusione a tutti i costi, questa parola
che da bella, importante e potente rischia
di fare la fine di altri concetti di
parità che troppo abusati perdono di significato,
scadono di qualità, s’impongono
dove non serve.
Bambini che non sanno più quanto è cattivo
il lupo, perché una metafora del bene
e del male formativa da secoli oggigiorno
è ritenuta offensiva nei confronti dei lupi
quelli veri, quelli a quattro zampe che
predano galline e che con quelli travestiti
da nonnina, bipedi, che parlano o soffiano
su casette di paglia e di legno non
hanno nulla a che vedere.
Bambini ritenuti incapaci di distinguere
le favole dalla realtà, bisognosi di versioni
edulcorate, che vengono educati all’animalismo
prima che al pericolo (forse
perché neanche noi sappiamo più riconoscerlo).
Bambini che hanno fretta di crescere,
che sono versioni in miniatura
degli adulti, con una scuola che salta passaggi
fondamentali come il gioco e un’agenda
piena più della nostra, ma che leggeranno
libri falsati, senza più contesto
e storicità, perché questa società mira a
correggere, a passare una mano di bianco,
ad attualizzare, tutto in nome di un
politicamente corretto che è come un’iniezione
di botox uniformante, a perdita
d’identità.
Mettere mano oggi a La fabbrica di cioccolato
di Rohal Dahl è a meno di un passo
dal legittimane interventi invasivi su
Collodi, Dickens... Hemingway domani.
I bambini devono imparare a discriminare,
a collocare un racconto sulla linea del
tempo in cui è stato scritto, a volare con
la fantasia ma a saper atterrare nella verità,
e per questo occorrono genitori che
sappiano leggere loro le storie, spiegare
loro le metafore, far capire l’importanza
di un lessico del 1964 che non può essere
cambiato da una casa editrice, ma può
essere confrontato nel dialogo con un
adulto, con un’insegnante.
Si possono fare versioni semplificate, ma
non si possono toccare i testi originali.
Non torniamo a bruciare libri in nome
dell’inclusione, mettiamola piuttosto in
pratica senza dirla, ché i bambini arrivano
alle cose molto più facilmente di noi.
3/EDITORIALE
Marta Silenzi, marchigiana, classe 1977. Laureata in
Storia e Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo
Storico Artistico e diplomata in Antropologia dell’arte ad un
master dell’Accademia di Belle Arti. Autrice di testi critici per
mostre temporanee e cataloghi ragionati di artisti nazionali
ed internazionali (pubblicazioni Il Centofiorini, Skira,
La Colomba, Pagine d’Arte). Divoratrice di libri e film, pazza
per la musica, mamma di due bambini. La scrittura creativa
si accompagna da sempre a quella critica, come momento
di riflessione, occasione di ritrovamento, lascito di una
traccia. Interessata a trovare connessioni e sinergie
tra le forme espressive, fino ad una sintesi di parole,
immagini e suoni che non ha confini.
Nata letteralmente in mezzo a libri e periodici nel 1978
alle porte di Milano Nord, cresciuta disegnando prima e
impaginando poi, Paola Ranzini Pallavicini è un’appassionata
e tenace grafica editoriale, che ha instaurato dagli anni
Novanta solide collaborazioni con le più prestigiose redazioni
di mezza Milano specializzandosi in pubblicazioni di
architettura, urbanistica, design, arte, fotografia, saggistica.
Un curioso decennio è volato tra le altre cose affiancando
gli architetti della EPFL di Losanna nel dare una veste
calzante a ricerche di respiro internazionale. Grazie alla
pandemia e ad alcune interessanti ragazze ha ripreso in
mano prima la matita, poi la penna, per condividere con chi
vorrà tutti i mondi che popolano la sua testa irrequieta.
redazione–stanze
Redazione Stanze
redazionestanze.blogspot.com
in redazione:
Nicola Berardinelli
pillolemusicali8bit.com
Michele Cafaggi e Izumi Fujiwara
bollesapone.com
izumifuji.com
Francesco Chiatante
instagram.com/chiatanteofficial
Marco Gamuzza
marcogamuzza.it
kungfuscuolaxindao.it
Nicola Guida
nicolaguida.wix.com/photography
Enrica Massidda
enricamassidda.com
Luca Morandi
behance.net/lucamorandi
Clara Passoni
My E-Labs
Solidea Ruggiero
castelloerranteresidenza.it
Massimo Zanella
instagram.com/massimozanella7
contributi fotografici e illustrazioni:
Riccardo Antolini
Giorgia Berardinelli
Jessica Lagatta
numeri precedenti:
Stanze 03/22 Natura (sabato 05/03/2022)
Stanze 06/22 Donna (sabato 11/06/2022)
Stanze 09/22 Strade (sabato 10/09/2022)
Stanze 12/22 Corpo (sabato 10/12/2022)
4/redazione stanze
Manfredi mi urla addosso
come faceva mio padre.
Nelle mie poesie non ci sono bambini
perché il bambino che scrive sono io,
sono quello che in seconda elementare
uscì dalla finestra,
quello che all’asilo ci andava una volta al mese.
Nulla è cambiato da allora,
niente e nessuno mi ha calmato.
Lettera ai ribelli che verranno
Salutate l’ardore
il braccio che vola,
il vento, la passione.
Disobbedite
alla vita e alla morte,
a voi stessi e agli altri,
Sia febbrile la vostra giornata,
non sia mai opportunista,
sia chiara nell’impeto,
bella e nervosa come una mattina d’aprile.
Io aspetto il vostro aprile,
siate pieni di ebbrezza e di furore,
date gloria al mondo che c’è fuori.
Non vi servono nascondigli
ma comunità dove trovarvi.
Portate il mondo
sul palmo della mano,
andate sull’orlo,
dietro le montagne,
su una spiaggia rovinata,
Nessuno può fermare
il vostro incendio,
perché lo fermate voi,
perché siete in silenzio?
Franco Arminio
da Resteranno i canti, 2018
so
mm
ar
io
03/23
KIDS
2
3
4
10
12
16
26
30
36
46
48
60
68
76
88
92
102
106
112
122
In copertina / Kids of tomorrow
Luca Morandi
Editoriale
Redazione Stanze
note / Il Cane, il gatto, io e te
Nicola Berardinelli
note / The Sooner The Better
Clara Passoni
Solo bambine che rincorrono un bianconiglio
Marta Silenzi
note / Il poeta coronato, lo spettro elettrico e tutti
gli altri. Il bambino dietro l’opera di Paul Klee
Marta Silenzi
#Album
Illustrato da Jessica Lagatta
Il bambino che voleva abitare in un film
di Spielberg
Paola Ranzini Pallavicini
note / Gli strambi di Hawkins
Paola Ranzini Pallavicini
Lewis Carroll. Al di là dello specchio
Nicola Guida
Bolle controvento.
Teatro ed edizioni illustrate per bambini
Michele Cafaggi e Izumi Fujiwara
L’abusivo
Solidea Ruggiero
note / collage #1 #2 #3
note / Verso Klee un occhio vede, l’altro sente
Marta Silenzi
Spaceship Sagittarius.
L’incredibile storia di Andrea Romoli
Francesco Chiatante
note / Artificial Kids
Luca Morandi
note / Ancora... E poi basta!
Filastrocche e cantilene dei nostri nonni
a cura di Enrica Massidda
Dialogo lungo la via del cuore e della mente
Paola Ranzini Pallavicini incontra Marco Gamuzza,
Maestro di Kung Fu
note / Il ritorno del fanciullino
Massimo Zanella
ascolti
forme
fotogrammi
ombre
pagine
palchi
visioni
zone
Non capisco
come un
mondo che crea
cose tanto
meravigliose
possa essere
cattivo.
La Sirenetta
I grandi non
capiscono mai
niente da soli
e i bambini
si stancano a
spiegargli tutto
ogni volta.
Il piccolo principe
Il Cane, il gatto, io e te
Nicola Berardinelli
Come il tempo scorre e indurisce gli
spigoli del nostro essere, sarebbe
necessario praticare un esercizio
periodico, tanto semplice quanto
necessario e divertente, che vada a
smussare le asperità dell’anima:
ascoltare canzoni che hanno segnato la
nostra infanzia.
Una zolletta di zucchero che addolcisca
le quotidiane brutture alle quali siamo
sottoposti e che ci riporti alla
spensieratezza e la fantasia senza bordi
fanciullesca.
Trovo per questo motivo la voce di
Sergio Endrigo conciliante, tenera e
confortevole, ed il felice incontro con
Vinicius de Moraes calzante con il tema
di questo numero. L’Arca, per me, è
stato un poʼ il corrispettivo in musica di
quanto Gianni Rodari ha espresso nel
10/ascolti/note
proprio corpus letterario, una purezza
vivida che si dipana in continui
calembour, scherzi, rime baciate,
spalmati su delle melodie dolci che
conferiscono al tutto una serena
spensieratezza.
Il progetto ha origine da una
collaborazione avvenuta tra Vinicius de
Moraes, Giuseppe Ungaretti e Sergio
Endrigo per La Vita Amico è L’Arte
dell’Incontro, nel quale è contenuto il
canone di Pachelbel delle canzoni per
bambini, La Casa, versione italiana del
già edito in Brasile A Casa. Endrigo e
Vinicius decidono pertanto di dare
seguito al sodalizio artistico con un
disco dedicato esclusivamente ai
bambini.
Vinicius scrive alcune filastrocche
dedicate ai propri nipoti, queste
vengono musicate con l’aiuto del fido
parceiro Toquinho, arrangiate da Luis
Bacalov ed adattate in italiano dall’altro
grande Sergio della scena musicale
italiana, Bardotti. Proprio quest’ultimo
scrive in concerto con Vinicius le
filastrocche mancanti per un disco che
può vantare illustri interpreti come
Vittorio de Scalzi dei New Trolls, i
Ricchi e Poveri e Tullio de Piscopo.
Prende così forma L’Arca, un insieme di
quadretti bucolici che coccolano chi
ascolta per tutta la durata, proiettando
la mente ai tempi che sono stati.
Come sosteneva Endrigo, L’Arca è una
casa fatta di parole, di tutto e di niente;
la casa dove potrebbe stare un matto o
un poeta.
Mi permetto di aggiungere, che
nell’Arca c’è posto anche per noi, per
ripristinare quel candore primigenio
venuto meno col disincanto.
11/ascolti/note
Clara Passoni
The Sooner
The Better
12/ASCOLTI/note
Ricordiamo:
tutti i bambini
sono in grado
di apprendere
qualsiasi lingua.
Ci si chiede spesso quando sia il
momento giusto per imparare una
seconda lingua. La risposta è
certamente PRIMA è MEGLIO è.
Ho iniziato la mia esperienza con
l’insegnamento dell’inglese dieci anni
fa. Questa lingua mi ha sempre
affascinata fin da bambina.
Ho studiato lingue alle scuole superiori
e successivamente mi sono iscritta
alla facoltà di lingue e letterature
straniere, ma l’inglese non l’ho
imparato lì.
La passione e il fatto di lavorare per una
società inglese in cui si era esposti alla
lingua a 360° ha fatto in modo che io
acquisissi le basi della lingua e via via
il lessico. L’idea dell’insegnamento era
lì, chiusa in un cassetto, che aspettava
di essere aperto.
Nel 2013 la svolta. Ho capito che era il
momento di buttarsi a capofitto in
questa nuova esperienza.
Iniziai a frequentare corsi per la
didattica dell’inglese e certificazioni che
attestassero le mie competenze e misi
insieme il primo gruppetto di bimbi
nella vecchia casa di mia nonna. Presto
il passaparola fece in modo che sempre
più genitori iscrivessero i loro bimbi:
decisi dunque di aprire il MY E-LABS
nel 2015.
LABORATORI PER BIMBI DA 1 A 99 ANNI
Che bello scoprire la magia nei bambini.
Parlare con loro in inglese e scoprire
insieme i progressi e i traguardi da
raggiungere.
Perché iniziare da piccoli?
L’insegnamento di una seconda lingua
deve avvenire in modo naturale proprio
come ci si è approcciati alla lingua
madre, ovvero, qualcuno ci ha sempre
parlato in italiano e noi abbiamo
imparato ascoltando, solo in un
secondo momento siamo arrivati a
scrivere e ad immergerci nella
grammatica.
Se impariamo ascoltando ci verrà
naturale cogliere intrinsecamente gli
aspetti legati a spelling e grammatica.
Ricordiamo: tutti i bambini sono in
grado di apprendere qualsiasi lingua.
Un bambino impara le lingue per
imitazione (anche un adulto, seppur
con più fatica). Il bambino riesce ad
assimilare e poi riprodurre qualsiasi
cosa sente con estrema facilità.
Partendo da un ridotto numero di frasi
e parole è in grado di riprodurre suoni
e combinazioni, assimilando
la grammatica in modo naturale
(ad esempio il bambino in inglese saprà
perfettamente mettere l’aggettivo
prima del nome senza conoscerne
la regola).
L’apprendimento multisensoriale
è a mio avviso il più funzionale
ed è utilizzato per l’insegnamento
della lettura, spelling e scrittura
a studenti con disturbi specifici
dell’apprendimento. Esso utilizza
simultaneamente l’utilizzo di abilità
visive, uditive e tattili-cinestetiche.
Abitudini, routine e progetti sono
la base di un costante apprendimento
negli anni. Si tratta di un percorso
molto lungo che, se iniziato in anticipo,
può portare a dei grandi risultati.
I bambini utilizzano oggetti e vocaboli
della vita quotidiana e toccando con
mano fanno esperienza e apprendono
una seconda lingua senza fatica.
Negli ultimi anni mi sono specializzata
anche nell’insegnamento dell’inglese
ai bambini DSA e ho dedicato la mia
tesi triennale e magistrale al
bilinguismo e all’insegnamento di una
seconda lingua a bambini DSA.
La metodologia da me adottata si sposa
perfettamente con le esigenze di un
alunno con disturbi specifici
dell’apprendimento proprio per la
naturalezza nell’apprendere giocando
e facendo esperienza.
13/ASCOLTI/note
14/PAGINE
15/PAGINE
Qui e in apertura alcuni esempi di
esercizi svolti durante le lezioni di Clara
Solo bambine
che rincorrono
16/FORME
un bianconiglio
Marta Silenzi
“I was just a kid
I needed answers
I found a screen
promised adventure”
Nothing But Thieves
Quando il livello di un linguaggio espressivo è alto – e questo
significa intensamente sentito, supportato da ricerche opportune,
realizzato con buoni mezzi e, più di tutto, ispirato
da un gusto innato – le barriere tra una sfera e l’altra tendono
a cadere: non si tratta più di una sola forma d’arte, ma
di un dialogo fluido che sfugge alla categorizzazione. Questo
avviene spesso ad esempio con la fotografia, che può
essere tante cose oltre che un semplice scatto.
Illustrazione di A. D’Agostini da
Alice nel Paese delle Meraviglie
Bambine. Che corrono e cadono dalle scale, che si tirano i capelli, che si stringono in
un cerchio con le teste vicine, che lasciano penzolare i piedi, che tirano lenzuoli.
Fini capelli biondi, calze, abiti leggeri.
Ragazzine. Sulla soglia misteriosa tra l’infanzia e l’adolescenza. Un limine tra i più importanti
nella crescita di un individuo. Quando il gioco diventa scoperta di sé e dell’altro, i
sentimenti si mescolano, si tingono di rosso, si complicano di ormoni ed umori.
Di cosa stiamo parlando?
Di un fotogramma delle sorelle Lisbon abbracciate nel giardino di un quartiere del
Michigan degli anni settanta? Delle ragazze del collegio di Appleyard, in Australia, indolenti
17/FORME
Fotogramma da Il giardino delle vergini
suicide di Sofia Coppola
una addosso all’altra nella mussola degli abiti bianchi sullo sfondo di Hanging Rock? Di Alice
in caduta libera nel tronco dell’albero che la introdurrà al Paese delle meraviglie?
O stiamo parlando delle serie fotografiche di Anna Gaskell che di questo andamento
pseudo-narrativo e cinematografico e di queste tematiche si ciba voracemente?
Tecnicamente non hanno nulla in comune questa fotografa dell’Iowa, Sofia Coppola
che ha tratto un film (il suo primo) da Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides, o Peter Weir che
ha trasposto il romanzo Pic Nic a Hanging Rock di Joan Lindsay. Eppure qualcosa riporta irresistibilmente
alla mente l’una o l’altra immagine e, al di là di oggettive questioni estetiche,
sappiamo che si tratta del tema della crescita, di bambine che si affacciano alla pubertà, che
corrono sulla soglia dell’età adulta a perdifiato dietro i saltelli di un coniglio bianco senza
comprendere cosa sia tutta quella fretta quando fino ad un attimo prima avevano tutto il
file:///Users/paola/Desktop/stanze 05/OMBRE MARTA ANNA GASKELL/il-giardino-delle-vergini-suicide.webp 1/1
tempo del mondo per i loro giochi all’aperto, le une sulle altre, in un mescolarsi di stoffe, corpi
e fragranze, tra risate e dispetti, smorfie e sorrisi.
Viene pure in mente una Lolita moderna che fa un pallone con una Big Bubble che le
si appiccica all’apparecchio, ma quella storia si spinge forse un po' troppo velocemente, un
po' troppo in là.
Non c’è dubbio che il prodigio degli scatti di Anna Gaskell (Des Moines, 1969) sia dovuto
alla connotazione narrativa e alla caratura cinematografica ben più che alla tecnica fotografica.
Si tratta di serie, in cui c’è appunto una sequenzialità, ma c’è anche fortemente una
volontà di straniamento perché la narrazione subisce degli arresti, dei salti e le foto restituiscono
l’atmosfera dei fotogrammi di un film isolati o decontestualizzati, finendo per evocare
sensazioni oniriche. Tanto più che vestiari e scenari alludono ad uno spazio-tempo altro,
18/FORME
Bambine che corrono
sulla soglia dell’età adulta
a perdifiato dietro i saltelli
di un coniglio bianco
senza comprendere cosa
sia tutta quella fretta
Anna Gaskell Untitled,
Override series, 1997
lontano o fiabesco. Questo perché Gaskell mescola finzione e realtà, con allusioni ad un suo
particolare vissuto personale, richiamando spaesamento e punte di mistero.
Wonder e Override, le due serie di debutto della fotografa, risalenti al 1996-97, hanno
precisi riferimenti a Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll (anche lui
fotografo oltre che scrittore). L’abitino azzurro con grembiule, le calze bianche e le scarpette
nere riempiono formati grandi e piccoli (da 6 x 7 1/4 pollici a 60 x 90 pollici) con allusione ai
fenomeni di crescita e restringimento del personaggio, traslato del cambiamento, delle difficoltà
di rapportarsi al percorso evolutivo e alle profonde trasformazioni psico-fisiche che
comporta. E poi il doppio, il gioco divertente e spericolato, la traccia d’inconsapevolezza e
istinto tipiche dei più piccoli che si fanno curiosità ed esplorazione, l’isolamento e lo stare in
gruppo.
Anna Gaskell non ha bisogno di rimettere in scena l’intero racconto: non le servono
l’ansia del Bianconiglio, il Brucaliffo cosciente dell’imminente trasformazione in farfalla, il Cappellaio
matto che sovverte le regole del tè, come la pubertà sconvolge la situazione nota
dell’infanzia; il saggio enigmatico Stregatto che invita Alice ad avere consapevolezza di sé o
la Regina di cuori sempre arrabbiata che cerca di risolvere drasticamente ogni situazione con
un taglio di testa. Tutte queste metafore dell’età adulta sono in nuce nei giochi di bambina che
Gaskell coglie, affidando alle proprie versioni di Alice il compito di una narrazione discontinua
e disorientante, ora con un filtro colorato intensificato dalla laminazione, ora dentro una luce
dorata e crepuscolare, aggiungendo una sfumatura se non sinistra, misteriosa, sottile, percepibile
ma sfuggente, come accade spesso nelle storie di bambini (non è innocente un bimbo
che svolta l’angolo di un corridoio su un triciclo? La musica di un carillon? Un pagliaccio del
circo? Eppure sono tutte immagini che ci inquietano, come sa bene Stephen King).
19/FORME
Illustrazione di A. D’Agostini da
Alice nel Paese delle Meraviglie
20/FORME
Tutte le
metafore
dell’età adulta
sono in nuce
nei giochi di
bambina
che Gaskell
coglie,
affidando
alle proprie
versioni
di Alice
il compito
di una
narrazione
discontinua e
disorientante
Fotogramma da Pic Nic
a Hanging Rock di Peter Weir
Anna Gaskell. Untitled #1,
Wonder Series, 1996
Non è alla fotografia di Edward Lachman del film Il giardino delle vergini suicide di
Sofia Coppola che s’intende paragonare il lavoro della Gaskell. Né le sue bambine somigliano
alle ragazze Lisbon, ma anche Therese, Mary, Bonnie, Lux e Cecilia si avvicinano all’adolescenza
e preadolescenza, anche loro trattenute (da una famiglia amorevole ma bigotta) in un
mondo irreale e straniante che ha dell’onirico, specie dopo il suicidio collettivo, quando resta
nell’aria soltanto la loro bellezza, il loro profumo di passaggio, la purezza interrotta e subito
spezzata dal prepotente farsi avanti dell’età adulta senza la libertà di saggiarla lentamente,
senza i mezzi per comprenderla a poco a poco.
