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Perché perivi (o tenerella)? di Marco Indrigo* Dal punto ... - Carducci

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<strong>Perché</strong> <strong>perivi</strong> (o <strong>tenerella</strong>)?<br />

Analisi dei tempi verbali nel “grande canto” A Silvia<br />

<strong>di</strong> <strong>Marco</strong> Indrigo *<br />

<strong>Dal</strong> <strong>punto</strong> <strong>di</strong> vista dei tempi verbali, le strofe 1, 2 e 3 costituiscono<br />

un unico blocco. L’unico tempo impiegato è l’imperfetto,<br />

con le sole, significative eccezioni dell’incipit (rimembri ancora),<br />

e del v. 26 (Lingua mortal non <strong>di</strong>ce).<br />

Nel verbo dell’incipit, insieme alla persona (tu, allocuzione) 1<br />

e all’aspetto semantico (poetica delle ricordanze), il tempo presente<br />

concorre a suggerire già in nuce tutto il dramma che deve<br />

svolgersi nel canto (speranze della giovinezza frustrate, dalla<br />

morte per Silvia, dal “vero” e dal dolore per l’io lirico; dolcezza<br />

delle ricordanze frustrata dalla <strong>di</strong>sillusione). Lo stilema<br />

leopar<strong>di</strong>ano dell’interrogativa, inoltre, non prevede risposta.<br />

Il presente del v. 26 ha valore assoluto (“nessuna lingua mortale<br />

ha mai potuto, può o potrà <strong>di</strong>re”), ma forse già sottilmente<br />

insinua il tarlo della scissione passato-presente. Non va nemmeno<br />

sottovalutata la recusatio per cui questi versi rappresentano, <strong>di</strong><br />

fatto, la <strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> un’impossibilità.<br />

* Docente <strong>di</strong> italiano e latino.<br />

1 Sull’importanza dell’allocuzione nello stile poetico leopar<strong>di</strong>ano, cfr.<br />

MENGALDO P.V., Sonavan le quiete stanze, Il Mulino, Bologna 2006, cap. II, “Come<br />

iniziano i Canti”, pp. 41 e ss.<br />

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34<br />

<strong>Marco</strong> Indrigo<br />

Così tutto il blocco delle prime tre strofe, apparentemente<br />

de<strong>di</strong>cato alla rievocazione <strong>di</strong> rimembranze “vaghe e indefinite”,<br />

è già costretto dentro la gabbia atroce dello scacco.<br />

*<br />

Nella strofe 4 l’imperfetto quasi sparisce, e subentra il presente.<br />

Solo una volta, al v. 30 (ci apparia), abbiamo un imperfetto, unico<br />

verbo del primo quarto della strofe (vv. 28-31), dove le due<br />

interiezioni sembrano continuare in climax la dolcezza della rievocazione<br />

delle strofe precedenti, ma in realtà contengono almeno<br />

altri due “tarli”: l’avverbio allor che, inavvertito nel suo<br />

peso in quanto parzialmente nascosto tra gli accenti metrici,<br />

pure funge, in modo quasi subliminale, da prologo al prossimo<br />

<strong>di</strong>svelamento della cesura passato-presente, speranze-vero; e il<br />

sostantivo fato, scelta lessicale che connota negativamente il concetto<br />

<strong>di</strong> destino umano, ormai a ridosso del collasso tematico<br />

ed emotivo del canto.<br />

Si noti, en passant, che siamo esattamente a metà canto: i versi<br />

totali sono 63, la chiave <strong>di</strong> volta si trova precisamente tra il v. 31<br />

(ultimo della parte “dolce” – seppure, come abbiamo visto, <strong>di</strong><br />

una dolcezza già “viziata”) e il v. 32 (primo della parte “amara”).<br />

Ed ecco infatti, <strong>di</strong>sseminata lungo gli altri tre quarti della<br />

strofe 4 (vv. 32-39), l’inesorabile sequela <strong>di</strong> sei tempi presenti.<br />

Nel secondo e nel terzo quarto della strofe (vv. 32-35) l’io lirico<br />

riflette “sconsolatamente”, in un presente “sventurato”, sul<br />

dolore non tanto per la per<strong>di</strong>ta in sé delle speranze, quanto per<br />

la ripetuta (tornami a doler) constatazione del contrasto tra la cotanta<br />

speme del passato e la <strong>di</strong>sillusione e desolazione del presente.<br />

