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STANZE
ascolti
forme
fotogrammi
ombre
pagine
palchi
visioni
zone
12/23
INTERNI
in copertina e in quarta di copertina
foto di Marcello Francone
Osnago. Atelier di Alberto Casiraghy,
artista ed editore di Pulcino Elefante
Dettaglio di un'aula dell'International Design
Institute Raffles Milano
INTERNI/ESTERNI
Marta Silenzi, Paola Ranzini Pallavicini
Siamo sempre con entrambi i piedi sul muretto di una dicotomia.
Siamo lì cercando l’equilibrio, a volte alziamo un piede e allarghiamo
le braccia. Ci sbilanciamo, torniamo in asse.
Stiamo dentro e/o stiamo fuori.
Dai confini, dalle porte, dalle definizioni, dai ruoli.
All’esterno siamo esposti, cerchiamo e rifuggiamo la visibilità in
parti uguali, temiamo il vento, il caos, la dispersione. Ma amiamo
i panorami, le luci, gli orizzonti.
Ci affacciamo alle finestre per vedere la laguna, ci riempiamo gli
occhi della terra sconfinata e odorosa dell’Australia, approdiamo
ad un tram di Praga mentre il cielo accenna l’alba.
Ma all’interno troviamo un riparo, un rifugio, il calore degli oggetti
e degli arredi, una trasposizione effettiva di noi, degli esseri
umani che negli ambienti vivono e si esprimono, che dagli ambienti
assorbono atmosfera ed energia, in un rimando continuo di emozioni
e bellezza.
Film, fotografia, arte, design, pagine e pagine descrittive di spazi
che risuonano di vissuto e vissuto che trasuda dalle pareti.
L’interno ci circonda come un cerchio protettivo, è all’interno di
quella bolla che ci estraniamo da tutto e troviamo noi stessi, soli
tra il folto pubblico di un teatro, soli su un palco davanti a migliaia
di spettatori, soli nella profondità dell’anima che quando viene
toccata smania per emergere e prepotentemente cerca di nuovo
l’esterno.
8 porte da aprire e/o chiudere, come Thom Yorke nel videoclip di
Daydreaming: da una casa all’altra, dal corridoio alla sala da pranzo,
dal garage alla lavanderia, dall’ospedale al monta carichi, dalla
montagna al mare, dal parcheggio alla biblioteca, entrate, uscite
d’emergenza, la neve, il fuoco. Sembra un sogno ma è la nostra vita.
3/EDITORIALE
Marta Silenzi, marchigiana, classe 1977. Laureata in
Storia e Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo
Storico Artistico e diplomata in Antropologia dell’arte
ad un master dell’Accademia di Belle Arti. Autrice
di testi critici per mostre temporanee e cataloghi
ragionati di artisti nazionali ed internazionali
(pubblicazioni Il Centofiorini, Skira, La Colomba,
Pagine d’Arte). Divoratrice di libri e film, pazza per
la musica, mamma di due bambini. La scrittura creativa
si accompagna da sempre a quella critica, come
momento di riflessione, occasione di ritrovamento,
lascito di una traccia. Interessata a trovare connessioni
e sinergie tra le forme espressive, fino ad una sintesi
di parole, immagini e suoni che non ha confini.
Nata letteralmente in mezzo a libri e periodici nel 1978
alle porte di Milano Nord, cresciuta disegnando prima
e impaginando poi, Paola Ranzini Pallavicini è
un’appassionata e tenace grafica editoriale, che ha
instaurato dagli anni Novanta solide collaborazioni
con le più prestigiose redazioni di mezza Milano
specializzandosi in pubblicazioni di architettura,
urbanistica, design, arte, fotografia, saggistica. Un curioso
decennio è volato tra le altre cose affiancando
gli architetti della EPFL di Losanna nel dare una veste
calzante a ricerche di respiro internazionale. Grazie alla
pandemia e ad alcune interessanti ragazze ha ripreso in
mano prima la matita, poi la penna, per condividere con
chi vorrà tutti i mondi che popolano la sua testa irrequieta.
redazione–stanze
Redazione Stanze
redazionestanze.blogspot.com
in redazione:
Andrea Anconetani
incertipercorsi.eu
Marcello Francone
facebook.com/marcello.francone.5
Nicola Guida
nicolaguida.wixsite.com/photography
Giulio Perfetti
www.giulioperfetti.com
Chiara Riva
instagram.com/chiarariva80
Henry Ruggeri
www.henryruggeri.net
Solidea Ruggiero
castelloerranteresidenza.it
Massimo Valentini
linktr.ee/massimovalentini
Massimo Zanella
instagram.com/massimozanella7
numeri precedenti:
Stanze 03/22 Natura (sabato 05/03/2022)
Stanze 06/22 Donna (sabato 11/06/2022)
Stanze 09/22 Strade (sabato 10/09/2022)
Stanze 12/22 Corpo (sabato 10/12/2022)
Stanze 03/23 Kids (sabato 11/ 03/2023)
Stanze 06/23 Labirinto (sabato 17/ 06/2023)
Stanze 07/23 Uomo (sabato 23/ 09/2023)
4/redazione stanze
“SI ALZÒ ALL'ALBA AFFAMATO DA MORIRE E PRESE
A GIRARE PER CASA. APRÌ DI UNA FESSURA
LE PERSIANE E GLI TORNÒ IN MENTE IL GIORNO
D'ESTATE IN CUI ERA STATO LÌ CON ANITA. QUASI
LO DIVERTÌ IL PENSIERO DI AVER AVUTO TANTA
PAURA LA NOTTE PRIMA; ERA SOLTANTO LA CASA
CHE RICORDAVA DALL'ESTATE, UNA CASA TRISTE,
UN PO' PATETICA, CON UN QUADRO ENORME
E KITSCH DELL'ACQUEDOTTO DI SEGOVIA,
SOUVENIR DI PORCELLANA, FOTO DI SUO ZIO,
DEI SUOI GENITORI, E PERFINO DI LUI E ANITA.
ORA GLI SUSCITAVA UNA TENEREZZA CHE NON
GLI AVEVA MAI SUSCITATO, COME SE LA VITA
DELLA ZIA ELI ANCORA RIPOSASSE LÌ,
IMPREGNATA DI TUTTE QUELLE COSE CHE ERANO
STATE SUE, ED EBBE LA SENSAZIONE
DI PERCEPIRE, PER LA PRIMA VOLTA, UN MONDO
ESCLUSIVAMENTE FEMMINILE. GLI PARVE DI
VEDERE MIGLIAIA DI MINUSCOLE CORDE EMOTIVE
TESE TRA TUTTI QUEGLI OGGETTI, ADAGIATE
SULLA COLLEZIONE LE GRANDI DONNE DELLA
STORIA ALLINEATA NELLA LIBRERIA, IMPIGLIATE
NELLA CUCINA PULITISSIMA, RISUCCHIATE
DAL DIVANO UN PO' INFOSSATO E VERDE SUL
QUALE LEI AVEVA MESSO UN CENTRINO FATTO
ALL'UNCINETTO PER NASCONDERE UNA MACCHIA
DI VINO. LA VITA DELLA ZIA ELI IN QUELLA CASA
ERA UNO STATO MENTALE, UN VORTICE DI
DETTAGLI ULTRACONCENTRATI. GLI DISPIACQUE
NON AVERLE VOLUTO UN PO' PIÙ DI BENE.”
da Agosto, ottobre, Andrès Barba
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INTERNI
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In copertina
Editoriale
Redazione Stanze
Comporre l’ambiente
MASSIMO VALENTINI
Judit Kristensen. Interni
MARTA SILENZI
note / Interni intessuti di storia.
Il design del tessuto italiano
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
#album / Abitare il cerchio
Tema e variazioni
GIULIO PERFETTI
Ricostruzioni sceniche d'autore
PAOLA RANZINI PALLAVICINI
note / The Lost Flowers of Alice Hart
MARTA SILENZI
È come dentro un film
SOLIDEA RUGGIERO
La più gioconda veduta del mondo.
Venezia da una finestra
NICOLA GUIDA
note / Dentro le case, dentro i ricordi
NICOLA GUIDA
#album / Intimità in piena esposizione
HENRY RUGGERI
Condomini letterari
CHIARA RIVA
note / collage #1 #2
Oltre la scena fisica
verso un Teatro Aumentato
ANDREA ANCONETANI
note / Esterno giorno
MARTA SILENZI
#album / Paesaggio eloquente:
geometria, dettaglio, luce, attese
MARCELLO FRANCONE
note / Mariano Fortuny: un genio
assoluto
MASSIMO ZANELLA
ascolti
forme
fotogrammi
ombre
pagine
palchi
visioni
zone
COMPORRE
L’AMBIENTE
Massimo Valentini
Che cos’è un interno se non un’idea esterna del nostro
sentire interiore?
Scusate questo filosofeggiare giocoso ma in
realtà così è.
Se cercate on line la parola “interni” vi appariranno
migliaia di siti, pagine social e blog che
parlano di arredamenti e di art design.
Tutto ciò che è concepito per abbellire e rendere
speciali i nostri interni non sono altro che
proiezioni e scelte che vengono dai nostri pensieri,
dal nostro vissuto, dalla nostra conoscenza e dalle tradizioni che vivono
e si evolvono ogni giorno dentro di noi. Oserei dire che fanno parte del nostro
DNA.
Quando la redazione mi propose di scrivere qualcosa sul tema degli
interni, mi chiesi: “cosa ho a che fare io con gli arredamenti e l’interior design?
Sanno qualcosa che io non so?”
Poi mi specificarono di descrivere le sensazioni legate agli studi di
registrazione, se il mio modo di suonare fosse condizionato dall’ambiente
circostante e ho pensato che fosse una bellissima idea.
Come influiscono gli interni di un luogo nel mio modo di suonare o di
improvvisare? Davvero è così importante? A posteriori ho notato differenze
da una registrazione ad un’altra? Queste sono le domande che in questi
ultimi mesi mi sono posto.
Così, armato di pazienza mi sono messo a riascoltare molte mie registrazioni,
soprattutto quelle fatte negli ultimi 7 anni. A caccia di dettagli
rivelatori.
Nel 2016 registrai l’album Jumble, il primo lavoro discografico a mio
nome. Ricordo che impiegai molto tempo nello scegliere lo studio di registrazione;
dopo tanti tentativi in svariate regioni italiane, trovai quello che faceva
per me ad un’ora da casa mia.
9/ASCOLTI
I musicisti scelgono uno studio di registrazione in base a tanti fattori:
prezzo, acustica, fonico di sala, strumentazione, ecc. Tutte caratteristiche
fondamentali naturalmente ma nel corso degli anni mi sono reso conto che
gli studi dove mi sono trovato meglio, prima di tutto avevano un regia e una
sala d’aspetto curate nei dettagli, pulite, ordinate, ben arredate, accoglienti
insomma. Con questo non voglio sminuire la validità di altri ambienti ma
sicuramente trascorrere 6/7 ore al giorno per una settimana o più in un
ambiente confortevole fa la differenza.
Ragionando più a fondo e ascoltando le registrazioni successive al
2016, tenendo conto anche dei miei sviluppi artistico-culturali, mi sono immerso
nei ricordi inerenti alle varie sessioni di registrazione, cercando di
ricordare il mio stato d’animo in ognuna di esse e mi sono reso conto che in
realtà l’ambiente di registrazione ha influito solo per una minima parte nella
resa della performance, ciò che suono non cambia poi così tanto.
Però mi sono posto un’altra domanda: quanto cambia invece il modo di
comporre in un ambiente rispetto ad un altro? La mia musica è stata mai
influenzata dal luogo in cui è stata scritta o pensata?
Così mi sono lanciato in una ricerca. In questi ultimi mesi sono tornato
spesso a scrivere musica in vari spazi.
Prima di tutto nella casa dei miei genitori, con il mio pianoforte, lo
sgabello dove sono sempre stato seduto, i raggi di sole che filtrano dalla
finestra ed illuminano i vecchi quadri, il divano anni 70, beige, in pelle. A
differenza delle ore diurne, in cui la luce passa attraverso le bianche tende
sottili di cotone, entra ed infuoca la
QUANTO CAMBIA INVECE
IL MODO DI COMPORRE
IN UN AMBIENTE
RISPETTO AD UN ALTRO?
LA MIA MUSICA È STATA
MAI INFLUENZATA
DAL LUOGO IN CUI È STATA
SCRITTA O PENSATA?
stanza, di sera un’atmosfera completamente
nuova modifica tutto. Fari a base
calda posizionati agli angoli del soffitto
si riflettono sul pianoforte e sui suoi
tasti bianchi e neri, il camino in marmo
chiaro acceso alle mie spalle irradia
una luce magica e il profumo della cena
che sta preparando mia madre permea
ogni cosa.
Il secondo luogo è la mia attuale
casa, il mio attuale studio. L’ho arredato
con i miei gusti personali e quindi mi
trovo a mio agio. Non è ampio, è minimale
quanto la mia vecchia casa ma è
molto silenzioso, le pareti sono in pietra,
pietra rosa, tendente all’arancione, il soffitto è fatto di mattoni in cotto
e travi in legno; ho una bellissima scrivania in legno massello fatta a mano,
un ampio divano dove rilassarmi e un grande schermo dove poter sia vedere
dei film, sia riprodurre immagini e video per cui spesso scrivo musica.
Ho sperimentato l’aula di un istituto musicale dove insegno sassofono
e musica d’insieme. Dopo le lezioni mi sono fermato di frequente a suonare
il pianoforte e a “buttare giù” qualche idea musicale. Un’aula moderna, tan-
10/ASCOLTI
ti tavoli rotondi in legno chiaro con altrettanti computer sopra, robuste, comode
sedie in plastica grigio scuro ben disegnate, pareti grigio chiaro e
arancione, parquet biondo, molti leggii, vari strumenti a percussione e un
pianoforte a mezza coda nero. La luce dei fari è bianca ma non troppo fredda.
Sedendosi al pianoforte, lo sguardo mira proprio alla porta a vetri da
cui si intravede il cortile interno della scuola dove spesso i ragazzi giocano.
Quando posso poi, a teatro, provo a trovare il tempo, tra il sound check
e il concerto, di sedermi al pianoforte (dove ne trovo uno) e andare avanti
nelle mie composizioni, anche solo di una nota. Il silenzio ed il suono di certi
teatri è davvero magico. Suonare con lo sguardo rivolto verso le poltrone
vuote della platea e i palchi, spesso dipinti, è di grande ispirazione.
Arrivato a questo punto, è ora di tirare delle conclusioni.
Sono stato influenzato dagli interni di un luogo mentre scrivevo musica?
Sono stato influenzato dalle luci, dall’arredamento, dalle pareti, dai
materiali usati, dall’atmosfera?
Devo ammettere di sì: un ambiente silenzioso, con colori tenui, con la
luce del sole che entra e si riflette nel “posto giusto”, alzare gli occhi dal
pianoforte e vedere fuori dalla finestra alberi e colline, un teatro vuoto tutto
per me.
Sì, un interno anziché un altro, ha fatto la differenza.
Gli stessi brani, iniziati a comporre in un luogo, continuati in un altro
e finiti in un terzo, hanno al loro interno “luci diverse”, dettagli che forse solo
il compositore percepisce ma sono reali e armonicamente tangibili.
Questo esperimento conferma quanto sia fondamentale, oggi più che
mai, non cercare ma creare un interno dove vivere, lavorare, studiare o rilassarsi,
che sia lo specchio del nostro “sentire interno”.
Sta a noi essere i designer della nostra anima, affinché essa possa
riflettersi e modellarsi all’esterno e creare spazi sempre più congeniali al
nostro essere, per poterci esprimere in tutta bellezza.
11/ASCOLTI
A nido d'ape o a lisca di pesce
Facciamo una casetta tutta come ci va.
Mettiamo un letto sul pavimento
Che al mal di schiena ci pensiamo nell'aldilà.
Prendiamo tutti gli accorgimenti,
La testa a nord, le gambe 10 gradi a sud-est.
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere come me
Com'è che non ti muovi?
Com'è possibile?
Poi fumiamo le sigarette
Che a casa nostra non ci vengono mamma e papà.
Mangiamo tutte le scatolette,
Beviamo birra, andiamo a fare la spesa al discount.
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere come me
Com'è che non ti muovi?
Com'è possibile?
Mettiamo un disco sul giradisco,
Baci in cucina,
Baci in sala,
Baci in garage.
Facciamo 120 bambini
Tutti con dei nomi molto particolari,
Così gli canto una canzone,
Di quelle belle che li fanno addormentare.
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere come me
Vieni a vivere...
Dente, Vieni a vivere
Sono nella casa dove abitavo da bambino.
Riconosco ogni oggetto,
la disposizione dei mobili, i colori.
La luce era diversa negli anni settanta,
ho riconosciuto anche quella.
Ho aperto tutti i cassetti per essere sicuro
che in tutti questi anni nessuno
abbia toccato la mia roba.
C'è un'intera brigata dell'esercito britannico lì dentro.
Rosa.
Sono ancora intenti a schierarsi per fronteggiare
l'attacco imminente.
Ma l'attacco non avverrà mai.
Il divertimento per me era disporre i soldatini
come se dovessero affrontare un ingaggio particolare,
e poi, senza che nulla avvenisse,
cambiare la disposizione.
Sono ancora lì come li avevo lasciati venticinque anni fa.
L'ufficiale ha il braccio teso davanti a se
mentre sta per prendere la mira,
la testa piegata verso l'alto mi guarda implorante:
"Vado?".
Ho richiuso il cassetto.
Ho setacciato tutta la stanza in cerca
di quello che avevo lasciato.
Ho trovato tutto meccanicamente
come se non avessi bisogno di ricordarne la posizione.
Devo aver fatto un bel casino perchè mia madre è entrata.
Giovane e bellissima.
Rideva.
Mi ha preso in giro.
Una strana calma, una calma enorme.
Non so cos'è.
Ma non ho mai pianto tanto come al risveglio.
Ho rifatto il percorso che mi portava dalla scuola alla casa dei miei.
La prima volta dpo venticinque anni.
C'è una sensazione che non ho mai più provato.
Non abito più lì da sempre.
Ho avuto una vita. Altrove.
E' solo una stupida villetta con uno sputo di giardino,
ma sarà la prima cosa che comprerò.
