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vittoria regina

A cura di
Curated by
Alessandro Riva
Biografia di
Biography by
Klara Murnau
Direzione artistica
Art director
Matteo Basilé
Progetto grafico
Graphic project
Angelo Marinelli
Comunicazione
Communication
ArtistProof s.r.l. Roma
Ufficio stampa
Press office
FOSFORO, Roma
Con il supporto di
Supported by
In collaborazione con
In collaboration with

vittoria regina

Vittoria Regina e le mutevoli forme dell’inconscio
di Alessandro Riva
La pratica del travestimento e dell’assunzione di un’identità – o di molteplici identità – diverse da
quella originaria è stata, nell’arte contemporanea, una disciplina diffusa a partire soprattutto dagli
anni Settanta, con l’emergere delle tecniche performative e dell’uso massiccio di video e fotografie
come linguaggi alternativi, o integrativi, rispetto ai più tradizionali mezzi pittorici e scultorei, e
il conseguente ritorno di attenzione verso il corpo inteso come mezzo non solo di espressione
quotidiana del linguaggio non verbale, ma anche come possibile luogo di sperimentazione, anche
estrema, di modi e identità diverse da quelle abituali, e non di rado, conseguentemente, anche come
esercizio liberatorio e catartico, di affrancamento di energie imprigionate o non sufficientemente
esercitate nel tempo “normale” della vita quotidiana e del lavoro.
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Potenziale mezzo di espressione dell’inconscio profondo e del rimosso, il corpo è tornato così a
dispiegare tutta la sua forza e la sua energia sulla scena dell’arte come antico, ma al contempo
nuovissimo, mezzo (e luogo) di liberazione e di riscatto dalle convenzioni, dalle costrizioni e
dalle gabbie imposte dai normali ritmi della vita sociale. Basti citare, a mo’ d’esempio, i nomi
di alcuni artisti che hanno saputo, in anticipo e in maniera più penetrante e più intelligente di
altri, utilizzare il corpo (e, conseguentemente, anche la pratica del travestimento) come luogo e
metodo di sperimentazione di possibili altri da sé, oltre che come espressione di identificazione e
ridefinizione delle icone e dei simboli della cultura e dell’immaginario passato o coevo: da Luigi
Ontani, che, in perfetta coerenza con i rivolgimenti, i meticciamenti e le citazioni incrociate del
postmodernismo, incarnò da solo, col, e sul, proprio corpo, l’intero assortimento di personaggi
storici, mitologici e letterari della cultura occidentale ed orientale; a Cindy Sherman, che ha
sempre considerato il proprio volto come la “tela bianca su cui intervenire”, mettendo di volta
in volta in scena, con toni tra il grottesco e il caricaturale, gli stereotipi femminili occidentali; a
Yasumasa Morimura, che ha incarnato le icone pop del ventesimo secolo con un effetto insieme
di desacralizzazione, di riflessione e di scardinamento del loro potere di condizionamento e di
modificazione del gusto nella società di massa.
Oggi, una giovane artista e fotografa romana, Vittoria Regina (che già dal nome, vero e non
fittizio, con quell’apparente e sorprendente rovesciamento d’ordine tra “Regina” e “Vittoria”,
sembra miracolosamente incarnare, per certi scherzi del destino che solo la vita quotidiana riesce
a mettere involontariamente in scena, il senso di un percorso artistico e individuale in grado
di interpretare, trasformare e rovesciare gli stereotipi diffusi, semplicemente cambiandone o
ribaltandone il significato più profondo, manipolandone la sintassi o mescolando inavvertitamente

