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Ground Zero e oltre - Arch-Metron

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<strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> e <strong>oltre</strong><br />

Traiettorie urbatettoniche per il XXI secolo<br />

(PARTE I)<br />

di Mariopaolo Fadda


1. INTRODUZIONE<br />

La prima infanzia dell’architettura moderna, l’epoca eroica dei maestri, quella<br />

che mira ad una nuova organizzazione spaziale attraverso la funzione (Virilio),<br />

si infrange contro le distruzioni della seconda guerra mondiale e la barbarie dei<br />

totalitarismi, e finisce nel binario morto di una sterile, precoce senilità. La seconda<br />

infanzia, quella che punta a soddisfare i nuovi modi vita della “affluent<br />

society”, si isterilisce nel freddo e distaccato International Style. La terza, che<br />

ha come atto di nascita la mostra del MoMA nel 1988 sul decostruttivismo, è<br />

dirompente, straripante e impone l’architettura all’attenzione del grosso pubblico<br />

e dei media. Un successo carico però di insidie e pericoli, che fatica a superare<br />

quegli ostracismi che avevano segnato il destino dei maestri. Allora le difficoltà<br />

erano dovute a carenze comunicative, oggi sono invece dovute, paradossalmente,<br />

ad un eccesso di comunicazione. Se a questo aggiungiamo gli effetti<br />

deleteri del rapido consumo delle forme e delle mode, i risultati non sembrano<br />

confermare le premesse. L’edificio firmato diventa, alla stregua di una<br />

cravatta, un pezzo da esibire e ostentare, l’architetto di grido è oggetto di attenzioni<br />

reverenziali, la tecnologia digitale assurge ai livelli di culto, il formalismo<br />

dilaga incontrastato. In questo contesto la disciplina si fa prendere la<br />

mano, da un lato, dalla crescente spettacolarizzazione fine a sè stessa, da un<br />

marcato disimpegno sociale, dalla cinica gestione affaristica e, dall’altro, da un<br />

intellettualismo esasperato. Prevale su tutto un atteggiamento da re Mida che<br />

trasforma in oro quello che tocca inebriando il pubblico plaudente e i media,<br />

sempre alla ricerca del sensazionale.<br />

L’architettura sembra smarrire i propri valori etici, sociali e artistici che ne avevano<br />

segnato il destino, nel bene e nel male, per tutto il XX secolo. Una caduta<br />

di tensione che offre terreno fertile al variegato mondo allergico alla modernità<br />

che così può dare sfogo alla propria rabbia qualunquista.<br />

Ma l’11 settembre 2001 il re si ritrova, improvvisamente, nudo. Con le Twin<br />

Towers crolla quel mondo effimero dell’apparenza che molti, troppi architetti<br />

scambiavano con quello reale. Un uragano piomba nel contesto architettonico<br />

urbanistico contemporaneo, scombinandolo e scuotendolo con forza e violenza,<br />

come nessun altro avvenimento recente è stato in grado di fare, facendo venire<br />

al pettine nodi non sciolti, debellando certezze acquisite, alimentando incomprensioni,<br />

accendendo furibonde polemiche. Un salutare scossone alle inerzie<br />

e agli appisolamenti intellettuali.<br />

<strong>Ground</strong> zero è un azzeramento radicale, brutale con cui la moderna cultura architettonica<br />

si trova a dover fare i conti. La pianificazione, l’urbanistica, l’architettura<br />

con le loro glorie e miserie vengono scaraventate sulle prime pagine dei<br />

quotidiani e sottoposte al giudizio, talvolta impietoso, dei cittadini. Una riflessione<br />

collettiva che si esprime nei modi più imprevisti e sorprendenti: nascono<br />

gruppi professionali di studio, vengono organizzate esibizioni di proposte progettuali,<br />

scuole di architettura impegnano gli studenti in esercitazioni accademiche,<br />

quotidiani e critici chiamano a raccolta teams per esprimersi sull’argomento,<br />

semplici cittadini fanno sentire, nei modi più disparati, la propria voce.<br />

Mai particella urbana fu più indagata, studiata, scavata, rivoltata. Chi, non solo


tra gli architetti, non ha pensato per un attimo a come intervenire in quel sito<br />

di Lower Manhattan, New York? Chi non avuto, un lampo, una visione sul memorial?<br />

Chi non si è sentito parte in causa nella contrapposizione tra ricostruire<br />

e non ricostruire? Chi non si è sentito coinvolto nella diatriba tra la raffinatezza<br />

culturale delle proposte progettuali e i diabolici interessi commerciali?<br />

Per la prima volta nella storia, dai tempi delle cattedrali medievali e gotiche, il<br />

cliente è stato un’intera comunità. Una comunità che, sfruttando appieno e<br />

senza timidezze le potenzialità di quello strumento mediatico che è ormai internet,<br />

ha messo a nudo la sostanziale impreparazione dei tradizionali canali di<br />

mediazione (politici, culturali, informativi) colti di sorpresa dall’irruzione, nei<br />

loro mondi ovattati, degli strepitii, delle urla del villaggio globale.<br />

Il potere politico, finchè ha potuto, è rimasto dietro le quinte mandando in<br />

avanscoperta la Lower Manhattan Development Corporation, l’agenzia creata<br />

ad hoc per la ricostruzione, poi, a fronte della clamorosa débacle del 20 luglio<br />

2002, esce allo scoperto cavalcando le istanze di novità e cambiamento emerse<br />

dalla partecipazione pubblica al processo. Il cerimoniale politico-mediatico però<br />

si esaurisce presto e gli interessi commerciali prendono inevitabilmente il sopravvento.<br />

Imperversano i compromessi più avvilenti e il piano vincente di Daniel<br />

Libeskind viene svuotato punto per punto. La stanchezza generalizzata e<br />

una brusca caduta di tensione ideale fanno il resto.<br />

La grande stampa quotidiana sempre pronta a rivendicare la rappresentanza di<br />

una fantomatica opinione pubblica, si è trovata spodestata del suo ruolo dal dibattito<br />

reale che, privo di filtri e mediazioni, si svolgeva in altri canali. Non le è<br />

rimasto che farsi portavoce di ristrette cerchie culturali che, con atteggiamento<br />

saccente verso il potere politico e verso il pubblico, hanno sponsorizzato iniziative<br />

élitarie. Quando Herbert Muschamp, il critico di architettura del New York<br />

Times ha presentato la sua iniziativa si è visto subito che l’autorevole quotidiano<br />

non era in sincronia con la “pubblica opinione”. Un’operazione palesemente<br />

autocelebrativa del suo critico che ha creato anche contraccolpi redazionali.<br />

Questo attivismo critico-progettuale della carta stampata non è una novità assoluta<br />

che va invece ascritta ad internet, grazie al quale il dibattito assume<br />

proporzioni vistose e mette l’architettura e l’urbanistica all’ordine del giorno<br />

delle discussioni e dei dibattiti di ampie fasce di cittadini normalmente tagliati<br />

fuori da queste problematiche. Su forums proliferati come funghi, un gran numero<br />

di essi discute per giorni e settimane di “funzioni integrate”, di “volumetrie<br />

residenziali e commerciali”, di “programmi edilizi”, di “bathtub”, di “city in<br />

the sky”, di “pareti che traspirano”, di “torri che si attorcigliano”. I cittadini non<br />

si lasciano sfuggire l’occasione per far sentire finalmente la propria voce in decisioni<br />

che avranno ampie ripercussioni sul loro habitat. E non importa se fisicamente<br />

abitano a Portland, a Wichita o a Houston; identificano quel sito di<br />

macerie ancora fumanti con un pezzo della loro città, con il loro quartiere. Una<br />

presa di coscienza, a livello di grosso pubblico, sugli aspetti quantitativi e qualitativi<br />

del contorno fisico che costringe architetti e critici ad aggiornare le proprie<br />

metodologie e la propria strumentazione. Gli architetti non hanno più alibi<br />

per tirarsi fuori dalla mischia, gli strumenti tecnologici che hanno consentito di<br />

imprimere una svolta profonda alla disciplina sono gli stessi che il pubblico ora<br />

usa per farsi sentire.


Grazie alla conoscenza diffusa cadono uno dopo l’altro santuari e monopoli che<br />

sembravano inviolabili; i critici finiscono essi stessi nell’occhio del ciclone. Il<br />

loro attivismo a sostegno ora di una ora di dell’altra proposta si scontra con la<br />

determinazione dei politici a non farsi sopraffare da circoli minoritari, per quanto<br />

prestigiosi, e dei cittadini poco disposti ad essere ancora trattati come massa<br />

grigia e amorfa da manipolare a piacimento.<br />

La nota galleria d’arte new yorkese Max Protetch lancia, appena tre mesi dopo<br />

l’attacco terroristico, un’iniziativa priva di ogni velleità professionalistica: invita<br />

circa 125 tra artisti, architetti e teams professionali a fare proposte per la ricostruzione<br />

del World Trade Center. Risponderranno in 58, quindi meno della<br />

metà degli invitati. Pochissimi li ritroveremo tra i finalisti del concorso ufficiale.<br />

L’iniziativa, benchè sconsideratamente sottovalutata, ha un grande merito:<br />

prepara la strada per il concorso internazionale mentre alla LMDC sono tutti intenti<br />

a burocratizzare il processo di ricostruzione. Sarà il pubblico a spianare<br />

definitivamente la strada bocciando senza appello i sei schemi che l’agenzia<br />

presenta nel luglio del 2002. Un processo veramente nuovo e sorprendente che<br />

culmina nel più importante e seguito concorso internazionale degli ultimi decenni.<br />

Un concorso che ha fatto discutere e che continuerà a far discutere perchè<br />

la sfida non era limitata alla ricostruzione di quel sito particolare ma è stata<br />

intesa da molti come una sfida per le prospettive future della pianificazione<br />

urbana e dell’architettura.<br />

La partecipazione all’evento è stata massiccia e qualificata: 58 teams all’iniziativa<br />

della Max Protetch Gallery, 16 a quella del New York Times, 7 a quella del<br />

New York Magazine e 405 al concorso ufficiale.<br />

Alcuni teams, ed alcuni architetti individualmente, partecipano a più di una iniziativa.<br />

Tra i finalisti della competizione: Steven Holl è l’unico che partecipa sia<br />

alla mostra della Max Protetch Gallery che al team Muschamp; Peter Eisenman<br />

e Zaha Hadid partecipano sia al team Muschamp che al team Giovannini; Daniel<br />

Libeskind, Greg Lynn, Shigeru Ban e Foreign Office <strong>Arch</strong>itects partecipano<br />

alla mostra della Max Protetch Gallery; Charles Gwathmey, Richard Meier, Rafael<br />

Viñoly, Frederic Schwartz e David Rockwell partecipano al team Muschamp;<br />

Peterson/Littenberg, Norman Foster e SOM non partecipano a nessuna<br />

delle iniziative pre-concorso.<br />

Tutti i migliori architetti, in un modo o in un altro, hanno detto la loro nel dibattito<br />

apertosi sulla ricostruzione del sito di Lower Manhattan, consentendo<br />

così di valutare in quale misura la cultura architettonica odierna sia in grado di<br />

rispondere in modo immediato e diretto non solo ai desideri e alle pulsioni ma<br />

anche alle concrete necessità di un’intera metropoli. Ne è venuto fuori un quadro<br />

generale non solo sulle tendenze urbanistiche ed architettoniche in corso,<br />

ma anche sul ruolo futuro della disciplina nei suoi risvolti intellettuali, professionali,<br />

etici. E il quadro è quanto mai vario ed articolato, con vaste zone d’ombra<br />

ma anche ampi squarci luminosi che fanno ben sperare.<br />

La ricerca architettonica ha ormai conquistato le prime pagine dei quotidiani,<br />

gli architetti sono contesi dai programmi di intrattenimento al pari delle stars<br />

cinematografiche, la ricerca del prodotto “firmato” si fa spasmodica. Emergono<br />

insieme ad idee brillanti, soluzioni geniali e splendide realizzazioni, comporta­


menti aggressivi e atteggiamenti professionalmente disinvolti. La disciplina<br />

sembra prigioniera del proprio stesso successo, un successo più apparente che<br />

reale. Le conseguenze si fanno sentire. Anche quella ristretta cerchia che rifiutava<br />

ogni contaminazione delle proprie teorie con la realizzazione pratica sembra<br />

ricredersi. E non possiamo che rallegrarcene, perchè riteniamo eticamente<br />

riprovevole ritirarsi in un, dorato o meno, esilio intellettuale mentre le nostre<br />

città e il nostro territorio vengono saccheggiati da orde di professionisti e imprenditori<br />

senza scrupoli.<br />

L’organizzazione professionale si riconfigura sulla scia dei rivolgimenti sociali,<br />

economici e tecnologici. Il lavoro collettivo ed interdisciplinare soppianta la figura<br />

del creatore solitario che non riesce più a districarsi nella rete di relazioni<br />

multidirezionali che governa la società contemporanea. Lo slogan “pensa globalmente<br />

e agisci localmente” è in campo professionale ben più che uno slogan:<br />

è una necessità, senza la quale si scade nel folclore locale o nel gelido<br />

pragmatismo di un International Style di ritorno.<br />

La critica che deve essere sempre in prima linea pronta a difendere le idee originali,<br />

le voci eretiche ma anche a contrastare le cadute di tensione, i cedimenti<br />

commerciali, le fughe in avanti sembra abbia rinunciato – o almeno la maggior<br />

parte di essa - al suo ruolo per assumere quello meno litigioso ma più<br />

appagante del maestro di cerimonia. In questo panorama emergono i professionisti<br />

più scaltri e furbi che vengono incensati ben <strong>oltre</strong> i loro meriti. La reazione<br />

degli esclusi, da questi riti autopromozionali, è feroce. Voci più arrabbiate<br />

che critiche travolgono tutto e tutti, con ingiustificato accanimento attaccano i<br />

Gehry, i Libeskind, le Hadid, i Koolhaas che per quanto “disinvolti” nei loro interventi<br />

non produrranno mai i danni che producono le Redevelopment Agencies<br />

o gli uffici di pianificazione delle amministrazioni civiche. Attaccano chi cerca<br />

di elevare la qualità del nostro habitat ma si disinteressano della burocrazia<br />

che codifica la mediocrità. Scrivono pagine e pagine di ridicole stroncature su<br />

chi tenta adeguare i nostri ambiti urbani alle esigenze della vita contemporanea<br />

ma non scrivono una sola riga su chi li vuole trasformare in banali caricature<br />

di Disneyland. Polarizzandosi tra mielose idolatrie e irresponsabili stroncature<br />

la critica architettonica rischia di scadere in passiva cassa di risonanza di<br />

contrapposizioni fideistiche e ideologiche.<br />

Questi i temi più rilevanti che la vicenda di ground zero ha messo in evidenza,<br />

temi relativi non solo alla complessa vicenda new yorkese ma anche alle nuove<br />

sfide che vedono e vedranno impegnata la cultura architettonica contemporanea<br />

negli anni a venire, e sui quali il dibattito è aperto.


2. LE PROPOSTE INFORMALI<br />

Prima che la LMDC decidesse di indire il concorso internazionale alcune iniziative<br />

informali hanno svelato quanto indispensabile fosse un confronto di idee per<br />

la ricostruzione del devastato sito del World Trade Center. Le proposte sono<br />

state avanzate nei modi più disparati da circoli professionali, accademici, artistici,<br />

giornalistici che hanno coinvolto praticamente tutta la cultura architettonica<br />

contemporanea.<br />

In questo capitolo vogliamo esaminare le tre principali, e più discusse, iniziative,<br />

quelle che hanno anticipato nel tempo, e in alcuni principi-chiave, le proposte<br />

del concorso ufficiale.<br />

L’iniziativa della Max Protetch Gallery di New York può essere assimilata ad una<br />

sorta di moderno mecenatismo applicato ad un contesto urbano-architettonico.<br />

Le proposte esibite, prive di ogni riscontro professionalistico, sono un rarissimo<br />

esempio di spirito partecipativo, assolutamente disinteressato e nobile che sfocia,<br />

in alcune di esse, in atti di pura poesia o di muta testimonianza. Un rarissimo<br />

esempio in cui gli architetti si esprimono non con il freddo linguaggio dei<br />

numeri, della geometria, della ideologia ma attraverso il linguaggio più diretto<br />

ed intimo delle emozioni, delle visioni, delle riflessioni, degli incubi, dei desideri.<br />

Un’esibizione che dimostra come gli architetti, benchè disorientati e sconcertati<br />

dalla distruzione terroristica, non rinunciano al loro ruolo, anzi sono pronti<br />

a discuterlo e a ridiscuterlo, senza inibizioni e senza falsi moralismi. Una mostra<br />

che documenta quali livelli lirici è in grado di raggiungere l’espressione architettonica<br />

quando incontra la vita. In questo contesto emergono non pochi<br />

temi della ricerca contemporanea che vanno dalle radici storiche, al digitale,<br />

dagli edifici intelligenti alla dimensione urbana.<br />

Diverso l’approccio del New York Times e di New York Magazine. Herbert Muschamp<br />

e Joseph Giovannini, critici di architettura del quotidiano e del settimanale,<br />

sfidando l’inevitabile reazione dell’establishment culturale di cui loro stessi<br />

sono parte, organizzano due jam-sessions architettoniche con alcune delle<br />

firme più prestigiose del panorama contemporaneo.<br />

L’iniziativa di Muschamp è tanto ambiziosa quanto impraticabile; si promette<br />

infatti di ridisegnare, con uno schema urbanistico molto generico, tutta Lower<br />

Manhattan. Su questo schema, imperniato linearmente su West Street, si innestano<br />

le proposte di ciascun team progettuale. I progetti sono in gran parte localizzati<br />

in aree esterne a ground zero che viene destinata quasi esclusivamente<br />

ad istituzioni culturali. Una destinazione che la fa apparire come una delle ricorrenti<br />

Expo dove il pubblico viene sedotto con le più eclatanti novità tecnologiche,<br />

in padiglioni progettati ad hoc.<br />

Quella di Giovannini assegna invece a ciascun team il compito di elaborare una<br />

proposta progettuale complessiva per l’intera area (qualche team si espande<br />

nelle aree contermini coinvolgendole nel processo di ricostruzione). Qui le proposte<br />

sono focalizzate principalmente sull’area specifica, con inevitabili rimandi<br />

anche al contesto, ma senza la presunzione di mettere sottosopra l’intero assetto<br />

urbano.


Due iniziative che, da un lato intendono premere sulla LMDC perchè abbandoni,<br />

nel processo di ricostruzione, la strada burocratico/commerciale, per imboccare<br />

quella del concorso internazionale, dall’altro tentano di suggerire soluzioni,<br />

sollevando, contemporaneamente dubbi e riserve sia nel merito che nella<br />

sostanza.<br />

Benché accolte generalmente con freddezza e indifferenza le tre iniziative raggiungono<br />

lo scopo principale che si erano prefisse: il concorso internazionale<br />

non è, ormai, più procrastinabile.


2.1. Mostra alla Max Protetch Gallery<br />

A pochi mesi dal criminale attentato alle Twin Towers, Max Protetch, noto gallerista<br />

di New York, organizza in collaborazione con Aaron Betsky 1 , con gli<br />

staffs delle riviste <strong>Arch</strong>itectural Record e <strong>Arch</strong>itecture, una mostra con le proposte<br />

a caldo di architetti e artisti per la ricostruzione dell’World Trade Center.<br />

La mostra, che si tiene dal 17 gennaio al 16 febbraio del 2002, è il primo serio<br />

tentativo di convincere l’autorità pubblica ad indire un concorso internazionale<br />

di idee e si rivela come una gigantesca seduta psicanalitico-catartica che coinvolge<br />

la comunità artistico-architettonica portandone allo scoperto umori, perplessità,<br />

inquietudini, smarrimento. Una seduta da cui emerge una riflessione<br />

liberatoria sullo stato attuale della disciplina, sui suoi valori sociali e formali,<br />

sulle sue radici storiche e sulle prospettive future più immediate. Una seduta<br />

che evidenzia anche la voglia e la volontà di ribadire l’impegno sociale, culturale,<br />

propositivo e creativo di una parte consistente del mondo culturale architettonico<br />

contemporaneo.<br />

E, a ribadire l’estrema validità dell’operazione, scopriamo che alcune idee forti<br />

che verranno sviluppate da alcuni dei sette teams del concorso ufficiale sono in<br />

embrione nelle proposte presentate alla mostra della Max Protetch Gallery. È il<br />

caso dell’idea di LOT-EK che pone l’accento sul valore simbolico-progettuale<br />

della ‘bathtub’ e che sarà uno dei punti forti della proposta vincente di Libeskind.<br />

É il caso della ‘Bunch Tower’ di Foreign Office <strong>Arch</strong>itects, un fascio di<br />

torri che si piegano, si curvano per toccarsi in più punti a creare vaste aree comuni<br />

nelle parti alte degli edifici, un’idea che troviamo sia nel progetto di Foster<br />

che di Meier & C. e, al massimo grado, nel progetto di United <strong>Arch</strong>itects di<br />

cui i Foreign Office <strong>Arch</strong>itects fanno parte. Ma lo sviluppo orizzontale ai livelli<br />

alti dei grattacieli è idea che Hans Hollein rumina sin dagli anni sessanta e che<br />

ripropone nella sua visione del nuovo WTC. La stessa idea affiora, sia pur velatamente,<br />

anche nello schizzo di Coop Himmelblau. Le ombre che si prolungano<br />

sino all’Hudson River del progetto di Meier & C. ricordano molto da vicino le<br />

ombre della non-proposta di Eric O. Moss.<br />

Per molti versi l’esibizione sembra più interessante dello stesso concorso ufficiale.<br />

Oltre a presentare idee brillanti e ponderate riflessioni ha dato l’opportunità<br />

a tutti di esprimersi per via diretta attraverso pochissimi elaborati progettuali<br />

ed una breve descrizione (solo alcuni hanno si sono dilungati), senza dover<br />

ricorrere alle costose e scenografiche esibizioni del concorso ufficiale. Un<br />

dato su cui riflettere: una delle proposte più interessanti, denominata SPREAD<br />

