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STANZE_03_23_KIDS

Un trimestrale di ricerca ed approfondimento culturale

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STANZE

ascolti

forme

fotogrammi

ombre

pagine

palchi

visioni

zone

03/23

KIDS


Guardano

altrove.

Guardano

oltre.

IN copertinA

Kids of tomorrow

Illustrazione inedita

di Luca Morandi

I bambini sembrano come noi,

magari in scala più ridotta, ma

non sono come noi.

Nemmeno per sogno.

Ci assomigliano, ma hanno

tutto al posto sbagliato.

Proporzioni diverse,

dimensioni alterate, persino

il mondo lo vedono diverso

– viaggiano a una latitudine

diversa dalla nostra, e chissà

quante robe vedono che noi

abbiamo smesso di notare da

un bel pezzo.

Sono più avanti. Ci hanno

sorpassato già quando sono

nati, con tutte quelle cellule

nuove di zecca e quei banchi

di memoria vergini, come

quando comperi un computer

nuovo e hai quell’hard disk

enorme, più grande di quello

che avevi prima, tutto da

scrivere, tutto da riempire.

Non sono come noi.

Vogliono cose diverse.

Guardano altrove. Guardano

oltre. Si interfacciano meglio

con questo e con quello.

Avete mai visto un bambino

nel passeggino che regge uno

smartphone? Che scorre con

le dita minuscole le icone e

fa succedere cose? Le cose

che vuole lui? Ditemi se non

appartiene a una specie

diversa dalla nostra.

I bambini di oggi ci superano

oggi, figuriamoci quelli di

domani.

Come quelli in copertina. Che

hanno e avranno un rapporto

con le macchine che noi non

ci immaginiamo neppure, e

nemmeno faremo in tempo

a vedere – ma loro sì, anzi,

saranno proprio loro ad

averlo immaginato, concepito,

progettato e poi costruito.

E, alla fine, indossato.

Sposeranno la tecnologia per

fini misteriosi, oscuri, nuovi.

Guarderanno un mondo nuovo

con strumenti nuovi. Sì, come

quei due marmocchi che

vedete nella copertina, che ci

attraversano come fossimo

trasparenti. Poco interessanti.

Superati.

Io non sapevo bene come

mostrarveli, così ho chiesto

di farlo alla mia AI, che, nel

tempo che ci metto a girare il

dolcificante nel mio caffè, mi

ha proposto questa visione

di domani – un domani che

è cominciato oggi, anzi,

probabilmente ieri, mentre

dormivo.

L’ho guardata, appena

formatasi sullo schermo

supersplendente 5K del mio

iMac, ho corretto una cosetta

qui, un dettaglio là.

Ma era già praticamente

perfetta.

I bambini e le AI nascono

oggi, ma spadroneggeranno

domani.

Oggi gli dedico questa

copertina, così magari domani

saranno clementi con noi.

Forse.

LM


I bambini sanno arrivare

al centro delle cose

Marta Silenzi, Paola Ranzini Pallavicini

Bambini. Dai nerd stramboidi che sembrano

provenire da un altro decennio a

quelli già attenti al cibo biologico e ai problemi

del pianeta (entrambi sotto l’influenza

diretta dei genitori); da quelli che

conservano un genuino stupore per tutto

– piumaggio sfumato di uccellini grassocci,

teatro di grottesche marionette vestite

di stracci, palloncini senza fine di ogni

colore e dimensione – agli intellettuali

dell’infanzia già esperti di animazione

giapponese, arti marziali e lingua inglese.

Dai prodotti di un’Intelligenza Artificiale

che ci avvicina sempre più ad un

futuro che sembrava lontanissimo nei

film e invece è già arrivato, ai preadolescenti

e adolescenti che hanno un piede

nelle favole e l’altro nella porta aperta di

una trasformazione inarrestabile. E anche

bambini inzuppati di realtà, quelli

che perdono i genitori, restano senza

casa, sono contesi dai parenti e magari

gli tolgono anche il cane.

Sono tutti bambini di oggi, quelli che crescono

nell’epoca che si affida periodicamente

alla terminologia di moda: questa

settimana, mese, anno, è il momento

dell’inclusione a tutti i costi, questa parola

che da bella, importante e potente rischia

di fare la fine di altri concetti di

parità che troppo abusati perdono di significato,

scadono di qualità, s’impongono

dove non serve.

Bambini che non sanno più quanto è cattivo

il lupo, perché una metafora del bene

e del male formativa da secoli oggigiorno

è ritenuta offensiva nei confronti dei lupi

quelli veri, quelli a quattro zampe che

predano galline e che con quelli travestiti

da nonnina, bipedi, che parlano o soffiano

su casette di paglia e di legno non

hanno nulla a che vedere.

Bambini ritenuti incapaci di distinguere

le favole dalla realtà, bisognosi di versioni

edulcorate, che vengono educati all’animalismo

prima che al pericolo (forse

perché neanche noi sappiamo più riconoscerlo).

Bambini che hanno fretta di crescere,

che sono versioni in miniatura

degli adulti, con una scuola che salta passaggi

fondamentali come il gioco e un’agenda

piena più della nostra, ma che leggeranno

libri falsati, senza più contesto

e storicità, perché questa società mira a

correggere, a passare una mano di bianco,

ad attualizzare, tutto in nome di un

politicamente corretto che è come un’iniezione

di botox uniformante, a perdita

d’identità.

Mettere mano oggi a La fabbrica di cioccolato

di Rohal Dahl è a meno di un passo

dal legittimane interventi invasivi su

Collodi, Dickens... Hemingway domani.

I bambini devono imparare a discriminare,

a collocare un racconto sulla linea del

tempo in cui è stato scritto, a volare con

la fantasia ma a saper atterrare nella verità,

e per questo occorrono genitori che

sappiano leggere loro le storie, spiegare

loro le metafore, far capire l’importanza

di un lessico del 1964 che non può essere

cambiato da una casa editrice, ma può

essere confrontato nel dialogo con un

adulto, con un’insegnante.

Si possono fare versioni semplificate, ma

non si possono toccare i testi originali.

Non torniamo a bruciare libri in nome

dell’inclusione, mettiamola piuttosto in

pratica senza dirla, ché i bambini arrivano

alle cose molto più facilmente di noi.

3/EDITORIALE


Marta Silenzi, marchigiana, classe 1977. Laureata in

Storia e Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo

Storico Artistico e diplomata in Antropologia dell’arte ad un

master dell’Accademia di Belle Arti. Autrice di testi critici per

mostre temporanee e cataloghi ragionati di artisti nazionali

ed internazionali (pubblicazioni Il Centofiorini, Skira,

La Colomba, Pagine d’Arte). Divoratrice di libri e film, pazza

per la musica, mamma di due bambini. La scrittura creativa

si accompagna da sempre a quella critica, come momento

di riflessione, occasione di ritrovamento, lascito di una

traccia. Interessata a trovare connessioni e sinergie

tra le forme espressive, fino ad una sintesi di parole,

immagini e suoni che non ha confini.

Nata letteralmente in mezzo a libri e periodici nel 1978

alle porte di Milano Nord, cresciuta disegnando prima e

impaginando poi, Paola Ranzini Pallavicini è un’appassionata

e tenace grafica editoriale, che ha instaurato dagli anni

Novanta solide collaborazioni con le più prestigiose redazioni

di mezza Milano specializzandosi in pubblicazioni di

architettura, urbanistica, design, arte, fotografia, saggistica.

Un curioso decennio è volato tra le altre cose affiancando

gli architetti della EPFL di Losanna nel dare una veste

calzante a ricerche di respiro internazionale. Grazie alla

pandemia e ad alcune interessanti ragazze ha ripreso in

mano prima la matita, poi la penna, per condividere con chi

vorrà tutti i mondi che popolano la sua testa irrequieta.

redazione–stanze

Redazione Stanze

redazionestanze.blogspot.com

in redazione:

Nicola Berardinelli

pillolemusicali8bit.com

Michele Cafaggi e Izumi Fujiwara

bollesapone.com

izumifuji.com

Francesco Chiatante

instagram.com/chiatanteofficial

Marco Gamuzza

marcogamuzza.it

kungfuscuolaxindao.it

Nicola Guida

nicolaguida.wix.com/photography

Enrica Massidda

enricamassidda.com

Luca Morandi

behance.net/lucamorandi

Clara Passoni

My E-Labs

Solidea Ruggiero

castelloerranteresidenza.it

Massimo Zanella

instagram.com/massimozanella7

contributi fotografici e illustrazioni:

Riccardo Antolini

Giorgia Berardinelli

Jessica Lagatta

numeri precedenti:

Stanze 03/22 Natura (sabato 05/03/2022)

Stanze 06/22 Donna (sabato 11/06/2022)

Stanze 09/22 Strade (sabato 10/09/2022)

Stanze 12/22 Corpo (sabato 10/12/2022)

4/redazione stanze


Manfredi mi urla addosso

come faceva mio padre.

Nelle mie poesie non ci sono bambini

perché il bambino che scrive sono io,

sono quello che in seconda elementare

uscì dalla finestra,

quello che all’asilo ci andava una volta al mese.

Nulla è cambiato da allora,

niente e nessuno mi ha calmato.

Lettera ai ribelli che verranno

Salutate l’ardore

il braccio che vola,

il vento, la passione.

Disobbedite

alla vita e alla morte,

a voi stessi e agli altri,

Sia febbrile la vostra giornata,

non sia mai opportunista,

sia chiara nell’impeto,

bella e nervosa come una mattina d’aprile.

Io aspetto il vostro aprile,

siate pieni di ebbrezza e di furore,

date gloria al mondo che c’è fuori.

Non vi servono nascondigli

ma comunità dove trovarvi.

Portate il mondo

sul palmo della mano,

andate sull’orlo,

dietro le montagne,

su una spiaggia rovinata,

Nessuno può fermare

il vostro incendio,

perché lo fermate voi,

perché siete in silenzio?

Franco Arminio

da Resteranno i canti, 2018


so

mm

ar

io

03/23

KIDS


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122

In copertina / Kids of tomorrow

Luca Morandi

Editoriale

Redazione Stanze

note / Il Cane, il gatto, io e te

Nicola Berardinelli

note / The Sooner The Better

Clara Passoni

Solo bambine che rincorrono un bianconiglio

Marta Silenzi

note / Il poeta coronato, lo spettro elettrico e tutti

gli altri. Il bambino dietro l’opera di Paul Klee

Marta Silenzi

#Album

Illustrato da Jessica Lagatta

Il bambino che voleva abitare in un film

di Spielberg

Paola Ranzini Pallavicini

note / Gli strambi di Hawkins

Paola Ranzini Pallavicini

Lewis Carroll. Al di là dello specchio

Nicola Guida

Bolle controvento.

Teatro ed edizioni illustrate per bambini

Michele Cafaggi e Izumi Fujiwara

L’abusivo

Solidea Ruggiero

note / collage #1 #2 #3

note / Verso Klee un occhio vede, l’altro sente

Marta Silenzi

Spaceship Sagittarius.

L’incredibile storia di Andrea Romoli

Francesco Chiatante

note / Artificial Kids

Luca Morandi

note / Ancora... E poi basta!

Filastrocche e cantilene dei nostri nonni

a cura di Enrica Massidda

Dialogo lungo la via del cuore e della mente

Paola Ranzini Pallavicini incontra Marco Gamuzza,

Maestro di Kung Fu

note / Il ritorno del fanciullino

Massimo Zanella

ascolti

forme

fotogrammi

ombre

pagine

palchi

visioni

zone


Non capisco

come un

mondo che crea

cose tanto

meravigliose

possa essere

cattivo.

La Sirenetta


I grandi non

capiscono mai

niente da soli

e i bambini

si stancano a

spiegargli tutto

ogni volta.

Il piccolo principe


Il Cane, il gatto, io e te

Nicola Berardinelli

Come il tempo scorre e indurisce gli

spigoli del nostro essere, sarebbe

necessario praticare un esercizio

periodico, tanto semplice quanto

necessario e divertente, che vada a

smussare le asperità dell’anima:

ascoltare canzoni che hanno segnato la

nostra infanzia.

Una zolletta di zucchero che addolcisca

le quotidiane brutture alle quali siamo

sottoposti e che ci riporti alla

spensieratezza e la fantasia senza bordi

fanciullesca.

Trovo per questo motivo la voce di

Sergio Endrigo conciliante, tenera e

confortevole, ed il felice incontro con

Vinicius de Moraes calzante con il tema

di questo numero. L’Arca, per me, è

stato un poʼ il corrispettivo in musica di

quanto Gianni Rodari ha espresso nel

10/ascolti/note


proprio corpus letterario, una purezza

vivida che si dipana in continui

calembour, scherzi, rime baciate,

spalmati su delle melodie dolci che

conferiscono al tutto una serena

spensieratezza.

Il progetto ha origine da una

collaborazione avvenuta tra Vinicius de

Moraes, Giuseppe Ungaretti e Sergio

Endrigo per La Vita Amico è L’Arte

dell’Incontro, nel quale è contenuto il

canone di Pachelbel delle canzoni per

bambini, La Casa, versione italiana del

già edito in Brasile A Casa. Endrigo e

Vinicius decidono pertanto di dare

seguito al sodalizio artistico con un

disco dedicato esclusivamente ai

bambini.

Vinicius scrive alcune filastrocche

dedicate ai propri nipoti, queste

vengono musicate con l’aiuto del fido

parceiro Toquinho, arrangiate da Luis

Bacalov ed adattate in italiano dall’altro

grande Sergio della scena musicale

italiana, Bardotti. Proprio quest’ultimo

scrive in concerto con Vinicius le

filastrocche mancanti per un disco che

può vantare illustri interpreti come

Vittorio de Scalzi dei New Trolls, i

Ricchi e Poveri e Tullio de Piscopo.

Prende così forma L’Arca, un insieme di

quadretti bucolici che coccolano chi

ascolta per tutta la durata, proiettando

la mente ai tempi che sono stati.

Come sosteneva Endrigo, L’Arca è una

casa fatta di parole, di tutto e di niente;

la casa dove potrebbe stare un matto o

un poeta.

Mi permetto di aggiungere, che

nell’Arca c’è posto anche per noi, per

ripristinare quel candore primigenio

venuto meno col disincanto.

11/ascolti/note


Clara Passoni

The Sooner

The Better

12/ASCOLTI/note


Ricordiamo:

tutti i bambini

sono in grado

di apprendere

qualsiasi lingua.

Ci si chiede spesso quando sia il

momento giusto per imparare una

seconda lingua. La risposta è

certamente PRIMA è MEGLIO è.

Ho iniziato la mia esperienza con

l’insegnamento dell’inglese dieci anni

fa. Questa lingua mi ha sempre

affascinata fin da bambina.

Ho studiato lingue alle scuole superiori

e successivamente mi sono iscritta

alla facoltà di lingue e letterature

straniere, ma l’inglese non l’ho

imparato lì.

La passione e il fatto di lavorare per una

società inglese in cui si era esposti alla

lingua a 360° ha fatto in modo che io

acquisissi le basi della lingua e via via

il lessico. L’idea dell’insegnamento era

lì, chiusa in un cassetto, che aspettava

di essere aperto.

Nel 2013 la svolta. Ho capito che era il

momento di buttarsi a capofitto in

questa nuova esperienza.

Iniziai a frequentare corsi per la

didattica dell’inglese e certificazioni che

attestassero le mie competenze e misi

insieme il primo gruppetto di bimbi

nella vecchia casa di mia nonna. Presto

il passaparola fece in modo che sempre

più genitori iscrivessero i loro bimbi:

decisi dunque di aprire il MY E-LABS

nel 2015.

LABORATORI PER BIMBI DA 1 A 99 ANNI

Che bello scoprire la magia nei bambini.

Parlare con loro in inglese e scoprire

insieme i progressi e i traguardi da

raggiungere.

Perché iniziare da piccoli?

L’insegnamento di una seconda lingua

deve avvenire in modo naturale proprio

come ci si è approcciati alla lingua

madre, ovvero, qualcuno ci ha sempre

parlato in italiano e noi abbiamo

imparato ascoltando, solo in un

secondo momento siamo arrivati a

scrivere e ad immergerci nella

grammatica.

Se impariamo ascoltando ci verrà

naturale cogliere intrinsecamente gli

aspetti legati a spelling e grammatica.

Ricordiamo: tutti i bambini sono in

grado di apprendere qualsiasi lingua.

Un bambino impara le lingue per

imitazione (anche un adulto, seppur

con più fatica). Il bambino riesce ad

assimilare e poi riprodurre qualsiasi

cosa sente con estrema facilità.

Partendo da un ridotto numero di frasi

e parole è in grado di riprodurre suoni

e combinazioni, assimilando

la grammatica in modo naturale

(ad esempio il bambino in inglese saprà

perfettamente mettere l’aggettivo

prima del nome senza conoscerne

la regola).

L’apprendimento multisensoriale

è a mio avviso il più funzionale

ed è utilizzato per l’insegnamento

della lettura, spelling e scrittura

a studenti con disturbi specifici

dell’apprendimento. Esso utilizza

simultaneamente l’utilizzo di abilità

visive, uditive e tattili-cinestetiche.

Abitudini, routine e progetti sono

la base di un costante apprendimento

negli anni. Si tratta di un percorso

molto lungo che, se iniziato in anticipo,

può portare a dei grandi risultati.

I bambini utilizzano oggetti e vocaboli

della vita quotidiana e toccando con

mano fanno esperienza e apprendono

una seconda lingua senza fatica.

Negli ultimi anni mi sono specializzata

anche nell’insegnamento dell’inglese

ai bambini DSA e ho dedicato la mia

tesi triennale e magistrale al

bilinguismo e all’insegnamento di una

seconda lingua a bambini DSA.

La metodologia da me adottata si sposa

perfettamente con le esigenze di un

alunno con disturbi specifici

dell’apprendimento proprio per la

naturalezza nell’apprendere giocando

e facendo esperienza.

13/ASCOLTI/note


14/PAGINE


15/PAGINE

Qui e in apertura alcuni esempi di

esercizi svolti durante le lezioni di Clara


Solo bambine

che rincorrono

16/FORME


un bianconiglio

Marta Silenzi

“I was just a kid

I needed answers

I found a screen

promised adventure”

Nothing But Thieves

Quando il livello di un linguaggio espressivo è alto – e questo

significa intensamente sentito, supportato da ricerche opportune,

realizzato con buoni mezzi e, più di tutto, ispirato

da un gusto innato – le barriere tra una sfera e l’altra tendono

a cadere: non si tratta più di una sola forma d’arte, ma

di un dialogo fluido che sfugge alla categorizzazione. Questo

avviene spesso ad esempio con la fotografia, che può

essere tante cose oltre che un semplice scatto.

Illustrazione di A. D’Agostini da

Alice nel Paese delle Meraviglie

Bambine. Che corrono e cadono dalle scale, che si tirano i capelli, che si stringono in

un cerchio con le teste vicine, che lasciano penzolare i piedi, che tirano lenzuoli.

Fini capelli biondi, calze, abiti leggeri.

Ragazzine. Sulla soglia misteriosa tra l’infanzia e l’adolescenza. Un limine tra i più importanti

nella crescita di un individuo. Quando il gioco diventa scoperta di sé e dell’altro, i

sentimenti si mescolano, si tingono di rosso, si complicano di ormoni ed umori.

Di cosa stiamo parlando?

Di un fotogramma delle sorelle Lisbon abbracciate nel giardino di un quartiere del

Michigan degli anni settanta? Delle ragazze del collegio di Appleyard, in Australia, indolenti

17/FORME


Fotogramma da Il giardino delle vergini

suicide di Sofia Coppola

una addosso all’altra nella mussola degli abiti bianchi sullo sfondo di Hanging Rock? Di Alice

in caduta libera nel tronco dell’albero che la introdurrà al Paese delle meraviglie?

O stiamo parlando delle serie fotografiche di Anna Gaskell che di questo andamento

pseudo-narrativo e cinematografico e di queste tematiche si ciba voracemente?

Tecnicamente non hanno nulla in comune questa fotografa dell’Iowa, Sofia Coppola

che ha tratto un film (il suo primo) da Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides, o Peter Weir che

ha trasposto il romanzo Pic Nic a Hanging Rock di Joan Lindsay. Eppure qualcosa riporta irresistibilmente

alla mente l’una o l’altra immagine e, al di là di oggettive questioni estetiche,

sappiamo che si tratta del tema della crescita, di bambine che si affacciano alla pubertà, che

corrono sulla soglia dell’età adulta a perdifiato dietro i saltelli di un coniglio bianco senza

comprendere cosa sia tutta quella fretta quando fino ad un attimo prima avevano tutto il

file:///Users/paola/Desktop/stanze 05/OMBRE MARTA ANNA GASKELL/il-giardino-delle-vergini-suicide.webp 1/1

tempo del mondo per i loro giochi all’aperto, le une sulle altre, in un mescolarsi di stoffe, corpi

e fragranze, tra risate e dispetti, smorfie e sorrisi.

Viene pure in mente una Lolita moderna che fa un pallone con una Big Bubble che le

si appiccica all’apparecchio, ma quella storia si spinge forse un po' troppo velocemente, un

po' troppo in là.

Non c’è dubbio che il prodigio degli scatti di Anna Gaskell (Des Moines, 1969) sia dovuto

alla connotazione narrativa e alla caratura cinematografica ben più che alla tecnica fotografica.