l’ordine degli addendi di cui è composta), una giovane artista, dunque, romana di nascita ma
con lunghi periodi alle spalle di vita e di lavoro fuori dalla Capitale, ha ripreso la tradizione
del travestimento e del lavoro sul corpo e sull’identità, e sulle identità multiple, con grande
rigore formale, un linguaggio fortemente iconico e una forza e una sensibilità del tutto originali.
Vittoria Regina lavora infatti su di sé e sul proprio corpo come spazio aperto, vergine, sul quale
sperimentare di volta in volta visioni impreviste e inaspettate, estratte a sorpresa dall’alveo del
nostro quotidiano, attraverso la creazione, meticolosa quanto professionalmente ineccepibile,
di strane immagini-puzzle di difficile interpretazione, quasi ci si trovasse di fronte a misteriosi
rompicapi visivi e cerebrali, sottilmente, o a volte apertamente, disturbanti, dove la rigidità
dell’ordine formale nelle quali sono inserite e l’imperturbabilità delle espressioni incarnate dalla
sua protagonista sembrano in realtà nascondere le tracce di sottili e oscure ferite esistenziali, che
sembrano aprire varchi verso una diversa interpretazione delle forme stesse del reale. Il carattere
di tali opere è, come avveniva nei quadri dei grandi maestri surrealisti, quello di certi sogni dei
quali ci capita a volte di ricordare non l’intera sequenza, ma soltanto un’immagine, un’istantanea
o anche solo una sensazione, incongrua e sorprendente come appaiono sempre, al risveglio,
incongrue e sorprendenti le immagini e le sensazioni che ci rimandano i sogni, delle quali non
riusciamo magari a decifrare veramente il significato recondito – se di un significato univoco si
può poi realmente parlare –, rendendoci tuttavia conto che esse possiedono, nella loro cristallina
inafferrabilità, qualcosa che ci riguarda nel profondo, che racconta di qualcosa di noi che abbiamo
rimosso o che non abbiamo mai saputo esprimere o analizzare a livello cosciente, e che tuttavia
sappiamo riconoscere come nostro, come appartenente al nostro nucleo esistenziale più intimo e
profondo più di qualsiasi descrizione, o riflessione, logica e razionale.
Sono immagini (o visioni) che sembrano rimandare all’attività onirica secondo la chiave che
proprio Breton restituì al rapporto veglia/sogno fin dal Primo manifesto del surrealismo, quando
parlò della veglia come mero “fenomeno di interferenza” rispetto al momento onirico, che ad
esso rimanda in continuazione come alla vera chiave dei propri comportamenti inconsci, dei
propri lapsus e delle proprie emozioni durante la fase di veglia. È l’eterna storia dell’incerto e vago
procedere del nostro lato ragionante e raziocinante, e del suo sistematico e periodico perdersi,
smarrirsi, lasciarsi andare, pur nel suo “normale funzionamento” diurno, nel corso dunque del
lungo oblìo d’una qualsiasi e “normale” giornata (nel lavoro, nelle relazioni interpersonali, nella
vita quotidiana, in famiglia o con gli amici), a sensazioni, paure, turbamenti, emozioni ed effetti
psicologici che con la razionalità non hanno tuttavia nulla o pochissimo a che spartire, e che
sembrano volersi sempre riallacciare invece – che ci piaccia o meno riconoscerlo –, a quel luogo
che è il più intimo e il più misterioso del nostro nucleo esistenziale, quello che la psicanalisi ha
voluto ribattezzare col nome di inconscio, e che, per similitudine, sembra a sua volta ricollegarsi
in maniera diretta con l’attività che con la parte più irrazionale di noi sembra avere maggior
dimestichezza – quella onirica, appunto. “Per quanto ben fatto esso sia”, scrive Breton a proposito
dello stato di veglia, “il suo equilibrio è relativo; osa appena esprimersi, e, se lo fa, si limita a
constatare che un’idea o una donna gli fa effetto. Quale effetto, sarebbe incapace di dirlo; per
tal via, dà la misura del proprio soggettivismo, e nient’altro. Disperando d’una causa, egli invoca
allora il caso, divinità più oscura delle altre, a cui attribuisce i propri smarrimenti”. Ma, continua