E certamente c’è un gusto narrativo ed inevitabilmente cinematografico nei fotogrammi
estratti delle sorelle, i movimenti e gli sguardi sulla strada davanti casa, l’aria misteriosa e
inquietante dietro la bellezza in sboccio. Ma mentre il film tende ad alleggerire la pesantezza
del tema con punte di eccesso grottesco, le serie di Gaskell lasciano trasparire un senso di
malessere a volte interpretato anche come disagio psichico, affidandolo alla falsa narrazione,
alla suggestione evocata da immagini che lasciano più immaginare (antefatti e conseguenze)
che vedere, forse anche con reminiscenze di un’altra America, di un’altra infanzia, magari
quella vissuta dalla fotografa, esposta ad un cristianesimo fervente e teatrale (vedi Untitled
#2 in cui un’Alice si appoggia all’altra, tappandole il naso in un’apparente gioco di respirazione
bocca a bocca, ma può darsi anche con allusione ad un battesimo nell’acqua).
Ancora diversa, ma ancora vicina, è l’atmosfera di Pic Nic a Hanging Rock di Peter Weir
(con la fotografia di Russel Boyd a cui il regista aveva chiesto di mostrare le collegiali con un
occhio preraffaellita) la cui aura di mistero è quasi tutta a carico dell’ipnotico tema principale
di Gheorghe Zamfir, una melodia serpeggiante al flauto di Pan che evoca il senso del remoto,
di una natura primordiale e istintiva come lo sono Miranda, Marion, Edith e Irma, libere per una
volta di girovagare e di scoprire se stesse (dopo la consueta repressione del collegio), libere
di perdersi nel mistero della natura fisica ed umana, sul picco di Hanging Rock come sul limitare
della vita che si sta trasformando, piena di inquietudine e complicanze.
21/FORME
Fotogramma da Pic Nic
a Hanging Rock di Peter Weir
file:///Users/paola/Desktop/stanze 05/OMBRE MARTA ANNA GASKELL/picnic a H.R..webp 1/1
La questione del commento sonoro non è secondaria, è anzi quella componente che
lega tutti i discorsi espressivi, che li cuce e li fa dialogare, fondamentale in un film ma importante
anche in un’esposizione, quando si vuole andare oltre il mero elemento visivo e s’intende
calare il fruitore in un’atmosfera, particolarmente efficace se si tratta di fotografia, ecco
perché ultimamente si tende tanto alle mostre immersive e alle installazioni.
Anche le successive serie di Anna Gaskell s’ispirano a fiabe e racconti, come Hide
(1998) che rispolvera l’Asino magico dei Fratelli Grimm, con allusioni al gioco del “nascondino”
e al nascondiglio sotto le pelli di animali come confine tra interno/esterno, il sé e l’altro; o Le
avventure del Barone di Munchausen (una commedia britannica del 1988 basata sulla storia
del barone tedesco del XVIII secolo Karl Friedrich Hieronymus von Münchausen) in Sally Salt
e By proxy (1999), in cui tornano comunque in qualche modo in ballo i bambini e il disagio
22/FORME
La fotografa crea
immagini inquietanti
di ragazze
preadolescenti
che fanno riferimento
a giochi, letteratura
e psicologia infantile
le:///Users/paola/Desktop/stanze 05/OMBRE MARTA ANNA GASKELL/Anna Gaskell_Override _27_1099_8 x 10 in. at 300 dpi _JPEG_.webp 1/
Anna Gaskell, Untitled #27,
Override series, 1997
mentale che indaga la sindrome di Munchausen per procura. La fotografa crea immagini inquietanti
di ragazze preadolescenti che fanno riferimento a giochi, letteratura e psicologia
infantile e resta interessata a isolare momenti drammatici da trame più ampie come aveva
già fatto per Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, ancora con lo stile evocativo di
una narrazione immaginaria.
Persino il ciclo fotografico Half life (2002) – nato da un’idea per un’installazione cinematografica
ed evolutosi in una mostra che combina immagini fisse e un film in movimento
– tratto da storie come Rebecca di Daphne du Maurier, The old nurse’s story di Elizabeth Gaskell
(nessuna parentela) e The turn of the screw di Henry James, continua ad esplorare la psiche
umana, comprese le esperienze di paura, isolamento e incertezza, in cui la protagonista, come
nei suoi lavori precedenti ma qui non in gruppo, è una giovane donna che si trova tra la purezza
della giovinezza e la graduale perdita dell’innocenza che arriva con la maturità.
23/FORME
Il doppio, il contrasto,
il femminile, il gioco,
il fiabesco, il limine,
il mistero e l’inquietudine
sono tutti elementi
intensamente osservati
da Anna Gaskell
24/FORME
Anna Gaskell, Untitled #2,
Override series, 1997
Le angolazioni della macchina fotografica di Gaskell, che combinano una coreografia
serrata e un uso drammatico dell’illuminazione angolata, creano immagini inquietanti
e memorabili cariche di significato. I suoi scenari sono tableaux riccamente
colorati con scorci esagerati e ombre minacciose.
In contrasto con le fotografie
il film di accompagnamento di 21 minuti utilizza un’unica angolazione di ripresa
statica per tutto il tempo, presentando una ragazza che galleggia sott’acqua in uno
stato di “non-esistenza”, né completamente vigile né morta. La ragazza trattiene il
respiro, i suoi occhi si aprono e si chiudono periodicamente per suggerire una gestazione
amniotica o, più pericolosamente, annegamento. Il film è in loop, enfatizzando
la sua liquidità – un continuum di assenza di gravità tra il reale e il fantastico.
(dalla presentazione della mostra al White Cube Hoxton Square del 2003)
Il doppio, il contrasto, il femminile, il gioco, il fiabesco, il limine, il mistero e l’inquietudine
sono tutti elementi intensamente osservati da Anna Gaskell, persino in una mostra
(a due con Douglas Gordon) come Vampyr del 2014. Anche qui dialogano immagini statiche
e in movimento, rivelando Svetlana Lunkina, prima ballerina del Bolshoi, grazia, estasi e
bellezza e il suo doppio grottesco, una ragazza-clown, la copia goffa, il dualismo umano.
In fin dei conti la fotografa non abbandona mai questa indagine delle varie fasi dell’età
evolutiva, dall’infanzia alla giovinezza, di un mondo pressoché esclusivamente femminile,
distorcendo un punto di partenza letterario per esplorare il potenziale immaginativo del surreale,
caricandolo sempre più di quel mistero che, tempi addietro, evocavano anche le giovani
Lisbon come le ragazze di Hanging Rock: storie improbabili, simboliche di preadolescenti
o adolescenti che si avviano all’età adulta ma che in fondo sono ancora bambine.
25/FORME
Il poeta coronato,
lo spettro elettrico
e tutti gli altri.
Il bambino dietro
l’opera di Paul Klee
Marta Silenzi
26/FORME/note
Le strade che prendiamo e che sono
determinanti per la definizione del
nostro io, del nostro credo, della nostra
vita spesso dipendono da momenti di
illuminazione che vengono a noi e che
non possiamo lasciare inosservati.
Così accade per questo importante e
conosciuto artista svizzero che
corrisponde al nome di Paul Klee,
quando sua sorella Mathilde gli
consegna i suoi disegni di bambino
conservati nella soffitta della casa di
famiglia a Berna, disegni dai 3 ai 10
anni che Klee definisce come i più
significativi del suo intero lavoro perché
dotati insieme di uno stile indipendente
e di uno sguardo ingenuo, cioè
esattamente quella forma espressiva
incorrotta ed autentica che va
cercando.
Con questo Klee non intende l’infanzia
“Nessun artista, eccetto
forse Dubuffet, ha
dimostrato una
fascinazione così intensa
e persistente per l’arte
dei bambini, al punto
di incorporarla
nelle proprie opere,
come Paul Klee.”
Michael Baumgartner
come una condizione di totale
innocenza o di purezza, né intende
considerare il bambino un artista, ma
intende istruttiva la visione priva di
diaframmi che il bambino ha. Perciò
cerca di rievocare un approccio
infantile all’arte, di risvegliarlo nel
proprio lavoro attraverso i “disegni alla
cieca”, annota i propri ricordi di
bambino nei suoi diari, avvia riflessioni
che acquistano ancora più significato
dopo la nascita del figlio Felix, avuto da
Lily Stumpf nel 1907. La sua
interpretazione della creatività
infantile viene messa ancora più a fuoco
dopo la conoscenza di Kandinskij e
Münter e la collaborazione con
l’almanacco Der Blaue Reiter,
attraverso il saggio Sulla questione
della forma (1911), in cui l’artista
specifica che la lezione da imparare va
ravvisata proprio nella mancanza di
perizia tecnica e di istruzione formale
dei bambini.
Anche il contesto storico-culturale cui
Klee appartiene va in quella direzione
da tempo, soprattutto nell’ambito che
associa l’arte alla psicologia: da L’arte
dei bambini di Corrado Ricci, un testo
addirittura del 1887, a
L’interpretazione dei sogni di Sigmund
Freud, a I disegni dei bambini fino al 14°
anno di età di Sigfried Levinstein, fino a
Lo sviluppo del talento nel disegno di
Georg Kerschensteiner, tutti testi
riccamente illustrati che sicuramente
Klee conosce e che lo aiutano ad
individuare un metodo per liberare il
proprio lavoro creativo dai
condizionamenti culturali, coniugando
la semplicità del segno infantile con la
finezza dell’artista maturo.
Quindi non un mero recupero di una
sorta di “originalità naturale”,
bensì una sintesi studiata di creatività
spontanea e maestria artistica.
Cioè “l’occhio del bambino in età adulta”
gli permette di strutturare forme
elementari come stilizzazione di alberi,
semplificazioni di chiese e campanili
dai tetti aguzzi, montagne triangolari,
cupole a semicerchio e via dicendo,
questo senza mai perdere il proprio
stato di conoscenza e formazione
artistica. La differenza è fondamentale
perché – e lo spiega lo stesso
Klee all’artista e pedagogista H.F. Geist
27/FORME/note
Una sintesi
studiata
di creatività
spontanea
e maestria
artistica
che lo tira fortemente in ballo
per propagandare le sue ideologie
e promuovere mostre di disegni
di bambini –
“Il bambino non
sa nulla dell’arte”,
semplicemente esprime se stesso senza
filtri, ma l’artista può partire dal
disegno infantile per rinnovare il suo
sguardo coniugandolo alle sue
conoscenze, puntando non alla
semplicità del tratto infantile ma ad una
semplificazione tecnica di base che ad
esso si ispira.
Ecco da dove vengono i numerosi angeli,
i gatti, i paesaggi dai colori tenui, i
notturni, i titoli giocosi, la colorazione
sommaria, le puntinature e i tasselli, la
poesia degli acquarelli.
E poi c’è la musica. E poi c’è il teatro.
Sfere d’influenza ed ispirazione infinite
per Klee.
Paul Klee ama ogni genere teatrale, dal
teatro lirico a quello di prosa fino al
teatro popolare minore: burattini,
marionette e circo. Le arti
performative, il gioco delle parti, il
mondo dei personaggi e delle maschere
lo affascinano, ne condizionano il
comportamento: la sua osservazione del
mondo circostante va a caccia di “tipi” e
“scene”. Le sue raffigurazioni accolgono
personaggi inventati o tratti da opere
conosciute; marionette, buffoni,
pagliacci, figurini, interi cori; nei titoli
rientrano termini musico-teatrali come
assolo o terzetto per indicare una o tre
figure; spesso la scena ha piani o sfondi
o quinte e sipari.
Eppure Klee non realizza mai una vera
e propria produzione per il teatro, non
annovera collaborazioni teatrali come
ad esempio Picasso.
Però in lui è forte il gusto della
commedia, del burlesco, del grottesco e
questo va a braccetto col recupero di
uno sguardo infantile e con la passione
per le maschere.
Particolare è certo la produzione di
burattini, creati tra 1916 e 1925.
Questi strambi, anche inquietanti figuri
nascono per assecondare un desiderio
del figlio Felix, e questo è il motivo per
cui Klee non li include nel suo corpus
produttivo e non li espone alle mostre.
Sono burattini della tradizione popolare
come Kasperl, la Morte o il Diavolo,
insieme ad altri inventati da Klee: da il
Sultano, tratto da Le mille e una notte,
al Barbiere di Baghdad, dall’opera
omonima di Petere Cornelius; dal
28/FORME/note
Vecchio, probabilmente un collega
artista, al Poeta coronato che
corrisponde a R. M. Rilke. E poi il
Fantasma spaventapasseri, lo Spettro
elettrico, finanche ad un autoritratto
dell’artista.
I burattini sono una trentina e sono
una realizzazione artigianale e
domestica con materiale di recupero:
bottoni, ossa bovine cotte, cerini,
bigiotteria smessa, componenti di
prese elettriche, stoffe rubate dal cesto
dei rammendi.
Storti, sgangherati, dalle teste deformi,
i burattini passano dalle maschere
etniche, a quelle sorridenti a bocca
larga della commedia ad alcune quasi
robotiche o aliene. Restituiscono una
sensazione ruvida ed un odore di gesso
e colore ad olio, ci guardano a braccia
larghe, con le mani nascoste e
un’allegra stravagante follia.
Klee ne è creatore e spettatore: il gioco
è tutto lasciato al figlio che s’ispira al
teatro popolare, di sua conoscenza
grazie alla frequentazione di fiere
annuali, mescolandolo a vicende vissute
in prima persona, inventando così una
propria serie di storie ed un proprio
repertorio.
La struttura scenica è inizialmente
improvvisata con cornici dismesse, poi
Felix costruisce da sé un teatrino con
cui, tra i 15 e i 18 anni, si esibisce alle
feste del Bauhaus dove il padre insegna.
Il motivo per cui Klee non concepisce
queste bizzarre meraviglie come opere
d’arte è che hanno un uso immediato e
pratico, non sono oggetto di
elaborazioni riflessive come il resto
della sua produzione, eppure sono
espressione di un gusto e di una
conoscenza personali e sigillano uno
stile che non si disgiunge dal percorso
figurativo, segnico e interpretativo
dell’artista.
A Berna si trova lo Zentrum Paul Klee,
un bellissimo centro per la promozione,
la ricerca e la conoscenza dell’artista
progettato da Renzo Piano e realizzato
nel 2005. Un unico museo che raccoglie
una delle più grandi collezioni al mondo
di un solo artista, frutto di donazioni
degli eredi dopo la morte di Felix e di
acquisizioni successive. La sede conta
oltre 4000 opere e documenti che
vengono ciclicamente esposti con
mostre tematiche. Tra questi trova il
proprio palcoscenico anche il gruppo di
simpatici, sgangherati burattini frutto
di un amore condiviso tra un padre ed
un figlio.
29/FORME/note
#album
illustrato
da Jessica Lagatta
Codone, marangone,
mestolone, fischione,
moriglione;
ghiandaia, beccaccino,
balestruccio, topino,
migliarino;
merlo, fringuello, luí,
beccapesci, cutrettola, colibrí:
gli uccelli si chiamano cosí.
Gianni Rodari
Come si chiamano gli uccelli,
Filastrocche in cielo e in terra, 1972
30/FORME/album
Nel disegnare il colibrì beccolargo
Lagatta si è ispirata ad una foto
di James Lee tratta dal sito Unsplash
31/FORME/album
La ghiandaia azzurra americana:
tratta da una foto di Jeremy Hynes,
dal sito Unsplash
32/FORME/album
Il fantastico cardinale rosso:
disegno tratto da una foto
di Patrice Bouchard, dal sito Unsplash
33/FORME/album
Ho rimpianto
con gli amici di Omi
la fugace primavera.
Per scrivere un haiku
basta un ragazzino alto
quanto un germoglio di bambù
Matsuo Bash – o
34/FORME/album
Jessica Lagatta si è laureata alla
Facoltà di Architettura di Pescara,
dove ha conseguito un Dottorato
sul “Design for Inclusion”.
Per alcuni anni è stata allo stesso
tempo ricercatrice e illustratrice.
Attualmente vive e lavora a Bologna.
Ha lasciato la ricerca accademica
e si sta dedicando completamente
al mondo dell’illustrazione.
Ha collaborato con diverse case editrici
(GIUNTIscuola, La Nave di Teseo,
Baldini+Castoldi, Loescher Editore,
HarperCollins Italia, ecc.) su varie
tipologie di libri.
www.facebook.com/Jessica.Lagatta.
Illustrazioni
Per il martin pescatore
Lagatta ha lavorato basandosi
su di una foto di Boris Smokrovic,
tratta dal sito Unsplash
35/FORME/album
IL BAMBINO
CHE
VOLEVA
ABITARE
IN UN
FILM DI
SPIELBERG
Paola Ranzini Pallavicini
36/FOTOGRAMMI
Non è facile trovare un regista che ci abbia saputo accompagnare
più amorevolmente di Spielberg mentre
crescevamo, e non esiste scelta migliore per costruire
ricordi indelebili che recarsi in una sala cinematografica
con il proprio figlio a vedere il suo ultimo film, soprattutto
se ha più o meno la stessa età dell’attore che
in The Fabelmans interpreta il regista alle prese con la
primissima emozione in una grande sala buia.
Il cuore ci scoppiò in petto mentre E.T. ripartiva con la sua astronave in un tripudio di
luci intermittenti; lo stesso cuore che in seguito venne strapazzato per bene da Indiana
Jones. Una volta cresciuti Oskar Schindler diede il colpo di grazia e ora, nel ripercorrere la
vita di questo ragazzo pieno di sogni coraggiosi, abbiamo messo insieme i tasselli e tutto
quadra perfettamente, la nostra emozione e la sua caparbietà all’unisono.
I bambini di Spielberg sono coraggiosi. Nella vita di tutti i giorni sanno prendere
direzioni audaci, senza tirarsi indietro, conservando la loro tenerezza ben salda negli occhi.
Hanno forza e grinta e si buttano nel fare la cosa giusta. Ne escono ogni volta trasformati,
e tutta la fatica e la paura e la corsa per farcela lascia in loro segni forti e insegnamenti
saldi, ma quella tenerezza negli occhi Spielberg la tiene intatta, come dono per lo spettatore
e credo prima di tutto per se stesso.
Il bambino fortunato e amato che il regista è stato tanti anni fa lascia una traccia in
ciascun personaggio, e cerca di far capire al regista che non crescere mai del tutto è qualcosa
di necessario. Invita tutti noi a fare altrettanto.
Steven Spielberg ha dichiarato recentemente: “Tutti mi vedono come una storia di
successo, e tutti vedono tutti noi nel modo in cui ci percepiscono in base a come ottengono
le informazioni, ma nessuno sa veramente chi siamo finché non abbiamo il coraggio di dire
a tutti chi siamo”.
E per raccontare al mondo la nostra identità dobbiamo risalire per forza alla fonte,
all’infanzia.
Spielberg analizza la prima parte della sua vita per mostrarci cosa lo ha mosso
verso quell’urgenza e quanto del suo genio sia stato assorbito non solo dalle qualità dei
genitori, ma soprattutto dalle loro mancanze, dalle debolezze. Questo collage di emozioni
passate sotto al microscopio è un grandissimo atto d’amore, sincero e liberatorio.
Il regista era un nerd, senza dubbio, preso spesso in giro a scuola non solo per
questo ma anche per le sue origini ebraiche (“l’antisemitismo ha segnato la mia infanzia,
facendomi sentire sicuro solo a casa mia”). Si sentiva come “un alien” ma aveva dalla sua
parte una grande empatia e due genitori che seppero sempre sostenerlo e amare incondizionatamente
il suo genio.
37/FOTOGRAMMI
Il padre era un ingegnere elettronico, la madre una pianista concertista: tecnica e
cuore, seppero toccare entrambi gli aspetti con Steven e stimolare le giuste corde in lui,
tenendo conto che era figlio di un’epoca in cui i ragazzi si arrangiavano nel decifrare la vita
per conto proprio.
Nel 1952 furono loro a decidere di portarlo a vedere il suo primo film, Il più grande
spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille; questa esperienza lo cambio così profondamente
tanto da ossessionarlo nel riprodurre in casa, con un trenino giocattolo, il grande disastro
ferroviario rappresentato nella pellicola e analizzato nel dettaglio in The Fabelmans.
Steven non frequenta nessuna scuola di cinema prestigiosa, e nel 1968 abbandona
gli studi universitari per dedicarsi alla professione di regista a tempo pieno: trova il modo
di bazzicare gli Universal Studios e inserirsi in quella vivace realtà, zeppa fin da subito di
compromessi da accettare e di ingegno da aguzzare.