Nell’ultimo quarto della strofe (vv. 36-39) il presente ha <strong>di</strong> nuovo<br />

valore assoluto (in qualche modo come al v. 26), o meglio<br />

“cosmico”: è il momento della “protesta <strong>di</strong> Leopar<strong>di</strong>” in questo<br />

canto, l’io lirico apostrofa la Natura “all’islandese”. A conferma<br />

del valore assoluto del presente (e della protesta), abbiamo prometti<br />

(v. 38), che slega l’apostrofe dal contesto del canto (non


<strong>Perché</strong> <strong>perivi</strong> (o <strong>tenerella</strong>)?<br />

“quel che hai promesso allora, a me e a Silvia”, ma “quel che<br />

prometti sempre a tutti i giovani”). In tal modo, tra l’altro, l’avverbio<br />

allor ricorrendo qui esplica ormai tutta la sua valenza <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>sillusione che abbiamo intravista al v. 30.<br />

*<br />

La strofe 5 si svolge <strong>di</strong> nuovo all’insegna dell’imperfetto, senza<br />

nemmeno le eccezioni della prima strofe, anzi il monopolio<br />

dell’imperfetto è rafforzato dal congiuntivo (v. 40 inari<strong>di</strong>sse). Troviamo<br />

persino una forzatura dell’aspetto del tempo verbale al v.<br />

42 (<strong>perivi</strong>) che soppianta marcatamente l’aspetto puntuale <strong>di</strong> un<br />

passato remoto (“peristi”). <strong>Perché</strong> tale marcatura?<br />

Diciamo qualcosa che vale per ogni grande poeta della tra<strong>di</strong>zione<br />

letteraria, ricordando che nel testo leopar<strong>di</strong>ano non vi<br />

è assolutamente nulla <strong>di</strong> casuale. Ma ciò vale tanto più nel caso<br />

<strong>di</strong> Leopar<strong>di</strong>, in quanto egli è consapevole della responsabilità<br />

della sua posizione, al valico tra la poesia classica (e classicista),<br />

e la poesia moderna. Padre della poesia moderna, Leopar<strong>di</strong><br />

infonde in essa tutta intera, ma scevra <strong>di</strong> gravami e alleggerita<br />

<strong>di</strong> ogni orpello, la gran<strong>di</strong>ssima lezione formale dei padri suoi,<br />

classici e classicisti. Lezione <strong>di</strong> equilibrio, controllo, lima, <strong>di</strong><br />

perfetto <strong>di</strong>segno architettonico che spazia dalle più ampie corrispondenze<br />

tra strutture e temi, fino ai minimi dettagli<br />

dell’interpunzione.<br />

Questa dottrina formale, appresa e auto-inoculata nel sangue<br />

con immane travaglio, viene vivificata con sentimento moderno,<br />

e tonificata con l’affinamento <strong>di</strong> uno stile apparentemente<br />

più libero ed essenziale, fino a <strong>di</strong>spiegarsi nel canto <strong>di</strong>steso del<br />

“filosofar poetando”. Libertà apparente, in quanto le regole (o<br />

meglio le regolarità) formali sono in buona parte <strong>di</strong>slocate da<br />

un piano <strong>di</strong> maggiore esteriorità, a un piano <strong>di</strong> profonda (“arcana”)<br />

corrispondenza tra l’enunciato e il dettato interiore. Ogni<br />

minima scelta stilistica <strong>di</strong>viene dunque tanto più accorta, me<strong>di</strong>tata,<br />

essenziale. Ed ecco il mirabile strumento della “canzone<br />

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<strong>Marco</strong> Indrigo<br />

leopar<strong>di</strong>ana”, inaugurato in tutta la sua rigorosa duttilità proprio<br />

con A Silvia.<br />

Ritornando ora al testo, sarà chiaro che non possiamo evitare <strong>di</strong><br />

chiederci perché qui Leopar<strong>di</strong> abbia scelto l’imperfetto <strong>perivi</strong> piuttosto<br />

che il passato remoto “peristi”, più “corretto” dal <strong>punto</strong> <strong>di</strong><br />

vista della consecutio e analogo per quanto riguarda l’aspetto metrico.<br />

Il problema è che, se approfon<strong>di</strong>amo la questione, tutti gli<br />

imperfetti <strong>di</strong> questa strofe ci appaiono strani. È qui l’uso in generale<br />

dell’imperfetto a risultare marcato, dove si evocano i <strong>di</strong>letti<br />