(Social Platform Readily Engaged in Active Development), è opera non di un<br />

architetto ma di una artista, Mel Chin.<br />

Nell’analizzare le proposte più interessanti possiamo ricorrere ad una schematizzazione<br />

riconducibile a 4 temi/pulsioni che vanno dal rifiuto/ripensamento<br />

della ricostruzione, alla riflessione su antiche civiltà, all’approccio urbano, alla<br />

tecnologia d’avanguardia, al digitale e alla comunicazione elettronica.<br />

1. Aaron Betsky è il direttore dell’Istituto Olandese di <strong>Arch</strong>itettura.


2.1.1. Rifiuto/ripensamento della ricostruzione<br />

Ad appena tre/quattro mesi dall’attentato è ancora molto forte non solo il rifiuto<br />

della pura e semplice ricostruzione delle due torri-simbolo ma ogni prospettiva<br />

di ricostruzione del WTC. Un profondo disagio sembra attanagliare alcuni<br />

teams. Anche per quelli che ritengono indispensabile una qualche ricostruzione,<br />

il vuoto nell’area assume quasi il valore di un assioma. Alcuni dal disagio traggono<br />

solo la forza di una testimonianza muta e simbolica.<br />

Per <strong>Arch</strong>i-Tectonics, è difficile pensare, a caldo, alla ricostruzione dopo una tragedia<br />

di tale dimensione “Dopo un atto di terrorismo globale come quello della<br />

distruzione del World Trade Center, non è facile iniziare a pensare ad un ‘rimpiazzamento’.<br />

Importante appare, a questo punto, non un ‘rimpiazzamento’ o<br />

la ‘ricostruzione’ delle torri gemelle, ma un loro ripensamento.” 2<br />

È chiaro che, superata la fase emotiva, sarà pur sempre necessario mettere<br />

mano a quell’area devastata e allora la riflessione dovrà essere ampliata non<br />

solo sino a comprendere gli aspetti urbanistici ed architettonici, ma anche i valori<br />

che essi rappresentano. “Non solo un ripensamento delle mutevoli condizioni<br />

urbane e dello sviluppo futuro dell’area, ma anche delle nuove tipologie<br />

architettoniche. Dopo tutto, le due torri sono state distrutte non perché erano<br />

alte o architettonicamente di valore, ma sono state attaccate quale simbolo del<br />

potere mondiale. Il ripensamento dell’area richiederebbe così, non solo, l’apporto<br />

dell’architettura, ma anche di ciò che essa rappresenta...” 3<br />

Mel Chin prova disagio a parlare di architettura in un’epoca in cui le armi di distruzione<br />

di massa mandano in briciole l’ancestrale bisogno umano di un rifugio,<br />

“Scorie nucleari, bombe anti-bunker e esplosivi termobarici asfissianti<br />

hanno posto fine all’utilità di un riparo, in uso sin dall’alba dell’esistenza umana:<br />

la caverna. Il problema non è quale edificio costruire per rimpiazzare i rifugi<br />

del passato ma che direzione prendere nel costruire per il futuro (...)” 4 .<br />

Hariri & Hariri rifiutano il memorial fisico e preferiscono affidare il ricordo ad<br />

un’evento “... Quale memorial rigettiamo un memorial fisicamente sentimentale<br />

con targhe con il nome della gente, panchine, specifici artefatti ecc... Proponiamo<br />

invece un evento annuale, un raduno mondiale, l’11 settembre, un<br />

giorno in cui la gente si ritrova nel sito – in realtà e virtualmente – per piangere,<br />

scambiare idee, comunicare, fare mostre ed esibizioni o semplicemente per<br />

stare l’uno con l’altro.” 5<br />

2. Dalla relazione di Winka Dubbeldam per <strong>Arch</strong>i-Tectonics sull’website della galleria Max<br />

Protetch<br />

3. Ibid.<br />

4. Dalla relazione di Mel Chin sull’website della galleria Max Protetch<br />

5. Dalla relazione di Hariri & Hariri sull’website della galleria Max Protetch


Fig. 1: Alexander Gorlin -<br />

The Dream of Vishnu<br />

(Cortesia di Alexander Gorlin <strong>Arch</strong>itects)<br />

Alexander Gorlin propone di destinare l’intera area a un memorial carico di riferimenti<br />

simbolici induisti e al culto dei morti dell’antico Egitto. Tra le proposte<br />

votate al solo memorial, la sua è fra le più convincenti e liriche, con quei due<br />

giganteschi monoliti posti a simboleggiare non l’intelligenza umana, come in<br />

2001 Odissea nello spazio, ma la barbarie terroristica dell’11 settembre 2001,<br />

“Le torri collassate in polvere, richiamano il concetto Hindu del mondo quale illusione,<br />

la realtà che noi conosciamo, che è un sogno nella mente di Vishnu...<br />

Quello che era apparentemente una delle più solide e permanenti parti della<br />

città, le due torri di calcestruzzo e acciaio, si è dissolto e liquefatto sotto milioni<br />

di occhi, direttamente o attraverso gli schermi della televisione. Tutto in una<br />

volta, edifici e vita sono stati visti equamente effimeri... L’intero sito è dedicato<br />

a memorial... I 110 piani delle due torri sono letteralmente compressi in 110<br />

piedi, creando così due monoliti della stessa impronta con incisi i nomi delle<br />

vittime. I nomi sono in un display di cristalli liquidi, che si muovono all’infinito<br />

intorno ai due blocchi, la cui proporzione richiama le classiche tombe mastaba<br />

dell’antico Egitto.” 6 Ritroviamo in questi blocchi un’eco del blocco in calcestruzzo<br />

posto, a simboleggiare l’oppressione nazista, sulle tombe delle vittime alle<br />

Fosse Ardeatine, a Roma.<br />

6. Dalla relazione di Alexander Gorlin sull’website della galleria Max Protetch


Fig. 2: Frei Otto - A New World Trade Center<br />

(Cortesia di Frei Otto)<br />

Frei Otto ritiene poco consona la ricostruzione del sito e propone invece di<br />

creare una collina, in cui sistemare i resti delle vittime, e due pozzi d’acqua,<br />

circondati da alberi. Luogo di ricordo e preghiera. Nel pavimento del parco una<br />

mappa del mondo con luci che indicano le zone di conflitto e scandiscono il numero<br />

dei morti in guerra. Se la ricostruzione è inevitabile questa, secondo<br />

Otto, dovrebbe essere una città verde a bassa densità sviluppata su una piattaforma<br />

galleggiante posta in vista di Manhattan.<br />

Fig. 3: Allied Works <strong>Arch</strong>itecture -<br />

Aspirations for the WTC site<br />

(Cortesia di Allied Works <strong>Arch</strong>itecture)<br />

Il concetto di vuoto è anche al centro della proposta di Allied Works <strong>Arch</strong>itecture,<br />

un vuoto colmato dalla pulsante attività della vita quotidiana “Un luogo di<br />

celebrazione: per musica, teatro e tutte le forme d’arte. Un luogo di culto: per<br />

contemplazione e riflessione. E un luogo per il ricordo: uno spazio vuoto nel


cielo riempito con pensieri e atti che mantengono vivo lo spirito degli scomparsi.”<br />

7<br />

Fig. 4: Hodgetts + Fung - One World Plaza,<br />

The Museum of the Family of Man<br />

(Cortesia di Hodgetts+Fung)<br />

Anche Hodgetts + Fung propongono un vuoto: una grande piazza circolare destinata<br />

a memorial dove restano visibili le impronte delle torri scomparse.<br />

Il rifiuto di Shigeru Ban - “Non posso immaginare di progettare un’altro grattacielo<br />

per mostrare l’’ego’” 8 - si concretizza in una chiesa di cartone che richiama<br />

quella per il terremoto di Kobe del 1995. Il rifiuto di Ban è un’impulso solo<br />

temporaneo, parteciperà infatti al concorso ufficiale con THINK.<br />

Weiss/Manfredi offrono un poetico tributo: il riflesso, nelle acque dell’Hudson<br />

River, di uno skyline con le torri, che nella realtà non c’è più.<br />

La visione/incubo di Eric O. Moss esprime in pieno il senso di smarrimento e<br />

angoscia che sembra permeare il difficile processo di ripresa.<br />

A queste perplessità, paure, angosce replica lucidamente Lars Spuybroek<br />

(NOX) “Ci saranno molte ragioni, emotive, sociali, socio-politiche o semplicemente<br />

economiche che restringeranno il numero delle opzioni verso un certo<br />

tipo di soluzione: un edificio assente o uno non molto alto (almeno più basso<br />

delle precedenti torri del World Trade Center) o persino uno più alto. Tutte<br />

queste opzioni sono possibili ma, in qualche modo, esse vanno <strong>oltre</strong> il raggio di<br />

discussione a cui gli architetti possono contribuire. Gli architetti, per definizione,<br />

trasformano le questioni sociali in concetti produttivi. In questo caso la<br />

questione è: cosa può dare l’architettura (qui) e come? Quale contributo può<br />

dare l’architettura nel riportare il circuito mondiale in città. In questo senso Assenza<br />

o Modicità non potranno mai essere risposte architettoniche e assomigliano<br />

molto di più a soluzioni evasive...” 9<br />

7. Dalla relazione di Allied Works <strong>Arch</strong>itecture sull’website della galleria Max Protetch<br />

8. Dalla relazione di Shigeru Ban sull’website della galleria Max Protetch<br />

9. Dalla relazione di Lars Spuybroek (NOX) sull’website della galleria Max Protetch


2.1.2. Riflessione storiche<br />

Chi ritiene assolutamente imprescindibile la ricostruzione non può che appellarsi<br />

alla storia. Per Marwan Al-Sayed non ricostruire sarebbe una sconfitta e ricorda<br />

che “La civiltà ha sempre superato la morte e la distruzione attraverso la<br />

rinascita, la rigenerazione e la ricostruzione.” 10<br />

Oltre a ciò egli è fermamente convinto che sia necessario procedere con lo<br />

stesso spirito che animava le antiche civiltà che per la creazione di monumentali<br />

opere d’arte non esitarono a coinvolgere ampi strati della popolazione, senza<br />

i quali sarebbe stato impossibile erigerle. “Grandi sculture buddiste e templi<br />

di dimensioni sbalorditive, luogo e bellezza, antiche piattaforme e piramidi<br />

Maya, moschee dei Mori intricatamente piastrellate e intonacate, non è tempo<br />

che creiamo arte alla stessa scala e con la stessa sublimità dei nostri antenati?”<br />

11<br />

Hariri & Hariri concordano perfettamente con Al-Sayed sia nel riferimento storico<br />

sia nella volontà di generare idee nuove, “In presenza di orribili e oltraggiosi<br />

disastri, le grandi città hanno non solo ricostruito le loro strutture distrutte ma<br />

sono anche divenute laboratori e terreno di sperimentazione per lo sviluppo di<br />

un’architettura ed urbanistica nuove.” 12<br />

Fig. 5: Greg Lynn - A New World Trade Center<br />

(Cortesia di Greg Lynn FORM)<br />

Greg Lynn guarda all’aspetto militare che ha guidato, nel passato, la mano degli<br />

artisti “Questo ci riporta all’architettura e all’urbanistica medievale e rinascimentale<br />

– quando difendibilità e resistenza all’assedio erano fattori primari della<br />

progettazione che spingeva gli architetti a studiare le traiettorie dei proiettili,<br />

la manovrabilità delle truppe e la resistenza dei materiali – che avrà un signifi­<br />

10. Dalla relazione di Marwan Al-Sayed sull’website della galleria Max Protetch<br />

11. Ibid.<br />

12. Dalla relazione di Hariri & Hariri, cit.


cativo impatto nella progettazione degli edifici e delle città odierni.” 13 E, senza<br />

iprocrisie pacifiste, ne trae le conseguenze nel fare degli architetti “D’ora in poi<br />

i nuovi grattacieli che per dimensione, localizzazione e design possono essere<br />

significativi obiettivi terroristicii, debbono incorporare tecnologia e design di<br />

tipo difensivo-militare.” 14<br />

Lynn elabora una proposta digitale che rimanda direttamente alle forme statiche<br />

e simmetriche del classicismo rinascimentale, ignorando così l’apporto anticlassico<br />

medievale e gli schizzi espressionisti michelangioleschi per le fortificazioni<br />

fiorentine. Zvi Hecker nel progetto per il Royal Dutch Military Police<br />

Complex, ad Amsterdam recupera invece quegli apporti. Benchè progettato<br />

prima dell’11 settembre 2001, il complesso, è l’applicazione pratica, in senso<br />

anticlassico, di quanto sostenuto da Lynn.<br />

In un dibattito sul NYTimes dell’11 novembre 2001 15 , moderato da Terence Riley,<br />

il problema della ricostruzione sì, ricostruzione no, viene affrontato da un<br />

punto di vista storico da Leslie E. Robertson, uno strutturalista, che mette in<br />

evidenza come a San Francisco, dopo il terremoto del 1906, non si limitarono a<br />

lascire un grande vuoto a ricordo ma ricostruirono daccapo la città. Riley, dopo<br />

aver ricordato la posizione anti-ricostruzione del WTC di Diller + Scofidio, mette<br />

in evidenza la ricostruzione di Chicago. Le strutture che bruciarono erano in<br />

gran parte in legno ma non furono ricostruite in legno e “La città divenne una<br />

sorta di terreno sperimentale, di laboratorio per lo sviluppo del grattacielo<br />

americano.”<br />

2.1.3. L’approccio urbano<br />

Gran parte dei teams pone l’accento, e sarebbe stato insensato non farlo, sulla<br />

dimensione urbana dell’intervento e da queste proposte vengono fuori idee<br />

nuove e riflessioni interessanti. Una sorta di laboratorio, per usare la terminologia<br />

di Riley, per lo sviluppo del post-grattacielo.<br />

Zaha Hadid è dell’avviso che prima di procedere <strong>oltre</strong> sarebbe necessario ricorrere<br />

ad un ampio confronto di idee “Affrontando il compito con questo spirito si<br />

apre l’opportunità di realizzare un intervento urbano su larga scala con un significativo<br />

impulso trasformativo per l’intera Manhattan.” 16<br />

Anche Preston Scott Cohen e KD Lab suggeriscono, data l’eccezionalità della situazione,<br />

un approccio prudente ma aperto alla pluralità che l’ambito urbano<br />

richiede. In tale contesto individuano tre condizioni di base da cui partire “un<br />

memorial ‘cimitero senza tombe’, un parco urbano e uno sviluppo commerciale<br />

che si manifesti in grattacieli multiuso. Nessuno di questi elementi può essere<br />

sviluppato come lo sarebbe in normali circostanze. La nuova sintesi richiede<br />

una cornice urbana capace di mediare molteplici esigenze.” 17<br />

13. Dalla relazione di Greg Lynn sull’website della galleria Max Protetch<br />

14. Ibid.<br />

15. What to Build, Debat Moderate by Terence Riley, New York Times November 11, 2001<br />

16. Dalla relazione di Zaha Hadid sull’website della galleria Max Protetch<br />

17. Dalla relazione di Preston Scott Cohen sull’website della galleria Max Protetch


Ugualmente attento al contesto urbano è il progetto di Jonathan Foster (vedi<br />

Jonathan Foster, New WTC, http://www.nyarchitect.com/PRESBD.jpg) “I tre<br />

importanti punti messi in evidenza in questo progetto sono il memorial, la<br />

creazione di un’area urbana pedonale e la qualità iconica necessaria per il centro<br />

del world trade. Questa proposta incoraggia la rigenerazione del tessuto urbano,<br />

connettendolo a ovest con il World Financial Center, Battery Park City, a<br />

nord, via battello, con Tribeca, a est con Wall Street, il porto marittimo e, a<br />

sud, con il centro municipale, con la zona degli affari e con i terminals.” 18<br />

Fig. 6: Fox & Fowle <strong>Arch</strong>itects – Competition Idea<br />

(Cortesia di Fox & Fowle <strong>Arch</strong>itects)<br />

Fox & Fowle <strong>Arch</strong>itects articolano una proposta che tiene conto di quello di cui<br />

la costruzione delle Twin Towers non tenne conto e cioè delle “due adiacenti<br />

griglie stradali: quella del modello organico di downtown e la griglia ortogonale<br />

della città bassa.” 19 Quindi pongono l’accento sull’equilibrio città e territorio<br />

prevedendo “un nuovo hub dei trasporti, una 'Grand Central Station' per down­<br />

18. Dalla relazione di Jonathan Foster sull’website della galleria Max Protetch<br />

19. Dalla relazione di Fox & Fowle <strong>Arch</strong>itects sull’website della galleria Max Protetch


town e un nuovo parco lineare, localizzato a livello stradale sopra West Street<br />

interrata, che serve da connettore tra i confini della città del XIX secolo e Battery<br />

Park City.” 20 Torri multiuso, alte 30/40 piani e interconnesse con un network<br />

di spazi pubblici e semi-pubblici, sono localizzate, seguendo la griglia ortogonale<br />

della città, nei settori nord e sud dell’area.<br />

Fig. 7: Hans Hollein - A New World Trade Center<br />

(Cortesia di Hans Hollein)<br />

Hans Hollein propone di estendere la città in orizzontale, sospesa sopra i grattacieli<br />

“Spazialmente e urbanisticamente questa è una proposta fondata su alcune<br />

mie idee su Manhattan dei primi anni sessanta che suggerivano una<br />

estensione orizzontale della città sopra la verticalità dei grattacieli...” 21<br />

20. Ibid.<br />

21. Dalla relazione di Hans Hollein sull’website della galleria Max Protetch


Fig. 8: Coop Himmelb(l)au - A New World Trade Center<br />

(Cortesia di Coop Himmelb(l)au)<br />

Lo schizzo di Coop Himmelb(l)au riecheggia questa proposta e la soluzione di<br />

United <strong>Arch</strong>itects per il concorso ufficiale rappresenta il perfezionamento e la<br />

messa in pratica dell’idea di Hollein.<br />

Fig. 9: Eytan Kaufman – The World Forum and<br />

the World Bridge<br />

(Cortesia di Eytan Kaufman Design and Development)<br />

Decisamente originale è la proposta di Eytan Kaufman: sdraia il suo grattacielo,<br />

lo “World Bridge”, sopra l’Hudson River per connettere New York e New Jersey.<br />

“Non è un ponte veicolare e dovrebbe diventare, strutturalmente, la più<br />

innovativa impresa ingegneristica dei giorni nostri. Il livello superiore sarà un


ponte pedonale/promenade New York-New Jersey con un parco verde e con<br />

differenti attività turistiche... Il livello inferiore ospiterà un sistema di trasporto<br />

beni e servirà anche per le emergenze. I due livelli saranno collegati attraverso<br />

ascensori che serviranno l’intera struttura.” 22 Le destinazioni d’uso di questo<br />

grattacielo sdraiato comprendono uffici, un albergo, un centro conferenze e<br />

aree comuni per intrattenimento.<br />

Ma Kaufman non è il solo a contestare il grattacielo tradizionale. Zaha Hadid lo<br />

contesta sia come tipologia costruttiva che come modello urbano, dichiarandone<br />

conclusa l’era (vedi Zaha Hadid, What's next? From Destructive Impact to<br />

Creative Impulse, http://www.archidose.org/Jan02/012802c.html). Troppo<br />

schematici e semplicistici per le necessità della vita contemporanea, devono<br />

cedere il passo a nuove sfide “La fine del fordismo e del grattacielo quale suo<br />

archetipo urbano non significano il ritiro dalla grande scala né dall’alta densità.<br />

Grandezza e intensità stanno aumentando nelle metropoli contemporanee.” 23<br />

Gli fa eco Lars Spuybroek (NOX) “Ora, senza alcun dubbio il grattacielo è la più<br />

riuscita tipologia costruttiva che proviene dal XX secolo. Tuttavia sentiamo che<br />

il suo generico riduzionismo, il suo passivo accatastamento di comportamenti<br />

umani, la sua maniaca monoprogrammaticità diventerà, dovrebbe diventare,<br />

obsoleta. Come tipologia dovrebbe essere ripensata, facendo un nuovo passo<br />

evolutivo verso il mega edificio possibile...” 24<br />

Mel Chin ne canta l’elogio funebre “Un Boeing 767, pieno di carburante e di<br />

sangue di innocenti, arcuandosi nitidamente nel cielo blu di Manhattan, l’11<br />

settembre 2001 ha posto fine al regno del grattacielo.” 25<br />

Hadid non si limita a contestare il grattacielo ma preconizza ciò che lo rimpiazzerà:<br />

l’edificio-città. “Progetteremo un’entità di un più alto ordine di grandezza<br />

di quello che uno considera usualmente come ‘edificio’ o anche ‘insieme’, una<br />

entità che ricrea in sè stessa approssimazioni di molteplicità, complessità ed<br />

efficacia dell’ambiente urbano: una città compressa in un ampio edificio.” 26 In<br />

effetti molte proposte si muovono nel senso indicato da Hadid. C’è però da rilevare<br />

come queste prospettive future dell’ambiente urbano siano quelle che più<br />

spaventano la gente. Paure irrazionali di cui bisognerà pur tener conto.<br />

Sia Foreign Office <strong>Arch</strong>itects che Jacob + McFarlane propongono due nuovi tipi<br />

di grattacieli che implicano un massiccio ricorso a tecnologia d’avanguardia.<br />

I primi, prendendo spunto da considerazioni strutturali e funzionali, elaborano<br />

un nuovo prototipo che prefigura imprevedibili variazioni formali: un fascio di<br />

torri. “Invece di dividere il complesso in due torri indipendenti, come il precedente<br />

World Trade Center o le Petrona Towers e per evitare spazi di lavoro eccessivamente<br />

profondi, la nostra proposta è quella di mantenere la continuità<br />

fisica dell’intera massa e utilizzarla come vantaggio strutturale. La proposta<br />

forma un complesso, un fascio di torri interconnesse che fornisce spazi flessibili<br />

22. Dalla relazione di Eytan Kaufman Design and Development sull’website della galleria Max<br />

Protetch<br />

23. Dalla relazione di Zaha Hadid, cit.<br />

24. Dalla relazione di Lars Spuybroek (NOX), cit.<br />

25. Dalla relazione di Mel Chin, cit.<br />

26. Dalla relazione di Zaha Hadid, cit.


e che strutturalmente si sostengono tra loro, essendo in grado di aumentare il<br />

momento d’inerzia della struttura senza dover necessariamente aumentare la<br />

profondità dei piani e dell’area totale.” 27 Le otto torri circolari del diametro di<br />