Si tratta di serie, in cui c’è appunto una sequenzialità, ma c’è anche fortemente una

volontà di straniamento perché la narrazione subisce degli arresti, dei salti e le foto restituiscono

l’atmosfera dei fotogrammi di un film isolati o decontestualizzati, finendo per evocare

sensazioni oniriche. Tanto più che vestiari e scenari alludono ad uno spazio-tempo altro,

18/FORME


Bambine che corrono

sulla soglia dell’età adulta

a perdifiato dietro i saltelli

di un coniglio bianco

senza comprendere cosa

sia tutta quella fretta

Anna Gaskell Untitled,

Override series, 1997

lontano o fiabesco. Questo perché Gaskell mescola finzione e realtà, con allusioni ad un suo

particolare vissuto personale, richiamando spaesamento e punte di mistero.

Wonder e Override, le due serie di debutto della fotografa, risalenti al 1996-97, hanno

precisi riferimenti a Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll (anche lui

fotografo oltre che scrittore). L’abitino azzurro con grembiule, le calze bianche e le scarpette

nere riempiono formati grandi e piccoli (da 6 x 7 1/4 pollici a 60 x 90 pollici) con allusione ai

fenomeni di crescita e restringimento del personaggio, traslato del cambiamento, delle difficoltà

di rapportarsi al percorso evolutivo e alle profonde trasformazioni psico-fisiche che

comporta. E poi il doppio, il gioco divertente e spericolato, la traccia d’inconsapevolezza e

istinto tipiche dei più piccoli che si fanno curiosità ed esplorazione, l’isolamento e lo stare in

gruppo.

Anna Gaskell non ha bisogno di rimettere in scena l’intero racconto: non le servono

l’ansia del Bianconiglio, il Brucaliffo cosciente dell’imminente trasformazione in farfalla, il Cappellaio

matto che sovverte le regole del tè, come la pubertà sconvolge la situazione nota

dell’infanzia; il saggio enigmatico Stregatto che invita Alice ad avere consapevolezza di sé o

la Regina di cuori sempre arrabbiata che cerca di risolvere drasticamente ogni situazione con

un taglio di testa. Tutte queste metafore dell’età adulta sono in nuce nei giochi di bambina che

Gaskell coglie, affidando alle proprie versioni di Alice il compito di una narrazione discontinua

e disorientante, ora con un filtro colorato intensificato dalla laminazione, ora dentro una luce

dorata e crepuscolare, aggiungendo una sfumatura se non sinistra, misteriosa, sottile, percepibile

ma sfuggente, come accade spesso nelle storie di bambini (non è innocente un bimbo

che svolta l’angolo di un corridoio su un triciclo? La musica di un carillon? Un pagliaccio del

circo? Eppure sono tutte immagini che ci inquietano, come sa bene Stephen King).

19/FORME


Illustrazione di A. D’Agostini da

Alice nel Paese delle Meraviglie

20/FORME


Tutte le

metafore

dell’età adulta

sono in nuce

nei giochi di

bambina

che Gaskell

coglie,

affidando

alle proprie

versioni

di Alice

il compito

di una

narrazione

discontinua e

disorientante

Fotogramma da Pic Nic

a Hanging Rock di Peter Weir

Anna Gaskell. Untitled #1,

Wonder Series, 1996

Non è alla fotografia di Edward Lachman del film Il giardino delle vergini suicide di

Sofia Coppola che s’intende paragonare il lavoro della Gaskell. Né le sue bambine somigliano

alle ragazze Lisbon, ma anche Therese, Mary, Bonnie, Lux e Cecilia si avvicinano all’adolescenza

e preadolescenza, anche loro trattenute (da una famiglia amorevole ma bigotta) in un

mondo irreale e straniante che ha dell’onirico, specie dopo il suicidio collettivo, quando resta

nell’aria soltanto la loro bellezza, il loro profumo di passaggio, la purezza interrotta e subito

spezzata dal prepotente farsi avanti dell’età adulta senza la libertà di saggiarla lentamente,

senza i mezzi per comprenderla a poco a poco.

E certamente c’è un gusto narrativo ed inevitabilmente cinematografico nei fotogrammi

estratti delle sorelle, i movimenti e gli sguardi sulla strada davanti casa, l’aria misteriosa e

inquietante dietro la bellezza in sboccio. Ma mentre il film tende ad alleggerire la pesantezza

del tema con punte di eccesso grottesco, le serie di Gaskell lasciano trasparire un senso di

malessere a volte interpretato anche come disagio psichico, affidandolo alla falsa narrazione,

alla suggestione evocata da immagini che lasciano più immaginare (antefatti e conseguenze)

che vedere, forse anche con reminiscenze di un’altra America, di un’altra infanzia, magari

quella vissuta dalla fotografa, esposta ad un cristianesimo fervente e teatrale (vedi Untitled

#2 in cui un’Alice si appoggia all’altra, tappandole il naso in un’apparente gioco di respirazione

bocca a bocca, ma può darsi anche con allusione ad un battesimo nell’acqua).

Ancora diversa, ma ancora vicina, è l’atmosfera di Pic Nic a Hanging Rock di Peter Weir

(con la fotografia di Russel Boyd a cui il regista aveva chiesto di mostrare le collegiali con un

occhio preraffaellita) la cui aura di mistero è quasi tutta a carico dell’ipnotico tema principale

di Gheorghe Zamfir, una melodia serpeggiante al flauto di Pan che evoca il senso del remoto,

di una natura primordiale e istintiva come lo sono Miranda, Marion, Edith e Irma, libere per una

volta di girovagare e di scoprire se stesse (dopo la consueta repressione del collegio), libere

di perdersi nel mistero della natura fisica ed umana, sul picco di Hanging Rock come sul limitare

della vita che si sta trasformando, piena di inquietudine e complicanze.

21/FORME


Fotogramma da Pic Nic

a Hanging Rock di Peter Weir

file:///Users/paola/Desktop/stanze 05/OMBRE MARTA ANNA GASKELL/picnic a H.R..webp 1/1

La questione del commento sonoro non è secondaria, è anzi quella componente che

lega tutti i discorsi espressivi, che li cuce e li fa dialogare, fondamentale in un film ma importante

anche in un’esposizione, quando si vuole andare oltre il mero elemento visivo e s’intende

calare il fruitore in un’atmosfera, particolarmente efficace se si tratta di fotografia, ecco

perché ultimamente si tende tanto alle mostre immersive e alle installazioni.

Anche le successive serie di Anna Gaskell s’ispirano a fiabe e racconti, come Hide

(1998) che rispolvera l’Asino magico dei Fratelli Grimm, con allusioni al gioco del “nascondino”

e al nascondiglio sotto le pelli di animali come confine tra interno/esterno, il sé e l’altro; o Le

avventure del Barone di Munchausen (una commedia britannica del 1988 basata sulla storia

del barone tedesco del XVIII secolo Karl Friedrich Hieronymus von Münchausen) in Sally Salt

e By proxy (1999), in cui tornano comunque in qualche modo in ballo i bambini e il disagio

22/FORME


La fotografa crea

immagini inquietanti

di ragazze

preadolescenti

che fanno riferimento

a giochi, letteratura

e psicologia infantile

le:///Users/paola/Desktop/stanze 05/OMBRE MARTA ANNA GASKELL/Anna Gaskell_Override _27_1099_8 x 10 in. at 300 dpi _JPEG_.webp 1/

Anna Gaskell, Untitled #27,

Override series, 1997

mentale che indaga la sindrome di Munchausen per procura. La fotografa crea immagini inquietanti

di ragazze preadolescenti che fanno riferimento a giochi, letteratura e psicologia

infantile e resta interessata a isolare momenti drammatici da trame più ampie come aveva

già fatto per Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, ancora con lo stile evocativo di

una narrazione immaginaria.

Persino il ciclo fotografico Half life (2002) – nato da un’idea per un’installazione cinematografica

ed evolutosi in una mostra che combina immagini fisse e un film in movimento

– tratto da storie come Rebecca di Daphne du Maurier, The old nurse’s story di Elizabeth Gaskell

(nessuna parentela) e The turn of the screw di Henry James, continua ad esplorare la psiche

umana, comprese le esperienze di paura, isolamento e incertezza, in cui la protagonista, come

nei suoi lavori precedenti ma qui non in gruppo, è una giovane donna che si trova tra la purezza

della giovinezza e la graduale perdita dell’innocenza che arriva con la maturità.

23/FORME


Il doppio, il contrasto,

il femminile, il gioco,

il fiabesco, il limine,

il mistero e l’inquietudine

sono tutti elementi

intensamente osservati

da Anna Gaskell

24/FORME


Anna Gaskell, Untitled #2,

Override series, 1997

Le angolazioni della macchina fotografica di Gaskell, che combinano una coreografia

serrata e un uso drammatico dell’illuminazione angolata, creano immagini inquietanti

e memorabili cariche di significato. I suoi scenari sono tableaux riccamente

colorati con scorci esagerati e ombre minacciose.

In contrasto con le fotografie

il film di accompagnamento di 21 minuti utilizza un’unica angolazione di ripresa

statica per tutto il tempo, presentando una ragazza che galleggia sott’acqua in uno

stato di “non-esistenza”, né completamente vigile né morta. La ragazza trattiene il

respiro, i suoi occhi si aprono e si chiudono periodicamente per suggerire una gestazione

amniotica o, più pericolosamente, annegamento. Il film è in loop, enfatizzando

la sua liquidità – un continuum di assenza di gravità tra il reale e il fantastico.

(dalla presentazione della mostra al White Cube Hoxton Square del 2003)

Il doppio, il contrasto, il femminile, il gioco, il fiabesco, il limine, il mistero e l’inquietudine

sono tutti elementi intensamente osservati da Anna Gaskell, persino in una mostra

(a due con Douglas Gordon) come Vampyr del 2014. Anche qui dialogano immagini statiche

e in movimento, rivelando Svetlana Lunkina, prima ballerina del Bolshoi, grazia, estasi e

bellezza e il suo doppio grottesco, una ragazza-clown, la copia goffa, il dualismo umano.

In fin dei conti la fotografa non abbandona mai questa indagine delle varie fasi dell’età

evolutiva, dall’infanzia alla giovinezza, di un mondo pressoché esclusivamente femminile,

distorcendo un punto di partenza letterario per esplorare il potenziale immaginativo del surreale,

caricandolo sempre più di quel mistero che, tempi addietro, evocavano anche le giovani

Lisbon come le ragazze di Hanging Rock: storie improbabili, simboliche di preadolescenti

o adolescenti che si avviano all’età adulta ma che in fondo sono ancora bambine.

25/FORME


Il poeta coronato,

lo spettro elettrico

e tutti gli altri.

Il bambino dietro

l’opera di Paul Klee

Marta Silenzi

26/FORME/note


Le strade che prendiamo e che sono

determinanti per la definizione del

nostro io, del nostro credo, della nostra

vita spesso dipendono da momenti di

illuminazione che vengono a noi e che

non possiamo lasciare inosservati.

Così accade per questo importante e

conosciuto artista svizzero che

corrisponde al nome di Paul Klee,

quando sua sorella Mathilde gli

consegna i suoi disegni di bambino

conservati nella soffitta della casa di

famiglia a Berna, disegni dai 3 ai 10

anni che Klee definisce come i più

significativi del suo intero lavoro perché

dotati insieme di uno stile indipendente

e di uno sguardo ingenuo, cioè

esattamente quella forma espressiva

incorrotta ed autentica che va

cercando.

Con questo Klee non intende l’infanzia

“Nessun artista, eccetto

forse Dubuffet, ha

dimostrato una

fascinazione così intensa

e persistente per l’arte

dei bambini, al punto

di incorporarla

nelle proprie opere,

come Paul Klee.”

Michael Baumgartner

come una condizione di totale

innocenza o di purezza, né intende

considerare il bambino un artista, ma

intende istruttiva la visione priva di

diaframmi che il bambino ha. Perciò

cerca di rievocare un approccio

infantile all’arte, di risvegliarlo nel

proprio lavoro attraverso i “disegni alla

cieca”, annota i propri ricordi di

bambino nei suoi diari, avvia riflessioni

che acquistano ancora più significato

dopo la nascita del figlio Felix, avuto da

Lily Stumpf nel 1907. La sua

interpretazione della creatività

infantile viene messa ancora più a fuoco

dopo la conoscenza di Kandinskij e

Münter e la collaborazione con

l’almanacco Der Blaue Reiter,

attraverso il saggio Sulla questione

della forma (1911), in cui l’artista

specifica che la lezione da imparare va

ravvisata proprio nella mancanza di

perizia tecnica e di istruzione formale

dei bambini.

Anche il contesto storico-culturale cui

Klee appartiene va in quella direzione

da tempo, soprattutto nell’ambito che

associa l’arte alla psicologia: da L’arte

dei bambini di Corrado Ricci, un testo

addirittura del 1887, a

L’interpretazione dei sogni di Sigmund

Freud, a I disegni dei bambini fino al 14°

anno di età di Sigfried Levinstein, fino a

Lo sviluppo del talento nel disegno di

Georg Kerschensteiner, tutti testi

riccamente illustrati che sicuramente

Klee conosce e che lo aiutano ad

individuare un metodo per liberare il

proprio lavoro creativo dai

condizionamenti culturali, coniugando

la semplicità del segno infantile con la

finezza dell’artista maturo.

Quindi non un mero recupero di una

sorta di “originalità naturale”,

bensì una sintesi studiata di creatività

spontanea e maestria artistica.

Cioè “l’occhio del bambino in età adulta”

gli permette di strutturare forme

elementari come stilizzazione di alberi,

semplificazioni di chiese e campanili

dai tetti aguzzi, montagne triangolari,

cupole a semicerchio e via dicendo,

questo senza mai perdere il proprio

stato di conoscenza e formazione

artistica. La differenza è fondamentale

perché – e lo spiega lo stesso

Klee all’artista e pedagogista H.F. Geist

27/FORME/note


Una sintesi

studiata

di creatività

spontanea

e maestria

artistica

che lo tira fortemente in ballo

per propagandare le sue ideologie

e promuovere mostre di disegni

di bambini –

“Il bambino non

sa nulla dell’arte”,

semplicemente esprime se stesso senza

filtri, ma l’artista può partire dal

disegno infantile per rinnovare il suo

sguardo coniugandolo alle sue

conoscenze, puntando non alla

semplicità del tratto infantile ma ad una

semplificazione tecnica di base che ad

esso si ispira.

Ecco da dove vengono i numerosi angeli,

i gatti, i paesaggi dai colori tenui, i

notturni, i titoli giocosi, la colorazione

sommaria, le puntinature e i tasselli, la

poesia degli acquarelli.

E poi c’è la musica. E poi c’è il teatro.

Sfere d’influenza ed ispirazione infinite

per Klee.

Paul Klee ama ogni genere teatrale, dal

teatro lirico a quello di prosa fino al

teatro popolare minore: burattini,

marionette e circo. Le arti

performative, il gioco delle parti, il

mondo dei personaggi e delle maschere

lo affascinano, ne condizionano il

comportamento: la sua osservazione del

mondo circostante va a caccia di “tipi” e

“scene”. Le sue raffigurazioni accolgono

personaggi inventati o tratti da opere

conosciute; marionette, buffoni,

pagliacci, figurini, interi cori; nei titoli

rientrano termini musico-teatrali come

assolo o terzetto per indicare una o tre

figure; spesso la scena ha piani o sfondi

o quinte e sipari.

Eppure Klee non realizza mai una vera

e propria produzione per il teatro, non

annovera collaborazioni teatrali come

ad esempio Picasso.

Però in lui è forte il gusto della

commedia, del burlesco, del grottesco e

questo va a braccetto col recupero di

uno sguardo infantile e con la passione

per le maschere.

Particolare è certo la produzione di

burattini, creati tra 1916 e 1925.

Questi strambi, anche inquietanti figuri

nascono per assecondare un desiderio

del figlio Felix, e questo è il motivo per

cui Klee non li include nel suo corpus

produttivo e non li espone alle mostre.

Sono burattini della tradizione popolare

come Kasperl, la Morte o il Diavolo,

insieme ad altri inventati da Klee: da il

Sultano, tratto da Le mille e una notte,

al Barbiere di Baghdad, dall’opera

omonima di Petere Cornelius; dal

28/FORME/note


Vecchio, probabilmente un collega

artista, al Poeta coronato che

corrisponde a R. M. Rilke. E poi il

Fantasma spaventapasseri, lo Spettro

elettrico, finanche ad un autoritratto

dell’artista.

I burattini sono una trentina e sono

una realizzazione artigianale e

domestica con materiale di recupero:

bottoni, ossa bovine cotte, cerini,

bigiotteria smessa, componenti di

prese elettriche, stoffe rubate dal cesto

dei rammendi.

Storti, sgangherati, dalle teste deformi,

i burattini passano dalle maschere

etniche, a quelle sorridenti a bocca

larga della commedia ad alcune quasi

robotiche o aliene. Restituiscono una

sensazione ruvida ed un odore di gesso

e colore ad olio, ci guardano a braccia

larghe, con le mani nascoste e

un’allegra stravagante follia.

Klee ne è creatore e spettatore: il gioco

è tutto lasciato al figlio che s’ispira al

teatro popolare, di sua conoscenza

grazie alla frequentazione di fiere

annuali, mescolandolo a vicende vissute

in prima persona, inventando così una

propria serie di storie ed un proprio

repertorio.

La struttura scenica è inizialmente

improvvisata con cornici dismesse, poi

Felix costruisce da sé un teatrino con

cui, tra i 15 e i 18 anni, si esibisce alle

feste del Bauhaus dove il padre insegna.

Il motivo per cui Klee non concepisce

queste bizzarre meraviglie come opere

d’arte è che hanno un uso immediato e

pratico, non sono oggetto di

elaborazioni riflessive come il resto

della sua produzione, eppure sono

espressione di un gusto e di una

conoscenza personali e sigillano uno

stile che non si disgiunge dal percorso

figurativo, segnico e interpretativo

dell’artista.

A Berna si trova lo Zentrum Paul Klee,

un bellissimo centro per la promozione,

la ricerca e la conoscenza dell’artista

progettato da Renzo Piano e realizzato

nel 2005. Un unico museo che raccoglie

una delle più grandi collezioni al mondo

di un solo artista, frutto di donazioni

degli eredi dopo la morte di Felix e di

acquisizioni successive. La sede conta

oltre 4000 opere e documenti che

vengono ciclicamente esposti con

mostre tematiche. Tra questi trova il

proprio palcoscenico anche il gruppo di

simpatici, sgangherati burattini frutto

di un amore condiviso tra un padre ed

un figlio.

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#album

illustrato

da Jessica Lagatta

Codone, marangone,

mestolone, fischione,

moriglione;

ghiandaia, beccaccino,

balestruccio, topino,

migliarino;

merlo, fringuello, luí,

beccapesci, cutrettola, colibrí:

gli uccelli si chiamano cosí.

Gianni Rodari

Come si chiamano gli uccelli,

Filastrocche in cielo e in terra, 1972

30/FORME/album


Nel disegnare il colibrì beccolargo

Lagatta si è ispirata ad una foto

di James Lee tratta dal sito Unsplash

31/FORME/album


La ghiandaia azzurra americana:

tratta da una foto di Jeremy Hynes,

dal sito Unsplash

32/FORME/album


Il fantastico cardinale rosso:

disegno tratto da una foto

di Patrice Bouchard, dal sito Unsplash

33/FORME/album


Ho rimpianto

con gli amici di Omi

la fugace primavera.

Per scrivere un haiku

basta un ragazzino alto

quanto un germoglio di bambù

Matsuo Bash – o

34/FORME/album


Jessica Lagatta si è laureata alla

Facoltà di Architettura di Pescara,

dove ha conseguito un Dottorato

sul “Design for Inclusion”.

Per alcuni anni è stata allo stesso

tempo ricercatrice e illustratrice.

Attualmente vive e lavora a Bologna.

Ha lasciato la ricerca accademica

e si sta dedicando completamente

al mondo dell’illustrazione.

Ha collaborato con diverse case editrici

(GIUNTIscuola, La Nave di Teseo,

Baldini+Castoldi, Loescher Editore,

HarperCollins Italia, ecc.) su varie

tipologie di libri.

www.facebook.com/Jessica.Lagatta.

Illustrazioni

Per il martin pescatore

Lagatta ha lavorato basandosi

su di una foto di Boris Smokrovic,

tratta dal sito Unsplash

35/FORME/album


IL BAMBINO

CHE

VOLEVA

ABITARE

IN UN

FILM DI

SPIELBERG

Paola Ranzini Pallavicini

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Non è facile trovare un regista che ci abbia saputo accompagnare

più amorevolmente di Spielberg mentre

crescevamo, e non esiste scelta migliore per costruire

ricordi indelebili che recarsi in una sala cinematografica

con il proprio figlio a vedere il suo ultimo film, soprattutto

se ha più o meno la stessa età dell’attore che

in The Fabelmans interpreta il regista alle prese con la

primissima emozione in una grande sala buia.

Il cuore ci scoppiò in petto mentre E.T. ripartiva con la sua astronave in un tripudio di

luci intermittenti; lo stesso cuore che in seguito venne strapazzato per bene da Indiana

Jones. Una volta cresciuti Oskar Schindler diede il colpo di grazia e ora, nel ripercorrere la

vita di questo ragazzo pieno di sogni coraggiosi, abbiamo messo insieme i tasselli e tutto

quadra perfettamente, la nostra emozione e la sua caparbietà all’unisono.