Figlio della cultura pop degli anni cinquanta, figlio della TV ancora neonata, Spielberg
affonda le basi delle sue storie nelle radici dei cartoni della Disney, e porta nel suo cinema
tutto il cinema che ha amato da bambino, lo stesso tipo di lavoro che oggi fanno i fratelli
Duffer con Stranger Things (che da Spielberg prende a piene mani).
La sua poetica parte dalla celebrazione dell’infanzia, dal desiderio/necessità che
abbiamo di restare bambini, sul grande schermo ma anche nel nucleo più profondo di
ognuno di noi.
Il suo sguardo fanciullo muta negli anni ma mantiene delle tematiche costanti.
Già nel 1977 Incontri ravvicinati del terzo tipo ci racconta bene lo stupore dei bambini
di fronte all’ignoto, e pone le basi di quel contrasto efficace tra ciò che è casa, protezione,
nucleo familiare e ciò che è là fuori, sconosciuto, alieno. Una narrazione che naturalmente
troverà forza e successo nel 1982 con E.T. l’extraterrestre, che Spielberg ha sempre descritto
come “un film sul divorzio dei miei genitori” tanto è intenso il racconto della vita di Elliott
a casa con i fratelli e la madre mentre il padre se ne è andato a stare altrove.
E.T. fu un successo planetario non solamente tra i bambini, ma anche tra gli yuppies,
che attraverso questo tipo di storia potevano regredire per una sera alle emozioni dell’infanzia;
in qualche modo diede il via ad una tradizione cinematografica che per tutta la durata
degli anni ottanta la fece da padrona, tanto più che Spielberg fu tra i fondatori della
Amblin Entertainment e della DreamWorks, case di produzione di film per famiglie, che
vanta titoli culto come I Goonies e la trilogia di Ritorno al futuro. Siamo alle prese con quel
fenomeno definito childhood esploso negli Eighties. Childhood, che possiamo tradurre come
nostalgia dell’infanzia, è una voce che Wikipedia mette anche in riferimento alla ballata di
Michael Jackson, che affronta i problemi relativi all’innocenza mancata dell’artista.
È con ET che prendono spazio, nella poetica del regista, i concetti di volo, di tempo
e, come dicevamo prima, di casa. Volo come congiunzione tra la vita di tutti i giorni sul nostro
pianeta e la vita altra, sognata, immaginata e scrutata da quaggiù. La vita aliena, che entra
a far parte del nostro immaginario quando siamo piccini per non andarsene, se non fosse
38/FOTOGRAMMI
che diventiamo adulti distratti e stanchi di attendere un nuovo amico dal cielo. Elliott, il
protagonista, al contrario è talmente aperto a questa possibilità che nel momento in cui un
esserino saggio e strambo arriva dallo spazio per errore, diventa amico suo non solo con
una facilità che gli adulti non riescono a comprendere, ma con un’empatia tale da entrare
in simbiosi, soffrire e gioire assieme a lui.
I grandi non possono vederlo!
Solo noi bambini possiamo!
da E.T. l’extraterrestre
Questo trovarsi a suo agio con il linguaggio dell’infanzia è un vero dono che non
abbandonerà mai più Spielberg nel suo percorso. Il regista è un implacabile costruttore di
“film per bambini nel senso migliore del termine”.
In E.T. gli adulti sono visti come una vera e propria minaccia per la sicurezza dell’alieno,
mentre i bambini sono gli unici che riescono ad instaurare un contatto grazie allo
stupore sincero senza filtri e senza pregiudizi. Ci si chiede cosa accadrebbe in un film del
2023 con bambini della Generazione Z come protagonisti, ma possiamo facilmente prevedere
che i genitori di oggi, cresciuti a pane e Spielberg, sarebbero pronti a commuoversi e
parecchio, certo di una commozione distratta, tra una chat di gruppo e una call di lavoro.
Il concetto di casa invece qui e in generale nella sua produzione è inteso come rifugio,
come base affettiva, solida ma imperfetta: i genitori di Elliott si sono lasciati. Dall’ultimo
suo film capiamo che le famiglie delle sue pellicole altro non facevano che parlare di lui da
piccolo. Molte di esse esplorano la relazione padre-figlio e madre-figlio, poggiando le basi
su quella che fu l’esperienza di vita concreta di Steven con i suoi. In questo senso nell’ultimo
capolavoro onora la propria infanzia e si libera di un remoto dolore mai sopito.
Casa quindi si traduce con affetto, radici, origine di un tutto che non deve tarparci le
ali nel nostro crescere e sognare il futuro.
Il tema del padre è ripreso approfonditamente con la saga di Indiana Jones, iniziata
nel 1981 ed in corso ad oggi con il quinto episodio. L’archeologo-esploratore Jones, ex lupetto
scout originario dello Utah, si porta dietro un rapporto intenso e conflittuale con la figura
paterna, che impariamo a conoscere e amare nel terzo capitolo della saga.
Il successo enorme di questo eroe - che potremmo riguardare all’infinito saltare da
un aereo sopra un cavallo e di lì rotolare sul tetto di un camion senza stancarci mai - è
nella grande fragilità (sentirsi sempre giudicato dal padre e bisognoso di una sua parola
affettuosa), nelle paure (i serpenti, trauma mai superato), nella curiosità infantile mai sopita
per tutto ciò che è scoperta e conoscenza. Ci innamoriamo del bambino in lui, perché è
parte predominante della sua personalità, in senso buono, in modo giocoso, sognatore. Il
cinema di Spielberg in fondo è rimasto negli anni un grande gioco da rivivere ogni volta.
39/FOTOGRAMMI
Parliamo pur sempre del regista con maggiori incassi nella storia del cinema: il suo
mestiere è tenerci inchiodati alla poltrona, commuoverci e arrivare a tutti, ma soprattutto
divertirci con emozioni dalle tinte sempre vivaci. Cinema come fuoco d’artificio continuo,
un turbinio di effetti, e affetti.
SALLAH Scusate ma cos’è questo “Junior” con cui vi chiamate?
HENRY È il suo nome! Henry Jones “Junior”!
INDIANA Io sono Indiana!
HENRY Si chiamava il tuo cane “Indiana”.
SALLAH Un cane? Tu porti il nome di un cane? [Ride]
INDIANA Ho un sacco di bei ricordi di quel cane!
da Indiana Jones e l’ultima crociata
È del 1987 L’impero del sole, storia ambientata durante l’invasione di Shanghai da
parte dei giapponesi, e vissuta tutta attraverso gli occhi di un bambino di famiglia ricca,
dapprima separato dai genitori nel mezzo dell’attacco agli inglesi, in seguito deportato
durante i fondamentali anni della crescita in un campo di concentramento giapponese.
L’energia vitale, la stramberia, l’immensa immaginazione del ragazzino, interpretato
da Christian Bale già attore navigato, sono la chiave di lettura di questa favola cruda e
emblematica, dura da digerire per un bambino di oggi, ma che resta una visione necessaria
tanto quando il sognante ET.
Jim ha undici anni ed è mistico e coraggioso come dovrebbero sempre essere i
bambini. Vive di colpo l’esperienza dell’abbandono, che viene accentuata dalle sue origini
privilegiate, dal forte contrasto tra il prima e il dopo; il passaggio dagli agi alle sofferenze
prima lo annienta ma poi fa scattare in lui una forza talmente grande da farlo diventare una
figura di riferimento per tutti gli adulti che popolano il campo di prigionia.
Nei momenti di difficoltà i ragazzi di Spielberg mostrano più resistenza e più adattabilità
degli adulti, e Jim ha in sé una spiritualità radicata che lo aiuterà nei momenti più
dolorosi. Il film è tratto dal romanzo autobiografico di J.G. Ballard, e viene definito nel saggio
Cineland Express (Edizioni Sovera, 2008) un film sulla morte dell’innocenza.
Anche qui ritroviamo le tematiche casa, che senza i genitori si deteriora e non protegge
più, e volo, esaltato dalla passione sconfinata del bambino per gli aeroplani da guerra.
“Nomen atque omen. È un caso che Spielberg in tedesco significhi la montagna del
gioco? L’infanzia, la paura, il volo sono i motivi conduttori del suo cinema, il volo
implica la nozione di leggerezza.”
Morando Morandini
Risale al 1991 il fiasco commerciale di Hook, un totale tuffo nell’infanzia vissuta dal
punto di vista dei leggendari bambini di Peter Pan, orfani liberi dalle costrizioni adulte che
40/FOTOGRAMMI
Ho imparato
una parola
nuova, oggi:
bomba atomica.
Jamie Graham,
L’impero del sole
41/FOTOGRAMMI
hanno la facoltà di esplorare e fantasticare e così facendo annullare la legge implacabile
dello scorrere del tempo.
Loro non hanno bisogno di pietanze calde o beni materiali perché si cibano di fantasia.
Sempre in Cineland Express viene approfondito moto bene il concetto dell’abbandono,
non tanto da parte dei genitori, ma dagli adulti che i protagonisti stessi sono diventati: “le
anime dei ragazzini che eravamo”.
Mentire, io, mai. La verità è troppo divertente.
Sai quel luogo che sta fra il sonno e la veglia,
dove ti ricordi ancora che stavi sognando?
Quello è il luogo dove io ti amerò per sempre.
da Hook
Credere nei sogni è un’arte che il regista sembra saper coltivare sempre meglio con
il passare degli anni, al contrario di molti di noi che ci dimentichiamo troppo in fretta come
funziona. Nel 1994 Steven Spielberg fonda la casa di produzione cinematografica DreamWorks:
quale nome più appropriato? È sua la celebre frase: “Io sogno per vivere” (Time, 1985).
È legata al film Schindler’s List la figura leggendaria della bambina ebrea che cammina
in mezzo alla folla scolorita avvolta in un cappottino rosso sangue, unica nota di colore
di una scena che è diventata emblema della pellicola in tutto il mondo. Qui il regista fa
i conti con le sue origini ebraiche e ciò che per lui rappresentano, e qui lo sgretolamento
dell’innocenza è totale, devastante. Non si viaggia di fantasia perché ci troviamo di fronte
alla storia con la più cupa S maiuscola di sempre, ma si è comunque accompagnati per
mano dall’aura speciale dei bambini, la loro grazia e la grande resistenza alla morte di cui
sono capaci, e che Spielberg sa esaltare così bene. I bimbi dei suoi film hanno sempre più
astuzia e tenacia dei grandi, e qui più che mai.
I primi anni novanta vedono anche il trionfo commerciale di Jurassic Park, un film
che è un vero e proprio parco attrazioni, in cui i protagonisti sono bambini nascosti nel
corpo di adulti.
A.I.: Intelligenza Artificiale, è del 2001. È una fiaba cupa che narra di un robot bambino,
con sentimenti molto umani, e che scava nella materia del doppio, costruendo la trama
sul rapporto tra il robot e il fratello in carne ed ossa, e tra loro e i loro genitori.
Qui il legame con la figura materna si fa intenso, lacerante.
Già dai tempi de Lo squalo, è nella rappresentazione dei momenti di quotidianità in
famiglia che il regista sa tirare fuori il meglio dai suoi attori bambini. Li segue con affetto, li
prende per mano nella recitazione, sempre con misura e delicatezza. “In quasi tutti i miei
42/FOTOGRAMMI
film c’è traccia della mia infanzia”, ci dice Steven, e infatti lo Spielberg bambino accompagna
attraverso le sue storie i giovani interpreti come un moderno Peter Pan.
Minority Report, nel 2002, analizza attraverso il protagonista la figura di un padre
assente, totalmente traumatizzato dalla perdita del figlio, al quale Spielberg dona una possibilità
di redenzione.
Sempre nello stesso anno Prova a prendermi, brillante produzione biografica, sviluppa
in maniera profonda il concetto di radici - genitori - rapporto con essi e come questo
influenzi un’intera vita.
La guerra dei mondi arriva nel 2005, e qui Tom Cruise inquadra in modo magistrale
la figura di un padre non ancora cresciuto, che matura di colpo durante un’invasione aliena
(gli extraterrestri tornano, ma stavolta sono crudeli) capace di metterlo faccia a faccia
con la sua più grande paura, quella di trovarsi da solo con i due figli e di essere costretto
a prendersi cura di loro. I bambini della Guerra dei mondi sono più saggi del loro padre,
sono loro ad aiutarlo nella sua evoluzione di genitore.
Negli anni dieci il regista non riesce più a raggiungere la purezza di intenti dei film
passati, ma la pandemia lo aiuta a trovare il coraggio per affrontare i propri demoni e gli
amori familiari con The Fabelmans, uscito nel 2022 e già entrato nella leggenda per i fans
di Spielberg, gli ex-bambini della generazione di Elliott.
Daniela Brogi nel suo testo Spielberg, l’infanzia dell’arte, fa una riflessione molto
mirata in merito a questo: “Forse la chiave più significativa è la scelta di chiamare un film
sul cinema non con il nome di un singolo eroe, ma con il cognome di una famiglia: una
trovata che ci fa capire anche meglio come dentro questo racconto la famiglia non sia il
posto da cui fuggire e contro cui affermarsi, ma agisca continuamente da nutrimento creativo
e emotivo [...] La famiglia e il cinema, così come agiscono in The Fabelmans, sono
livelli di vita e di immaginazione che si implicano reciprocamente”.
Non possiamo che chiederci cosa ne penserebbe Dawson Leery, il protagonista
della serie adolescenziale di culto Dawson’s Creek. Nel primo episodio della prima stagione
il quindicenne si trova come tutti i sabati sera nella sua cameretta con l’amica del cuore
Joey, intento a rivedere per l’ennesima volta E.T.
Leery, idealista e fin troppo riflessivo, vuole diventare un regista da grande e Spielberg
è il suo autore di culto; a un certo punto le confida:
“Sono convinto che nei film di Spielberg ci siano
tutte le risposte ai dubbi della vita. [...] Ogni volta
che ho un problema non devo far altro
che guardare un suo film e trovo la soluzione”.
Quante volte lo abbiamo fatto anche noi?
43/FOTOGRAMMI
Lungometraggi di Steven Spielberg
1971 Duel
1974 Sugarland Express (The Sugarland Express)
1975 Lo squalo (Jaws)
1977 Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind)
1979 1941 - Allarme a Hollywood (1941)
1981 I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark)
1982 E.T. l’extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial)
1984 Indiana Jones e il tempio maledetto (Indiana Jones and the Temple of Doom)
1985 Il colore viola (The Color Purple)
1987 L’impero del sole (Empire of the Sun)
1989 Always - Per sempre (Always)
Indiana Jones e l’ultima crociata (Indiana Jones and the Last Crusade)
1991 Hook - Capitan Uncino (Hook)
1993 Jurassic Park
Schindler’s List - La lista di Schindler (Schindler’s List)
1997 Il mondo perduto - Jurassic Park (The Lost World: Jurassic Park)
Amistad
1998 Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan)
2001 A.I. - Intelligenza artificiale (A.I. Artificial Intelligence)
2002 Minority Report
Prova a prendermi (Catch Me If You Can)
2004 The Terminal
2005 La guerra dei mondi (War of the Worlds)
Munich
2008 Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo
(Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull)
2011 Le avventure di Tintin - Il segreto dell’Unicorno
(The Adventures of Tintin: The Secret of the Unicorn)
War Horse
2012 Lincoln
2015 Il ponte delle spie (Bridge of Spies)
2016 Il GGG - Il grande gigante gentile (The BFG)
2017 The Post
2018 Ready Player One
2021 West Side Story
2022 The Fabelmans
44/FOTOGRAMMI
Io sogno per
vivere
Steven Spielberg
45/FOTOGRAMMI
Stranger Things
serie TV
USA
2016 - in corso
4 stagioni,
la quinta in lavorazione
Ideazione
Duffer Brothers
Distributore
Netflix
Alla prima puntata della prima
stagione (The Vanishing of Will Byers)
si è creato una sorta di corto circuito
gioioso nella nostra testa: veder
sfrecciare quei ragazzini sulle loro
BMX come i Goonies, osservarli mentre
sfuggivano ai genitori e alle autorità
come in E.T. - e immediatamente tifare
per loro - voleva dire ricordarsi di
quanto succedeva a noi da piccoli,
quando il mondo era tutto fuori, vero,
tangibile, e stare con gli amici aveva lo
stesso sapore del cartone molle delle
pizze e dei calzini sudati.
Il dono dei fratelli Duffer a noi
spettatori che proveniamo dall’era
analogica è prezioso, accurato e
inestimabile. Un’esperienza epica, un
grande classico nel suo genere, fin dalle
prime battute.
La serie si presta a molteplici visioni,
anche consecutive, a lunghi inverni da
piumone, a sogni notturni vividi e
all’acquisto compulsivo di t-.shirt a
tema, talmente è perfetta
esteticamente, alta e bassa, pop e
filosofica, o perlomeno è affine al nostro
ideale di perfezione stropicciato, fatto
di giacconi di velluto, soffitte, e campi
di zucche; tutto l’immaginario
americano che ci ha cresciuti negli anni
della guerra fredda, quelli della
narrazione binaria.
Questo dono è perfetto anche per uno
scambio affettuoso tra generazioni; è
entusiasmante farlo assaporare ai
nostri figli, ignari dei mille riferimenti
alla cinematografia degli Eighties.
Loro non possono sapere com’era
girovagare al tramonto senza l’incubo
Gli strambi di Hawkins
Paola Ranzini Pallavicini
Why are you keeping
this curiosity door locked?
Perché tieni chiusa
a chiave questa porta
della curiosità?
Dustin
di venire tracciati da un’app sul
cellulare, ma possono godere dello
spettacolo pirotecnico ricco di tutto
l’armamentario nerd che non passa mai
di moda: mostri orripilanti, storie
d’amore in palestra e apocalisse a
colazione.
Possono commuoversi per la splendida
immagine dell’amicizia pura,
incondizionata di quell’età.
Possono fare tesoro della potente
metafora del sottosopra: mai
stratagemma fu più azzeccato per far
capire ad un preadolescente che non
siamo soli, che i momenti bui capitano a
tutti, alle cheerleaders, ai geni della
matematica e persino alle supereroine.
Che trovando nella nostra unicità la
forza per reagire diventiamo tutti dei
potentissimi combattenti, senza
nemmeno bisogno di poteri
coreografici.
46/FOTOGRAMMI/note
Che la musica, se tutto il resto non
bastasse, ci salva ancora, e ancora.
Che a volte un disegno a pastelli vale
più di mille spiegazioni.
Che un waffle surgelato è più buono di
una torta fatta a mano, se divorato con
gli amici (gli anni ottanta come una
serie infinita di merendine
confezionate, niente spuntini biologici
ma più pomeriggi sguinzagliati nel
quartiere).
Perché “gli amici non mentono” e non
badano al tuo peso, al punteggio della
tua squadra di basket o al conto in
banca dei tuoi genitori.
Sembra nulla, e invece con gli amici
accanto le radici scure non riusciranno
a intrappolarci, le spore gelide non
andranno a scalfire parti vitali. Il
sottosopra, che invenzione magnifica!
In pochi anni già sono stati pubblicati
diversi saggi a tema.
La serie statunitense ha preso il via nel
2016 con la prima esplosiva stagione, e
vanta una rosa di personaggi
azzeccatissima e già leggendaria dopo
poche settimane dal lancio
internazionale.
Ciascuno di loro ha potuto vivere il suo
momento di gloria nello srotolarsi delle
quattro stagioni trasmesse; ciascuno
con le sue doti ha contribuito alla
sconfitta di entità mostruose sempre
più subdole, che senza tregua hanno
messo ai ferri corti la cittadina di
Hawkins, luogo di fantasia in Indiana.
Will, Mike, Dustin, e Lucas
costituiscono il nucleo originario.
Eleven/Undi è la ragazzina giunta tra
loro da un posto misterioso, e resta la
protagonista assoluta, senza oscurare
mai gli altri. Nancy, Steve e Jonathan
sono i fratelli maggiori, vere e proprie
ancore di salvezza, ma incasinati più
dei piccoli. Max, Robin e Eddie si
aggiungono poi, ma ci conquistano in
maniera struggente.
La storia è collocata nel 1983; l’ultima
stagione termina nel 1986.
La colonna sonora è una rassegna dei
più grandi successi di quegli anni, e
addirittura i brani Running Up That
Hill di Kate Bush, ascoltato all’infinito
da Max nelle cuffiette del walkman
(Dear Billy, quarto episodio della
quarta stagione) e Master Of Puppets
dei Metallica, suonata in modo divino
da Eddie (The Piggyback, nono e ultimo
episodio della quarta stagione)
collaborano attivamente alla
costruzione della trama, diventando
elementi fondamentali alla
comprensione dei fatti.
La storia affonda le radici nel gioco da
tavolo Dungeons & Dragons tanto
quanto nei racconti di Lovecraft.
I rimandi ai film di culto dell’epoca sono
molti, e stratificati: dai già citati E.T.
l’extra-terrestre e I Goonies, a
Terminator, La storia infinita, Alien,
persino il terrificante Carrie; dalla
trilogia di Indiana Jones a Incontri
ravvicinati del terzo tipo, passando per
Pretty in Pink, Nightmare e Wargames.