18 metri, alte 500 metri (110 piani) ciascuna, avranno la struttura reticolare<br />

sul loro perimetro. “I tubi, disposti in cerchio, pendono verticalmente per sostenersi<br />

tra loro ogni terzo dell’altezza totale dell’edificio, riducendo così la lunghezza<br />

della pendenza delle torri a circa 165 metri.” 28 Un network di ascensori<br />

e lobbies provvede alla circolazione (vedi Foreign Office <strong>Arch</strong>itects, Bunch Tower,<br />

http://www.f-o-a.net/flash/simple.html).<br />

Jacob + McFarlane propongono una serie di torri o lunghe e sottili dita che si<br />

intrecciano tra loro.<br />

Queste proposte sono la definitiva constatazione che il grattacielo quale lo abbiamo<br />

conosciuto sin dalla sua nascita ha concluso il suo ciclo storico. Ma le avvisaglie<br />

risalgono a molte decine di anni fa sin da quando Frank Ll. Wright apostrofò<br />

la sua Price Tower a Bartlesville, Oklahoma (1956), come “l’albero che<br />

scappò dalla foresta affollata.” Egli considerava i centri di Chicago e New York,<br />

con la loro selva di grattacieli, foreste insalubri e riteneva più saggio ricorre a<br />

poche torri isolate nel contesto cittadino o territoriale per esaltarne i profili e<br />

per preservare ampie zone di verde. Poi, non tanto per smentire sè stesso<br />

quanto per smentire i detrattori che lo ritenevano un romantico antiurbano,<br />

propone un solo gigantesco albero, una sequoia: il grattacielo alto un miglio.<br />

Wright pensava anche che le fondazioni dei grattacieli dovessero ispirarsi alle<br />

radici di un albero e infilarsi nel sottosuolo per animarlo. Vincent P. Cartelli, tra<br />

la fine degli anni sessanta e gli inizi degli anni settanta, ritiene deleterio continuare<br />

a concepire torri indipendenti e, perfezionando l’analogia arborea di<br />

Wright, consiglia di ispirarsi ad una catena di montagne, dove alcune vette<br />

sono collegate tra di loro da tratti pianeggianti. In altre parole i collegamenti<br />

non più solamente alla base delle torri ma anche nelle parti alte degli edifici. 29<br />

“Il grattacielo ha fornito la prima risposta alla necessità di una forte concentrazione:<br />

oggi ce ne sono altre... macrostrutture polifunzionali che per combattere<br />

l’alienazione e l’incomunicabilità esaltano il continuum. Il continuum su<br />

strutture verticali resta tutt’ora una sfida alla fantasia architettonica.” 30 A<br />

ground zero la sfida è stata ribadita in varie proposte ma i pregiudizi di ordine<br />

ideologico, culturale, sociologico e tecnologico permangono ben radicati.<br />

Ciò che induce a simili riflessioni sono gli scenari urbani che si presentano davanti<br />

agli architetti contemporanei, “la bancarotta della pianificazione urbana<br />

onnicomprensiva a fronte della incertezza del mercato, significano che l’architettura<br />

deve portare il peso dell’urbanistica in singoli grossi interventi.” 31 E<br />

questa responsabilità deve superare le barriere di una visione statica dei feno­<br />

27. Dalla relazione di Foreign Office <strong>Arch</strong>itects sull’website della galleria Max Protetch<br />

28. Ibid.<br />

29. Bruno Zevi, Non meno alti, ma edifici diversi, Cronache di <strong>Arch</strong>itettura IX, Laterza, Bari<br />

1975 [1973], p. 104/7<br />

Bruno Zevi, Spiegato a metà il farsi dell’arte, Cronache di <strong>Arch</strong>itettura II, Laterza, Bari<br />

1971 [1956], p. 216/9<br />

30. Bruno Zevi, Labirinti kafkiani meglio che torri, Cronache di <strong>Arch</strong>itettura IX, Laterza, Bari<br />

1975 [1973], p. 38/41<br />

31. Dalla relazione di Zaha Hadid, cit.


meni urbani, “il fattore tempo deve essere introdotto negli scenari di programmazione<br />

e riconfigurazione. Noi crediamo che ampie componenti della metropoli<br />

contemporanea debbano essere concepite come strutture in evoluzione invece<br />

che fisse e finite.” 32<br />

Fig. 10: Daniel Libeskind - A New<br />

World Trade Center<br />

(Cortesia di Daniel Libeskind)<br />

Daniel Libeskind cerca una mediazione, un equilibrio tra le tante polarità venute<br />

allo scoperto dopo la distruzione delle Twin Towers, “Oltre l’ovvia possibilità<br />

di conservare le rovine come memorial o creando un ‘memorial space’, la strategia<br />

urbana dovrebbe incorporare un nuovo significato di forma e funzione,<br />

che è stato alterato irreversibilmente da ciò che è accaduto. Deve essere una<br />

risposta che prenda in considerazione la relazione tra unicità di un luogo e il<br />

suo significato globale; fragilità e stabilità, pietra e spirito.” 33<br />

32. Ibid.<br />

33. Dalla relazione di Daniel Libeskind sull’website della galleria Max Protetch


Fig. 11: Steven Holl with Makram El-Kadi<br />

and Ziad Jameleddine - World Trade<br />

Center 2002, Floating Memorial/Folded<br />

Street<br />

(Cortesia di Steven Holl <strong>Arch</strong>itects)<br />

Steven Holl, Makram El-Kadi e Ziad Jameleddine propongono la versione urbana<br />

della promenade di Le Corbusier: un memorial flottante, sull’Hudson River,<br />

da cui parte una strada -“folded street” - che si inerpica sul sito del World Trade<br />

Center “Lungo la ‘strada’ ascendente sono localizzate numerose funzioni:<br />

gallerie, spazi per cinema, caffè, ristoranti, un albergo e aule per una sede<br />

staccata della New York University. Rivestita in vetro trasparente, la costruzione<br />

a travatura reticolare consente di predisporre piattaforme di osservazione<br />

per un gran numero di persone.” 34<br />

34. Dalla relazione di Steven Holl with Makram El-Kadi and Ziad Jameleddine sull’website della<br />

galleria Max Protetch


Fig. 12: RoTo - World Citizens Conference Center<br />

(Cortesia di RoTo <strong>Arch</strong>itects)<br />

Infine due tra le più interessanti proposte che si articolano sul concetto di<br />

“vuoto”: la prima, quella di RoTo, a forma ellittica, una “reminiscenza dell’uovo<br />

orfico, un simbolo di trasformazione, rinascita e creazione” 35 , che ricorda anche<br />

una mano aperta rivolta verso l’alto. Tutte le strade intorno consentiranno di<br />

arrivare con le auto sino al bordo della piazza ma non <strong>oltre</strong>, “Gli edifici danneggiati<br />

dell’intorno del sito saranno riparati con nuove ‘facciate’ di varia profondità,<br />

che consentiranno di avere fino a 11 milioni di piedi quadrati di superficie.<br />

Questa nuova volumetria formerà le ‘dita’ del palmo della mano, che è la zona<br />

del memorial, rivolto verso l’alto.” 36<br />

La seconda proposta è di LOT-EK (vedi LOT-EK, A New World Trade Center,<br />

http://www.lot-ek.com/wtc_01.htm) che agisce sul vuoto per due scale differenti:<br />

quella del sito vero e proprio e qu ella urbana. Considera la ‘bathtub’<br />

l’autentico memorial, precedendo in ciò il progetto vincente di Libeskind e prevedono,<br />

su un bordo dell’area, 8 torri di media altezza. Interessante, benchè<br />

troppo conservatore nel suo approccio “archeologico”, il trattamento della ‘bathtub’<br />

che contiene sia il memorial che la vita sotterranea del traffico dei treni<br />

e delle linee metropolitane. I sottoservizi (fogne, impianti elettrici, telefoni),<br />

sono messi in vista e ripristinati, leggeri ponti attraversano la ‘bathtub’, “questo<br />

illumina elementi della città che generalmente non sono in vista e dà l’opportunità<br />

di ripensare la condizione urbana.” 37 Una sorta di area archeologica,<br />

innervata da strutture contemporanee: leggerissimi ponti che consentono di<br />

mantenere integra la percorribilità pedonale dell’area. “Abbiamo immaginato<br />

questi percorsi come qualcosa più che semplici ponti che collegano punto A e<br />

un punto B; essi sono qualcosa che riguarda il viaggio, l’interazione così come<br />

la destinazione. Pensiamo al Pontevecchio a Firenze o al Rialto a Venezia, que­<br />

35. Dalla relazione di RoTo <strong>Arch</strong>itects sull’website della galleria Max Protetch<br />

36. Ibid.<br />

37. Dalla relazione di LOT-EK sull’website della galleria Max Protetch


sti ponti tentano di portare nella città un nuovo modello di funzione pubblica e<br />

di circolazione. Ricavati da containers danneggiati e trasformati, questi percorsi<br />

funzionano come passaggi o passerelle per il pubblico.” 38<br />

Fig. 13: SITE - A New World Trade Center<br />

Concetto: SITE – Denise MC Lee, Sara Stracey,<br />

Patrick Head; team James Wine, Stomu­<br />

Miyazaki. 3D renderings by: Denise MC Lee &<br />

Patrick Head<br />

(Cortesia di SITE)<br />

SITE 39 propone un autentico e completo programma urbano: ripristino della<br />

griglia stradale originaria; Master Plan flessibile all’evoluzione e al cambiamento;<br />

uso misto: uffici, residenze, alberghi, negozi, cultura. Divieto di mega-grattacieli<br />

e previsione di vasti spazi aperti; edifici ravvicinati di dieci/trenta piani,<br />

ecologicamente sostenibili, progettati da architetti diversi e impronte delle torri<br />

sitemate a verde. Prevede in<strong>oltre</strong> sei viali alberati che radialmente si dirigono<br />

verso Harlem, il Bronx, Queens, Long Island, Brooklyn, Staten Island e New<br />

Jersey.<br />

38. Ibid.<br />

39. Concetto: SITE – Denise MC Lee, Sara Stracey, Patrick Head; team James Wine,<br />

StomuMiyazaki. 3D renderings by: Denise MC Lee & Patrick Head


2.1.4. Tecnologia d’avanguardia<br />

L’aspetto tecnologico predomina in molte proposte, e anche se qualche volta<br />

appare come una sorta di esorcizzazione del presente, un rifugio nel futuro, offre<br />

un buon quadro di riferimento sulle evoluzioni future di questo filone della<br />

ricerca urbatettonica.<br />

Fig. 14: Mel Chin - S.P.R.E.A.D. (Social Platform Readily<br />

Engaged in Active Development)<br />

Render by Julie Moskovitz<br />

(Cortesia di Mel Chin. Digital)<br />

Mel Chin ne fa quasi un manifesto programmatico “S.P.R.E.A.D. (Social Platform<br />

Readily Engaged in Active Development) è una piattaforma modulare sospesa<br />

72 piedi sopra le strade di downtown New York City.” 40 Una piastra intelligente<br />

che si fa carico non solo di offrire servizi agli edifici ma anche di estendere<br />

in orizzontale la città verticale, come sognava Hollein negli anni ’60.<br />

40. Dalla relazione di Mel Chin, cit.


Hariri & Hariri, all’opposto di Mel Chin predispongono strutture di servizio, 11<br />

torri (The Weeping Towers) alte approssimativamente 80-110 piani, in verticale<br />

invece che in orizzontale. Queste strutture che inglobano i collegamenti verticali<br />

e i sistemi, meccanico, elettrico e digitale, possono trasformarsi e crescere<br />

grazie all’apporto degli utenti, lasciando ampio spazio per audaci sperimentazioni<br />

formali, senza escludere l’inserimento di brani di città nelle parti alte<br />

“Questi 11 nuclei fungeranno da infrastruttura in cui i nuovi clienti porteranno,<br />

via mare e via terra, i loro edifici e le loro strutture prefabbricate, collegandole<br />

al traliccio strutturale... In contrasto con le torri ortogonali ci saranno, a sfumare<br />

i confini dei tipi architettonici, edifici a forma libera. Queste strutture saranno<br />

molto ampie e ospiteranno, nello spazio tra le torri e le abitazioni, teatri,<br />

un museo culturale mondiale, piazze sospese e attrezzature sportive. Prevediamo<br />

che il modernissimo New York Stock Exchange sia ospitato in uno di questi<br />

edifici come cuore del complesso per esprimere, in un modo visibile all’intera<br />

città, la forza della capitale finanziaria mondiale.” 41<br />

41. Dalla relazione di Hariri & Hariri, cit.<br />

Fig. 15: Hariri & Hariri - The Weeping Towers<br />

(Cortesia di Hariri & Hariri <strong>Arch</strong>itecture )


Fig. 16: Marwan Al-Sayed -<br />

A New World Trade Center<br />

(Cortesia di Marwan Al-Sayed <strong>Arch</strong>itects)<br />

Ma è la pelle degli edifici ad attirare le maggiori attenzioni, perchè, come sostiene<br />

Marwan Al-Sayed, esiste già una tecnologia in grado di rendere la pelle<br />

degli edifici “intelligente” e cioè la nano-tecnologia che si interessa dello “sviluppo<br />

di materiali che possono essere prodotti e riconfigurati molecolarmente<br />

in impreviste possibilità. Questa sarà la tecnologia che supporterà un’idea<br />

come questa, in cui la pelle dell’edificio può essere riconfigurata molecolarmente<br />

al tocco di un interruttore, cambiare da un cupo nero a un glorioso magenta.”<br />

42 E Al-Sayed vuole sfruttarla per far si che l’edificio trasmetta all’esterno<br />

le emozioni interne, “Immagino che le torri siano capaci di cambiare la loro<br />

pelle interna ed esterna, adattandosi al tempo, alle stagioni, all’ora del giorno,<br />

all’umore degli occupanti o della città o della nazione, alle feste e agli eventi<br />

imondiali... La mia idea è quella di creare una struttura edificata e una pelle<br />

che inizino a riflettere il vero contenuto emozionale delle strutture e la latente<br />

espressività complessivamente contenuta negli edifici e nelle vite che essi ospitano.”<br />

43<br />

Le strutture architettoniche che si deformano, respirano, sudano, arrossiscono<br />

non sono più il sogno utopico di una banda di nevrotici utopisti ma un obiettivo<br />

a portata di mano e che la tecnologia attuale, non futura, rende possibili. Per<br />

Asymptote “Queste nuove architetture sono da realizzare con superfici tese e<br />

tecnologicamente sofisticate, pelli che esprimono modulazione e flusso costante.”<br />

44 (vedi Asymptote, WTC Proposal,<br />

http://www.archphoto.it/IMAGES/asymptote/wtc.htm)<br />

Gluckman Mayner propone di ricostruire le Twin Towers esattamente ”com’erano,<br />

dov’erano” ma con una pelle vetrata dalle mille variazioni luministiche, ottenute<br />

ricorrendo alla moderna tecnologia. ”Il suggerimento per il nuovo World<br />

42. Dalla relazione di Marwan Al-Sayed, cit.<br />

43. Ibid.<br />

44. Dalla relazione di Hani Rashid per Asymptote sull’website della galleria Max Protetch


Trade Center consiste nel ricostruire le torri secondo il profilo originario, tuttavia<br />

la pelle dell’edificio dovrebbe riflettere una risposta alla natura della tragedia.<br />

Noi tentiamo di esplorare le molteplici possibilità del vetro e dei media<br />

elettronici e i potenziali risultati quando questi sono integrati nella sensibile o<br />

fattibile pelle. Il vetro elettrocromatico, per esempio, può consentire alla pelle<br />

di cambiare colore e trasformarsi da opaca in trasparente. Dall’altra parte,<br />

schermi lenticolari intrecciati e olografie renderanno queste trasformazioni vive<br />

e interattive con chi ci passa accanto.” 45<br />

Le torri di Hariri & Hariri saranno rivestite “...con una pelle intelligente dove informazioni<br />

e dati posso essere mostrati sia agli occupanti, all’interno, che ai visitatori,<br />

all’esterno. La pelle sarà anche equipaggiata con un sistema di irrigazione<br />

e con un strumento che rivela potenziali oggetti che si stanno avvicinando<br />

all’edificio.” 46 Ad ogni ricorrenza dell’11 settembre, grazie ad un sofisticato<br />

sistema di irrigazione superficiale, le 11 torri trasuderebbero trasmettendo all’esterno<br />

una sensazione non solo visibile ma anche palpabile.<br />

Fig. 17: Kennedy & Violich - A New World<br />

Trade Center<br />

(Cortesia di Kennedy & Violich <strong>Arch</strong>itecture)<br />

Kennedy & Violich progettano una facciata di pannelli anch’essi estremamente<br />

intelligenti che moltiplicano i livelli di fruizione dello spazio, “Questa proposta<br />

immagina il memorial come una facciata attiva di pannelli individuali, intrecciati<br />

in una superficie flessibile che serve come un network di comunicazioni...<br />

Come una facciata operativa che è anche memorial, questo rivestimento architettonico<br />

offre una serie di soglie e di passaggi tra acqua e terra, tra vita locale<br />

e vita di portata globale, tra le infrastrutture del trasporto pubblico della città<br />

e il livello stradale e le sue telecomunicazioni aeree nello skyline urbano. Il rivestimento-memorial...<br />

è trasmissibile e modificabile secondo le condizioni di<br />

45. Dalla relazione di Gluckman Mayner <strong>Arch</strong>itects/Richard Gluckman and Srdjan Jovanovic<br />

Weiss sull’website della galleria Max Protetch<br />

46. Dalla relazione di Hariri & Hariri, cit.


ora, luce, uso e localizzazione della vista... Flessibile ai suoi limiti superiori curvati,<br />

la superficie-memorial gioca con la luce, cambiando colori e muovendosi<br />

con il vento...” 47<br />

Fig. 18: Lars Spuybroek (NOX) –<br />

obliqueWTC<br />

(Cortesia di Lars Spuybroek (NOX))<br />

Lars Spuybroek (NOX) riscopre con grande acume la tecnica del filo di lana inventata<br />

da Frei Otto, ”Immersi nell’acqua e tirati fuori i fili si riorganizzano da<br />

sé in un complesso network (...) che può essere paragonato alle ossa. La<br />

struttura non è più formata dalla semplice estrusione di un piano ma è autoorganizzata<br />

in una struttura a network dove l’intero è più grande della somma<br />

delle sue parti. Abbiamo ingrossato ognuno dei fili di lana per farli diventare<br />

torri inclinate che convergono o si dividono mentre salgono... Le torri qualche<br />

volta agiscono come ponte, altre volte come controstruttura per un’altra e, talvolta,<br />

sono libere di diventare piccole subtorri. La maggior parte dei carichi è<br />

trasportata dalla struttura a nido d’ape della superficie in acciaio che è a sua<br />

volta supportata da una griglia di pilastri interni, che seguono le diagonali delle<br />

torri. Gli ascensori formano un complesso strutturale di diagonali di cinque o<br />

sei differenti nuclei che si incontrano in alcune piattaforme a formare large<br />

aree pubbliche. È questo network di ascensori che fa dell’edificio non solo un<br />

nuovo tipo di torre ma un nuovo tipo di modello urbanistico. Gli ascensori diventano<br />

un’estensione urbana del sistema metropolitano...” 48<br />

47. Dalla relazione di Kennedy & Violich sull’website della galleria Max Protetch<br />

48. Dalla relazione di Lars Spuybroek (NOX), cit.


Fig. 19: <strong>Arch</strong>i-Tectonics -<br />

FLEX-CITY, NYC 1991-2001-2012:<br />

81 scenarios for Lower Manhattan<br />

(Cortesia di Winka Dubbelman, <strong>Arch</strong>i-tectonics)<br />

Il digitale, come abbiamo già visto, permea, com’è naturale parlando di nuove<br />

tecnologie, non pochi progetti. L’architettura non può fare a meno di ricorrere<br />

alla tecnologia digitale se vuole giocare ancora un ruolo nell’organizzazione fisica<br />

del nostro habitat, primo perchè è già presente in modo massiccio nell’odierna<br />

vita quotidiana, secondo perchè è attraverso questa tecnologia che gli<br />

utenti possono essere coinvolti attivamente nel processo creativo. In questo<br />

senso la proposta/programma più dichiaratamente digitale è quella di <strong>Arch</strong>i-<br />

Tectonics ”Flex-city è un ambiente elettronico interattivo dove le proposte costruttive<br />

sono scelte, influenzate e definitivamente create dai visitatori. Scegliendo<br />

modifiche in certi dati logistici (Econ Flex) e specifici dati di scelta guidati<br />

(Social Flex) uno genera uno degli 81 scenari possibili per downtown Manhattan.<br />

Questo gioco ambientale introduce non solo nuove tipologie per downtown<br />

Manhattan, piastre orizzontali per uffici & spazi commerciali, torri per<br />

appartamenti, ma specificatamente mette in evidenza 'Flex Space' che localizza<br />

scuole, unità mediche, supermarkets e ‘Green Flex’ che inserisce parchi,<br />

viali alberati, aree di gioco... Nessuna previsione è basata solamente su dati<br />

nudi e crudi, l’interpretazione ed estrapolazione dei fattori umani di questi dati<br />

è innegabile. Previsioni di successo, secondo Macroeconomic Advisers, coinvolgono<br />

tre elementi: scienza, arte e fortuna.” 49<br />

Anche Asymptote elabora una proposta frutto della tecnologia digitale e che al<br />

digitale affida lo sviluppo futuro “Questa proposta richiede edifici vitali per il lavoro<br />

dell’età digitale.” 50<br />

Mel Chin pensa ad un sistema di supporto e di servizio anziché ad un edificio<br />

tradizionale “Questa piattaforma, in grado di gestire l’acqua ed i suoi stessi ri­<br />

49. Dalla relazione di Winka Dubbeldam per <strong>Arch</strong>i-Tectonics, cit.<br />

50. Dalla relazione di Hani Rashid per Asymptote, cit.


fiuti, equipaggiata con un carrello luminoso, è sostenuta dai grattacieli intorno<br />

in simbiotico attaccamento. In cambio del supporto strutturale, essa può fornire<br />

agli ospiti corrente e risparmio d’acqua addizionali così come portali per<br />

nuovi spazi di lavoro e svago... Questo New World Trade City è una piastra<br />

orizzontale sostenuta da fondazioni ‘flottanti’ ed è di supporto ad uffici di un<br />

solo piano e alle attrezzature di un ‘parco verde’.” 51<br />

Tom Kovac fa uno studio con un software che in base ai dati inseriti forma lo<br />

chassis del progetto, “In questo [chassis] abbiamo inserito una superficie a<br />

spirale, governata dalla regola che consente a un viaggiatore di scalare infinitamente<br />

un flusso intrecciato, attraverso inclinate che hanno il potenziale per<br />

un futuro abitativo come previsto da Virilio. Pinne strutturali connettono le superfici<br />

alla spirale. Bordi comuni tra lo chassis e la spirale sono coperte in vetro...”<br />