I bambini di Spielberg sono coraggiosi. Nella vita di tutti i giorni sanno prendere

direzioni audaci, senza tirarsi indietro, conservando la loro tenerezza ben salda negli occhi.

Hanno forza e grinta e si buttano nel fare la cosa giusta. Ne escono ogni volta trasformati,

e tutta la fatica e la paura e la corsa per farcela lascia in loro segni forti e insegnamenti

saldi, ma quella tenerezza negli occhi Spielberg la tiene intatta, come dono per lo spettatore

e credo prima di tutto per se stesso.

Il bambino fortunato e amato che il regista è stato tanti anni fa lascia una traccia in

ciascun personaggio, e cerca di far capire al regista che non crescere mai del tutto è qualcosa

di necessario. Invita tutti noi a fare altrettanto.

Steven Spielberg ha dichiarato recentemente: “Tutti mi vedono come una storia di

successo, e tutti vedono tutti noi nel modo in cui ci percepiscono in base a come ottengono

le informazioni, ma nessuno sa veramente chi siamo finché non abbiamo il coraggio di dire

a tutti chi siamo”.

E per raccontare al mondo la nostra identità dobbiamo risalire per forza alla fonte,

all’infanzia.

Spielberg analizza la prima parte della sua vita per mostrarci cosa lo ha mosso

verso quell’urgenza e quanto del suo genio sia stato assorbito non solo dalle qualità dei

genitori, ma soprattutto dalle loro mancanze, dalle debolezze. Questo collage di emozioni

passate sotto al microscopio è un grandissimo atto d’amore, sincero e liberatorio.

Il regista era un nerd, senza dubbio, preso spesso in giro a scuola non solo per

questo ma anche per le sue origini ebraiche (“l’antisemitismo ha segnato la mia infanzia,

facendomi sentire sicuro solo a casa mia”). Si sentiva come “un alien” ma aveva dalla sua

parte una grande empatia e due genitori che seppero sempre sostenerlo e amare incondizionatamente

il suo genio.

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Il padre era un ingegnere elettronico, la madre una pianista concertista: tecnica e

cuore, seppero toccare entrambi gli aspetti con Steven e stimolare le giuste corde in lui,

tenendo conto che era figlio di un’epoca in cui i ragazzi si arrangiavano nel decifrare la vita

per conto proprio.

Nel 1952 furono loro a decidere di portarlo a vedere il suo primo film, Il più grande

spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille; questa esperienza lo cambio così profondamente

tanto da ossessionarlo nel riprodurre in casa, con un trenino giocattolo, il grande disastro

ferroviario rappresentato nella pellicola e analizzato nel dettaglio in The Fabelmans.

Steven non frequenta nessuna scuola di cinema prestigiosa, e nel 1968 abbandona

gli studi universitari per dedicarsi alla professione di regista a tempo pieno: trova il modo

di bazzicare gli Universal Studios e inserirsi in quella vivace realtà, zeppa fin da subito di

compromessi da accettare e di ingegno da aguzzare.

Figlio della cultura pop degli anni cinquanta, figlio della TV ancora neonata, Spielberg

affonda le basi delle sue storie nelle radici dei cartoni della Disney, e porta nel suo cinema

tutto il cinema che ha amato da bambino, lo stesso tipo di lavoro che oggi fanno i fratelli

Duffer con Stranger Things (che da Spielberg prende a piene mani).

La sua poetica parte dalla celebrazione dell’infanzia, dal desiderio/necessità che

abbiamo di restare bambini, sul grande schermo ma anche nel nucleo più profondo di

ognuno di noi.

Il suo sguardo fanciullo muta negli anni ma mantiene delle tematiche costanti.

Già nel 1977 Incontri ravvicinati del terzo tipo ci racconta bene lo stupore dei bambini

di fronte all’ignoto, e pone le basi di quel contrasto efficace tra ciò che è casa, protezione,

nucleo familiare e ciò che è là fuori, sconosciuto, alieno. Una narrazione che naturalmente

troverà forza e successo nel 1982 con E.T. l’extraterrestre, che Spielberg ha sempre descritto

come “un film sul divorzio dei miei genitori” tanto è intenso il racconto della vita di Elliott

a casa con i fratelli e la madre mentre il padre se ne è andato a stare altrove.

E.T. fu un successo planetario non solamente tra i bambini, ma anche tra gli yuppies,

che attraverso questo tipo di storia potevano regredire per una sera alle emozioni dell’infanzia;

in qualche modo diede il via ad una tradizione cinematografica che per tutta la durata

degli anni ottanta la fece da padrona, tanto più che Spielberg fu tra i fondatori della

Amblin Entertainment e della DreamWorks, case di produzione di film per famiglie, che

vanta titoli culto come I Goonies e la trilogia di Ritorno al futuro. Siamo alle prese con quel

fenomeno definito childhood esploso negli Eighties. Childhood, che possiamo tradurre come

nostalgia dell’infanzia, è una voce che Wikipedia mette anche in riferimento alla ballata di

Michael Jackson, che affronta i problemi relativi all’innocenza mancata dell’artista.

È con ET che prendono spazio, nella poetica del regista, i concetti di volo, di tempo

e, come dicevamo prima, di casa. Volo come congiunzione tra la vita di tutti i giorni sul nostro

pianeta e la vita altra, sognata, immaginata e scrutata da quaggiù. La vita aliena, che entra

a far parte del nostro immaginario quando siamo piccini per non andarsene, se non fosse

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che diventiamo adulti distratti e stanchi di attendere un nuovo amico dal cielo. Elliott, il

protagonista, al contrario è talmente aperto a questa possibilità che nel momento in cui un

esserino saggio e strambo arriva dallo spazio per errore, diventa amico suo non solo con

una facilità che gli adulti non riescono a comprendere, ma con un’empatia tale da entrare

in simbiosi, soffrire e gioire assieme a lui.

I grandi non possono vederlo!

Solo noi bambini possiamo!

da E.T. l’extraterrestre

Questo trovarsi a suo agio con il linguaggio dell’infanzia è un vero dono che non

abbandonerà mai più Spielberg nel suo percorso. Il regista è un implacabile costruttore di

“film per bambini nel senso migliore del termine”.

In E.T. gli adulti sono visti come una vera e propria minaccia per la sicurezza dell’alieno,

mentre i bambini sono gli unici che riescono ad instaurare un contatto grazie allo

stupore sincero senza filtri e senza pregiudizi. Ci si chiede cosa accadrebbe in un film del

2023 con bambini della Generazione Z come protagonisti, ma possiamo facilmente prevedere

che i genitori di oggi, cresciuti a pane e Spielberg, sarebbero pronti a commuoversi e

parecchio, certo di una commozione distratta, tra una chat di gruppo e una call di lavoro.

Il concetto di casa invece qui e in generale nella sua produzione è inteso come rifugio,

come base affettiva, solida ma imperfetta: i genitori di Elliott si sono lasciati. Dall’ultimo

suo film capiamo che le famiglie delle sue pellicole altro non facevano che parlare di lui da

piccolo. Molte di esse esplorano la relazione padre-figlio e madre-figlio, poggiando le basi

su quella che fu l’esperienza di vita concreta di Steven con i suoi. In questo senso nell’ultimo

capolavoro onora la propria infanzia e si libera di un remoto dolore mai sopito.

Casa quindi si traduce con affetto, radici, origine di un tutto che non deve tarparci le

ali nel nostro crescere e sognare il futuro.

Il tema del padre è ripreso approfonditamente con la saga di Indiana Jones, iniziata

nel 1981 ed in corso ad oggi con il quinto episodio. L’archeologo-esploratore Jones, ex lupetto

scout originario dello Utah, si porta dietro un rapporto intenso e conflittuale con la figura

paterna, che impariamo a conoscere e amare nel terzo capitolo della saga.

Il successo enorme di questo eroe - che potremmo riguardare all’infinito saltare da

un aereo sopra un cavallo e di lì rotolare sul tetto di un camion senza stancarci mai - è

nella grande fragilità (sentirsi sempre giudicato dal padre e bisognoso di una sua parola

affettuosa), nelle paure (i serpenti, trauma mai superato), nella curiosità infantile mai sopita

per tutto ciò che è scoperta e conoscenza. Ci innamoriamo del bambino in lui, perché è

parte predominante della sua personalità, in senso buono, in modo giocoso, sognatore. Il

cinema di Spielberg in fondo è rimasto negli anni un grande gioco da rivivere ogni volta.

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Parliamo pur sempre del regista con maggiori incassi nella storia del cinema: il suo

mestiere è tenerci inchiodati alla poltrona, commuoverci e arrivare a tutti, ma soprattutto

divertirci con emozioni dalle tinte sempre vivaci. Cinema come fuoco d’artificio continuo,

un turbinio di effetti, e affetti.

SALLAH Scusate ma cos’è questo “Junior” con cui vi chiamate?

HENRY È il suo nome! Henry Jones “Junior”!

INDIANA Io sono Indiana!

HENRY Si chiamava il tuo cane “Indiana”.

SALLAH Un cane? Tu porti il nome di un cane? [Ride]

INDIANA Ho un sacco di bei ricordi di quel cane!

da Indiana Jones e l’ultima crociata

È del 1987 L’impero del sole, storia ambientata durante l’invasione di Shanghai da

parte dei giapponesi, e vissuta tutta attraverso gli occhi di un bambino di famiglia ricca,

dapprima separato dai genitori nel mezzo dell’attacco agli inglesi, in seguito deportato

durante i fondamentali anni della crescita in un campo di concentramento giapponese.

L’energia vitale, la stramberia, l’immensa immaginazione del ragazzino, interpretato

da Christian Bale già attore navigato, sono la chiave di lettura di questa favola cruda e

emblematica, dura da digerire per un bambino di oggi, ma che resta una visione necessaria

tanto quando il sognante ET.

Jim ha undici anni ed è mistico e coraggioso come dovrebbero sempre essere i

bambini. Vive di colpo l’esperienza dell’abbandono, che viene accentuata dalle sue origini

privilegiate, dal forte contrasto tra il prima e il dopo; il passaggio dagli agi alle sofferenze

prima lo annienta ma poi fa scattare in lui una forza talmente grande da farlo diventare una

figura di riferimento per tutti gli adulti che popolano il campo di prigionia.

Nei momenti di difficoltà i ragazzi di Spielberg mostrano più resistenza e più adattabilità

degli adulti, e Jim ha in sé una spiritualità radicata che lo aiuterà nei momenti più

dolorosi. Il film è tratto dal romanzo autobiografico di J.G. Ballard, e viene definito nel saggio

Cineland Express (Edizioni Sovera, 2008) un film sulla morte dell’innocenza.

Anche qui ritroviamo le tematiche casa, che senza i genitori si deteriora e non protegge

più, e volo, esaltato dalla passione sconfinata del bambino per gli aeroplani da guerra.

“Nomen atque omen. È un caso che Spielberg in tedesco significhi la montagna del

gioco? L’infanzia, la paura, il volo sono i motivi conduttori del suo cinema, il volo

implica la nozione di leggerezza.”

Morando Morandini

Risale al 1991 il fiasco commerciale di Hook, un totale tuffo nell’infanzia vissuta dal

punto di vista dei leggendari bambini di Peter Pan, orfani liberi dalle costrizioni adulte che

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Ho imparato

una parola

nuova, oggi:

bomba atomica.

Jamie Graham,

L’impero del sole

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hanno la facoltà di esplorare e fantasticare e così facendo annullare la legge implacabile

dello scorrere del tempo.

Loro non hanno bisogno di pietanze calde o beni materiali perché si cibano di fantasia.

Sempre in Cineland Express viene approfondito moto bene il concetto dell’abbandono,

non tanto da parte dei genitori, ma dagli adulti che i protagonisti stessi sono diventati: “le

anime dei ragazzini che eravamo”.

Mentire, io, mai. La verità è troppo divertente.

Sai quel luogo che sta fra il sonno e la veglia,

dove ti ricordi ancora che stavi sognando?

Quello è il luogo dove io ti amerò per sempre.

da Hook

Credere nei sogni è un’arte che il regista sembra saper coltivare sempre meglio con

il passare degli anni, al contrario di molti di noi che ci dimentichiamo troppo in fretta come

funziona. Nel 1994 Steven Spielberg fonda la casa di produzione cinematografica DreamWorks:

quale nome più appropriato? È sua la celebre frase: “Io sogno per vivere” (Time, 1985).

È legata al film Schindler’s List la figura leggendaria della bambina ebrea che cammina

in mezzo alla folla scolorita avvolta in un cappottino rosso sangue, unica nota di colore

di una scena che è diventata emblema della pellicola in tutto il mondo. Qui il regista fa

i conti con le sue origini ebraiche e ciò che per lui rappresentano, e qui lo sgretolamento

dell’innocenza è totale, devastante. Non si viaggia di fantasia perché ci troviamo di fronte

alla storia con la più cupa S maiuscola di sempre, ma si è comunque accompagnati per

mano dall’aura speciale dei bambini, la loro grazia e la grande resistenza alla morte di cui

sono capaci, e che Spielberg sa esaltare così bene. I bimbi dei suoi film hanno sempre più

astuzia e tenacia dei grandi, e qui più che mai.

I primi anni novanta vedono anche il trionfo commerciale di Jurassic Park, un film

che è un vero e proprio parco attrazioni, in cui i protagonisti sono bambini nascosti nel

corpo di adulti.

A.I.: Intelligenza Artificiale, è del 2001. È una fiaba cupa che narra di un robot bambino,

con sentimenti molto umani, e che scava nella materia del doppio, costruendo la trama

sul rapporto tra il robot e il fratello in carne ed ossa, e tra loro e i loro genitori.

Qui il legame con la figura materna si fa intenso, lacerante.

Già dai tempi de Lo squalo, è nella rappresentazione dei momenti di quotidianità in

famiglia che il regista sa tirare fuori il meglio dai suoi attori bambini. Li segue con affetto, li

prende per mano nella recitazione, sempre con misura e delicatezza. “In quasi tutti i miei

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film c’è traccia della mia infanzia”, ci dice Steven, e infatti lo Spielberg bambino accompagna

attraverso le sue storie i giovani interpreti come un moderno Peter Pan.

Minority Report, nel 2002, analizza attraverso il protagonista la figura di un padre

assente, totalmente traumatizzato dalla perdita del figlio, al quale Spielberg dona una possibilità

di redenzione.

Sempre nello stesso anno Prova a prendermi, brillante produzione biografica, sviluppa

in maniera profonda il concetto di radici - genitori - rapporto con essi e come questo

influenzi un’intera vita.

La guerra dei mondi arriva nel 2005, e qui Tom Cruise inquadra in modo magistrale

la figura di un padre non ancora cresciuto, che matura di colpo durante un’invasione aliena

(gli extraterrestri tornano, ma stavolta sono crudeli) capace di metterlo faccia a faccia

con la sua più grande paura, quella di trovarsi da solo con i due figli e di essere costretto

a prendersi cura di loro. I bambini della Guerra dei mondi sono più saggi del loro padre,

sono loro ad aiutarlo nella sua evoluzione di genitore.

Negli anni dieci il regista non riesce più a raggiungere la purezza di intenti dei film

passati, ma la pandemia lo aiuta a trovare il coraggio per affrontare i propri demoni e gli

amori familiari con The Fabelmans, uscito nel 2022 e già entrato nella leggenda per i fans

di Spielberg, gli ex-bambini della generazione di Elliott.

Daniela Brogi nel suo testo Spielberg, l’infanzia dell’arte, fa una riflessione molto

mirata in merito a questo: “Forse la chiave più significativa è la scelta di chiamare un film

sul cinema non con il nome di un singolo eroe, ma con il cognome di una famiglia: una

trovata che ci fa capire anche meglio come dentro questo racconto la famiglia non sia il

posto da cui fuggire e contro cui affermarsi, ma agisca continuamente da nutrimento creativo

e emotivo [...] La famiglia e il cinema, così come agiscono in The Fabelmans, sono

livelli di vita e di immaginazione che si implicano reciprocamente”.

Non possiamo che chiederci cosa ne penserebbe Dawson Leery, il protagonista

della serie adolescenziale di culto Dawson’s Creek. Nel primo episodio della prima stagione

il quindicenne si trova come tutti i sabati sera nella sua cameretta con l’amica del cuore

Joey, intento a rivedere per l’ennesima volta E.T.

Leery, idealista e fin troppo riflessivo, vuole diventare un regista da grande e Spielberg

è il suo autore di culto; a un certo punto le confida:

“Sono convinto che nei film di Spielberg ci siano

tutte le risposte ai dubbi della vita. [...] Ogni volta

che ho un problema non devo far altro

che guardare un suo film e trovo la soluzione”.

Quante volte lo abbiamo fatto anche noi?

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Lungometraggi di Steven Spielberg

1971 Duel

1974 Sugarland Express (The Sugarland Express)

1975 Lo squalo (Jaws)

1977 Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind)

1979 1941 - Allarme a Hollywood (1941)

1981 I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark)

1982 E.T. l’extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial)

1984 Indiana Jones e il tempio maledetto (Indiana Jones and the Temple of Doom)

1985 Il colore viola (The Color Purple)

1987 L’impero del sole (Empire of the Sun)

1989 Always - Per sempre (Always)

Indiana Jones e l’ultima crociata (Indiana Jones and the Last Crusade)

1991 Hook - Capitan Uncino (Hook)

1993 Jurassic Park

Schindler’s List - La lista di Schindler (Schindler’s List)

1997 Il mondo perduto - Jurassic Park (The Lost World: Jurassic Park)

Amistad

1998 Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan)

2001 A.I. - Intelligenza artificiale (A.I. Artificial Intelligence)

2002 Minority Report

Prova a prendermi (Catch Me If You Can)

2004 The Terminal

2005 La guerra dei mondi (War of the Worlds)

Munich

2008 Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo

(Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull)

2011 Le avventure di Tintin - Il segreto dell’Unicorno

(The Adventures of Tintin: The Secret of the Unicorn)

War Horse

2012 Lincoln

2015 Il ponte delle spie (Bridge of Spies)

2016 Il GGG - Il grande gigante gentile (The BFG)

2017 The Post

2018 Ready Player One

2021 West Side Story

2022 The Fabelmans

44/FOTOGRAMMI


Io sogno per

vivere

Steven Spielberg

45/FOTOGRAMMI


Stranger Things

serie TV

USA

2016 - in corso

4 stagioni,

la quinta in lavorazione

Ideazione

Duffer Brothers

Distributore

Netflix

Alla prima puntata della prima

stagione (The Vanishing of Will Byers)

si è creato una sorta di corto circuito

gioioso nella nostra testa: veder

sfrecciare quei ragazzini sulle loro

BMX come i Goonies, osservarli mentre

sfuggivano ai genitori e alle autorità

come in E.T. - e immediatamente tifare

per loro - voleva dire ricordarsi di

quanto succedeva a noi da piccoli,

quando il mondo era tutto fuori, vero,

tangibile, e stare con gli amici aveva lo

stesso sapore del cartone molle delle

pizze e dei calzini sudati.

Il dono dei fratelli Duffer a noi

spettatori che proveniamo dall’era

analogica è prezioso, accurato e

inestimabile. Un’esperienza epica, un

grande classico nel suo genere, fin dalle

prime battute.

La serie si presta a molteplici visioni,

anche consecutive, a lunghi inverni da

piumone, a sogni notturni vividi e

all’acquisto compulsivo di t-.shirt a

tema, talmente è perfetta

esteticamente, alta e bassa, pop e

filosofica, o perlomeno è affine al nostro

ideale di perfezione stropicciato, fatto

di giacconi di velluto, soffitte, e campi

di zucche; tutto l’immaginario

americano che ci ha cresciuti negli anni

della guerra fredda, quelli della

narrazione binaria.

Questo dono è perfetto anche per uno

scambio affettuoso tra generazioni; è

entusiasmante farlo assaporare ai

nostri figli, ignari dei mille riferimenti

alla cinematografia degli Eighties.

Loro non possono sapere com’era

girovagare al tramonto senza l’incubo

Gli strambi di Hawkins

Paola Ranzini Pallavicini

Why are you keeping

this curiosity door locked?

Perché tieni chiusa

a chiave questa porta

della curiosità?

Dustin

di venire tracciati da un’app sul

cellulare, ma possono godere dello

spettacolo pirotecnico ricco di tutto

l’armamentario nerd che non passa mai

di moda: mostri orripilanti, storie

d’amore in palestra e apocalisse a

colazione.

Possono commuoversi per la splendida

immagine dell’amicizia pura,

incondizionata di quell’età.

Possono fare tesoro della potente

metafora del sottosopra: mai

stratagemma fu più azzeccato per far

capire ad un preadolescente che non

siamo soli, che i momenti bui capitano a

tutti, alle cheerleaders, ai geni della

matematica e persino alle supereroine.

Che trovando nella nostra unicità la

forza per reagire diventiamo tutti dei

potentissimi combattenti, senza

nemmeno bisogno di poteri

coreografici.

46/FOTOGRAMMI/note


Che la musica, se tutto il resto non

bastasse, ci salva ancora, e ancora.

Che a volte un disegno a pastelli vale

più di mille spiegazioni.

Che un waffle surgelato è più buono di

una torta fatta a mano, se divorato con

gli amici (gli anni ottanta come una

serie infinita di merendine

confezionate, niente spuntini biologici

ma più pomeriggi sguinzagliati nel

quartiere).

Perché “gli amici non mentono” e non

badano al tuo peso, al punteggio della

tua squadra di basket o al conto in

banca dei tuoi genitori.