E sono solamente i più vistosi: il
divertimento di scovarne altri
continua, in un gioco di dettagli infinito.
Questa serie è un’enorme, ghiotta
citazione, e può essere gustata con la
giusta consapevolezza solo se prima si
è assistito agli originali. Chi li ha visti
da ragazzino li ha introiettati, e tenderà
a confondere i propri ricordi di infanzia
con quelli di celluloide, e per questo
commuoversi parecchio. Ma può essere
compresa da tutti, e qui sta la sua forza,
perché ha un messaggio toccante e
universale e nell’epoca controversa in
cui viviamo colpisce per la semplicità
cristallina di intenti che i protagonisti
incarnano, senza per questo risultare
mai macchiette. Strambi, coraggiosi,
leali, fieramente vulnerabili.
47/FOTOGRAMMI/note
LEWIS
CARROLL.
AL DI
LÀ DELLO
SPECCHIO
Nicola Guida
48/ombre
Ieri ho scattato la mia prima fotografia
nel nuovo studio, Julia Arnold: è stata con me,
con Ethel, per circa tre ore.
Il lavoro del semestre è finito.
Che Dio benedica le vacanze, la mia vita
futura, e che mi aiuti a servirLo con maggior
autenticità.
Amen.Se sei nato sordo da un orecchio, balbuziente, timido e soffri di
crisi di ansia, finisci per rifugiarti in un mondo immaginario,
al di là dello specchio.
Se però sei anche vanitoso, e vuoi farcela, vuoi assolutamente
emergere nella noiosa società vittoriana, farai di
tutto per superare questi tuoi limiti, anche inventare un’identità
alternativa.
Ed è quello che ha fatto Charles Lutwidge Dodgson, attraversando lo specchio, per
inseguire la migliore versione di se stesso, e forse incontrarne la peggiore, come un oscuro
doppelganger.
Quando nacque nel gennaio 1832, la sorella di suo padre scrisse una lettera ai suoi
genitori, accogliendo il “caro piccolo straniero” e pregandoli di baciarlo per lei.
Suo padre, sacerdote, già “esageratamente gioioso” ogni volta che guardava la sua
famiglia, mise addirittura un avviso sul Times per annunciare l’arrivo del suo tanto desiderato
primo figlio maschio.
Il bambino sarebbe cresciuto fino a diventare Lewis Carroll, autore di due dei libri
per bambini più famosi al mondo, ma il mistero e le polemiche lo avrebbero circondato in
età avanzata.
Una cosa che di certo non cambiò mai fu il suo profondo attaccamento ai membri
della famiglia, e il loro a lui.
Durante i suoi primi undici anni i Dodgson vissero in una piccola canonica in mezzo
ai campi, nel raccolto villaggio di Daresbury, nel Cheshire - non è noto sapere se il giovane
Charles conoscesse il famoso gatto.
La canonica bruciò più di cento anni fa ma il sito dove sorgeva è ancora lì, segnato
in mattoni e racchiuso in una recinzione decorativa di ferro, con la campagna tutt’intorno,
meta di pellegrinaggio di turisti e appassionati. Da ciò che possiamo ancora vedere le
stanze erano minuscole, perché il padre di Charles era solo un povero curato, nonostante
provenisse da una famiglia di religiosi e militari, e doveva accogliere in casa gli alunni e
trovarsi di che vivere.
49/Ombre
Charles comunque ricordò sempre Daresbury Parsonage come un luogo felice, una
“piccola isola fattoria, in mezzo a mari di mais”. Lui e un numero sempre crescente di fratelli
e sorelle vagavano nelle campagne circostanti, e le sue sorelle lo consideravano un tipico
ragazzino di campagna, uno che si arrampica sugli alberi e gioca negli stagni, lontano
dall’uomo posato che sarebbe diventato da adulto.
Dopo che suo padre fu promosso, la famiglia si trasferì in una grande canonica nel
villaggio di Croft-on-Tees, nello Yorkshire, e presto la famiglia crebbe fino a undici figli.
Charles era sicuramente molto giovane quando decise di diventare il principale intrattenitore
della famiglia.
Divertiva instancabilmente i suoi fratelli e sorelle, inventando elaborate avventure
per farli giocare in giardino, raccontando loro storie e invitandoli a creare le riviste della
parrocchia.
I suoi contributi giovanili a queste riviste mostravano già ciò che sarebbe accaduto
in futuro: la duchessa di Alice, che vedeva una “morale” in ogni cosa, riecheggia nella sua
poesia My Fairy, scritta quando aveva appena tredici anni, in cui critica il moralismo dei libri
per bambini.
Ho una fata al mio fianco
che dice che non devo dormire.
Quando una volta provai dolore gridai
forte, disse: “Non devi piangere”.
...Quando una volta un pasto ho voluto assaggiare
Ha detto: “Non devi mordere”
Quando alle guerre sono andato in fretta
Ha detto: “Non devi combattere”.
“Cosa posso fare?” gridai a lungo,
stanco del doloroso compito.
La fata rispose tranquillamente e disse:
“Non devi chiedere”.
Morale: “Non devi”.
Da tutti i resoconti giunti fino a noi pare che Charles apprezzasse molto il ruolo di
fratello maggiore: era marcatamente protettivo, si gettava nelle risse in difesa dei ragazzini
più piccoli, gli amici raccontavano quanto si prendesse cura di loro, una nipote lo paragonò
perfino ad una “chioccia”.
Aveva molto in comune con alcune delle sue sorelle ed era meno appassionato
degli sport di campagna che piacevano ai suoi fratelli.
50/Ombre
Di lui si ha conferma persino che fu uno dei primi anti-vivisezionisti, condividendo
la preoccupazione per il benessere degli animali con la sorella più giovane Henrietta.
La scuola non era obbligatoria all’epoca, ma per un ragazzo era decisamente meglio
frequentarla se voleva avere una carriera professionale.
Charles fu educato a casa per i primi anni della sua vita: di quel tempo si conservano
gli elenchi delle sue letture, che indicano quanto il suo intelletto fosse brillante. Era un
avido lettore, ma dalla nascita ebbe il problema della balbuzie, che lo perseguitò per tutta
la vita, minando i suoi rapporti sociali.
A dodici anni, per tentare di curare questo suo impedimento del linguaggio, venne
iscritto alla Richmond Grammar School, che frequentò per un paio d’anni con immensa
felicità, per poi essere mandato in un collegio, la Rugby School, della quale, al contrario,
detestò il triennio trascorso.
Fece molto bene e vinse numerosi premi, perchè era bravissimo a giocare a rugby,
ma odiava la mancanza di privacy della scuola e l’insegnamento poco ispirato.
Anni dopo ammise che non era stato del tutto male, perché si era fatto degli amici,
ma aggiunse che nulla al mondo lo avrebbe mai convinto a ripetere gli anni che aveva
sopportato lì:
“Nessuna considerazione potrebbe indurmi a ripetere i miei tre anni ... Posso dire
onestamente che se fossi stato ... risparmiato dai disturbi notturni, sopportare la
durezza della vita diurna sarebbe stato, in confronto, un nonnulla”
La natura dei “disturbi notturni” a cui Dodgson allude non è nota, ma si è ipotizzato
che si tratti di bullismo, o di un delicato riferimento a qualche forma di molestia di natura
sessuale.
A diciannove anni andò a Christ Church, a Oxford, la vecchia scuola di suo padre.
Vi era entrato da appena due giorni quando ricevette la notizia che sua madre era
morta. Qualsiasi fossero i sentimenti di Dodgson per la morte della madre, scomparsa a soli
quarantasette anni, non lasciò che lo distraessero dagli studi.
Era eccezionalmente dotato e motivato, e ricevette numerosi riconoscimenti formali
per i suoi notevoli risultati. In breve tempo fu nominato Fellow, e fu impegnato nell’insegnamento;
la sua carriera accademica, però, rimase sempre in un curioso equilibrio, tra il
valzer e la noia, fra brillanti risultati e tediata pigrizia.
È difficile sapere cosa pensasse veramente di Christ Church. Di sicuro nei primi anni
trascorsi lì ad insegnare non fu particolarmente felice, ma la posizione offriva opportunità
per leggere, riflettere e usare la mente e, nel costruirsi una vita di successo, stava facendo
ciò che sia lui che la sua famiglia si aspettavano.
Il college era quasi tutto maschile e appariva emotivamente piuttosto desolante:
51/Ombre
insegnare agli studenti universitari non gli andava a genio, perché con la sua voce calma,
i modi gentili e la balbuzie fastidiosa trovava difficile mantenere l’ordine.
Alcuni dei coetanei più rudi prendevano in giro le sue difficoltà di linguaggio, e
molti degli studenti universitari erano giovani ricchi che non volevano imparare e si consideravano
migliori di lui.
Pareva affrontare i disagi emotivi della sua vita presentando un volto freddo e remoto
a coloro che non conosceva bene, rifugiandosi emotivamente in un ruolo che non era il
suo; soffrendo, a detta dei famigliari, di frequenti momenti di depressione. Al fine di rispettare
le regole arcaiche del collegio gli toccò prendere con riluttanza gli ordini sacri e sapeva
che sarebbe stato obbligato a rimanere celibe finché fosse rimasto al lavoro.
Sorpassati i vent’anni si trovava sempre più impegnato nel lavoro - d’altra parte
necessitava di uno stipendio decente, perché suo padre aveva pochi soldi e, da figlio maggiore,
sapeva che si sarebbe dovuto assumere la responsabilità di tutti dopo la sua morte.
Rimase comunque sempre accanto alla sua famiglia, percorrendo il lungo viaggio di ritorno
a nord durante le vacanze e socializzando con i fratelli e le sorelle ogni volta che poteva.
L’ormai reverendo Charles Dogdson, nonostante la balbuzie e la sordità, era comunque
rimasto, in società, un buon intrattenitore, qualcuno che dava l’idea di essere una persona
socievole in cerca dell’ammirazione del prossimo. In un’epoca in cui era importante
persino saper recitare o cantare di fronte ad un pubblico, lui non esitava a mettersi alla
prova, e intrattenere tutti raccontando storie ed indovinelli.
Alto, snello, con occhi enormi, mascella volitiva, sempre attento al modo di vestire e
al modo di porsi con la gente: così appariva agli occhi di tutti verso i trent’anni, e voleva a
tutti costi far qualcosa per cui essere ricordato.
Per questo oltre che essere un brillante matematico si dedicò alla scrittura di poesie,
e racconti, con uno stile compositivo che venne fin da subito giudicato unico, capace di un
simbolismo sbalorditivo e un utilizzo delle parole che creava un’immagine nitida nella mente
del lettore, come essere immersi dal vivo in quanto si stesse leggendo.
Ma non era ancora completamente convinto fosse quella la sua strada.
Ci provò anche con la pittura, ma per scoprire presto di non essere particolarmente
dotato nonostante gli sforzi.
Grazie anche allo stipendio garantito dal ruolo di tutor di matematica, iniziò a interessarsi
ad un nuovo svago, probabilmente il più costoso dell’epoca: la neonata fotografia,
cui fu introdotto dallo zio Robert Wilfrid Skeffington Lutwidge nell’estate del 1855, durante
una vacanza.
La fotografia compensava perfettamente la sua mancanza di talento pittorico, e con
lo zio iniziò a scattare le prime fotografie, principalmente paesaggi agresti e nature morte.
Sei mesi dopo, folgorato dalla nuova passione, Charles scrisse:
52/Ombre
“Ho scritto allo zio Skeffington, chiedendogli
di procurarmi un apparecchio fotografico,
perché voglio trovare qualcosa per me
oltre a leggere e scrivere”
In primavera l’acquisto di attrezzature avvenne a Londra, e fu con la fotografia, dietro
alla mantella nera che lo nascondeva, dietro l’obiettivo puntato sul mondo, che completò la
trasformazione, e adottò il nome d’arte con cui ovunque è conosciuto: Charles divenne finalmente
Lewis. Lewis Carroll.
L’uomo che voleva essere: il poeta, perché fu con questo nome che iniziò a pubblicare
poesie e racconti, e il fotografo.
Carroll pensava fortemente, all’inizio della carriera, che la fotografia gli avrebbe portato
reddito e fama, ma divenne presto chiaro che questo passatempo, pur preso seriamente,
era ancora solamente tale. Un hobby da utilizzare come mezzo per entrare in contatto
con le persone che voleva conoscere, o fotografare, o entrambe le cose.
Dai suoi diari emerge quanto amasse la fotografia, e quanto tempo le dedicasse: la
mattina era tutta spesa per l’insegnamento al college, la sera era dedicata alla preparazione
per le lezioni, mentre la fotografia regnava sovrana nel pomeriggio.
Arrivò ad aprire uno studio fotografico a Oxford sopra i suoi alloggi, nella soffitta, e lì
conservava ogni tipo di oggetto di scena, dai costumi ai giocattoli.
Prendeva molto sul serio la creazione di ritratti fotografici: pensava alla composizione,
alla posizione dei soggetti, alle loro pose, ai loro gesti... studiava nel minimo dettaglio lo
scatto, come forse solo Newton, più di un secolo dopo, fece.
Nonostante non fosse un professionista, eccelse così tanto nella fotografia di ritratto,
all’epoca ancora piuttosto difficile per via dei tempi lunghissimi (fino a un paio di secondi
di scatto) cui erano costretti i soggetti, che molte celebrità accettarono di posare per lui:
grazie a questo dono riuscì ad entrare in contatto con lo scrittore John Ruskin, il pittore
William Hunt e Michael Faraday, lo scienziato, solo per citarne alcuni.
Nelle lunghe lettere che scriveva ai suoi fratelli e sorelle raccontava di come fosse
finalmente coinvolto nella politica del college, instradato in una brillante carriera accademica
e raccontò di quanto amasse passare il suo tempo con Ina, Edith e Alice, le figlie del
rettore Henry Liddell, che viveva con la famiglia nel decanato del college.
L’insegnante divenne amico della famiglia del preside, li visitava spesso: non era
estraneo al trambusto, poiché aveva sette sorelle e tre fratelli, quindi si sentiva a suo agio
in una casa con quattro figli. Con loro, raccontava nelle lettere, poteva sentirsi più simile al
suo vero se stesso, a quella persona che mostrava solo alla sua famiglia.
Nel tempo libero portava fuori le piccole Liddell, le aiutava in moltissimi progetti e
inventava storie per loro.
53/Ombre
54/Ombre
Carroll alimentò il mito romantico che la sua favola più celebre sia stata raccontata
durante una gita in barca il quattro luglio, quando con l’amico Duckworth e le tre ragazze
Liddell remarono fino al villaggio di Godstow. In realtà la storia potrebbe aver preso forma
in due o tre viaggi quell’estate – ma in ogni caso, le piccole Liddell l’adorarono.
Alice Liddell aveva dieci anni all’epoca, tre anni più grande dell’Alice della storia, era
una bambina intelligente e artistica, con capelli corti e scuri e uno sguardo audace e sicuro,
e guardando le numerose foto, scattate dallo stesso Lewis Carroll, sfogliando il manoscritto
del libro con le sue illustrazioni, viene spontaneo chiedersi: si assomigliano?
Charles le era molto affezionato, e quando lei lo tormentò per scrivere la storia lui lo
fece, anche se passarono più di due anni prima che arrivasse al Decanato con il suo regalo
sotto il braccio: un manoscritto dal design intricato intitolato Alice’s Adventures Under
Ground, con 37 illustrazioni dell’autore.
Carroll iniziò a condividere la storia con i figli di altri amici, e iniziò a rendersi conto
che quello che aveva in mano sarebbe stato un giorno un classico della letteratura.
Nelle immagini del manoscritto troviamo Alice for Alice: una rappresentazione collettiva
in cui si possono riconoscere però i lineamenti della vera Alice, una tipica ragazza
vittoriana. Nell’ultimo dei disegni la giovane Liddell era chiaramente raffigurata ma scoprirono
solo nel 1977 che l’autore aveva incollato una foto dell’eroina, scattata da lui stesso,
sopra il disegno.
La relazione tra Carroll e la sua piccola musa forse non era così dolce e innocente
come dovrebbe essere una relazione tra una bambina e un adulto; Carroll era probabilmente
infatuato delle sorelle Liddell. Il rapporto con le bambine, secondo il professore di letteratura
inglese Hugh Haughton, sembrerebbe oggi talmente “intenso” da risultare strano agli
occhi di chiunque.
“Quel che capisco è che fosse innamorato di Alice, ma così represso che non avrebbe
mai trasgredito in alcun modo” sostiene Vanessa Tait, pronipote di Alice Liddell.
Alice aveva solo tre anni quando incontrò Lewis Carroll.
Lui, a quell’epoca, si immaginava di poter diventare un fotografo e, dopo aver conquistato
l’amicizia della famiglia Liddell, li convinse a fargli fotografare le bambine.
Il giardino della famiglia Liddell, disse loro Carroll, era colpito dal sole con una luce
così perfetta che non poteva immaginare di scattare da nessun’altra parte. E con bambine
così affascinanti non poteva resistere, doveva scattare.
I genitori di Alice furono d’accordo, entusiasti che questo fotografo, un gentiluomo,
si interessasse così tanto alla loro famiglia.
Erano a quanto pare decisamente contenti che Carroll, che aveva circa vent’anni
all’epoca, fotografasse le loro giovani figlie.
Ma tra le miriadi di foto scattate da Carroll ce ne sono alcune che riempirebbero
qualsiasi genitore di preoccupazione. In una di queste Alice era fotografata con abiti larghi
che le scivolavano dalle spalle.
55/Ombre
Chiariamo il concetto: le fotografie di bambini nudi non erano rare all’epoca. Altri
celebri fotografi vittoriani che si sono cimentati in questo tipo di opere furono per esempio
Julia Margaret Cameron e Francis Meadow Sutcliffe.
Lewis Carroll non fu di certo il primo né l’ultimo ad esercitarsi in questo genere
nella metà del diciannovesimo secolo, in un momento in cui il giovane mezzo fotografico
stava aprendo nuove possibilità per la rappresentazione visiva, e la nozione stessa di “infanzia”
era in una fase di profonda trasformazione.
Bere tè e raccontare storie non era certo cosa da uomini, la nudità dei bambini era
simbolo di purezza e innocenza, e la grazia delle ragazze doveva esser simile allo svolazzare
delle fate.
Questa è la paradossale base della morale vittoriana.
La maggior parte delle ragazzine ritratte da Carroll scrivevano il proprio nome in un
angolo della stampa, per cui le loro identità sono quasi tutte note.
La sua modella preferita fu Alexandra Kitchin (“Xie”): la ritrasse circa cinquanta volte
fra i cinque e i sedici anni. Nel 1880 Carroll cercò di ottenere il permesso di fotografare la
sedicenne Xie in costume da bagno, senza riuscirvi.
Di certo le sue fotografie di bambini hanno dato forma visiva a concezioni dell’infanzia
appena emergenti nell’età vittoriana, stabilendo probabilmente nuove norme estetiche
per le immagini di ragazze, portando il concetto di “infanzia” al limite attraverso la scelta
degli abiti e del nudo.
Di certo uno degli evidenti obiettivi della sua arte era quello di liberarsi del pesante
fardello della simbologia vittoriana, ritraendo le giovani modelle più come ideali romantici
che come beneducate damigelle della buona società inglese.
Le fotografie di Carroll però non riescono a non essere inquietanti, e quella più inquietante
di tutte fu quella che rimase nascosta nella sua collezione privata e fu rivelata
anni dopo la sua morte.
Era una fotografia a figura intera della sorella di Alice, Lorina, ancora troppo giovane
per aver raggiunto la pubertà, completamente nuda.
L’argomento è controverso, è difficile parlarne e la macchia della sua presunta pedofilia
è come un’ombra nera che sporca l’immagine di un uomo così brillante.
L’idea di un Carroll pedofilo cominciò a germogliare come un’erba cattiva nel 1932 con
alcune affermazioni che si trovavano nel saggio The Life of Lewis Carroll di Langford Reed.
Senza usare termini espliciti l’autore osservò, quasi malignamente, come le amicizie
di Carroll con le ragazzine terminassero quando queste raggiungevano la pubertà; al tempo
stesso suggerì l’idea che Carroll non avesse una reale “vita adulta” e che si trovasse a
suo agio solo in un mondo mentale infantile. Quest’ultimo elemento venne in seguito dato
quasi per scontato, e il dibattito si concentrò sul cercare di capire se l’ossessione di Carroll
per le bambine fosse innocente o morbosa.
56/Ombre
Morton N. Cohen, forse lo studioso più famoso della vita di Carroll, nel suo Lewis
Carroll, a Biography del 1995, scrisse che:
«Non possiamo sapere fino a che punto la preferenza di Charles per i bambini nei
disegni e nelle fotografie nasconda un desiderio sessuale. Lui stesso sostenne che
tale preferenza aveva motivi strettamente estetici. Ma dato il suo attaccamento
emotivo ai bambini e il suo apprezzamento estetico per le loro forme, l’affermazione
che il suo interesse fosse strettamente estetico è ingenua. Probabilmente sentiva
più di quanto volesse ammettere, anche a se stesso. Certamente, cercò sempre di
avere un altro adulto presente quando soggetti prepubescenti posavano per lui.»