52 (vedi Tom Kovac, A New World Trade Center,<br />

http://www.arqa.com/masinfo4b.cfm?nro=5147&img_src=img_notas/revdig1.j<br />

pg&img_descripcion=&img_epigrafe=&img_width=250&img_height=357&<br />

titulo=Arquitectura%20en%20la%20época%20de%20la%20Revolución%20<br />

Digital)<br />

C’è molta attenzione alle tendenze economiche e sociali in corso, tendenze che<br />

possono esercitare una enorme influenza sugli aspetti formali della città. Per<br />

<strong>Arch</strong>i-Tectonics l’elemento fondamentale è, come abbiamo già visto, la flessibilità<br />

“Il nuovo modello per downtown Manhattan era basato sull’idea che le<br />

strutture urbane evolvono costantemente con le forze economiche & politiche<br />

globali.. In un mercato dove consistenza e stabilità hanno lasciato spazio a incertezza<br />

e volatilità, l’architettura dovrebbe adattarsi alla flessibilità.” 53 Più che<br />

adattarsi l’architettura dovrebbe promuoverla questa flessibilità, dalla piccola<br />

alla grande scala.<br />

Hariri & Hariri sono attente agli sconvolgimenti indotti dal digitale e ne mettono<br />

in evidenza l’apporto alla creatività “Grazie alla tecnologia digitale e alla comunicazione<br />

elettronica, le industrie finanziarie non hanno più bisogno di essere<br />

localizzate una sull’altra e da un decennio a questa parte si sono diversificate<br />

lontano da downtown. Il risultato è che gran parte degli spazi per uffici persi<br />

l’11 settembre non sono più necessari. Quindi, crediamo che i 16 acri del<br />

World Trade Center debbano essere un complesso creativo ad uso misto con<br />

interconnesse attività residenziali, commerciali e culturali, sia pianificate che<br />

improvvisate.” 54<br />

Due proposte non assimilabili a quelle illustrate finora sono opera di due “visionari”:<br />

Samuel Mockbee e Paolo Soleri.<br />

Nella proposta di Mockbee (vedi Samuel Mockbee, A New World Trade Center,<br />

http://archrecord.construction.com/news/wtc/archives/newwtc/mockbee.asp),<br />

fatta nel letto d’ospedale pochi giorni prima di morire, “Due torri si sollevano<br />

più alte delle originali, ma il pezzo centrale del progetto è un pozzo scavato a<br />

911 piedi di profondità che contiene una vasca riflettente quale memorial, un<br />

51. Dalla relazione di Mel Chin, cit.<br />

52. Text trascritto da una conversazione tra Leon van Schaik e Tom Kovac e il suo team,<br />

December 2001 sull’website della galleria Max Protetch<br />

53. Dalla relazione di Winka Dubbeldam per <strong>Arch</strong>i-Tectonics, cit.<br />

54. Dalla relazione di Hariri & Hariri, cit.


luogo di culto in profondità. Il complesso sotterraneo è accessibile attraverso<br />

ascensori ed un percorso a spirale che consente ai visitatori di dare uno sguardo<br />

in alto, alle torri e al cielo. Un centro culturale sotterraneo e una cappellamemorial...<br />

sono parte del progetto.” 55<br />

Fig. 20: Paolo Soleri -<br />

The Secular Cathedral<br />

(Cortesia di Cosanti Foudation)<br />

Soleri propone una sorta di cattedrale laica (ombrello-parasole) caratterizzata<br />

da scivoli per una rapida evacuazione di 20,000 persone in 20 minuti. Una cattedrale<br />

in cui vivere, lavorare, studiare e divertirsi. Una magica combinazione<br />

di campo da gioco per bambini, scivoli e rollercoasters.<br />

Ricordiamo infine le Towers of Light di John Bennett, Gustavo Bonevardi, Julian<br />

LeVerdiere, Paul Marantz, Paul Myoda, Richard Nash-Gould, l’unica proposta<br />

che ha avuto un risvolto pratico: i due fasci di luce furono infatti proiettati in<br />

cielo nell’anniversario della tragedia.<br />

55. Dalla relazione che illustra il progetto di Samuel Mackbee sull’website della galleria Max<br />

Protetch


<strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> e <strong>oltre</strong><br />

Traiettorie urbatettoniche per il XXI secolo<br />

(PARTE II)<br />

di Mariopaolo Fadda


2.2. Le proposte del New York Times Magazine<br />

Durante l’estate del 2002 Herbert Muschamp, critico di architettura del New<br />

York Times, invita 16 gruppi di architetti 1 a fare proposte per la ricostruzione<br />

del World Trade Center.<br />

Nell’articolo di presentazione Muschamp (vedi http://www.nytimes.com/packages/html/magazine/20020908_911_PLAN/)<br />

fa risalire l’idea ad una serie di incontri<br />

tenuti nel giugno precedente, tra Richard Meier, Steven Holl, Peter Eisenman,<br />

Charles Gwathmey e Guy Nordenson, insofferenti per la piega data<br />

alla ricostruzione dalla Lower Manhattan Development Corporation. Una ricostruzione<br />

avviata allora lungo i binari di una banale lottizzazione che non lasciava<br />

presagire nulla di buono in termini di qualità urbanistico-architettonica.<br />

Questo sistema, basato sulla ripartizione dell’area in lotti e sulla stesura delle<br />

norme di edificazione, è pane per i denti di voraci imprenditori edili – con annesse<br />

squadre di professionisti e, di avvocati - ma veleno puro per chi pensa<br />

alla città come sistema di valori sociali, spaziali, estetici.<br />

Da quei primi incontri e sotto gli auspici del critico del New York Times il gruppo<br />

si allarga e, dopo controverse discussioni, viene trovato un accordo generale:<br />

la progettazione deve andare <strong>oltre</strong> i ristretti limiti del sito del World Trade<br />

Center e coinvolgere tutta Lower Manhattan; ad ogni gruppo vengono assegnati<br />

un sito ed un compito specifico per il quale elaborare una proposta architettonica.<br />

Lo schema generale, imperniato sull’idea di Frederic Schwartz di sotterrare<br />

West Street - la superstrada a sei corsie che divide Lower Manhattan da<br />

Battery Park City – ha come principale obiettivo la creazione di un’attrezzatura<br />

culturale di respiro mondiale che funzioni da coaugulo tra le infrastutture dei<br />

trasporti per l’accesso al centro finanziario e il sistema di comunicazioni che<br />

connette l’area non solo al territorio reale ma anche a quello virtuale dell’economia<br />

globale. Il programma è lo stesso utilizzato dalla Lower Manhattan Development<br />

Corporation, ma la superficie recuperata dal sotterramento di West<br />

Street consente di distribuire meglio la volumetria e, soprattutto, di alleviare la<br />

pressione intorno a ground zero i cui spazi chiave vengono destinati ad istituti<br />

culturali progettati da Richard Meier e Steven Holl e all’hub di Rafael Viñoly.<br />

Meier progetta una scuola localizzata lungo Fulton Street, sul lato nord del sito.<br />

L’edificio è articolato in tre blocchi ben definiti: uno, con la parete verso il sito<br />

del World Trade Center completamente trasparente, è l’edificio vero e proprio,<br />

un altro blocco è rappresentato dai tre tunnels di collegamento anch’essi completamente<br />

trasparenti ed il terzo blocco contiene le scale/ascensori. Volumi<br />

semplici in un gioco di vuoti e pieni orchestrati con elegante e fredda maestria.<br />

1. Vedasi Artist, <strong>Arch</strong>itetti e Teams


Fig. 1: Steven Holl – Cultural Building<br />

(Cortesia di Steven Holl <strong>Arch</strong>itects)<br />

L’edificio immaginato da Steven Holl, localizzato anch’esso lungo il lato nord<br />

dell’area, è un complesso culturale con un orpheum, come lo definisce lui stesso,<br />

cioè una serie di teatri per musica, danza e performances varie nella parte<br />

interrata e un museo per studi religiosi fuori terra. Ricorda gli spazi frammentati,<br />

spigolosi delle architetture di Hans Scharoun.<br />

Fig. 2: Rafael Viñoly – Transit Hub<br />

(Cortesia di Rafael Viñoly <strong>Arch</strong>itects)<br />

L’hub dei trasporti di Rafael Viñoly è, formalmente e concettualmente, il pezzo<br />

forte degli interventi nell’area di ground zero. Un nodo di scambio tra le reti<br />

della metrolitana, le stazioni dei treni e degli autobus tutto giocato sulle linee<br />

ondulate della copertura, dei percorsi pedonali, delle scale, dei tappeti mobili e<br />

delle rampe che intersecandosi a vari livelli consentono il passaggio tra la superficie<br />

e il sottosuolo. La parte fuori terra dell’edificio, alta circa dieci piani, ha<br />

una facciata vetrata che consente di vedere dalla piazza il brulicare della vita<br />

nel sottosuolo di New York. Spazi e superfici che salgono, scendono, si sovrap­


pongono sono un inno al flusso continuo della città contemporanea.<br />

Benchè il Times rimandi ad un concorso specifico per il memorial, viene presentato<br />

uno dei tre schizzi proposti da Maya Lin, l’autrice del Vietnam Veterans<br />

Memorial Wall a Washington, D.C. Lo schizzo propone la creazione di un’isolamemorial<br />

nell’Hudson River collegata a ground zero attraverso un viale alberato.<br />

Non una grande idea e neanche molto originale se ripensiamo per un’attimo<br />

alla proposta, ben più corposa, presentata da Steven Holl all’esibizione della<br />

Max Protetch.<br />

Per il progetto delle torri gemelle, su cui non c’è stato accordo nel team, nessuna<br />

paternità diretta, ma molti patrigni, a detta di Muschamp: da Isamu Noguchi<br />

a Bartholomew Voorsanger, da Frank O. Gehry a Richard Dattner. La<br />

proposta è generica non solo in termini formali ma anche funzionali: esse potrebbero<br />

ospitare uffici, residenze, negozi, attività culturali ma potrebbero anche<br />

rimanere vuoti monumenti, con un museo al piano terra. Le torri, una delle<br />

quali è all’interno dell’area di ground zero mentre l’altra è fuori, più a sud, sarebbero<br />

della stessa altezza di quelle originarie, più snelle e leggermente attorcigliate.<br />

Guy Nordenson si assume l’onere di illustrarne i principi strutturali.<br />

Sono presentate come un’idea, però compaiono in ben quattro immagini del<br />

giornale. Più che un’idea è un tentativo fallito: funzionalmente e architettonicamente<br />

indefinite sono lì perchè qualcuno ha deciso che devono esserci. Anche<br />

se approssimate, attorcigliate e pasticciate.<br />

Nel piano generale un forte nucleo residenziale viene previsto nel settore sud<br />

ed un’altro, meno consistente, nel settore nord dell’area del World Trade Center.<br />

L’edificio residenziale di Zaha Hadid, con facciate articolate in volumi aggettanti<br />

e rientranti, è localizzato nella remota parte terminale di West Street. Visto di<br />

lato, rassomiglia ad una gigantesca J. Il vantaggio di tale localizzazione è che<br />

consentirebbe una spettacolare vista sia del Porto di New York che della Statua<br />

della Libertà. Anche se Hadid ha parlato di fine del grattacielo tradizionale questa<br />

proposta non pare mostrare grandi innovazioni morfologico-formali o sconvolgimenti<br />

funzional-tecnologici.


Fig. 3: Frederic Schwartz<br />

and FACE –<br />

28-Story Building<br />

(Cortesia di Frederic<br />

Schwartz <strong>Arch</strong>itects and<br />

FACE)<br />

Il progetto di Frederic Schwartz prevede un edificio di media altezza con la parte<br />

bassa in calcestruzzo e vetro da destinare a negozi al minuto, a locali per artisti<br />

e a spazi per esibizioni. I piani alti di questo edificio di 28 piani ospiterebbero<br />

residenze e una serie di terrazze open-air con giardini, ad uso pubblico.<br />

Lo schizzo iniziale individua le idee base: il nucleo dei collegamenti verticali su<br />

cui si articola la composizione dei blocchi individuali al piano terra e il blocco<br />

verticale con le sue terrazze open-air, ai piani superiori. Chiara ed efficace la<br />

metodologia adottata: dall’elenco alla reintegrazione delle funzioni.


Fig. 4: Lindy Roy – Mixed-use Building<br />

(Cortesia di ROY Co.)<br />

Il progetto di Lindy Roy è un edificio di 28 piani che si ispira, nella genesi formale,<br />

al nastro stradale di West Street. La Roy, con gesto espressionista, fa<br />

continuare il nastro stradale in una protuberanza verticale che ingloba la torre<br />

multi-uso: aree commerciali ai piani inferiori, uso misto a quelli intermedi e residenziali<br />

ai piani alti.<br />

Fig. 5: Alexander<br />

Gorlin – Housing<br />

(Cortesia di Alexander<br />

Gorlin <strong>Arch</strong>itects)


L’edificio di Alexander Gorlin è una traslazione di volumi intorno ad un perno: i<br />

volumi traslati sono differenziati matericamente, due sono vetrati mentre il terzo<br />

è rivestito in mattoncini bianchi, come gli appartamenti newyorkesi del dopoguerra.<br />

L’edificio di ARO si restringe nel salire fino ai 30 piani di altezza e lascia completamente<br />

libera l’area dei piani inferiori che viene sistemata a parco.<br />

Fig. 6: Shigeru Ban – Building Prototype<br />

(Cortesia di Shigeru Ban <strong>Arch</strong>itects)<br />

Incredibilmente satura di riferimenti simbolici e formali la proposta di Shigeru<br />

Ban. La sezione mette in evidenza la tripartizione funzionale: il tunnel stradale<br />

- West Street - nella parte interrata, ampie strutture nella parte bassa fuori<br />

terra e una torre con spazi molto frammentati che culminano, nella parte alta<br />

del complesso, in una calotta sferica.<br />

Fig. 7: Koning/Eizenberg – West Street<br />

Community Center<br />

(Cortesia di Koning/Eizenberg <strong>Arch</strong>itecture,<br />

rendering by Roderick Villafranca)


Localizzato nella parte nord di West Street, l’edificio proposto da Konig/Eizenberg<br />

- accogliendo la richiesta avanzata nei pubblici dibattiti - è un centro comunitario<br />

che prevede al piano terra una libreria, un centro per bambini e un<br />

caffè; un centro per anziani, appartamenti per pensionati e una palestra pubblica<br />

occuperebbero i piani superiori. La differenziazione funzionale si riflette<br />

nelle scelte formali: un grosso blocco vetrato ai piani inferiori, una striscia al<br />

piano della palestra che funziona da cesura e un blocco variamente articolato<br />

per gli appartamenti.<br />

L’edificio a U progettato da Enrique Norton e Bernardo Gomez-Pimienta di TEN<br />

Arquitectos è un’ottima combinazione di residenze e servizi. Le due torri verticali<br />

della U, di differente altezza, e punteggiate da ampi aggetti, sono destinate<br />

a residenze mentre il blocco orizzontale è destinato a biblioteca e a negozi al<br />

minuto. Studiatissima e spettacolare la gamma cromatica che si integra perfettamente<br />

con l’impianto architettonico.<br />

Il progetto di Gwathmey/Siegel, una combinazione di residenze e albergo suggerisce<br />

un nuovo modello urbano di vita. Nell’edificio sono previsti una grande<br />

varietà di appartamenti da una a tre camere da letto, la maggior parte delle<br />

quali in duplex così da dare l’impressione agli occupanti di vivere in una piccola<br />

casa. La parte bassa, ospita le aree comuni dell’albergo e si pone in diretta relazione<br />

con la vita cittadina a livello stradale. Anche questo progetto riflette<br />

una netta distinzione formale tra spazi comunitari e residenze private.<br />

Nell’area ricavata dall’interramento di West Street, di fronte a ground zero, Peter<br />

Eisenman propone le sue tre coppie di torri per uffici, che sono l’immagine<br />

“congelata” del crollo delle Twin Towers. Le torri si elevano dal terreno nel loro<br />

profilo scatolare che diventa magmatico ai piani superiori per continuare con il<br />

profilo scatolare attorcigliato nei piani alti. Nella parte bassa di queste torri è<br />

previsto il ristorante progettato da Hernan Diaz Alonso che porta a livello stradale<br />

le colate dei profili del progetto di Eisenman. Una dimostrazione di quanto<br />

l’architettura possa percepire anche gli aspetti più crudeli della vita e trasformarli<br />

in immagini di alta poesia. Molte sono state le critiche rivolte a questa visione<br />

dell’architettura da chi vorrebbe che questa fosse invece espressione di<br />

regole auree, feticci prospettici e dogmi proporzionali; quelle torri in “pericolo<br />

di crollo” testimoniano invece che l’architettura non si alimenta più di certezze<br />

assolute e di riti astratti ma attinge direttamente alla vita quotidiana. E con risultati<br />

eccellenti.


Fig. 8: Rem Koolhaas –<br />

Office Tower<br />

(Cortesia di Rem Koolhaas/OMA)<br />

Sempre su West Street, ma a sud di ground zero, la torre per uffici alta 60 piani<br />

di Rem Koolhaas, Dan Wood e Joshua Ramus (OMA). L’edifico è impropriamente<br />

chiamato per uffici, in realtà è previsto anche per abitazioni, appartamenti,<br />

camere d’albergo, negozi e spazi culturali; il tetto è pensato come<br />

un’ampia area verde. A livello terra le torri che si innalzano sono tre e vanno<br />

aumentando di volume man mano che salgono per incontrarsi ai piani alti, i più<br />

ambiti e costosi, creandovi spazi più ampi.<br />

Fig. 9: Rem Koolhaas – Supporting Building<br />

(Cortesia di Rem Koolhaas/OMA)


Rem Koolhaas progetta anche un edificio di supporto che crea connessioni con<br />

gli edifici vicini. Un sistema già sperimentato nel progetto vincente per la sistemazione<br />

di un’area centrale di Oslo, l’ameba che lì si infilava negli interstizi liberi<br />

della città per catturare gli edifici ed attrarli con l’offerta di spazi culturali,<br />

qui serve a creare un continuum tra interventi nuovi ed edifici esistenti.<br />

Infine due pezzi ad effetto, fantasiosi e perfettamente inutili: il cyber teatro di<br />

David Rockwell e la torre di trasmissione Guy Nordenson e Henry Cobb.<br />

Il bizzarro cyber teatro di David Rockwell, chiamato “Il muro del rischio” è<br />

nient’altro che un gigantesco stadio sospeso sopra il New York Stock Exchange.<br />

I giganteschi pilastri che lo sostengono si ergono dalla sala delle contrattazioni<br />

riciclata con una serie di aree incassate destinate alla discussione. Un idea, ci<br />

assicura Muschamp, non condivisa da tutto il team.<br />

Fig. 10: Guy Nordenson and Henry N. Cobb –<br />

Seven Stems<br />

(Cortesia di Guy Nordenson and Henry N. Cobb)<br />

La torre per trasmissioni di Guy Nordenson e Henry N. Cobb, che dovrebbe<br />

rimpiazzare quella che una volta era in cima al World Trade Center, è prevista<br />

adiacente New York Stock Exchange e sarebbe la più alta del mondo: 7 pilastri<br />

cilindrici di <strong>oltre</strong> 4 metri di diametro si eleverebbero convergendo a 2,100 piedi.<br />

Piattaforme per vedute sarebbero sistemate a varie altezze. Da rilevare che<br />

nel progetto non si fa cenno, e non si intravedono ascensori per raggiungerle!<br />

L’iniziativa di Muschamp provoca non poche reazioni. Il New York Observer<br />

gioca d’anticipo il 12 agosto 2002 con un rilievo di ordine etico quando scrive:<br />

“Parecchie fonti familiari con l’iniziativa di Times si chiedono se la presenza di<br />

Muschamp quale organizzatore non lo metta in un ruolo precario, un critico che<br />

fa ora il supervisore di professionisti il cui lavoro lui copre giornalisticamente e<br />

giudica.” 2 L’articolo, sempre citando fonti familiari con il New York Times, scrive<br />

2. Sridhar Pappu, The New York Observer, August 12, 2002


che altri giornalisti del quotidiano avrebbero espresso riserve e chiesto il ritiro<br />

delle proposte.<br />

Carter B. Horsley, su The City Review definisce la proposta di Muschamp “il miglior<br />

esempio di giornalismo architettonico della storia” 3 , anche se ha qualche<br />

perplessità, e non potrebbe essere altrimenti, sulla lista degli invitati. Lui stesso<br />

ne fornisce una che è altrettanto incompleta di quella di Muschamp. Il problema,<br />

sembra ovvio, non sono le liste più o meno complete quanto il metodo<br />

di selezione che, al di fuori di una competizione, non può che essere inevitabilmente<br />

arbitrario e incompleto.<br />

Gavin Keeney, un architetto paesaggista di New York, critica duramente, su<br />

Counter Punch 4 , Muschamp e la sua iniziativa, giudicandolo uno dei peggiori<br />

critici di architettura del mondo. Si fa prendere la mano dal furore e ne chiede<br />

esplicitamente la censura. “Herbert Muschamp dovrebbe essere bandito dai<br />

commenti su <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> fino a quando non ha aggiornato i suoi precetti<br />

estetici, retorici, formali ed etici.” 5 La critica in termini architettonici ed urbanistici<br />

è comunque inconsistente. Keeney chiude chiedendo, giustamente, un<br />

concorso e la partecipazione pubblica al processo.<br />

Anche l’architetto Robert Kupiec, presidente del Van Alen Institute, critica le<br />

proposte del New York Times, che punterebbe tutto su edifici firmati e non su<br />

un processo interdisciplinare.<br />

L’attacco più velenoso, con accostamenti surreali, proviene da Michael Sorkin<br />

che dalle pagine di <strong>Arch</strong>itectural Record 6 picchia duro su Muschamp per “la logica<br />

della particella”, cioè l’assegnazione a ciascun architetto di un particella<br />

dell’area in cui intervenire. Assimilando di fatto tutta l’operazione a una gigantesca<br />

speculazione immobiliare. Al pari di Kupiec accusa Muschamp, e i teams,<br />

di mancanza di visione urbanistica e di puntare tutto sull’effetto “celebrità”.<br />