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l’inventore del surrealismo, “chi mi dice che l’angolo sotto cui si presenta l’idea che lo commuove,
che quello che ama nell’occhio della donna non sia precisamente quanto lo riallaccia al sogno e lo
incatena ai dati che per sua colpa ha perduto?”.
Dati vaganti, perduti per sempre nel vasto e incerto labirinto della nostra memoria profonda,
percorsi onirici che si dipanano lungo fili di cui non ricordiamo, e non riconosciamo, se non pochi
e vaghi scampoli sfuggiti misteriosamente all’oblio, e poi immagini strane, bizzarre, incongruenti,
assurde, impossibili da accettare e da catalogare dal punto di vista fisico, inverosimili anche per gli
inventori degli effetti speciali di Hollywood, disturbanti, fastidiosi, con un piede vuoi nell’osceno,
vuoi nell’eccessivo, vuoi nell’assurdo, vuoi nell’imbarazzante, se non fossero così inaspettatamente
lontane dal concetto stesso di osceno, di eccessivo o di imbarazzante: ecco ad esempio una donna
che reca in testa un alveare, un’altra (la stessa?, ma dove mi è già capitato di vederla?), che si alza
la gonna, con espressione impeccabile, fredda, anodina, senza imbarazzo o ammiccamento di
sorta, e ci mostra quello che non tiene là, tra le gambe: una nicchia vuota, che – guarda un po’ –
contiene una rosa. Una rosa? Se avessimo voluto descriverlo a bella posta, se avessimo voluto farne
una metafora di qualcosa – di un sentimento, di un desiderio, di una mancanza – non avremmo
saputo essere così precisi, così chirurgicamente esatti nel descrivere la somiglianza tra la vellutata
poesia e l’accogliente desiderio delle pieghe di quella gonna, e la perfezione del fiore, al centro di
quell’impossibile, incongruo spazio vuoto, che è già di per sé un simbolo di qualcosa (ma di cosa,
dopotutto? – lo sappiamo, forse, e insieme non vogliamo andare fino in fondo all’analisi razionale, o
psicologica, di quel che voglia, o possa, realmente significare quel vuoto, poiché l’analisi razionale,
in fondo, non ci riguarda così tanto come ci riguarda invece l’immagine stessa che ci viene gettata
addosso, che ci colpisce con maggior forza e con maggior potere di seduzione e di riscatto di una
qualche memoria profonda, ancestrale, che sembra appartenerci dalla notte dei tempi).
Di immagini eminentemente oniriche, dunque, si tratta, e non d’altro, nel caso delle opere di
Vittoria Regina: e non è un caso, allora, che proprio ai sogni, e alle immagini che la stessa artista
ritrova nei sogni, dei quali annota meticolosamente il ricordo appena sveglia su suoi piccoli
quadernetti che tiene sempre accanto al letto (l’unico modo, da che mondo e mondo, per provare
almeno a fissare qualche vaga e abborracciata annotazione dallo sfuggente ricordo di quel che
avviene in quel territorio misterioso che è il processo onirico), non è un caso, dicevamo, che
proprio ai sogni si rifacciano gran parte delle immagini partorite dalla mente di questa singolare
artista bifronte, insieme ideatrice, autrice, regista e attrice unica delle proprie pièce teatrali, delle
proprie pantomime, potremmo dire, o meglio ancora dei propri solitari psicodrammi – giacché
alla visione plastica e perfettamente chiara e intellegibile di psicodrammi, e non ad altro, in fondo,
ci rimandano le immagini di Vittoria Regina: psicodrammi recitati dall’artista rigorosamente en
solitaire, dopo attenta e meticolosa preparazione rituale (come avviene in tutte le cerimonie che
abbiano la pretesa di conquistare nuove frontiere, nuove strade e nuovi scenari all’interno di quel
misterioso labirinto che è il nostro inconscio), giocati su poche e rigide regole e griglie di base, dalle
quali si diparte poi, senza paracadute, potremmo dire, cioè senza un vero ordine precostituito,
senza sapere, in qualche modo, a che cosa quella pur meticolosa e millimetricamente esatta
preparazione potrà alla fin fine portare, l’artista stessa nel mettere in moto la gran macchina della
costruzione, e conseguentemente della scelta, dell’immagine finale.