Quando sarò ricco.
Afterhours, Ritorno a casa
JUDIT
KRISTENSEN.
INTERNI
Sjalusi / A clean, well-lighted
place / Fever dream night
club scene, 2023
olio su tela
2 ✕ 140 ✕ 110 cm
© PLUS-ONE Gallery
14/FORME
Marta Silenzi
LA GENTE HA SEMPRE
DEI SEGRETI.
SI TRATTA SOLO
DI SCOPRIRE QUALI.
Stieg Larsson
Folgorata da una collettiva itinerante di disegni realizzati
rapidamente e chiamata a farne parte, Judit
Kristensen inizia la sua avventura con l’arte nel
2016, come se si trattasse di una chiamata o di una
risposta ai suoi desideri.
Durante gli studi di psicologia ad Umeå, nei
mesi invernali del nord della Svezia che sono come
una lunga notte per metà dell’anno, l’artista si trova
infatti ad aver bisogno di una reazione e di una ribellione:
la prima arriva con i suoi disegni, la seconda
con la scelta di venire in Italia.
Come un’evasione, i lavori del periodo di Umeå rappresentano piscine
azzurre, spiagge di palme, nudi sensuali, un’intensa luce diurna a rilevare
dettagli di disegni colorati con pennarelli su carta, con tratti vagamente
infantili e una diffusa atmosfera come di attesa o di strana inquietudine che
isola le scene raffigurate da un’ipotetica sequenza temporale, caricandole
di aspettative.
15/FORME
Vanitas Vanitatum,
Et Omnia Vanitas, 2022
olio su tavola di betulla trattata
con polvere di marmo montata
su cornice di frassino
15 ✕ 12,5 cm
(cornice 29,5 ✕ 27 cm)
© PLUS-ONE Gallery
Saskia When She was Six
or Seven, 2022
olio su tavola di betulla trattata
con polvere di marmo montata
su cornice di frassino
15 ✕ 12,5 cm
(cornice 29,5 ✕ 27 cm)
© PLUS-ONE Gallery
Kind of seeping in, through
the windows and doors
in through the pores into the
warmth II, 2023
olio su tavola di betulla montata
su cornice di frassino
15 ✕ 12,5 cm
(cornice 29,5 ✕ 27 cm)
© PLUS-ONE Gallery
Gli esterni, il verde, l’azzurro, la nudità in pieno sole, sono tutte espressioni
di una volontà, di un bisogno di fuga che cede spazio, nei disegni italiani
del 2017 (realizzati per la mostra Whatching Televisions alla Galleria Centofiorini
di Civitanova Alta), ad interni dominati da nature morte che lasciano
la luce di giornate assolate a finestre sull’esterno, dove si trova tutta la vita
a lungo sognata ma che in qualche modo non riesce ad essere vissuta.
È una sottile linea psicologica quella che insegue Judit Kristensen in
questa serie: sono sensazioni di noia, apatia, indolenza, affidate alle ombre
di tende e poltroncine, a bottiglie sui tavoli e a schermi televisivi fissi su
canali in attesa di programmazione. Se il bianco dominante dei primi lavori
le permette di scappare dalla lunga notte svedese, quando è immersa nel
sole dell’Italia sembra ci sia bisogno di un contrasto o di un limite da porre
alla piena esperienza della luce.
La scelta cromatica è più scura ma quel senso di inquietudine e di
attesa non è cambiato ed è ancora affidato ad una tecnica veloce e semplice,
affinché l’impeto venga subito colto, realizzato senza le dispersioni che potrebbe
causare l’utilizzo di procedimenti più lunghi ed articolati.
Del resto gli artisti che più influiscono sulla sua visione rispecchiano
questo modo di lavorare: dall’americano Daniel Hidkamp, allo svedese Bengt
Johnsson-Wennberg, al californiano Henry Taylor, o anche Dexter Dalwood,
Mike Silva o Anna Bjerger.
È lo sguardo fresco, attuale ed impegnato di una giovane artista che
produce immagini da interpretare, dietro le quali riuscire a captare la rifles-
17/FORME
Drawing of ligurian pines, 2017
pennarello su carta
© Galleria Centofiorini
Drawing of sorrounding made
from imagination, 2017
pennarello su carta
© Galleria Centofiorini
18/FORME
Drowing of sunset, 2017
pennarello su carta
© Galleria Centofiorini
Drowing of television and
shadow from pine tree, 2017
pennarello su carta
© Galleria Centofiorini
19/FORME
Nightmare Nightclub
Dream, 2023
olio su tela
105 ✕ 90 cm
© PLUS-ONE Gallery
Nightmare Nightclub
Dream III, 2023
olio su tela
150 ✕ 90 cm
© PLUS-ONE Gallery
sione intensa, lo sguardo indagatore che sonda sensazioni complesse di
momenti indefiniti o comuni.
“Art is very important for me, and it always has been. When I found art it
was like finding humanity, like finding out that I was not alone in the
world. Art for me is a communication on a level beyond words. Making
art can make me feel the relief of having truly spoken, and consuming
art can make me feel like I have truly understood someone.”
Il suo lavoro sugli interni continua anche in seguito (dopo il trasferimento
ad Anversa, dopo il master in Belle Arti presso l’Accademia d’arte di
Umeå; dopo le collettive alla Plus-One Gallery di Anversa, Eighteen Gallery
di Copenaghen, Diskus ad Aalst e Bildmuseet a Umeå, e le personali alla
Plus-One Gallery di Anversa e Artipelag a Stoccolma; dopo aver vinto la
borsa di studio Fredrik Roos, la borsa di studio d’arte più premiata in Scandinavia,
nel 2022 e aver ricevuto sovvenzioni dalla Fondazione Eva e Hugo
Bergman attraverso la Royal Academy of Art di Stoccolma, la borsa di studio
di un anno dal Comitato svedese per le sovvenzioni per le arti, KiK attraverso
Örnsköldsviks Konsthall e Samartbete attraverso Galleri Syster), Judit
si apre a formati più grandi e alla pittura ad olio, mantenendo la dicotomia
tra una luce ghiacciata tutta nordica e un riverbero caldo sui visi slavati e
spettrali giocato dal fuoco (ad esempio in Dementorerna, o Life / Death
Struggle oli su tela del 2023) o da lampade che le permettono di esplorare
le ombre, le pieghe degli abiti, la qualità dei tessuti. I grandi formati sono
bilanciati da piccoli lavori che tendono ad isolare particolari, come una messa
a fuoco (dettagli di porte, occhi, gesti) e tutto appare sempre corpusco-
20/FORME
Dementorerna, 2023
olio su tela
140 ✕ 100 cm
© PLUS-ONE Gallery
Internet Explorer, 2023
olio su tela
120 ✕ 100 cm
© PLUS-ONE Gallery
lare, agitato sotto la superficie della pelle, dei piani, delle cose. I corpi, i
volti, gli sguardi sono incisivi, sembrano serbare un segreto gravoso, una
storia fatta di situazioni e oggetti (computer, cellulari in carica, bottiglie di
Coca Cola, bicchieri di vino e pacchetti di caramelle) eppure permane anche
la sensazione che tutto sia un espediente di esercizio, un’indagine che trova
velature di stoffe, trasparenze di vetri, luce fredda di dispositivi puntati.
“Sembra esserci un nucleo esistenziale nelle opere e tentativi ricorrenti
di caricare il banale di tensione emotiva. L’oscurità isolazionista, gli
interni tremanti e le stanze private psicologicamente cariche con
un’illuminazione a schermo verde assenzio che fa vibrare il rosa freddo,
sembrano riprendere una tradizione lasciata dai modernisti scandinavi
come Edvard Munch, Vera Nilsson e Vilhelm Hammershøi.”
Le stanze sono tagliate o incombenti, contengono ma probabilmente
non proteggono, non hanno caratterizzazioni, tutto il potenziale narrativo è
affidato agli oggetti.
Questi spazi sono abitati da figure anch’esse del quotidiano: la stessa
pittrice, il fidanzato, gli amici che frequentano lo studio, e l’atmosfera – che
si evince anche dando un’occhiata al profilo Instagram di Judit – è a metà
tra una divertita giovinezza e un sentito impegno artistico, con la voglia di
trovare (ma l’ha già trovata) una voce individuale e di spingersi sempre più
in alto, sempre più in là.
www.juditkristensen.se/
www.instagram.com/judit.kristensen/
21/FORME
INTERNI
INTESSUTI DI STORIA.
IL DESIGN
DEL TESSUTO ITALIANO
Paola Ranzini Pallavicini
Gio Ponti
Legge mediterranea
1950-1958
Cotone stampato
Collezione privata
sullo sfondo
Fede Cheti
Felci
1951
Cotone stampato
Collezione privata
Ugo Zovetti
Composizione mistilinea
per carte da parati
1930 circa
Carta aerografata violetto, grigio
Feltre (Belluno), Galleria d'Arte
Moderna “Carlo Rizzarda”
Maria Monaci Gallenga
Copriletto
1920-1925
Seta stampata
Washington D.C., Cooper Hewitt,
Smithsonian Design Museum
Serena Confalonieri per Wall&decò
Afrique
2014
File di stampa
Courtesy Serena Confalonieri, Milano
Marsilio Arte ha pubblicato
quest’anno un vero tesoro: un volume
curato nei minimi dettagli, fortemente
voluto e studiato, con un solido
progetto alla base come nella
concezione di una volta. In questo
tempo di cataloghi mordi e fuggi che
restano impigliati sulla superficie
delle cose, Vittorio Linfante e
Massimo Zanella hanno dato vita
ad un viaggio completo e accurato
attraverso la produzione italiana
di stampa tessile, dai primi del
Novecento ai giorni nostri. Il libro
analizza le molteplici spinte creative
nordeuropee, orientali e
d’oltreoceano che hanno intessuto,
è proprio il caso di dirlo, la storia
del nostro Paese.
Si comprende molto bene come la
stampa tessile abbia rappresentato
una delle declinazioni più
affascinanti e ricche di opportunità
del design di interni, della grafica
e delle arti pittoriche, e che il legame
stesso di questa disciplina con
la storia dell’arte sia ben saldo e
riconoscibile in ogni epoca: partendo
da futurismo, passando per
concettuale, pop art, fino ad
approdare ai grandi studi del design
contemporaneo.
Le sezioni dedicate alle carte da
parati, a tovaglie e tappeti, ai tessuti
da arredo sono un vero e proprio
excursus nella storia figurativa
di questo secolo. Non c’è studio
di architettura, stilista o pittore
che, raggiunto un certo livello
di eccellenza, non abbia avuto il
desiderio di divertirsi nel dare una
connotazione glamour alle nostre
case, non abbia resistito alla
tentazione di entrare nelle nostre
vite quotidiane in modo leggero
ma persistente, modificando a poco
a poco il gusto degli italiani nel
percepire la vita all’interno di un
salotto, di una camera da letto.
Le arti decorative sono da sempre
il propulsore più immediato delle
correnti artistiche permettendo
a queste ultime di farsi strada
nei nostri usi e costumi, non
accontentandosi più di sostare
in gallerie e musei ma entrando
prepotentemente nelle nostre
giornate, non solo attraverso un
cappotto o un foulard, ma rendendo
le nostre abitazioni - in modo molto
democratico - parte di un flusso più
grande, rendendoci in qualche modo
mecenati e non più semplici padroni
di casa, effetto tra i più appaganti
“di quel laboratorio creativo che
era l’Italia del boom economico”.
Tutto questo ha contribuito nel tempo
a rafforzare il concetto del made in
Italy nel mondo. Mariano Fortuny, Gio
Ponti, Bruno Munari, Piero Fornasetti,
Il mondo contemporaneo ~ 2000-2023
23/FORME/note
Serena Confalonieri per Wall&decò ⇑ ⇒
Afrique | 2014
File di stampa
Courtesy Serena Confalonieri, Milano
Serena Confalonieri è una designer e art director milanese. Il suo stile, costruito intorno
a una visione fortemente grafica, mescola forme, materiali e colori in iperboli
decorative. Il suo approccio al design, sempre ironico, parte da un gesto giocoso che
diventa poi oggetto, tessuto, decoro, superficie, spazio o ambiente urbano.
Afrique è una collezione di pattern per carte da parati, disegnata per Wall&decò,
“[I TESSUTI] SONO
MATERIE MERAVIGLIOSE.
MATERIA TRA LE PIÙ
BELLE MATERIE:
CONTENGONO
SAPIENZA / SONO
COLORE; STAMPATI
SONO, NELLA CASA
LA PRESENZA DELLA
SCRITTURA POETICA
DEGLI ARTISTI”.
G. Ponti, Amate l’architettura. L’architettura
è un cristallo, Vitali e Ghianda, Genova 1957
Cristina Celestino
per Misha Wallcoverings
Cabana, 2020
Carta da parati
Courtesy Cristina Celestino,
Milano
Sarah Edith
Pause, 2016
Disegno per carta da parati
Courtesy Sarah Edith, Roma
Sarah Edith
per Rachel Antonoff
Floral, 2023
Disegno per tessuto
Courtesy Sarah Edith, Roma
Sarah Edith
per Jannelli&Volpi
Anfore, 2022
Disegno per carta da parati
Courtesy Sarah Edith, Roma
Chora, 2022
Disegno per carta da parati
Courtesy Sarah Edith, Roma
Cosmo, 2022
Disegno per carta da parati
Courtesy Sarah Edith, Roma
Maioliche, 2022
Disegno per carta da parati
Courtesy Sarah Edith, Roma
Ken Scott, Fiorucci (il re delle
citazioni), Andrea Branzi con i suoi
Archizooom, l’ haute couture,
da Missoni fino a Marni e Prada,
passando per Emilio Pucci e Gianni
Versace, la ricerca visiva di Elena
Salmistraro, CTRLZAK e Colomba
Leddi sono solo alcuni dei creativi
che hanno dato splendore alle
arti figurative del secolo e dei
quali possiamo ammirare colori
e geometrie, disegni zoomorfi e
pattern, attingere a piene mani
dagli interessanti intrecci che
scaturiscono dalle pagine per dare
una connotazione decisa alle stanze
che abitiamo.
Il volume vanta una presentazione
dello storico d’arte Valerio Terraroli,
a cui segue un saggio a due mani
che si inoltra in modo scrupoloso
nell’evoluzione delle correnti
artistiche e ne analizza le
contaminazioni.
Si apre poi la grossa parte di
repertorio, i cui capitoli regalano
un focus d’autore per ciascun
grande tema, esaltati da oltre 500
illustrazioni, fotografie e disegni
preparatori, molti inediti, bottino
selezionato dagli archivi aziendali
e privati per dar conto di un grande
tesoro che vale la pena conoscere.
Vittorio Linfante è docente di Fashion
Design, Branding e Comunicazione
presso il Politecnico di Milano e
Massimo Zanella un iconografo d’altri
tempi che conserva lo sguardo
stupito da bambino: due personaggi
in cerca di bellezza, si potrebbe dire.
IL DESIGN DEL TESSUTO ITALIANO
Dal Déco al contemporaneo
Il tessuto stampato
Vittorio Linfante, Massimo Zanella
Marsilio Arte, 2023
25/FORME/note
#album
ABITARE IL CERCHIO.
TEMA E VARIAZIONI
Giulio Perfetti
Si sta dentro e fuori gli spazi come
dentro e fuori perimetri o confini
immaginari.
Si sta dentro e fuori le definizioni.
Ci si posiziona dove si sta bene,
si assume il ruolo che più è conforme
al momento e allo stato d'animo,
in cerca d'ispirazione.
Il tema del cerchio è una sottotraccia
del lavoro di Giulio Perfetti
che torna e si sviluppa
continuamente, è una struttura
minima carica di potere simbolico
che l'artista e designer vede, trova,
fotografa, elabora; è un rifugio,
un punto di partenza, un luogo
magico, sacro, ancestrale, storico,
fuori dal quale il caos ci sovrasta
e disperde, all'interno del quale
ci ritroviamo.
27/ALBUM
28/ALBUM
Decoro dell' Abbazia di Sant'Urbano
(interessato dal fenomeno
dell' "occhio luminoso")
Valle di San Clemente, Apiro
Intarsio parietale in pietra, Pompei
Studio di Giulio Perfetti ispirato
all'Anellone Piceno
Copertina vintage di LP
32/ALBUM
33/ALBUM
Giulio Perfetti si forma
artisticamente a Macerata, dove
studia presso la Scuola d’Arte
e l’Accademia delle Belle Arti.
Sperimenta diverse forme espressive
tra tradizione ed innovazione,
ideando percorsi sensoriali sul tema
del rapporto uomo-natura in
site-specific e collabora con artisti,
musicisti, poeti e filosofi attraverso
la contaminazione tra i diversi
linguaggi espressivi. Circondato
da segni e da simboli, immerso
in un continuum di memoria e
prefigurazione tra passato e futuro,
l’artista si interroga sull’infinita
distanza del senso delle cose.
La sua indagine è incentrata sulla
posizione ontologica dell’uomo
nello spazio, sul significato
del suo relazionarsi con l’ambiente
che lo circonda.
Sempre attento e aperto al dialogo,
vive da alcuni anni un sodalizio con
l’artista Serena Giorgi nello spazio
The Kitchen art gallery di Milano.
Attraverso le proprie storie e i
rispettivi percorsi di studio, arricchiti
da mostre personali e collettive,
gli artisti hanno delineato e
disegnato la loro unicità offrendo
al pubblico il loro sguardo curioso
ed attento, originale e alla ricerca
di nuovi linguaggi.
Per un approfondimento sulla
produzione di Giulio Perfetti
si rimanda all'articolo di pagina 34
in Stanze/LABIRINTO
Il duo Giorgi-Perfetti. Le possibilità,
di Marta Silenzi
https://www.yumpu.com/it/
document/read/68299253/stanze-
06-23-labirinto
www.giulioperfetti.com
35/ALBUM
RICOSTRU
ZIONI
SCENICHE
D'
AUTORE
Paola Ranzini Pallavicini
Film visti e rivisti, consumati, interiorizzati.
Spazi privati, abbigliamento, pezzi di design, tic
ed abitudini di vita dei protagonisti che senza accorgercene
abbiamo assimilato nel tempo fino a farne
qualcosa di familiare, fino a rivivere di riflesso le atmosfere.