Sorkin si fa prendere dalla foga e finisce per perdere ogni credibilità critica<br />

quando paragona Muschamp a Napoleone III e Schwartz ad Haussmann elevando,<br />

anche se solo per assurdo, Larry Silverstein al rango di Cosimo de’ Medici.<br />

Ugualmente critica la posizione di Susan Szenasy 7 , direttrice di Metropolis che<br />

ritiene le proposte premature, prive di una seria analisi e di una solida ricerca,<br />

proposte cioè senza un piano e senza un programma precisi. Sostiene e chiede<br />

che gli architetti diano il loro apporto, ma solo dopo un ampio ed esaustivo dibattito.<br />

Chris C. Sullivan 8 , direttore di <strong>Arch</strong>itecture, loda l’intenzione di dare spazio alla<br />

buona architettura e il desiderio degli architetti di dare comunque una risposta<br />

3. Carter B. Horsley, The The New York Times, World Trade Center Master Plan, The City<br />

Review, September 8, 2002<br />

4. Gavin Keeney, Losing <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>, Twist & Shout, The The New York Times Takes on<br />

<strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>, CounterPunch September 9, 2002<br />

5. Gavin Keeney, Losing <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>, Twist & Shout, The The New York Times Takes on<br />

<strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>, cit.<br />

6. Michael Sorkin, Making lists: the byzantine politcs of picking design firms for <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>,<br />

<strong>Arch</strong>itectural Record November 2002, p. 63-4/66<br />

7. Susan S. Szenasy, Editorial: After The Fall, Metroplis October 2002, p. 22<br />

8. C.C. Sullivan, Building a Fantasy, <strong>Arch</strong>itecture October 2002, Editorial, p. 11


alla gente smarrita, ma critica il piano lineare impostato su West Street giudicandolo<br />

parziale. Mette infine in guardia contro il duplice pericolo a cui va incontro<br />

la proposta: spaventare o sedurre i leaders cittadini ed il pubblico.<br />

L’operazione del New York Times è inficiata, a nostro parere, da due madornali<br />

errori di impostazione:<br />

(1) è fatta con un irritante spirito di casta che pretende di avocare a sè l’intero<br />

processo pianificatorio, esautorando le altre componenti ed in particolare il potere<br />

politico. Un imperdonabile atto di presunzione e arroganza;<br />

(2) alcune proposte, che, come hanno rilevato molti critici, scontano una impostazione<br />

urbana approssimativa e confusa, sono al limite dell’arbitrarietà e del<br />

narcisismo fine a sè stesso. Il pasticcio delle torri gemelle, il fantasioso cybertheater<br />

e la torre delle telecomunicazioni ne sono la manifestazione più visibile<br />

e macroscopica.<br />

L’atteggiamento lezioso di una cerchia di architetti di grido, unito alla supponenza<br />

del critico di un quotidiano che conta, si rivela come una dotta ma sterile<br />

esercitazione da laboratorio intellettuale più che un serio tentativo di risolvere i<br />

problemi che attanagliano il processo di ricostruzione. “Non ricostruite. Reimmaginate”,<br />

il titolo dell’articolo di Muschamp di presentazione delle proposte, è<br />

affascinante e ad effetto, ma è nulla più che uno slogan. Benchè a livello di singoli<br />

interventi, come abbiamo già visto, gran parte di essi si siano rivelati di indubbio<br />

valore ed alcuni (Eisenman, Viñoly) raggiungano livelli lirici, l’approccio<br />

generale è generico, nebuloso, ipotecato dal fiorire di principi futili o vuoti (la<br />

struttura più alta del mondo, il muro del rischio) e da atteggiamenti inutilmente<br />

autocelebrativi. Le reazioni di rigetto di chi rifiuta questi riti da casta sono<br />

inevitabili e devastanti. Reazioni che si palpano non solo in un linguaggio al limite<br />

della scurrilità – nei forums online - ma, come detto, nello stesso ambiente<br />

intellettuale. Ecco perchè, per dirla con Chris Sullivan, il pubblico ed i leaders<br />

politici sono, il più delle volte, spaventati invece che sedotti da questo genere<br />

di proposte.<br />

Quello del team messo insieme da Muschamp è un tentativo di trasferire, con<br />

atteggiamenti paternalistici obsoleti, la propria ideologia ad ampi strati di cittadini,<br />

in un momento in cui sono a portata di mano i mezzi per il coinvolgimento<br />

diretto dell’utente nell’esperienza progettuale <strong>oltre</strong> che estetica. Iniziative<br />

come questa servono solo a perpetuare anacronistiche barriere di divisione del<br />

sapere. In<strong>oltre</strong> se l’obiettivo dell’iniziativa era quello di provocare una discussione<br />

sui contenuti questo è fallito proprio perchè le critiche si sono appuntate<br />

più sul metodo che sulla sostanza. Se l’obiettivo era quello di proporre un piano<br />

e delle priorità anche qui siamo al fallimento perchè non di piano e priorità<br />

si tratta ma solo di arbitrarie estrapolazioni: l’appiattimento sull’asse di West<br />

Street si è rivelato un boomerang, perchè l’asse rimane indifferenziato ed è l’anello<br />

debole del sistema invece che la spina dorsale come si presumeva che<br />

fosse. Un sistema di nodi su cui imperniare il disegno urbanistico avrebbe dato<br />

maggior respiro anche al tessuto urbano esistente, che per quanto indifferenziato<br />

e privo di qualità avrebbe trovato una ragione d’essere nel costituire la<br />

connessione tra le emergenze architettonico-urbanistiche esaltandone il valore,<br />

come il solo Koolhaas ha intuito. Il New York Stock Exchange sarebbe potuto


essere uno dei nodi invece che un punto isolato e slegato dal contesto.<br />

Prese in sè e per sè proposte interessanti, ma da relegare negli scaffali delle<br />

esercitazioni accademiche, con un’eccezione: la casisistica degli edifici multiuso.<br />

Un tema a cui le cosiddette stars non sembrano molto attente. Le proposte<br />

di Gwathmey, Roy, ARO, Gorlin, Schwartz, Konig/Eizenberg, TEN Arquitectos<br />

sono una casistica che sarebbe sciocco sperperare. Costituiscono un’ottima<br />

base di partenza per affrontare il problema delle strutture intensive che a causa<br />

di madornali errori di pianificazione e di gestione sono state e vengono<br />

sconsideratamente demonizzate. L’integrazione di residenza, commercio, servizi,<br />

svago è ormai un dato generalmente acquisito, ma a gound zero l’occasione<br />

storica per realizzare una struttura che esprimesse al massimo livello quell’integrazione<br />

è stata sconsideratamente gettata al vento.<br />

2.3. Le proposte del New York Magazine<br />

Sempre nella focosa estate del 2002, Joseph Giovannini, critico di architettura<br />

di New York Metro, invita 7 gruppi di architetti 9 a fare proposte per la ricostruzione<br />

del World Trade Center.<br />

Pur concordando con Muschamp che l’architettura debba avere un ruolo di traino<br />

nel disegno urbano e non debba attendere onnicomprensivi piani urbanistici<br />

per esprimersi, ne differisce per la metodologia adottata: Muschamp organizza<br />

il lavoro del gruppo di architetti da lui selezionati intorno ad un piano unico,<br />

Giovannini chiede ad ogni gruppo invitato di fare una proposta complessiva per<br />

l’area. Senza limiti precisi e senza vincoli specifici.<br />

Zaha Hadid chiarisce nella sua proposta (vedi http://www.newyorkmetro.com/news/articles/wtc/proposals/architects/hadid/gallery/2.htm)<br />

quello che,<br />

nell’esposizione alla Max Protetch Gallery, definiva il modo nuovo di fare i grattacieli:<br />

due coppie di torri di differente spessore, progettate in collaborazione<br />

con Patrick Schumacher, che salgono sinuosamente convergendo in più punti.<br />

La coppia più sottile è destinata ad uso residenziale mentre quella più robusta<br />

ad uffici. Naturalmente non mancano spazi per shopping e cultura. È una reinvenzione<br />

del grattacielo, comune ad altri progettisti, che rifiuta la pedissequa<br />

ripetizione di piani uguali per creare scatoloni in vetro e acciaio. Il principio di<br />

portare nei piani alti delle torri la pulsante vita del livello strada si fa strada timidamente<br />

anche se in maniera meno marcata di altre proposte. Un modello<br />

decisamente più innovativo di quello che abbiamo visto nell’iniziativa del New<br />

York Times.<br />

9. Vedasi Artisti, <strong>Arch</strong>itetti e Teams


Fig. 11: Thom Mayne –<br />

WTC Scheme<br />

(Cortesia di Morphosis)<br />

Thom Mayne di Morphosis progetta quello che è a tutti gli effetti un grattacielo<br />

orizzontale, un tubo continuo ondulato, che ospita gli uffici, striscia e avvolge<br />

i lati nord, sud ed ovest dell’area per sfocire nell’Hudson River. Come il<br />

serpente delle fantasie giovanili di Jack Kerouac di Doctor Sax. Lo spazio avvolto<br />

ospita un parco e le impronte delle torri originarie sistemate, una come piazza<br />

isolata, oasi di riflessione e l’altra quale memorial interrato individuabile al<br />

livello del parco dall’oculo di accesso. Verso sud il parco si solleva, quasi fosse<br />

spinto dalle infrastrutture sotterranee - la metropolitana, il sistema ferroviario<br />

e le attività commerciali - aprendosi in uno squarcio lungo Fulton Street, ed<br />

esponendo quelle infrastrutture alla vista dal parco soprastante. A una torre reticolare,<br />

una moderna Tour Eiffel per comunicazioni, alta 1,300 piedi e rivestita<br />

con un telo metallico, è affidato il ruolo di ancorare il sito allo skyline di New<br />

York. I diversi livelli visibili nello squarcio rimandano agli incroci plurilivelli delle<br />

freeways californiane, ben nori all’architetto angeleno.<br />

Peter Eisenman propone una serie di normali, convenzionali, banali torri lungo<br />

tutto il perimetro dell’area che però ai liveli bassi si disgregano fluendo l’una<br />

sull’altra accatastandosi in ammasso informe che memorizza il collasso delle<br />

torri originarie (vedi http://www.newyorkmetro.com/news/articles/wtc/proposals/architects/eisenman/gallery/index.htm).<br />

É una versione in linea con quella<br />

proposta per il New York Times: lì le torri erano chiaramente separate mentre<br />

qui fluiscono l’una nell’altra. Là le torri erano accartocciate al centro qui alla<br />

base. Le torri sbocciano da quell'ammasso informe, da quei rottami che tanto<br />

indignano coloro i quali cercano nell’architettura l’orgoglio, la rivincita. Per Eisenman<br />

l’architettura è lo specchio della società, in tutte le sue sfaccettature, e<br />

quindi ecco lo straordinario incrocio di distruzione e rinascita, di rigidità e fluidità,<br />

di memoria e futuro. Un progetto che è come un pugno sullo stomaco, tanto<br />

è brutale nel suo disarmante simbolismo.


Fig. 12: William Pedersen – WTC Scheme<br />

(Cortesia di Kohn Pedersen Fox Associates PC)<br />

William Pedersen, al pari di Thom Mayne esce dai ristretti limiti dell’area e si<br />

spinge sino al porto dove fanno scalo i battelli per la Statua della Libertà. Lì finisce<br />

la memorial promenade inclinata lungo cui scorre l’acqua aspirata dall’Hudson<br />

River e purificata nel suo percorso verso il porto. La promenade sale<br />

fino al sito del World Trade Center diventando il tetto di un blocco per residenze<br />

e uffici ad altà densità, spezzato in segmenti dall’intersezione delle strade<br />

della griglia. La progettazione dei segmenti, onde evitare la monotonia della<br />

mano unica, potrà essere affidata a progettisti differenti. La composizione culmina<br />

nella torre alta 2001 piedi che sovrasta le impronte delle torri originarie<br />

trasformate in vasche riflettenti. In cima turbine a vento e pannelli solari. Il ruscello<br />

d’acqua, <strong>oltre</strong> ad assolvere ad una funzione simbolica, servirà anche ad<br />

alimentare gli edifici sottostanti.<br />

Benchè a prima vista possa ricordare, non senza brividi sulla schiena, il muro<br />

di Berlino in realtà l’impressione è attenuata, benchè non cancellata del tutto,<br />

da quelle interruzioni agli incroci che lo riportano nel contesto degli altri edifici<br />

della maglia di Manhattan, con il vantaggio di avere un elemento unificante sul<br />

tetto: la promenade/memorial/fiume.<br />

Anche Pedersen si fa prendere la mano dalla torre-più-alta-del-mondo.


Fig. 13: Wolf Pix – WTC Scheme<br />

(Cortesia di © Coop Himmelb(l)au)<br />

Wolf Prix gioca la carta pop. Una gigantesca clessidra sorretta da tre torri di<br />

100 piani l’una domina lo scenario di Lower Manhattan. La parte bassa della<br />

clessidra è il memorial, una cupola vetrata racchiude le impronte delle torri ed<br />

è circondata da una informe basamento destinato ad attività culturali, alberghi,<br />

centri commerciali ed uffici pubblici. La parte alta è un catino per appartamenti,<br />

lo “Skyliving” come lo definisce lo stesso Prix. Il raccordo è una gigantesca<br />

spirale/promenade. Le tre torri ospitano un mix di appartamenti ed uffici.<br />

Qualcuno, esagerando, ha definito il progetto adatto a Disneyland. Non siamo a<br />

questi livelli ma siamo comunque di fronte a un progetto retrodatato. Un incidente<br />

di percorso dell’altrimenti bravissimo Prix.<br />

Fig. 14: Carlos Zapata –<br />

WTC Scheme<br />

(Cortesia di Carlos Zapata, Wood+Zapata)


Carlos Zapata punta sulla paesaggistica per giustificare la torre alta 130 piani.<br />

Abbassa West Street da Chambers Street fino all’approdo dei battelli per la<br />

Statua della Libertà e crea un parco attraversato da un fiume, alimentato dall’Hudson,<br />

che sfocia nel porto. Il parco ed il fiume si allargano ad abbracciare il<br />

sito del World Trade Center dove una torre solitaria, sfaccettata e attorcigliata<br />

si eleva a marcare lo skyline. La torre, 12 milioni di piedi quadrati, è ad uso<br />

misto uffici e residenze (4 milioni di piedi quadrati). Il fiume abbraccia anche le<br />

impronte delle torri che sono coperte con un tetto vetrato per illuminare i livelli<br />

sottostanti occupati da negozi e dal sistema dei trasporti. Un ponte pedonale<br />

scavalca le impronte e collega il parco con la zona est dell’area. Greenwich<br />

Street viene ripristinata ma con una curva che rende liberi alcuni blocchi ad est<br />

e che potranno essere progettati da architetti differenti.<br />

Una grande combinazione parco-fiume-grattacielo-percorsi-jumbo skylight. L’idea<br />

del fiume ha fatto storcere il muso a non pochi critici, perchè creerebbe<br />

una barriera tra le due aree di Manhattan e sarebbe un’intruso in un area densamente<br />

edificata. L’attuale superstrada West Street è la vera barriera, il fiume<br />

ed il parco sono invece una ricucitura tra le due aree di Manhattan. Il parco<br />

in<strong>oltre</strong> attenua l’impatto della torre. La proposta è un ritorno agli anni ’60<br />

quando l’area fu sottratta all’Hudson con ciclopiche opere di riempimento per<br />

l’edificazione.<br />

Urbanisticamente brillante la soluzione di ricostruire Greenwich Street in curva<br />

invece che seguire pedissequamente la griglia di Manhattan. Un riaggancio al<br />

contesto di Manhattan di grande valore.<br />

La torre che in alcuni renderings assomiglia vagamente ad una colonna tortile<br />

in pietra è ingiustificatamente alta persino rispetto alle superfici richieste dal<br />

programma ufficiale.<br />

Quanto poi alle accuse di creare nuovi bersagli ai terroristi queste paiono risibili<br />

dal momento che New York ha altri obiettivi appetibili per attacchi: il Lincoln<br />

Center, l’Empire State, il ponte di Brooklyn e via dicendo.<br />

Lebbeus Woods propone un’action-achitecture di grande impatto emozionale<br />

che troppo velocemente è stata liquidata come “incubo” (vedi http://www.newyorkmetro.com/news/articles/wtc/proposals/architects/woods/index.htm).<br />

La<br />

sua visione è una struttura in continua costruzione che cresce sino a diventare<br />

l’edificio più alto del mondo, che si rigenera e cambia in modo perpetuo, restando<br />

sempre l’edificio più alto del mondo. L’edificio ha una data di inizio ma<br />

non finirebbe mai.<br />

La sua torre di 39 milioni di piedi quadrati “The Ascendent” è un memorial verticale<br />

che contempla quattro esperienze differenti: a) il Pellegrinaggio, della<br />

durata di un mese, attraverso un difficile percorso verticale punteggiato da stazioni;<br />

b) l’Ospite, della durata di una settimana, con scalate nelle pareti verticali,<br />

terrazze, aree di riposo e campi; c) mil Viaggio, della durata di due/tre<br />

giorni che i turisti spendono tra piattaforme, ascensori, scale mobili, display interattivi,<br />

alberghi, ristoranti e programmi di intrattenimento; d) il Tour, della<br />

durata mezza giornata, da spendere nella sommità del Parco con un viaggio


negli ascensori rapidi e soste in schermi commemorativi. In cima c’è il Summit<br />

una comunità di pellegrini, scalatori, turisti e lavoratori del World Center che si<br />

uniranno a studiosi, studenti, artisti e filosofi dediti allo studio dell’11/9.<br />

Su questa proposta si sono scatenati, ed era ovvio, le menti ristrette che vi vedono<br />

solo incubi, mostri e inedificabili torri di Babele senza comprendere che<br />

un’immagine visionaria può contribuire più di un edificio fattibile al progresso<br />

architettonico. E alle accuse di dilettantismo a Woods rispondiamo ricordando<br />

che è laureato in ingegneria. Molti non hanno colto l’apetto puramente emozionale,<br />

riflessivo della proposta. E, nel dubbio che qualcosa di decente possa mai<br />

essere costruito a ground zero, questa proposta invita e riflettere sui valori dell’architettura.<br />

L’idea grandiosa di Woods è l’edificio in continua crescita, in continuo cambiamento,<br />

un organismo vivente. Un processo che riporta al dato umano ad un<br />

pre-design che precede ogni formulazione pratica. Mentre tutti si affaticano a<br />

disegnare belli edifici Woods invita a fermarsi un’attimo e a riflettere sull’architettura<br />

e sulla vita. Un’autentica, poetica, serena provocazione.<br />

Con il 90% delle costruzioni che sono pura spazzatura molti si attardano a criticare<br />

Woods, che se non altro ha il coraggio di pensare, rifiutando il pragmatismo<br />

commerciale. Come dimenticare il modo con cui furono accolte le opere di<br />

Gaudì? L’architetto catalano fu praticamente cancellato dalla storia dell’architettura<br />

per quelle sue contorsioni strutturali, per quelle escrescenze materiche,<br />

per quelle colate laviche che anticipano le esplosive opere espressioniste di<br />

Mendelsohn.<br />

Per concludere. L’iniziativa del New York Magazine è più affine a quella della<br />

Max Protetch Gallery che a quella del New York Times. Non c’è un pseudo-piano<br />

nè la suddivisione in particelle; il tono è, intellettualmente, meno lezioso e<br />

le singole proposte non si avvitano in principi futili ed evasivi e non scadono<br />

nell’arbitrarietà più spinta. C’è una maggiore attenzione agli elementi che possiamo<br />

chiamare urbatettonici, le connessioni tra gli edifici ai vari livelli, compresi<br />

quelli sotterranei, e le connessioni con brani di città, quali il porto o il fiume.<br />

Un’attenzione che non si risolve in semplici indicazioni programmatiche ma<br />

che affida al linguaggio architettonico il compito di tradurre gli aridi parametri<br />

socio-economici in strutture espressive. Come giustamente afferma Giovannini<br />

“L’architettura non può essere messa a tappo alla fine del processo progettuale<br />

perchè il progetto stesso è il potente strumento della pianificazione.” 10<br />

Proposte in un certo senso “visionarie”, difficili da digerire ma un’alternativa<br />

creativa ai sei vuoti schemi estivi della Lower Manhattan Development Corporation,<br />

frutto della schizofrenica corsa a ricostruire in fretta e furia.<br />

10. Joseph Giovannini, Rising to Greatness, New York Metro, September 2002


<strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> e <strong>oltre</strong><br />

Traiettorie urbatettoniche per il XXI secolo<br />

(PARTE III)<br />

di Mariopaolo Fadda


3. IL CONCORSO UFFICIALE PER LA RICOSTRUZIONE<br />

Nel luglio del 2002 la Lower Manhattan Development Corporation, l’agenzia<br />

creata ad hoc per la ricostruzione, incurante delle critiche generalizzate sulla<br />

gestione autarchica dell’operazione, presenta pomposamente sei schemi per la<br />

ricostruzione del World Trade Center. Sei schemi tardo-ottocenteschi, sei mediocri<br />

variazioni sul tema del più squalificato commercialismo. Sei piani in cui<br />

l’unica preoccupazione è di dare un’immagine di tronfia magniloquenza alla<br />

Haussmann, per intenderci, ai milioni di metri quadrati di spazi commerciali da<br />

affittare (vedi http://www.renewnyc.com/plan_des_dev/studies/concepts/default.asp).<br />

Che le avvisaglie della débacle ci fossero tutte lo conferma lo stesso presidente<br />

della LMDC, John C. Whitehead, durante la presentazione delle proposte, quando<br />

dice che il pubblico dovrebbe considerare le proposte non sei ma sette. Cioè<br />

se le proposte non dovessero piacere.... tutto potrebbe tornare in gioco. Nel<br />

mondo politico e degli affari il disaccordo regna comunque sovrano. Basti pensare<br />

che Giuliani, l’ex-sindaco è contrario a qualsiasi ricostruzione, Bloomberg,<br />

sindaco in carica liquida il tutto affermando che nessuna delle soluzioni lo affascina<br />

e che ci sono comunque anche altre possibili soluzioni.<br />

L’agenzia ha ostinatamente rifiutato tutte le sollecitazioni perché organizzasse<br />

un concorso internazionale ed i risultati sono gli occhi increduli di gran parte<br />

degli addetti ai lavori e dei cittadini.<br />

Gli autori di tanta insulsaggine? Lo studio Beyer Blinder Belle, scelti dalla LMDC<br />

perché acclamati autori del restauro della Grand Central Station ma benemeriti<br />

sconosciuti come progettisti. Il soprannome con cui sono conosciuti nell’ambiente?<br />