Secondo Cohen, Carroll chiedeva sempre alle madri delle bambine di essere presenti
quando si accingeva a ritrarre le loro figlie, e anche questo suo modo di lavorare destò più
di un dubbio a riguardo; si trattava di un atto di autodisciplina per non cadere in tentazione?
Carroll piaceva ai bambini, come ricorda Ruth, nuora dell’architetto vittoriano Alfred
Waterhouse, nel suo libro di memorie. Da piccola una volta giunse a una festa per bambini
e vide un vecchio sacerdote pallido in abiti neri. Pensò che avrebbe rovinato la festa, che
invece “divenne presto la festa del signor Dodgson”, descritto come un uomo affascinante
e apprezzato dai genitori. “Ricordo quanto fosse esasperante sentirsi chiedere se mi sarebbe
piaciuto mangiare un altro pezzo di torta, quando stavo cercando così duramente di
sentire cosa stava dicendo”.
In qualche modo, Carroll ispirava fiducia alle famiglie.
L’unico caso noto di attrito fra lui e i genitori delle piccole modelle è quello che
avvenne nel 1879, ovvero una “improvvisa rottura dell’amicizia” con la famiglia Mayhew
dopo che questi gli ebbero rifiutato il permesso di fotografare nude le tre figlie maggiori
(6, 11 e 13 anni).
Altri autori sostengono che il sospetto di pedofilia nei confronti di Carroll sia la conseguenza
di una errata interpretazione della morale vittoriana e dei rapporti dell’autore con
gli adulti. Non si sposò mai, e mai, è sicuro, volle farlo.
Il matrimonio (con la prospettiva di dover sostentare altre persone) sarebbe stato
certamente il carico da cento ai vincoli sotto i quali già viveva.
Gli avrebbe fatto perdere l’indipendenza, e il solo fatto di essere sposato gli avrebbe
presentato seri problemi pratici per molti anni.
Anche la sua vicinanza ai fratelli potrebbe essere stata un fattore che contribuì alla
decisione. Solo tre degli undici si sposarono, e i restanti sette rimasero sotto la sua cura per
il resto della vita.
Tuttavia, crescendo, ebbe molte amiche. Certamente ebbe molte relazioni con donne
adulte, sia sposate che nubili, e questo a volte gli attirò polemiche.
57/Ombre
La vita sociale nell’Inghilterra vittoriana era altamente formale, e si riteneva improprio
per gli uomini idonei al matrimonio avere amiche adulte senza accompagnatore.
Durante la giovinezza non era stato in grado di trascorrere del tempo da solo con
donne rispettabili, ma dopo aver superato quella che i vittoriani consideravano l’età del
“romanticismo” andò apertamente in vacanza con le amiche e raccolse una considerevole
cerchia di ammiratrici.
Come scrisse l’autore Laurence Hutton nel 1903, poco dopo la sua morte, “gli piacevano
le donne giovani, che piacevano a tutti, e Oxford è ora piena di donne, mature e immature,
che adorano il dolce ricordo del creatore di Alice”.
Tornando alla macchia della presunta pedofilia di Carroll, è certo che, per tutto il tempo
in cui frequentò Alice Liddell e le sorelle, tenne un diario meticoloso delle sue giornate.
La maggior parte di questo diario è arrivato ai giorni nostri, ma le pagine tra il 1858
e il 1862, quando Alice aveva meno di dieci anni, sono state strappate e distrutte probabilmente
dal suo stesso autore.
Il rapporto di Carroll con la famiglia andò in pezzi durante quegli anni, e qualunque
cosa fosse accaduta Carroll era così sconvolto – o forse si vergognava – che lo strappò dal
suo libro. L’unica testimonianza che abbiamo è una breve nota della nipote di Carroll, che
ha letto una sola delle pagine mancanti.
“L.C. apprende dalla signora Liddell che dovrebbe usare i bambini come mezzo per
fare la corte alla governante”
“Dovrebbe anche corteggiare presto Ina.”
“L.C.” è Lewis Carroll, e “Ina” è la sorella maggiore di Alice, Lorina, la giovane ragazza
che ha posato nuda per la macchina fotografica di Carroll, e il cui ritratto è rimasto nascosto
per anni.
Non sappiamo con certezza se i Liddell sapessero di quella foto, ma a quanto pare
non si preoccuparono dell’attenzione dell’uomo più anziano verso la loro bambina; piuttosto,
per quanto poco ci è dato di capire da questa nota, delle dicerie sulla corte alla governante.
Le voci si diffusero attraverso Oxford: dove erano posizionati i famigerati limiti della
decenza e la linea di demarcazione tra relazioni platoniche e pensieri osceni?
Carroll si ritirò dalla famiglia, scioccato dai sospetti.
Le sue visite a casa Liddell cessarono e gli incontri con Alice e le sorelle divennero
formali, e rari.
I discendenti descrissero la signora Liddell come una “snob” che distrusse la maggior
parte delle foto e delle lettere di Carroll ad Alice, la quale non era più una bambina e la
severa morale vittoriana entrò in pieno vigore.
Per mesi Carroll non frequentò più casa Liddell.
Fu nel maggio 1864 che riuscì a passare per una visita.
58/Ombre
Avrebbe voluto portare ancora una volta le ragazze sul fiume, disse alla signora
Liddell, e raccontare loro storie come in passato.
Qualcosa, però, era cambiato. Con le pagine di Carroll strappate dal diario non sapremo
mai con certezza cosa fosse successo, ma l’opinione della signora Liddell non era più la
stessa. Ora, gli disse, non gli sarebbe mai più stato permesso di frequentare le sue figlie.
Carroll avrebbe visto Alice solo poche altre volte, e sempre con la madre presente.
Smise improvvisamente di fotografare nel 1880, dopo 24 anni di attività e più di 3000
scatti. Meno di un terzo di queste immagini sono sopravvissute; alcune sono state deliberatamente
distrutte dallo stesso autore, altre sono state restituite alle famiglie.
E man mano che la fama dei libri cresceva a dismisura, la gente si chiedeva chi
fosse l’uomo che li aveva scritti.
Ma Charles non ebbe mai intenzione di rivelarsi al pubblico.
Scrivere un libro per bambini non migliorò particolarmente la sua carriera professionale,
e rifiutò categoricamente di riconoscere in pubblico di essere “Lewis Carroll”.
Per quanto riguarda la vita quotidiana, “Lewis Carroll” era una completa non-persona.
Charles è sempre stato conosciuto personalmente solo con il vero nome, le lettere
dirette allo pseudonimo furono sempre restituite senza risposta alcuna, e si allontanò sempre
dagli estranei che osarono menzionare Alice in sua presenza.
Tempo dopo, Alice Liddell sposò un giocatore di cricket e in seguito vendette la prima
bozza di Le avventura di Alice nel Paese delle meraviglie che Carroll le aveva regalato.
Charles Lutwidge Dodgson nel frattempo scrisse più di una dozzina di libri, ma nessuno
fu così pieno di ispirazione, nessuno raggiunse il successo delle storie scritte per la
sua musa ispiratrice, una bambina di dieci anni di nome Alice.
59/Ombre
BOLLE
CONTROVENTO.
TEATRO ED
EDIZIONI
ILLUSTRATE
PER BAMBINI
Michele Cafaggi e Izumi Fujiwara
60/PAGINE
Le mani di Izumi
©Nicola Guida
Cari lettori, ci presentiamo: siamo lo Studio TA-DAA! Ovvero,
Michele – clown, mimo, regista di spettacoli teatrali – e Izumi
– pittrice, illustratrice e performer. Insieme ci occupiamo
principalmente di spettacoli e intrattenimento per bambini e
famiglie. Il nostro lavoro è svolto dal vivo a contatto con il
pubblico o con gli allievi dei laboratori.
Non siamo autori puri di libri per l’infanzia, in realtà ci
siamo entrati dalla porta secondaria, non è la nostra prima vocazione e guardiamo noi stessi
questo mondo con incanto e ammirazione.
61/PAGINE
Dediche dello Studio TA-DAA! sui frontespizi dei loro libri
MC
La nostra incursione nell’editoria per bambini nasce da un’esigenza, quella di portare
lo spettacolo teatrale fuori dal teatro e dargli nuova vita.
Avere un’urgenza è un buon modo per iniziare un progetto artistico. Qualsiasi genere
si affronti, che sia comico o drammatico, partire da un’esigenza interiore credo sia l’unico modo
per portare a termine un lavoro che comunichi emozioni. Intendiamoci, non sempre si deve
essere ispirati da grandi temi o missioni speciali. Soprattutto nel comico per bambini l’urgenza
è spesso una cosa più intima. E non è detto che lo spettacolo ne parli apertamente, ma fa
parte di quel bagaglio, di quel sotto-testo che dà spessore alle azioni e all’intensità di ciò che
appare in scena.
62/PAGINE
Chissà, forse un giorno
un bambino diventato
adulto pescherà
nel fondo di un cassetto
della sua memoria
un’immagine,
una frase di quel libro
e darà vita a qualcosa
di diverso ancora.
Lo spettacolo finisce, si accendono le luci e il pubblico esce dalla sala portandosi via
le proprie emozioni e la propria gioia, ma presto svaniranno, si tornerà alla vita di tutti i giorni
e rimarrà un ricordo sempre più sbiadito. Come fissare l’attimo? O piuttosto come dare uno
strumento creativo allo spettatore entusiasta? Un libro illustrato è stata la nostra risposta,
come si tiene un fuoco vivo soffiandoci sopra e aggiungendo nuovi pezzi di legno l’idea è
quella di alimentare il ricordo, ma non con un video, non con la replica esatta di ciò che è
stato. Con qualcosa di più. Ci interessa che il pubblico dia forma alla sua esperienza con
qualcosa di nuovo e che questo crei una catena di immagini che arricchisca il bagaglio personale
di ciascuno di noi.
Il primo libro, Il Mago delle Bolle, è nato così: ho chiesto a Izumi di disegnare ogni
scena dello spettacolo e lei è andata oltre la descrizione e ha inserito all’interno delle tavole
il suo mondo onirico dando vita ad un nuovo universo. In seguito abbiamo chiesto a Elisabetta
Jankovic di scrivere una storia ispirata alle immagini. Elisabetta non aveva ancora visto lo
spettacolo e quindi cambiando l’ordine temporale della sequenza originale, come in un gioco
ha dato vita ad una storia nuova e molto divertente. Chissà, forse un giorno un bambino diventato
adulto pescherà nel fondo di un cassetto della sua memoria un’immagine, una frase
di quel libro e darà vita a qualcosa di diverso ancora.
Il nostro secondo libro, Controvento, ha avuto una genesi differente, lo spettacolo a cui
è ispirato racconta una storia senza parole, una storia semplice, ma ricca di sotto-testi e interpretazioni,
quindi ne è nato il desiderio di mettere quelle parole in un breve racconto che
andasse a completare quello visivo.
Schizzi preparatori di Izumi
Ora stiamo lavorando ad un nuovo libro, questa volta non ispirato ad uno spettacolo.
Izumi ha ripreso la collaborazione con Elisabetta Jankovich, si stanno interrogando su come
spiegare la guerra ai bambini. Tema molto attuale e complesso. Elisabetta ha scritto un racconto
commovente e dolce e privo di retorica, Izumi sta preparando i bozzetti. Il lavoro è lungo
e si lavora in sinergia, correzioni e aggiustamenti sono all’ordine del giorno ma quando si lavora
in equipe è proprio questo il valore aggiunto. Avere la capacità e la fiducia di ascoltarsi
a vicenda dà ricchezza al prodotto finale.
Dai bambini impariamo lo stupore e la capacità di emozionarsi senza freni, rimango
sempre molto stupito da quanto sappiano recepire e reinterpretare a modo loro quello che gli
viene proposto. A volte i loro commenti sono sorprendenti e aggiungono nuove e interessanti
interpretazioni alla proposta originale.
64/PAGINE
I due libri pubblicati con
edizionicorsare
Schizzi preparatori di Izumi
Izumi e Michele
©Nicola Guida
IF
Dai bambini impariamo tante cose, in ogni momento ci fanno stupire perché loro non
hanno filtri, soprattutto fino alle scuole elementari.
Quando studiavo disegno al liceo nel 1994, ogni volta che dovevo cercare di realizzare
un nuovo progetto, cercavo sempre un’idea unica e il la migliore nel mondo, cercavo sempre
uno stile di disegno che non esisteva, almeno ci provavo.
Non avendo internet a casa, cercavo di confrontarmi con me stessa e cercavo dentro
di me un’illuminazione unica. Avevo 18 anni, il mio pittore preferito era Tadanori Yokoo: lui diceva
sempre “l’idea giusta arriva dal cielo alla mia testa, prima di dipingere vedo una luce”.
Come lui allora anche io cercavo sempre l’occasione di vedere questa luce.
66/PAGINE
天 上 大 風
Ma non sapevo come si faceva... Mi mettevo i tappi nelle orecchie e davanti alla scrivania,
guardavo la luce del lampadario senza chiudere gli occhi e quando si stancavano li
chiudevo forte, vedevo nel retro delle palpebre delle luci particolari, a volte gialle e a volte
verdi neon, cercavo di disegnare le forme delle luci che vedevo. Oppure schiacciando forte le
palpebre, vedevo luci e forme differenti. Ero convinta che il mio disegno fosse unico e il migliore
del mondo.
Se ci penso adesso, era davvero un comportamento estremo, ma quando ho conosciuto
il mondo dei bambini, mi sono stupita e riempita di gioia. Quando studiavo all’università,
per un certo periodo ho lavorato in una scuola materna per fare un laboratorio d’arte con i
bambini. All’epoca ero troppo giovane non avevo la maturità per stare coi piccoli, mi sembravano
alieni, ma conversando con loro, piano piano, mi sono lasciata catturare dalle cose assurde
e buffe che facevano e ho cominciato a scrivere le frasi surreali e poetiche che dicevano
liberamente.
Mi sono divertita tanto a stare coi bambini piccoli, mi hanno dato materiale per creare
il doppio di quello che sarei riuscita a fare da sola, grazie alla loro immaginazione pura.
Ho capito che anche io devo essere così quando disegno: non dimenticare mai di
emozionarmi in ogni momento, altrimenti non potrò mai disegnare una cosa che emozionerà
gli altri.
Sono passati tanti anni e ormai ho imparato a disegnare più serenamente, non mi
schiaccio più le palpebre tragicamente.
Prima di cominciare a disegnare, faccio tanti schizzi con le matite e poi decido la
quadratura del disegno e i colori. E poi sul cartoncino realizzo con colori a gouache. Se il disegno
è destinato alla stampa, allora lo scansiono e faccio un check con la tavola grafica e
pulisco il disegno e correggo i particolari digitalmente.
bollesapone.com
izumifuji.com
Nei risguardi del libro Controvento, abbiamo raccolto tante poesie e frasi che diversi
artisti hanno scritto sulla tematica del volo.
Per concentrarmi, ispirarmi e avere l’idea per gli schizzi, ho ascoltato tanto Lindbergh
di Ivano Fossati e ho letto Antoine de Saint-Exupèry per esempio. A Michele invece è piaciuto
“Si alza il vento” di Hayao Miyazaki, infatti ho disegnato sull’aereo dello spettacolo un aforisma
ricorrente nel film; 天 上 大 風 – Nel cielo soffia un vento forte.
67/PAGINE
L'A
BU
SI
VO
L’ABUSIVO
racconto estratto da
Io che non conosco la vergogna
Solidea Ruggiero,
Edicola Ediciones, 2013
Riccardo Antolini
Dead flowers, pastello
su carta, luglio 2022
—E cherpè non si svegliano?
—Perché stanno riposando. E si dice PERCHE’ ti ho detto!
—E cherpè stanno riposando?
—Perché sono stanchi.
—E quando si svegliano?
—Quando non sono più stanchi. Ora mamma e papà dormono,
va bene?
—E cherpè non ci possiamo restare a casa nostra? Io voglio mommire nella cameretta mia,
Timone!
—E perché, perché! E che palle! —Simone si alza con la testa penzoloni e le mani che sbracciano.
—Hai detto una rarolaccia!
—No, non ho detto una parolaccia.
—Sì! Timone hai detto una rarolaccia! E cherpè non possiamo portare Mia con noi?
—Perché no!
—Ma chi le dà da mangiare poi?
—Lasciamo le crocchette nel giardino t’ho detto!
—E no! Poi se li mangiano tutti gli altri mici Timone! Timone dove vai? E non mi lasciare da
solo! —e lo segue di corsa al parco davanti casa.
—E cherpè mamma e papà sono così stanchi? E’ da ieri che mommono! Io non ci voglio
mommire a casa di zia Tina!
—Pulisciti il naso e chiuditi la cerniera!
—Io non la so chiudere la zenniera Timone! E cherpè sei arrabbiato con me? Che t’ho fatto io?
—Non sono arrabbiato con te Teo.
—Non è vero!
—Sì invece! E non fare la lagna!
Teo si mette le manine in bocca e comincia a mangiarsi le unghie.
—T’ho detto di non metterti le mani in bocca! —e Teo scoppia a piangere, pieno di singhiozzi
e con la faccia che si arrossa. Simone se lo avvicina con forza e gli chiude la lampo, poi gli
afferra la mano e lo porta vicino allo scivolo.
69/PAGINE
—Dai, sali!
—No! Io ho palula dello sivolo! —e continua a singhiozzare.
—T’ho detto Sali! —e lo spinge.
—Ho palula! —allungando la a, ricomincia a piangere.
—Sali, ci sono io qui. Ci nascondiamo lì in cima, così la zia Tina non ci trova Teo e rimaniamo
qui a casa con Mia, va bene? —e Teo frena le lacrime, e ondula la testolina annuendo.
Avevano cambiato la legge da poco, quindi ora dall’obitorio il morto te lo potevi riportare a
casa per la veglia. Tina non fece in tempo a rientrare nella stanza di ospedale, quando l’infermiera
la bloccò, e le disse: Mi spiace signora!
Quello delle pompe funebri le si manifestò davanti all’improvviso dicendo: Le porgo le mie
condoglianze, noi siamo proprio qui sotto l’ospedale in via Mazzini, venga, così possiamo
parlare del funerale e tutto il resto, e se ci lascia i vestiti che ha scelto, appena fatto ve li
portiamo a casa. Ha già avvertito il parroco? Altrimenti se mi dice qual è la chiesa pensiamo
a tutto noi.
E le consegna il biglietto da visita. Tina si ritrova in una sottospecie di caveau, in mezzo ad
una serie di bare allineate e l’addetto che le illustrava legno di noce, intaglio con la Madonnina,
intaglio di Gesù, cuscinetti abbinabili, i lumini di San Giacomo, la corona dei fiori.
—Qual è la frase che ha scelto per le tombe?
—E i bambini dove sono? Giuseppe hai visto i bambini?
—No, forse sono qui fuori a giocare.
—Annalisa hai visto i bambini? —e si fa spazio tra le persone e il coro lamentoso del Secondo
Mistero Glorioso, annunciamo la tua morte o Signore.
— Timone?
—Eh, che c’è Teo?
—Ma cherpè ci sono tutte quelle persone a guardare mamma e papà che mommono?
—Perché sì Teo. E stai un po’ zitto che se no ci sentono e ci trovano!
Dall’alto dello scivolo, Simone vedeva il portone di casa aperto e la gente che continuava ad
arrivare, il signor Franco e Alberto, che fumavano davanti alla panchina sotto il balcone del
primo piano dei Rondelli. Faceva freddo, erano quasi le cinque, ma quel giorno di ottobre
sembrava già inverno. Simone era stanco, non era riuscito ad addormentarsi sul divano letto
che la zia Tina aveva preparato per loro, perché Teo continuava a incastrargli i piedini gelati
tra le gambe e, nel sonno, non faceva altro che mugugnare. Dentro la stanza c’era odore di
vecchio e di chiuso, la zia Tina era una pro-zia, ed era vecchia pure lei. Anche Simone non
voleva dormire lì; la zia Tina le stava antipatica, come a papà.
70/PAGINE
71/PAGINE
Riccardo Antolini
Serie Ma dimmi, dove
giocheranno i bambini?,
pastello su carta,
aprile 2021
—Timone ho freddo io! —e gli tira giù il cappuccio, coprendogli quasi tutta la faccia. Teo se lo
tira un poco all’indietro. Un tipo brutto, piccolo, con la pelata sulla testa e dei ciuffi di capelli
lunghi e unti che gli colano dal collo, si avvicina sotto lo scivolo. Simone lo guarda bene e
pensa: Ah si, quello lo chiamano lo zozzo.
—Siete i figli dei Marocchi vero? —Simone, con gli occhi brutti, gli fa solo cenno di sì con la
testa. Poi riconosce la macchina che sta parcheggiando, si alza, fa alzare anche Teo e comincia
a urlare— Zia Ale, zio Lele! —e mentre con la mano tiene i pantaloni di Teo, guarda fisso
in alto continuando.
