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I CORTOMETRAGGI
6
DIVERSITÀ
Sotto il velo
di Sanà Sadouni Breigheche
Diversity, di Martina Huismann e Marc Eggers,
ci racconta un’esperienza di diversità che
pensiamo di conoscere, per poi svelarci con un
finale a sorpresa che il nostro tentativo di
incasellare la protagonista è fallito
miseramente. Nella società dove la dignità
umana è inviolabile e la libertà di espressione
un caposaldo, una ragazza dall’identità
sconosciuta ci dice di non sentirsi libera, come
è possibile? Il cortometraggio, in programma
nelle matinée per le scuole del Festival, invita
ad avvicinarci a lei, a guardare più da vicino,
senza decidere a priori il suo destino. All’inizio
siamo trasportati nella routine mattutina della
protagonista e abbiamo già deciso la sua
identità, probabilmente pensiamo di avere gli
strumenti per capirlo, ci aspettiamo che lei sia
quello che abbiamo pensato, non può essere
altro.
Quel che più colpisce di questo corto è la
facilità con cui lo spettatore si avvicina alla
storia della protagonista senza alcuno sforzo di
immedesimazione, un avvicinamento che nella
nostra quotidianità non saremmo costretti a
vivere, o che forse non vorremmo vivere.
Colpisce ancora di più il finale che invece di
lasciarci con un’espressione di scetticismo
stampata sul viso ci lascia con un sorriso: è la
forza dell’esperienza umana e della
condivisione che apre dentro ognuno di noi la
voglia di scoprire, di capire chi abbiamo di
fronte con uno sguardo di curiosità e di
rispetto. L’esperienza umana ci coglie
impreparati e ci lascia piacevolmente sopresi di
aver reso nostra uno storia che incontrata per
strada avremmo deciso che non faceva per noi,
che non ci riguardava. La storia della nostra
protagonista è la storia di tante ragazze in Italia
e in Europa che attraverso il loro essere libere
ci raccontano una religiosità diversa in una
maniera disarmante, liberandoci dal fardello
del pregiudizio. Nello scrivere queste righe
penso alla mia storia di ragazza musulmana
italiana e a come effettivamente l’unico modo
per raccontare chi sono non avviene attraverso
grandi discorsi sulla teologia, o sul mio essere
una ragazza culturalmente italiana ma di fede
non cattolica; avviene invece attraverso
un’esperienza di libertà che mi porta a ricoprire
ruoli che forse da una donna velata non ci
aspettiamo. Ma come a tutti, anche a me il
finale del corto lascia un sorriso di stupore, a
dimostrazione che l’identità religiosa, vissuta
con libertà, è una piacevole sorpresa anche per
chi si considera un esperto di diversità.
Dal film Diversity
SE LA MIA IDENTITÀ NON È
'PROFESSIONALE'
Stereotipi e discriminazione
di Clizia Mistretta
La storia, scritta da Chibundu Onuzu e Joan
Iyiola, scrittrice nigeriana la prima, attrice e
sceneggiatrice britannico-nigeriana la seconda,
è diretta da Ethosheia Hylton, originale e
talentuosa regista emergente britannica, la cui
produzione è stata premiata all'American Black
Film Festival 2020. Dọlápọ̀ Is Fine (UK, 2020,
15’) è l'ultimo dei suoi lavori, che verrà
presentato al Teatro Don Bosco di Pergine
Valsugana sabato 25 settembre alle ore 20.30.
Quella in cui ci immergiamo è una potente
narrazione di una giovane donna nera che sta
per lasciare il suo collegio inglese per entrare
nel mondo del lavoro. In una scuola che si
vanta di abbracciare le diversità, Dọlápọ̀
subisce la pressione di doversi assimilare alla
cultura bianca dominante, vedendosi costretta
a slegarsi da qualsiasi legame con la propria.