Case che ci hanno ispirato o infastidito, ma che
sono diventate di soppiatto parte del nostro bagaglio
culturale, riferimento di stile; il modo in cui consumano
il salotto nevroticamente le coppie di Woody Allen,
avanti e indietro sempre con un calice in mano, ci introduce in un'atmosfera
totalmente diversa dai corpi sdraiati o danzanti di Guadagnino; la pacatezza
e la precisione chirurgica delle vite andersoniane è diametralmente opposta
al terrore puro nascosto dietro ai leggendari paralumi di Lynch.
Ad ogni stanza corrisponde una tonalità di colore ben precisa, una
cifra stilistica studiata con attenzione, uno staff di professionisti che è entrato
con dedizione nella mente del regista (ma anche dello scrittore il cui
libro è stato scelto per la rivisitazione cinematografica) per restituirci un
intero mondo di suggestioni.
La ricerca del pezzo di design adatto è accurata tanto quanto lo studio
dei costumi e delle musiche. Spesso si tratta di ambienti ricostruiti da zero
ma molte volte vengono occupate case di amici o conoscenti che sono già
perfette e richiedono adattamenti minimi.
L'appartamento romano del grottesco Dillinger è morto di Marco Ferreri
apparteneva all'artista Mario Schifano; nello specifico però la meravigliosa
cucina era quella della villa a Velletri di Ugo Tognazzi, grande amico
di Ferreri.
Il Dakota Building, nell'Upper West Side di Manhattan, è tra gli edifici
più leggendari di New York. Il terrorizzante Rosemary’s Baby di Roman
Polanski è stato girato qui, nel 1968. Sempre qui nel 1980 venne ucciso John
Lennon. Leonard Bernstein vi morì nel 1990. È ormai un fatto noto che a
questo palazzo gotico venga collegata una sorta di oscura maledizione.
Era di Curzio Malaparte, a Capri, la villa metafisica che abbiamo ammirato
ne Il disprezzo, del 1963, girato da Jean-Luc Godard e tratto dall’omonimo
libro di Moravia.
Potremmo proseguire all'infinito questo affascinante gioco di rimandi,
coincidenze, affinità.
Di seguito una minuscola ma gustosa selezione di pellicole in cui l'immaginario
che ruota attorno all'ambientazione assume un ruolo sicuramente
decisivo: vanno a toccare gli ultimi quarant'anni e ognuno di noi può ritrovarvi
dentro un sapore, un profumo particolare, un desiderio indefinito.
Appartamenti cittadini, ville, con terrazza o con piscina, decadenti o
futuristiche. Uno studio teatrale e persino una tenda da campeggio.
37/FOTOGRAMMI
LA TERRAZZA
Ettore Scola, 1980
La terrazza che dà il nome a questa storica pellicola si trova a Roma,
appartiene ad un lussuoso attico in piazzale delle Belle Arti 6, angolo con
lungotevere Flaminio.
Ci troviamo alle prese con uno dei film più analizzati e citati dai critici
cinematografici italiani: in tale romana ambientazione nelle sere d’estate
sono usi radunarsi alcuni rappresentanti dell’alta borghesia della capitale,
per la maggior parte appartenenti all’ambiente del grande e del piccolo
schermo, alternati a politici e imprenditori. Mogli e amanti dirigono i giochi
e rimescolano le carte.
Chiacchiericcio, convenevoli ma anche accese discussioni rappresentano
un flusso continuo che migra senza posa dall’esterno all’appartamento,
dove ci si abbuffa di salse tonnate e cruditè al tavolo del buffet, in piedi,
circondati da librerie imponenti, mobili rococò, servitù in divisa inamidata,
felci, anfore. E poi ancora busti, divanetti, abat jour, tanto glicine.
Qui si covano gelosie, rancori, ci si innamora, si trama e si tradisce.
Tognazzi, Trintignant, Vukotic, Mastroianni, Sandrelli e Gassman si autocompiacciono
e fanno da precursori a quelli che diventeranno i socializer
della altrettanto celebre Grande bellezza di Sorrentino. È il grande cinema
italiano che da sempre si nutre dei tic della borghesia, e la precisa collocazione
romana non fa altro che ricalcare fedelmente i salotti frequentati dal
regista in quegli anni.
38/FOTOGRAMMI
MISTERIOSO OMICIDIO
A MANHATTAN
Woody Allen, 1993
Le case dei film di Woody Allen sono uno spazio sicuro e confortevole
in cui tornare ogni volta che se ne sente la malinconia. Nella stragrande
maggioranza dei casi ci troviamo a New York, città di elezione del regista; si
attraversano tutte e quattro le stagioni ma ci si sofferma spesso e volentieri
su colori e abitudini autunnali.
I protagonisti delle sue storie hanno sempre addosso del velluto o del
tweed marroncini, o entrambi. Sono intellettuali, conducono vite gradevoli
e un po’ depresse. Ci appaiono a volte euforici, altre disperati, ma sempre
cinici.
La coppia Allen-Keaton è rodata, raffinata, loquace, con le mani sempre
occupate da qualcosa: il telefono, sacchetti di bagel, quotidiani. Possiede
vasi di fiori freschi in ogni stanza, molto mobilio vintage, meravigliosi poster
di film e spettacoli teatrali incorniciati, biancheria color caffelatte, paralumi
avvolgenti, libri ovunque. La casa è molto piena, disordinata, ogni oggetto a
testimoniare la nonchalanche raffinata dei proprietari, il loro gusto cittadino,
il loro essere deliziosamente coolness. L’appartamento fa parte di un maestoso
palazzo d’epoca con portiere e atrio in marmo.
39/FOTOGRAMMI
STRADE PERDUTE
David Lynch, 1997
Il sassofonista jazz Fred vive con la stupefacente moglie Renée in una
residenza bellissima ma terrorizzante di Los Angeles.
La loro vita a due viene sconvolta da alcuni fatti inquietanti ai quali
non si riesce a dare alcuna spiegazione logica, come sempre avviene nelle
pellicole di Lynch; la loro privacy violata da più di una videocassetta registrata
da qualcuno che penetra indisturbato in camera da letto e imprime
qualcosa di terribile su nastro.
Questo bellissimo noir surreale non sarebbe stato altrettanto efficace
in una ambientazione diversa da questa: tutto è studiato nei minimi dettagli
per sottolineare la tensione strisciante.
Le stanze sono piene di spigoli vivi, strampalati, angoli acuti. I mobili
essenziali sono sparsi nello spazio vuoto, diverse poltrone, armadi a scomparsa,
il design nordico, pulito, nulla in vista, nulla fuori posto, pochissimi
oggetti: un posacenere, i telecomandi. La tecnologia è ovunque: citofono,
allarme, videoregistratore, telefoni, strumenti di registrazione musicale, una
stanza insonorizzata.
Le finestre che danno sulla facciata principale sono strette e lunghe;
sul retro invece la vista dà sul verde.
Superando la vetrata opaca all’ingresso e inoltrandoci nelle stanze,
incontriamo molti punti luce che creano ombre drammatiche in cui i coniugi
sembrano letteralmente scomparire.
La luce del giorno è violenta e ferisce, mentre invece la luce notturna
è la vera protagonista del film: le famosissime lampade lynchiane creano
zone calde, gialle, arancioni o rosse, ed ombre nerissime. Il colore rosso
geranio, fortemente erotico, della pesante tenda in camera da letto (come in
Twin Peaks e in Mullhollan Drive) si alterna al verdone, al tortora delle pareti,
al nero delle lenzuola di seta.
Il lusso è asettico e tutto è molto simbolico: una lunga fila di piante
grasse, divanetti bassi e tavolini ovali. Il caminetto è spento, siamo nella
40/FOTOGRAMMI
perenne estate losangelina, tutte le pareti sono sgombre, inquietantemente
desertiche ad esclusione di tre soli quadri dai disegni onirici isolati e messi
in fila sul divano, e di uno stretto specchio nella zona notte.
La casa viene analizzata in ogni angolo alla ricerca di indizi, e per
questo ci si sofferma lentamente su ogni dettaglio.
Il protagonista è un musicista, ma la musica è relegata alla scene nei
club o alle feste a casa di colleghi, perché in casa c’è sempre un silenzio
cupo, disturbante, che rende insostenibili i momenti di orrore puro.
UOMO MISTERIOSO A essere più precisi, sono lì in questo istante.
FRED Dove dovrebbe essere, in quest’istante?
UOMO MISTERIOSO A casa tua.
SHE’S GOTTA HAVE IT
Spike Lee, 2017
Nola è una pittrice che vive in un palazzo d’epoca a Fort Greene nella
Brooklyn gentrificata.
Possiede un enorme letto la cui testiera di legno dipinta di verdino è
una sua creazione, e sulle sue punte svettano ceri bianchi accesi, disposti
ad altezze differenti.
La casa di Nola è piena zeppa di quadri, alcuni appena abbozzati, alcuni
mastodontici, di colori, di ceramiche, candele, libri, specchi, una sedia
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da barbiere, tavolini e sgabelli di seconda mano, molto legno, punti luce, il
tripudio dell’hipsteritudine.
È una casa calda, viva, elettrizzante, un unico ambiente senza separazione
tra zona notte e giorno/lavoro. Lo spazio che circonda il letto è il
punto più pulito, essenziale, ordinato senza essere stucchevole, con degli
economici tappeti etnici e tanto parquet consumato. Le lenzuola sono sempre
fresche, sembra di sentirne il profumo di bucato. Tutti gli infissi sono
color panna, sul comodino la mitologica lampada Nesso dell’Artemide, e
pochissimo altro.
I colori di tutto il resto sono quelli violenti, tipici di Spike Lee, li ritroviamo
ovunque, nelle stoffe afro, negli abiti, nelle tele.
La colonna sonora è da urlo. Nora tenta di volersi molto bene e ascolta
musica divina, accende incensi, riflette molto, a volte, e a volte troppo
poco. Ha tre amanti ad alternarsi in quel letto che, in ogni caso, riesce a rimanere
un posto solo suo, di assoluta intimità con se stessa. È lì che si
esibisce nei suoi monologhi con gli occhi ridenti fissi nella telecamera, nei
nostri.
THE DREAMERS
Bernardo Bertolucci, 2003
Parigi, primi giorni della primavera 1968.
I fratelli Isabelle e Théo fanno amicizia con Matthew, uno studente
californiano nel bel mezzo di una manifestazione davanti alla Cinémathèque
Francaise. Nei giorni successivi lo ospitano a casa loro mentre i
genitori sono in viaggio. Il resto è leggenda. La casa si trova in Place de Rio
de Janeiro.
Si tratta di un appartamento decadente, immenso, composto da numerose
camere collegate l’una all’altra da stretti corridoi, proprietà di una
famiglia benestante di intellettuali di sinistra, ben radicati alla borghesia.
La confusione creata dai due ragazzi regna: libri, dischi, vecchi mobili
d’epoca trattati male; in cucina le stoviglie sporche si accumulano.
La vista sulla città è quanto di più francese si possa immaginare.
Il gioco tra dentro e fuori assume un ruolo importantissimo; fuori le
proteste studentesche impazzano, ma è dentro che sta davvero esplodendo
la rivoluzione intima dei tre, e noi possiamo solo essere testimoni affascinati
della noncuranza creativa con la quale si impossessano degli ambienti, li
vivono intensamente, vi imprimono ricordi indelebili in un arco di tempo ben
circoscritto. Tutto finirà per sempre quando in Matthew prevarrà il richiamo
dell’esterno, della strada, delle sommosse.
Per gli interni fu affittato un intero palazzo nel centro di Parigi: al
piano terra c’erano molte sale per ogni reparto della troupe, una saletta di
proiezione, un ufficio per il regista. Al primo piano fu ricostruito tutto l’appartamento
della casa nella quale è ambientata la storia, e all’ultimo piano
c’erano le soffitte, dove furono girate altre scene.
42/FOTOGRAMMI
Un paio dei momenti più iconici vennero girati nel luminoso bagno
d’epoca, protagonista assoluta una vasca che fa correre subito il ricordo a
Ultimo Tango a Parigi.
Non uscivamo quasi più di casa ormai. Non sapevamo né volevamo
sapere se fosse giorno o notte. Era come se stessimo andando per
mare, lasciando il mondo lontano, dietro di noi.
DOGVILLE
Lars von Trier, 2003
Parliamo del primo episodio della dilogia USA - Terra delle opportunità,
a cui farà seguito Manderlay nel 2005.
Von Trier lo gira con la tecnica a lui congeniale della macchina a mano,
ed un dispendio minimo in fatto di scenografia. Siamo infatti in un teatro di
posa; l’elemento davvero affascinante e irritante al tempo stesso è che le
case dei personaggi sono solo delle righe bianche tracciate sul pavimento,
una simulazione, quasi una recita, e l’arredo è ridotto all’estremo: una sedia
a dondolo qua, un tavolo da lavoro là, una radio, e poco altro.
Questa scelta volge a creare un fortissimo senso di oppressione sullo
spettatore, anche per via delle luci totalmente artificiali.
Gli attori ogni qual volta devono passare da un ambiente fittizio all’altro
mimano l’apertura di porte invisibili, i mobili e gli utensili che usano sono
reali ma isolati nello spazio, grotteschi.
Le 9 abitazioni e i relativi 15 abitanti vengono presentati nel prologo.
Ci troviamo nell’immaginaria cittadina di Dogville, Montagne Rocciose, Stati
Uniti, anni trenta.
Il film è diviso in capitoli in maniera molto brechtiana, e viene raccontato
dalla voce di un narratore esterno.
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Nonostante la primissima sensazione di estremo ordine, dignità, pulizia,
capiamo tutti subito che qualcosa di meschino potrebbe accadere se
solo se ne presentasse l’occasione. E l’occasione ha nome Grace, una misteriosa
forestiera arrivata in città.
Il capannone in cui è girato interamente si trova a Copenaghen.
L’aver rappresentato gli ambienti totalmente invisibili, senza muri reali
è forte metafora di una comunità che guarda al proprio ombelico e tutta
insieme osserva la donna arrivata da poco. Con effetti devastanti.
Come poteva odiarli per ciò che in fondo era la loro debolezza? Probabilmente
anche lei avrebbe fatto cose come quelle che aveva subito
se avesse vissuto in una di queste case.
CARNAGE
Roman Polanski, 2011
Questo film è il riuscitissimo adattamento cinematografico della nota
piece teatrale di Yasmina Reza, Il dio del massacro.
Si svolge interamente in un appartamento della borghesia colta di
Brooklyn, anche se è stato girato in un teatro di posa poco distante da Parigi.
Qui i padroni di casa ospitano i genitori di un ragazzino che ha spaccato
i denti al figlio durante una rissa. I quattro decidono di incontrarsi per parlare
dell’accaduto, ma la giornata andrà a toccare tematiche ben più vaste,
con colpi di scena, maschere cadute molto rapidamente, rivendicazioni su
più livelli, in un saliscendi di tensione diretta da Polanski senza sbavature.
L’appartamento è quello di una famiglia progressista, politically correct;
il raffinato soggiorno è tutto strutturato attorno ad un tavolo basso sul
quale sono disposti cataloghi d’arte rari, ed un grande vaso con tulipani
freschi. Le tonalità dell’ambiente sono avvolgenti, calde. I due divani sono
ricoperti di cuscini etnici, circondati da librerie di legno bianco e da un pia-
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noforte; sul grande camino di marmo sono disposti lampade d’autore e piccole
opere d’arte. Ci sono diversi perfetti punti luce disseminati per le stanze;
alle pareti sono incorniciati numerosi scatti artistici.
La vista della città è splendida, ci troviamo ai piani alti. Durante il
pomeriggio abbiamo modo di attraversare rapidamente anche bagno, cucina
e studio, ma è nel salotto che monta - a poco a poco ma inesorabilmente - il
“massacro”.
L’uso degli spazi scenici era in realtà una questione molto importante,
di precisione, di limite, di dettaglio minimale. Ma questa è la forza
di Roman. La precisione, il dettaglio, l’esattezza. Il suo modo distintivo,
direi ‘microscopico’ di lavorare.
Christoph Waltz
MOONRISE KINGDOM
Wes Anderson, 2012
La tenda da campeggio è gialla, triangolare, basica, come le tende
disegnate dai bambini o quelle dei sogni. Avvolta dal bosco frusciante.
Quella tenda è tutto il mondo provvisorio dei due preadolescenti in fuga,
racchiude tutto il desiderio di sentirsi parte di qualcosa, di sentirsi unici e
amati. Ai lati dell’apertura sono raffigurate quattro civette grigie, in fila,
cavalli, cavalieri e altri strani quadrupedi tutto intorno (i disegni ricordano
tremendamente quelli che abbiamo ammirato sul Treno per il Darjeeling).
Suzy Bishop ha una valigia gialla, un cestino di vimini e una cartella scozzese.
Sam Shakusky ha un grosso zaino degli scout, un mangiadischi azzurro
tiffany. La valigia contiene unicamente una dozzina di libri illustrati
per ragazzi. Hanno con sé una padella, una tanica per l’acqua, dei seggiolini
pieghevoli, una lampada da campo, pentolini, un gatto, un cannocchiale,
arco con frecce, un filo per appendere i panni, coperte e cuscini. La baia
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è la loro casa e le rocce davanti alle quali si sono accampati il loro avamposto.
La tenda è un nido che riproduce nei colori e nelle atmosfere infantili
le loro camerette, dalle quali sono fuggiti, e dove c’è sempre spazio come
in tutti i film di Wes Anderson per una tazza fumante, una lettera scritta a
mano, un gioco in scatola.
Ci troviamo nell’isola di New Penzance, New England, nel 1965.
Le scene assomigliano a quadri iperrealisti, sono curatissime, maniacali,
dalla tipica gamma cromatica amata da Anderson, come se tutto fosse
stato tuffato in una soffice vernice giallina, calda e confortevole.
È un manierismo molto apprezzato da questo tempo così instagrammabile,
e negli anni ha dato vita a una vera e propria ossessione sui social,
creando un’estetica ben precisa ormai condivisa da tanti e sdoganata in
diversi contesti. Ma nel 2012 questo manierismo andersoniano era ancora
molto genuino e soprattutto ancora così poetico, particolarmente adatto a
descrivere l’adolescenza di due perfetti, struggenti ribelli.