—Zia Ale, siamo qui! —e giù, scalino dopo scalino, finché molla Teo e salta a terra andandogli
incontro e urlando ancora.
—Zia Ale!
E gli salta in braccio scoppiando a piangere. Teo gli va appresso, correndo tutto affannato e
goffo e con il naso che gli cola, arriva da Lele e come sente Simone comincia a piangere
anche lui.
Alessandra se lo stringe tutt’addosso, senza togliersi gli occhiali, accarezzandogli i capelli e
dicendogli all’orecchio.
—Schh, Simone stai tranquillo… Schh
E lo fa dondolare come se volesse addormentarlo. Lele pulisce il naso di Teo e gli dice:
—E Mia? E dov’è Mia Teo?
E lui subito sorride e gli indica:
—Là dento il giardino nostro, ma la zia Tina non me la fa portare —e scoppia a piangere di
nuovo. Così Alessandra fa scendere Simone che si aggrappa alle gambe di Lele e si prende
Teo in braccio.
—Amore di zia, te la faccio portare io Mia, e dormite a casa da me eh? Sei contento? Va bene?
E Teo e Simone:
—Sì!
Alessandra e Alessio erano i fratelli più piccoli di Maria Sole. Lele viveva a Torino, Alessandra
era a Bruxelles per lavoro il giorno prima. Riuscirono ad arrivare solo in quel momento. Stravolti,
consumati, cercavano di trattenersi davanti ai bambini. La zia Tina si avvicina indaffarata,
tutta di nero, con quei due peli agli angoli della bocca sempre in evidenza.
72/PAGINE
—E dove eravate nascosti, eh Simone? —con fare brusco e imperativo, mentre lui gira lo
sguardo.
—Zia, i bambini me li porto con me va bene?
Alessandra è nel suo cappotto scuro ed elegante, metà faccia nascosta dentro lo sciarpone
a trecce, mentre Lele la segue tenendo in braccio Teo con le manine in bocca; da sopra le
scale si vede la porta aperta del primo piano con un po’ di persone fuori che continuano a
recitare l’Eterno riposo, dona a loro, o Signore. Alessandra si toglie gli occhiali davanti a tutta
quella gente, in mezzo alla piccola sala le due bare sono quasi attaccate, un poster della
Madonna dietro fa da scenografia e di fronte vede i veli che nascondono i corpi, ma non si
avvicina. Si ferma qualche passo prima, mentre continuano a toccarla sulle spalle, le braccia,
ti devi fare coraggio, poveri bambini! E Teo che urla all’improvviso:
—Mamma, papà! Mamma! E cherpè non vi svegliate! —e Alessandra si butta verso Lele e le
braccia aperte di Teo.
La morte ha odore di chiuso, ha luci pacate, ha fiori che non profumano, ha gente che piange,
ha figli che restano, ha specchi che si coprono, ha riti che cantano, ha corpi immobili, ha
il sangue freddo; la morte ha porte aperte per chi vuole guardare, per chi vuole spiare, ha
urla di cacciaviti che girano a trivella, ha rimbombi di martelli che chiudono le casse. La
morte ha i silenzi della morte, ha un prete che dice sottovoce:
—Oggi ci siamo, domani no. Oggi ci siamo domani no —dondolando quell’affare con l’incenso
che sembra voglia scacciare qualcosa. La morte ha preghiere che non sapevi di ricordare,
ha un organo stonato, una chiesa che non conoscevi con i microfoni che fischiano, e le ginocchia
che si piegano assieme agli altri: prima tutti in piedi, poi tutti in ginocchio, prima
tutti dritti, poi tutti ad abbassare il capo. La morte ha un sermone da scrivere, ha parole inventate
da persone che non conosci. La morte ha le stesse parole che servono per tutti. La
morte ha tutto ciò che resta della vita.
Alessio rimaneva con le braccia incrociate. Alessandra non si alzava mai, seduta con Simone
nascosto nel suo braccio e Teo che gli dormiva sulle gambe. Alessio non rispondeva alle
preghiere. Neanche Alessandra rispondeva alle preghiere. Nessuno dei due andò a fare la
comunione. E dietro di loro i bisbigli:
—E adesso la casa? I Marocchi non l’avevano riscattata? E i bambini chi se li tiene? Dici
Alessandra? E il marito suo dov’è? Guarda quanto le assomiglia alla poveretta, vero? Ma lei
non ce l’ha i figli? Quella Tina, sicuro se li vuole tenere lei i bambini, così si prende la casa e
la dà al figlio disoccupato che vive ancora con lei!
73/PAGINE
74/PAGINE
Riccardo Antolini
Serie Ma dimmi,
dove giocheranno
i bambini?, pastello
su carta, aprile 2021
Lele si gira e le guarda infastidito. Corpo di Cristo: Amen.
—Io porto i bambini a casa, Lele, tu vagli a prendere qualcosa intanto.
Maria Sole e Paolo avevano avuto la case popolare tre anni prima. Non era un bel quartiere,
c’erano un sacco di rumeni e albanesi che vivevano lì.
Lele chiuse la macchina col clic sonoro delle chiavi. Erano le nove di sera. Dei cinque lampioni
a palla per la strada, solo due funzionavano. Quando attraversò, vide delle persone affacciarsi
dietro le tende illuminate, poi subito ritrarsi. Mise la chiave nel buco ma rimase
ferma, non girava. La tolse e la rimise, cercò di forzare, ma niente. Chiamò Tina.
—E certo che sono quelle! Io ho solo quel mazzo.
Riprovò un altro paio di volte. Niente. Cercò di rimanere immobile per capire se sentiva rumori.
Bussò, poi diede un paio di colpi più forte. Ma, a chi bussava? Non poteva esserci
nessuno.
Mentre scendeva le scale Alessandra al telefono.
—Lele, come non ti funziona la chiave?
Rimase qualche secondo davanti alla palazzina e nuovamente vide qualche ombra che spiava
dietro le tende. Da davanti, le finestre dell’appartamento di Maria Sole non si vedevano,
così si strinse la sciarpa e girò dall’altra parte, dov’erano i campi. C’era una puzza di piscio di
gatto fortissima, un cerchione abbandonato e una fila di sacchi d’immondizia sotto una scarpata
ma, mentre continuava ad avanzare in mezzo alle fratte, vide, per una frazione di secondo,
dalla finestra di Maria Sole una sagoma, di un vecchio forse, in penombra, aprire e chiudere
la tenda.
—L’avevamo detto a Tina che doveva cambiare la serratura, che non è la prima volta qua che
ti entrano in casa! Due anni fa successe pure ai Bisacchi, quando andarono in vacanza, te lo
ricordi Albè? I carabinieri hai voglia a bussare. E guarda quel poveretto lì fuori. Ora chi lo
caccia a quell’altro delinquente dello zozzo; figurati, quello non esce più! L’avevo visto che
stava di punta tutto il giorno, e ha avuto anche la faccia tosta di venire alla veglia, sarà venuto
a vedere com’era la casa sicuro!
E Lele si spaventa mentre sente qualcosa che gli si accosta alla caviglia, fa per alzare il
piede e vede Mia che inizia a miagolare.
75/PAGINE
L’importanza di un
giornalismo in
costante colloquio
con il suo giovane
pubblico, con uno
stile che da subito si
smarca ed emancipa
dalle strettoie
ottocentesche per
mettersi in ascolto
di ogni spunto legato
alla modernità.
Alcune pubblicazioni
curate da Paola
Pallottino tra
cataloghi e
monografiche,
compreso un numero
del Giornalino della
domenica di Bertelli
(Vamba) del 1922.
Collage#1
76/PAGINE/note
©Giorgia Berardinelli
77/PAGINE/note
Collage#1
78/PAGINE/note
©Giorgia Berardinelli
L’irripetibile stagione de Il Giornalino della
Domenica, catalogo della mostra, a cura di Paola
Pallottino - Bononia University Press, 2008
Bonaventura. I Casi e le
fortuna di un eroe gentile,
catalogo della mostra a cura
di Hamelin Associazione
Culturale, edizioni Orecchio
Acerbo, Roma, 2007
Guida alla mostra
“L’irripetibile stagione
de Il Giornalino della
Domenicaˮ, Bologna,
2008
In Famiglia,
Luigi Ambrosini,
Bibliotechina
dei Fanciulli,
edizioni
G.B. Paravia & C.
Torino-Milano-
Firenze, Anno
XXI, n. 74, 1920
Cento Anni di
Illustratori - La Matita
di zucchero di
Antonio Rubino,
a cura di Paola
Pallottino
con introduzione
di Bernardino
Zapponi e
conversazione
con Federico Fellini,
Cappelli Editore,
1978
Il Giornalino
della Domenica,
fondato da
Vamba e diretto
da Giuseppe
Fanciulli,
Anno X, n.24,
1922
Collage#2
La nuova illustrazione
per bambini legata
con un nastro ai grandi
maestri come
Arthur Rackham
e ispirata ai colori più
sublimi delle
avanguardie storiche.
Le fiabe di sempre
sospese sul limite
della crescita e i
romanzi contemporanei
che in fondo
affrontano lo stesso
imprescindibile tema.
Tanti disegni di
Andy Warhol da colorare
e le magiche edizioni
Gribaudo che sognano
un’infanzia ancora
semplice e purissima.
81/PAGINE/note
Collage#2
Viaggio su una nuvola,
Véronique Massenot,
con illustrazioni di Elise Mansot
(ispirato a Chagall)
+
La Torre Eiffel all’attacco,
Christine Beigel,
con illustrazioni di Elise Mansot
(ispirato a Delaunay)
Le vergini suicide,
Jeffrey Eugenides
Il libro
dei bambini,
Antonia
E. Byatt
Album da colorare/
A coloring book,
Disegni
di Andy Warhol
(adattamento di
Thames & Hudson/
Gallucci ed.
dell’album The
wonderful world
of Fleming-Joffe
di A. Worhol)
Peter Pan,
J.M. Barrie,
con
illustrazioni
di Arthur
Rackham
Eiapopeia. L’infanzia
nell’opera di Paul Klee,
a cura di Alberto Fiz
Alice nel paese
delle meraviglie,
L.Carroll,
con illustrazioni
di A. D’Agostini
L’albero magico,
Christie Matheson
(ed. Gribaudo)
Una cascata di petali,
Wendy Meddour,
con illustrazioni
di Daniel Egneus
83/PAGINE
Collage#3
Le camere dei bambini sono
disordine, colore, follia
psichedelica. Sono viaggi
interstellari che non
invecchiano mai. Sono
immersioni nelle
meraviglie del bosco,
dell’orto sotto casa o della
savana. Nelle camerette ci
si può trasformare in
fiammanti supereroi, ma
anche in illustri scienziati,
oppure si può montare un
robot pezzo per pezzo per
poi prendersene cura. Si
fanno incontri letterari con
altri bambini di altri
mondi, ci si aggiorna su
cosa accade ogni mese nel
pianeta terra, si progettano
viaggi nelle capitali
d’Europa. Crescere è il
mestiere dei mestieri, un
incessante moto perpetuo.
84/PAGINE/note
85/PAGINE/note
Collage#3
86/PAGINE/note
Fanny & Darko.
Il mestiere
di crescere,
Stefano Benni e
Carlo Roberti,
Mazzotta
editore
Il super libro
per supereroi,
Jason Ford
Robots,
spaceships
and other
tin toys,
Teruhisa
Kitahara,
Taschen
Inventario
illustrato
della natura,
Emmanuelle
Tchoukriel,
Virginie
Aladjidi
Storia di
Primavera,
collana
Boscodirovo,
Jill Barklem
Ada Twist.
Tutte le risposte
vengono al
pettine. Gli
ingegnosissimi,
volume 1,
Andrea Beaty
Dalla Terra
alla Luna,
Jules Verne
La storia
infinita,
Michael
Ende
Internazionale
Kids, mensile
per bambine
e bambini
Berlino,
Tomáš Řízek,
collana
bohem press
87/PAGINE/note
Verso Klee
un occhio vede,
l’altro sente
Marta Silenzi
Esiste una compagnia di ricerca e
sperimentazione teatrale che, come
facciamo anche noi qui a Stanze,
insegue l’ideale di una sinergia tra i
linguaggi espressivi e gioca con musica,
performance, installazioni e video
dando vita a produzioni teatrali per
adulti e per bambini.
Si chiama Tam Teatromusica.
Gli spettacoli hanno coinvolto nel tempo
i detenuti del carcere di Padova,
l’officina delle arti sceniche Oikos
nell’attività pedagogica, il Teatro
Maddalene, un antico monastero
padovano convertito in spazio scenico
versatile, e si sono distinti nel
complesso per un artigianato
tecnologico dal forte impatto visionario
e comunicativo.
Una delle più recenti linee di ricerca
della compagnia è quella che tenta di
avvicinare gli spettatori più giovani
(dai 6 anni in su) all’arte, puntando
l’attenzione sulle figure del ‘900 che più
hanno sperimentato nuovi linguaggi
nelle arti visive, provando a tradurre la
pittura in teatro.
Terzo movimento di una trilogia – dopo
Anima blu dedicato a Chagall e Picablo
dedicato a Picasso – nasce Verso Klee,
un occhio vede, l’altro sente, spettacolo
di figura e videoproiezioni fortemente
ispirato ai burattini di Paul Klee (di cui
vi abbiamo parlato a pagina 26 di
questo numero).
La produzione non intende essere un
omaggio all’artista svizzero ma la
messa in scena di un incontro ideale tra
la poetica di Klee e quella di Tam, tra la
sua ricerca pittorica e la loro ricerca
scenica: “Punti d’incontro li abbiamo
trovati nella comune propensione alla
sperimentazione come luogo di sintesi
tra il vedere e il sentire, nell’attitudine
compositiva antinarrativa, nella
passione per musica e poesia, nel tratto
ludico e nello sguardo infantile con cui
guardare la vita anche quando non si è
più bambini. Per prepararci a questo
incontro, che avverrà sulla scena,
abbiamo attinto ai suoi diari e agli
appunti per le lezioni al Bauhaus,
abbiamo osservato la collezione dei
burattini al Museo di Berna e la maggior
parte delle opere pittoriche, ci siamo
soffermati sui titoli particolarissimi che
le accompagnano e abbiamo sondato
con pudore e curiosità la sua vita
privata piena di gatti, viaggi, amicizie,
affetti e conflitti famigliari.
Sulla scena tutto ciò che abbiamo potuto
ricostruire o immaginare di Klee lo
abbiamo messo in relazione con la
nostra poetica e, alla luce della
trentennale esperienza di teatro per
l’infanzia, ne abbiamo ricavato una
sintesi scenica che esprime la
88/PAlchI/note
profondità nella superficie, là dove
l’invenzione trova la sua più leggera
espressione”.
Lo spettacolo si rivolge ai più piccoli ma
con l’intenzione di far rivivere visioni
ed emozioni proprie del bambino anche
all’adulto, esattamente sulla scia della
ricerca di Paul Klee: “Il pensiero magico
nella mente di un bambino è
sviluppatissimo, possiamo dire che la
occupa totalmente. Nell’adulto esso
esiste ancora ma si trova a convivere
con il pensiero razionale. Il teatro di
Tam lavora sulla soglia tra i due.” – dice
l’autrice della scrittura Pierangela
Allegro – “Anche per questo non
abbiamo mai pensato al teatro per
l’infanzia come a un genere, piuttosto
come a un orizzonte poetico. E abbiamo
preteso che i nostri lavori per la scena
potessero essere apprezzati da tutto il
pubblico senza distinzioni (così come
senza distinzioni di genere è il nostro
teatro). Ogni singolo spettatore di
fronte a una nostra opera è autore
della propria visone. Vede, ascolta,
si emoziona, capisce, si annoia, si
diverte in relazione alla sua età,
all’esperienza culturale, alla sensibilità.
Compresa e non ultima, la disponibilità
a ricevere, interrogarsi, mutare la
propria visione. Il nostro spettatore
ideale è curioso, non è prevenuto, è
pronto a stupirsi, libero dalla necessità
di voler capire tutto e subito, disposto
semmai al ripensamento. Un bambino
è così naturalmente, spontaneamente.
A un adulto si regala la possibilità
di far rivivere la propria infanzia,
a teatro.”
Una compagnia
di ricerca e
sperimentazione
teatrale che
insegue l’ideale
di una sinergia
tra i linguaggi
espressivi
89/PAlchi/note
Tra spunti di diari e titolazioni di quadri
e disegni, riproduzione dei burattini in
forma di maschere da indossare e
creazione di scenari dall’impronta
bauhaus in continua trasformazione,
l’opera è affidata principalmente al
Signor Oscar, un clown dalle grandi
orecchie, e al Signor Klee, entrambi
presenti nel gruppo di trenta burattini
realizzati da Klee per il figlio Felix tra
1916 e 1925, il primo caricatura di
Oscar Schlemmer, collega di Paul Klee
al Bauhaus, e il secondo autoritratto
dell’artista.
I performer in scena, testa di burattino
e corpo di uomo, lavorano anche sulle
diverse attitudini dei due caratteri,
sull’andatura, la gesticolazione,
il timbro vocale, per rendere i tratti
più esuberanti di Oscar e quelli più
poetici di Paul, regalando spessore
ai personaggi e volumetria agli scambi.
I teatrini col sipario rosso, le maschere
cenciose, l’eroico suonatore di violino,
i colori magici e le forme fiabesche
del pittore proiettati sugli apparati
effimeri, ogni cosa si aggira nella
terra di mezzo che è l’arte di Klee,
dove tutto avviene per sensazioni tattili
e fruscii, ritmo e suono, quiete e azione,
nella continua trasformazione di
un elemento nell’altro, alla guida di un
gioco in cui un occhio vede e l’altro
sente.
90
Ideazione
Pierangela Allegro, Michele Sambin
Scrittura
Pierangela Allegro con
Flavia Bussolotto,
Alessandro Martinello
Collaborazione artistica
Alvise di Rienzo Pavanini
(voce del bambino)
Composizione
ed esecuzione musiche
Michele Sambin
Video animazione
Raffaella Rivi, Alessandro Martinello
Scene
Pierangela Allegro, Michele Sambin
(maschere e oggetti)
Fotografie
Claudia Fabris
e Fabio Montecchio
Direzione
Michele Sambin
Produzione
Tam Teatromusica
Contributi
consulenza storiografica Cristina
Grazioli, con la collaborazione
di Comitato Mura di Padova,
Bel-vedere/progetto partecipato
tra artisti-operatori-cittadini a cura
di Echidna Associazione Culturale
e Comune di Mirano, Associazione
Nuova Scena di Piove di Sacco
tutte le info su
www.tamteatromusica.it
91/PAlchi/note
SPACESHIP
Francesco Chiatante
SAGITTARIUS.
L’INCREDIBILE
STORIA
DI ANDREA
ROMOLI
92/VISIONI
Andrea Romoli nel suo
studio
Andrea Romoli
e Francesco Chiatante
(Firenze, 2018)
Tempo fa, di tanto in tanto, tornavo a farmi domande su una vicenda
di cui avevo letto in un breve paragrafo di un libro fondamentale
per la formazione, la comprensione e la riorganizzazione
della mia fantasia alla fine della mia infanzia. In questo
libro, e parliamo di un prodotto pre-internet, si prendeva in
analisi, probabilmente per la prima volta nella storia in lingua
occidentale (tra l’altro in italiano), l’intera produzione a disegni
animati del Giappone, dai suoi albori fino al 1988 catalogando e schedando, prodotto per
prodotto, film cinematografici, OAV, special e serie TV. Il libro in questione era il mitico Anime
– Guida al cinema d’animazione giapponese, pubblicato dalla compianta e pionieristica Granata
Press nel 1991 e firmato da Andrea Baricordi, Massimiliano De Giovanni, Andrea Pietroni,
Barbara Rossi e Sabrina Tunesi (all’epoca i Kappa Boys ed oggi, quatto su cinque, Kappalab)
e vantava, oltre l’incredibile quantità di informazioni contenute, la prefazione di Go Nagai
(mangaka originale, papà di personaggi iconici come Mazinga Z, Goldrake e Jeeg Robot) e che
a partire dall’anno scorso è stato ripreso in mano, proprio da Kappalab, ampliato e ripubblicato
in una serie a volumi che ripercorreranno in maniera approfondita tutta la storia degli
anime giapponesi. Tra le oltre 1.200 schede presenti nel tomo enciclopedico originale ce n’era
una che mi aveva sempre colpito nel profondo perché parlava di una serie animata tratta da
un fumetto italiano e che prima di allora non avevo mai sentito nominare: Toppe, Giraffo e Rana.
Per un ragazzino come me leggere che i giapponesi, a metà anni ‘80, avevano tratto
una serie anime da un fumetto italiano dell’epoca fu a dir poco fantastico; inoltre in questa
breve scheda veniva nominato anche il suo autore, Andrea Romoli, ma purtroppo anche il suo
nome non mi diceva molto.