Vittoria Regina prepara infatti, prima di tutto, il campo, il luogo, le regole, per così dire, e il
metodo di lavoro del proprio solitario spettacolo: dall’ideazione iniziale dell’immagine (prelevata,
come dicevamo, quasi sempre, pur non in via del tutto esclusiva, da una visione estrapolata da un
sogno), alla costruzione di set realizzati appositamente per l’occasione, alla scelta e ricerca degli
accessori, dei trucchi e dei costumi di volta in volta adatti al singolo scatto, per arrivare infine
al momento clou – quello dello scatto, appunto –, realizzato sempre in solitaria, senza l’aiuto di
assistenti, come in una misteriosa e prolungata seduta di auto-analisi (o addirittura di auto-ipnosi);
finendo poi, successivamente, e solo successivamente, con una complessa e articolata opera di
post-produzione dell’immagine, attraverso dettagliate e sofisticate operazioni di giustapposizione
di immagini diverse e di intervento pittorico-digitale sull’opera definitiva.
Quanto c’è, dunque, di Vittoria Regina, la persona, del suo nucleo identitario profondo, dei fantasmi
del suo inconscio, nelle impeccabili, rigorose visioni che Vittoria Regina, l’artista e performer,
estrae dai suoi sogni, per consegnarle prima alla carta, in forma di appunti, poi alla macchina,
in forma di immagini da ricostruire meticolosamente, con i dati, gli elementi, gli accessori (abiti,
acconciature, gioielli) di cui la realtà la fornisce? E quanto c’è della persona Vittoria Regina e
del suo inconscio negli sguardi, nelle espressioni, nell’imperturbabile geometria fisiognomica
che Vittoria Regina la performer, soggetto unico e univoco delle sue foto, riesce a trasmettere
in chi guarda l’immagine finale? Potremmo, com’è spesso compito di quei curiosi compilatori di
similitudini e di rimandi culturali e iconografici che sono i critici d’arte, affaccendarci a trovare
qua un riferimento alle immagini simboliste, là a un’Ofelia riportata in un’atmosfera fashion,
più in là ancora a una sensibilità preraffaellita o, naturalmente, ai bizzarri giochi di scatole cinesi
linguistici o visuali di cui era inesausto campione Salvador Dalí. Il tentativo, pur dialetticamente
e filologicamente corretto, non ci direbbe niente di più delle sorprendenti immagini di questa
artista fattasi, per sua stessa ammissione precocemente, caparbiamente, quasi destinalmente
attrice privilegiata e soggetto unico, obbligato, della sua complessa ricerca artistica, psicologica,
identitaria e formale. Il segreto delle foto di Vittoria Regina, come quello dei sogni, risiede nel
non essere spiegate fino in fondo. È Ofelia o la stessa Vittoria quella che si specchia in sé stessa,
al di là di un immaginario specchio d’acqua, forse in una lunga e strana giornata in un cui era la
sua mente inconscia, e non quella conscia, a guidare l’obiettivo fotografico di Vittoria, l’artista?
E da che lontananza proviene quel volto che sbuca inaspettatamente dietro la cornice barocca di
una vecchia specchiera? Che pensieri oscuri e indicibili reca dentro di sé quel groviglio infausto e
inquietante di stoffe che ricoprono, fornendole quasi la forma di uno strano animale preistorico,
la performer in un momento di oscuramento, di oblio, forse, chissà, di vergogna, del sé razionale?
Che lontani ricordi si affacciano nella mente dell’attrice immortalata, diremmo quasi congelata
nell’atto di eseguire con le mani, senza emozioni né gioia, uno di quei passatempi infantili che
si eseguono tirando in varie maniere un elastico tra le dita? E perché quell’aragosta incastrata
proprio al centro della sua spina dorsale? Perché il melograno, così simbolicamente legato al
culto della nascita e della morte, e il suo aver perso dei chicchi nel corpo della modella? Le
risposte, come l’origine da cui sono nate le immagini, sono riposte nel cuore più fondo dell’animo
dell’artista. E forse un poco anche dentro ognuno di noi.