A BIGGER SPLASH
Luca Guadagnino, 2015
La Tenuta Borgia, sull’isola di Pantelleria, è una villa realmente visitabile
e affittabile, circondata dal un parco mediterraneo che comprende la
favolosa piscina, vera protagonista del film, che ne ha sicuramente accresciuto
la popolarità.
La pineta si estende su dodici ettari, e la tenuta conta ben sei dammusi,
ristrutturati da uno degli architetti più quotati tra i personaggi famosi che
hanno residenza sull’isola.
Questi dammusi restano fedeli alle caratteristiche più tipiche dell’abitazione
pantesca. Il dentro e il fuori dialogano costantemente in modo
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fluido. Il Dammuso Grande è il cuore pulsante della tenuta ed è quello scelto
per l’ambientazione principale.
Il film è il secondo della Trilogia del Desiderio, iniziata con Io sono
l’amore e terminata con Chiamami col tuo nome.
Si tratta del rifacimento della Piscina, film del 1969 di Jacques Deray,
e prende il suo titolo dall’omonimo quadro di David Hockney, che si può
ammirare alla Tate Modern di Londra. È un giallo che affronta la convivenza
“forzata” in una casa di vacanza da parte di quattro americani legati tra loro
da rapporti irrisolti in ogni direzione.
Nelle storie di Guadagnino la casa è un elemento centrale, che dà
l’impronta non solo allo stile estetico ma anche alla sinfonia di sentimenti
forti, inespressi, incombenti.
La danza egocentrica di Ralph Fiennes sulle note del vinile di Emotional
Rescue vale l’intero film. L’attore si muove tra gli spazi del soggiorno:
nicchie, quadri astratti appoggiati alle pareti, mura verniciate di bianco accecante,
lampade di design, un lunghissimo divano ricoperto di stoffe rigate
dai colori violenti, cuscini a contrasto, altre fantasie su tende di cotone al
posto delle porte, sedie arancioni di modernariato, per poi proseguire nella
luce accecante del patio.
Come sempre con Guadagnino la vista viene appagata da una cura
raffinatissima del dettaglio, tutto è realistico ma appare nobilitato, e in questo
caso i profumi e i sapori succosi dell’isola sembra quasi di sentirli con
tutti i sensi, la luce accecante bagna corpi, camicie e poltrone, le cucine
sono veri e propri luoghi di perdizione e le camere da letto sono fresche,
ombrose e cariche di mistero.
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FINAL PORTRAIT
Stanley Tucci, 2017
Lo studio è un’unica grossa pennellata grigia, una gamma infinita di
grigi caldi, freddi e poi di tortora.
La creta tiene ancorati a terra, e il glicine appena fuori spinge i pensieri
cupi verso il cielo e tenta di alleggerirli, almeno per pochi istanti.
L’artista è grigio anch’esso, grigi sono i riccioli, grigi i vestiti, il giaccone
stazzonato, le scarpe sporche, le dita sono grigie, le sigarette persino
sono impastate di argilla.
L’unica nota di colore sono le donne, moglie e amante, con i loro maglioncini
accesi e i loro abiti da cocktail. Fiori stropicciati, usati, ma motore
di tutto. Lo studio è anche casa, a pochi metri un letto rifatto rapidamente,
il freddo invernale è palpabile, la percezione è che tutto stia andando poco
alla volta a rotoli.
Tutto è sporcato dal lavoro manuale, tutto è trasandato, logoro, accatastato,
e da questo caos emerge prepotente la bellezza delle sculture.
Dalle mancanze di un uomo arrogante, tormentato, perennemente infelice,
viziato come un bambino, totalmente inadeguato ai rapporti umani,
spuntano opere commuoventi, frutto di lunghissime ricerche, tentativi, rifacimenti
infiniti: un lavoro sfinente per lui e per chi gli sta accanto, che non
lascia spazio ad altro. E infatti molto poco di questa vita terrena lo interessa:
non lo spendere i soldi guadagnati, tantomeno avere un posto rispettabile
in società, non il costruire una famiglia, tutto eliminato e sacrificato a
questo perenne fare, rifare, e meditarci su.
Siamo a Parigi nel 1964, e quest’uomo è lo scultore e pittore Alberto
Giacometti.
I colori dello studio di Montmartre sono i medesimi delle strade e dei
cieli, in un’armonia scarna e poetica che ricorda certe musiche jazz di quegli
anni, certe fotografie dai bianchi e neri pastosi e ricchi. La fredda luce
del nord è quella di inizio anno.
48/FOTOGRAMMI
SONG TO SONG
Terrence Malick, 2017
Conturbante pellicola di Malick ambientata ad Austin, in Texas. Un
lungo videoclip in cui gli attori fanno a gara di intensità e bellezza, e le ambientazioni
vengono scelte volutamente neutre, sgombre, impersonali per
dare maggior risalto possibile ai tumulti di ciascun personaggio.
Le case sono molto vuote, sembra sempre che si sia appena traslocato,
arredate al minimo e con stile minimal, appaiono senza anima, quasi fossero
solamente luoghi di passaggio.
Che si tratti della sconfinata villa con piscina del produttore discografico
o delle abitazioni molto più modeste degli altri protagonisti, l’instabilità,
la provvisorietà fanno da vero e proprio marchio di fabbrica.
Case anonime, spoglie, con pochi mobili distanziati tra loro e pochi
oggetti, qualche quadro astratto, nulla che rimanga impresso nella memoria,
affinché il regista possa catalizzare tutta la nostra attenzione su sguardi,
espressioni e corpi.
Gli spazi esterni sono enormi, sempre ben visibili da vetrate immense,
sia quelle pianoterra affacciate su prati di un verde irreale e su piscine appariscenti,
ad uso e consumo di party di lavoro molto mondani, sia quelle a
piani altissimi. Gli spazi aperti hanno enorme importanza, ma è all’interno
che si consolidano legami e, solo qualche volta, si getta la maschera. La luce
è sempre chirurgica, inonda tutto in modo crudele.
Quando le cose diventano troppo preparate, la vita esce da esse.
Terrence Malick
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C’È ANCORA DOMANI
Paola Cortellesi, 2023
Molti dei nostri nonni hanno vissuto, amato e cresciuto i figli in case
così. In Italia nella seconda metà degli anni quaranta ancora il boom economico
era un miraggio lontano, e per i nostri figli del resto, in piena inflazione,
torna ad essere un termine esotico.
Le case italiane della gente comune erano spoglie, grigiastre, ridotte
all’osso; i mobili si compravano una volta e sarebbero durati per sempre;
tutto veniva rammendato, rassettato in un loop infinito, in maniera diametralmente
opposta a quello che avviene ora, in piena epoca fast fashion.
Paola Cortellesi fa un sensibile lavoro di ricostruzione dei dettagli in
modo che molti di noi peschino nella memoria storica della propria famiglia.
La pellicola è ambientata nella Roma del dopoguerra da poco liberata,
e riprende lo stile neorealista di quegli anni, a partire dalla scelta azzeccata
del bianco e nero.
Molte scene sono ambientate nel quartiere Testaccio, ma il minuscolo
appartamento seminterrato in cui vivono i protagonisti è stato ricostruito in
teatro di posa a Cinecittà dalla scenografa Paola Comencini, che ha lavorato
affinché ricordasse la casa di Bellissima, il film di Luchino Visconti con
Anna Magnani.
È una casa dalle pareti annerite, con le finestre quasi alla stessa altezza
della strada, la struttura di legno appesa per i piatti del servizio buono,
i panni stesi, il catino in ceramica, la carta da parati alle pareti della
camera da letto, la madonnina appesa, la macchina da cucire, un paravento
e tanti, troppi angoli bui.
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The Lost Flowers of Alice Hart
Australia, 2023
ideatore Sarah Lambert
regia Glendyn Ivin
soggetto omonimo romanzo di Holly Ringland
sceneggiatura Sarah Lambert (pt. 1-5, 7),
Kirsty Fisher (pt. 3, 5), Kim Wilson (pt. 4, 7)
interpreti e personaggi Sigourney Weaver,
Asher Keddie, Leah Purcell, Frankie Adams,
Alexander England, Charlie Vickers,
Tilda Cobham-Hervey, Alyla Browneì,
Alycia Debnam-Carey, Sebastián Zurita
fotografia Sam Chiplin
montaggio Dany Cooper, Deborah Peart
musiche Hania Rani
scenografia Melinda Doring
costumi Joanna Mae Park
produttore Barbara Gibbs
produttore esecutivo Jodi Matterson,
Bruna Papandrea, Steve Hutensky,
Sarah Lambert, Glendyn Ivin,
Sigourney Weaver
casa di produzione Made Up Stories,
Fifth Season, Amazon Studios
The Lost Flowers
of Alice Hart
Marta Silenzi
ORCHIDEA NERA DEL FUOCO
DESIDERIO DI POSSESSO
ACACIA
SEMPRE CON TE
PIANTA DELLE LANTERNE
LA SPERANZA PUÒ ACCECARE
GIGLIO DI FIUME
AMORE SEGRETO
QUERCIA DEL DESERTO
RESURREZIONE
RUOTA DI FUOCO
IL COLORE DEL MIO DESTINO
PIANTA DEL PISELLO DEL DESERTO
ABBI CORAGGIO, FATTI ANIMO
Ambienti. Mobilio in ombra. Carta
da parati.
Oggetti, libri, boccette. Atmosfere
e sapori che si credono dimenticati.
Stanze che risuonano di ricordi e di
voci.
Interni curati e pieni di vissuto contro
esterni vastissimi e selvaggi.
L’Australia.
“Visivamente interessante”, così la
critica accoglie questi sette episodi
della serie scritta da Sarah Lambert
e tratta dal romanzo di Holly
Ringland. Ed è vero: al di là
dell’importanza del tema trattato
e della bravura degli interpreti, è la
bellezza delle immagini ad imporsi,
ed è quindi la regia di Glendyn Ivin e
la fotografia di Sam Chiplin, complici
la scenografia di Melinda Doring
e i costumi di Joanna Mae Park che
vanno evidenziati per come hanno
saputo accogliere ed evocare
impalpabili sensazioni e profondi
pensieri, dimensioni magiche oltre
il tempo anche quando il racconto
diventa agghiacciante.
Casolari diroccati in mezzo al nulla,
vicini al fiume, al mare; vetrate
polverose, aperte sulla natura
piovosa; piante e fiori, fogli disegnati
alle pareti, amache e cuscini sopra il
fogliame, tremolii che sanno
raccontare più del parlato la storia di
questa madre e questa figlia delicate,
fragili, in attesa che la miccia
prenda fuoco, che l’uomo di casa
s’infastidisca per l’impercettibile
e tutto precipiti in violenza e
tragedia. Bamboline di stoppa alla
testata del letto.
Porte di legno spellato, vento,
inquadrature dal basso, dentro gli
ambienti assieme ai personaggi,
dentro la storia con loro.
Case che ruotano, corridoi che
vacillano, prospettive che si
rovesciano al serpeggiare della
paura, all’arrivo della furia e di ogni
nuovo abuso.
La bellezza delle verande, il gusto
per l’arredamento d’interno, per il
design logoro, la disposizione dei vasi
secondo una casualità studiata,
le tende al vento, i tessuti ricamati,
i messaggi sparsi ovunque come
moniti, come suggerimenti, servono
ad acuire il senso della sospensione,
la ferocia della brutalità che è un
fuoco che divampa, definitivo sulla
terra (il padre violento muore
bruciato), imperituro dentro di Alice.
Persino il capanno carbonizzato,
con le sculture in legno di madri e
bambine, conserva un fascino che ha
molto da dire, per chi vuole ascoltare.
E poi grandi distanze, la Madre Terra,
con paesaggi degni di Terrence
Malick, e una nuova casa, La casa,
quella del vivaio in cui abita la nonna
della ragazza (e in cui Alice verrà
accolta e cresciuta) e tutta una
schiera di donne vittime di
maltrattamenti riabilitate in “fiori”,
come quelli che curano e cui
assomigliano, quelli che crescono
e legano in mazzetti portatori
di significati, un linguaggio altro
necessario dove i silenzi sono tanti.
Anche qui, in tutta la proprietà
chiamata Thornfield, si contempla
53/FOTOGRAMMI/note
54/PAGINE
l’estremo lusso delle baracche: un
continuo ossimoro fatto di buon gusto
e femminilità; gigantesche,
magnifiche serre di fiori selvaggi;
luce immensa e buio fitto, estremi
come estremi sono i sentimenti
in campo, le verità tenute nascoste
perché impossibili da essere
pronunciate.
Legni intagliati dalle stesse mani che
feriscono, tende al vento che spazza
via, che accarezza e lenisce col
profumo che le immagini trasudano.
Grembiuli e quadri ricamati, un vago
stile country coniugato con poesia
ed austerità, entrambe dosate di pari
passo con lo snodarsi della
narrazione; la luce naturale del
mattino o del crepuscolo durante la
ronda di notte e gli interni pennellati
di bagliori seicenteschi.
Cose. Tantissime. A riempire, abitare,
parlare.
E fiori. E donne. Da generazioni.
Per via matrilineare.
Cucine in penombra dove impastare
dolci; magazzini in cui seppellire
scatoloni e dimenticare ricordi;
vecchie serre di alberi scolpiti;
ciondoli e cristalli; tavolini di libri,
scrivanie di quaderni ed erbari.
Trapunte.
Api che sciamano perché una nuova
regina è venuta al mondo.
Tante domande e altrettante risposte
taciute perché gli interni, come gli
animi, sono rifugi nei quali rifiatare,
sopravvivere e nei quali andare a
scavare per comprendere e ritrovarsi.
Tutta la verità verrà inevitabilmente
portata alla luce del giorno e del
fuoco, passerà per le casupole
anonime della guardia ambientale,
teatro di nuove violenze come fosse
un destino; per i rituali delle
aborigene private dei loro figli; per
la brezza marina dell’abitazione del
poliziotto e la bibliotecaria, perno
importante per la storia di Alice,
di sua madre, di sua nonna e di suo
fratello, sconosciuto e ritrovato,
restituito da una vita troppo amara,
addolcita solo dal gusto curativo
del miele.
Apparizioni, spiriti, immagini che
sembrano avere suono.
Porticati, vimini.
Terra impastata di ceneri e mani
impastate di terra.
Tronchi incisi di nomi.
E fuoco purificatore.
Di nuovo mentre attraversavo l'imponente atrio - guardando
i leoni alati a metà dei cinquanta metri della Fox
Tower svettante sopra l'incrocio tra la Broxton e la
Weyburn Avenue, che di notte, illuminata com'era e con
in cima una sfolgorante insegna bianca e blu, sembrava
un faro - mi ricordai che quella era la prima volta che
andavo a Westwood da solo e mi sentii davvero adulto
ed ebbi un brivido di trepidazione all'idea di quel che
mi riservava il futuro. Comprai una scatola di Junior
Mints e dal luminoso atrio art déco mi spostai nell'oscurità
della gigantesca sala.
Il cinema era meno affollato di quanto avessi temuto,
ma erano solo le nove e quaranta ed era destinato a
riempirsi, pensai sedendomi e osservando l'imponente
sipario drappeggiato davanti allo schermo da 70 millimetri.
Mentre scrivo, non riesco a credere che fui lasciato
lí seduto per conto mio per venti minuti, oziosamente,
a pensare alle mie cose, a Thom e Susan, ad
aspettare senza un telefono da guardare, ad aspettare
senza che nulla mi distraesse. Invece, mi godetti la sala
- la mia preferita a Westwood e la più grande, con oltre
millequattrocento posti; era un vasto mondo a parte in
cui mi rifugiavo ed era uno dei pochi posti in cui sapevo
di potermi salvare - perchè all'epoca i film erano una
religione, potevano cambiarti, alterare la tua percezione,
potevi protenderti verso lo schermo e condividere
un'istante di trascendenza, in quella chiesa tutte le
delusioni e le paure venivano spazzate via per qualche
ora: i film avevano su di me l'effetto di una droga.
Bret Easton Ellis, Le schegge
È come dentro un film
Solidea Ruggiero
ESTERNO CORPO
EST. PIEDI PER LE STRADE - MATTINO
L’andamento spedito, che sa di pulizia. Un ordine di passi che regalano
controllo. Una vita che rispecchia, un corpo che accoglie senza
forma.
PENSA:
: - Tutto ciò che m’interessa è nella vita stessa: chiarifico le azioni
per lasciare spazio a giudizi di primo ordine che glissano le
definizioni, non voglio appellativi. È questo che cercate, vero? Dei
parafulmini contro le critiche, di essere intoccabili, criticabili,
incasellabili.
Distanti dalla realtà, ma vicini a quella che vi raccontate.”
EST. OCCHIALI NERI VERSO IL MARE – GIORNO
DICE:
“In quella discussione, non ci dovevi proprio entrare: ti sporchi, a
nessuno piace sentire la verità. Tu credi che davvero ancora la
gente voglia parlare di coscienza? Di coerenza? D’integrità? È tutto
un fine stimato, chi lo fa ha già guadagnato qualcosa, ma non credere
che sia valore, è solo un mezzo.
EST. TAVOLO DI UN BAR, GIORNALE – POMERIGGIO
LEGGE:
: - Lo vedi che è tutto omologato, la parola, il concetto, il senso
unico. La narrazione contemporanea plagiata dal consenso generale.
E il rendiconto? E la politica? La politica non è sociale, è umorale,
è direzionale, è a profitto del singolo. Gli affari esteri, le guerre,
la sanità, le istituzioni, la violenza di genere, il femminicidio, il
razzismo, il patriarcato, le discriminazioni, l’ambiente, il salario
minimo, gli attivisti.”
Silenzio. È tutto lontano.
: - Tanto non cambia nulla.”
INTERNO PETTO
INT. CASA. SALA. SEDUTA SU UNA POLTRONA – SERA
PENSO:
Cercavo un mondo timido e ho trovato un pozzo. Avevo appuntato la
mediocrità in cima ai mali capitali.
Quando si è aridi, e senza sangue, non esistono pulsioni, non si
conosce la coscienza del sapere insieme e l’etica è ormai un fantasma
che si è perso nel buio.
Di giorni vorrei parlare, eppure sono muta e senza nascita.