(v. 56) cui Silvia, a rigor <strong>di</strong> termini, “non poté” prendere parte,<br />

perché “perì”. Tanto più che tutti sono facilmente sostituibili,<br />

dal <strong>punto</strong> <strong>di</strong> vista metrico, col corrispettivo passato remoto (a<br />

parte molceva v. 44, ma non sarà stato certo un singolo problema<br />

metrico a indurre Giacomo Leopar<strong>di</strong> a incatenare tutta la consecutio<br />

della strofe a una scelta lessicale!).<br />

La risposta risiede nell’estensione stessa del problema a tutta<br />

la strofe, che è quella in cui forse il dramma della giovane morta<br />

anzitempo scopre il suo fianco più umano. Se, come regola generale<br />

<strong>di</strong> questo canto, gli imperfetti «sottolineano la continuità<br />

domestica ed intima del passato» 2 (il che, del resto, non è che<br />

l’applicazione specifica della principale funzione dell’imperfetto),<br />

non possiamo non considerare che qui essi, <strong>di</strong> quella continuità,<br />

sottolineano la negazione. Non <strong>di</strong>mentichiamo che siamo<br />

oltre la “chiave <strong>di</strong> volta” del canto (vv. 31-32): da lì in poi<br />

non c’è più speranza, il canto è ineluttabilmente sconsolato, ed<br />

evocare la continuità dei <strong>di</strong>letti giovanili, ma in negativo per Silvia,<br />

non fa che rimarcare il dramma della morte anzitempo in<br />

questa strofe “troppo umana.” In altre parole, nell’ambito della<br />

seconda parte del canto è qui che veramente muoiono la “fan-<br />

2 BINNI W., La protesta <strong>di</strong> Leopar<strong>di</strong>, Sansoni, Firenze 1988, cap. XII, “I gran<strong>di</strong><br />

canti pisano-recanatesi del ’28-’30", p. 122.


<strong>Perché</strong> <strong>perivi</strong> (o <strong>tenerella</strong>)?<br />

ciulla popolana” 3 e le sue aspettative, mentre nella strofe precedente<br />

e in quella successiva il poeta piange sostanzialmente sull’infranto<br />

simulacro della cotanta e lacrimata speme (vv. 32 e 55) 4 .<br />

Così, questi tre imperfetti negativi sembrano quasi delicate cicatrici<br />

pronte a riaprirsi, come quando nei sogni ci visitano persone<br />

e sensazioni che nel sogno stesso una parte <strong>di</strong> noi sa essere<br />

passate “remote”, ma che pure suscitano un affetto <strong>di</strong>speratamente<br />

vivo. La poetica delle ricordanze ap<strong>punto</strong>.<br />

E il verbo che ha innescato l’analisi <strong>di</strong> tutta la strofe? Alla fine<br />

<strong>di</strong> tutta questa riflessione, ci accorgiamo che per <strong>perivi</strong> non può<br />

valere la funzione <strong>di</strong> sottolineare la continuità dei <strong>di</strong>letti perduti,<br />

neppure in negativo. Niente è più “puntuale” della morte, niente<br />

come la morte fa piazza pulita <strong>di</strong> illusioni, aspettative, speranze.<br />

<strong>Perché</strong>, allora, <strong>perivi</strong>?<br />

Possiamo facilmente in<strong>di</strong>viduare una ragione <strong>di</strong> carattere fonico<br />

e stilistico, una sorta <strong>di</strong> “attrazione temporale” per cui, dato ciò<br />

che abbiamo osservato per i tre imperfetti successivi, un passato<br />

remoto qui avrebbe fortemente alterato la tonalità generale della<br />

strofe, <strong>di</strong> una malinconia così delicata e struggente.<br />

Ma la scelta dell’imperfetto <strong>perivi</strong> vuole forse qui suggerire anche<br />

un aspetto negativo della continuità, un aspetto <strong>di</strong> pena legato<br />

alla lotta col chiuso morbo evocata nel verso precedente (41).<br />

Avvertiamo in questo imperfetto, per la prima volta nel canto,<br />

che non solo i <strong>di</strong>letti e la letizia per il vago avvenir (futuri o<br />

rimembrati) si estendono nel tempo, ma anche la sofferenza<br />

fisica ha un carattere penoso <strong>di</strong> durata. Se ci lasciamo coinvolgere<br />

dall’intensità umana <strong>di</strong> questa strofe, e quin<strong>di</strong> anche dalla<br />

concretezza della sofferenza della giovane <strong>tenerella</strong>, ci sarà più<br />