Bla, Bla, Bla. I consulenti del consiglio dell’agenzia? Lo studio<br />

Peterson/Littenberg <strong>Arch</strong>itects. Littenberg è un seguace di Leon Krier e Prince<br />

Charles. Sull’argomento nient’altro da aggiungere se non che le uniche cose<br />

veramente assente in questa parata retorico-affaristica sono l’urbanistica e l’architettura.<br />

Oltre ad avere a che fare con progettisti di scarsa levatura l’agenzia deve fare i<br />

conti con una comprensibile ma ingiustificata fretta, come confessa candidamente<br />

Alexander Garvin a Martin C. Pedersen, direttore esecutivo della rivista<br />

Metropolis “Dobbiamo ricostruire il sito e farlo il più rapidamente possibile o i<br />

miei concittadini si sbarazzeranno di tutti noi. Rivogliono la loro città... La<br />

quantità di interessi che saranno in gioco in qualsiasi cosa si farà qui non diminuirà<br />

nel tempo. La politica sarà con noi per lungo tempo. Il mio lavoro non è<br />

avere una particolare idea oggi, ma mandare avanti la cosa in modo da ottenere<br />

il miglior risultato possibile.” 1<br />

La polemica, già innescata da <strong>Arch</strong>itectural Record e dal New York Times sin<br />

dai mesi precedenti la presentazione, si rinfocola. Come è giusto che sia. L’agenzia<br />

è costretta ad abbandonare in fretta e furia i piani-farsa e cercare sboc­<br />

1. Alexander Garvin intervistato in Man in the Middle, Metropolis October 2002 (inside has an<br />

interview to Alexander Garvin made by Martin C. Pedersen Metropolis executive editor),<br />

pp. 58


chi alternativi coinvolgendo praticamente tutti i migliori architetti del mondo.<br />

Viene lanciato un concorso internazionale con la premessa però che non di<br />

concorso vero e proprio si tratta ma della selezione di un team per la predisposizione<br />

del master plan. Il programma non è nient’altro che una succulenta lista<br />

della spesa: da 6 milioni e mezzo a 10 milioni di piedi quadrati di superficie<br />

per uffici, da 600 mila a 1 milione di piedi quadrati per negozi, una spuzzata di<br />

attrezzature culturali e civiche, un “potente elemento nello skyline”, una promenade<br />

su West Street. La lista consiglia in<strong>oltre</strong> di tenere libere le impronte<br />

delle torri originarie e suggerisce anche edifici a destinazione residenziale, ma<br />

non all’interno dell’area.<br />

La partecipazione è massiccia: 405 teams per un totale di <strong>oltre</strong> 900 architetti<br />

coinvolti, a vario titolo, nella competizione. Un’apposita commissione 2 seleziona<br />

i sette teams che parteciperanno alla fase finale: United <strong>Arch</strong>itects, Foster &<br />

Partners, SOM, Meier & C. (Eisenman, Gwathmey, Holl), Peterson/Littenberg,<br />

THINK e Daniel Libeskind. Il 18 dicembre nel Winter Garden, con grande sfoggio<br />

pubblicitario, vengono presentate ufficialmente le 9 proposte (THINK ne<br />

presenta 3) che si contenderanno la vittoria.<br />

2. Toshiko Mori – della Harvard University<br />

Terence Riley – curatore del settore architettura del MoMA<br />

Michael Van Valkenburgh – architetto paesaggista<br />

Richard N. Swett – architetto eletto al Congresso americano<br />

Kinshasha Holman Conwill - direttore dello Studio Museum di Harlem<br />

Eugenie L. Birch – capo del dipartimento di pianificazione dell’Università della Pennsylvania


3.1. Le proposte<br />

3.1.1. UNITED ARCHITECTS<br />

Gli United <strong>Arch</strong>itects 3 propongono l’edificio più ampio e più alto del mondo, in<br />

due versioni alternative una di 112 piani per <strong>oltre</strong> 9 milioni di piedi quadrati e<br />

l’altra di 80 piani per circa 6 milioni e mezzo. Intorno alla vasta piazza al livello<br />

stradale, che ingloba i “pozzi” vuoti delle due torri scomparse, dispongono ad<br />

arco una serie di torri asimmetriche e sfaccettate che si inclinano in più direzioni<br />

e si incontrano per cinque piani a 800 piedi da terra - al 60 mo piano - a formare<br />

una “City in the Sky.” Quest’area è destinata a negozi, caffè, centri educativi<br />

e sportivi, giardini, un centro trasmissioni e una sala conferenze. “La<br />

possibilità di un grande quantità di piani connessi tra loro sollecita non solo<br />

nuove funzioni pubbliche ad altezze senza precedenti ma anche ampi e contigui<br />

livelli che possono attrarre nuovamente le compagnie dai suburbi a Lower<br />

Manhattan. Attraverso il complesso, giardini verticali sono previsti ogni 5 piani<br />

migliorando così l’ambiente di lavoro e consentendo il massimo possibile di<br />

luce solare, risparmiando energia e migliorando le viste panoramiche.” 4<br />

Al livello della piazza le torri si divaricano a formare enormi varchi attraverso<br />

cui la gente può entrare, da diverse direzioni, nel recinto “cathedral-like”, come<br />

lo definiscono gli autori. Una delle torri ospita un hotel nella parte bassa e residenze<br />

in quella alta, mentre le altre ospitano uffici e ristoranti. Sono previste<br />

due fasce di lobbies, una al piano terra e l’altra ad un livello intermedio. In termini<br />

di sicurezza, aree di rifugio sono dislocate ogni trenta piani.<br />

Con un percorso a spirale i visitatori possono scendere fino a quota -75 piedi<br />

alle impronte delle torri e da lì guardare verso l’alto, attraverso le aperture delle<br />

impronte, la foresta di torri e lo “Sky Memorial” posto in cima ad una di esse<br />

ed a cui i visitatori possono accedere in una sorta di pellegrinaggio ascendente.<br />

Da lì guardando verso il basso possono osservare i vuoti delle impronte. Una<br />

drammatica scansione cinematografica, una temporalizzazione dello spazio che<br />

trova un’equivalente nelle catacombe cristiane.<br />

Nella parte interrata sono previsti un museo, un teatro, un centro conferenze,<br />

negozi, e la stazione transiti, dotata di una vasta rete di connessioni con le<br />

strade, la piazza e il memorial. Un edificio di 5 piani, allo stesso livello della<br />

stazione, è destinato alle connessioni multi-modali di MTA, PATH e ferrovia sopraelevata.<br />

La copertura di questo edificio interrato è la base dell’area destinata<br />

al memorial.<br />

3. Foreign Office <strong>Arch</strong>itects, Greg Lynn FORM, Kevin Kennon <strong>Arch</strong>itect, Reiser + Umemoto<br />

RUR <strong>Arch</strong>itecture, Imaginary Forces e UN Studio<br />

4. Dalla relazione di presentazione della proposta di United <strong>Arch</strong>itects


Fig. 1: United <strong>Arch</strong>itects -<br />

Il plastico<br />

(Cortesia di United <strong>Arch</strong>itects)<br />

Fig. 2: United <strong>Arch</strong>itects – Piante<br />

(Cortesia di United <strong>Arch</strong>itects)


Fig. 3: United <strong>Arch</strong>itects – Vista generale<br />

(Cortesia di United <strong>Arch</strong>itects)<br />

Fig. 4: United <strong>Arch</strong>itects – Skyline<br />

(Cortesia di United <strong>Arch</strong>itects)


Fig. 5: United <strong>Arch</strong>itects – Il memorial<br />

(Cortesia di United <strong>Arch</strong>itects)<br />

Fig. 6: United <strong>Arch</strong>itects – Lo Sky Memorial<br />

(Cortesia di United <strong>Arch</strong>itects)


3.1.2. FOSTER & PARTNERS<br />

Foster ripartisce l’intervento in tre memorials: i vuoti, le torri, il parco. 5<br />

Le impronte delle torri sono lasciate vuote e delimitate con muri in acciaio e<br />

pietra. “Da questi tranquilli spazi non saranno visibili né edifici, né alberi, solo<br />

il cielo.” 6 Queste impronte saranno, in pratica, off-limits per i visitatori e questo<br />

ha giocato sicuramente un ruolo nella sconfitta di Foster la cui proposta era<br />

data quale preferita in due sondaggi nazionali condotti da CNN e Newsweek.<br />

La coppia cristallina di torri gemelle, che raggiunge l’altezza di 1,764 piedi è<br />

basata simbolicamente, <strong>oltre</strong> che strutturalmente, sul triangolo e sulla croce.<br />

“Le due metà si baciano in tre punti, creando piattaforme pubbliche di osservazione,<br />

spazi per mostre, caffè e altre attrezzature. Questi collegamenti, quali<br />

vie di fuga da una torre all’altra, sono benifici per la sicurezza. Essi romperanno<br />

la scala della torre in agglomerati tipo villaggio, ognuno con il suo proprio<br />

atrio. Questi spazi piantumati – veri e propri parchi sospesi - purificheranno<br />

l’aria naturale e ventileranno l’edificio.” 7 Pareti d’avanguardia in vetro multistrato<br />

consentiranno un risparmio energetico per l’80% dell’anno.<br />

Intorno alle aree inviolabili delle impronte originarie è articolato il parco che<br />

scavalca West Street e collega il sito al porto e a Battery Park. Il piano propone<br />

anche di ripristinare Fulton Street e Greenwich Street cioè la griglia stradale interrotta<br />

negli anni ’60. Ma <strong>oltre</strong> a ripristinarla propone anche di ripensarla urbanisticamente<br />

“in scala umana fiancheggiata da negozi, ristoranti, cinema e<br />

bars che assicurino un’animazione dell’area 24 ore su 24.” 8<br />

Interrato sotto le torri il New Multi-Transportation Center.<br />

La proposta di Foster dimostra che se si vuole una vasta area per il memorial e<br />

contemporaneamente conservare interamente le superfici commerciali questa è<br />

la strada da seguire. Ma nonostante dal punto di vista formale e tecnologico sia<br />

una delle migliori e più convincenti proposte, Foster resta tagliato fuori perché,<br />

come mette in evidenza Goldberger 9 , ha largamente ignorato le direttive della<br />

LMDC di poter costruire, in virtù delle richieste del mercato, per lotti scaglionati<br />

nel tempo.<br />

6. Dalla relazione di presentazione della proposta di Foster and Partners<br />

7. Ibid.<br />

8. Ibid.<br />

9. Paul Goldberger, Eyes on the Price, The New Yorker, March 10, 2003, Vol. 79, Iss. 3; p.<br />

78


3.1.3. SKIDMORE, OWINGS & MERRILL (SOM)<br />

SOM 10 propongono una fitta griglia di edifici della stessa altezza che occupa<br />

tutta l’area dell’intervento ma “restituisce quei 16 acri due volte, provvedendo<br />

nei vari strati orizzontali, 16 acri di giardini e 16 acri aggiuntivi di spazi culturali.”<br />

11 Le torri sono collegate tra loro attraverso rampe, ponti e terrazze a differenti<br />

quote. Il tetto delle torri costituisce un unica area verde il cosiddetto<br />

"Trans-horizon".<br />

Presentano anche gli schemi di un “work in progress” della costruzione in fasi<br />

del complesso.<br />

L’unica area non costruita è quella delle impronte delle torri che vengono sistemate<br />

con uno specchio d’acqua con fondo trasparente per consentire l’illuminazione<br />

della stazione sottostante. Di notte lo specchio d’acqua viene illuminato<br />

dalle luci sottostanti e rivela la presenza della stazione.<br />

La proposta viene ritirata per conflitto di interessi. Il team SOM, al momento<br />

della competizione, stava già lavorando alla torre cosiddetta WTC7, alta 52 piani,<br />

per conto di Larry Silverstein.<br />

Nell’insieme blanda e insipida proposta di stampo professionalistico che mira a<br />

creare quella asfissiante foresta da cui “scappò” il grattacielo di Wright.<br />

Fig. 7: SOM - Sky Garden<br />

(Cortesia di Skidmore, Owings & Merrill LLP)<br />

10. SANAA, Iñigo Manglano-Ovalle, Rita McBride, Field Operations, Michael Maltzan<br />

<strong>Arch</strong>itecture, Tom Leader Studio, Jessica Stockholder e Elyn Zimmerman<br />

11. Dalla relazione di presentazione della proposta di SOM


Fig. 8: SOM – Le impronte<br />

(Cortesia di Skidmore, Owings & Merrill LLP)<br />

Fig. 9: SOM – Vista e dettagli<br />

(Cortesia di Skidmore, Owings & Merrill LLP)


Fig. 10: SOM – Vista<br />

(Cortesia di Skidmore, Owings & Merrill LLP)


3.1.4. RICHARD MEIER & PARTNERS ARCHITECTS, EISEN­<br />

MAN ARCHITECTS, GWATHMEY/SIEGEL & ASSOCIATES, STE­<br />

VEN HOLL ARCHITECTS<br />

Il gruppo, apostrofato ora “Dream Team” ora “New York 4”, titola la proposta<br />

“Memorial Square”, una piazza che a differenza di quelle del XIX e del XX secolo,<br />

create per delimitare uno spazio, si espande <strong>oltre</strong> i propri confini per connettersi,<br />

fisicamente, con la città e, idealmente, con il mondo (vedi<br />

http://www.newyorkmetro.com/news/articles/wtc/proposals/finalplans/plan4/<br />

index.htm).<br />

Cinque torri alte ognuna 1,111 piedi, disposte lungo il lato nord (3) e est (2)<br />

dell’area comprendono cinque sezioni collegate tra di loro attraverso piani orizzontali<br />

che nelle parti terminali si estendono in aggetto (come le dita di una<br />

mano e, nell’angolo NE, sembrano intrecciarsi). Al piano terra queste torri formano<br />

giganteschi accessi alla piazza in cui predominano due specchi d’acqua<br />

che fanno parte di due boschetti memorial inscritti nel perimetro dell’ombra finale<br />

proiettata dalla due torri prima del crollo. L’ombra prosegue sull’Hudson<br />

River con piattaforme flottanti. Per indicare il coinvolgimento della città nell’episodio,<br />

la pavimentazione della piazza si estende nelle strade vicine per riecheggiare<br />

le “dita” delle torri. Nel perimetro della piazza trovano sistemazione<br />

gli edifici che comprendono un Memorial Museum, una Biblioteca della Libertà,<br />

una Concert Hall, un’Opera House e teatri.<br />

Benché la soluzione a livello terra delle ombre e delle pavimentazioni che<br />

estendono nelle strade vicine sia splendida, la griglia messa su con le torri è<br />

architettonicamente deludente ed opprimente. Da architetti così dotati era logico<br />

aspettarsi di meglio che non la proiezione in cielo dell’alienante, noiosa, rigida<br />

scacchiera di Manhattan, che rende statico persino il variegato skyline di<br />

New York. Anche volendola intendere come una metafora del piano urbanistico<br />

rigido che influenza in modo nefasto la creatività, l’impostazione eccessivamente<br />

intellettualistica non è in grado di riscattare un’opera che rimane monumentale<br />

nell’accezione negativa del termine.


3.1.5. PETERSON/LITTENBERG ARCHITECTURE & URBAN<br />

DESIGN<br />

Sette torri circondano l’area destinata ad un parco chiuso in se stesso e sotto il<br />

livello stradale. Nell’impronta della torre Nord è posto un anfiteatro all’aperto<br />

con 2,797 posti (numero dei morti) e sotto la base il museo dell’11 settembre.<br />

Sul lato est sono poste due orrende torri alte 1,600 piedi al cui centro c’è la<br />

Terminal Tower che ospita l’albergo ed è posta sopra la stazione. Nell’angolo<br />

SO una piazzetta stellare con tanto di obelisco al centro (vedi http://www.newyorkmetro.com/news/articles/wtc/proposals/finalplans/plan8/index.htm).<br />

Una torre campanaria, tanto arbitraria quanto grottesca nella forma (simbolo di<br />

una nuova identità civica!), è posta nell’angolo NE ed alla sua base c’è uno degli<br />

accessi al transit concourse.<br />

Non poteva mancare in questa tronfia esibizione di cattivo gusto tardo-ottocentesco<br />

un boulevard hausmanniano lungo West Street.<br />

Viene da chiedersi perché mai sia stato inserito un gruppo tra quelli finalisti che<br />

è stato corresponsabile delle proposte-fiasco del luglio precedente. Un progetto<br />

che forse avrebbe strappato gli applausi di un professore dell’accademia Beaux<br />

Arts ma che in pieno XXI testimonia quanto basso sia il livello di fantasia e<br />

creatività dei retrogradi e dei nostalgici.


3.1.6. THINK<br />

THINK 12 presenta tre proposte.<br />

The Sky Park. I 16 acri dell’area sono destinati a parco, con l’unica eccezione<br />

dell’area sul lato est dove sono sono previsti tre grattacieli per uffici che possono<br />

essere di qualunque altezza (THINK propone 70, 90 e 110 piani). Tutte le<br />

strutture, transit hub, attrezzature culturali, negozi, hotel/centro conferenze,<br />

anfiteatro e verde pubblico, sono interrate. Un’idea scialba e priva di elementi<br />

urbatettonici significativi.<br />

The Great Hall. Tredici acri coperti da una grande struttura in acciaio e vetro la<br />

“Gateway to the City”. Il Transportation Center diventa lo spazio coperto più<br />

grande al mondo. Le impronte delle due torri sono protette da due cilindri vetrati.<br />

Sul lato sud l’edificio alto 2,100 piedi (con in cima una torre per trasmissioni)<br />

per uffici e per un albergo. Un’insensata esibizione di gigantismo e grandiosità.<br />

The World Cultural Center. Due tralicci (le Towers of Culture) si elevano dallo<br />

specchio d’acqua sulle impronte delle torri per 1,600 piedi. In questi tralicci<br />

non sono previsti uffici ma ospitano: il memorial, il museo, un centro per lo<br />

spettacolo, un anfiteatro all’aperto, un centro conferenze e piattaforme di osservazione.<br />

Gli specchi d’acqua trasparenti consentono ai negozi ed al transit<br />

concourse di essere illuminati. Negozi sono previsti anche al livello strada. Otto<br />

edifici per uffici ed uno per l’albergo di media altezza (dai 9 ai sessanta piani)<br />

sono previsti nel perimetro dell’area.<br />

Indubbiamente interessante il progetto per l’World Culturale Center anche se<br />

poca attenzione è dedicata agli edifici del perimetro predisposti senza particolari<br />

aspetti qualificanti. Come il progetto degli UA prevede un memorial non<br />

solo alla base ma anche nei piani alti della struttura. Fatto abbastanza curioso,<br />

sono gli unici, tra i finalisti, ad usare nella proposta una forma cosiddetta bloboidale.<br />

12. Rafael Viñoly <strong>Arch</strong>itects, Frederic Schwartz <strong>Arch</strong>itects, Shigeru Ban <strong>Arch</strong>itects + Dean<br />

Maltz, Ken Smith Landscape <strong>Arch</strong>itect, William Morrish, Janet Marie Smith e Rockwell<br />

Group


Fig. 11: THINK - The Sky Park<br />

(Cortesia di THINK)<br />

Shigeru Ban <strong>Arch</strong>itects, Frederic Schwartz<br />

<strong>Arch</strong>itects, Rafael Viñoly <strong>Arch</strong>itects, Ken Smith<br />

Landscape <strong>Arch</strong>itect<br />

Fig. 12: THINK - The Great Wall<br />

(Cortesia di THINK)<br />

Shigeru Ban <strong>Arch</strong>itects, Frederic Schwartz<br />

<strong>Arch</strong>itects, Rafael Viñoly <strong>Arch</strong>itects, Ken Smith<br />

Landscape <strong>Arch</strong>itect


Fig. 13: THINK -<br />

The World Cultural Center, Sezione<br />

(Cortesia di THINK)<br />

Shigeru Ban <strong>Arch</strong>itects, Frederic<br />

Schwartz <strong>Arch</strong>itects, Rafael Viñoly<br />

<strong>Arch</strong>itects, Ken Smith Landscape<br />

<strong>Arch</strong>itect<br />

Fig. 14: THINK - The World Cultural Center, Skyline<br />

(Cortesia di THINK)<br />

Shigeru Ban <strong>Arch</strong>itects, Frederic Schwartz <strong>Arch</strong>itects, Rafael Viñoly <strong>Arch</strong>itects,<br />

Ken Smith Landscape <strong>Arch</strong>itect


Fig. 15: THINK -<br />

The World Cultural Center, Planimetria generale<br />

(Cortesia di THINK)<br />

Shigeru Ban <strong>Arch</strong>itects, Frederic Schwartz <strong>Arch</strong>itects,<br />

Rafael Viñoly <strong>Arch</strong>itects, Ken Smith Landscape <strong>Arch</strong>itect


3.1.7. DANIEL LIBESKIND<br />

Daniel Libeskind propone quale memorial la conservazione del vuoto creatosi<br />

dopo il crollo a 70 piedi sotto il livello strada. La “Bathtub” sarebbe cinta da<br />

una serie di edifici angolati, asimmetrici che, grazie alle differenti altezze, suggeriscono<br />

un movimento ascendente spiraliforme. Il più alto di essi culmina a<br />

1,776 piedi con giardini verticali nei piani alti, “perché i giardini sono una costante<br />

affermazione di vita.” 13 Il progetto include due spazi pubblici all’aperto<br />

Park of Heroes e Wedge of Light con gli edifici disposti in modo tale da consentire<br />

il passaggio dei raggi del sole ogni anno tra le 8:46 (primo aereo) e le<br />

10:28 (il crollo della seconda torre). Qualcuno ha obiettato, non senza ragione,<br />

che ciò sarebbe impossibile. Un percorso pedonale circolare, sopraelevato – la<br />

“memorial promenade” - consentirebbe di girare intorno al memorial e questo<br />