Sembra nulla, e invece con gli amici

accanto le radici scure non riusciranno

a intrappolarci, le spore gelide non

andranno a scalfire parti vitali. Il

sottosopra, che invenzione magnifica!

In pochi anni già sono stati pubblicati

diversi saggi a tema.

La serie statunitense ha preso il via nel

2016 con la prima esplosiva stagione, e

vanta una rosa di personaggi

azzeccatissima e già leggendaria dopo

poche settimane dal lancio

internazionale.

Ciascuno di loro ha potuto vivere il suo

momento di gloria nello srotolarsi delle

quattro stagioni trasmesse; ciascuno

con le sue doti ha contribuito alla

sconfitta di entità mostruose sempre

più subdole, che senza tregua hanno

messo ai ferri corti la cittadina di

Hawkins, luogo di fantasia in Indiana.

Will, Mike, Dustin, e Lucas

costituiscono il nucleo originario.

Eleven/Undi è la ragazzina giunta tra

loro da un posto misterioso, e resta la

protagonista assoluta, senza oscurare

mai gli altri. Nancy, Steve e Jonathan

sono i fratelli maggiori, vere e proprie

ancore di salvezza, ma incasinati più

dei piccoli. Max, Robin e Eddie si

aggiungono poi, ma ci conquistano in

maniera struggente.

La storia è collocata nel 1983; l’ultima

stagione termina nel 1986.

La colonna sonora è una rassegna dei

più grandi successi di quegli anni, e

addirittura i brani Running Up That

Hill di Kate Bush, ascoltato all’infinito

da Max nelle cuffiette del walkman

(Dear Billy, quarto episodio della

quarta stagione) e Master Of Puppets

dei Metallica, suonata in modo divino

da Eddie (The Piggyback, nono e ultimo

episodio della quarta stagione)

collaborano attivamente alla

costruzione della trama, diventando

elementi fondamentali alla

comprensione dei fatti.

La storia affonda le radici nel gioco da

tavolo Dungeons & Dragons tanto

quanto nei racconti di Lovecraft.

I rimandi ai film di culto dell’epoca sono

molti, e stratificati: dai già citati E.T.

l’extra-terrestre e I Goonies, a

Terminator, La storia infinita, Alien,

persino il terrificante Carrie; dalla

trilogia di Indiana Jones a Incontri

ravvicinati del terzo tipo, passando per

Pretty in Pink, Nightmare e Wargames.

E sono solamente i più vistosi: il

divertimento di scovarne altri

continua, in un gioco di dettagli infinito.

Questa serie è un’enorme, ghiotta

citazione, e può essere gustata con la

giusta consapevolezza solo se prima si

è assistito agli originali. Chi li ha visti

da ragazzino li ha introiettati, e tenderà

a confondere i propri ricordi di infanzia

con quelli di celluloide, e per questo

commuoversi parecchio. Ma può essere

compresa da tutti, e qui sta la sua forza,

perché ha un messaggio toccante e

universale e nell’epoca controversa in

cui viviamo colpisce per la semplicità

cristallina di intenti che i protagonisti

incarnano, senza per questo risultare

mai macchiette. Strambi, coraggiosi,

leali, fieramente vulnerabili.

47/FOTOGRAMMI/note


LEWIS

CARROLL.

AL DI

LÀ DELLO

SPECCHIO

Nicola Guida

48/ombre


Ieri ho scattato la mia prima fotografia

nel nuovo studio, Julia Arnold: è stata con me,

con Ethel, per circa tre ore.

Il lavoro del semestre è finito.

Che Dio benedica le vacanze, la mia vita

futura, e che mi aiuti a servirLo con maggior

autenticità.

Amen.Se sei nato sordo da un orecchio, balbuziente, timido e soffri di

crisi di ansia, finisci per rifugiarti in un mondo immaginario,

al di là dello specchio.

Se però sei anche vanitoso, e vuoi farcela, vuoi assolutamente

emergere nella noiosa società vittoriana, farai di

tutto per superare questi tuoi limiti, anche inventare un’identità

alternativa.

Ed è quello che ha fatto Charles Lutwidge Dodgson, attraversando lo specchio, per

inseguire la migliore versione di se stesso, e forse incontrarne la peggiore, come un oscuro

doppelganger.

Quando nacque nel gennaio 1832, la sorella di suo padre scrisse una lettera ai suoi

genitori, accogliendo il “caro piccolo straniero” e pregandoli di baciarlo per lei.

Suo padre, sacerdote, già “esageratamente gioioso” ogni volta che guardava la sua

famiglia, mise addirittura un avviso sul Times per annunciare l’arrivo del suo tanto desiderato

primo figlio maschio.

Il bambino sarebbe cresciuto fino a diventare Lewis Carroll, autore di due dei libri

per bambini più famosi al mondo, ma il mistero e le polemiche lo avrebbero circondato in

età avanzata.

Una cosa che di certo non cambiò mai fu il suo profondo attaccamento ai membri

della famiglia, e il loro a lui.

Durante i suoi primi undici anni i Dodgson vissero in una piccola canonica in mezzo

ai campi, nel raccolto villaggio di Daresbury, nel Cheshire - non è noto sapere se il giovane

Charles conoscesse il famoso gatto.

La canonica bruciò più di cento anni fa ma il sito dove sorgeva è ancora lì, segnato

in mattoni e racchiuso in una recinzione decorativa di ferro, con la campagna tutt’intorno,

meta di pellegrinaggio di turisti e appassionati. Da ciò che possiamo ancora vedere le

stanze erano minuscole, perché il padre di Charles era solo un povero curato, nonostante

provenisse da una famiglia di religiosi e militari, e doveva accogliere in casa gli alunni e

trovarsi di che vivere.

49/Ombre


Charles comunque ricordò sempre Daresbury Parsonage come un luogo felice, una

“piccola isola fattoria, in mezzo a mari di mais”. Lui e un numero sempre crescente di fratelli

e sorelle vagavano nelle campagne circostanti, e le sue sorelle lo consideravano un tipico

ragazzino di campagna, uno che si arrampica sugli alberi e gioca negli stagni, lontano

dall’uomo posato che sarebbe diventato da adulto.

Dopo che suo padre fu promosso, la famiglia si trasferì in una grande canonica nel

villaggio di Croft-on-Tees, nello Yorkshire, e presto la famiglia crebbe fino a undici figli.

Charles era sicuramente molto giovane quando decise di diventare il principale intrattenitore

della famiglia.

Divertiva instancabilmente i suoi fratelli e sorelle, inventando elaborate avventure

per farli giocare in giardino, raccontando loro storie e invitandoli a creare le riviste della

parrocchia.

I suoi contributi giovanili a queste riviste mostravano già ciò che sarebbe accaduto

in futuro: la duchessa di Alice, che vedeva una “morale” in ogni cosa, riecheggia nella sua

poesia My Fairy, scritta quando aveva appena tredici anni, in cui critica il moralismo dei libri

per bambini.

Ho una fata al mio fianco

che dice che non devo dormire.

Quando una volta provai dolore gridai

forte, disse: “Non devi piangere”.

...Quando una volta un pasto ho voluto assaggiare

Ha detto: “Non devi mordere”

Quando alle guerre sono andato in fretta

Ha detto: “Non devi combattere”.

“Cosa posso fare?” gridai a lungo,

stanco del doloroso compito.

La fata rispose tranquillamente e disse:

“Non devi chiedere”.

Morale: “Non devi”.

Da tutti i resoconti giunti fino a noi pare che Charles apprezzasse molto il ruolo di

fratello maggiore: era marcatamente protettivo, si gettava nelle risse in difesa dei ragazzini

più piccoli, gli amici raccontavano quanto si prendesse cura di loro, una nipote lo paragonò

perfino ad una “chioccia”.

Aveva molto in comune con alcune delle sue sorelle ed era meno appassionato

degli sport di campagna che piacevano ai suoi fratelli.

50/Ombre


Di lui si ha conferma persino che fu uno dei primi anti-vivisezionisti, condividendo

la preoccupazione per il benessere degli animali con la sorella più giovane Henrietta.

La scuola non era obbligatoria all’epoca, ma per un ragazzo era decisamente meglio

frequentarla se voleva avere una carriera professionale.

Charles fu educato a casa per i primi anni della sua vita: di quel tempo si conservano

gli elenchi delle sue letture, che indicano quanto il suo intelletto fosse brillante. Era un

avido lettore, ma dalla nascita ebbe il problema della balbuzie, che lo perseguitò per tutta

la vita, minando i suoi rapporti sociali.

A dodici anni, per tentare di curare questo suo impedimento del linguaggio, venne

iscritto alla Richmond Grammar School, che frequentò per un paio d’anni con immensa

felicità, per poi essere mandato in un collegio, la Rugby School, della quale, al contrario,

detestò il triennio trascorso.

Fece molto bene e vinse numerosi premi, perchè era bravissimo a giocare a rugby,

ma odiava la mancanza di privacy della scuola e l’insegnamento poco ispirato.

Anni dopo ammise che non era stato del tutto male, perché si era fatto degli amici,

ma aggiunse che nulla al mondo lo avrebbe mai convinto a ripetere gli anni che aveva

sopportato lì:

“Nessuna considerazione potrebbe indurmi a ripetere i miei tre anni ... Posso dire

onestamente che se fossi stato ... risparmiato dai disturbi notturni, sopportare la

durezza della vita diurna sarebbe stato, in confronto, un nonnulla”

La natura dei “disturbi notturni” a cui Dodgson allude non è nota, ma si è ipotizzato

che si tratti di bullismo, o di un delicato riferimento a qualche forma di molestia di natura

sessuale.

A diciannove anni andò a Christ Church, a Oxford, la vecchia scuola di suo padre.

Vi era entrato da appena due giorni quando ricevette la notizia che sua madre era

morta. Qualsiasi fossero i sentimenti di Dodgson per la morte della madre, scomparsa a soli

quarantasette anni, non lasciò che lo distraessero dagli studi.

Era eccezionalmente dotato e motivato, e ricevette numerosi riconoscimenti formali

per i suoi notevoli risultati. In breve tempo fu nominato Fellow, e fu impegnato nell’insegnamento;

la sua carriera accademica, però, rimase sempre in un curioso equilibrio, tra il

valzer e la noia, fra brillanti risultati e tediata pigrizia.

È difficile sapere cosa pensasse veramente di Christ Church. Di sicuro nei primi anni

trascorsi lì ad insegnare non fu particolarmente felice, ma la posizione offriva opportunità

per leggere, riflettere e usare la mente e, nel costruirsi una vita di successo, stava facendo

ciò che sia lui che la sua famiglia si aspettavano.

Il college era quasi tutto maschile e appariva emotivamente piuttosto desolante:

51/Ombre


insegnare agli studenti universitari non gli andava a genio, perché con la sua voce calma,

i modi gentili e la balbuzie fastidiosa trovava difficile mantenere l’ordine.

Alcuni dei coetanei più rudi prendevano in giro le sue difficoltà di linguaggio, e

molti degli studenti universitari erano giovani ricchi che non volevano imparare e si consideravano

migliori di lui.

Pareva affrontare i disagi emotivi della sua vita presentando un volto freddo e remoto

a coloro che non conosceva bene, rifugiandosi emotivamente in un ruolo che non era il

suo; soffrendo, a detta dei famigliari, di frequenti momenti di depressione. Al fine di rispettare

le regole arcaiche del collegio gli toccò prendere con riluttanza gli ordini sacri e sapeva

che sarebbe stato obbligato a rimanere celibe finché fosse rimasto al lavoro.

Sorpassati i vent’anni si trovava sempre più impegnato nel lavoro - d’altra parte

necessitava di uno stipendio decente, perché suo padre aveva pochi soldi e, da figlio maggiore,

sapeva che si sarebbe dovuto assumere la responsabilità di tutti dopo la sua morte.

Rimase comunque sempre accanto alla sua famiglia, percorrendo il lungo viaggio di ritorno

a nord durante le vacanze e socializzando con i fratelli e le sorelle ogni volta che poteva.

L’ormai reverendo Charles Dogdson, nonostante la balbuzie e la sordità, era comunque

rimasto, in società, un buon intrattenitore, qualcuno che dava l’idea di essere una persona

socievole in cerca dell’ammirazione del prossimo. In un’epoca in cui era importante

persino saper recitare o cantare di fronte ad un pubblico, lui non esitava a mettersi alla

prova, e intrattenere tutti raccontando storie ed indovinelli.

Alto, snello, con occhi enormi, mascella volitiva, sempre attento al modo di vestire e

al modo di porsi con la gente: così appariva agli occhi di tutti verso i trent’anni, e voleva a

tutti costi far qualcosa per cui essere ricordato.

Per questo oltre che essere un brillante matematico si dedicò alla scrittura di poesie,

e racconti, con uno stile compositivo che venne fin da subito giudicato unico, capace di un

simbolismo sbalorditivo e un utilizzo delle parole che creava un’immagine nitida nella mente

del lettore, come essere immersi dal vivo in quanto si stesse leggendo.

Ma non era ancora completamente convinto fosse quella la sua strada.

Ci provò anche con la pittura, ma per scoprire presto di non essere particolarmente

dotato nonostante gli sforzi.

Grazie anche allo stipendio garantito dal ruolo di tutor di matematica, iniziò a interessarsi

ad un nuovo svago, probabilmente il più costoso dell’epoca: la neonata fotografia,

cui fu introdotto dallo zio Robert Wilfrid Skeffington Lutwidge nell’estate del 1855, durante

una vacanza.

La fotografia compensava perfettamente la sua mancanza di talento pittorico, e con

lo zio iniziò a scattare le prime fotografie, principalmente paesaggi agresti e nature morte.

Sei mesi dopo, folgorato dalla nuova passione, Charles scrisse:

52/Ombre


“Ho scritto allo zio Skeffington, chiedendogli

di procurarmi un apparecchio fotografico,

perché voglio trovare qualcosa per me

oltre a leggere e scrivere”

In primavera l’acquisto di attrezzature avvenne a Londra, e fu con la fotografia, dietro

alla mantella nera che lo nascondeva, dietro l’obiettivo puntato sul mondo, che completò la

trasformazione, e adottò il nome d’arte con cui ovunque è conosciuto: Charles divenne finalmente

Lewis. Lewis Carroll.

L’uomo che voleva essere: il poeta, perché fu con questo nome che iniziò a pubblicare

poesie e racconti, e il fotografo.

Carroll pensava fortemente, all’inizio della carriera, che la fotografia gli avrebbe portato

reddito e fama, ma divenne presto chiaro che questo passatempo, pur preso seriamente,

era ancora solamente tale. Un hobby da utilizzare come mezzo per entrare in contatto

con le persone che voleva conoscere, o fotografare, o entrambe le cose.

Dai suoi diari emerge quanto amasse la fotografia, e quanto tempo le dedicasse: la

mattina era tutta spesa per l’insegnamento al college, la sera era dedicata alla preparazione

per le lezioni, mentre la fotografia regnava sovrana nel pomeriggio.

Arrivò ad aprire uno studio fotografico a Oxford sopra i suoi alloggi, nella soffitta, e lì

conservava ogni tipo di oggetto di scena, dai costumi ai giocattoli.

Prendeva molto sul serio la creazione di ritratti fotografici: pensava alla composizione,

alla posizione dei soggetti, alle loro pose, ai loro gesti... studiava nel minimo dettaglio lo

scatto, come forse solo Newton, più di un secolo dopo, fece.

Nonostante non fosse un professionista, eccelse così tanto nella fotografia di ritratto,

all’epoca ancora piuttosto difficile per via dei tempi lunghissimi (fino a un paio di secondi

di scatto) cui erano costretti i soggetti, che molte celebrità accettarono di posare per lui:

grazie a questo dono riuscì ad entrare in contatto con lo scrittore John Ruskin, il pittore

William Hunt e Michael Faraday, lo scienziato, solo per citarne alcuni.

Nelle lunghe lettere che scriveva ai suoi fratelli e sorelle raccontava di come fosse

finalmente coinvolto nella politica del college, instradato in una brillante carriera accademica

e raccontò di quanto amasse passare il suo tempo con Ina, Edith e Alice, le figlie del

rettore Henry Liddell, che viveva con la famiglia nel decanato del college.

L’insegnante divenne amico della famiglia del preside, li visitava spesso: non era

estraneo al trambusto, poiché aveva sette sorelle e tre fratelli, quindi si sentiva a suo agio

in una casa con quattro figli. Con loro, raccontava nelle lettere, poteva sentirsi più simile al

suo vero se stesso, a quella persona che mostrava solo alla sua famiglia.

Nel tempo libero portava fuori le piccole Liddell, le aiutava in moltissimi progetti e

inventava storie per loro.

53/Ombre


54/Ombre


Carroll alimentò il mito romantico che la sua favola più celebre sia stata raccontata

durante una gita in barca il quattro luglio, quando con l’amico Duckworth e le tre ragazze

Liddell remarono fino al villaggio di Godstow. In realtà la storia potrebbe aver preso forma

in due o tre viaggi quell’estate – ma in ogni caso, le piccole Liddell l’adorarono.

Alice Liddell aveva dieci anni all’epoca, tre anni più grande dell’Alice della storia, era

una bambina intelligente e artistica, con capelli corti e scuri e uno sguardo audace e sicuro,

e guardando le numerose foto, scattate dallo stesso Lewis Carroll, sfogliando il manoscritto

del libro con le sue illustrazioni, viene spontaneo chiedersi: si assomigliano?

Charles le era molto affezionato, e quando lei lo tormentò per scrivere la storia lui lo

fece, anche se passarono più di due anni prima che arrivasse al Decanato con il suo regalo

sotto il braccio: un manoscritto dal design intricato intitolato Alice’s Adventures Under

Ground, con 37 illustrazioni dell’autore.

Carroll iniziò a condividere la storia con i figli di altri amici, e iniziò a rendersi conto

che quello che aveva in mano sarebbe stato un giorno un classico della letteratura.

Nelle immagini del manoscritto troviamo Alice for Alice: una rappresentazione collettiva

in cui si possono riconoscere però i lineamenti della vera Alice, una tipica ragazza

vittoriana. Nell’ultimo dei disegni la giovane Liddell era chiaramente raffigurata ma scoprirono

solo nel 1977 che l’autore aveva incollato una foto dell’eroina, scattata da lui stesso,

sopra il disegno.

La relazione tra Carroll e la sua piccola musa forse non era così dolce e innocente

come dovrebbe essere una relazione tra una bambina e un adulto; Carroll era probabilmente

infatuato delle sorelle Liddell. Il rapporto con le bambine, secondo il professore di letteratura

inglese Hugh Haughton, sembrerebbe oggi talmente “intenso” da risultare strano agli

occhi di chiunque.

“Quel che capisco è che fosse innamorato di Alice, ma così represso che non avrebbe

mai trasgredito in alcun modo” sostiene Vanessa Tait, pronipote di Alice Liddell.

Alice aveva solo tre anni quando incontrò Lewis Carroll.

Lui, a quell’epoca, si immaginava di poter diventare un fotografo e, dopo aver conquistato

l’amicizia della famiglia Liddell, li convinse a fargli fotografare le bambine.

Il giardino della famiglia Liddell, disse loro Carroll, era colpito dal sole con una luce

così perfetta che non poteva immaginare di scattare da nessun’altra parte. E con bambine

così affascinanti non poteva resistere, doveva scattare.

I genitori di Alice furono d’accordo, entusiasti che questo fotografo, un gentiluomo,

si interessasse così tanto alla loro famiglia.

Erano a quanto pare decisamente contenti che Carroll, che aveva circa vent’anni

all’epoca, fotografasse le loro giovani figlie.

Ma tra le miriadi di foto scattate da Carroll ce ne sono alcune che riempirebbero

qualsiasi genitore di preoccupazione. In una di queste Alice era fotografata con abiti larghi

che le scivolavano dalle spalle.

55/Ombre


Chiariamo il concetto: le fotografie di bambini nudi non erano rare all’epoca. Altri

celebri fotografi vittoriani che si sono cimentati in questo tipo di opere furono per esempio

Julia Margaret Cameron e Francis Meadow Sutcliffe.

Lewis Carroll non fu di certo il primo né l’ultimo ad esercitarsi in questo genere

nella metà del diciannovesimo secolo, in un momento in cui il giovane mezzo fotografico

stava aprendo nuove possibilità per la rappresentazione visiva, e la nozione stessa di “infanzia”

era in una fase di profonda trasformazione.

Bere tè e raccontare storie non era certo cosa da uomini, la nudità dei bambini era

simbolo di purezza e innocenza, e la grazia delle ragazze doveva esser simile allo svolazzare

delle fate.

Questa è la paradossale base della morale vittoriana.

La maggior parte delle ragazzine ritratte da Carroll scrivevano il proprio nome in un

angolo della stampa, per cui le loro identità sono quasi tutte note.

La sua modella preferita fu Alexandra Kitchin (“Xie”): la ritrasse circa cinquanta volte

fra i cinque e i sedici anni. Nel 1880 Carroll cercò di ottenere il permesso di fotografare la

sedicenne Xie in costume da bagno, senza riuscirvi.

Di certo le sue fotografie di bambini hanno dato forma visiva a concezioni dell’infanzia

appena emergenti nell’età vittoriana, stabilendo probabilmente nuove norme estetiche

per le immagini di ragazze, portando il concetto di “infanzia” al limite attraverso la scelta

degli abiti e del nudo.