La contraddizione, che avvolge volutamente
tutta la trama, è evidente da subito nel fatto
che le pressioni provengono principalmente
dalla sua consulente: donna dalle sue stesse
origini che non accetta di rimettere in
discussione se stessa dopo essersi assimilata
completamente alla nuova cultura, al punto di
non mostrare alcuna empatia nei confronti
della stessa Dọlápọ̀. Non solo, una visione più
attenta potrà mostrare la contraddittorietà tra
le parole dette e quelle scritte: "assimilation
first" (assimilazione prima di tutto), sarà
l’ammonimento di Daisy a Dolapò per spiegare
come presentarsi nella City (il centro finanziario
della capitale), mentre "diversity unlimited"
rimane scritto sul cartellino della propria
scrivania. Fin dalle prime immagini del film la
nostra attenzione è portata sull’apparenza e
sulla capigliatura in particolare, cosa che viene
rimarcata anche dai dialoghi iniziali fra la
protagonista e la sua amica: è in questo
momento che conosciamo Dọlápọ̀, anche
attraverso l’invito che fa alla compagna a
focalizzarsi su se stessa e non sull’opinione che
il ragazzo che le piace può avere di lei (“you
need to focus on yourself”). Dọlápọ̀ Is Fine è
una storia di discriminazione e stereotipi, che ci
mostra la crisi identitaria di una giovane donna,
che a partire dalle insicurezze sul proprio nome
si trova alla ricerca del proprio posto nella
società e nel mondo. Dọlápọ̀ accompagna
anche noi, se lo vogliamo, in un percorso di
rimessa in discussione di sé e di ciò in cui
scegliamo di credere.
CHIUNQUE, NESSUNO
Il cinema distopico di Lanthimos
di Mattia Voltolini
Con Nimic (dal rumeno: niente, qualsiasi cosa),
in programma martedì 28 settembre alle 20.45
al Teatro San Marco, ancora una volta il grande
regista greco Yorgos Lanthimos ci porta nel suo
mondo misterioso e grottesco, giocando
magistralmente con una storia di vita
quotidiana resa inquietante e surreale grazie al
sonoro e alle riprese e movimenti di macchina
che caratterizzano il suo cinema visionario.
La musica entra ed esce violentemente nella
scena, scandendo il ritmo e caricando subito
l'atmosfera di tensione e suspense.
Grandangoli, panoramiche, carrellate laterali e
lenti zoom-in seguono un padre di famiglia (un
sempre ottimo Matt Dillon, pienamente in
parte), che durante un giorno qualunque della
sua vita perfettamente scandita da un trantran
sempre uguale si imbatte in una sconosciuta,
incontrata sulla metropolitana, che poco a
poco prende il suo posto. La donna lo
sostituisce come marito, come padre e infine
come elemento dell’orchestra in cui suonava, e
seppur dopo un primo momento di
spaesamento da parte dei figli, che rifiutano di
farsi giudici di chi sia il loro vero padre, lo
scambio viene “ufficializzato” da un’intima prova
familiare. La moglie, stesa sul letto e bendata,
viene abbracciata prima dal marito e poi dalla
sconosciuta. Il ballo appassionato dei piedi con
la sostituta la proclama come vincitrice.
La vicenda, seppur surreale, fa riflettere sulla
questione dell'identità. Chi siamo noi? Cosa ci
distingue dagli altri? Esiste qualcosa che può
renderci insostituibili? Siamo “solo” il ruolo che
svolgiamo?
Il sistema consumistico in cui viviamo ci
continua a martellare sull’importanza di essere
unici, di distinguerci come indispensabile
premessa del successo, e questa storia mostra
per contrasto la paura più grande dell’individuo
occidentale, rivelando una verità di fondo.
La distopia di Lanthimos mette in dubbio le
nostre certezze intorno agli stessi concetti di sé
e di realtà, così interpretando ansie e tendenze
caratteristiche del cinema del terzo millennio.
Dal film Nimic