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Il padre era un ingegnere elettronico, la madre una pianista concertista: tecnica e
cuore, seppero toccare entrambi gli aspetti con Steven e stimolare le giuste corde in lui,
tenendo conto che era figlio di un’epoca in cui i ragazzi si arrangiavano nel decifrare la vita
per conto proprio.
Nel 1952 furono loro a decidere di portarlo a vedere il suo primo film, Il più grande
spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille; questa esperienza lo cambio così profondamente
tanto da ossessionarlo nel riprodurre in casa, con un trenino giocattolo, il grande disastro
ferroviario rappresentato nella pellicola e analizzato nel dettaglio in The Fabelmans.
Steven non frequenta nessuna scuola di cinema prestigiosa, e nel 1968 abbandona
gli studi universitari per dedicarsi alla professione di regista a tempo pieno: trova il modo
di bazzicare gli Universal Studios e inserirsi in quella vivace realtà, zeppa fin da subito di
compromessi da accettare e di ingegno da aguzzare.
Figlio della cultura pop degli anni cinquanta, figlio della TV ancora neonata, Spielberg
affonda le basi delle sue storie nelle radici dei cartoni della Disney, e porta nel suo cinema
tutto il cinema che ha amato da bambino, lo stesso tipo di lavoro che oggi fanno i fratelli
Duffer con Stranger Things (che da Spielberg prende a piene mani).
La sua poetica parte dalla celebrazione dell’infanzia, dal desiderio/necessità che
abbiamo di restare bambini, sul grande schermo ma anche nel nucleo più profondo di
ognuno di noi.
Il suo sguardo fanciullo muta negli anni ma mantiene delle tematiche costanti.
Già nel 1977 Incontri ravvicinati del terzo tipo ci racconta bene lo stupore dei bambini
di fronte all’ignoto, e pone le basi di quel contrasto efficace tra ciò che è casa, protezione,
nucleo familiare e ciò che è là fuori, sconosciuto, alieno. Una narrazione che naturalmente
troverà forza e successo nel 1982 con E.T. l’extraterrestre, che Spielberg ha sempre descritto
come “un film sul divorzio dei miei genitori” tanto è intenso il racconto della vita di Elliott
a casa con i fratelli e la madre mentre il padre se ne è andato a stare altrove.
E.T. fu un successo planetario non solamente tra i bambini, ma anche tra gli yuppies,
che attraverso questo tipo di storia potevano regredire per una sera alle emozioni dell’infanzia;
in qualche modo diede il via ad una tradizione cinematografica che per tutta la durata
degli anni ottanta la fece da padrona, tanto più che Spielberg fu tra i fondatori della
Amblin Entertainment e della DreamWorks, case di produzione di film per famiglie, che
vanta titoli culto come I Goonies e la trilogia di Ritorno al futuro. Siamo alle prese con quel
fenomeno definito childhood esploso negli Eighties. Childhood, che possiamo tradurre come
nostalgia dell’infanzia, è una voce che Wikipedia mette anche in riferimento alla ballata di
Michael Jackson, che affronta i problemi relativi all’innocenza mancata dell’artista.
È con ET che prendono spazio, nella poetica del regista, i concetti di volo, di tempo
e, come dicevamo prima, di casa. Volo come congiunzione tra la vita di tutti i giorni sul nostro
pianeta e la vita altra, sognata, immaginata e scrutata da quaggiù. La vita aliena, che entra
a far parte del nostro immaginario quando siamo piccini per non andarsene, se non fosse
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