è stato suggerito a Libeskind dall’enorme massa di pubblico che visitava il luogo<br />

per rendersi conto “in situ” delle dimensioni della tragedia. 14 L’epicentro di<br />

ground zero è nello schema di Libeskind il museo, mentre un grande atrio funziona<br />

da tessuto connettivo tra la stazione dei treni, la metropolitana, gli alberghi,<br />

il centro per lo spettacolo, gli uffici delle torri, i centri commerciali sotterranei,<br />

i negozi a livello terra, i ristoranti, i caffè.<br />

Libeskind dimostra di aver colto l’ondata emozionale intorno a ground zero, ad<br />

averne intuito il significato e ad averli trasferiti per intero nel suo ispirato, poetico<br />

piano. È l’unico che valorizza il vuoto creatosi dopo il crollo e i muri di<br />

contenimento di quel vuoto: “I grandi muri di cemento sono i più drammatici<br />

elementi sopravvissuti all’attacco.” 15 Il suo progetto recepisce il cambio del<br />

concetto di monumento: dalla grandeur degli eroi a cavallo in sovradimensionati<br />

basamenti e scalinate da guardare e da percorrere dal basso verso alto, al<br />

pit di ground zero dove lo schema è invertito: i percorsi sono verso il basso invece<br />

che verso l’alto. Un cambiamento di concetto di monumento legato molto<br />

all’esperienza individuale che alcuni attribuiscono all’affermarsi delle idee degli<br />

anni ’60 quando si sosteneva che l’esperienza personale era l’unico modo per<br />

conoscere il mondo.<br />

Gli edifici sono spigolosi, appuntiti, sfaccettati quasi ad indicare la durezza del<br />

tema e le asprezze della ricostruzione. Il blocco del museo offre una solida<br />

base di ancoraggio per il memorial.<br />

Per semplificare, possiamo ricondurre il piano di Libeskind a tre magistrali idee<br />

legate indissolubilmente al luogo: il vuoto, i raggi del sole e la promenade suggerita<br />

dai visitatori. Egli ha lavorato molto alla definizione di tutti gli elementi<br />

urbatettonici, catturandoli sin dagli schizzi iniziali. Il vuoto, la promenade, il<br />

museo, le due piazze, gli edifici per gli uffici e l’elemento verticale, il perno della<br />

composizione. La cura della scala umana è visibile negli edifici di differente<br />

altezza che preparano lo schizzo in alto della Freedom Tower. E questo non significa<br />

trascurare il lato pratico “Ero consapevole nel voler correggere alcuni<br />

degli errori del World Trade Center, specialmente lo sconvolgimento delle strade<br />

e il fatto che gli edifici mettevano la maggior parte dell’area in ombra. Ricordo<br />

la piazza chiusa molti giorni nelle giornate di vento. La mia sfida è creare<br />

13. Dalla relazione di presentazione della proposta Libeskind<br />

14. Ibid.<br />

15. Ibid.


un grande spazio pubblico dove uno possa sedersi, anche in inverno, senza che<br />

il vento vi fischi attraverso, dove uno può mangiare, fare shopping, lavorare,<br />

visitare o passarci attraverso nel percorso verso un treno.” 16<br />

Fig. 16: Daniel Libeskind –<br />

Vista generale del plastico<br />

(Cortesia dello Studio Daniel Libeskind)<br />

Fig. 17: Daniel Libeskind – I giardini verticali<br />

(Cortesia dello Studio Daniel Libeskind)<br />

16. Justin Davidson, New York's New Visionary - Daniel Libeskind, NYNewsday March 12


Fig. 18: Daniel Libeskind – Il parco degli eroi e il cuneo di luce<br />

(Cortesia dello Studio Daniel Libeskind)<br />

Fig. 19: Daniel Libeskind – Sezione del Concourse<br />

(Cortesia dello Studio Daniel Libeskind)


Fig. 20: Daniel Libeskind – Vista dall’Hudson River<br />

(Cortesia dello Studio Daniel Libeskind)<br />

Fig. 21: Daniel Libeskind – Schizzi del Landscape<br />

(Cortesia dello Studio Daniel Libeskind)


3.2. Il dibattito critico<br />

Benché genericamente lodati per la carica di novità e per la freschezza di idee,<br />

i progetti, quando presi individualmente, diventano oggetto non solo di sottili<br />

distinguo ma anche di aspre contrapposizioni.<br />

Per rendersi conto di quanto disparati siano i giudizi: per Nicolai Ouroussoff,<br />

già critico di architettura del Los Angeles Times (oggi del New York Times), il<br />

progetto migliore è quello degli United <strong>Arch</strong>itects, mentre per James S. Russell<br />

di <strong>Arch</strong>itectural Record il migliore è quello di Foster; per Herbert Muschamp,<br />

critico del New York Times il progetto migliore è quello di THINK (World Cultural<br />

Center), mentre per Witold Rybcznsky, professore di urbanistica alla Pennsylvania<br />

University, è quello di Foster (soprattutto per come tratta le impronte<br />

delle torri); Bill Bruder, architetto, preferisce il progetto di Libeskind, mentre<br />

Paul Goldberger, critico di architettura di The New Yorker è per THINK (World<br />

Cultural Center); Bernard Tschumi è per il progetto del di Meier & C., mentre<br />

Ralph Lerner, ex preside della Princeton University School of <strong>Arch</strong>itecture, è<br />

per quello di United <strong>Arch</strong>itects.<br />

Robert Ivy direttore di <strong>Arch</strong>itectural Record non esprime preferenze ma solleva<br />

interrogativi 17 sui condizionamenti degli interessi commerciali, sui giardini verticali<br />

di Libeskind e sulla sistemazione a livello strada. Sottolinea l’idea delle<br />

due aree pubbliche degli UA, quella al sessantesimo piano e quella sotterranea,<br />

che gli ricorderebbero la città nuova di Antonio Sant’Elia e John Portman. Anche<br />

le timide proposte per il risparmio energetico (la doppia pelle di Foster, le<br />

turbine per il vento ai piani alti di THINK, le vetrate fotosensitive di Meier & C.)<br />

meritano, secondo Ivy, approfondimenti.<br />

Molti architetti si sono lamentati per l’eccessiva pubblicità della competizione,<br />

per come è stata tenuta e per i dettagli delle proposte. 18<br />

Anche la partecipazione del pubblico, che ha sollevato il velo di mistero sui rituali<br />

che si svolgono nelle sale riunioni degli studi e degli uffici di pianificazione,<br />

non trova unanime consenso; Scofidio 19 è convinto che, almeno nella fase della<br />

competizione, la partecipazione pubblica contribuisca ad aumentare la confusione,<br />

Paul Goldberger, critico di architettura del The New Yorker, è perplesso<br />

20 , anche Craig Whitaker 21 , architetto e pianificatore, si dice diffidente e gli fa<br />

eco Bill Lacey 22 , consulente della giuria, che ritiene pericoloso giudicare una si­<br />

17. Robert Ivy, Editorial: One Out of Nine?, AR February 2003, p. 21<br />

18. Julie V. Iovine, <strong>Arch</strong>itects Criticize <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> Publicity, The New York Times January 1,<br />

2003<br />

19. Ibid.<br />

20. “Sospetto che, tra tutte le chiacchere circa la rapidità nel decidere il futuro di <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>,<br />

molti di quelli che hanno scritto lettere ai direttori o hanno partecipato ad apparentemente<br />

infiniti round di forums online e sondaggi circa il sito del World Trade Center non vogliano<br />

in realtà una soluzione finale. Più il progetto si appresta a diventare reale, meno<br />

auspicabile appare.” Paul Goldberger, Eyes on the Price, The New Yorker, March 10, 2003,<br />

Vol. 79, Iss. 3; p. 78<br />

21. "... orgy of public participation. I think the public is going to be exhausted, perhaps." Craig<br />

Whitaker nel forum di <strong>Arch</strong>itectural record, Need for revised program raised as issue in<br />

World Trade Center panel discussion, <strong>Arch</strong>itectural Record web site, January 8, 2003<br />

22. Julie V. Iovine in, <strong>Arch</strong>itects Criticize <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> Publicity, cit.


mile competizione con lo strumento del sondaggio d’opinione. Lacey non ha<br />

tutti i torti nel sostenere che è praticamente impossibile progettare per sette<br />

milioni di clienti, però, obiettiamo, si potrebbe almeno ascoltare quello che<br />

hanno da dire senza cadere nei riti di un assemblearismo parolaio, decisionalmente<br />

impotente e facile preda di gruppi pre-costituiti. L’idea di tagliar fuori gli<br />

organismi rappresentativi (le amministrazioni comunale e statale) è non solo<br />

demagogica ma impraticabile. Si negherebbe così uno dei principi-cardine della<br />

democrazia che è, appunto, la rappresentatività.<br />

Molti architetti difendono il concorso quale via per educare il pubblico sull’importanza<br />

dell’architettura ma è giusto quello che sostiene Bernard Tschumi 23 , e<br />

su cui concorda anche Richard Kahan 24 , presidente di Urban Assembly and<br />

Take the Field, cioè che quel che manca è un programma. La LMDC e la Port<br />

Authority avrebbero dovuto preparare un master plan con le destinazioni d’uso,<br />

ma le proposte sono state sviluppate in base ad un programma con poche variazioni<br />

rispetto alle destinazioni d’uso originarie. L’area destinata ad uffici è ridotta<br />

da 11 milioni piedi quadrati (1 milione metri quadri circa) a 6.5/10 milioni<br />

(600/900 mila metri quadri circa). Le uniche novità sono il memorial, d’obbligo;<br />

un’istituzione culturale, per sedare i circoli intellettuali; il parco per tacitare<br />

la lobby ambientalista. Questo è il vero punto debole di tutta l’operazione.<br />

La predisposizione di un programma, cioè la pianificazione, non è compito dei<br />

soli progettisti ma “richiede un continuo, sistematico processo di interazione<br />

tra progettisti, utenti, amministratori e politici.” 25 Abbiamo visto che in assenza<br />

di un programma gli architetti sono in grado di riempire quel vuoto con tutto<br />

ciò che è possibile e immaginabile e, qualche volta, inimmaginabile: cinema,<br />

teatri, musei, scuole, residenze, stazioni ferroviarie, centri per anziani, ristoranti,<br />

centri di assistenza per bambini, biblioteche, sale da concerto, uffici, centri<br />

di trasmissione. Un minestrone in cui c’è tutto e il contrario di tutto.<br />

Ada Louise Huxtable scrive che senza un programma le proposte, anche se<br />

concettualmente e tecnologicamente lodevoli, sono la “stupenda dimostrazione<br />

di come fare la cosa sbagliata in modo giusto.” 26 Chiede di non prendersela con<br />

gli architetti che seguono solo le regole loro imposte, ma contemporaneamente<br />

solleva dubbi sulle varie “città in cielo”, perché la gente sarebbe spaventata di<br />

frequentare aree pubbliche così elevate. È quello che pensa anche Libeskind<br />

quando, riferendosi ai tralicci di THINK, afferma “Io non ho messo il mio edificio<br />

della cultura su in aria. Io credo nelle strade.” 27<br />

La Huxtable critica anche il fatto che il memorial non abbia un ruolo centrale<br />

nella ricostruzione. In realtà tutti i teams, pur sapendo che il memorial sarebbe<br />

stato oggetto di una competizione internazionale separata, hanno ritenuto indispensabile<br />

fare la loro proposta e predisporre quindi una cornice urbanistico-<br />

23. Ibid.<br />

24. "I reject the idea that any of this is infeasible. It’s absolutely doable." "There’s two minor<br />

impediments. Therès no program and no client." Richard Kahan nel forum di <strong>Arch</strong>itectural<br />

record, Need for revised program raised as issue in World Trade Center panel discussion,<br />

<strong>Arch</strong>itectural Record web site, January 8, 2003<br />

25. Carta del Machu Picchu<br />

26. Ada Louise Huxtable, Don’t Blame the <strong>Arch</strong>itects, Wall Street Journal, January 7<br />

27. Josh Rogers, Interviews with the W.T.C. architects, Daniel Libeskind and Frederic Schwartz<br />

spoke to Downtown Express this week about their competing designs for the World Trade<br />

Center site, Downtown Express 12 February, 2003


architettonica di riferimento. E se ne rende conto lei stessa quando, quasi<br />

sconfessandosi, giudica superba la proposta di Libeskind per la straordinaria<br />

carica con cui esprime la sua architettura di perdita e memoria. Quindi un invito<br />

perentorio, che è anche una supplica “Costruite il memorial di Libeskind ed<br />

esso diverrà un magnete mondiale per alberghi, ristoranti, negozi e teatri che<br />

faranno di <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> un centro di vita di downtown. Sarà una sorgente ed<br />

una incubatrice di rinnovamento.” 28<br />

Tschumi propone di fare un mix dei vari progetti e da questo ricavare il master<br />

plan, ma sia Louis R. Tomson, presidente della LMDC, che Roland W. Betts,<br />

capo dell’ufficio pianificazione concordano sul fatto di scegliere un solo piano e<br />

rigettano l’idea di Tschumi. 29 Anche Robert Ivy 30 non concorda con l’idea di<br />

Tschumi di assemblare le migliori proposte ma ritiene preferibile scegliere una<br />

proposta singola e poi incorporare in questa le migliori idee per un master plan<br />

comprendente il memorial, gli spazi pubblici e gli spazi commerciali per quali<br />

dovranno essere stabilite le linee-guida.<br />

James Russell ritiene praticamente impossibile una sintesi e raccomanda di<br />

mettere insieme i tre migliori gruppi e fargli rielaborare le proposte in base al<br />

giudizio del pubblico. É evidente il rischio implicito in questa proposta: una devastante<br />

paralisi decisionale.<br />

Anche i responsabili della ricostruzione dimostrano di avere opinioni differenti<br />

tra di loro, Joseph J. Seymour, direttore esecutivo della PA, mette in primo luogo<br />

la pianificazione dei trasporti e la progettazione delle infrastrutture, mentre<br />

Alexander Garvin, capo pianificatore della LMDC pone davanti a tutto il design<br />

dell’area. E come se ciò non bastasse, Rudolph W. Giuliani, popolarissimo exsindaco<br />

della città, fa conoscere il suo personale punto di vista: il progetto del<br />

memorial prima di ogni altra cosa. Una idea dettata solo da ragioni emotive,<br />

comprensibile ma, urbanisticamente, poco sensata.<br />

La nomina, da parte della Port Authority dello studio Ehrenkrantz Eckstut &<br />

Kuhn, per affiancare Alexander Garvin, è un’ulteriore elemento di confusione.<br />

Lo studio viene effettuato al chiuso degli uffici e suscita dubbi e sospetti. Le dichiarazioni<br />

di Stanton Eckstut lasciano perplessi, perché lo studio avrebbe intenzione<br />

di elaborare un piano nel senso classico del termine con poco spazio<br />

per l’architettura. “Non sto cercando un’opera d’arte singolare” 31 , dichiara. Libeskind<br />

risponde seccamente “L’urbanistica fatta all’ombra da un anonimo studio<br />

non ha per me molto senso.” 32 Egli sostiene che l’artificiosa separazione tra<br />

architettura e dimensione urbana non ha molto senso e che solo progetti coraggiosi<br />

consentono ai cittadini di farsi un’idea dello spazio più consono alle<br />

loro aspirazioni.<br />

Il rispetto delle impronte delle torri, su cui c’è unanime consenso, ha spinto<br />

molti gruppi (Foster, THINK-Sky Park, United <strong>Arch</strong>itects e Meier & C.) a creare<br />

un’ampia e monumentale isola pedonale tagliandola fuori da ogni funzione che<br />

28. Ada Louise Huxtable, Don’t Blame the <strong>Arch</strong>itects, cit.<br />

29. Joyce Purnick, When a Map Looks More Like a Puzzle, The New York Times January 16<br />

30. Robert Ivy, Editorial: One Out of Nine?, AR February 2003, p. 22<br />

31. Stan Eckstuts in James S. Russell, A Defining Moment for <strong>Arch</strong>itecture, <strong>Arch</strong>itectural<br />

Record, February 2003, p. 48.<br />

32. D. Libeskind in James S. Russell, A Defining Moment for <strong>Arch</strong>itecture, cit., p. 48.


non sia quella commemorativa. In conseguenza di ciò la ricostruzione degli edifici<br />

viene scaricata interamente sulle aree marginali. Il gruppo di Meier si spinge,<br />

con il memorial, <strong>oltre</strong> i confini dell’area ed invade anche parte delle aree limitrofe.<br />

Libeskind impegna con esso tutta l’area delimitata dai muri di contenimento.<br />

L’interrogativo che molti si pongono è: resisteranno proposte così audaci ed<br />

ambiziose alla controffensiva degli interessi commerciali e politici? Non resta<br />

altro che aspettare qualche mese e vedere i risultati.<br />

Quando Libeskind e THINK vengono scelti quali semifinalisti viene chiesto loro<br />

di apportare modifiche ai rispettivi progetti per dare una miglior sistemazione<br />

al traffico sia veicolare che pedonale intorno all’area, per programmare la costruzione<br />

in più fasi e per mettere subito a punto l’esecuzione dell’hub dei trasporti<br />

e del memorial. La scelta rinfocola polemiche e irrobustisce i sospetti che<br />

attraverso modifiche “ragionevolmente” pragmatiche i piani possano essere facilmente<br />

svuotati per interessi puramente commerciali.<br />

I piani modificati prevedono entrambi un intenso sviluppo commerciale. THINK<br />

8.6 milioni di piedi quadrati per uffici e 780,000 piedi quadrati per spazi culturali,<br />

Libeskind propone 7.6 milioni di piedi quadrati di uffici. THINK inserisce i<br />

due maggiori edifici su Church Street ed un terzo in un blocco occupato da un<br />

edificio danneggiato dall’attacco. Libeskind mette invece i due maggiori edifici<br />

su Vesey Street ed il terzo su Church Street. Entrambi raddoppiano quasi la superficie<br />

precedentemente destinata a negozi: 1.1 milione di piedi quadrati<br />

THINK, di cui ¾ interrati e 900,000 piedi quadrati Libeskind, di cui 2/3 interrati.<br />

Entrambi inseriscono la destinazione residenziale così come richiesto dal sindaco:<br />

Libeskind localizza 1,750 potenziali appartamenti nella metà nord del lotto<br />

Bankers Trust Plaza, THINK prevede circa 200 appartamenti in un edificio<br />

che potrebbe essere anche per uffici nel blocco Liberty, Cedar, Washington e<br />

West Street. In questo blocco sorgeva la chiesa greco-ortodossa di San Nicholas<br />

completamente demolita e che THINK rilocalizza all’angolo tra Church e Vesey<br />

Streets, di fronte alla St. Paul's Chapel. L’arcivescovo Demetrios è nettamente<br />

contrario all’ipotesi di trasferimento. Il progetto di Libeskind preserva la<br />

vecchia localizzazione. Entrambi, infine, prevedono di restaurare Fulton e Greenwich<br />

Streets, eliminate negli anni ‘60 per la costruzione delle torri gemelle, a<br />

formare una gigantesca X. Libeskind risolve brillantemente l’incrocio mentre<br />

THINK lo trascura concentrandosi quasi esclusivamente sulle torri scheletriche.<br />

Subito dopo la designazione inizia quella che dovrebbe essere un’operazione di<br />

adeguamento delle idee al lato pratico ma che in realtà si rivela subito un’operazione<br />

di svuotamento sistematico. Ai due teams vengono richieste modifiche<br />

ai piani per far posto, nella metà ovest della “bathtub”, a circa 7 acri, per parcheggi<br />

e per un pubblico passaggio. Queste richieste provocano la reazione di<br />

alcuni parenti delle vittime che vorrebbero che l’intera “bathtub” fosse dedicata<br />

al memorial. 33 Ma alcuni membri del Community Board n.1 - una sorta di circoscrizione<br />

- non condividono l’idea della “bathtub”perché creerebbe una frattura<br />

con Battery Park City.<br />

33. Edward Wyatt, <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> Designers Are Asked for Revisions, The New York Times<br />

February 13, 2003


A Libeskind viene chiesto di sollevare il piano della “bathtub” da -70 piedi a -25<br />

per consentire sia alcuni piani sottoterra, sia per rinforzare i muri di contenimento<br />

- i famosi “slurry walls” - che per creare il parcheggio per gli autobus<br />

dei visitatori. Libeskind aveva proposto di scavare un’altra “bathtub” nel lato<br />

est per ospitare il parcheggio ed altre attrezzature ma per i funzionari della<br />

corporation non c’era spazio sufficiente, perché lì sarebbero dovute andare comunque<br />

le attrezzature meccaniche degli edifici sovrastanti. Ma, ci chiediamo,<br />

con le linee della metropolitana e dei treni che già fanno capo all’area perché<br />

mai incoraggiare mezzi di trasporto ingombranti come gli autobus turistici?<br />

A Libeskind viene chiesto in<strong>oltre</strong> di rivedere - cioè eliminare - la rampa semicircolare<br />

di accesso al memorial, perché creerebbe problemi alla ricostruzione del<br />

Winter Garden del World Financial Center e sarebbe in<strong>oltre</strong>, e qui siamo all’incredibile,<br />

una struttura impopolare in spazi pubblici. A THINK viene richiesto di<br />

ridurre l’altezza delle torri, di modificare la base perché le fondazioni di una di<br />

esse interferirebbe con la stazione sottoterra della PATH. Viene suggerito, senza<br />

nessun pudore, di svasare la base così da farla rassomigliare alla Tour Eiffel.<br />

Viene in<strong>oltre</strong> richiesto di riconsiderare il numero ed il tipo di edifici da ospitare<br />

nei tralicci, perché più elementi significano più ascensori con il rischio di creare<br />

una massa centrale che contrasterebbe con l’ariosa struttura dei tralicci. Si<br />

chiede anche di spostare il museo dal punto d’impatto degli aerei dall’85 al 35<br />

piano. Con giustificazioni incredibili e risibili siamo ad una pesante ed aperta<br />

interferenza sulle scelte formali ed espressive dei due gruppi progettuali.<br />

Il comune non concorda con l’idea dei due teams di interrare gran parte delle<br />

aree perché obiettivo dell'amministrazione è ripristinare la vitalità delle strade<br />

intorno al World Trade Center.<br />

Infine i costi: $800 milioni di dollari per il piano THINK, $350 milioni per quello<br />

di Libeskind.<br />

La scelta dei due semifinalisti scatena, in un modo abbastanza imprevedibile,<br />

un aspro dibattito il cui protagonista principale è il critico del New York Times.<br />