93/VISIONI
Il tempo passava, passavano gli anni e neanche pochi ed io, che non avevo mai davvero
dimenticato quella storia (tra l’altro me l’ero anche ritrovata nella miriade di appunti
durante il lavoro di ricerca che svolsi per il film documentario Animeland – Racconti tra manga,
anime e cosplay), sono incappato ancora una volta nei nomi legati a quest’opera, che di
tanto in tanto ritornavano a galla nelle mie ricerche.
E cioè dove? Ecco, qui sta la cosa incredibile: il nome dell’autore e dei personaggi di
questi fumetti e di questo anime li ho ritrovati su siti, database, forum e social-network del Sol
Levante, rigorosamente in lingua giapponese, o comunque in altre lingue, e quasi mai su
canali italiani.
Questo perché, per quanto possa sembrare assurdo, Andrea Romoli è un autore famoso
e ricercato nel mondo delle serie anime giapponesi degli anni ‘80 e non solo, ma quasi
totalmente sconosciuto nel nostro paese.
Dopo ulteriori ricerche, ho finalmente avuto la fortuna di imbattermi in un forum di suoi
fan giapponesi, con incursioni di appassionati provenienti da mezzo mondo, ed infine anche
Toppe, Giraffo e Rana
erano originariamente
tre pupazzi di pezza
che Romoli aveva
davvero da bambino
Avventura su Efesto,
1977
primo fumetto con
Toppe, Giraffo e Rana
in lui e, a quel punto, dopo una serie di scambi di
idee virtuali, non ho più saputo resistere ad incontrarlo
di persona per farmi finalmente raccontare
tutta la sua storia.
Nato a Firenze il 3 Dicembre del 1944, figlio
d’arte (il padre fu l’artista Mario Romoli, anch’egli
fiorentino, pittore e scultore attivo su più fronti e figura
di una certa fama nella Toscana del Novecento),
grande amante di fantascienza, Andrea Romoli
ha svolto per oltre trent’anni il lavoro di fisico (ai
vertici della progettazione ottica per applicazioni
spaziali della Galileo) collezionando riconoscimenti che lo hanno portato alla notorietà internazionale
in questi ambiti, nonostante ciò continuando sempre e comunque a disegnare e
raccontare, nel tempo a disposizione, le sue storie di fantasia a fumetti.
Nel 1977 completava e pubblicava Avventura su Efesto, la primissima avventura a fumetti
completa dove per la prima volta in assoluto apparivano protagonisti il comandante
Toppe, il primo pilota Giraffo e il biologo Rana.
I personaggi della storia, provenienti direttamente dall’infanzia dell’autore (Toppe, Giraffo
e Rana erano originariamente tre pupazzi di pezza che Romoli aveva davvero da bambino),
sono animali antropomorfi egregiamente stilizzati che, in diverse avventure, viaggiano
nello spazio da una stella all’altra in un “antiuniverso”, incontrando creature fantastiche, sorprese
e misteri in ogni dove.
A questa prima ed oramai introvabile storia pubblicata all’epoca dalla casa editrice
Nerbini di Firenze, seguirono, in quegli anni e con gli stessi personaggi, ben altri quattro volumi
della serie Altri Mondi (così battezzata dallo stesso Romoli a partire dalla seconda storia)
94/VISIONI
Studi per l’animazione
giapponese
Archivi Nippon
Animation
Tavole originali
di Andrea Romoli
dai titoli Fuga su Issar, Il demone di Azul, Crab nebula e L’ultima fortezza, pubblicati da Zanfi
Editori e, negli ultimi anni un quinto, Lo specchio dei mondi (Youcanprint Self-Publishing, 2016),
ed un sesto, il recente Kthalon Porta Inferi (La città delle Nuvole, 2022).
Nel marzo del 1979 Fuga su Issar fu presentato alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna,
e il primo giorno della manifestazione, alle ore 9 del mattino, un signore giapponese,
prese una copia del volume, ringraziò e se ne andò: si trattava del direttore artistico della
Nippon Animation di Tokyo.
Una settimana dopo la Nippon Animation chiese all’editore un’opzione per una serie
animata per la TV e ad inizio del 1981 Andrea Romoli fu invitato in Giappone per visionare
l’entusiasmante episodio pilota (della durata di circa 6 minuti) della serie che i giapponesi
volevano realizzare.
Per qualche anno Romoli non ebbe notizie della possibilità di fare un anime dai suoi
fumetti finché nel 1988 tornò alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna e, proprio quando
stava per andar via dall’evento con in mano una copia di Fuga su Issar, fu fermato dai giovanissimi
Kappa Boys (che in quel periodo stavano iniziando a lavorare per importare ufficialmente
i primi manga in Italia) che chiesero a Romoli dove avesse trovato quel libro a fumetti.
Lui disse che ne era l’autore e loro risposero chiedendogli se allora lui fosse l’ideatore della
serie Uchusen Sagittarius (nome internazionale: Spaceship Sagittarius).
Solo in quel momento Andrea Romoli scoprì che le avventure spaziali di Toppe, Giraffo,
96/VISIONI
Rana e il resto della Corazzata Spaziale Sagittarius (sagittario è anche il segno zodiacale di
Romoli) erano state trasposte in una serie animata prodotta dalla Nippon Animation e andata
in onda nelle TV giapponesi tra gennaio del 1986 e ottobre del 1987 e che il suo editore aveva
fatto fare tutto questo a sua insaputa.
La serie, ampliata e talvolta anche cambiata in alcuni frangenti rispetto all’idea originale,
ottenne grande successo in Giappone, tanto da portare la Nippon Animation a realizzare
ben 77 episodi (di mezz’ora l’uno), libri e fumetti inediti (manga e anime comics), dischi,
modellini, pupazzetti, gadget vari e persino un romanzo ufficiale in lingua giapponese.
Inoltre il successo in quegli anni era stato tale che spesso la serie di Andrea Romoli
(talvolta erroneamente traslitterato dalla lingua giapponese in Andrea Lomori) veniva affiancata
in copertine di libri, dischi e riviste a personaggi di serie come Dragonball o I Cavalieri
dello Zodiaco, conquistando anche nel maggio del 1987 la copertina del numero 107 di Animage,
la principale rivista di animazione del mercato giapponese.
Sbirciando nello staff tecnico e artistico di questa serie animata troviamo il regista e
storyboard artist Katzuyoshi Yokota (che aveva lavorato, sotto diversi ruoli, anche a prodotti
come Heidi, Anna dai capelli rossi, Flo, La piccola Robinson, Tom Story e Madmoiselle Anne), lo
sceneggiatore Nobuyuki Isshiki (anche autore di film, telefilm, manga e romanzi), i character
designer Sadahiko Sadamaki (animatore in Lupin III, Tom Story, Cristoforo Colombo, Il libro
della giungla e Akira), Shuichi Seki (animatore in Belle e Sebastien, Tom Story, Lucy May, Nel
97/VISIONI
Fuga da Issar (prima edizione)
seconda avventura con Toppe,
Giraffo e Rana
Kathlon Porta Inferi, 2022
ultima avventura di Toppe,
Giraffo e Rana
Il potere nascosto, 2022
libro fantasy di Andrea Romoli
Spaceship Sagittarius,
box blu-ray giapponese
Spaceship Sagittarius, 45 giri
originale giapponese con le sigle
cantate da Hironobu Kageyama, 1986
A destra
tavola originale di Andrea Romoli
98/VISIONI
100/VISIONI
Tavole originali di Andrea Romoli:
Toppe, Giraffo e Rana nella palude,
2022
La città galleggiante, 1984
regno di Oz e Papà Gambalunga) e Noburu Takano (animatore in Rensie la strega, Nausicaa
della Valle del Vento, La tomba delle lucciole, Naruto e La città incantata), il direttore artistico
Taizaburo Abe (Babil Junior, Là sui monti con Annette, Tom Story e Conan il ragazzo del futuro)
e le musiche originali di Haruki Mino (che aveva lavorato anche alle musiche in Un regno
magico per Sally, Inuyasha, La ragazza che saltava nel tempo e Metropolis).
A completare al meglio il tutto troviamo le due sigle della serie: la grintosa Stardust
Boys, in testa, e la romantica Yume Konen, in coda, entrambe interpretate da Hironobu Kageyama
(popolare cantante del mondo degli anime giapponesi che interpretò, tra le tante,
sigle come Cha-La Head Cha-La e We Gotta Power di Dragon Ball Z, Soldier Dream da I Cavalieri
dello Zodiaco, e ancora le sigle per Kyashan - Il mito e il tema del videogame Dragon Ball
GT – Final Bout).
La serie fu distribuita in molti Paesi europei e non ma, incredibilmente, non arrivò mai
in Italia. Di certo la causa che fece Andrea Romoli – che gli permise di recuperare i diritti
dall’editore e di ottenere un risarcimento ed un nuovo contratto dalla Nippon Animation – avrà
fermato per un po' la distribuzione della serie e reso impossibile la sua diffusione per qualche
anno ma questo non toglie che per motivi ignoti, anche in tempi più recenti, la serie Spaceship
Sagittarius non è mai stata visibile attraverso nessuna via in lingua italiana e quasi nessuno,
da noi, ha la più pallida idea di cosa ci siamo persi.
Ad oggi, anche a distanza di tanti anni, in Giappone si continuano a produrre merchandising
e gadget legati a questa serie, attualmente disponibile in DVD e blu-ray con box da
collezione, solitamente venduti a cifre da capogiro sui siti di e-commerce nipponici.
Ci auguriamo solo che, prima o poi, qualche azienda nostrana decida di importare ufficialmente
quest’opera così acclamata in Giappone e ideata dall’italiano che loro chiamano Andrea
Romoli Sensei (‘maestro’ in lingua giapponese).
In aggiunta a tutto questo ho preso in prima persona a lavorare alla realizzazione di
un film documentario sulla vita e l’arte di Andrea Romoli e chissà che un giorno non si riesca
a riportarlo anche in Giappone ad abbracciare i suoi tanti fan, magari con una bella mostra
con le sue opere, la volontà da parte mia e del maestro c’è tutta!
andrearomoli.it
101/VISIONI
Artificial Kids
Luca Morandi
102/VISIONI/note
Fotografare i bambini, di questi tempi,
è un’attività rischiosa. Finché sei lì
che col tuo iPhone riprendi i tuoi figli
che fanno cose bambinose tutto bene,
ma già altre mamme o papà sono pronti
a riprenderti se posti quegli scatti o quei
video sui social senza appiccicare sul
viso del pargolo un cuoricino, un emoji,
una pixelatura quasi come fossero
dei piccoli pregiudicati – che cosa triste,
in che mondo viviamo signora mia.
E allora, sai che c’è? Devo mostrare dei
bambini, in questo numero di Stanze?
Di bambini miei non ne ho, di
disegnarne non c’ho voglia – e
comunque dovrei ispirarmi a dei
bambini veri, di qualcun altro e la cosa
potrebbe pure non andargli a genio
e allora mi collego a MidJourney
e gli dico chiaro e tondo cosa mi serve.
Esseri umani fatti così, alti cosà,
pressappoco a questo stadio di sviluppo.
Vestiti con questo, illuminati da questa
luce, con questo sfondo, eccetera
eccetera.
103/VISIONI/note
Artificial Kids, 2023.
Serie di disegni creati da Luca Morandi
per Stanze, con la collaborazione dell’AI.
Perché le AI sono così: gli devi dire tutto
per filo e per segno, sennò fanno di testa
loro. E con i bambini, è meglio non
rischiare. Anche se sono
completamente artificiali, come questi.
Così belli che sembrano veri. Così belli
che paiono finti.
Così come li ho immaginati io, così
come li ha assemblati la mia AI.
Nessuno mi può dire niente.
Nessuno può reclamare diritti
sull’immagine dei loro pargoli. Questi
bambini non sono mai nati – non hanno
un nome, un indirizzo, un futuro.
Vi ricordano qualcuno? Fatti vostri.
Sono belli, innocenti, perfetti.
Proprio come dei bambini veri.
Anzi, sono meglio: non dovete
accompagnarli a scuola, comperargli
l’apparecchio per i denti, difenderli
dal bullismo, nascondergli le chiavi
della macchina.
Certo, perdono su tanti altri fronti:
ma, io, che di bambini non ne ho, cosa
volete che ne sappia. Ho questi per voi.
Per stavolta, fateveli bastare.
105/VISIONI/note
Ancora...
E poi basta!
Filastrocche
e cantilene dei
nostri nonni
a cura di Enrica Massidda
Ancora... E poi basta!
Edito da XEDIZIONI.IT nel 2020, è
una rivisitazione della famosa raccolta
di versi di Lina Schwarz, poetessa e
traduttrice veronese (1876 – 1947).
Pubblicato per la prima volta nel
1920, questo libro per bambini è stato
forse il maggior successo letterario
dell’autrice, tanto che a un secolo di
distanza alcune poesie e filastrocche
si ritrovano ancora nei libri di lettura,
e molti dei nonni di oggi ne ricordano
parecchie a memoria.
Anche se il mondo non è più quello
descritto in questi versi, siamo certi
che tanti bambini sono ancora in grado
di apprezzarne la dolcezza e l’ironia.
Lasciando intatta la disposizione
originale delle poesie e dei capitoli,
XEDIZIONI ripresenta la raccolta
corredata da una serie di illustrazioni
di Enrica Massidda, che ha curato
anche la grafica e l’impaginazione.
Qui un coloratissimo assaggio di testi e
immagini.
106/VISIONI/note
A CH
E TU?
NINO RACCOGLIE PIETRE E NANNA FIORI.
QUESTI HAN PROFUMI E VIVIDI COLORI,
QUELLE HAN BAGLIORI FULGIDI DI SOLE.
TU CHE RACCOGLI, O PICCOLO? – «PAROLE.
LE AFFERRO A VOLO, LE TRATTENGO,
ASCOLTO...
COME NELLA CONCHIGLIA È IL MAR SEPOLTO,
OGNI PAROLA
HA UN SUO NASCOSTO MONDO,
ED IN QUEL MONDO
SENZA FIN M’AFFONDO». –
NINO SARÀ, DA GRANDE, UN COSTRUTTORE.
NANNA FARÀ LA MAMMA CON AMORE.
E TU, PICCOLO, ALLOR, NELLA SEGRETA
DIMORA CHE SARAI? «SARÒ POETA».
V
TR
L
MON
LA
MA
M
«SÌ
MIST
MA OG
HA
GUA
LEVA
S
131
107/VISIONI/note
SANGUE!
«SANGUE!» GRIDA PIERINO SPAVENTATO.
«SANGUE!» MARIA RIPETE CON TERROR.
PIERO, GIOCANDO, UN DITO S’È BUCATO
E UNA GÒCCIOLA ROSSA N’ESCE FUOR.
COL FAZZOLETTO LA PICCINA LESTA
FASCIA IL POVERO DITO COME PUÒ;
MA PIERO IN GRAN PENSIER SCOTE LA TESTA:
«CHE DICI, TU? CREDI CHE MORIRÒ?»
15
QUEL CHE POSSIEDE UN BIMBO
U
DUE PIEDI LESTI LESTI
PER CORRERE E SALTARE;
DUE MANI SEMPRE IN MOTO
PER PRENDERE E PER FARE;
LA BOCCA CHIACCHIERINA
PER TUTTO DOMANDARE;
DUE ORECCHI SEMPRE ALL’ERTA
INTENTI AD ASCOLTARE;
E UN CUORICINO BUONO
PER MOLTO, MOLTO AMARE.
—
—
IO
—
—
—
—
108/VISIONI/note
87
IO CHI SONO?
IO CHI SONO? IO SONO GIANNI,
HO COMPIUTO GIÀ I CINQU’ANNI,
NON DISTINGUO L’I DALL’O,
MA PIÙ TARDI IMPARERÒ
TANTO A LEGGERE CHE A SCRIVERE...
E PER ORA IMPARO A VIVERE.
IO RESPIRO E I MIEI POLMONI
SO GONFIAR COME PALLONI;
SENZA SMORFIE MANGIO E BEVO,
VOLENTIER FO QUEL CHE DEVO.
TUTTO IL GIORNO FACCIO IL CHIASSO,
CRESCO SANO, FORTE E GRASSO.
DESTO APPENA SPUNTA IL GIORNO,
ME NE VO GIRANDO ATTORNO,
OSSERVANDO I MIEI TESORI,
SASSI E PIANTE, BESTIE E FIORI;
TUTTO ANCORA HO DA ESPLORARE,
TUTTO ANCORA DA IMPARARE.
ANCHE A LEGGERE ED A SCRIVERE...
MA PER ORA IMPARO A VIVERE.
L’ACQUA FRESCA E L’ARIA PURA
NON MI FANNO MAI PAURA;
81
109/VISIONI/note
xedizioni.it
110/VISIONI/note
E
U
Il segno grafico
di Enrica Massidda
al servizio della
poesia senza tempo
di Lina Schwarz
O
A
111/VISIONI/note
Dialogo lungo
la via del cuore
e della mente
Paola Ranzini Pallavicini incontra Marco Gamuzza, Maestro di Kung Fu
©Marco Gamuzza
Nel numero scorso, dedicato al CORPO, è stato appassionante
dedicarsi ad intervistare un’insegnante di yoga. Proseguiamo
la nostra indagine nel mondo delle discipline antiche che
curano la fioritura di corpo e anima puntando però i riflettori
sul tema dei bambini. Frequentare una scuola di Kung Fu
rappresenta una risorsa preziosissima di stimoli per tutti i
giovani, e giovanissimi, che vogliono imparare a conoscere
il proprio fisico e a starci bene dentro, e con questa disciplina dalle nobili radici ci si rende
conto poco per volta che alcune doti invisibili e profonde vengono a galla e la nostra percezione
del mondo ad ogni lezione cambia e si affina. Del mondo attorno a noi - i compagni, lo
spazio tangibile che abitiamo - e di quello al nostro interno. In questo senso c’è una vicinanza
di intenti e di atmosfere con lo yoga. Ma il Kung Fu è davvero molto più adatto ai piccoli. È
difesa, è rispetto per l’altro e per se stessi, è disciplina amorevole ed è un viaggio spirituale
che accompagna la crescita.
Marco Gamuzza pratica arti marziali dall’età di sei anni, e lo studio per lui non si è mai
interrotto. È maestro di Kung Fu e di Thai Chi. Dopo lunghi anni di pratica decide di diventare
educatore e affina le sue doti di insegnante con master e certificazioni sempre più approfondite,
fino ad arrivare a diplomarsi come Dirigente di Comunità. Nel contempo i suoi Duan (il
sistema di gradi di apprendimento e di cinture) crescono sotto la guida del Gran Maestro Yang
Lin Sheng, di cui è discepolo testamentario. Durante la cerimonia del Baishi, nel 2017, diviene
parte del lignaggio ufficiale della Scuola del Gran Maestro e da allora il suo scopo è custodire
e tramandare la cultura marziale e gli insegnamenti di chi lo ha preceduto.
Il suo obiettivo è quello di “divulgare il Kung Fu Tradizionale nella sua essenza più pura”,
e la parte di giornata che dedica ai bambini risponde forse più di ogni altro momento alla sua
necessità di far partecipare gli altri alla gioia che ha provato negli anni di studio; il suo entusiasmo
è davvero tangibile, sotto un primo strato di calma e pacatezza.
È questo entusiasmo che ci ha spinto a coinvolgerlo nel momento in cui abbiamo
deciso di sbirciare nel mondo dei bambini che frequentiamo, e di indagare i bambini nascosti
dentro i nostri corpi adulti: percepiamo da profani che si tratta di merce preziosa, che
non termina e finisce con l’apprendimento di posizioni coreografiche o di un metodo efficace
per la lotta.
PRP Le tre parole in apertura nella home del vostro bel sito sono: osserva, impara,
evolvi. Basterebbero queste, per imbastire un programma di una qualsiasi classe di alunni.
Fin dai primi anni di vita - e soprattutto allora - l’osservazione di noi adulti costituisce
il 90% dell’apprendimento. Quando hai capito che era il momento di condividere il tuo bagaglio
con i più piccoli?
MG Si Paola, come avrai capito il nostro payoff “osserva, impara, evolvi” incarna l’essenza
di quello che dovrebbe essere l’apprendimento di ogni persona per imparare e cresce-
113/ZONE
Marco nella posizione
Da Hu Shi (Colpire la tigre)
del Thai Chi Chuan
durante uno dei suoi
viaggi in Cina
©Marco Gamuzza
re sui vari piani in modo naturale e consapevole, con una scoperta dell’arte e di se stesso,
sviluppando oltre che le diverse abilità anche il proprio campo mentale con l’idea di evolversi.
Ho iniziato ad insegnare ai bambini molti anni fa, per l’esattezza il primo corso nel 1998.
Ai tempi, nonostante avessi già avuto diverse formazioni per insegnare ai bambini
nell’ambito dell’arte marziale, avevo un approccio attento e meticoloso focalizzato maggiormente
sull’aspetto tecnico e psicofisico.