Di certo uno degli evidenti obiettivi della sua arte era quello di liberarsi del pesante

fardello della simbologia vittoriana, ritraendo le giovani modelle più come ideali romantici

che come beneducate damigelle della buona società inglese.

Le fotografie di Carroll però non riescono a non essere inquietanti, e quella più inquietante

di tutte fu quella che rimase nascosta nella sua collezione privata e fu rivelata

anni dopo la sua morte.

Era una fotografia a figura intera della sorella di Alice, Lorina, ancora troppo giovane

per aver raggiunto la pubertà, completamente nuda.

L’argomento è controverso, è difficile parlarne e la macchia della sua presunta pedofilia

è come un’ombra nera che sporca l’immagine di un uomo così brillante.

L’idea di un Carroll pedofilo cominciò a germogliare come un’erba cattiva nel 1932 con

alcune affermazioni che si trovavano nel saggio The Life of Lewis Carroll di Langford Reed.

Senza usare termini espliciti l’autore osservò, quasi malignamente, come le amicizie

di Carroll con le ragazzine terminassero quando queste raggiungevano la pubertà; al tempo

stesso suggerì l’idea che Carroll non avesse una reale “vita adulta” e che si trovasse a

suo agio solo in un mondo mentale infantile. Quest’ultimo elemento venne in seguito dato

quasi per scontato, e il dibattito si concentrò sul cercare di capire se l’ossessione di Carroll

per le bambine fosse innocente o morbosa.

56/Ombre


Morton N. Cohen, forse lo studioso più famoso della vita di Carroll, nel suo Lewis

Carroll, a Biography del 1995, scrisse che:

«Non possiamo sapere fino a che punto la preferenza di Charles per i bambini nei

disegni e nelle fotografie nasconda un desiderio sessuale. Lui stesso sostenne che

tale preferenza aveva motivi strettamente estetici. Ma dato il suo attaccamento

emotivo ai bambini e il suo apprezzamento estetico per le loro forme, l’affermazione

che il suo interesse fosse strettamente estetico è ingenua. Probabilmente sentiva

più di quanto volesse ammettere, anche a se stesso. Certamente, cercò sempre di

avere un altro adulto presente quando soggetti prepubescenti posavano per lui.»

Secondo Cohen, Carroll chiedeva sempre alle madri delle bambine di essere presenti

quando si accingeva a ritrarre le loro figlie, e anche questo suo modo di lavorare destò più

di un dubbio a riguardo; si trattava di un atto di autodisciplina per non cadere in tentazione?

Carroll piaceva ai bambini, come ricorda Ruth, nuora dell’architetto vittoriano Alfred

Waterhouse, nel suo libro di memorie. Da piccola una volta giunse a una festa per bambini

e vide un vecchio sacerdote pallido in abiti neri. Pensò che avrebbe rovinato la festa, che

invece “divenne presto la festa del signor Dodgson”, descritto come un uomo affascinante

e apprezzato dai genitori. “Ricordo quanto fosse esasperante sentirsi chiedere se mi sarebbe

piaciuto mangiare un altro pezzo di torta, quando stavo cercando così duramente di

sentire cosa stava dicendo”.

In qualche modo, Carroll ispirava fiducia alle famiglie.

L’unico caso noto di attrito fra lui e i genitori delle piccole modelle è quello che

avvenne nel 1879, ovvero una “improvvisa rottura dell’amicizia” con la famiglia Mayhew

dopo che questi gli ebbero rifiutato il permesso di fotografare nude le tre figlie maggiori

(6, 11 e 13 anni).

Altri autori sostengono che il sospetto di pedofilia nei confronti di Carroll sia la conseguenza

di una errata interpretazione della morale vittoriana e dei rapporti dell’autore con

gli adulti. Non si sposò mai, e mai, è sicuro, volle farlo.

Il matrimonio (con la prospettiva di dover sostentare altre persone) sarebbe stato

certamente il carico da cento ai vincoli sotto i quali già viveva.

Gli avrebbe fatto perdere l’indipendenza, e il solo fatto di essere sposato gli avrebbe

presentato seri problemi pratici per molti anni.

Anche la sua vicinanza ai fratelli potrebbe essere stata un fattore che contribuì alla

decisione. Solo tre degli undici si sposarono, e i restanti sette rimasero sotto la sua cura per

il resto della vita.

Tuttavia, crescendo, ebbe molte amiche. Certamente ebbe molte relazioni con donne

adulte, sia sposate che nubili, e questo a volte gli attirò polemiche.

57/Ombre


La vita sociale nell’Inghilterra vittoriana era altamente formale, e si riteneva improprio

per gli uomini idonei al matrimonio avere amiche adulte senza accompagnatore.

Durante la giovinezza non era stato in grado di trascorrere del tempo da solo con

donne rispettabili, ma dopo aver superato quella che i vittoriani consideravano l’età del

“romanticismo” andò apertamente in vacanza con le amiche e raccolse una considerevole

cerchia di ammiratrici.

Come scrisse l’autore Laurence Hutton nel 1903, poco dopo la sua morte, “gli piacevano

le donne giovani, che piacevano a tutti, e Oxford è ora piena di donne, mature e immature,

che adorano il dolce ricordo del creatore di Alice”.

Tornando alla macchia della presunta pedofilia di Carroll, è certo che, per tutto il tempo

in cui frequentò Alice Liddell e le sorelle, tenne un diario meticoloso delle sue giornate.

La maggior parte di questo diario è arrivato ai giorni nostri, ma le pagine tra il 1858

e il 1862, quando Alice aveva meno di dieci anni, sono state strappate e distrutte probabilmente

dal suo stesso autore.

Il rapporto di Carroll con la famiglia andò in pezzi durante quegli anni, e qualunque

cosa fosse accaduta Carroll era così sconvolto – o forse si vergognava – che lo strappò dal

suo libro. L’unica testimonianza che abbiamo è una breve nota della nipote di Carroll, che

ha letto una sola delle pagine mancanti.

“L.C. apprende dalla signora Liddell che dovrebbe usare i bambini come mezzo per

fare la corte alla governante”

“Dovrebbe anche corteggiare presto Ina.”

“L.C.” è Lewis Carroll, e “Ina” è la sorella maggiore di Alice, Lorina, la giovane ragazza

che ha posato nuda per la macchina fotografica di Carroll, e il cui ritratto è rimasto nascosto

per anni.

Non sappiamo con certezza se i Liddell sapessero di quella foto, ma a quanto pare

non si preoccuparono dell’attenzione dell’uomo più anziano verso la loro bambina; piuttosto,

per quanto poco ci è dato di capire da questa nota, delle dicerie sulla corte alla governante.

Le voci si diffusero attraverso Oxford: dove erano posizionati i famigerati limiti della

decenza e la linea di demarcazione tra relazioni platoniche e pensieri osceni?

Carroll si ritirò dalla famiglia, scioccato dai sospetti.

Le sue visite a casa Liddell cessarono e gli incontri con Alice e le sorelle divennero

formali, e rari.

I discendenti descrissero la signora Liddell come una “snob” che distrusse la maggior

parte delle foto e delle lettere di Carroll ad Alice, la quale non era più una bambina e la

severa morale vittoriana entrò in pieno vigore.

Per mesi Carroll non frequentò più casa Liddell.

Fu nel maggio 1864 che riuscì a passare per una visita.

58/Ombre


Avrebbe voluto portare ancora una volta le ragazze sul fiume, disse alla signora

Liddell, e raccontare loro storie come in passato.

Qualcosa, però, era cambiato. Con le pagine di Carroll strappate dal diario non sapremo

mai con certezza cosa fosse successo, ma l’opinione della signora Liddell non era più la

stessa. Ora, gli disse, non gli sarebbe mai più stato permesso di frequentare le sue figlie.

Carroll avrebbe visto Alice solo poche altre volte, e sempre con la madre presente.

Smise improvvisamente di fotografare nel 1880, dopo 24 anni di attività e più di 3000

scatti. Meno di un terzo di queste immagini sono sopravvissute; alcune sono state deliberatamente

distrutte dallo stesso autore, altre sono state restituite alle famiglie.

E man mano che la fama dei libri cresceva a dismisura, la gente si chiedeva chi

fosse l’uomo che li aveva scritti.

Ma Charles non ebbe mai intenzione di rivelarsi al pubblico.

Scrivere un libro per bambini non migliorò particolarmente la sua carriera professionale,

e rifiutò categoricamente di riconoscere in pubblico di essere “Lewis Carroll”.

Per quanto riguarda la vita quotidiana, “Lewis Carroll” era una completa non-persona.

Charles è sempre stato conosciuto personalmente solo con il vero nome, le lettere

dirette allo pseudonimo furono sempre restituite senza risposta alcuna, e si allontanò sempre

dagli estranei che osarono menzionare Alice in sua presenza.

Tempo dopo, Alice Liddell sposò un giocatore di cricket e in seguito vendette la prima

bozza di Le avventura di Alice nel Paese delle meraviglie che Carroll le aveva regalato.

Charles Lutwidge Dodgson nel frattempo scrisse più di una dozzina di libri, ma nessuno

fu così pieno di ispirazione, nessuno raggiunse il successo delle storie scritte per la

sua musa ispiratrice, una bambina di dieci anni di nome Alice.

59/Ombre


BOLLE

CONTROVENTO.

TEATRO ED

EDIZIONI

ILLUSTRATE

PER BAMBINI

Michele Cafaggi e Izumi Fujiwara

60/PAGINE


Le mani di Izumi

©Nicola Guida

Cari lettori, ci presentiamo: siamo lo Studio TA-DAA! Ovvero,

Michele – clown, mimo, regista di spettacoli teatrali – e Izumi

– pittrice, illustratrice e performer. Insieme ci occupiamo

principalmente di spettacoli e intrattenimento per bambini e

famiglie. Il nostro lavoro è svolto dal vivo a contatto con il

pubblico o con gli allievi dei laboratori.

Non siamo autori puri di libri per l’infanzia, in realtà ci

siamo entrati dalla porta secondaria, non è la nostra prima vocazione e guardiamo noi stessi

questo mondo con incanto e ammirazione.

61/PAGINE


Dediche dello Studio TA-DAA! sui frontespizi dei loro libri

MC

La nostra incursione nell’editoria per bambini nasce da un’esigenza, quella di portare

lo spettacolo teatrale fuori dal teatro e dargli nuova vita.

Avere un’urgenza è un buon modo per iniziare un progetto artistico. Qualsiasi genere

si affronti, che sia comico o drammatico, partire da un’esigenza interiore credo sia l’unico modo

per portare a termine un lavoro che comunichi emozioni. Intendiamoci, non sempre si deve

essere ispirati da grandi temi o missioni speciali. Soprattutto nel comico per bambini l’urgenza

è spesso una cosa più intima. E non è detto che lo spettacolo ne parli apertamente, ma fa

parte di quel bagaglio, di quel sotto-testo che dà spessore alle azioni e all’intensità di ciò che

appare in scena.

62/PAGINE


Chissà, forse un giorno

un bambino diventato

adulto pescherà

nel fondo di un cassetto

della sua memoria

un’immagine,

una frase di quel libro

e darà vita a qualcosa

di diverso ancora.


Lo spettacolo finisce, si accendono le luci e il pubblico esce dalla sala portandosi via

le proprie emozioni e la propria gioia, ma presto svaniranno, si tornerà alla vita di tutti i giorni

e rimarrà un ricordo sempre più sbiadito. Come fissare l’attimo? O piuttosto come dare uno

strumento creativo allo spettatore entusiasta? Un libro illustrato è stata la nostra risposta,

come si tiene un fuoco vivo soffiandoci sopra e aggiungendo nuovi pezzi di legno l’idea è

quella di alimentare il ricordo, ma non con un video, non con la replica esatta di ciò che è

stato. Con qualcosa di più. Ci interessa che il pubblico dia forma alla sua esperienza con

qualcosa di nuovo e che questo crei una catena di immagini che arricchisca il bagaglio personale

di ciascuno di noi.

Il primo libro, Il Mago delle Bolle, è nato così: ho chiesto a Izumi di disegnare ogni

scena dello spettacolo e lei è andata oltre la descrizione e ha inserito all’interno delle tavole

il suo mondo onirico dando vita ad un nuovo universo. In seguito abbiamo chiesto a Elisabetta

Jankovic di scrivere una storia ispirata alle immagini. Elisabetta non aveva ancora visto lo

spettacolo e quindi cambiando l’ordine temporale della sequenza originale, come in un gioco

ha dato vita ad una storia nuova e molto divertente. Chissà, forse un giorno un bambino diventato

adulto pescherà nel fondo di un cassetto della sua memoria un’immagine, una frase

di quel libro e darà vita a qualcosa di diverso ancora.

Il nostro secondo libro, Controvento, ha avuto una genesi differente, lo spettacolo a cui

è ispirato racconta una storia senza parole, una storia semplice, ma ricca di sotto-testi e interpretazioni,

quindi ne è nato il desiderio di mettere quelle parole in un breve racconto che

andasse a completare quello visivo.

Schizzi preparatori di Izumi

Ora stiamo lavorando ad un nuovo libro, questa volta non ispirato ad uno spettacolo.

Izumi ha ripreso la collaborazione con Elisabetta Jankovich, si stanno interrogando su come

spiegare la guerra ai bambini. Tema molto attuale e complesso. Elisabetta ha scritto un racconto

commovente e dolce e privo di retorica, Izumi sta preparando i bozzetti. Il lavoro è lungo

e si lavora in sinergia, correzioni e aggiustamenti sono all’ordine del giorno ma quando si lavora

in equipe è proprio questo il valore aggiunto. Avere la capacità e la fiducia di ascoltarsi

a vicenda dà ricchezza al prodotto finale.

Dai bambini impariamo lo stupore e la capacità di emozionarsi senza freni, rimango

sempre molto stupito da quanto sappiano recepire e reinterpretare a modo loro quello che gli

viene proposto. A volte i loro commenti sono sorprendenti e aggiungono nuove e interessanti

interpretazioni alla proposta originale.

64/PAGINE


I due libri pubblicati con

edizionicorsare

Schizzi preparatori di Izumi


Izumi e Michele

©Nicola Guida

IF

Dai bambini impariamo tante cose, in ogni momento ci fanno stupire perché loro non

hanno filtri, soprattutto fino alle scuole elementari.

Quando studiavo disegno al liceo nel 1994, ogni volta che dovevo cercare di realizzare

un nuovo progetto, cercavo sempre un’idea unica e il la migliore nel mondo, cercavo sempre

uno stile di disegno che non esisteva, almeno ci provavo.

Non avendo internet a casa, cercavo di confrontarmi con me stessa e cercavo dentro

di me un’illuminazione unica. Avevo 18 anni, il mio pittore preferito era Tadanori Yokoo: lui diceva

sempre “l’idea giusta arriva dal cielo alla mia testa, prima di dipingere vedo una luce”.

Come lui allora anche io cercavo sempre l’occasione di vedere questa luce.

66/PAGINE


天 上 大 風

Ma non sapevo come si faceva... Mi mettevo i tappi nelle orecchie e davanti alla scrivania,

guardavo la luce del lampadario senza chiudere gli occhi e quando si stancavano li

chiudevo forte, vedevo nel retro delle palpebre delle luci particolari, a volte gialle e a volte

verdi neon, cercavo di disegnare le forme delle luci che vedevo. Oppure schiacciando forte le

palpebre, vedevo luci e forme differenti. Ero convinta che il mio disegno fosse unico e il migliore

del mondo.

Se ci penso adesso, era davvero un comportamento estremo, ma quando ho conosciuto

il mondo dei bambini, mi sono stupita e riempita di gioia. Quando studiavo all’università,

per un certo periodo ho lavorato in una scuola materna per fare un laboratorio d’arte con i

bambini. All’epoca ero troppo giovane non avevo la maturità per stare coi piccoli, mi sembravano

alieni, ma conversando con loro, piano piano, mi sono lasciata catturare dalle cose assurde

e buffe che facevano e ho cominciato a scrivere le frasi surreali e poetiche che dicevano

liberamente.

Mi sono divertita tanto a stare coi bambini piccoli, mi hanno dato materiale per creare

il doppio di quello che sarei riuscita a fare da sola, grazie alla loro immaginazione pura.

Ho capito che anche io devo essere così quando disegno: non dimenticare mai di

emozionarmi in ogni momento, altrimenti non potrò mai disegnare una cosa che emozionerà

gli altri.

Sono passati tanti anni e ormai ho imparato a disegnare più serenamente, non mi

schiaccio più le palpebre tragicamente.

Prima di cominciare a disegnare, faccio tanti schizzi con le matite e poi decido la

quadratura del disegno e i colori. E poi sul cartoncino realizzo con colori a gouache. Se il disegno

è destinato alla stampa, allora lo scansiono e faccio un check con la tavola grafica e

pulisco il disegno e correggo i particolari digitalmente.

bollesapone.com

izumifuji.com

Nei risguardi del libro Controvento, abbiamo raccolto tante poesie e frasi che diversi

artisti hanno scritto sulla tematica del volo.

Per concentrarmi, ispirarmi e avere l’idea per gli schizzi, ho ascoltato tanto Lindbergh

di Ivano Fossati e ho letto Antoine de Saint-Exupèry per esempio. A Michele invece è piaciuto

“Si alza il vento” di Hayao Miyazaki, infatti ho disegnato sull’aereo dello spettacolo un aforisma

ricorrente nel film; 天 上 大 風 – Nel cielo soffia un vento forte.

67/PAGINE


L'A

BU

SI

VO

L’ABUSIVO

racconto estratto da

Io che non conosco la vergogna

Solidea Ruggiero,

Edicola Ediciones, 2013


Riccardo Antolini

Dead flowers, pastello

su carta, luglio 2022

—E cherpè non si svegliano?

—Perché stanno riposando. E si dice PERCHE’ ti ho detto!

—E cherpè stanno riposando?

—Perché sono stanchi.

—E quando si svegliano?

—Quando non sono più stanchi. Ora mamma e papà dormono,

va bene?

—E cherpè non ci possiamo restare a casa nostra? Io voglio mommire nella cameretta mia,

Timone!

—E perché, perché! E che palle! —Simone si alza con la testa penzoloni e le mani che sbracciano.

—Hai detto una rarolaccia!

—No, non ho detto una parolaccia.

—Sì! Timone hai detto una rarolaccia! E cherpè non possiamo portare Mia con noi?

—Perché no!

—Ma chi le dà da mangiare poi?

—Lasciamo le crocchette nel giardino t’ho detto!

—E no! Poi se li mangiano tutti gli altri mici Timone! Timone dove vai? E non mi lasciare da

solo! —e lo segue di corsa al parco davanti casa.

—E cherpè mamma e papà sono così stanchi? E’ da ieri che mommono! Io non ci voglio

mommire a casa di zia Tina!

—Pulisciti il naso e chiuditi la cerniera!

—Io non la so chiudere la zenniera Timone! E cherpè sei arrabbiato con me? Che t’ho fatto io?

—Non sono arrabbiato con te Teo.

—Non è vero!

—Sì invece! E non fare la lagna!

Teo si mette le manine in bocca e comincia a mangiarsi le unghie.

—T’ho detto di non metterti le mani in bocca! —e Teo scoppia a piangere, pieno di singhiozzi

e con la faccia che si arrossa. Simone se lo avvicina con forza e gli chiude la lampo, poi gli

afferra la mano e lo porta vicino allo scivolo.

69/PAGINE


—Dai, sali!

—No! Io ho palula dello sivolo! —e continua a singhiozzare.

—T’ho detto Sali! —e lo spinge.

—Ho palula! —allungando la a, ricomincia a piangere.

—Sali, ci sono io qui. Ci nascondiamo lì in cima, così la zia Tina non ci trova Teo e rimaniamo

qui a casa con Mia, va bene? —e Teo frena le lacrime, e ondula la testolina annuendo.

Avevano cambiato la legge da poco, quindi ora dall’obitorio il morto te lo potevi riportare a

casa per la veglia. Tina non fece in tempo a rientrare nella stanza di ospedale, quando l’infermiera

la bloccò, e le disse: Mi spiace signora!

Quello delle pompe funebri le si manifestò davanti all’improvviso dicendo: Le porgo le mie

condoglianze, noi siamo proprio qui sotto l’ospedale in via Mazzini, venga, così possiamo

parlare del funerale e tutto il resto, e se ci lascia i vestiti che ha scelto, appena fatto ve li

portiamo a casa. Ha già avvertito il parroco? Altrimenti se mi dice qual è la chiesa pensiamo

a tutto noi.

E le consegna il biglietto da visita. Tina si ritrova in una sottospecie di caveau, in mezzo ad

una serie di bare allineate e l’addetto che le illustrava legno di noce, intaglio con la Madonnina,

intaglio di Gesù, cuscinetti abbinabili, i lumini di San Giacomo, la corona dei fiori.

—Qual è la frase che ha scelto per le tombe?

—E i bambini dove sono? Giuseppe hai visto i bambini?

—No, forse sono qui fuori a giocare.

—Annalisa hai visto i bambini? —e si fa spazio tra le persone e il coro lamentoso del Secondo

Mistero Glorioso, annunciamo la tua morte o Signore.

— Timone?

—Eh, che c’è Teo?

—Ma cherpè ci sono tutte quelle persone a guardare mamma e papà che mommono?

—Perché sì Teo. E stai un po’ zitto che se no ci sentono e ci trovano!