Vittoria Regina and the changing forms of the unconscious
by Alessandro Riva
8
In contemporary art, the practice of disguise, and the assumption of an identity - or multiple
identities - different from the original one has become a widespread discipline, especially since
the nineteen seventies, with the emergence of performance techniques and the massive use of
video and photographs as alternative or supplementary languages, compared with the more
traditional media of painting and sculpture, and the consequent return of the attention to the
body as a means not only of daily expression of non-verbal language, but also as a possible place
for experimentation, even extreme experimentation, about ways and identities that are different
from the usual ones, and often, consequently, also as a liberating and cathartic exercise, with the
liberation of energies that are imprisoned or not sufficiently exercised in the “normal” rhythms of
daily life and work. As a potential means of expression of the deep unconscious and repression,
the body is thus brought to deploy all its strength and energy on the art scene as an ancient, but
at the same time new, means (and place) of liberation and redemption from conventions, from
the constraints and cages imposed by the normal rhythms of social life. It suffices to mention,
by way of example, the names of some artists who have been able, in advance and in a more
penetrating and more intelligent way than others, to use their body (and, consequently, also
the practice of disguise) as a place and method for experimentation with other possible self,
as well as an expression of identification and redefinition of icons and symbols of culture and
imaginary past or contemporary: from Luigi Ontani, who, in perfect keeping with the upheavals,
the hybridisation and the cross-references of postmodernism, alone embodying by, with, and on
his body the entire assortment of historical, mythological and literary figures of western and
eastern culture; to Cindy Sherman, who has always considered her own face as a “blank canvas on
which to intervene,” presenting Western female stereotypes one after another, with tones between
the grotesque and caricature; to Yasumasa Morimura, who has embodied the pop icons of the
twentieth century with a set of effects of desecration, of reflection and disruption of their power
to influence and change taste in mass society.
Today, a young Roman artist and photographer, Vittoria Regina (who already from the name,
which is real and not fictitious, with that apparent and surprising reversal of order between
“Regina” and “Vittoria”, miraculously seems to embody, in some twist of fate that only daily life
can unwittingly present, the sense of an artistic and personal journey that can interpret, transform
and reverse widespread stereotypes, simply by changing or overturning the deeper meaning, by
manipulating the syntax or inadvertently mixing the order of its component parts): a young artist,
then, Roman by birth but with the experience of long periods living and working outside the