58/FOTOGRAMMI
Non rispetto più la letteratura delle religioni, preferisco il canto
e l’incertezza.
Rifiuto la politica dei se e gli uomini che non conoscono opinioni,
l’inchiodo nell‘oblio dei dimenticati.
Perché è necessario il peso del valore. E non mi stanco mai di essere
contro.
Ho fame di un nuovo umanesimo.
E poi, se mi chiedi che ho fatto in tutti questi anni, ho attraversato
persone.
Le ho abitate.
Sono stata una tana, Il rifugio di chi ricerca bellezza.
E ho camminato.
Ho camminato tanto.
INT. SALA. STESA SUL DIVANO – SERA
DICO:
: - Non ho più scritto lettere d’amore. Nessun verso a santificare i
sentimenti. Ho creduto che viverli fosse più importante delle parole.
Ma solo un corpo nudo è verità. Poesia è sapersi spogliare dalle
bruttezze che ci aggrediscono. Le illusioni sono un carcere per la
stupidità. Non ho paura della mia caduta, e se ci fosse la possibilità
di rivivere anche il giorno peggiore, lo rivivrei, senza esitazioni.
Sono scesa a patti con la mia esistenza.
È cessata la guerra, finiti i fuochi.
Quando si decide di abbandonare un ricordo, la vita torna a sedersi
accanto.
INT. CAMERA DA LETTO. DISTESA – NOTTE
: - Una volta mi hanno detto pensa alla fecondità come un
melograno, una bacca come una vulva, ai numeri di semi per procreare,
ai numeri degli amplessi che ti faranno godere.
Giochiamo a fare i figli con le parole?
Io l’ho guardato e poi gli ho detto: lo sai che questo a Foggia è un
dolce per i morti?
Io invece ho pensato al rosso rubino rosso e a tutto quel sangue che
mi porto appresso da più della metà della mia vita come l’unico
matrimonio possibile.
Io ho pensato al rosso bordò granata al melograno come la bomba a
mano, ovaie proiettili per guerre.
E gli ho detto: - Lo sai che questo è il frutto della Turchia, Iran,
Palestina, Africa, Pakistan, Arabia, Messico, che succhi semi di terra
e di rabbia.
Tu che vedi l’utero come il Quirinale, io ci butterei una sassata di
melograni sul Quirinale.
E poi lo diceva PierPaolo: “La Rivoluzione non è che un sentimento”.
I figli che non avrò mi ringraziano ogni giorno, l’avrei sfiniti
d’amore.
E certo che non me ne sarebbe fregato niente del dolore, ma tu che
ne puoi sapere del dolore?
Nemmeno io, ma la differenza tra noi due è che io lo posso intuire.”
59/FOTOGRAMMI
LA PIÙ
GIOCONDA
VEDUTA
DEL MONDO.
VENEZIA
DA UNA
FINESTRA
Nicola Guida
Quando la vita ti porta dall’essere letteralmente un
figlio di puttana al venir definito dall’Ariosto “il
flagello dei principi”, il più sferzante e apprezzato
letterato della tua epoca, quando la maggior parte
del tempo l’hai trascorsa tra papi e re, qual è il
posto giusto dove fermarsi a trascorrere con tranquillità
gli anni rimasti?
L’isola tropicale con il tramonto che si scioglie
nel mare come il ghiaccio nel mojito, mentre
lo sciabordio delle onde a riva ti accarezza i piedi,
non era ancora di moda nell’Italia del Cinquecento: l’America del Sud era
appena stata scoperta e anche il rum non era poi così diffuso.
Venezia, invece, già faceva tendenza: opulenta, colta, adagiata mollemente
nella sua laguna a cavallo tra oriente e occidente, la meta perfetta
per un animo inquieto come quello di Pietro Aretino, che già nel 1527 la
definiva anticortigiana e sede di ogni vizio possibile, quindi degno approdo
del suo peregrinare.
E la casa in cui si stabilì con la sua corte di donne e amici sta sul Canal
Grande, fra Rio di San Grisostomo e Rio dei Santi Apostoli: dalle finestre si
vede il ponte di Rialto, non quello bianco cangiante che vediamo oggi, costruito
tra il 1588 e il 1592, bensì quello in legno che possiamo osservare
nel celebre dipinto di Vittore Carpaccio che si trova alle Gallerie dell’Accademia.
Pietro Aretino quando si affaccia alla finestra scorge “mille persone e
altrettante gondole su l’hora dei mercati. Le piazze del mio occhio dritto sono
le beccarie e la pescaria, e il campo del mancino, il ponte e il fondaco dei
Tedeschi, a l’incontro di tutti e due ho il Rialto, calcato d’huomini da faccende.
Sonvi le vigne ne i burchi, le caccie e l’uccellagioni nelle botteghe, gli
orti nello spazzo, né mi curo di veder rivi, che irrighino prati, quando a l’alba
miro l’acqua coperta d’ogni ragion di cosa, che si trova nelle sue stagioni.”
In questa casa bella e luminosa, da veneziano d’adozione, l’Aretino
trascorse gli anni che lo separavano da quell’ultima, grassa risata per una
barzelletta sconcia su sua sorella, risata che gli costò la vita.
Uno sguardo a quella medesima finestra, qualche secolo dopo, è un
altro veneziano d’adozione a darlo.
61/OMBRE
Uno che non ha mai amato la definizione di artista a differenza di tanti
altri colleghi che si comportano da star, bensì, molto più umilmente, un
testimone del proprio tempo, qualcuno capace di documentare e comunicare
realmente attraverso i propri scatti: Gianni Berengo Gardin.
Berengo Gardin è nato a Santa Margherita Ligure nel pieno ventennio
fascista, un’infanzia trascorsa a Roma, poi Venezia, Parigi, e infine Milano,
perennemente in viaggio per via del lavoro dei genitori.
Intorno agli anni Cinquanta, nella sua vita veneziana, iniziò ad appassionarsi
di fotografia e si iscrisse ad un circolo fotografico come un qualsiasi
fotoamatore.
Come per moltissimi altri maestri, oltre a una volontà incrollabile di
fotografare, e a un apprendistato lunghissimo fatto di centinaia di scatti ed
errori, anche per Berengo Gardin a trasformare il fotoamatore in fotografo è
stato un caso, il classico colpo di fortuna: l’intervento di uno zio americano,
molto amico di Cornell Capa, il fratello di Robert, che al tempo ricopriva il
prestigioso ruolo di direttore del Centro di fotografia di New York. Lo zio
chiese al suo amico un consiglio sui libri da spedire in Italia a quel nipote
tanto appassionato di fotografia, e Capa gli suggerì i cataloghi di Life, quelli
editi dalla Farm Security Administration, i libri di Dorothea Lange, e quelli
di Capa.
Per il giovane Berengo Gardin fu una rivelazione, una vera e propria
epifania: esisteva un genere di fotografia diverso, non meramente artistico,
il reportage, e a quest’ultimo si accostò cambiando radicalmente il proprio
modo di fotografare, seguendo le orme dei grandi reporter dell’agenzia Magnum,
fondata da Cartier Bresson, ai quali più volte è stato accostato per la
sua capacità di mantenersi quasi invisibile mentre scatta le sue immagini.
E mentre ancora abitava a Venezia aveva già preparato il suo primo
libro sull’amata città.
Fu un amico, il direttore della rivista Camera, che aveva pubblicato le
sue prime fotografie, durante una passeggiata serale al Lido qualche anno
dopo a domandargli perché non avesse provato ancora a fare il grande passo,
tentare di diventare un fotografo professionista.
Ma come si fa, con due figli, e un lavoro sicuro, a mollare tutto e inseguire
un sogno?
Furono le insistenze dell’amico a convincerlo: del resto lui conosceva
i più grandi fotografi del mondo, quindi, perché no?
Si trasferì a Milano, facendo la spola con Venezia solo nei fine settimana,
per fotografare, fotografare, fotografare qualunque cosa gli capitasse
a tiro per guadagnare un po’ di soldi e affermarsi: i matrimoni, le trattorie, i
servizi sui bambini belli delle spiagge italiane, perché non basta solo il
colpo di fortuna, ci vuole cultura, metodo e tenacia.
Dopo aver incanalato il suo lavoro nella direzione della fotografia industriale,
collaborando per grandissimi gruppi come Olivetti, Fiat, Ibm, nel
1962 pubblicò i primi scatti sul settimanale il Mondo, e non smise più di
fotografare, costruendo un archivio fotografico monumentale, più di due milioni
di opere, rigorosamente in pellicola bianco e nero (“la pellicola è il mio
dio” dice ancora adesso), per documentare l’evoluzione della società e del
paesaggio italiano dal dopoguerra ad oggi, con quel suo modo di scattare
unico, che non posa lo sguardo su un singolo soggetto ma è capace di ritrarre
molteplici protagonisti, come a voler veramente ritrarre il momento e non
il singolo volto.
Anche le immagini prodotte per l’industria e per l’architettura (un
esempio tra tutti i cantieri delle costruzioni di Renzo Piano) ritraevano, più
che l’oggetto o gli edifici, l’uomo al lavoro, il processo costruttivo.
“Quel Berengo Gardin, che fa foto nere e fotografa la gente!” lo apostrofò
Cavalli, quando Mario Giacomelli lo volle nel gruppo fotografico La
Bussola di Milano.
Quel Berengo Gardin che è diventato il più grande del dopoguerra, che
è riuscito a non farsi condizionare dalle mode, ed è rimasto fedele alla limpidezza
dello sguardo, utilizzando la sua Leica come uno scrittore avrebbe
utilizzato una penna, per raccontare il mondo, coi suoi marciapiedi, le stazioni
coi treni in partenza, i baci rubati, come quello dello scatto famosissimo
sotto i portici Veneziani, che documenta un’Italia dove – era il 1950 – era
proibito baciarsi per strada.
Ad oggi Berengo Gardin ha pubblicato un corpus di circa duecentosettanta
libri.
Il primo, quello dedicato alla sua Venezia, Venise des Saisons, venne
rifiutato da otto editori italiani per la totale mancanza di appeal turistico. E
mentre stava per rinunciare, Bruno Zevi gli organizzò una mostra all’istituto
di architettura di Londra, dove per caso passò un editore Svizzero della
Guilde du Livre di Losanna (all’epoca la più importante casa editrice europea
per la fotografia) che, innamorato degli scatti, in meno di un mese si occupò
di pubblicare il libro.
Alla sua Venezia fece ritorno varie volte, per documentare l’evoluzione
della città, e denunciare l’impatto delle grandi navi sul fragile equilibrio
della laguna, su invito di un amico che gli raccontò che nella sua residenza
all’ultimo piano di Palazzo Erizzo Bolani sul Canal Grande aveva abitato
nella prima metà del Cinquecento Pietro Aretino.
E alla finestra dell’Aretino si è affacciato per catturare, con il suo
sguardo unico, lo stesso scenario raccontato dal poeta.
“Sono solo un testimone di quello che vedo. Cerco di essere il più
obiettivo possibile, fotografando la realtà. Per me l’importanza della fotografia
è la documentazione, la testimonianza, come eravamo in quel momento.”
La vita quotidiana, il traffico dovuto al commercio, i trasporti e le orde
di turisti... Cosa era rimasto immutato? E cosa era cambiato rispetto al racconto
dell’Aretino?
Probabilmente nulla, tutto diverso ma tutto uguale, come in un gioco
di specchi la città si mostra sempre uguale, nonostante i cinquecento anni
di distanza tra scrittore e fotografo, unica nella sua magia, e a ben guardare
le immagini di quella stanza, con il ponte di Rialto fuori dalle finestre spalancate,
sembra quasi di udire il suono della risata dell’Aretino mentre osserva
rapito “la più gioconda veduta del mondo.”
63/OMBRE
Nel 1977 avevo tre anni e nemmeno
mi ricordo com’era il mio piccolo
mondo di bambino.
Quello che è sicuro, è che di macchine
fotografiche non ce n’erano, nella
mia famiglia: le fotografie erano rare,
solitamente scattate durante
le ricorrenze, e con ricorrenze intendo
al massimo i matrimoni, quei grossi
grassi matrimoni del sud, con
cinquecento invitati e i parenti
acchittati a festa.
La vita di tutti i giorni non meritava
di essere ricordata, o più
probabilmente, era talmente ovvia
a mano, che mi terrorizzava.
La mia cesta dei giocattoli vicino
al letto con il piumone e la coperta
pesantissima.
La piccola cucina di casa con la radio
sempre accesa, bianca, con l’orologio
dai grossi numeri che facevano un
rumore secco ogni volta che
cambiavano.
Dettagli, appunti di un mondo
passato.
Nel 1977 Gianni Berengo Gardin
aveva già pubblicato decine di libri,
il suo stile era già definito e
splendido, ed è in quell’anno che ha
Dentro
le case,
dentro
i ricordi
Nicola Guida
e normale agli occhi dei “grandi”
da non meritare di sprecare i soldi
di uno scatto per ritrarla.
E quindi, per ricordarmi com’era,
mi rimane solo il ricordo, che
sbiadisce ogni giorno di più, e non mi
lascia racconti, ma appunti che, alla
soglia del mio quarantanovesimo
compleanno, occorre interpretare,
mettere insieme, per poter ricostruire
immagini più grandi di quello che era:
la scala di legno della casa dei
nonni che cigolava ad ogni passo;
la bambola con la faccia di
porcellana e i capelli nerissimi
che sembravano veri, e gli occhi vuoti
come quelli degli animali impagliati,
appoggiata sulla coperta ricamata
64/OMBRE/note
composto per Electa un volume che
ritengo essere tra i più importanti
(come se, in un’opera così
monumentale, si possa dare più o
meno importanza a un libro piuttosto
che a un altro, ma quantomeno tra
i più importanti per me): Dentro
le case, edito con l’amico fotografo
Luciano d’Alessandro, un reportage
sulle case degli italiani, dalle
modeste dei poveri contadini a
quelle sfarzose dei nobili romani.
Sfogliando questo libro non posso che
ammirare la delicatezza che hanno
avuto i due fotografi nell'entrare
nell'intimità della gente, nel ritrarla,
utilizzando gli ambienti come
una quinta per mostrarci in maniera
incisiva la persona che vi abitava.
Ed è sfogliandolo, guardando quelle
case, che mi tornano alla mente
anche dettagli e particolari di quello
che era il mio piccolo mondo, e mi
trovo ad esclamare “Oddio, questo
me lo ricordo!”
E non posso che ringraziare, tra me
e me, Gardin e d’Alessando per aver
documentato e salvato, nella memoria
collettiva, questi ricordi, che in parte
sono anche la mia storia.
#album
66/ALBUM
INTIMITÀ IN PIENA
ESPOSIZIONE
Henry Ruggeri
Stare su un palco non è soltanto
o necessariamente fare un bagno
di folla.
Ci sono momenti totalmente esterni,
di dialogo con il pubblico, in cui
gli artisti sono sul boccascena e si
offrono, si mostrano senza riserve.
Ma ci sono anche momenti interni,
quando la musica prevale, quando
l’essere umano si racchiude,
trova il suo rifugio e la sua magia.
L’intimità in piena esposizione
che riesce a vedere Henry Ruggeri
raggiunge appunto quella magia,
coglie l’incanto di un attimo interiore,
così come sa catturare l’atmosfera
di un intero show o di un dietro
le quinte, raccontando tutto
nel dettaglio minimo di un lampo
che fugge via.
U2, Slane Castle, Irlanda 2001
67/ALBUM
Liam Gallagher, Padova 2017
68/ALBUM
Trivium Gods of Metal, Milano 2012
Florence And The Machine, Idays, Milano 2024
Depeche Mode, Bologna 2018
Depeche Mode, F1 Race, Abu Dhabi 2013
72/ALBUM
Incubus, Dieci Giorni Suonati, Vigevano 2012
HR È L’OMBRA OLTRE LA LUCE,
UN PICCOLO MIRACOLO.
C’È CHI CELEBRA IL RITO COLLETTIVO
DEL LIVE O L’INTIMITÀ ASSOLUTA
DEL RITRATTO, MA NESSUNO
HA MAI UNITO I DUE LATI.
HR ESTRAE L’ARTISTA DAL SUO
CONTESTO, LO CATTURA SUL PALCO
MA LO ISOLA DA TUTTO.
FA EMERGERE LA SUA
MERAVIGLIOSA SOLITUDINE,
PERCHÉ L’ARTISTA È SOLO ANCHE
DAVANTI A MIGLIAIA DI PERSONE.
HR FISSA QUEL MOMENTO IN CUI
IL RUMORE ASSORDANTE
E LA CONFUSIONE ACCECANTE
DIVENTANO SILENZIO E PACE,
MA SOLO PER L’ARTISTA E PER CHI
PARLA LA SUA STESSA LINGUA,
MENTRE IL PUBBLICO
SI IMMERGE FELICE NELL’ESTASI
DEL ROCK.
Massimo Cotto, introduzione alla mostra Enjoy the silence Henry Ruggeri
20 Ottobre - 30 Dicembre 2022, IIC Italian Cultural Institute Los Angeles
74/ALBUM
Billie Eilish, Milano Rocks 2019
Kasabian, Idays, Bologna 2011
76/ALBUM
Pearl Jam, Roma 2018
77/ALBUM
78/ALBUM
Editors, Bologna 2014
Radiohead, Bologna 2013
Soundgarden, Milano 2012
Inhaler, Rock En Seine, Parigi 2023
Blur, Rock in Roma 2013
82/ALBUM
Idles, Rock En Seine, Parigi 2023
83/ALBUM
Slash, Milano 2010
Linkin Park, Milano 2014
Marilyn Manson, Firenze 2007
84/ALBUM
Nothing But Thieves, Idays, Milano 2023
Brian May, Sogliano 2013
Bruce Springsteen, Milano 2016
Epica Rock in Roma 2016
Sziget Festival, Budapest 2017
Firenze Rocks 2017
Arctic Monkeys, Milano 2013
89/ALBUM
Bruce Springsteen, Milano 2016
Foo Fighters, Rockin’ 1000, Cesena 2015
91/ALBUM
Motorhead, Piazzola Live Festival, Padova 2009
HENRY RUGGERI
Ha iniziato a “ritrarre la musica”
nel 1988 spacciandosi fotografo
professionista per conoscere
i suoi idoli: i Ramones.