Dall’alto dello scivolo, Simone vedeva il portone di casa aperto e la gente che continuava ad

arrivare, il signor Franco e Alberto, che fumavano davanti alla panchina sotto il balcone del

primo piano dei Rondelli. Faceva freddo, erano quasi le cinque, ma quel giorno di ottobre

sembrava già inverno. Simone era stanco, non era riuscito ad addormentarsi sul divano letto

che la zia Tina aveva preparato per loro, perché Teo continuava a incastrargli i piedini gelati

tra le gambe e, nel sonno, non faceva altro che mugugnare. Dentro la stanza c’era odore di

vecchio e di chiuso, la zia Tina era una pro-zia, ed era vecchia pure lei. Anche Simone non

voleva dormire lì; la zia Tina le stava antipatica, come a papà.

70/PAGINE


71/PAGINE

Riccardo Antolini

Serie Ma dimmi, dove

giocheranno i bambini?,

pastello su carta,

aprile 2021


—Timone ho freddo io! —e gli tira giù il cappuccio, coprendogli quasi tutta la faccia. Teo se lo

tira un poco all’indietro. Un tipo brutto, piccolo, con la pelata sulla testa e dei ciuffi di capelli

lunghi e unti che gli colano dal collo, si avvicina sotto lo scivolo. Simone lo guarda bene e

pensa: Ah si, quello lo chiamano lo zozzo.

—Siete i figli dei Marocchi vero? —Simone, con gli occhi brutti, gli fa solo cenno di sì con la

testa. Poi riconosce la macchina che sta parcheggiando, si alza, fa alzare anche Teo e comincia

a urlare— Zia Ale, zio Lele! —e mentre con la mano tiene i pantaloni di Teo, guarda fisso

in alto continuando.

—Zia Ale, siamo qui! —e giù, scalino dopo scalino, finché molla Teo e salta a terra andandogli

incontro e urlando ancora.

—Zia Ale!

E gli salta in braccio scoppiando a piangere. Teo gli va appresso, correndo tutto affannato e

goffo e con il naso che gli cola, arriva da Lele e come sente Simone comincia a piangere

anche lui.

Alessandra se lo stringe tutt’addosso, senza togliersi gli occhiali, accarezzandogli i capelli e

dicendogli all’orecchio.

—Schh, Simone stai tranquillo… Schh

E lo fa dondolare come se volesse addormentarlo. Lele pulisce il naso di Teo e gli dice:

—E Mia? E dov’è Mia Teo?

E lui subito sorride e gli indica:

—Là dento il giardino nostro, ma la zia Tina non me la fa portare —e scoppia a piangere di

nuovo. Così Alessandra fa scendere Simone che si aggrappa alle gambe di Lele e si prende

Teo in braccio.

—Amore di zia, te la faccio portare io Mia, e dormite a casa da me eh? Sei contento? Va bene?

E Teo e Simone:

—Sì!

Alessandra e Alessio erano i fratelli più piccoli di Maria Sole. Lele viveva a Torino, Alessandra

era a Bruxelles per lavoro il giorno prima. Riuscirono ad arrivare solo in quel momento. Stravolti,

consumati, cercavano di trattenersi davanti ai bambini. La zia Tina si avvicina indaffarata,

tutta di nero, con quei due peli agli angoli della bocca sempre in evidenza.

72/PAGINE


—E dove eravate nascosti, eh Simone? —con fare brusco e imperativo, mentre lui gira lo

sguardo.

—Zia, i bambini me li porto con me va bene?

Alessandra è nel suo cappotto scuro ed elegante, metà faccia nascosta dentro lo sciarpone

a trecce, mentre Lele la segue tenendo in braccio Teo con le manine in bocca; da sopra le

scale si vede la porta aperta del primo piano con un po’ di persone fuori che continuano a

recitare l’Eterno riposo, dona a loro, o Signore. Alessandra si toglie gli occhiali davanti a tutta

quella gente, in mezzo alla piccola sala le due bare sono quasi attaccate, un poster della

Madonna dietro fa da scenografia e di fronte vede i veli che nascondono i corpi, ma non si

avvicina. Si ferma qualche passo prima, mentre continuano a toccarla sulle spalle, le braccia,

ti devi fare coraggio, poveri bambini! E Teo che urla all’improvviso:

—Mamma, papà! Mamma! E cherpè non vi svegliate! —e Alessandra si butta verso Lele e le

braccia aperte di Teo.

La morte ha odore di chiuso, ha luci pacate, ha fiori che non profumano, ha gente che piange,

ha figli che restano, ha specchi che si coprono, ha riti che cantano, ha corpi immobili, ha

il sangue freddo; la morte ha porte aperte per chi vuole guardare, per chi vuole spiare, ha

urla di cacciaviti che girano a trivella, ha rimbombi di martelli che chiudono le casse. La

morte ha i silenzi della morte, ha un prete che dice sottovoce:

—Oggi ci siamo, domani no. Oggi ci siamo domani no —dondolando quell’affare con l’incenso

che sembra voglia scacciare qualcosa. La morte ha preghiere che non sapevi di ricordare,

ha un organo stonato, una chiesa che non conoscevi con i microfoni che fischiano, e le ginocchia

che si piegano assieme agli altri: prima tutti in piedi, poi tutti in ginocchio, prima

tutti dritti, poi tutti ad abbassare il capo. La morte ha un sermone da scrivere, ha parole inventate

da persone che non conosci. La morte ha le stesse parole che servono per tutti. La

morte ha tutto ciò che resta della vita.

Alessio rimaneva con le braccia incrociate. Alessandra non si alzava mai, seduta con Simone

nascosto nel suo braccio e Teo che gli dormiva sulle gambe. Alessio non rispondeva alle

preghiere. Neanche Alessandra rispondeva alle preghiere. Nessuno dei due andò a fare la

comunione. E dietro di loro i bisbigli:

—E adesso la casa? I Marocchi non l’avevano riscattata? E i bambini chi se li tiene? Dici

Alessandra? E il marito suo dov’è? Guarda quanto le assomiglia alla poveretta, vero? Ma lei

non ce l’ha i figli? Quella Tina, sicuro se li vuole tenere lei i bambini, così si prende la casa e

la dà al figlio disoccupato che vive ancora con lei!

73/PAGINE


74/PAGINE

Riccardo Antolini

Serie Ma dimmi,

dove giocheranno

i bambini?, pastello

su carta, aprile 2021


Lele si gira e le guarda infastidito. Corpo di Cristo: Amen.

—Io porto i bambini a casa, Lele, tu vagli a prendere qualcosa intanto.

Maria Sole e Paolo avevano avuto la case popolare tre anni prima. Non era un bel quartiere,

c’erano un sacco di rumeni e albanesi che vivevano lì.

Lele chiuse la macchina col clic sonoro delle chiavi. Erano le nove di sera. Dei cinque lampioni

a palla per la strada, solo due funzionavano. Quando attraversò, vide delle persone affacciarsi

dietro le tende illuminate, poi subito ritrarsi. Mise la chiave nel buco ma rimase

ferma, non girava. La tolse e la rimise, cercò di forzare, ma niente. Chiamò Tina.

—E certo che sono quelle! Io ho solo quel mazzo.

Riprovò un altro paio di volte. Niente. Cercò di rimanere immobile per capire se sentiva rumori.

Bussò, poi diede un paio di colpi più forte. Ma, a chi bussava? Non poteva esserci

nessuno.

Mentre scendeva le scale Alessandra al telefono.

—Lele, come non ti funziona la chiave?

Rimase qualche secondo davanti alla palazzina e nuovamente vide qualche ombra che spiava

dietro le tende. Da davanti, le finestre dell’appartamento di Maria Sole non si vedevano,

così si strinse la sciarpa e girò dall’altra parte, dov’erano i campi. C’era una puzza di piscio di

gatto fortissima, un cerchione abbandonato e una fila di sacchi d’immondizia sotto una scarpata

ma, mentre continuava ad avanzare in mezzo alle fratte, vide, per una frazione di secondo,

dalla finestra di Maria Sole una sagoma, di un vecchio forse, in penombra, aprire e chiudere

la tenda.

—L’avevamo detto a Tina che doveva cambiare la serratura, che non è la prima volta qua che

ti entrano in casa! Due anni fa successe pure ai Bisacchi, quando andarono in vacanza, te lo

ricordi Albè? I carabinieri hai voglia a bussare. E guarda quel poveretto lì fuori. Ora chi lo

caccia a quell’altro delinquente dello zozzo; figurati, quello non esce più! L’avevo visto che

stava di punta tutto il giorno, e ha avuto anche la faccia tosta di venire alla veglia, sarà venuto

a vedere com’era la casa sicuro!

E Lele si spaventa mentre sente qualcosa che gli si accosta alla caviglia, fa per alzare il

piede e vede Mia che inizia a miagolare.

75/PAGINE


L’importanza di un

giornalismo in

costante colloquio

con il suo giovane

pubblico, con uno

stile che da subito si

smarca ed emancipa

dalle strettoie

ottocentesche per

mettersi in ascolto

di ogni spunto legato

alla modernità.

Alcune pubblicazioni

curate da Paola

Pallottino tra

cataloghi e

monografiche,

compreso un numero

del Giornalino della

domenica di Bertelli

(Vamba) del 1922.

Collage#1

76/PAGINE/note


©Giorgia Berardinelli

77/PAGINE/note


Collage#1

78/PAGINE/note


©Giorgia Berardinelli

L’irripetibile stagione de Il Giornalino della

Domenica, catalogo della mostra, a cura di Paola

Pallottino - Bononia University Press, 2008

Bonaventura. I Casi e le

fortuna di un eroe gentile,

catalogo della mostra a cura

di Hamelin Associazione

Culturale, edizioni Orecchio

Acerbo, Roma, 2007

Guida alla mostra

“L’irripetibile stagione

de Il Giornalino della

Domenicaˮ, Bologna,

2008

In Famiglia,

Luigi Ambrosini,

Bibliotechina

dei Fanciulli,

edizioni

G.B. Paravia & C.

Torino-Milano-

Firenze, Anno

XXI, n. 74, 1920

Cento Anni di

Illustratori - La Matita

di zucchero di

Antonio Rubino,

a cura di Paola

Pallottino

con introduzione

di Bernardino

Zapponi e

conversazione

con Federico Fellini,

Cappelli Editore,

1978

Il Giornalino

della Domenica,

fondato da

Vamba e diretto

da Giuseppe

Fanciulli,

Anno X, n.24,

1922


Collage#2

La nuova illustrazione

per bambini legata

con un nastro ai grandi

maestri come

Arthur Rackham

e ispirata ai colori più

sublimi delle

avanguardie storiche.

Le fiabe di sempre

sospese sul limite

della crescita e i

romanzi contemporanei

che in fondo

affrontano lo stesso

imprescindibile tema.

Tanti disegni di

Andy Warhol da colorare

e le magiche edizioni

Gribaudo che sognano

un’infanzia ancora

semplice e purissima.


81/PAGINE/note


Collage#2

Viaggio su una nuvola,

Véronique Massenot,

con illustrazioni di Elise Mansot

(ispirato a Chagall)

+

La Torre Eiffel all’attacco,

Christine Beigel,

con illustrazioni di Elise Mansot

(ispirato a Delaunay)


Le vergini suicide,

Jeffrey Eugenides

Il libro

dei bambini,

Antonia

E. Byatt

Album da colorare/

A coloring book,

Disegni

di Andy Warhol

(adattamento di

Thames & Hudson/

Gallucci ed.

dell’album The

wonderful world

of Fleming-Joffe

di A. Worhol)

Peter Pan,

J.M. Barrie,

con

illustrazioni

di Arthur

Rackham

Eiapopeia. L’infanzia

nell’opera di Paul Klee,

a cura di Alberto Fiz

Alice nel paese

delle meraviglie,

L.Carroll,

con illustrazioni

di A. D’Agostini

L’albero magico,

Christie Matheson

(ed. Gribaudo)

Una cascata di petali,

Wendy Meddour,

con illustrazioni

di Daniel Egneus

83/PAGINE


Collage#3

Le camere dei bambini sono

disordine, colore, follia

psichedelica. Sono viaggi

interstellari che non

invecchiano mai. Sono

immersioni nelle

meraviglie del bosco,

dell’orto sotto casa o della

savana. Nelle camerette ci

si può trasformare in

fiammanti supereroi, ma

anche in illustri scienziati,

oppure si può montare un

robot pezzo per pezzo per

poi prendersene cura. Si

fanno incontri letterari con

altri bambini di altri

mondi, ci si aggiorna su

cosa accade ogni mese nel

pianeta terra, si progettano

viaggi nelle capitali

d’Europa. Crescere è il

mestiere dei mestieri, un

incessante moto perpetuo.

84/PAGINE/note


85/PAGINE/note


Collage#3

86/PAGINE/note


Fanny & Darko.

Il mestiere

di crescere,

Stefano Benni e

Carlo Roberti,

Mazzotta

editore

Il super libro

per supereroi,

Jason Ford

Robots,

spaceships

and other

tin toys,

Teruhisa

Kitahara,

Taschen

Inventario

illustrato

della natura,

Emmanuelle

Tchoukriel,

Virginie

Aladjidi

Storia di

Primavera,

collana

Boscodirovo,

Jill Barklem

Ada Twist.

Tutte le risposte

vengono al

pettine. Gli

ingegnosissimi,

volume 1,

Andrea Beaty

Dalla Terra

alla Luna,

Jules Verne

La storia

infinita,

Michael

Ende

Internazionale

Kids, mensile

per bambine

e bambini

Berlino,

Tomáš Řízek,

collana

bohem press

87/PAGINE/note


Verso Klee

un occhio vede,

l’altro sente

Marta Silenzi

Esiste una compagnia di ricerca e

sperimentazione teatrale che, come

facciamo anche noi qui a Stanze,

insegue l’ideale di una sinergia tra i

linguaggi espressivi e gioca con musica,

performance, installazioni e video

dando vita a produzioni teatrali per

adulti e per bambini.

Si chiama Tam Teatromusica.

Gli spettacoli hanno coinvolto nel tempo

i detenuti del carcere di Padova,

l’officina delle arti sceniche Oikos

nell’attività pedagogica, il Teatro

Maddalene, un antico monastero

padovano convertito in spazio scenico

versatile, e si sono distinti nel

complesso per un artigianato

tecnologico dal forte impatto visionario

e comunicativo.

Una delle più recenti linee di ricerca

della compagnia è quella che tenta di

avvicinare gli spettatori più giovani

(dai 6 anni in su) all’arte, puntando

l’attenzione sulle figure del ‘900 che più

hanno sperimentato nuovi linguaggi

nelle arti visive, provando a tradurre la

pittura in teatro.

Terzo movimento di una trilogia – dopo

Anima blu dedicato a Chagall e Picablo

dedicato a Picasso – nasce Verso Klee,

un occhio vede, l’altro sente, spettacolo

di figura e videoproiezioni fortemente

ispirato ai burattini di Paul Klee (di cui

vi abbiamo parlato a pagina 26 di

questo numero).

La produzione non intende essere un

omaggio all’artista svizzero ma la

messa in scena di un incontro ideale tra

la poetica di Klee e quella di Tam, tra la

sua ricerca pittorica e la loro ricerca

scenica: “Punti d’incontro li abbiamo

trovati nella comune propensione alla

sperimentazione come luogo di sintesi

tra il vedere e il sentire, nell’attitudine

compositiva antinarrativa, nella

passione per musica e poesia, nel tratto

ludico e nello sguardo infantile con cui

guardare la vita anche quando non si è

più bambini. Per prepararci a questo

incontro, che avverrà sulla scena,

abbiamo attinto ai suoi diari e agli

appunti per le lezioni al Bauhaus,

abbiamo osservato la collezione dei

burattini al Museo di Berna e la maggior

parte delle opere pittoriche, ci siamo

soffermati sui titoli particolarissimi che

le accompagnano e abbiamo sondato

con pudore e curiosità la sua vita

privata piena di gatti, viaggi, amicizie,

affetti e conflitti famigliari.

Sulla scena tutto ciò che abbiamo potuto

ricostruire o immaginare di Klee lo

abbiamo messo in relazione con la

nostra poetica e, alla luce della

trentennale esperienza di teatro per

l’infanzia, ne abbiamo ricavato una

sintesi scenica che esprime la

88/PAlchI/note


profondità nella superficie, là dove

l’invenzione trova la sua più leggera

espressione”.

Lo spettacolo si rivolge ai più piccoli ma

con l’intenzione di far rivivere visioni

ed emozioni proprie del bambino anche

all’adulto, esattamente sulla scia della

ricerca di Paul Klee: “Il pensiero magico

nella mente di un bambino è

sviluppatissimo, possiamo dire che la

occupa totalmente. Nell’adulto esso

esiste ancora ma si trova a convivere

con il pensiero razionale. Il teatro di

Tam lavora sulla soglia tra i due.” – dice

l’autrice della scrittura Pierangela

Allegro – “Anche per questo non

abbiamo mai pensato al teatro per

l’infanzia come a un genere, piuttosto

come a un orizzonte poetico. E abbiamo

preteso che i nostri lavori per la scena

potessero essere apprezzati da tutto il

pubblico senza distinzioni (così come

senza distinzioni di genere è il nostro

teatro). Ogni singolo spettatore di

fronte a una nostra opera è autore

della propria visone. Vede, ascolta,

si emoziona, capisce, si annoia, si

diverte in relazione alla sua età,

all’esperienza culturale, alla sensibilità.

Compresa e non ultima, la disponibilità

a ricevere, interrogarsi, mutare la

propria visione. Il nostro spettatore

ideale è curioso, non è prevenuto, è

pronto a stupirsi, libero dalla necessità

di voler capire tutto e subito, disposto

semmai al ripensamento. Un bambino

è così naturalmente, spontaneamente.

A un adulto si regala la possibilità

di far rivivere la propria infanzia,

a teatro.”

Una compagnia

di ricerca e

sperimentazione

teatrale che

insegue l’ideale

di una sinergia

tra i linguaggi

espressivi

89/PAlchi/note


Tra spunti di diari e titolazioni di quadri

e disegni, riproduzione dei burattini in

forma di maschere da indossare e

creazione di scenari dall’impronta

bauhaus in continua trasformazione,

l’opera è affidata principalmente al

Signor Oscar, un clown dalle grandi

orecchie, e al Signor Klee, entrambi

presenti nel gruppo di trenta burattini

realizzati da Klee per il figlio Felix tra

1916 e 1925, il primo caricatura di

Oscar Schlemmer, collega di Paul Klee

al Bauhaus, e il secondo autoritratto

dell’artista.

I performer in scena, testa di burattino

e corpo di uomo, lavorano anche sulle

diverse attitudini dei due caratteri,

sull’andatura, la gesticolazione,

il timbro vocale, per rendere i tratti

più esuberanti di Oscar e quelli più

poetici di Paul, regalando spessore

ai personaggi e volumetria agli scambi.

I teatrini col sipario rosso, le maschere

cenciose, l’eroico suonatore di violino,

i colori magici e le forme fiabesche

del pittore proiettati sugli apparati

effimeri, ogni cosa si aggira nella

terra di mezzo che è l’arte di Klee,

dove tutto avviene per sensazioni tattili

e fruscii, ritmo e suono, quiete e azione,

nella continua trasformazione di

un elemento nell’altro, alla guida di un

gioco in cui un occhio vede e l’altro

sente.

90


Ideazione

Pierangela Allegro, Michele Sambin

Scrittura

Pierangela Allegro con

Flavia Bussolotto,

Alessandro Martinello

Collaborazione artistica

Alvise di Rienzo Pavanini

(voce del bambino)

Composizione

ed esecuzione musiche

Michele Sambin

Video animazione

Raffaella Rivi, Alessandro Martinello

Scene

Pierangela Allegro, Michele Sambin

(maschere e oggetti)

Fotografie

Claudia Fabris

e Fabio Montecchio

Direzione

Michele Sambin

Produzione

Tam Teatromusica

Contributi

consulenza storiografica Cristina

Grazioli, con la collaborazione

di Comitato Mura di Padova,

Bel-vedere/progetto partecipato

tra artisti-operatori-cittadini a cura

di Echidna Associazione Culturale

e Comune di Mirano, Associazione

Nuova Scena di Piove di Sacco

tutte le info su

www.tamteatromusica.it

91/PAlchi/note


SPACESHIP

Francesco Chiatante

SAGITTARIUS.

L’INCREDIBILE

STORIA

DI ANDREA

ROMOLI

92/VISIONI


Andrea Romoli nel suo

studio

Andrea Romoli

e Francesco Chiatante

(Firenze, 2018)

Tempo fa, di tanto in tanto, tornavo a farmi domande su una vicenda

di cui avevo letto in un breve paragrafo di un libro fondamentale

per la formazione, la comprensione e la riorganizzazione

della mia fantasia alla fine della mia infanzia. In questo

libro, e parliamo di un prodotto pre-internet, si prendeva in

analisi, probabilmente per la prima volta nella storia in lingua

occidentale (tra l’altro in italiano), l’intera produzione a disegni

animati del Giappone, dai suoi albori fino al 1988 catalogando e schedando, prodotto per

prodotto, film cinematografici, OAV, special e serie TV. Il libro in questione era il mitico Anime

– Guida al cinema d’animazione giapponese, pubblicato dalla compianta e pionieristica Granata

Press nel 1991 e firmato da Andrea Baricordi, Massimiliano De Giovanni, Andrea Pietroni,

Barbara Rossi e Sabrina Tunesi (all’epoca i Kappa Boys ed oggi, quatto su cinque, Kappalab)

e vantava, oltre l’incredibile quantità di informazioni contenute, la prefazione di Go Nagai

(mangaka originale, papà di personaggi iconici come Mazinga Z, Goldrake e Jeeg Robot) e che

a partire dall’anno scorso è stato ripreso in mano, proprio da Kappalab, ampliato e ripubblicato

in una serie a volumi che ripercorreranno in maniera approfondita tutta la storia degli

anime giapponesi. Tra le oltre 1.200 schede presenti nel tomo enciclopedico originale ce n’era

una che mi aveva sempre colpito nel profondo perché parlava di una serie animata tratta da

un fumetto italiano e che prima di allora non avevo mai sentito nominare: Toppe, Giraffo e Rana.