Mentre negli anni a seguire, maturando come uomo e Maestro e facendo dei percorsi
di studio con indirizzo psicopedagogico e lo studio della comunicazione come la PNL, sono
entrato in reale risonanza con il mondo dei bambini e dei giovanissimi.
Tutto ciò oggi mi consente di vedere prima lo strato più sottile dei bambini, quindi dei
loro bisogni ancestrali, quali per esempio la costruzione di una personalità ben equilibrata,
decisa e allo stesso tempo virtuosa, il tutto accompagnato da un impegno fisico calibrato per
la loro età e fisicità.
Quindi sono circa quindici anni che opero nella trasmissione del mio bagaglio tecnico,
inteso come insegnamento da maestro e non solo da tecnico.
PRP Ti va di raccontarci il significato del nome “Xin Dao” e perché si tratta di qualcosa
che, una volta appreso da piccoli, ci portiamo dentro nella crescita e nella maturità?
MG Il nome Xin Dao l’ho coniato nel 2009 insieme al mio Maestro Yang Linsheng;
seguendo gli insegnamenti delle arti marziali cinesi (gli stili principali sono: Shaolin, Taijiquan,
114/ZONE
Yi Quan, Xing Yi Quan e Qi Gong) abbiamo scelto un nome che interiorizzasse un significato
profondo, che ricordasse ad allievi e allieve la “Via” da intraprendere e da percorrere.
Non interessava né a me né tantomeno al mio Maestro dare un nome alla scuola che
esprimesse concetti scontati e superficiali.
Quindi decidemmo di chiamare la scuola Xin Dao, “La via del cuore e della mente”. “Xin”
si traduce come cuore, da interpretare come casa dello shen, ovvero la sede suprema dello
spirito che a sua volta regola le attività della mente e il controllo dei sentimenti, accrescendo
l’intenzione e la volontà così da portare l’uomo ad essere artefice del proprio destino.
Il termine “Dao”, difficilmente traducibile in quanto è uno dei concetti principali del
pensiero Taoista può essere tradotto come “La Via”, più comunemente trascritto “Tao”. Rappresenta
la Via nella sua massima essenza, connessa alla potenza inesauribile dell’universo
stesso. Dao / Tao è l’eterna, fondamentale energia che scorre mediante tutta la sostanza
dell’universo visibile e invisibile.
PRP I vostri corsi non sono semplici allenamenti sportivi. Si differenziano da tante
altre attività extrascolastiche perché insegnano una disciplina antichissima che vale da insegnamento
globale e che aiuta la crescita di mente e spirito, non solo a mantenere un corpo
sano. Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nel cercare di comunicare questo concetto,
e quali le maggiori soddisfazioni che ti arrivano dai ragazzi?
MG Onestamente non ho particolari difficoltà nell’insegnare e comunicare la disciplina
ai giovani.
Sono consapevole del fatto che i giovanissimi vanno spronati e motivati a fare sempre
meglio, ma è anche fondamentale rispettare i loro tempi di apprendimento.
Ciò che ho notato in loro - ma anche negli allievi adulti - è infatti che tutti necessitano
di una continua ripetizione dei concetti.
Ogni volta che con i giovani si sperimenta un nuovo esercizio, loro ne colgono solo un
piccolo aspetto, quindi nelle lezioni successive consento di rivivere quel determinato esercizio
con una prospettiva differente, sino a quando i tanti pezzi del puzzle andranno a formare
una visione d’insieme.
Ho degli allievi che hanno circa dodici anni e che seguono i miei insegnamenti da un
quinquennio, e oggi li vedo eseguire dei Tao Lu (forme tecniche codificate) complessi, composti
da passaggi di posizioni e gioco di braccia e gambe impegnativi. Ripensando a quando
hanno iniziato, al momento in cui hanno messo le basi e alla costanza con cui sono progrediti
mi rendo conto che hanno raggiunto degli ottimi risultati e tutto questo mi rende fiero di loro.
Contemporaneamente la loro progressione combacia quasi sempre con un atteggiamento
responsabile, e un rispetto nei miei confronti e degli altri che ne diventa il perno centrale.
Aggiungo un concetto fondamentale: ho imparato con l’esperienza ad individuare
anche i più piccoli miglioramenti degli allievi e quando ciò avviene è di per sé una grande
soddisfazione.
115/ZONE
La parte più bella del mio lavoro è veder raggiungere obiettivi che all’inizio sembravano
impossibili: una fonte costante di gratificazione per me come maestro.
PRP So che una parte importantissima del tuo programma è incentrata sul tema
dell’autostima.
Che parole useresti per cercare di trasmettere l’importanza non solo di rispettare gli
altri, ma anche di rispettare sé stessi credendo nelle proprie capacità e valorizzandole? So
che per molti ragazzini questo è un tasto dolente, ed è qualcosa che molti fra noi grandi
avremmo sicuramente voluto sentirci insegnare da piccoli.
MG Hai detto bene, oggigiorno l’autostima anche per i più giovani è un punto delicato,
in quanto sappiamo che si tratta di un processo continuo in cui l’individuo si valuta e si
apprezza sulla base di percezioni più o meno vere.
Purtroppo oggi anche i giovanissimi sono tempestati di messaggi ed esempi spesso
fuorvianti, così da non comprendere bene quale sia la loro posizione.
Una delle domande che utilizzo durante le lezioni è “Ti rendi conto che sei migliorato?”
È importante che l’allievo sia il proprio osservatore, che possa comprovare il suo impegno
e miglioramento.
La parola chiave è consapevolezza.
PRP Nel mondo contemporaneo si pecca in concentrazione. Tutto rema contro: i
social in primis; gli stimoli esageratamente abbondanti - e non tutti di qualità - che i bambini
ricevono di continuo dal mondo esterno; le piattaforme che vanno utilizzate correttamente, i
troppi compiti di scuola e le troppe attività organizzate. E invece un bambino che sa stare bene
nel silenzio, anche da solo, è un bambino più felice. Ne sono convinta, anche se mi pare che
questo modo di pensare sia impopolare. Le discipline orientali possono aiutare moltissimo.
Hai dei consigli pratici da applicare e far applicare, per la quotidianità?
MG La tecnologia può essere uno strumento unico. Se penso alla mole di informazioni
che oggi i giovani hanno a disposizione immagino a quanto sarebbe stato bello da ragazzino
poterla avere a portata di mano.
Ma come avviene per tutti gli strumenti, bisogna usare buon senso e dunque l’attaccamento
non aiuta; è importante ritagliarsi dei momenti in cui non se ne fa uso.
Uno dei consigli che do ai più piccoli, ma anche agli adulti, è quello per quanto
possibile di trascorrere più tempo nella natura, perché ha la reale capacità di farci sgomberare
la mente da tutte le attività e i compiti da svolgere quotidianamente, ed essere presente
nel qui e ora.
Uno degli esercizi più efficaci per essere presenti è quello di invitare i bambini ad osservare
in modo più esteso e completo la natura: un albero, un cavallo, un sentiero, così da
apprezzare la bellezza di ogni elemento.
116/ZONE
Marco Gamuzza nella
storica palestra milanese
di arti marziali Musokan,
nella quale ha insegnato
il maestro Yang Linsheng
per circa dieci anni
©Marco Gamuzza
117/PAGINE
PRP Spesso si crede che solo i giochi di squadra siano utili ai fini di una sana socialità.
Nelle classi di Kung Fu si osservano invece, tra una lotta e l’altra, inaspettati gesti di dolcezza,
una grande solidarietà tra i più grandi e i più piccoli, molto rispetto. Cosa ne pensi?
Come cerchi di far emergere tali valori durante la lezione?
MG L’impartizione delle regole è importante, il bambino deve comprendere che esistono
confini in ogni contesto che vanno seguiti, ma spesso il modo migliore è quello di fare
da modello.
I modelli possono essere gli insegnanti, ma anche altri giovani allievi che hanno più
esperienza e hanno fatto loro i valori dell’arte marziale. Per fare un esempio pratico, quando
un nuovo bambino o adolescente si iscriveva al corso, in passato io e i miei assistenti gli
mostravamo come mettersi in fila per il saluto. Oggi questo insegnamento è consuetudine
degli allievi più graduati: le cinture gialle. In pedagogia questo sistema è chiamato mutuo
insegnamento.
Una volta impartite le regole e appresi i modelli saranno poi i ragazzi nel tempo a
comprendere in modo autonomo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Ingresso alla
montagna Panshan
PRP La primissima cosa della tua disciplina che insegni ad un bambino, cos’è? Immagino
sia ogni volta emozionante anche per te.
MG La prima cosa che insegno a un bambino nella disciplina del Kung Fu è il saluto,
associato all’importanza di rispettare se stessi e gli altri.
Il saluto (Bao Quan Li) è infatti il primo gesto che tutti gli allievi eseguono. Attraverso il
saluto si avvia un circolo virtuoso di rispetto verso il maestro, gli assistenti e verso tutti gli
altri compagni di pratica, chiamati tradizionalmente fratelli e sorelle di Kung Fu.
La seconda cosa, in qualche modo legata alla prima, è la capacità di entrare nello
stato interiore corretto, quello in cui si accresce la concentrazione e di riflesso una buona
postura fisica.
Queste prime qualità sono importanti non solo durante la pratica del Kung Fu ma
anche nella vita quotidiana.
PRP Le sequenze del Kung Fu si rifanno ad un immaginario di animali particolarmente
apprezzato dai più giovani; ogni animale ha caratteristiche e qualità ben precise, ma non
118/ZONE
solo: ognuno è un simbolo ben preciso. Questo a noi
di Stanze richiama alla mente gli animali totem, gli
spiriti guida. C’è una qualche attinenza? Quanto il
mondo animale - e la natura tutta - ha da insegnare
ad un bambino nel 2023?
Marco nel movimento
del Bagua Zhang alla
montagna Panshan
Casa in legno antico
sul lago nella periferia
di Tianjin
©Marco Gamuzza
MG Il richiamo agli animali e al loro spirito
ha radici antiche e profonde nella cultura di molte
tradizioni, tra cui quella cinese e quindi anche nel
Kung Fu. Ogni animale oltre a proiettare caratteristiche
tipiche è portatore di concetti e di valori: forza,
agilità, intelligenza, coraggio. Ogni animale è un insegnamento.
La natura in generale è una fonte inesauribile di lezioni e ispirazione.
PRP Un consiglio che ti senti di dare a noi genitori per aiutarci a far “vivere” i tuoi insegnamenti
anche nella vita di tutti i giorni, in famiglia? Per far sì che realmente questa scelta
di scuola sia un arricchimento e non solo un modo per “riempire” due ore alla settimana.
MG Un consiglio che posso dare ai genitori è di incoraggiare i loro figli a mettere in
pratica i valori e le abilità acquisite durante le lezioni di Kung Fu anche nella vita quotidiana.
Ad esempio, nel corso di Kung Fu da Maestro sostengo gli allievi e spiego come affrontare
delle nuove sfide in cui entra in gioco l’emotività. Li incoraggio, spiego loro come agire,
sto loro vicino in un primo momento, e poi lascio che in autonomia vadano avanti, senza la
mia ravvicinata presenza.
Solo in questo modo possono edificare la loro personalità.
In famiglia e nei momenti in cui si sta tutti insieme è fondamentale che i genitori non
si sostituiscano ai ragazzi, diventando la loro ombra in tutto ciò che fanno.
È importante che vengano educati sin da piccoli a fare i primi passi verso la sperimentazione
di sé, con tutte le paure o emozioni che ne conseguono.
Questo processo farà in modo che il giovane non si trovi in situazioni in cui non riesce
a far nulla senza i genitori sempre vicini.
PRP C’è un libro relativo alla disciplina che insegni che ti sentiresti di consigliare
ai più giovani perché tu stesso lo hai trovato illuminante? E un libro, in generale, che è
stato importante per te, quando eri un ragazzino? Qui poi amiamo parlare di cinema, da
mettere assolutamente sullo stesso piano della letteratura. Se ti va, continua lo stesso gioco
anche per i film.
MG Non ho un particolare libro da consigliare ai giovani, ma invito tutti loro a leggere
più libri in cui si possa viaggiare con la fantasia.
119/ZONE
Perché la fantasia è la sorgente della creatività, aspetto che tende a mancare alle
persone adulte. Inoltre la creatività e l’intelligenza sono abilità cognitive distinte ma fortemente
connesse tra loro.
Da ragazzino ho letto centinaia di libri e riviste riguardanti le arti marziali. Ognuno di
questi mi ha dato diversi spunti di riflessione e di passione per andare avanti nel mio percorso.
Ho avuto modo di leggere e ascoltare diversi racconti orientali che sono rimasti scalfiti
nella mia mente. Sono racconti trasmessi oralmente e che purtroppo non si trovano facilmente
nei libri, quindi se ti fa piacere ti lascio di seguito questa storia per me significativa che si
chiama La via più sicura.
In un antico villaggio cinese, un maestro anziano e il suo giovane allievo vivevano
dalla parte opposta di un fiume che dovevano attraversare ogni giorno
per andare a scuola e a lavorare nei campi. Tutti gli abitanti utilizzavano dei
bastoni per aiutarsi nel loro percorso su pietre che emergevano dall’acqua, ma
il maestro insegnò al suo allievo un percorso più lungo ma sicuro, camminando
sui sassi più stabili.
Un giorno gli abitanti costruirono un ponte di legno sopra il fiume, ma il maestro
insistette che il suo allievo continuasse ad attraversare il fiume sui massi, come
gli aveva insegnato. I ragazzi del villaggio prendevano in giro il giovane e il suo
maestro, ma un giorno due di loro rimasero incastrati a metà del ponte e il
vecchio maestro e il suo allievo coraggiosamente andarono in loro soccorso.
Dopo questo episodio, il maestro guardò il suo allievo e gli disse:
“La strada sicura è sempre la scelta migliore, anche se richiede più tempo. Attraversare
il fiume sui massi accrescerà il tuo equilibrio, la tua attenzione e la
tua fiducia nelle tue capacità”.
Questa storia ci parla di come la saggezza del maestro e il coraggio del suo allievo
possano superare la paura e la superficialità degli altri. Camminare sulla strada sicura, anche
se più lunga, porta sempre a una crescita interiore.
Il racconto della Via più sicura può essere visto da diverse prospettive, cogliendone
quindi più insegnamenti. In merito mi torna in mente una frase del Buddha:
“Non puoi viaggiare su una strada senza
essere tu stesso la strada.”
Questo significa conoscere se stessi, sapere esattamente dove ti porta quel percorso,
in sintesi: avere consapevolezza.
PRP Dieci domande più una, per spaziare con la fantasia che la fa da regina in questo
numero di Stanze: c’è un posto del mondo che per te è magico e dove idealmente porteresti
tutti i tuoi piccoli allievi?
120/ZONE
Muraglia di Pechino
©Marco Gamuzza
MG Il mio posto magico è sicuramente in Cina, dal mio Maestro. La maggiore formazione
l’ho avuta lì. Dallo studio delle arti marziali alla teoria, fino all’approccio alla cultura
cinese.
Porterei sicuramente i miei giovani allievi in uno dei templi cinesi lontano dalla città,
in un posto immerso nella natura e verso le montagne, per entrare in massima risonanza con
lo studio dell’arte marziale e la conoscenza di se stessi, affrontando quel viaggio con un tocco
di emozione ma anche di fascino.
Considera che sino al qualche anno fa, prima del Covid, ogni anno nel mese di giugno
organizzavamo per i bambini di età compresa tra i 7 e i 13 anni uno stage con ritiro di quattro
giorni in Liguria.
Il programma era composto da lezioni di Kung Fu all’aperto, incontri con armi tradizionali
dell’arte marziale cinese, piscina, giochi di gruppo, camminate nei sentieri e momenti
insieme di racconti e condivisione.
Un momento veramente speciale per loro, in cui oltre a vivere la disciplina, ogni giorno
la condividevano con i fratelli di Kung Fu, imparando ad essere autonomi.
Mi auguro che presto questa esperienza si possa riproporre.
marcogamuzza.it
kungfuscuolaxindao.it
Grazie Marco! Buon cammino a te e ai tuoi piccoli, lungo la via del cuore e della mente.
121/ZONE
©Massimo Zanella
122/ZONE/note
Il ritorno
del fanciullino
Massimo Zanella
“È dentro noi un fanciullino
che non solo ha brividi [...]
ma lagrime ancora e tripudi suoi.”
Giovanni Pascoli, Il fanciullino, 1897
Ben centotrent’anni sono trascorsi da
quando Giovanni Pascoli scrisse una
delle sue opere più famose. Oggi come
allora, e aggiungo per fortuna, i brividi,
le lagrime e i tripudi mi pervadono
ancora.
Sono giusto alla soglia, anzi l’ho
superata, della fatidica mezza età. Una
volta si sarebbe detto un professionista
tranquillo, con una vita “normale”, il
lavoro, gli affetti, le amicizie… mi scuso
se parlo in prima persona, ma voglio
raccontare il percorso emotivo che
mi è accorso lo scorso mese di gennaio,
in una serata tiepida (ahi noi!).
Premetto che per età e posizione
mentale evito i social – salvo poi
informarmi cupidamente da amici
di quello che accade –, rifuggo la folla,
il Covid mi ha forse segnato: insomma
un noioso signore di 52 anni. Tornando
al famoso gennaio, dovendo vedere
una carissima amica, dopo vari
cambiamenti di data decidiamo di
incontraci e andare a vedere la tappa
milanese del Balloon Museum per
poi proseguire la serata con chiacchiere
e pizza.
Lavoro nell’editoria d’arte e la parola
“museo” ancora dopo tanti anni mi
procura gioia e stimola la mia curiosità
(ecco che esce la prima fase del
fanciullino).
Quindi con Francesca arriviamo ed
essendo un anonimo mercoledì,
facciamo una breve coda per entrare.
Le aspettative sono alte: “chissà cosa
troviamo?”
Veniamo immessi in una sala
completamente ricoperta di specchio
con bolle e palloncini che perpetuano
all’infinito la nostra immagine: stupore,
colore… e via che si estraggono subito
i cellulari e partono i selfie: ottimo
inizio! Poi le altre sale: buoi e gonfiabili
dalle forme organiche (tra il fungo e la
creatura dello spazio) che mutano tono
e allora comincia la delusione, si scopre
che le “opere” non possono essere
toccate, quindi si deambula tra la
123/ZONE/note
©Massimo Zanella
Balloon Museum
Superstudiopiù
Via Tortona, 27,
20144 Milano
23 dicembre 2022 - 12 febbraio 2023
balloonmuseum.world/it
124/ZONE/note
gomma, qualche immagine evocativa
e, con minor entusiasmo, passiamo alla
piscina delle palline (wow!), nella quale
ci si può immergere e in cui si viene
inondati di luci colorate e
stroboscopiche e musica assordante;
allo spegnersi della performance
musical-luminosa e uscendo dalla
vasca, sui nostri volti si dipinge un
grande punto di domanda, ma non
abbiamo il tempo di riflettere che
veniamo spediti nella nuova sezione
del “museo”, una grande sala di box
quadrati (mi spiegano che è il formato
perfetto per le immagini
“instagrammabili”) contenenti delle
piccole scenografie con le quali
interagire ovviamente per essere
fotografati: eccitazione di massa.
E da buoni figli della nostra epoca anche
io e Francesca estraiamo nuovamente
i nostri telefoni però attenzione, c’è la
fila, giustamente tutti vogliono essere
immortalati, per fortuna la gente non
è molta ma, mentre aspettiamo il
nostro turno per arrivare al Sancta
Sanctorum, il personale di sala ci
racconta che durante i giorni delle
passate feste natalizie, quando
l’affluenza era massiva, ci sono state
copiose scene di isteria per le lunghe
attese di accesso al colorato set.
Ne restiamo sbigottiti.
Seguono ancora delle sale con
“installazioni” più o meno ludiche che ci
accompagnano all’uscita vera e propria.
Siamo fuori, ci guardiamo in faccia e,
in guisa di due fanciullini delusi,
scopriamo l’uno sul volto dell’altra
l’espressione: “ma cosa siamo venuti
a fare?”.
Abbiamo continuato la serata come
da programma, felici di essere insieme
e godere della reciproca amicizia
davanti a una fumante pizza, e del
Balloon Museum non abbiamo
nemmeno parlato.
In ogni caso, a prescindere da quello
che andiamo a vedere e da quello che
ci capita in sorte non dobbiamo mai
perdere l’entusiasmo e, se volete, anche
la subitanea delusione che il fanciullino
può provare. Se poi abbiamo la fortuna
di essere accompagnati da un’ottima
amica/amico non c’è Balloon Museum
che tenga e anche quest’esperienza
entrerà nei ricordi ridanciani da
rammentare insieme.
125/PAGINE
Non fregava niente
a nessuno di quello che
guardavamo o no,
di come ci sentivamo
o di cosa desideravamo,
e non eravamo ancora
stati incantati dalla
religione del vittimismo.
Paragonata a ciò che
oggi viene considerato
accettabile ora che
i bambini sono ipercoccolati
fino all’inettitudine,
era l’età dell’innocenza.
Bret Easton Ellis
Bianco