capital, has resumed the tradition of dressing up and working on the body and on identity, and
on multiple identities, with great precision, a highly iconic language and a completely original
strength and sensitivity.
Vittoria Regina is in fact working on herself and her own body as an open, virgin space, on which
to experiment from time to time with unforeseen and unexpected visions, extracted by surprise
from the contraints of everyday life, through the creation, as meticulous as it is professionally
impeccable, of strange puzzle-images that are difficult to interpret, as if you are sitting in front
of mysterious visual and brain teasers, subtly, or sometimes openly, disturbing, where the formal
rigidity in which they are placed and the imperturbability of the expressions embodied in her
protagonist seem actually to hide the traces of subtle and obscure existential wounds that seem to
open breaches towards a different interpretation of the same forms of reality. The character of
these works is, as in the paintings of the great surrealist masters, that of certain dreams of which
we happen sometimes to remember not the entire sequence, but only an image, a snapshot or just
a feeling, incongruous and surprising as they always appear and, on waking, the incongruous and
surprising images and feelings that remind us of the dreams, of which we can maybe not really
decipher the hidden meaning - if we can really talk a single meaning - while realising that they
possess, in their crystalline ineffability, something that concerns us deeply, that tells something
about us that we have repressed or that we have never been able to express or analyse at a
conscious level, and yet that we recognise as our own, as belonging to our most intimate existential
and deepest core, more logical and rational than any description or reflection. They are images
(or visions) that seem to refer to the dreamlike activity according to the key that Breton himself
ascribed to the waking/dream relationship since his First Manifesto of Surrealism when he spoke
of waking as a mere “phenomenon of interference” compared with the time of the dream, which
refers to it constantly as the real key of their unconscious behavior, and their lapses and emotions
during waking. It is the eternal story of the uncertain and vague performance of our reasoning
and rational side, and its systematic and periodic loss, destruction and disappearance, even in its
“normal operation” day to day, therefore during the long oblivion of any “normal” day (at work,
in relationships, in everyday life, with family or friends), with feelings, fears, anxieties, emotions
and psychological effects which have little or nothing to do with rationality, and which on the
other hand seem to run away - whether we like or not to recognise it - to that place that is the most
intimate and the most mysterious aspect of our existential core, what psychoanalysis has wanted
to rebaptise with the name of the unconscious, and that, by similarity, seems in turn to reconnect
us directly with the most irrational part of us, that also seems to be the most familiar - dreaming,
that is. “As well as it is done,” wrote Breton about the state of wakefulness, “its balance is relative;
it hardly dares express itself, and, if it does, it limits itself to stating that an idea or a woman has
an effect on it. What effect, it would be unable to say; in this way, it gives the measure of its own
subjectivity, and nothing else. Despairing of a cause, it then invokes the case of the darker god of
the other, to which it attributes its own bewilderment.” But, continues the inventor of surrealism,
“Who will tell me that the angle under which the idea that moves him appears, that what he likes
in the eye of the woman is not precisely what links him to dreaming and chains him to the data
that through his own fault he has lost? “

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Stray data, lost forever in the vast and uncertain maze of our deep memory, dream paths that wind
along threads which we do not remember and do not recognise, apart from a few vague remnants
that have mysteriously escaped from oblivion, and then strange images: bizarre, inconsistent,
absurd, impossible to accept and to catalogue from the physical point of view, too far-fetched for
inventors of Hollywood special effects, disruptive, annoying, with one foot you want the obscene
and the excessive, you want the absurd, the embarrassing - if it was not so unexpectedly far
from the concept of the obscene, excessive or embarrassing: here for example is a woman with
a beehive on her head, another (the same? - but where have I seen her before?) who raises her
skirt, with impeccable expression, cold, anodyne, without embarrassment or any kind of wink,
and shows us what she does not have there, between her legs: an empty niche, that - take a look
- contains a rose. A rose? If we wanted to describe it fully, if we wanted to make a metaphor of
something - a feeling, a desire, a lack - we would not have been able to be so precise, so surgically
precise in describing the similarity between the velvety poetry and the welcoming desire of the
folds of the skirt, and the perfection of the flower, in the middle of that impossible, incongruous
empty space, which is in itself a symbol of something (but what, after all? - we know, perhaps, and
together we do not want to go through with rational or psychological analysis of what that void
will, or can, actually mean, since rational analysis, basically, does not concern us as much as we
are concerned by the image itself that is thrown on us, that strikes us more powerfully and with
greater power of seduction and redemption of some deep, ancestral memory, that seems to belong
to the dawn of time).
It is therefore eminently of dreamlike images, and nothing else, that we are dealing with in the
case of the works of Vittoria Regina: and it is no coincidence, then, that the dreams, and images
that the artist herself finds in dreams, of which she meticulously notes memories as soon as she
wakes up on the little notebooks she keeps beside the bed (the only way, since the world began,
to at least try to fix some vague and muddled annotations from the receding memory of what
happens in that mysterious territory that is the dream process), it is no coincidence, as we were
saying, that it is exactly in dreams that we re-make many of the images arising in the mind of
this singular artist, inventor, writer, director and single actress in her plays and pantomimes, as we
could say, or better yet in her own solitary psychodramas - thus of the plastic and perfectly clear
vision of psychodramas – and it is here and nowhere else, after all, that the images of Vittoria
Regina sends us: psychodrama recited by the artist strictly alone, after careful and meticulous
ritual preparation (as happens in all the ceremonies that claim to conquer new frontiers, new roads
and new scenarios within the mysterious maze that is our unconscious) , played on a few strict rules
and basic grids, from which there then branches off, without a parachute, you might say, what is
without a true pre-established order, without knowing in any way, what this more meticulous and
millimetrically precise preparation could finally provide, the artist herself, when setting off the
whole great machinery of construction, and consequently of choice, of the final image.
In fact, Vittoria Regina first of all prepares the field, the place, the rules, so to speak, and the
method of work of her one-person show: from the initial idea of the image (taken, as we said,
almost always, while not in a totally exclusive manner, from a vision extrapolated from a dream),