Da quel giorno non ha più smesso.
Oggi è il fotografo ufficiale di
Virgin Radio e uno dei più seguiti
fotografi “live” della scena musicale
italiana (oltre 160.000 followers
nei suoi profili social).
Tra i gruppi fotografati troviamo
Pearl Jam, Foo Fighters, Rolling
Stones, Madonna, Guns n’Roses,
Muse, Ac/Dc, Ramones, REM, Kiss,
U2 e mille altri.
Dal 2014 sta portando in giro
per l’Italia una raccolta di foto e
memorabilia che raccontano la sua
carriera trentennale passata nei
pit degli eventi rock più importanti
avvenuti nel nostro paese.
Ad oggi le mostre fatte sono oltre
50 con esibizioni in città come Napoli,
Palermo, Roma, Cosenza, Treviso,
Milano, Bassano Del Grappa, Taranto,
Londra e Los Angeles.
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www.instagram.com/henryruggeri/
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93/ALBUM
CONDOMINI
LETTERARI
Chiara Riva
Photo by Pixabay
Condomìni letterari e altre dimore
Nel saggio del 1957 La poetica dello spazio il filosofo
francese Gaston Blanchard analizza il concetto
di spazio in letteratura e poesia, soffermandosi
sul ruolo della casa nei testi letterari e sul
suo valore simbolico e psicologico.
La casa, soprattutto se intesa nell’accezione
di “casa natale”, è il primo ambiente che ospita l’essere
umano uscito dal grembo materno accogliendolo
nell’abbraccio protettivo della culla, e per questo
ha un valore di riparo, di baluardo contro l’universo esterno e le sue
minacce e incertezze, ed è simbolo di intimità. Tra le sue mura, dice Blanchard,
“la vita comincia bene, incomincia racchiusa, protetta, al calduccio nel grembo
della casa”. Si può dire che essa rappresenti un’estensione dell’intimità dell’individuo,
abitata dai suoi ricordi, dai suoi sogni, dalle sue proiezioni psichiche.
Dovendo pensare a un esempio letterario di casa che incarna perfettamente
queste caratteristiche mi viene in mente Home’s Place (omen nomen!),
la residenza di campagna della saga dei Cazalet di Elizabeth Jane
Howard; destinata dal primo libro della serie a ospitare per le vacanze estive
tutti i componenti della numerosa famiglia – figli e nuore fino ai nipoti più
piccoli del patriarca Generale e della moglie Duchessa – di lì a breve, con
l’avvento della Seconda guerra mondiale, si trasforma in vero e proprio rifugio
per tutti loro. Il grande edificio vittoriano, descritto con dovizia di particolari
in tutte le sue numerose stanze, dalle camere da letto alla cucina alle
stanze della servitù, non concede nulla al lusso in consonanza con la spartana
educazione dei suoi proprietari, ma nello stesso tempo è capace di
accogliere i suoi ospiti infondendo nella loro quotidianità il calore domestico
delle sue solide mura protettive.
Ma Blanchard, pur concependo la casa come un luogo poetico dal
valore positivo, precisa anche che l’immaginazione “si conforta con illusioni
di protezione”, o “inversamente trema dietro muri spessi”. È evidente che
nella narrativa contemporanea non sempre, anzi, sempre meno le mura domestiche
costituiscono un semplice riparo, rappresentando piuttosto una
metafora del carattere, del passato dei suoi inquilini, un loro corrispettivo
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Photo by Pixabay
topologico. E tra le sue pareti a volte si celano misteri, ombre, ambiguità,
sentimenti repressi o un oscuro passato rimosso.
Un fine romanziere come Henry James, tra i precursori della narrazione
psicologica, ambienta il suo romanzo breve Il giro di vite (1898) in una
grande dimora di campagna; il luogo non è descritto con la precisione di una
cartolina ma piuttosto come uno schizzo evanescente, come evanescenti
sono le misteriose presenze di due servitori morti che appaiono alla protagonista,
una giovane assunta come istitutrice di due piccoli orfani da un
misterioso gentiluomo. La storia viaggia sul doppio binario del rapporto tra
realtà e paranormale, nella psiche e nei turbamenti di una donna. Come
l’ambiguità è la sua cifra stilistica, così essa è resa nelle sequenze descrittive
degli ambienti interni pieni di scale e torri isolate, finestre aperte e
lunghi corridoi apparentemente vuoti, specchi che riflettono – o forse no – in
una dialettica tra interni ed esterni che ha molto dell’illusorio.
Tutto un corredo già utilizzato, in modo ancora più enfatico, dal maestro
del genere gotico, Edgar Allan Poe: pensiamo al racconto La caduta della casa
degli Usher (1839), in cui tra la casa e il suo proprietario c’è un evidente rapporto
di identificazione. L’antica dimora ha finestre “come vuote orbite”, fredde
mura, gela il cuore e comunica oppressione e malessere; la sua sola apparizione
in apertura della narrazione prelude alla misteriosa e acuta malattia
da cui è affetto Roderick Usher, compagno d’infanzia della voce narrante e
ultimo esponente della famiglia a cui, da generazioni, appartiene la casa.
Un salto avanti nel tempo, e troviamo L’incubo di Hill House di Shirley
Jackson (1959), un’altra casa infestata – sulla scia di Poe erano stati gettati
i semi per il genere gotico-psicologico – che diventerà un topos letterario
nella narrativa horror. Di Hill House ci viene detto in incipit del romanzo che
“sana non era”, che in essa “il silenzio si stendeva uniforme contro il legno
e la pietra” e “qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva da sola”.
Dimora “non adatta agli uomini, né all’amore, né alla speranza”, si lega a
doppio filo al destino di una delle protagoniste, l’infelice Eleanor.
In altri romanzi, di genere diverso, altre case ancora, spesso ispirate a
location reali, sono diventate talmente iconiche e rappresentative di un’epoca
e di un personaggio da essere assurte a vere e proprie mete di turismo letterario.
Si scrive West Egg, si legge Il Grande Gatsby: Francis Scott Fitzgerald
si ispirò alla Goald Cost di Long Island per ambientare in questo quartiere
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“inventato” abitato dai ricchi di nuova generazione la sua storia di un uomo
fattosi dal nulla, misterioso ed eccentrico nella sua grandeur. Il colossale
palazzo di Jay Gatsby è un’accozzaglia pretenziosa di stili diversi, pieno di
terrazze e pavimenti luccicanti come le promesse illusorie del sogno d’amore
del protagonista. Contro questa illusione del sogno americano si infrangerà
la sua vita.
L'orfana Jane Eyre, protagonista dell’omonimo romanzo di Charlotte
Brontë del 1847, arriva alla grande casa dove è stata chiamata a prestare
servizio come istitutrice da Mr Rochester, la nobile dimora di Thornfield Hall:
al suo arrivo i salotti, la biblioteca, la camera da letto sembrano accoglierla
con la promessa di una vita nuova, di felicità e indipendenza, ma tra le stanze
una, la celeberrima mansarda dove è rinchiusa la moglie pazza del padrone
di casa, descritta con pochi asciutti ma indimenticabili tratti, rivela da
dietro la tenda che la nasconde il doloroso segreto che Mr Rochester ha
tenuto celato in fondo al suo animo.
E si potrebbe continuare con altri esempi, in quest’elenco che non
vuole certo essere esaustivo, ma semplicemente evidenziare come nel tempo
e in linea con il variare delle tendenze e delle correnti letterarie anche le
descrizioni degli ambienti acquistino un nuovo valore, un nuovo peso.
In alcuni romanzi d’epoca contemporanea la rappresentazione degli interni
è ancora diversa, con toni se possibile ancora più estremi e disturbanti.
Un paio di esempi soltanto.
Il primo, le stanze della casa del Racconto dell’ancella di Margaret
Atwood (1985): nel suo romanzo la protagonista Offred vive in un futuro distopico
in cui il regime totalitario e teocratico di Gilead ha asservito le poche
donne ancora in grado di procreare – tra cui la stessa Offred – al ruolo di
Ancelle, con la sola funzione sociale di dare una discendenza alle famiglie
non fertili che detengono il potere. Nel romanzo, l’autrice si sofferma spesso
a descrivere la casa in cui la protagonista è prigioniera e intervalla queste
sequenze con le riflessioni in prima persona della protagonista. Nella struttura
classica da tipica casa padronale costruita “per una famiglia ricca e
numerosa” (pavimento di legno ben lucidato, motivi ornamentali, quadri,
stucchi, sinuose scale con corrimani, cucine ordinate e dispense ben fornite),
si infiltrano particolari che inquietano il lettore: nel muro, “un buco riempito
di calce, come la cicatrice di un viso cui sia stato tolto un occhio”, per eliminare
“ogni cosa cui si possa legare una corda” (per impiccarsi, evidente
sottinteso). O ancora, durante un’esplorazione della sua stanza, nei frequenti
momenti in cui è lasciata sola a se stessa, Offred scopre delle macchie sul
materasso e una misteriosa frase incisa nell’armadio, testimonianze di vite
preesistenti, di una quotidianità normale in cui era possibile amare, toccarsi,
parlarsi, un passato cancellato dalla follia del nuovo regime.
In Cecità del premio Nobel José Saramago (1995), un’epidemia di cecità
bianca colpisce un’imprecisata città con l’unica eccezione di una donna
che rimarrà a fianco del marito fingendosi cieca e assistendo alla degenerazione
sociale che questa emergenza provoca. I ciechi, non più autosufficienti,
vengono ammassati in quarantena e poi lasciati a sé stessi in un
vecchio manicomio. Saramago ci conduce attraverso questi ambienti dando-
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Photo by Pixabay
ci la sensazione di percorrerli a tentoni, senza orientamento, in parallelo con
la gestualità che la protagonista mima per avvalorare la sua “recita”; l’abbrutimento
delle relazioni tra gli internati si oggettivizza nei pavimenti sporchi
di escrementi, nei corridoi inagibili e nel lessico militar-ospedaliero che
trasforma le camere da letto in camerate, i letti in brande, i corridoi in corsie.
In sostanza, possiamo dire che l’ambientazione di questo romanzo più
che gli attributi di un luogo possiede quelli di nonluogo secondo la definizione
che il filosofo Marc Augé coniò negli anni Novanta: uno spazio che non
è “identitario, relazionale e storico”, ma crea omologazione e solitudine, e
per questo si contrappone al concetto di “luogo antropologico”.
Parlando finora di dimore, case, antichi manieri, abbiamo trascurato la forma
di abitazione che dall’Ottocento, con il fenomeno dell’inurbamento e i progressi
della rivoluzione industriale che richiedevano nuove soluzioni per i
centri a maggiore densità abitativa, ha colonizzato praticamente ovunque il
tessuto urbano: il condominio.
Nel suo saggio Blanchard, prendendo in prestito parole di Baudelaire,
afferma che in un palazzo dove gli abitanti vivono in “scatole sovrapposte”,
non possono esserci “angoli per l’intimità”.
Forse queste caratteristiche unite alla parcellizzazione dei suoi spazi
interni, al suo essere insieme luogo e nonluogo in quanto comprensivo di
spazi comuni in cui le persone si trasformano in anonimi “condòmini”, lo
hanno reso un soggetto utilizzato più volte da scrittori postmoderni.
Prenderemo in considerazione tre casi esemplari nella letteratura –
naturalmente, non gli unici –, degli anni Settanta, che declinano questo
concetto topologico in modi differenti ma testimoniano tutti la complessità
della vita umana nell’epoca contemporanea e la sua irriducibilità a schemi
e definizioni univoche.
La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec: il condominio
come puzzle metaletterario
Questo romanzo dello scrittore francese Georges Perec del 1978 è un po’ un
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unicum nel panorama letterario contemporaneo. Il condominio di Parigi in
rue Simon-Crubellier è insieme ambientazione e protagonista di questo romanzo
dalla trama complessissima praticamente impossibile da riassumere.
Innumerevoli storie vi si svolgono al suo interno, relative ai suoi abitanti ma
anche, per esempio, agli oggetti contenuti nelle sue stanze, ai personaggi
dei quadri appesi alle pareti, con rimandi dall’una all’altra: il loro numero
elevatissimo, il gusto per l’accumulo di particolari e descrizioni, lo stile enciclopedico
da “opera mondo” danno l’impressione che questo palazzo partorisca
da ogni stanza un magma inarrestabile di storie, ed è difficilissimo
capire che in realtà sotto di esso si cela una struttura molto precisa, ispirata
alle regole dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), un gruppo
intellettuale di letterati e matematici (di cui faceva parte anche Italo Calvino,
grande estimatore di Perec), fondato a Parigi nel 1960 e volto a cercare
nuovi schemi per la costruzione di storie, che non fossero quelli tradizionali.
Lo scrittore, cioè, nella stesura delle proprie opere doveva rispettare dei
contraintes, cioè dei vincoli, dei paletti, che potevano essere matematici
come linguistici.
Nel caso di La vita istruzioni per l’uso è la composizione del condominio
stesso a rappresentare lo schema nascosto del romanzo: si ispira al
modello matematico del biquadrato greco-latino, costituito da 100 stanze,
disposte su 10 piani, in cui ogni capitolo è incentrato su una stanza. Tra gli
altri “paletti” vi sono degli elenchi (21 coppie di liste di 10 elementi ciascuna,
dalla mobilia alle citazioni di scrittori), sui quali Perec imbastisce la
narrazione. E in questo romanzo dall’ipertrofia descrittiva e dalla bulimia
narrativa è difficile toccare il fondo, l’assunto di base. Ma c’è, tra queste
storie, una che rappresenta un po’ la chiave per capire il tutto, ovvero quella
che riguarda la vita del ricchissimo Bartlebooth, che organizza tutta la sua
esistenza intorno a un unico progetto così riassumibile: l’apprendimento della
tecnica pittorica dell’acquerello, quindi la pittura dal vivo di soggetti di
marine in giro per il mondo, a seguire la loro trasformazione in puzzle,
che poi, una volta ricomposti, sarebbero stati distrutti, ritornando con un
procedimento particolare a ottenere il bianco foglio di partenza. Ironia della
sorte, questo piano perfettamente congegnato fallisce dal momento che,
poco prima di morire, Barthlebooth non riesce a ricomporre l’ultimo pezzo
dell’ultimo puzzle a causa di un errore per cui invece di avere forma di X ha
la forma di una W.
E così, il suo obiettivo di “portare fino in fondo un programma, intero,
intatto, irriducibile”, di mettere ordine nel caos dell’esistenza si infrange “di
fronte all’inestricabile incoerenza del mondo”. Parafrasando si potrebbe aggiungere,
di fronte a una vita per la quale non esistono istruzioni per l’uso.
Le vite che si intrecciano nei singoli appartamenti, le storie che ogni
stanza racconta attraverso i suoi oggetti, la sua mobilia, i suoi quadri e ninnoli,
sono anch’essi tasselli di un puzzle che alla fine sarà impossibile da
ricomporre. Come nell’arte del puzzle di cui l’autore parla nel preambolo al
romanzo, anche Perec ha cercato meticolosamente con la scrittura di “trattenere
qualcosa, far sopravvivere qualcosa”, nella consapevolezza della
problematicità dello spazio, della sua inafferrabilità.
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© Chiara Riva
Gli inquilini di Bernard Malamud: il condominio metafora
Quasi un rudere in una zona imprecisata di New York, il condominio in cui è
ambientata la storia degli Inquilini dello scrittore statunitense di origini
ebraiche Bernard Malamud (1971) è un edificio che il suo legittimo proprietario
avrebbe già demolito da tempo se non fosse per un ultimo inquilino, lo
scrittore ebreo Harry Lesser, che è pervicacemente rinchiuso nel suo appartamento
e si rifiuta di andarsene con la motivazione che lì e soltanto lì potrà
terminare il suo romanzo.
Nel ventre svuotato dell’edificio, ormai lasciato a se stesso tranne che
per l’unico appartamento occupato, tra il riscaldamento che si inceppa, androni
sudici, l’ascensore “ormai spirato” per l’assenza di manutenzione, le scale
che puzzano perché nessuno più le pulisce, lampadine “che muoiono come
mosche”, pareti grigie rattoppate con l’intonaco e piene di buchi da cui si vede
la struttura del palazzo – e potremmo andare avanti con l’elenco –, qui, seduto
alla sua scrivania, Lesser cerca disperatamente una conclusione al romanzo
che dovrebbe riscattarlo, il romanzo della vita, il capolavoro. C’è vicino,
molto vicino, a parte i momenti di distrazione causati dalle proteste del proprietario
Levenspiel che pietisce periodicamente il suo sgombero, arrivando
anche a offrirgli una compensazione economica. Ma lui non demorde. Tutta la
sua mente, tutto il suo Io di scrittore è concentrato e assorto sull’unico Obiettivo
della Scrittura. Senonché, proprio nel condominio di cui si credeva ormai
l’unico abitante, un giorno trova la sua nemesi: scopre che un altro scrittore ha
occupato abusivamente un appartamento per poter lavorare in pace: si chiama
Willie Spearmint ed è molto diverso da lui. È uno scrittore di colore, orgogliosamente
nero e che rivendica la missione e l’identità della sua “scrittura nera”
e arrabbiata contro il sistema culturale, sociale e politico dominato dai “bianchi”.
Nel momento in cui Willie chiede a Lesser un parere sui suoi racconti, si
instaura tra i due un rapporto sempre più intenso di competizione e ammirazione
allo stesso tempo che si spinge oltre le pagine che escono dalle loro macchine
da scrivere, per coinvolgere nella vita che sta al di fuori anche la donna
di Willie, Irene, che si innamorerà di Lesser e cercherà di sottrarlo a una missione
che sta consumando la sua vita degenerando in alienazione e paranoia.
In questa riflessione sul mestiere dello scrittore, che evidentemente
ha molto di autobiografico, e sulla scrittura come espressione di identità
politica (Lesser e Willie sono entrambi, anche se diversamente, rappresentanti
di due minoranze), il condominio si rivela metafora di un mondo in rovina,
desolato, capace animarsi e intrappolare ma che al contempo, in una
sorta di cupio dissolvi, lo scrittore non riesce ad abbandonare. “È come se il
palazzo fosse diventato più grande, avesse fatto lievitare un paio di inutili
piani, avesse creato altre stanze vuote. Il vento, una musica marina triste e
soprannaturale, abita in quelle stanze, muovendosi tra le pareti come tra gli
alberi di un bosco. […] Ha paura ad uscire dalla sua stanza, anche se ne ha
la nausea, perché teme di non poterci ritornare.”