Per un ragazzino come me leggere che i giapponesi, a metà anni ‘80, avevano tratto

una serie anime da un fumetto italiano dell’epoca fu a dir poco fantastico; inoltre in questa

breve scheda veniva nominato anche il suo autore, Andrea Romoli, ma purtroppo anche il suo

nome non mi diceva molto.

93/VISIONI


Il tempo passava, passavano gli anni e neanche pochi ed io, che non avevo mai davvero

dimenticato quella storia (tra l’altro me l’ero anche ritrovata nella miriade di appunti

durante il lavoro di ricerca che svolsi per il film documentario Animeland – Racconti tra manga,

anime e cosplay), sono incappato ancora una volta nei nomi legati a quest’opera, che di

tanto in tanto ritornavano a galla nelle mie ricerche.

E cioè dove? Ecco, qui sta la cosa incredibile: il nome dell’autore e dei personaggi di

questi fumetti e di questo anime li ho ritrovati su siti, database, forum e social-network del Sol

Levante, rigorosamente in lingua giapponese, o comunque in altre lingue, e quasi mai su

canali italiani.

Questo perché, per quanto possa sembrare assurdo, Andrea Romoli è un autore famoso

e ricercato nel mondo delle serie anime giapponesi degli anni ‘80 e non solo, ma quasi

totalmente sconosciuto nel nostro paese.

Dopo ulteriori ricerche, ho finalmente avuto la fortuna di imbattermi in un forum di suoi

fan giapponesi, con incursioni di appassionati provenienti da mezzo mondo, ed infine anche

Toppe, Giraffo e Rana

erano originariamente

tre pupazzi di pezza

che Romoli aveva

davvero da bambino

Avventura su Efesto,

1977

primo fumetto con

Toppe, Giraffo e Rana

in lui e, a quel punto, dopo una serie di scambi di

idee virtuali, non ho più saputo resistere ad incontrarlo

di persona per farmi finalmente raccontare

tutta la sua storia.

Nato a Firenze il 3 Dicembre del 1944, figlio

d’arte (il padre fu l’artista Mario Romoli, anch’egli

fiorentino, pittore e scultore attivo su più fronti e figura

di una certa fama nella Toscana del Novecento),

grande amante di fantascienza, Andrea Romoli

ha svolto per oltre trent’anni il lavoro di fisico (ai

vertici della progettazione ottica per applicazioni

spaziali della Galileo) collezionando riconoscimenti che lo hanno portato alla notorietà internazionale

in questi ambiti, nonostante ciò continuando sempre e comunque a disegnare e

raccontare, nel tempo a disposizione, le sue storie di fantasia a fumetti.

Nel 1977 completava e pubblicava Avventura su Efesto, la primissima avventura a fumetti

completa dove per la prima volta in assoluto apparivano protagonisti il comandante

Toppe, il primo pilota Giraffo e il biologo Rana.

I personaggi della storia, provenienti direttamente dall’infanzia dell’autore (Toppe, Giraffo

e Rana erano originariamente tre pupazzi di pezza che Romoli aveva davvero da bambino),

sono animali antropomorfi egregiamente stilizzati che, in diverse avventure, viaggiano

nello spazio da una stella all’altra in un “antiuniverso”, incontrando creature fantastiche, sorprese

e misteri in ogni dove.

A questa prima ed oramai introvabile storia pubblicata all’epoca dalla casa editrice

Nerbini di Firenze, seguirono, in quegli anni e con gli stessi personaggi, ben altri quattro volumi

della serie Altri Mondi (così battezzata dallo stesso Romoli a partire dalla seconda storia)

94/VISIONI


Studi per l’animazione

giapponese

Archivi Nippon

Animation


Tavole originali

di Andrea Romoli

dai titoli Fuga su Issar, Il demone di Azul, Crab nebula e L’ultima fortezza, pubblicati da Zanfi

Editori e, negli ultimi anni un quinto, Lo specchio dei mondi (Youcanprint Self-Publishing, 2016),

ed un sesto, il recente Kthalon Porta Inferi (La città delle Nuvole, 2022).

Nel marzo del 1979 Fuga su Issar fu presentato alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna,

e il primo giorno della manifestazione, alle ore 9 del mattino, un signore giapponese,

prese una copia del volume, ringraziò e se ne andò: si trattava del direttore artistico della

Nippon Animation di Tokyo.

Una settimana dopo la Nippon Animation chiese all’editore un’opzione per una serie

animata per la TV e ad inizio del 1981 Andrea Romoli fu invitato in Giappone per visionare

l’entusiasmante episodio pilota (della durata di circa 6 minuti) della serie che i giapponesi

volevano realizzare.

Per qualche anno Romoli non ebbe notizie della possibilità di fare un anime dai suoi

fumetti finché nel 1988 tornò alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna e, proprio quando

stava per andar via dall’evento con in mano una copia di Fuga su Issar, fu fermato dai giovanissimi

Kappa Boys (che in quel periodo stavano iniziando a lavorare per importare ufficialmente

i primi manga in Italia) che chiesero a Romoli dove avesse trovato quel libro a fumetti.

Lui disse che ne era l’autore e loro risposero chiedendogli se allora lui fosse l’ideatore della

serie Uchusen Sagittarius (nome internazionale: Spaceship Sagittarius).

Solo in quel momento Andrea Romoli scoprì che le avventure spaziali di Toppe, Giraffo,

96/VISIONI


Rana e il resto della Corazzata Spaziale Sagittarius (sagittario è anche il segno zodiacale di

Romoli) erano state trasposte in una serie animata prodotta dalla Nippon Animation e andata

in onda nelle TV giapponesi tra gennaio del 1986 e ottobre del 1987 e che il suo editore aveva

fatto fare tutto questo a sua insaputa.

La serie, ampliata e talvolta anche cambiata in alcuni frangenti rispetto all’idea originale,

ottenne grande successo in Giappone, tanto da portare la Nippon Animation a realizzare

ben 77 episodi (di mezz’ora l’uno), libri e fumetti inediti (manga e anime comics), dischi,

modellini, pupazzetti, gadget vari e persino un romanzo ufficiale in lingua giapponese.

Inoltre il successo in quegli anni era stato tale che spesso la serie di Andrea Romoli

(talvolta erroneamente traslitterato dalla lingua giapponese in Andrea Lomori) veniva affiancata

in copertine di libri, dischi e riviste a personaggi di serie come Dragonball o I Cavalieri

dello Zodiaco, conquistando anche nel maggio del 1987 la copertina del numero 107 di Animage,

la principale rivista di animazione del mercato giapponese.

Sbirciando nello staff tecnico e artistico di questa serie animata troviamo il regista e

storyboard artist Katzuyoshi Yokota (che aveva lavorato, sotto diversi ruoli, anche a prodotti

come Heidi, Anna dai capelli rossi, Flo, La piccola Robinson, Tom Story e Madmoiselle Anne), lo

sceneggiatore Nobuyuki Isshiki (anche autore di film, telefilm, manga e romanzi), i character

designer Sadahiko Sadamaki (animatore in Lupin III, Tom Story, Cristoforo Colombo, Il libro

della giungla e Akira), Shuichi Seki (animatore in Belle e Sebastien, Tom Story, Lucy May, Nel

97/VISIONI


Fuga da Issar (prima edizione)

seconda avventura con Toppe,

Giraffo e Rana

Kathlon Porta Inferi, 2022

ultima avventura di Toppe,

Giraffo e Rana

Il potere nascosto, 2022

libro fantasy di Andrea Romoli

Spaceship Sagittarius,

box blu-ray giapponese

Spaceship Sagittarius, 45 giri

originale giapponese con le sigle

cantate da Hironobu Kageyama, 1986

A destra

tavola originale di Andrea Romoli

98/VISIONI



100/VISIONI


Tavole originali di Andrea Romoli:

Toppe, Giraffo e Rana nella palude,

2022

La città galleggiante, 1984

regno di Oz e Papà Gambalunga) e Noburu Takano (animatore in Rensie la strega, Nausicaa

della Valle del Vento, La tomba delle lucciole, Naruto e La città incantata), il direttore artistico

Taizaburo Abe (Babil Junior, Là sui monti con Annette, Tom Story e Conan il ragazzo del futuro)

e le musiche originali di Haruki Mino (che aveva lavorato anche alle musiche in Un regno

magico per Sally, Inuyasha, La ragazza che saltava nel tempo e Metropolis).

A completare al meglio il tutto troviamo le due sigle della serie: la grintosa Stardust

Boys, in testa, e la romantica Yume Konen, in coda, entrambe interpretate da Hironobu Kageyama

(popolare cantante del mondo degli anime giapponesi che interpretò, tra le tante,

sigle come Cha-La Head Cha-La e We Gotta Power di Dragon Ball Z, Soldier Dream da I Cavalieri

dello Zodiaco, e ancora le sigle per Kyashan - Il mito e il tema del videogame Dragon Ball

GT – Final Bout).

La serie fu distribuita in molti Paesi europei e non ma, incredibilmente, non arrivò mai

in Italia. Di certo la causa che fece Andrea Romoli – che gli permise di recuperare i diritti

dall’editore e di ottenere un risarcimento ed un nuovo contratto dalla Nippon Animation – avrà

fermato per un po' la distribuzione della serie e reso impossibile la sua diffusione per qualche

anno ma questo non toglie che per motivi ignoti, anche in tempi più recenti, la serie Spaceship

Sagittarius non è mai stata visibile attraverso nessuna via in lingua italiana e quasi nessuno,

da noi, ha la più pallida idea di cosa ci siamo persi.

Ad oggi, anche a distanza di tanti anni, in Giappone si continuano a produrre merchandising

e gadget legati a questa serie, attualmente disponibile in DVD e blu-ray con box da

collezione, solitamente venduti a cifre da capogiro sui siti di e-commerce nipponici.

Ci auguriamo solo che, prima o poi, qualche azienda nostrana decida di importare ufficialmente

quest’opera così acclamata in Giappone e ideata dall’italiano che loro chiamano Andrea

Romoli Sensei (‘maestro’ in lingua giapponese).

In aggiunta a tutto questo ho preso in prima persona a lavorare alla realizzazione di

un film documentario sulla vita e l’arte di Andrea Romoli e chissà che un giorno non si riesca

a riportarlo anche in Giappone ad abbracciare i suoi tanti fan, magari con una bella mostra

con le sue opere, la volontà da parte mia e del maestro c’è tutta!

andrearomoli.it

101/VISIONI


Artificial Kids

Luca Morandi

102/VISIONI/note


Fotografare i bambini, di questi tempi,

è un’attività rischiosa. Finché sei lì

che col tuo iPhone riprendi i tuoi figli

che fanno cose bambinose tutto bene,

ma già altre mamme o papà sono pronti

a riprenderti se posti quegli scatti o quei

video sui social senza appiccicare sul

viso del pargolo un cuoricino, un emoji,

una pixelatura quasi come fossero

dei piccoli pregiudicati – che cosa triste,

in che mondo viviamo signora mia.

E allora, sai che c’è? Devo mostrare dei

bambini, in questo numero di Stanze?

Di bambini miei non ne ho, di

disegnarne non c’ho voglia – e

comunque dovrei ispirarmi a dei

bambini veri, di qualcun altro e la cosa

potrebbe pure non andargli a genio

e allora mi collego a MidJourney

e gli dico chiaro e tondo cosa mi serve.

Esseri umani fatti così, alti cosà,

pressappoco a questo stadio di sviluppo.

Vestiti con questo, illuminati da questa

luce, con questo sfondo, eccetera

eccetera.

103/VISIONI/note



Artificial Kids, 2023.

Serie di disegni creati da Luca Morandi

per Stanze, con la collaborazione dell’AI.

Perché le AI sono così: gli devi dire tutto

per filo e per segno, sennò fanno di testa

loro. E con i bambini, è meglio non

rischiare. Anche se sono

completamente artificiali, come questi.

Così belli che sembrano veri. Così belli

che paiono finti.

Così come li ho immaginati io, così

come li ha assemblati la mia AI.

Nessuno mi può dire niente.

Nessuno può reclamare diritti

sull’immagine dei loro pargoli. Questi

bambini non sono mai nati – non hanno

un nome, un indirizzo, un futuro.

Vi ricordano qualcuno? Fatti vostri.

Sono belli, innocenti, perfetti.

Proprio come dei bambini veri.

Anzi, sono meglio: non dovete

accompagnarli a scuola, comperargli

l’apparecchio per i denti, difenderli

dal bullismo, nascondergli le chiavi

della macchina.

Certo, perdono su tanti altri fronti:

ma, io, che di bambini non ne ho, cosa

volete che ne sappia. Ho questi per voi.

Per stavolta, fateveli bastare.

105/VISIONI/note


Ancora...

E poi basta!

Filastrocche

e cantilene dei

nostri nonni

a cura di Enrica Massidda

Ancora... E poi basta!

Edito da XEDIZIONI.IT nel 2020, è

una rivisitazione della famosa raccolta

di versi di Lina Schwarz, poetessa e

traduttrice veronese (1876 – 1947).

Pubblicato per la prima volta nel

1920, questo libro per bambini è stato

forse il maggior successo letterario

dell’autrice, tanto che a un secolo di

distanza alcune poesie e filastrocche

si ritrovano ancora nei libri di lettura,

e molti dei nonni di oggi ne ricordano

parecchie a memoria.

Anche se il mondo non è più quello

descritto in questi versi, siamo certi

che tanti bambini sono ancora in grado

di apprezzarne la dolcezza e l’ironia.

Lasciando intatta la disposizione

originale delle poesie e dei capitoli,

XEDIZIONI ripresenta la raccolta

corredata da una serie di illustrazioni

di Enrica Massidda, che ha curato

anche la grafica e l’impaginazione.

Qui un coloratissimo assaggio di testi e

immagini.

106/VISIONI/note


A CH

E TU?

NINO RACCOGLIE PIETRE E NANNA FIORI.

QUESTI HAN PROFUMI E VIVIDI COLORI,

QUELLE HAN BAGLIORI FULGIDI DI SOLE.

TU CHE RACCOGLI, O PICCOLO? – «PAROLE.

LE AFFERRO A VOLO, LE TRATTENGO,

ASCOLTO...

COME NELLA CONCHIGLIA È IL MAR SEPOLTO,

OGNI PAROLA

HA UN SUO NASCOSTO MONDO,

ED IN QUEL MONDO

SENZA FIN M’AFFONDO». –

NINO SARÀ, DA GRANDE, UN COSTRUTTORE.

NANNA FARÀ LA MAMMA CON AMORE.

E TU, PICCOLO, ALLOR, NELLA SEGRETA

DIMORA CHE SARAI? «SARÒ POETA».

V

TR

L

MON

LA

MA

M

«SÌ

MIST

MA OG

HA

GUA

LEVA

S

131

107/VISIONI/note


SANGUE!

«SANGUE!» GRIDA PIERINO SPAVENTATO.

«SANGUE!» MARIA RIPETE CON TERROR.

PIERO, GIOCANDO, UN DITO S’È BUCATO

E UNA GÒCCIOLA ROSSA N’ESCE FUOR.

COL FAZZOLETTO LA PICCINA LESTA

FASCIA IL POVERO DITO COME PUÒ;

MA PIERO IN GRAN PENSIER SCOTE LA TESTA:

«CHE DICI, TU? CREDI CHE MORIRÒ?»

15

QUEL CHE POSSIEDE UN BIMBO

U

DUE PIEDI LESTI LESTI

PER CORRERE E SALTARE;

DUE MANI SEMPRE IN MOTO

PER PRENDERE E PER FARE;

LA BOCCA CHIACCHIERINA

PER TUTTO DOMANDARE;

DUE ORECCHI SEMPRE ALL’ERTA

INTENTI AD ASCOLTARE;

E UN CUORICINO BUONO

PER MOLTO, MOLTO AMARE.

IO

108/VISIONI/note

87


IO CHI SONO?

IO CHI SONO? IO SONO GIANNI,

HO COMPIUTO GIÀ I CINQU’ANNI,

NON DISTINGUO L’I DALL’O,

MA PIÙ TARDI IMPARERÒ

TANTO A LEGGERE CHE A SCRIVERE...

E PER ORA IMPARO A VIVERE.

IO RESPIRO E I MIEI POLMONI

SO GONFIAR COME PALLONI;

SENZA SMORFIE MANGIO E BEVO,

VOLENTIER FO QUEL CHE DEVO.

TUTTO IL GIORNO FACCIO IL CHIASSO,

CRESCO SANO, FORTE E GRASSO.

DESTO APPENA SPUNTA IL GIORNO,

ME NE VO GIRANDO ATTORNO,

OSSERVANDO I MIEI TESORI,

SASSI E PIANTE, BESTIE E FIORI;

TUTTO ANCORA HO DA ESPLORARE,

TUTTO ANCORA DA IMPARARE.

ANCHE A LEGGERE ED A SCRIVERE...

MA PER ORA IMPARO A VIVERE.

L’ACQUA FRESCA E L’ARIA PURA

NON MI FANNO MAI PAURA;

81

109/VISIONI/note


xedizioni.it

110/VISIONI/note


E

U

Il segno grafico

di Enrica Massidda

al servizio della

poesia senza tempo

di Lina Schwarz

O

A

111/VISIONI/note


Dialogo lungo

la via del cuore

e della mente

Paola Ranzini Pallavicini incontra Marco Gamuzza, Maestro di Kung Fu

©Marco Gamuzza


Nel numero scorso, dedicato al CORPO, è stato appassionante

dedicarsi ad intervistare un’insegnante di yoga. Proseguiamo

la nostra indagine nel mondo delle discipline antiche che

curano la fioritura di corpo e anima puntando però i riflettori

sul tema dei bambini. Frequentare una scuola di Kung Fu

rappresenta una risorsa preziosissima di stimoli per tutti i

giovani, e giovanissimi, che vogliono imparare a conoscere

il proprio fisico e a starci bene dentro, e con questa disciplina dalle nobili radici ci si rende

conto poco per volta che alcune doti invisibili e profonde vengono a galla e la nostra percezione

del mondo ad ogni lezione cambia e si affina. Del mondo attorno a noi - i compagni, lo

spazio tangibile che abitiamo - e di quello al nostro interno. In questo senso c’è una vicinanza

di intenti e di atmosfere con lo yoga. Ma il Kung Fu è davvero molto più adatto ai piccoli. È

difesa, è rispetto per l’altro e per se stessi, è disciplina amorevole ed è un viaggio spirituale

che accompagna la crescita.

Marco Gamuzza pratica arti marziali dall’età di sei anni, e lo studio per lui non si è mai

interrotto. È maestro di Kung Fu e di Thai Chi. Dopo lunghi anni di pratica decide di diventare

educatore e affina le sue doti di insegnante con master e certificazioni sempre più approfondite,

fino ad arrivare a diplomarsi come Dirigente di Comunità. Nel contempo i suoi Duan (il

sistema di gradi di apprendimento e di cinture) crescono sotto la guida del Gran Maestro Yang

Lin Sheng, di cui è discepolo testamentario. Durante la cerimonia del Baishi, nel 2017, diviene

parte del lignaggio ufficiale della Scuola del Gran Maestro e da allora il suo scopo è custodire

e tramandare la cultura marziale e gli insegnamenti di chi lo ha preceduto.

Il suo obiettivo è quello di “divulgare il Kung Fu Tradizionale nella sua essenza più pura”,

e la parte di giornata che dedica ai bambini risponde forse più di ogni altro momento alla sua

necessità di far partecipare gli altri alla gioia che ha provato negli anni di studio; il suo entusiasmo

è davvero tangibile, sotto un primo strato di calma e pacatezza.

È questo entusiasmo che ci ha spinto a coinvolgerlo nel momento in cui abbiamo

deciso di sbirciare nel mondo dei bambini che frequentiamo, e di indagare i bambini nascosti

dentro i nostri corpi adulti: percepiamo da profani che si tratta di merce preziosa, che

non termina e finisce con l’apprendimento di posizioni coreografiche o di un metodo efficace

per la lotta.

PRP Le tre parole in apertura nella home del vostro bel sito sono: osserva, impara,

evolvi. Basterebbero queste, per imbastire un programma di una qualsiasi classe di alunni.

Fin dai primi anni di vita - e soprattutto allora - l’osservazione di noi adulti costituisce

il 90% dell’apprendimento. Quando hai capito che era il momento di condividere il tuo bagaglio

con i più piccoli?

MG Si Paola, come avrai capito il nostro payoff “osserva, impara, evolvi” incarna l’essenza

di quello che dovrebbe essere l’apprendimento di ogni persona per imparare e cresce-

113/ZONE


Marco nella posizione

Da Hu Shi (Colpire la tigre)

del Thai Chi Chuan

durante uno dei suoi

viaggi in Cina

©Marco Gamuzza

re sui vari piani in modo naturale e consapevole, con una scoperta dell’arte e di se stesso,

sviluppando oltre che le diverse abilità anche il proprio campo mentale con l’idea di evolversi.