the construction of specially made sets for the occasion, the selection and research of accessories,
props and costumes from time to time appropriate to the individual shot, to finally arrive at the key
moment - the shooting moment, in fact - always realised alone, without the help of assistants, as in
a mysterious and prolonged sitting of self-analysis (or even self-hypnosis); then ending, afterwards,
and only afterwards, through complex and intricate post-production work on the image, through
detailed and sophisticated operations of juxtaposition of different images and pictorial-digital
work on the definitive work.
How much is there, then, of Vittoria Regina, the person, the deepest core of her identity, the
ghosts of her unconscious, in the impeccable, rigorous visions that Vittoria Regina, the artist and
performer, extracts from her dreams, to deliver them first on paper, in the form of notes, and then
to the camera in the form of images to be reconstructed meticulously, with the data, elements,
accessories (clothing, hairstyles, jewellery) of which reality provides? And what is there in the
person of Vittoria Regina and her unconscious in the looks, the expressions, the imperturbable
physiognomic geometry that Vittoria Regina the performer, the unique and unequivocal subject
of her pictures, is able to convey to the viewers of her final images? We could, as is often the task
of those curious compilers of similarities and cultural and iconographic references that are art
critics, weary ourselves with finding here a reference to Symbolist images, and thence to Ophelia
transported into an atmosphere of fashion, or further still into a pre-Raphaelite sensibility or, of
course, to the bizarre games of linguistic or visual Chinese boxes of which Salvador Dalí was
a tireless champion. The attempt, though dialectically and philologically correct, would tell us
nothing more of the stunning images of this artist who has, prematurely by her own admission,
stubbornly, almost by destiny, made herself into the privileged actress and single subject, obliged,
by her complex research, at once artistic and psychological, identity-based and formal. The secret
of the photographs of Vittoria Regina, like that of dreams, lies in their not being explained to
the end. Is it Ophelia or Vittoria who is being reflected to herself, beyond a stretch of imaginary
water, perhaps in a long, strange day in which it was her unconscious mind, and not her conscious
self, guiding the photographic lens of Vittoria, the artist? And from what distance comes the
face that emerges unexpectedly behind the baroque setting of an old mirror? What obscure and
unspeakable thoughts does the ominous and disturbing tangle of fabric covering bear within itself,
giving it almost the shape of a strange prehistoric animal, the performer at a time of dimming,
of oblivion: perhaps, who knows, of shame, of the rational self ? That distant memories confront
each other in the mind of the immortalised actress, we would almost say frozen in the act of
performing with her hands, without emotion or joy, one of those childhood pastimes that are
performed by pulling an elastic band in various ways between the fingers? And why is that lobster
stuck right in the middle of her spine? Why the pomegranate, so symbolically linked to the cult
of birth and death, and why has it lost its seeds on the model’s body? The answers, like the source
from which the images came, are placed in the deepest heart of the artist’s soul. And maybe also
a little in all of us.