Il condominio di J.G. Ballard: il condominio distopico
Il condominio (1975), interamente ambientato in un grattacielo, è un’opera
distopica e disturbante nel suo prefigurare la mutazione di una società as-
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© Chiara Riva
servita alla ricchezza, ai media e alla tecnologia. Il suo autore J.G. Ballard
è stato esponente di spicco della letteratura cyberpunk e new wave inglese,
quelle correnti che traghettarono la fantascienza da genere d’intrattenimento
a letteratura tout court, dai viaggi nel tempo e nello spazio ai viaggi
nell’inner space, lo spazio profondo e oscuro della psiche umana: tra i suoi
temi cardine vi è l’influenza che l’avvento della postmodernità ha sulla psicologia
dell’individuo e sulla società in conseguenza all’aumento spropositato
delle invenzioni tecnologiche e all’esplosione dei media.
102/PAGINE
L’esperienza d’internamento in un campo di prigionia giapponese insieme
ai genitori durante la Seconda guerra mondiale, che lo portò a scrivere
L’impero del sole da cui l’omonimo film di Steven Spielberg ha sicuramente
influito sull’atmosfera claustrofobica del grattacielo entro cui si svolge
tutta l’azione del Condominio. L’edificio protagonista della storia – e si può
proprio definirlo così – è parte di un nuovissimo complesso residenziale di
lusso, poco distante dalla City di Londra, costruito per soddisfare tutte le
esigenze dei suoi benestanti inquilini, con supermercato, palestra, piscina e
asilo interni. A tutti gli effetti una sorta di minicittà autosufficiente.
Improvvisamente, e senza alcuna motivazione specifica, si verifica nel
grattacielo una serie di incidenti dapprima di scarso rilievo (bottiglie che
vengono lanciate dalle finestre), poi sempre più frequenti, invasivi (blackout)
e violenti (il ritrovamento del cadavere di un cane nell’acqua della piscina).
Così, in parallelo al loro intensificarsi, esplodono tra gli abitanti rivalità e
tensioni sommerse, mentre il grattacielo sembra sempre più animato da una
volontà propria e progettato apposta per liberare, tra feste notturne a base
di alcool e droghe, le loro pulsioni sessuali, gli istinti più violenti, razzisti e
autodistruttivi. Gli inquilini si dividono in organizzazioni di tipo tribale che
rispettano una rigida suddivisione gerarchica, replica deteriorata delle tre
classi sociali: dai piani più bassi a quelli più alti si assiste a una lotta con
tanto di barricate tra un proletariato di tecnici cinematografici, hostess, ecc.,
una borghesia di liberi professionisti e la classe dell’élite di imprenditori,
attrici e accademici trincerata negli ultimi irraggiungibili piani fino alla terrazza
panoramica.
Lo scrittore segue le vicende di tre personaggi rappresentativi di ciascuna
classe, il videomaker Richard Wilder, il medico Laing, e infine l’archistar
del grattacielo Anthony Royal: ognuno di loro vivrà una parabola diversa.
Wilder persegue con bestiale determinazione l’obiettivo della scalata al
grattacielo e risalendolo fino agli ambiti piani alti dove la violenza distruttrice
è massima, come in un inferno dantesco a rovescio, la sua personalità
diventa sempre più primitiva così come la sua comunicazione regredisce
dalla parola a suoni disarticolati e gutturali. Barricato all’ultimo piano l’architetto
Royal aspetta la sua inevitabile fine, orgoglioso e quasi ascetico
nella sua sahariana bianca e nella delirante convinzione di essere il creatore
nonché il re del gigantesco edificio. L’unico a sopravvivere (non si sa per
quanto) e ad adattarsi alla nuova vita nel grattacielo, i cui interni sono trasformati
nel finale in rovine post-apocalittiche e in cui si vive ai minimi termini
soddisfacendo solo i più elementari bisogni corporei, sarà il dottor Laing,
espressione della classe media. Sa che ormai non potrà più lasciare questo
luogo perché non può più farne a meno. Con l’asservimento dei suoi ultimi
abitanti al nuovo stile di vita imposto dal grattacielo, si è compiuta un’aberrante
rivoluzione: il mostruoso edificio ha ormai spazzato via il mondo circostante,
e Laing osserva con compiacimento l’inizio di un blackout nel palazzo
di fronte, preludio al diffondersi di un “nuovo modello di mondo in cui
sarebbero vissuti in futuro. […] Uno scenario post-tecnologico, dove ogni
cosa era in abbandono. O, più ambiguamente, rivista secondo modalità inaspettate
e più significative”.
103/PAGINE
Collage#1
Interni di un solo colore per
ogni solitario appartamento
di un grigio quartiere
chiamato Senza, ma che
finisce per chiamarsi Vita.
Ambienti e studi d'artista,
ognuno col suo odore
d'oli e cere, ognuno con la
sua luce peculiare, ognuno
con la sua aura magica.
Camere d'albergo,
viaggi e mondi portati
in transito dentro
una stanza numerata,
anonimati, scatole da
riempire e vuotare in loop.
La casa della zia. Quella
dove hai passato stralci
d'infanzia insignificanti
che, alla sua morte, diventa
un tintinnante risuonare di
ricordi vitali.
Gli interni olandesi di
Vermeer, il ritmo di quella
vita, di quella stanza alla
luce di quella finestra.
Tanti scatti veloci, tanti
viaggi, tanti luoghi: i tavoli
di caffè, gli altarini di
casa col gatto, libri, sedie,
nature morte di ogni tipo
lungo l'arco di un anno.
L'interno della metro, un
andare mesto che ognuno
vive a modo suo, così come
è soggettiva la percezione
di un attentato rimasto
nella storia.
L'interno dell'Hotel più
famoso di sempre, alloggio
imperituro di artisti ed
intellettuali, la sua lunga
storia, le sue stanze, le sue
leggende.
L'affascinante atmosfera
musicale di un film in cui
trama e ambienti sopra le
righe sono chiaramente,
poeticamente ispirati al
Chelsea Hotel.
1. Tutti i colori della vita, Chiara Gamberale
2. Lo studio dell'artista (vol. I e II), Elisabetta Orsini
3. Earth Hotel, Paolo Benvegnù
4. Agosto, Ottobre, Andrés Barba
5. La ragazza con l'orecchino di perla, Tracy Chevalier
6. A book of days, Patti Smith
7. Underground, racconto a più voci dell'attentato
alla metropolitana di Tokyo, Haruki Murakami
8. Chelsea Hotel, viaggio nel palazzo dei sogni, Sherill Tippins
9. The Million Dollar Hotel, Music from the motion picture
Collage#2
Di come progettare, costruire, arredare, abitare, rimpiangere, infestare, distruggere case.
1. La casa. Forme e ragioni dell’abitare, a cura di Luciano Semerani 2.
Arredare la casa con Ikea, Anoop Parikh 3. Tecno. L'eleganza discreta
della tecnica, Giampiero Bosoni 4. Memphis. Ricerche, esperienze,
risultati, fallimenti e successi del nuovo design, Barbara Radice 5. Case
in Giappone, Francesca Chiorino 6. Le schegge, Bret Easton Ellis 7. I
fantasmi della casa maledetta, John Dickson Carr 8. La casa delle
streghe, Howard Phillips Lovecraft 9. Fiorirà l'aspidistra, George Orwell
10. Quello che non c'è, Afterhours
Accademia 56, Ancona
© Francesco Paci
108/PALCHI
OLTRE LA SCENA
FISICA
VERSO UN TEATRO
AUMENTATO
Andrea Anconetani
109/PALCHI
Grotta Ricotti, Camerano
Ci sono momenti in cui un regista individua zone ancora inesplorate,
zone di sinergia che però si sondano dall’interno. Capita così di voler fare
del teatro che renda in qualche modo visibile l’invisibile, o almeno che lo
renda tangibile, percepibile. Si va a caccia di fantasmi, spazi oscuri e umbratili,
recessi circonvoluti della mente, abissi dove si può stare solo per
qualche istante prima di venire schiacciati dalla pressione esterna. Non c’è
luogo fuori dal teatro dove tutto questo possa essere sperimentato tanto
efficacemente, direttamente, nel corpo. Nel corpo degli attori e anche, se di
teatro ben fatto si tratta, in quello degli spettatori.
Per questa ragione un regista può lavorare su due piani apparentemente
distanti tra loro che invece, ogni tanto, si intersecano: ovvero da un
lato su figure del teatro antico opportunamente riscritte e ripensate (come
Antigone) e, dall’altro, sull’uso di tecnologie innovative che permettono di
modificare in maniera spesso radicale il rapporto tra attori e spettatori. Antichità
e contemporaneità insomma. Archetipi, contenuti inconsci che appartengono
in maniera originaria alla collettività degli umani e tecnologia
per espandere questi contenuti e portarli in superficie, alla conquista di
nuovi tipi di ambiente.
La tecnologia applicata alla scena teatrale ha una lunga storia, anche
se si immaginerebbe il contrario. Il teatro ne è sempre stato impregnato. Sin
dai tempi più antichi macchine sceniche molto articolate erano in funzione.
Nel teatro greco, per esempio, vi erano gru, argani, trabattelli, e degli specchi
– costruiti con scudi in legno ricoperti di mica riflettente – consentivano
di direzionare la luce naturale direttamente sulla scena che altrimenti
110/PALCHI
Grotta Ricotti, Camerano
sarebbe stata in ombra. La stessa maschera indossata dagli attori era in
fondo un amplificatore, un megafono dalla forma a imbuto, grazie al quale la
voce veniva proiettata più efficacemente. Nel Rinascimento poi gli scenografi
(tra cui Leonardo da Vinci) costruivano già elaborati sistemi meccanici
per stupire gli spettatori con sbalorditivi artifici. Più recentemente, nel XIX
secolo, venivano sperimentati effetti scenici particolarmente complessi, capaci
di generare illusioni ottiche impressionanti, ad esempio far apparire
fantasmi, figure ectoplasmatiche in scena attraverso sistemi di proiezioni
molto simili a quelli che oggi sono gli ologrammi. Insomma, il teatro si è
sempre servito delle tecnologie per aumentare la sua efficacia drammatica
e coinvolgere gli spettatori in qualcosa di indimenticabile.
È curioso, perciò, che permanga ancora oggi l’atteggiamento sospettoso
di un certo pubblico nei confronti dell’utilizzo a teatro di alcuni mezzi
come, ad esempio, quelli che permettono l’amplificazione della voce. La verità
è che l’immersione tecnologica è avvenuta nel teatro più nel campo del
visuale che dell’uditivo. Ovvero, nessuno si stupisce, né sente come qualcosa
di particolarmente strano l’uso, per dire, di elaborati criteri di illuminazione
della scena (proiettori, sagomatori, laser, led, ma anche, più recentemente,
videoproiezioni, gigantesche, immagini ad alta definizione) che
ovviamente erano sconosciuti a teatro solo un centinaio di anni fa, ma si fa
fatica a concepire che gli attori, grazie ai sistemi audio microfonici, possano
esprimere le proprie intenzioni in maniera più sottile, sfumata ed intima,
senza preoccuparsi di generare la pressione sonora necessaria all’ascolto
in grandi spazi.
111/PALCHI
La ricercatezza dell’immagine, complemento o estensione della scenografia
fisica, ha raggiunto un livello estremamente complesso e dettagliato.
Non così, spesso, la dimensione sonora che si limita perlopiù a una buona
amplificazione, a una bella musica di fondo e ad un buon bilanciamento
di volumi.
Proprio sulla problematica sonora si è basato invece Il Cancello, una
pièce scritta da Alessandro Pertosa su stimolo di Sergio Pereira Novo, regista
portoghese che, durante le cupe giornate del primo lockdown, aveva
posto l’accento sul tema della “follia”.
Il Cancello, non nasce quindi immediatamente come qualcosa che ha
a che fare con il suono; la ricerca in quel senso si è sviluppata pian piano,
dietro la necessità di rendere questo soggetto estremamente immersivo.
È QUINDI SEMBRATO INTERESSANTE
COSTRUIRE UN VERO E PROPRIO
AMBIENTE SONORO, IN GRADO DI
COLLOCARE LA SCENA IN UNO SPAZIO
FISICO PIÙ CONCENTRATO, DENSO. SI È
IMMAGINATO COSÌ DI POTER FARE
UN’OPERAZIONE CHE È MOLTO PROSSIMA
A QUELLA SVILUPPATA NEL CINEMA PIÙ
RECENTE, MA DI RARO IMPIEGO NEL
CONTESTO TEATRALE. USARE UN SUONO
SPAZIALIZZATO.
Una specie di surround.
Il compositore Marco Fagotti, coinvolto perché curasse la colonna sonora
dello spettacolo e che è stato il vero asso nella manica in questa situazione,
aveva dalla sua l’essere particolarmente esperto in questo tipo di
lavori. La prima ipotesi è stata quella di circondare il pubblico con almeno 4
o 6 casse acustiche in modo da immergerlo nel suono dello spettacolo. Non
solo nella musica, ma nell’ambiente, dentro il quale musica, voci degli attori
e tutto il resto si sarebbero comportati come oggetti sonori.
Dopo le prime prove, è però risultato evidente che non sarebbe bastato.
L’esperienza sonora non sarebbe stata comunque la stessa per tutti. Alcune
peculiarità non avrebbero funzionato a dovere. Si è così passati a considerare
una situazione ancora più estrema: dotare ogni spettatore di una
cuffia wireless dentro la quale far passare il suono spazializzato elaborato
con tecnologia binaurale. La registrazione binaurale consente di collocare i
suoni a 360 gradi nello spazio (mentale) e farli muovere esattamente come
era stato immaginato. In pratica questa tecnologia imita il modo in cui le
orecchie umane captano il suono. Usando questo sistema i suoni vengono
112/PALCHI
Accademia 56, Ancona
© Francesco Paci
inseriti in maniera dinamica nelle tre dimensioni dando allo spettatore un’esperienza
completamente immersiva.
Una decisione del genere, è ovvio, ha impattato fortemente sulla costruzione
dello spettacolo. Sul modo di lavorare degli attori, sul loro stile
recitativo. Le loro stesse voci dovevano infatti transitare all’interno del sistema
audio in modo da poter interagire con gli ambienti e con le musiche.
Anche in una collocazione che vede una distanza molto ridotta dagli spettatori,
gli attori dovevano perciò indossare dei microfoni ad archetto e recitare
in maniera estremamente intima. Sottile. La loro voce non sarebbe giunta
agli spettatori direttamente ma collocata nella posizione spaziale giusta
dal sistema audio tridimensionale. Ancora più importante è stata, a conti
fatti, la riconfigurazione del rapporto tra gli spettatori e l’esperienza teatrale
che è diventata meno “comunitaria”, più introspettiva e, soprattutto, la
rielaborazione del rapporto tra attore e spettatore.
Non ci si può rendere conto di quanto profonda sia questa ristrutturazione
fino al momento della prima rappresentazione.
Il pubblico in cuffia non dava più agli attori gli stessi feedback di sempre.
Appariva come precipitato, immerso in un mondo autocentrato. Come se
la cosa - che stava avvenendo davanti alle persone - fosse in realtà in altro
luogo, direttamente nel proprio cervello. L’obiettivo di iniettare direttamente
nella mente dello spettatore il mondo fantasmatico dei protagonisti era
stato centrato: ricreare, come faceva Prospero ne “La Tempesta”, un ambiente
illusorio ma presente, vivo e inquietante, con effetti a volte inaspettati.
Fatica ulteriore per gli attori è stata così quella di adattarsi a questo
nuovo livello di energia. Che non è diretta, passa per altre vie. Assuefarsi a
questa speciale solitudine in pubblico. Per ragioni tecniche, infatti, gli attori
non potevano sentire quello che sentiva il pubblico (una iniziale prova con
l’uso di cuffie in-ear, oltre a rivelarsi un’ulteriore complicazione, non era
risultata affatto funzionale alla recitazione), stavano letteralmente in un
altro luogo: avevano davanti una massa di persone che però era come se non
fosse lì.
Dopo la prima rappresentazione si è scelto di far recitare gli attori
come se fossero assolutamente soli. Lo spettacolo è così diventato l’incontro
tra due solitudini. La solitudine degli attori in scena e quella di ogni singolo
spettatore alle prese con un mondo interno che non può condividere con
nessuno. Con cui deve fare i conti. E per chi costruisce lo spettacolo è diventato
un ambito di ricerca che ha prodotto risultati insperati dimostrando come
la tecnologia, quando viene usata non soltanto nel suo aspetto puramente
spettacolare ma come elemento essenziale di un linguaggio poetico, possa
portare a profonde rielaborazioni e segnare un percorso dal quale non si
torna indietro.
113/PALCHI
Esterno giorno
Marta Silenzi
114/VISIONI/note
SE LA MUSICA
NON ISPIRA ANCHE
LE IMMAGINI,
ALLORA NON MI SENTO
A MIO AGIO.
Thom Yorke
Interno metro. Sonnolenza.
Un momento non meglio precisato
della notte o del mattino. Ancora
buio. La metro muove un ritmo,
reiterato, nel quale s’inseriscono
figure in grigio, omologate negli
abiti come nelle pose, semidormienti
in questo spostamento che è
probabilmente lo stesso di ogni
giorno, verso la stessa direzione,
soldatini, robot senza identità.
Ma qualche elemento – innescato
da un contatto oculare inaspettato
– sfugge alla massa.
È Thom Yorke che entra in
connessione con Dajana Roncione e
questo cortocircuito contro le regole
accende una danza, al ritmo della
metro, al ritmo di Not the news, sesta
traccia di Anima, quarto album
elettronico da solista del frontman
dei Radiohead.
La coreografia che parte è studiata
da Damien Jalet, che Yorke ha
incontrato sul set di Suspiria di
Guadagnino per cui ha realizzato la
colonna sonora. E la regia di questa
storia muta ma altamente sonora,
fatta di linguaggi alternativi, è di
Paul Thomas Anderson.