Ho iniziato ad insegnare ai bambini molti anni fa, per l’esattezza il primo corso nel 1998.

Ai tempi, nonostante avessi già avuto diverse formazioni per insegnare ai bambini

nell’ambito dell’arte marziale, avevo un approccio attento e meticoloso focalizzato maggiormente

sull’aspetto tecnico e psicofisico.

Mentre negli anni a seguire, maturando come uomo e Maestro e facendo dei percorsi

di studio con indirizzo psicopedagogico e lo studio della comunicazione come la PNL, sono

entrato in reale risonanza con il mondo dei bambini e dei giovanissimi.

Tutto ciò oggi mi consente di vedere prima lo strato più sottile dei bambini, quindi dei

loro bisogni ancestrali, quali per esempio la costruzione di una personalità ben equilibrata,

decisa e allo stesso tempo virtuosa, il tutto accompagnato da un impegno fisico calibrato per

la loro età e fisicità.

Quindi sono circa quindici anni che opero nella trasmissione del mio bagaglio tecnico,

inteso come insegnamento da maestro e non solo da tecnico.

PRP Ti va di raccontarci il significato del nome “Xin Dao” e perché si tratta di qualcosa

che, una volta appreso da piccoli, ci portiamo dentro nella crescita e nella maturità?

MG Il nome Xin Dao l’ho coniato nel 2009 insieme al mio Maestro Yang Linsheng;

seguendo gli insegnamenti delle arti marziali cinesi (gli stili principali sono: Shaolin, Taijiquan,

114/ZONE


Yi Quan, Xing Yi Quan e Qi Gong) abbiamo scelto un nome che interiorizzasse un significato

profondo, che ricordasse ad allievi e allieve la “Via” da intraprendere e da percorrere.

Non interessava né a me né tantomeno al mio Maestro dare un nome alla scuola che

esprimesse concetti scontati e superficiali.

Quindi decidemmo di chiamare la scuola Xin Dao, “La via del cuore e della mente”. “Xin”

si traduce come cuore, da interpretare come casa dello shen, ovvero la sede suprema dello

spirito che a sua volta regola le attività della mente e il controllo dei sentimenti, accrescendo

l’intenzione e la volontà così da portare l’uomo ad essere artefice del proprio destino.

Il termine “Dao”, difficilmente traducibile in quanto è uno dei concetti principali del

pensiero Taoista può essere tradotto come “La Via”, più comunemente trascritto “Tao”. Rappresenta

la Via nella sua massima essenza, connessa alla potenza inesauribile dell’universo

stesso. Dao / Tao è l’eterna, fondamentale energia che scorre mediante tutta la sostanza

dell’universo visibile e invisibile.

PRP I vostri corsi non sono semplici allenamenti sportivi. Si differenziano da tante

altre attività extrascolastiche perché insegnano una disciplina antichissima che vale da insegnamento

globale e che aiuta la crescita di mente e spirito, non solo a mantenere un corpo

sano. Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nel cercare di comunicare questo concetto,

e quali le maggiori soddisfazioni che ti arrivano dai ragazzi?

MG Onestamente non ho particolari difficoltà nell’insegnare e comunicare la disciplina

ai giovani.

Sono consapevole del fatto che i giovanissimi vanno spronati e motivati a fare sempre

meglio, ma è anche fondamentale rispettare i loro tempi di apprendimento.

Ciò che ho notato in loro - ma anche negli allievi adulti - è infatti che tutti necessitano

di una continua ripetizione dei concetti.

Ogni volta che con i giovani si sperimenta un nuovo esercizio, loro ne colgono solo un

piccolo aspetto, quindi nelle lezioni successive consento di rivivere quel determinato esercizio

con una prospettiva differente, sino a quando i tanti pezzi del puzzle andranno a formare

una visione d’insieme.

Ho degli allievi che hanno circa dodici anni e che seguono i miei insegnamenti da un

quinquennio, e oggi li vedo eseguire dei Tao Lu (forme tecniche codificate) complessi, composti

da passaggi di posizioni e gioco di braccia e gambe impegnativi. Ripensando a quando

hanno iniziato, al momento in cui hanno messo le basi e alla costanza con cui sono progrediti

mi rendo conto che hanno raggiunto degli ottimi risultati e tutto questo mi rende fiero di loro.

Contemporaneamente la loro progressione combacia quasi sempre con un atteggiamento

responsabile, e un rispetto nei miei confronti e degli altri che ne diventa il perno centrale.

Aggiungo un concetto fondamentale: ho imparato con l’esperienza ad individuare

anche i più piccoli miglioramenti degli allievi e quando ciò avviene è di per sé una grande

soddisfazione.

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La parte più bella del mio lavoro è veder raggiungere obiettivi che all’inizio sembravano

impossibili: una fonte costante di gratificazione per me come maestro.

PRP So che una parte importantissima del tuo programma è incentrata sul tema

dell’autostima.

Che parole useresti per cercare di trasmettere l’importanza non solo di rispettare gli

altri, ma anche di rispettare sé stessi credendo nelle proprie capacità e valorizzandole? So

che per molti ragazzini questo è un tasto dolente, ed è qualcosa che molti fra noi grandi

avremmo sicuramente voluto sentirci insegnare da piccoli.

MG Hai detto bene, oggigiorno l’autostima anche per i più giovani è un punto delicato,

in quanto sappiamo che si tratta di un processo continuo in cui l’individuo si valuta e si

apprezza sulla base di percezioni più o meno vere.

Purtroppo oggi anche i giovanissimi sono tempestati di messaggi ed esempi spesso

fuorvianti, così da non comprendere bene quale sia la loro posizione.

Una delle domande che utilizzo durante le lezioni è “Ti rendi conto che sei migliorato?”

È importante che l’allievo sia il proprio osservatore, che possa comprovare il suo impegno

e miglioramento.

La parola chiave è consapevolezza.

PRP Nel mondo contemporaneo si pecca in concentrazione. Tutto rema contro: i

social in primis; gli stimoli esageratamente abbondanti - e non tutti di qualità - che i bambini

ricevono di continuo dal mondo esterno; le piattaforme che vanno utilizzate correttamente, i

troppi compiti di scuola e le troppe attività organizzate. E invece un bambino che sa stare bene

nel silenzio, anche da solo, è un bambino più felice. Ne sono convinta, anche se mi pare che

questo modo di pensare sia impopolare. Le discipline orientali possono aiutare moltissimo.

Hai dei consigli pratici da applicare e far applicare, per la quotidianità?

MG La tecnologia può essere uno strumento unico. Se penso alla mole di informazioni

che oggi i giovani hanno a disposizione immagino a quanto sarebbe stato bello da ragazzino

poterla avere a portata di mano.

Ma come avviene per tutti gli strumenti, bisogna usare buon senso e dunque l’attaccamento

non aiuta; è importante ritagliarsi dei momenti in cui non se ne fa uso.

Uno dei consigli che do ai più piccoli, ma anche agli adulti, è quello per quanto

possibile di trascorrere più tempo nella natura, perché ha la reale capacità di farci sgomberare

la mente da tutte le attività e i compiti da svolgere quotidianamente, ed essere presente

nel qui e ora.

Uno degli esercizi più efficaci per essere presenti è quello di invitare i bambini ad osservare

in modo più esteso e completo la natura: un albero, un cavallo, un sentiero, così da

apprezzare la bellezza di ogni elemento.

116/ZONE


Marco Gamuzza nella

storica palestra milanese

di arti marziali Musokan,

nella quale ha insegnato

il maestro Yang Linsheng

per circa dieci anni

©Marco Gamuzza

117/PAGINE


PRP Spesso si crede che solo i giochi di squadra siano utili ai fini di una sana socialità.

Nelle classi di Kung Fu si osservano invece, tra una lotta e l’altra, inaspettati gesti di dolcezza,

una grande solidarietà tra i più grandi e i più piccoli, molto rispetto. Cosa ne pensi?

Come cerchi di far emergere tali valori durante la lezione?

MG L’impartizione delle regole è importante, il bambino deve comprendere che esistono

confini in ogni contesto che vanno seguiti, ma spesso il modo migliore è quello di fare

da modello.

I modelli possono essere gli insegnanti, ma anche altri giovani allievi che hanno più

esperienza e hanno fatto loro i valori dell’arte marziale. Per fare un esempio pratico, quando

un nuovo bambino o adolescente si iscriveva al corso, in passato io e i miei assistenti gli

mostravamo come mettersi in fila per il saluto. Oggi questo insegnamento è consuetudine

degli allievi più graduati: le cinture gialle. In pedagogia questo sistema è chiamato mutuo

insegnamento.

Una volta impartite le regole e appresi i modelli saranno poi i ragazzi nel tempo a

comprendere in modo autonomo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Ingresso alla

montagna Panshan

PRP La primissima cosa della tua disciplina che insegni ad un bambino, cos’è? Immagino

sia ogni volta emozionante anche per te.

MG La prima cosa che insegno a un bambino nella disciplina del Kung Fu è il saluto,

associato all’importanza di rispettare se stessi e gli altri.

Il saluto (Bao Quan Li) è infatti il primo gesto che tutti gli allievi eseguono. Attraverso il

saluto si avvia un circolo virtuoso di rispetto verso il maestro, gli assistenti e verso tutti gli

altri compagni di pratica, chiamati tradizionalmente fratelli e sorelle di Kung Fu.

La seconda cosa, in qualche modo legata alla prima, è la capacità di entrare nello

stato interiore corretto, quello in cui si accresce la concentrazione e di riflesso una buona

postura fisica.

Queste prime qualità sono importanti non solo durante la pratica del Kung Fu ma

anche nella vita quotidiana.

PRP Le sequenze del Kung Fu si rifanno ad un immaginario di animali particolarmente

apprezzato dai più giovani; ogni animale ha caratteristiche e qualità ben precise, ma non

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solo: ognuno è un simbolo ben preciso. Questo a noi

di Stanze richiama alla mente gli animali totem, gli

spiriti guida. C’è una qualche attinenza? Quanto il

mondo animale - e la natura tutta - ha da insegnare

ad un bambino nel 2023?

Marco nel movimento

del Bagua Zhang alla

montagna Panshan

Casa in legno antico

sul lago nella periferia

di Tianjin

©Marco Gamuzza

MG Il richiamo agli animali e al loro spirito

ha radici antiche e profonde nella cultura di molte

tradizioni, tra cui quella cinese e quindi anche nel

Kung Fu. Ogni animale oltre a proiettare caratteristiche

tipiche è portatore di concetti e di valori: forza,

agilità, intelligenza, coraggio. Ogni animale è un insegnamento.

La natura in generale è una fonte inesauribile di lezioni e ispirazione.

PRP Un consiglio che ti senti di dare a noi genitori per aiutarci a far “vivere” i tuoi insegnamenti

anche nella vita di tutti i giorni, in famiglia? Per far sì che realmente questa scelta

di scuola sia un arricchimento e non solo un modo per “riempire” due ore alla settimana.

MG Un consiglio che posso dare ai genitori è di incoraggiare i loro figli a mettere in

pratica i valori e le abilità acquisite durante le lezioni di Kung Fu anche nella vita quotidiana.

Ad esempio, nel corso di Kung Fu da Maestro sostengo gli allievi e spiego come affrontare

delle nuove sfide in cui entra in gioco l’emotività. Li incoraggio, spiego loro come agire,

sto loro vicino in un primo momento, e poi lascio che in autonomia vadano avanti, senza la

mia ravvicinata presenza.

Solo in questo modo possono edificare la loro personalità.

In famiglia e nei momenti in cui si sta tutti insieme è fondamentale che i genitori non

si sostituiscano ai ragazzi, diventando la loro ombra in tutto ciò che fanno.

È importante che vengano educati sin da piccoli a fare i primi passi verso la sperimentazione

di sé, con tutte le paure o emozioni che ne conseguono.

Questo processo farà in modo che il giovane non si trovi in situazioni in cui non riesce

a far nulla senza i genitori sempre vicini.

PRP C’è un libro relativo alla disciplina che insegni che ti sentiresti di consigliare

ai più giovani perché tu stesso lo hai trovato illuminante? E un libro, in generale, che è

stato importante per te, quando eri un ragazzino? Qui poi amiamo parlare di cinema, da

mettere assolutamente sullo stesso piano della letteratura. Se ti va, continua lo stesso gioco

anche per i film.

MG Non ho un particolare libro da consigliare ai giovani, ma invito tutti loro a leggere

più libri in cui si possa viaggiare con la fantasia.

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Perché la fantasia è la sorgente della creatività, aspetto che tende a mancare alle

persone adulte. Inoltre la creatività e l’intelligenza sono abilità cognitive distinte ma fortemente

connesse tra loro.

Da ragazzino ho letto centinaia di libri e riviste riguardanti le arti marziali. Ognuno di

questi mi ha dato diversi spunti di riflessione e di passione per andare avanti nel mio percorso.

Ho avuto modo di leggere e ascoltare diversi racconti orientali che sono rimasti scalfiti

nella mia mente. Sono racconti trasmessi oralmente e che purtroppo non si trovano facilmente

nei libri, quindi se ti fa piacere ti lascio di seguito questa storia per me significativa che si

chiama La via più sicura.

In un antico villaggio cinese, un maestro anziano e il suo giovane allievo vivevano

dalla parte opposta di un fiume che dovevano attraversare ogni giorno

per andare a scuola e a lavorare nei campi. Tutti gli abitanti utilizzavano dei

bastoni per aiutarsi nel loro percorso su pietre che emergevano dall’acqua, ma

il maestro insegnò al suo allievo un percorso più lungo ma sicuro, camminando

sui sassi più stabili.

Un giorno gli abitanti costruirono un ponte di legno sopra il fiume, ma il maestro

insistette che il suo allievo continuasse ad attraversare il fiume sui massi, come

gli aveva insegnato. I ragazzi del villaggio prendevano in giro il giovane e il suo

maestro, ma un giorno due di loro rimasero incastrati a metà del ponte e il

vecchio maestro e il suo allievo coraggiosamente andarono in loro soccorso.

Dopo questo episodio, il maestro guardò il suo allievo e gli disse:

“La strada sicura è sempre la scelta migliore, anche se richiede più tempo. Attraversare

il fiume sui massi accrescerà il tuo equilibrio, la tua attenzione e la

tua fiducia nelle tue capacità”.

Questa storia ci parla di come la saggezza del maestro e il coraggio del suo allievo

possano superare la paura e la superficialità degli altri. Camminare sulla strada sicura, anche

se più lunga, porta sempre a una crescita interiore.

Il racconto della Via più sicura può essere visto da diverse prospettive, cogliendone

quindi più insegnamenti. In merito mi torna in mente una frase del Buddha:

“Non puoi viaggiare su una strada senza

essere tu stesso la strada.”

Questo significa conoscere se stessi, sapere esattamente dove ti porta quel percorso,

in sintesi: avere consapevolezza.

PRP Dieci domande più una, per spaziare con la fantasia che la fa da regina in questo

numero di Stanze: c’è un posto del mondo che per te è magico e dove idealmente porteresti

tutti i tuoi piccoli allievi?

120/ZONE


Muraglia di Pechino

©Marco Gamuzza

MG Il mio posto magico è sicuramente in Cina, dal mio Maestro. La maggiore formazione

l’ho avuta lì. Dallo studio delle arti marziali alla teoria, fino all’approccio alla cultura

cinese.

Porterei sicuramente i miei giovani allievi in uno dei templi cinesi lontano dalla città,

in un posto immerso nella natura e verso le montagne, per entrare in massima risonanza con

lo studio dell’arte marziale e la conoscenza di se stessi, affrontando quel viaggio con un tocco

di emozione ma anche di fascino.

Considera che sino al qualche anno fa, prima del Covid, ogni anno nel mese di giugno

organizzavamo per i bambini di età compresa tra i 7 e i 13 anni uno stage con ritiro di quattro

giorni in Liguria.

Il programma era composto da lezioni di Kung Fu all’aperto, incontri con armi tradizionali

dell’arte marziale cinese, piscina, giochi di gruppo, camminate nei sentieri e momenti

insieme di racconti e condivisione.

Un momento veramente speciale per loro, in cui oltre a vivere la disciplina, ogni giorno

la condividevano con i fratelli di Kung Fu, imparando ad essere autonomi.

Mi auguro che presto questa esperienza si possa riproporre.

marcogamuzza.it

kungfuscuolaxindao.it

Grazie Marco! Buon cammino a te e ai tuoi piccoli, lungo la via del cuore e della mente.

121/ZONE


©Massimo Zanella

122/ZONE/note


Il ritorno

del fanciullino

Massimo Zanella

“È dentro noi un fanciullino

che non solo ha brividi [...]

ma lagrime ancora e tripudi suoi.”

Giovanni Pascoli, Il fanciullino, 1897

Ben centotrent’anni sono trascorsi da

quando Giovanni Pascoli scrisse una

delle sue opere più famose. Oggi come

allora, e aggiungo per fortuna, i brividi,

le lagrime e i tripudi mi pervadono

ancora.

Sono giusto alla soglia, anzi l’ho

superata, della fatidica mezza età. Una

volta si sarebbe detto un professionista

tranquillo, con una vita “normale”, il

lavoro, gli affetti, le amicizie… mi scuso

se parlo in prima persona, ma voglio

raccontare il percorso emotivo che

mi è accorso lo scorso mese di gennaio,

in una serata tiepida (ahi noi!).

Premetto che per età e posizione

mentale evito i social – salvo poi

informarmi cupidamente da amici

di quello che accade –, rifuggo la folla,

il Covid mi ha forse segnato: insomma

un noioso signore di 52 anni. Tornando

al famoso gennaio, dovendo vedere

una carissima amica, dopo vari

cambiamenti di data decidiamo di

incontraci e andare a vedere la tappa

milanese del Balloon Museum per

poi proseguire la serata con chiacchiere

e pizza.

Lavoro nell’editoria d’arte e la parola

“museo” ancora dopo tanti anni mi

procura gioia e stimola la mia curiosità

(ecco che esce la prima fase del

fanciullino).

Quindi con Francesca arriviamo ed

essendo un anonimo mercoledì,

facciamo una breve coda per entrare.

Le aspettative sono alte: “chissà cosa

troviamo?”

Veniamo immessi in una sala

completamente ricoperta di specchio

con bolle e palloncini che perpetuano

all’infinito la nostra immagine: stupore,

colore… e via che si estraggono subito

i cellulari e partono i selfie: ottimo

inizio! Poi le altre sale: buoi e gonfiabili

dalle forme organiche (tra il fungo e la

creatura dello spazio) che mutano tono

e allora comincia la delusione, si scopre

che le “opere” non possono essere

toccate, quindi si deambula tra la

123/ZONE/note


©Massimo Zanella

Balloon Museum

Superstudiopiù

Via Tortona, 27,

20144 Milano

23 dicembre 2022 - 12 febbraio 2023

balloonmuseum.world/it

124/ZONE/note


gomma, qualche immagine evocativa

e, con minor entusiasmo, passiamo alla

piscina delle palline (wow!), nella quale

ci si può immergere e in cui si viene

inondati di luci colorate e

stroboscopiche e musica assordante;

allo spegnersi della performance

musical-luminosa e uscendo dalla

vasca, sui nostri volti si dipinge un

grande punto di domanda, ma non

abbiamo il tempo di riflettere che

veniamo spediti nella nuova sezione

del “museo”, una grande sala di box

quadrati (mi spiegano che è il formato

perfetto per le immagini

“instagrammabili”) contenenti delle

piccole scenografie con le quali

interagire ovviamente per essere

fotografati: eccitazione di massa.

E da buoni figli della nostra epoca anche

io e Francesca estraiamo nuovamente

i nostri telefoni però attenzione, c’è la

fila, giustamente tutti vogliono essere

immortalati, per fortuna la gente non

è molta ma, mentre aspettiamo il

nostro turno per arrivare al Sancta

Sanctorum, il personale di sala ci

racconta che durante i giorni delle

passate feste natalizie, quando

l’affluenza era massiva, ci sono state

copiose scene di isteria per le lunghe

attese di accesso al colorato set.

Ne restiamo sbigottiti.

Seguono ancora delle sale con

“installazioni” più o meno ludiche che ci

accompagnano all’uscita vera e propria.

Siamo fuori, ci guardiamo in faccia e,

in guisa di due fanciullini delusi,

scopriamo l’uno sul volto dell’altra

l’espressione: “ma cosa siamo venuti

a fare?”.

Abbiamo continuato la serata come

da programma, felici di essere insieme

e godere della reciproca amicizia

davanti a una fumante pizza, e del

Balloon Museum non abbiamo

nemmeno parlato.

In ogni caso, a prescindere da quello

che andiamo a vedere e da quello che

ci capita in sorte non dobbiamo mai

perdere l’entusiasmo e, se volete, anche

la subitanea delusione che il fanciullino

può provare. Se poi abbiamo la fortuna

di essere accompagnati da un’ottima

amica/amico non c’è Balloon Museum

che tenga e anche quest’esperienza

entrerà nei ricordi ridanciani da

rammentare insieme.

125/PAGINE


Non fregava niente

a nessuno di quello che

guardavamo o no,

di come ci sentivamo

o di cosa desideravamo,

e non eravamo ancora

stati incantati dalla

religione del vittimismo.

Paragonata a ciò che

oggi viene considerato

accettabile ora che

i bambini sono ipercoccolati

fino all’inettitudine,

era l’età dell’innocenza.

Bret Easton Ellis

Bianco

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