3 Ivi, p. 122.<br />

4 Con tutta l’ambiguità polisemica, naturalmente: sappiamo che Silvia incarna<br />

anche la Speme.<br />

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<strong>Marco</strong> Indrigo<br />

facile percepire la durata della lotta, nel corso della quale lei sarà<br />

stata combattuta e vinta dal chiuso morbo, la tisi.<br />

Perivi: quasi che della morte qui si voglia connotare la corrosione<br />

<strong>di</strong> quel che resta della vita, e non tanto il <strong>punto</strong> in cui il<br />

sipario calò. Non tanto l’estremo spirare, quanto piuttosto l’ultimo<br />

atto nel suo complesso, l’estrema consunzione (“de-perire”) 5 .<br />

*<br />

Non manca peraltro – e siamo alla strofe 6 – il verbo puntuale<br />

della morte. Lo incontriamo, irrevocabile abisso orrido, immenso, 6<br />

poco più avanti sulla strada della nostra lettura: cadesti (v. 61).<br />

Tanto più marcato, se la nostra memoria <strong>di</strong> lettori è riuscita a<br />

mantenere una visione d’insieme, permettendoci <strong>di</strong> abbracciare<br />

la coesione degli elementi architettonici. Ed ecco che, con un<br />

superbo effetto <strong>di</strong> chiaroscuro ottenuto me<strong>di</strong>ante le curvature<br />

dei tempi verbali e del lessico, ci si manifesta la compiuta<br />

giustapposizione strutturale tra il verbo “in levare” della prima<br />

strofe, e questo verbo “in battere”: salivi... cadesti.<br />

Non c’è, in quest’ultima strofe, un tempo dominante, quanto<br />

piuttosto una ricca modulazione.<br />

Il primo verbo è peria, che istituisce una corrispondenza con<br />

<strong>perivi</strong> del v. 42, segnalata peraltro dalla congiunzione anche: “come<br />

tu, Silvia, (de)<strong>perivi</strong> e morivi prima che l’inverno inari<strong>di</strong>sse la<br />

vegetazione, ovvero prima che l’età matura giungesse a infrangere<br />

le tue illusioni e speranze giovanili, anche le mie dolci speranze<br />

sarebbero morte <strong>di</strong> lì a poco”. Ancora un altro uso del-<br />

5 Per questo significato del verbo “perire” in Leopar<strong>di</strong>, cfr. Canto notturno <strong>di</strong><br />

un pastore errante dell’Asia, v. 67: e perir della terra.<br />

6 È il terribile v. 35 del Canto notturno <strong>di</strong> un pastore errante dell’Asia, nel quale il<br />

pastore rappresenta icasticamente il nulla, il precipizio <strong>di</strong> oblio che si trova<br />

alla fine della travagliata vita umana.


<strong>Perché</strong> <strong>perivi</strong> (o <strong>tenerella</strong>)?<br />

l’imperfetto dunque, che viene piegato qui a sostituire un con<strong>di</strong>zionale<br />

con funzione <strong>di</strong> futuro nel passato, con l’ausilio dell’in<strong>di</strong>cazione<br />

temporale: fra poco.<br />

Anche peria fra poco<br />

Non solo la delicata corrispondenza col v. 42, non solo la<br />

concisa, lapidaria, superba soluzione metrico-ritmica del<br />

settenario con enjambement, ma anche l’effetto straniante dell’impiego<br />

dell’imperfetto per il futuro nel passato, sottolineato<br />

dall’in<strong>di</strong>cazione della prossimità <strong>di</strong> quel futuro. E non solo<br />

questo.<br />

Leggiamo tutto il periodo dei primi quattro versi della strofe<br />

(49-52): il verbo e il verso <strong>di</strong> cui ci siamo occupati finora funzionano<br />

anche come elementi <strong>di</strong> una perfetta perla architettonica,<br />

un’altra, più piccola, chiave <strong>di</strong> volta: anche peria... anche negaro. Con<br />