4 4 /

14

Birth
2009
ultra giclee print
50 x 35 cm

16
Consciousness
2009
ultra giclee print
50 x 35 cm

Passion
2009
ultra giclee print
50 x 35 cm

18

Death
2009
ultra giclee print
50 x 35 cm

20

Memento
2009
ultra giclee print
50 x 35 cm

22
AH #1
2013
C-print
50 x 50 cm

24

AH #2
2013
C-print
50 x 37 cm

26
AH #3
2013
ink jet on Baryta
30 x 20 cm each

AH #4
2013
ink jet on Baryta
30 x 20 cm each

28

FASCINATING

30
FASCINATING #1
2009
digital print on plexiglass
120 x 120 cm

32
FASCINATING #2
2009
digital print on plexiglass
120 x 120 cm

34

36
FASCINATING #3
2009
digital print on plexiglass
120 x 120 cm

38
FASCINATING #4
2009
digital print on plexiglass
120 x 120 cm

40

MEMORIES

42
MEMORIES #1
2016
inkjet on paper
100 x 73 cm

44
MEMORIES #2
2016
inkjet on paper
100 x 73 cm

46

48
Rosening
2013
digital print on plexiglass
114 x 70 cm

50
Temporary portrait
2013
digital print on plexiglass
180 x 120 cm

Unveiled
2013
digital print on plexiglass
180 x 120 cm

52
Le fleur blue
2013
digital print on plexiglass
114 x 70 cm

54
Odissey A
2013
digital print on plexiglass
120 x 120 cm

56
Odissey B
2013
digital print on plexiglass
120 x 120 cm

58

“La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi
sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere.”
John Keats
60
Vittoria Regina, Romana, è nata per creare icone.
Segue studi artistici che la conducono in una ricerca di visioni sulla bellezza, attraverso la fotografia
si spinge nell’analisi dell’autoritratto di cui è meticolosa sperimentatrice.
Vive tra Roma, Milano e Bruxelles dove dopo aver perfezionato la sua tecnica, dedicandosi in
particolare allo studio della luce ispirata anche al suo utilizzo nell’arte fiamminga, espone
in varie gallerie e fiere in Belgio portando avanti un personale concetto di fotografia dallo stile
unico che sfiora il confine con la pittura.
L’innata attitudine per il fashion, altro tratto caratteristico di ogni sua immagine, arricchisce le sue
opere di una freschezza e modernità che destabilizza chi guarda.
Un viaggio visivo a più livelli quello che nasce dai suoi scatti.
Vittoria Regina fonde il suo lavoro di visual artist con quello di performer e musa per diversi
artisti.
“Non ho mai resistito alla tentazione di intrappolare la bellezza in uno scatto d’eterno. Nelle mie
visioni, vi sono percezioni di attimi e cristallizzazioni della perfezione.
Creo icone e nelle mie opere impongono quelle parole che si traducono in immagini e che nascono
dall’ universo onirico a cui attingo per ogni mia ispirazione”.

“Beauty is truth, truth beauty, that is all.
Ye know on earth, and all ye need to know.”
John Keats
Vittoria Regina, from Rome, was born to create icons.
After her artistic studies oriented towards portrait drawing, she continued her path searching for
her visions of beauty, through photography, and finally to the analysis of her self-portrait of
which she is a meticulous experimenter.
Living between Rome, Milan and Brussels she was able to perfect her techniques, focusing
particularly on the study of light inspired by it’s use in Flemish art, she’s been featured in
several galleries and show reinventing a personal concept of photography which gave light to her
unique style, which gazes the borders of painted art.
Her innate attitude for fashion, another characteristic feature of her images, enriches her works
with freshness and modernity that bewilders who is looking at it.
Vittoria Regina is able to create a visual journey on many levels in her photographs.
She fuse her work as visual artist with performance and as muse for several artists.
“I was never able to resist the temptation of trapping beauty in a snapshot of eternity. In my
visions there are perceptions of instants and crystallisation of perfection.
I create icons, my work imposes those words that translate into images which arise from a dreamlike
universe where I get my inspiration from”.

VISIONAREA Art Space
Auditorium della Conciliazione
Via della Conciliazione, 4 - 00193 - Roma
www.visionarea.org