Anderson e Thom Yorke avevano già
collaborato per tre video di A moon
shaped pool dei Radiohead (ovvero
Daydreaming, Present Tense e The
Numbers, il primo dei quali è un altro
bel gioco simbolico di interni/
esterni) e deve esserci un’intesa tra
i due se l’uno fa dell’altro un così
limpido eroe senza nome, espressivo,
testardamente umano contro
l’omologazione massiva che il video
denuncia, l’uomo che forse Yorke
ha sempre cercato di essere.
Il musicista aveva già iniziato a
scoprire la portata espressiva di un
corpo in movimento, da solo in Lotus
Flower (tratto da The King of Limbs)
e in Ingenue (tratto da Amoke
degli Atom for Peace) in coppia
con la giapponese Fukiko Takase.
Qui il livello si alza.
115/VISIONI/note
Dall’interno all’esterno della metro
di Praga, dentro tunnel freddi e
metallici e poi tra caldi flash e
proiezioni nei bellissimi ambienti
della Cathèdral d’Images di Les
Boux-de-Provance dove Yorke avanza
contromano e alla deriva, approdando
ad un bianco piano obliquo senza
luogo, abitato dalle lunghe ombre
della danza inarrestabile, costante
ostacolo orwelliano che non gli
permette il ritrovamento della donna
dallo sguardo intenso, per restituirle
una valigetta dimenticata sul treno
che è soltanto un espediente colto
al volo dal dissidente.
"Se la presenza dei mezzi di trasporto
accende connessioni con vecchi e
famosi album dei Radiohead, mentre
la trama rimanda alle (...) teorie
junghiane, i riferimenti visivi si
spingono fino agli albori del cinema.
Le coreografie collettive con i
pendolari richiamano quelle degli
operai di Metropolis di Fritz Lang,
i movimenti buffi di Thom flirtano con
la slapstick comedy di Buster Keaton
e la decisione di presentare l'opera
come un one reel strizza l'occhio ai
'rulli', la vecchia unità di misura e di
durata dei film muti" (Luca Castelli)
Si alza un vento che sposta e
ANIMA
Stati Uniti d'America, 2019
cortometraggio musicale
regia e soggetto Paul Thomas Anderson
produttori Sara Murphy, Paul Thomas
Anderson, Erica Frauman
casa di produzione e distribuzione
Netflix
fotografia Darius Khondji
montaggio Andy Jurgensen
musiche Thom Yorke, Nigel Godrich
scenografia e coreografia Damien Jalet
costumi Johanna Garrad
tra gli interpreti Thom Yorke,
Dajana Roncione, Gala Moody,
Frida Dam Seidel
116/VISIONI/note
trattiene, solleva detriti e spinge
l’eroe fuori dalla propulsione di
Traffic e dentro la calma di Dawn
Chorus (le altre due tracce di Anima
usate nel cortometraggio). Cambiano
anche le luci. Siamo all’esterno.
Griglie di tombini, vicoli e lampioni,
ciottoli e graffiti sui muri contro i
quali lei è in attesa di un passo a due,
di uno scambio sommesso di sorrisi
che sono un riconoscimento, una
connessione vera tra esseri umani.
E anche tutti gli altri ora muovono
a coppie, liberi e morbidi.
Praga.
Vapore di treni, calma, flash contro
un cielo che schiarisce.
Abbandonarsi al sentimento, alla
connessione, alla vicinanza.
Di nuovo un treno, un tram forse, il
sole che sorge, le ombre degli uccelli
sui volti, e il sogno.
Come già in Daydreaming, l’esterno
è una conquista che desta stupore,
è un risveglio positivo. Il buio della
notte, le luci artificiali e intermittenti
di tunnel e stazioni sono opprimenti,
imbrigliano l’anima in un
sonnambulismo crepuscolare,
in una coreografia alienante che
spersonalizza e ingabbia ma basta
ribellarsi per ritrovare l’alba.
117/VISIONI/note
118/VISIONI/note
119/VISIONI/note
#album
Osnago. Atelier di Alberto
Casiraghy, artista ed editore
di Pulcino Elefante
PAESAGGIO
ELOQUENTE:
GEOMETRIA,
DETTAGLIO,
LUCE, ATTESA
Marcello Francone
Libreria di un grafico e fotografo
122/ALBUM
Libreria di un negozio di volumi usati
sul lago Maggiore
123/ALBUM
Atelier e studio di un affermato artista
di Modena
124/ALBUM
Atelier e studio di un giovane artista
in Valle Vigezzo
125/ALBUM
Gipsoteca e biblioteca della Fondazione
Rossetti Valentini in valle Vigezzo
128/ALBUM
Fai Fondo per l’Ambiente
Italiano, Casa ed Emporio
Macchi a Morazzone, Varese
Finestra della casa
di un grafico e fotografo
DETTAGLI. PICCOLE
PORZIONI
DI SGUARDO. LA VITA
NE È PIENA, ANCHE
DI DRAMMATICI
PURTROPPO,
MA PROPRIO PER
QUESTA OPULENZA
SFUGGONO.
QUI PERÒ SI ANNIDA
IL SAPORE
DELL'ESISTENZA.
129/ALBUM
Uscite pedonali di un parcheggio
nel centro di Varese
130/ALBUM
131/ALBUM
132/ALBUM
Fai Fondo per l’Ambiente Italiano,
Casa ed Emporio Macchi a Morazzone, Varese
Gallerie d’Italia a Milano, Piazza della Scala
durante una mostra
133/ALBUM
Fai Fondo per l’Ambiente Italiano,
Casa ed Emporio Macchi a Morazzone, Varese
Torino, veduta di piazza San Carlo dalle finestre
di un Museo
Finestrini del traghetto in navigazione tra Intra
e Laveno sul lago Maggiore
Finestra del ristorante-albergo sulla cascata
del Toce in alta Valle Formazza
134/ALBUM
DESIDERIO.
LO SENTI, LO CERCHI,
FORSE LO VEDI,
LO DESIDERI APPUNTO,
É LÌ,
SEMBRA A PORTATA DI MANO,
LO SPAZIO TRA TE E L'OGGETTO
O IL SOGGETTO
DEL TUO DESIDERIO
È LA FORZA
CHE MUOVE IL MONDO.
135/ALBUM
Fai Fondo per l’Ambiente Italiano,
Casa ed Emporio Macchi a Morazzone, Varese
136/ALBUM
Bologna, scalinata di Palazzo Fava
Fai Fondo per l’Ambiente Italiano,
Casa ed Emporio Macchi a Morazzone, Varese
Varese, Fondazione Marcello Morandini
137/ALBUM
Casa privata a Craveggia, Valle Vigezzo
138/ALBUM
Osnago. Atelier di Alberto Casiraghy,
artista ed editore di Pulcino Elefante
139/ALBUM
Mogno, alta valle Maggia, Svizzera
Mario Botta, chiesa di San Giovanni Battista
140/ALBUM
Varese, Fondazione Marcello Morandini
NON CI S0NO PERSONE
MA C'È TUTTA QUESTA MAGNIFICENZA
CHE È OPERA DI PERSONE.
E SOLTANTO SENZA GLI AUTORI SI CAPISCE
LA GRANDEZZA DI MOLTE COSE,
STRATI SU STRATI DI ERE, E PERIODI, TEMPO.
NON CI SONO INDIVIDUI A DISTRARRE,
PROTAGONISTI SONO LORO, I MANUFATTI,
LEI, LA CITTÀ.
141/ALBUM
Miasino, Lago d’Orta, Villa Nigra durante
la mostra di Valerio Tedeschi, scultore
Fai Fondo per l’Ambiente Italiano,
Villa Necchi Campiglio a Milano
142/ALBUM
Duomo di Monza
143/ALBUM
144/ALBUM
Rozzano, Istituto Clinico Humanitas
Marcello Francone ha studiato grafica
e fotografia presso l’Istituto Statale
d’Arte di Monza con AG Fronzoni,
Roberto Maderna, Pietro Coletta,
Irma Blank, Romano Barboro.
Dopo gli studi e il servizio militare
lavora con Friedemann Kaltbrunner
presso Contact Studio e collabora
con G&R Associati e Studio Anselmi.
Nel 1983 inizia ad occuparsi di libri
presso l’editore Electa, dove nel 1985
assume la direzione dell’Ufficio grafico
e nel 1988 il ruolo di Art director.
Dal 1994 al 2016 svolge un corso
di grafica editoriale agli studenti
del terzo anno dell’Accademia
di Comunicazione a Milano.
Dal 1995 al 2021 partecipa al rilancio
della storica casa editrice Skira con
la carica di Art director, progettando
migliaia di libri, copertine e molteplici
collane di volumi su ogni argomento
e disciplina. Nel 2005 è Visiting
Professor alla Facoltà del Design
del Politecnico di Milano Bovisa,
dove conduce un workshop dal titolo
“Disegnare libri che raccontano
il progetto”. Dal 2017 è docente
di grafica editoriale, corso di Visual
design, presso Raffles Milano.
Dal gennaio 2020 è Consigliere
di amministrazione della Fondazione
Scuola di Belle Arti Rossetti Valentini,
valle Vigezzo, VCO.
MUSEO FORTUNY
San Marco 3958, 30124
Venezia
fortuny.visitmuve.it
© Fondazione Musei Civici Venezia
Mariano Fortuny:
un genio assoluto
Massimo Zanella
La figura, la personalità e l’opera
di Mariano Fortuny y Madrazo
(1871-1949) sono complesse e ricche,
a cominciare dalla poliedrica
versatilità con cui ha praticato
materie, saperi e ambiti di lavoro nei
quali si è misurato nel corso dei molti
decenni di ininterrotta, vivacissima
e industriosa produttività: era l’uomo
che spaziava dall’incisione alla
pittura, dalla moda al teatro,
dall’illuminotecnica alla fotografia.
Nella famiglia Fortuny il talento
è di casa, il padre (Mariano Fortuny
y Marsal, 1838-1874) è un acclamato
pittore di fama internazionale.
A Parigi i più accorti amateurs d’art
si contendono avidamente le sue
opere e il mercante Adolphe Goupil
gli commissiona un considerevole
numero di dipinti. Nel 1889 la madre
(Cecilia de Madrazo y Garreta,
1846-1932) decide di trasferire
la famiglia a Venezia, che Mariano
elegge a sua città d’adozione.
Crocevia tra Oriente e Occidente,
la Serenissima, divenuta simbolo
romantico della bellezza decadente,
è la meta prediletta della più
sofisticata élite culturale dell’epoca.
Il giovane spagnolo colto e dotato
di un vivace ingegno entra ben presto
a far parte dei circoli culturali
cittadini più impegnati e la residenza
di famiglia è luogo d’incontro per
artisti, letterati, poeti e compositori.
I molteplici interessi non lo
distraggono però dalla pratica della
pittura e costruisce i propri repertori
attraverso un collezionismo a cui
si dedica con curiosità e competenza:
manufatti, oggetti provenienti da
epoche e civiltà diverse, libri di
archeologia, trattati di matematica,
stampe, fotografie e disegni vengono
acquisiti e organizzati in una sorta
di catalogo ragionato che diviene
prontuario, fonte di ispirazione
e strumento di lavoro.
Nel 1902 incontra Henriette Nigrin,
sua compagna, musa e valente
collaboratrice con la quale darà
avvio, a Palazzo Pesaro degli Orfei,
all’innovativo laboratorio di stampa
su seta e velluto, la cui produzione
renderà celebre il marchio “Fortuny
Venise” in tutto il mondo. Nascono in
questo torno di anni due iconici capi
di abbigliamento: lo scialle Knossos
e l’abito Delphos – in omaggio
all’eponimo Auriga –, è una tunica
in taffetà di seta, caratterizzata
da una finissima plissettatura che
ricorda il chitone ionico; per la
realizzazione di questa veste Fortuny
brevetta un innovativo sistema
147/ZONE/note
148/ZONE/note
Le immagini presentano
alcuni ambienti del Museo
Fortuny nel nuovo allestimento
concepito da Pier Luigi Pizzi
nel 2022.
© Fondazione Musei
Civici Venezia
capace di garantire la plissettatura
anche delle sete più impalpabili.
Dopo gli scialli e le tuniche, la
sperimentazione si focalizza sui
suntuosi velluti di seta utilizzati
per varie tipologie d’abbigliamento,
dalle cappe ai burnous, dai mantelli
ai caftani, dalle giacche alle vesti,
dai costumi teatrali alle stoffe per
l’arredamento.
Tali geniali creazioni sono presentate
al grande pubblico, a Parigi,
all’Esposizione delle Arti Decorative
nel 1911. Il successo è travolgente
e l’attività, non solo del laboratorio,
è frenetica. Vengono aperti negozi
a Parigi, Londra e New York, tra
le clienti più affezionate alla maison
Fortuny troviamo i nomi della
marchesa Luisa Casati, Isadora
Duncan, Sarah Bernhardt ed
Eleonora Duse.
D’ora in poi l’atelier di Palazzo
Pesaro sarà un crogiuolo di
innovazione, sperimentazione,
incontri culturali: una vera officina
del mago. Con l’avvicinarsi della
seconda guerra mondiale si rallenta
notevolmente l’attività del laboratorio
e della fabbrica che durante il
secondo conflitto mondiale verrà
temporaneamente chiusa. Il 2 maggio
1949 dopo una lunga malattia
Fortuny muore nella sua residenza
di Palazzo Pesaro degli Orfei.
La moglie Nel 1956 dona il palazzo
di campo San Beneto, ormai
denominato Pesaro-Fortuny,
al Comune di Venezia che si impegna
a far sì che il salone-studio del primo
piano nobile mantenga la
straordinaria impronta fortuniana
e che il resto dell’immobile diventi un
luogo di cultura aperto a tutte le arti.
Visitare oggi il Museo Fortuny è fare
un tuffo nello straordinario e
immaginifico mondo di Mariano e
Henriette Fortuny e della sua
abitazione, laboratorio e atelier.
Il nuovo percorso museale si snoda
tra le sale con tematiche legate
alla storia artistica e produttiva
del “mago”.
Dal collezionismo alla moda, dalla
pittura alla produzione tessile,
dalla fotografia all’illuminotecnica.
149/ZONE/note
Mi guardai intorno e vidi che l'appartamento era vuoto come quando io e Micol ci eravamo
entrati l'agosto precedente. Un tavolo, quattro sedie, alcune sdraio rovinate dal tempo, una
credenza, librerie vuote, un divano sfondato, un letto, armadi con appese innumerevoli grucce
dondolanti come uccelli impagliati con le ali spiegate, e quel desolato pianoforte a coda che nè
io nè lei avevamo mai nemmeno toccato e che era ancora ricoperto di mucchi di locandine che
promettevamo di riportare nel New Hampshire pur sapendo che non l'avremmo mai fatto. Tutto
il resto era già stato imballato e spedito.
Nonostante le finestre aperte, l'appartamento di Kavafis, trasformato ora in un museo
improvvisato, appariva scialbo e sconclusionato. Tutto il quartiere era scialbo. Quando entrammo
c'era poca luce e, a parte qualche rumore isolato che saliva dalla strada, gravava un silenzio
di morte sul vecchio mobilio spoglio che, con ogni probabilità, era stato recuperato da qualche
magazzino abbandonato. Eppure quelle stanze mi fecero tornare in mente una delle mie poesie
preferite del poeta, dedicata a un raggio di sole che nel pomeriggio si rifletteva sul letto in
cui da giovane si coricava sempre con il suo amante. Ora, il poeta rivisita i locali a distanza di
anni, i mobili sono spariti, il letto è sparito e l'appartamento è stato trasformato in un ufficio
commerciale. Ma quel raggio di sole che un tempo illuminava il suo letto non l'ha mai abbandonato
e rimane per sempre inciso nella sua memoria. Il suo amante gli aveva assicurato che sarebbe
tornato nel giro di una settimana. Ma non ritornò mai. Avvertivo il dolore del poeta. Di rado ci si
riprende da certe cose.
André Aciman, Cercami
Dopo le incursioni al terzo piano, il suo appartamento gli sembrava sempre terribile. Alzò le
tapparelle e spalancò le finestre, e confrontò gli spazi che ancora gli piacevano - due: la parete
coi quattro vinili autografati e incorniciati (Automobili, di Lucio Dalla; Panama e dintorni, di Ivano
Fossati; Tato Tomaso’s Guitars, di Ivan Graziani; Rank, degli Smiths, siglato da Johnny Marr) e
la fiancata della cassettiera bianca vivacizzata dalle manate di suo nipote Alfredo, quando era
bambino - con quelli di cui, più o meno consapevolmente, aveva cominciato a vergognarsi: le
piastrelle verdognole vecchia Milano, posizionate, chissà poi perché, in modo che le decorazioni
monolaterali compissero una specie di svastica intorno alle fughe; la lava lamp giallo e rosa
shocking, acquistata di seconda mano dagli eredi di un avvocato a Lorenteggio, così come il
divano Chesterfield a due posti, color vinaccia, cuoio screpolato, intorno a cui si reggeva l’intero
impianto estetico decrepito dei trenta metri quadri che Valerio sfruttava di più: un open space
soggiorno-studio-angolo cottura con parete attrezzata piena di cd e vinili a incorniciare una
tv Philips 36 pollici e un giradischi Shuman MC-250BT del peso di nove chili e con funzione
Bluetooth.
La quota più sconfortante, però, era rappresentata da due grossi ganci neri avvitati a metà del
corridoio, tra la sua stanza e il bagno. Valerio li usava come appendiabiti, ma un tempo erano stati
supporti per chitarra: i primi pezzi d’arredamento che aveva personalmente montato in quella
casa e gli ultimi a figurare nella lista di oggetti che pensava di dover ridestare.
Casa: una questione di colori da abbinare, spazi da riempire e abitudini da consolidare. Era stato
un inquilino sincero? No: quell’appartamento parlava di lui soltanto attraverso le cose che non
aveva scelto. Di gusto, almeno? Neanche. Non c’era interezza, non c’era una linea, non c’erano
idee. Aveva arredato citando. Ma le citazioni hanno sempre una data di scadenza.
Nicola H. Cosentino, Le tracce fantasma
NON VORREI
OGGETTI SILENZIOSI,
MA OGGETTI
CHE COSTRINGANO
AL SILENZIO
CHI LI USA.
Ettore Sottsass