l’anafora sono qui posti in corrispondenza simmetrica due momenti<br />

che si collocano alle due parti opposte rispetto alla cesura<br />

della <strong>di</strong>sillusione: con peria fra poco siamo in un tempo che precede<br />

la cesura (seppure con tutta la condensazione drammatica<br />

del “senno <strong>di</strong> poi”), mentre negaro è il verbo della sentenza definitiva,<br />

della sconsolata presa <strong>di</strong> coscienza dell’arido vero. Al<br />

passato remoto, non a caso: <strong>di</strong> nuovo “in levare” e “in battere”<br />

dunque, come abbiamo visto per <strong>perivi</strong> e cadesti, ma nel più stretto<br />

cerchio strutturale dell’anafora.<br />

Il passato remoto negaro intensifica inoltre la valenza perentoria<br />

del significato stesso del verbo: il quale raccoglie quasi il<br />

frutto della <strong>di</strong>sseminazione <strong>di</strong> avverbi negativi che abbiamo visto<br />

nella strofe precedente.<br />

Veniamo ora all’unico passato prossimo del canto, passata sei<br />

(v. 53). È la costruzione ad anastrofe, a in<strong>di</strong>carci il valore soprattutto<br />

metrico-fonico della scelta <strong>di</strong> questo tempo. Il sei spostato<br />

alla fine del verso, con la sibilante “s” (peraltro in allitterazione<br />

con passata) che si scioglie per un attimo nella “e” accentata del<br />

<strong>di</strong>ttongo, il quale poi si chiude nella “i” come per un rinnovato<br />

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<strong>Marco</strong> Indrigo<br />

dolore, non fa che prolungare il lamento aperto dall’interiezione<br />

ahi e sostenuto con l’ana<strong>di</strong>plosi <strong>di</strong> come:<br />

... Ahi come,<br />

come passata sei...<br />

Questa è peraltro la strofe in cui più fitte ricorrono le figure<br />

della ripetizione: Anche... anche (vv. 49 e 51); come, come (vv. 52-<br />

53); mia... mia (vv. 54-55); Questo... questi... Questa (vv. 56 e 59).<br />

Viene accentuato così l’effetto <strong>di</strong> climax della perorazione. L’acme<br />

sta proprio nell’interiezione dei vv. 52-55. Segue l’amara sequenza<br />

delle tre domande retoriche dei vv. 56-59 (resa quasi grottesca<br />

dall’aperta paro<strong>di</strong>a dell’incipit ariostesco al v. 57), dove si<br />

contrappuntano i due tempi verbali, lo sconsolatamente presente<br />

è (v. 56), e il definitivo passato remoto ragionammo (v. 58).<br />

Ed eccoci agli ultimi versi, in cui si concentra una suprema<br />

modulazione <strong>di</strong> tempi e mo<strong>di</strong> verbali, così da creare quasi un<br />

rapido movimento d’onda che sommerge inesorabile ogni residuo<br />

<strong>di</strong> “vago e indefinito”: All’apparir... cadesti: e... mostravi.<br />

Quattro versi essenziali, lapidari, apparentemente “ignu<strong>di</strong>”,<br />

ma accuratamente intessuti nei suoni, nei ritmi, nelle figure. Per<br />

non allontanarci troppo dal proposito <strong>di</strong> quest’analisi, ci limitiamo<br />

a notare l’agghiacciante chiasmo del v. 62, nel cui fatale abbraccio<br />

sono unite per sempre la fredda morte, nella sua universalità<br />

accennata dall’articolo determinativo la, ed una tomba ignuda,<br />

dove una esprime insieme l’indeterminatezza che fa <strong>di</strong> una tomba<br />

un simbolo, ma anche l’unicità <strong>di</strong> “quella” tomba.<br />

Abbraccio definitivo, tra lo scacco universale e una sofferenza<br />

in<strong>di</strong>viduale. Così, il tempo verbale dell’ultimo verso è <strong>di</strong> nuovo<br />

quello della continuità, ma una continuità privata ormai del<br />

residuo dolce-amaro della “ricordanza” che abbiamo visto nelle<br />

strofe precedenti. È la continuità <strong>di</strong> un <strong>di</strong>svelamento avvenuto<br />

nel passato in<strong>di</strong>viduale che sconfina nella legge dell’eterno, <strong>di</strong>sumano<br />

or<strong>di</strong>ne delle cose: mostravi.

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