Herbert Muschamp 34 , butta tutto il peso del suo prestigio in favore del progetto<br />

di THINK, ma si fa prendere talmente dalla foga da scivolare in alcuni incredibili<br />

svarioni critici e in considerazioni al limite del delirio.<br />

Il progetto di THINK, espanderebbe, secondo lui, il concetto di cultura per includere<br />

il regno pubblico, come se la cultura fosse stata finora appannaggio<br />

esclusivo del regno privato. Non ci dice però se quello di Libeskind restringe la<br />

cultura nel regno privato. Egli considera una versione consumistica dell’arte il<br />

museo e la concert hall proposte dall’architetto polacco-americano. Non spiega<br />

il perché, ma potremmo anche dargli ragione se chiarisse almeno perché mai<br />

nelle proposte da lui sponsorizzate qualche mese prima sul New York Times,<br />

Steven Holl abbia piazzato nel cuore di ground zero l’orpheum, cioè una serie<br />

di teatri per musica, danza e performances varie, e un museo per studi religiosi.<br />

Senza retrocedere troppo nel tempo, cosa contengono le torri di THINK? Un<br />

9/11 Interpretative Museum, un Performing Arts Center, un International Conference<br />

Center e un anfiteatro all’aperto. Le torri contengono solo attrezzature<br />

34. Herbert Muschamp, A Goal for <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>: Finding an Urban Poetry, The New York Times<br />

January 28 and Herbert Muschamp, Balancing Reason and Emotion in Twin Towers Void,<br />

The New York Times February 6


culturali e si pongono come una cittadella di quella cultura che Muschamp etichetta<br />

come “consumistica“. Il buon critico del Times, pur di attaccare Libeskind,<br />

non si preoccupa di darsi la zappa sui piedi. Ma non importa se questo fa<br />

felici quei circoli intellettuali a cui Libeskind è inviso per interessi di bottega.<br />

“Benchè Libeskind abbia speso la maggior parte della sua carriera quale accademico,<br />

ora viene inquadrato quale figura populista. Questo può essere il perché,<br />

nonostante il suo background come architetto d’avanguardia, non ha ottenuto<br />

il supporto della comunità artistica e intellettuale della città che Viñoly ha<br />

avuto, anche se Viñoly, paradossalmente, è sempre stato più un architetto da<br />

grossa corporazione.” 35 Naturalmente ogni mezzo è buono pur di sbarazzarsi<br />

dell’ingombrante figura dell’architetto “populista”.<br />

Vale comunque la pena analizzare l’articolo più inquietante di Muschamp, quello<br />

del 6 febbraio 2003.<br />

“Il progetto di Daniel Libeskind per il sito del World Trade Center è sorprendentemente<br />

un aggressivo tour the force, un memorial di guerra per un incombente<br />

conflitto che è appena iniziato... La proposta di THINK… offre un’immagine<br />

delle aspirazioni del tempo di pace così idealistica che sembra quasi irrealizzabile...<br />

Essa trasforma la nostra memoria collettiva delle torri gemelle in una<br />

torreggiante affermazione dei valori americani.” 36<br />

Incredibile disinvoltura nel giudicare uno un progetto di pace e l’altro di guerra.<br />

Una visione fideistica davvero grave e pericolosa che inficia tutto il giudizio di<br />

Muschamp che peraltro è stato l’unico e leggervi simili tronfie ideologie. Che<br />

quelle due torri con il museo, un centro per lo spettacolo, un anfiteatro all’aperto,<br />

un centro conferenze siano l’espressione dei valori americani è discutibile<br />

o quanto meno quegli stessi valori li ritroviamo anche nel progetto di Libeskind<br />

e non sono solo espressione di valori americani ma universali. Tutte<br />

strutture che affondano le loro origini in culture ben diverse da quella americana.<br />

Disarmante la faciloneria con cui apostrofa il progetto di Libeskind “rachitico”,<br />

“kitsch” e “demagogico”.<br />

“Se l’intento del concorso era quello di catturare lo stato di shock avvertito<br />

dopo l’11/9 questo piano [di Libeskind] meriterebbe probabilmente il primo posto.<br />

Ma perché, dopo tutto, una larga parte di Manhattan essere dedicata permanentemente<br />

ad una rappresentazione artistica dell’assalto nemico? É un’idea<br />

straordinariamente insipida.” 37<br />

Come dire che il grande masso delle Fosse Ardeatine a Roma è la rappresentazione<br />

artistica del nazismo e non l’omaggio alle vittime. Oppure che le chiese a<br />

croce latina sono la rappresentazione artistica della ferocia romana e non il<br />

simbolo dell’eliminazione fisica di un uomo armato solo di uno straordinario<br />

messaggio spirituale. I cittadini di New York hanno avvertito che l’intento della<br />

“bathtub” era quello di dedicare una larga parte dell’area alla tragedia, alle vittime<br />

di quella tragedia, non certo a rappresentare il nemico.<br />

35. Paul Goldberger, Eyes on the Price, The New Yorker, March 10, 2003, Vol. 79, Iss. 3; p.<br />

78<br />

36. Herbert Muschamp, Balancing Reason and Emotion in Twin Towers Void, cit.<br />

37. Ibid.


Se non fossimo ancora del tutto convinti che Muschamp scrive in evidente stato<br />

confusionale basta continuare a leggere l’articolo, “Peterson Littenberg è nostalgico<br />

dell’Art Deco Manhattan circa 1928, prima che il crollo del mercato che<br />

causò l’abbandono da parte degli Stati Uniti dell’ideologia prevalente del social<br />

Darwinismo. Il piano di Libeskind è nostalgico per il mondo pre-illuministico<br />

europeo, prima che la religione fosse esiliata dall’ambito pubblico.” 38<br />

L’accostamento dell’architetto polacco-americano al duo nostalgico è talmente<br />

insensato da non richiedere ulteriori commenti. Quanto al fatto che Libeskind<br />

sarebbe un nostalgico della caccia alle streghe e del tribunale dell’inquisizione,<br />

<strong>oltre</strong> che assurda nella forma è grottesca nella sostanza. Il post-illuminismo ha<br />

sì esiliato la religione dalla sfera politica, ma ci ha regalato anche il terrore giacobino<br />

e gli stermini dei regimi totalitari. Siccome Libeskind non è un politico<br />

ma un architetto traduciamo l’asserzione di Muschamp in termini architettonici.<br />

Il pre-illuminismo significa, per esempio, l’abbazia di St. Denis, nei pressi di<br />

Parigi, la chiesa e la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, Sant’Ivo alla Sapienza<br />

a Roma. Il post-illuminismo, per esempio, il tempio della Sagrada Familia<br />

di Gaudi, la cappella di Ronchamp di Le Corbusier. Capolavori della cultura<br />

occidentale e non c’è esilio della religione che tenga. A meno che non si voglia,<br />

per pregiudizi ideologici, buttare il bambino con l’acqua sporca. Quando l’interpretazione<br />

dell’espressione artistica è finita sotto le lenti deformanti dell’ideologia<br />

politica post-illumistica, l’arte ne è uscita etichettata come “depravazione” e<br />

“degenerazione borghese”, e gli artisti banditi dalla società o internati.<br />

Le torri di THINK sarebbero eloquenti come una cattedrale. Ma come, prima<br />

strepita contro l’ingerenza religiosa e poi prende a modello una delle più alte<br />

espressioni della religione prima che “fosse esiliata dall’ambito pubblico”? Ma<br />

anche in questo caso l’accostamento è quanto meno azzardato. Primo, perché<br />

le cattedrali erano un’opera collettiva – che coinvolgeva spesso più generazioni<br />

- e non espressione di una élite. Secondo, esse erano espressione di un sentimento<br />

diffuso e non una torre d’avorio per pochi eletti. Terzo, urbanisticamente<br />

si ponevano come coagulo di un tessuto indifferenziato qualificandolo e non<br />

come elemento catapultato dall’esterno e avulso dal contesto.<br />

L’intervento di Muschamp è così intellettualmente disonesto che il New York Times<br />

si vede costretto a prendere le distanze, pubblicando alcuni giorni dopo,<br />

un’articolo di Marvin Trachtenberg 39 . L’autore sembra rispondere punto per<br />

punto alle sconsiderazioni di Muschamp, che non viene comunque mai citato.<br />

“Il progetto di Libeskind per Lower Manhattan è un miracolo di creatività, intelligenza,<br />

capacità e pensiero architettonico d’avanguardia; guarda al futuro dell’architettura,<br />

così come quello di THINK rimane nel passato. È il lavoro di un<br />

grande architetto... Realisticamente edificabile in fasi e aperto alle modifiche,<br />

esso offre un’ispirata, comprensiva, integrata ancorché straordinariamente<br />

funzionale, flessibile, soluzione pratica, virtualmente, per tutte le sfide del sito...<br />

e soprattutto ci ricorda cosa significhi essere umano in una città.” 40<br />

“Gli altri progetti, incluso quello di THINK, potrebbero essere catapultati vir­<br />

38. Ibid.<br />

39. Marvin Trachtenberg, A New Vision for <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> Beyond Mainstream Modernism, The<br />

New York Times February 23, 2003<br />

40. Ibid.


tualmente in ogni grande città con modesti, o nessun cambiamento... Per contrasto<br />

il design di Libeskind è profondamente radicato nel sito, letteralmente tirato<br />

su dal sostrato roccioso di Manhattan... É inconcepibile in qualsiasi altro<br />

sito.” 41<br />

Ciò che provoca stupore nella posizione di Muschamp non è tanto la sua lode<br />

per il progetto di THINK, più che legittima, quanto il cambio di opinione a 180°,<br />

sia su Libeskind che sul suo progetto. Mentre ad ottobre 42 descrive Libeskind<br />

come un architetto “dotato”, “prodigioso” e a dicembre 43 definisce la sua proposta<br />

per ground zero “meravigliosa” e “un perfetto equilibrio tra aggressione e<br />

desiderio”, a febbraio suona tutt’altra musica. Difficile capire cosa sia passato<br />

in mente a Muschamp in quei 50 giorni che trasformano Libeskind da prodigioso<br />

architetto in un patetico “nostalgico” e lo schema per ground zero da “meraviglioso”<br />

in una “insipida idea”.<br />

Robert Ivy, direttore di <strong>Arch</strong>itectural Record e Susan Szenasy, direttore di Metropolis<br />

stigmatizzano l’atteggiamento del critico del Times. E fioccano anche le<br />

richieste di siluramento dell’ormai squalificato critico.<br />

Sventata la manovra di Muschamp e del New York Times, di pilotare la selezione<br />

finale, il piano di Libeskind viene scelto sia per l’idea della “bathtub” che per<br />

l’organizzazione a livello stradale. Il trattamento del livello strada era ormai diventato<br />

uno dei principali aspetti per la decisione. Infatti le modifiche introdotte<br />

da THINK per quello specifico punto sono state giudicate poco convincenti.<br />

Molti parenti delle vittime - non si sa in quale misura - erano favorevoli al progetto<br />

di Libeskind per la dimensione - sia fisica che simbolica - data al memorial.<br />

Se la selezione del progetto vincente sembra essere il punto di arrivo di un lungo<br />

e tormentato processo decisionale, in realtà è solo un punto di partenza:<br />

per il progetto di Libeskind si apre un futuro incerto e gravido di insidie.<br />

Muschamp, con precisione cronometrica, apre di nuovo le danze, tornando all’attacco<br />

a testa bassa: “Lo studio in frammentazione urbana di Daniel Libeskind<br />

non è, forse, la visione che il pubblico cercava a ground zero quando respinse<br />

i sei piani originariamente presentati a luglio dalla Lower Manhattan Development<br />

Corporation.” 44 E chi può dirlo? Una considerazione priva di ogni riscontro,<br />

buona solo a farsi presuntuosamente portavoce degli sfaccettati desideri<br />

di un pubblico variegato.<br />

“Il piano di Libeskind crea un contesto retorico in cui è troppo facile immaginare<br />

il ‘freedom museum’ nel sito di cui i pianificatori del comune e dello stato<br />

hanno parlato lo scorso anno.” 45 Il piano di Libeskind è retorico nella stessa misura<br />

in cui lo sono tutti gli altri. perché propone un museo? Ma lo propongono<br />

anche altri compreso THINK. perché propone una torre alta 1,776 piedi? Ma<br />

non è Muschamp che incensa retoricamente le due torri di THINK? Ora una cat­<br />

41. Ibid.<br />

42. Herbert Muschamp, <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>: 6 New Drawing Boards, The New York Times October 1<br />

43. Herbert Muschamp, Visions for <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>: An Appraisal, The New York Times December<br />

19, 2002<br />

44. Herbert Muschamp, Not Solely Blueprints, but Cultural Insight, Too, The New York Times<br />

February 28, 2003<br />

45. Ibid.


tedrale, ora l’evocazione delle origini del grattacielo, ora l’affermazione dei valori<br />

americani? Sembrerebbe che gli unici autorizzati a parlare di musei, di cultura,<br />

di architettura senza incorrere nei fulmini di Mushamp siano i circoli intellettuali<br />

frequentati dal critico del Times.<br />

“Potenzialmente è una rinnovata versione della guerra fredda, con Al Qaeda<br />

che prende il posto dell’Unione Sovietica, il museo evoca una visione contrari<br />

all’ideale concetto che i suoi promotori intendono.” 46 Cioè fare un museo della<br />

libertà sarebbe contro la libertà? Quanto alla guerra fredda Muschamp dovrebbe<br />

ricordare che il regime sovietico è miseramente crollato, non per caso, ma<br />

proprio per l’intransigenza americana. Dare poi un significato a qualcosa non<br />

chiaramente espresso è quanto meno azzardato, ma certi critici si sentono autorizzati<br />

a tutto.<br />

Dopo questa ennesima sbrodolatura ideologica Muschamp sembra tornare finalmente<br />

alla ragione. I progetti per Lower Manhattan hanno portato una ventata<br />

di freschezza e “molte di esse sono destinate ad influenzare il futuro della<br />

pianificazione a New York e dappertutto. L’importanza di questi progetti non<br />

sarà mai evidenziata abbastanza.” 47 E per finire la lode alle procedure. “Il conflitto<br />

non è stato marginale in questo riaggiustamento all’insù delle aspirazioni<br />

architettoniche di New York. Senza conflitto, tutto questo non sarebbe accaduto.<br />

Infatti, le procedure per la progettazione hanno dato alla città un incalcolabile<br />

intuizione del modo in cui una grande città lavora. Il conflitto è il più importante<br />

prodotto culturale che una città può mettere a disposizione. È il carburante<br />

che guida ogni altra cosa.” 48<br />

Non sapremo mai quale ruolo abbia giocato l’atteggiamento di Muschamp nella<br />

selezione del progetto vincente, di certo sappiamo che la sua pretesa di ergersi<br />

a giudice supremo si schianta contro il verdetto finale che premia Libeskind e<br />

non THINK. Il suo prestigio critico, già scosso dall’iniziativa da lui sponsorizzata,<br />

ne esce definitivamente a pezzi. Sarà sicuramente un caso ma nel giugno<br />

del 2004 il New York Times nomina Nicolai Ouroussoff nuovo critico di architettura,<br />

al posto di Muschamp.<br />

Conclusa, senza danni rilevanti, la performance del critico del Times, il pericolo<br />

maggiore per l’integrità del progetto di Libeskind è ora quello che Robert Ivy<br />

chiama “morte per punture di zanzare.” 49 Altro che punture di zanzare! Siamo<br />

quasi subito a morsi di belve fameliche. Larry Silverstein, l’uomo d’affari che ha<br />

in affitto lo WTC, si ritiene in diritto di fare quello che vuole, considera il piano<br />

di Libeskind nè più nè meno che una zonizzazione (trasporti, memorial, uffici,<br />

negozi). “Un funzionario della ricostruzione alla richiesta se si sentisse a suo<br />

agio con l’approccio di Libeskind al memorial, dice ‘Assolutamente no. È un<br />

grande buco. È una fossa. Non verrà mai costruito in quel modo’. La fonte ha<br />

definito l’interpretazione angolare degli edifici per uffici ‘nonsense’. Una seconda<br />

fonte coinvolta nel processo dice, ‘Libeskind non ha mai disegnato un grattacielo<br />

per uffici. Questo non sarebbe un buon inizio.” 50<br />

46. Ibid.<br />

47. Ibid.<br />

48. Ibid.<br />

49. Robert Ivy citato in Glenn Collins, A Man of Many Faces Comes Home to Cast a New Face<br />

for the City, The New York Times February 28, 2003<br />

50. Jeff Glasser, No small plans; A design for ground zero is chosen, but there's a long way to


Gli edifici culturali proposti da Libeskind sono due, uno, che aggetta sull’area<br />

destinata al memorial, ospiterà il museo, mentre l’altro dovrebbe essere di cinque<br />

piani con un grande auditorium al piano terra e due sale minori, una per la<br />

musica e l’altra per il teatro, al piano superiore. Sono previste anche aree per<br />

prove e per uffici. Il museo dovrebbe interessarsi degli aspetti sociali, economici<br />

e politici legati alla libertà attraverso archivi fotografici, documentari e artefatti.<br />

A metà luglio viene firmato l’accordo, sotto la crescente pressione della LMDC e<br />

della PA, tra Libeskind e Silverstein per collaborare, con David M. Childs di<br />

SOM, al progetto della Freedom Tower. Childs e SOM saranno i progettisti capo<br />

e project manager mentre Libeskind sarà collaboratore e membro del team durante<br />

durante la fase concettuale e la predisposizione delle fasi schematiche<br />

del progetto. Ma ci sono subito divergenze di non poco conto: la prima riguarda<br />

la localizzazione della torre che Silverstein vorrebbe spostare dall’angolo nordovest<br />

nel settore orientale più a diretto contatto con l’hub dei trasporti. Libeskind<br />

si oppone perché questo significa mandare a monte i suoi studi sugli<br />

squarci visuali, sui tagli di luce, sulle condizioni del vento e sulla composizione<br />

d’insieme del sito. La seconda riguarda la predisposizione delle norme di attuazione.<br />

Un accordo tra la PA e Libeskind prevede che l’architetto predisponga la<br />

normativa per la progettazione delle aree commerciali che ne regolamenti il futuro<br />

sviluppo nel sito. Queste norme dovranno anche regolamentare altezze e<br />

le sagome degli edifici. Il punto è che Silverstein avrà un grande ruolo nel processo<br />

di approvazione della normativa.<br />

Il 16 settembre 2003 Libeskind, la LMDC e la PA presentano le modifiche al<br />

Master Plan del World Trade Center, titolato “Memory Foundations”. Il piano,<br />

apparentemente, mantiene i più qualificanti elementi: la Freedom Tower alta<br />

1,776 piedi, i muri di contenimento, l’area per il memorial e il ripristino della<br />

griglia stradale. La più importante modifica è lo snellimento delle torri per uffici,<br />

per ridurre la densità e provvedere quindi più spazi aperti e meno ostacoli<br />

visivi. Le torri avranno più spazio destinato ai negozi, un ulteriore parco è previsto<br />

nella parte sud dell’area. Il parcheggio sotterraneo degli autobus, fonte di<br />

tante polemiche, ed altre infrastrutture vengono trasferiti in aree contermini al<br />

sito.<br />

Il 18 dicembre viene presentata dal sindaco di New York Michael R. Bloomberg<br />

e dal governatore George E. Pataki alla Federal Hall National Memorial a Wall<br />

Street, la nuova versione della Freedom Tower.<br />

La torre, abitabile per 68 piani sino all’altezza di 1,150 piedi, sarà sormontata<br />

sino a 1,500 piedi da un reticolato che protegge le turbine a vento, per culminare<br />

con la spirale che rievoca il braccio della Statua della Libertà alta 276 piedi.<br />

In cima <strong>oltre</strong> alla piattaforma di osservazione sono previsti tre piani di ristoranti,<br />

un centro trasmissioni e uno spazio per eventi. Sotto la torre ci sarebbero<br />

uno shopping concourse ed un network di passaggi inclusa la connessione<br />

con il terminal PATH.<br />

Ma veniamo alle modifiche che vengono imposte al piano e che suscitano non<br />

poche perplessità:<br />

go, and plenty left to argue about; New York, U.S. News & World Report, March 10, 2003


• La Freedom Tower. Un autentico aborto, frutto di ripetuti compromessi tra<br />

Libeskind e Childs, che sono in disaccordo su tutto, dalle convinzioni estetiche<br />

agli aspetti ingegneristici al loro stesso ruolo nella vicenda. Ciò che<br />

viene conservato della proposta di Libeskind è l’elemento più arbitrario e<br />

senza significato visivo, l’altezza di 1,776 piedi della torre. Rimane la spirale<br />

asimmetrica. Al posto dei giardini verticali, un’idea presente sin dalla<br />

proposta esposta alla Max Protetch Gallery e sparita durante la fase finale<br />

del concorso, un mulino a vento circondato da una selva di cavi. La base è<br />

quadrata per seguire la griglia di Manhattan e si eleva a picco nei prospetti<br />

nord e sud mentre si attorciglia leggermente in quelli est e ovest. Una torre<br />

che ha perso gran parte della straordinaria eleganza e snellezza del progetto<br />

vincente. Tante modifiche per trasformare un’ottima soluzione in mediocre.<br />

Libeskind ne è talmente conscio che ne rifiuta la paternità.<br />

• La rampa semicircolare di accesso al memorial. Sparita letteralmente, senza<br />

lasciare tracce. Chiaramente per esigenze “pratiche”.<br />

• Gli edifici per appartamenti. Eliminati per far posto a 10 milioni di piedi<br />

quadrati di uffici in cinque torri con un’altezza compresa tra 55 e 70 piani.<br />

Un’altro cedimento all’intervento monotematico. Commerciale, con spruzzate<br />

di cultura. Un po’ pochino per un piano ambizioso che prevedeva di<br />

portare la funzione residenziale nel cuore di ground zero.<br />

• La “bathtub”. Anche il cuore della proposta viene snaturato a colpi di modifiche<br />

“pratiche”. Si inizia con la richiesta di sollevarla da -70 a -30, per ricavarci<br />

un parcheggio per autobus e per rinforzare i muri di contenimento.<br />

Per il parcheggio, a seguito delle proteste dei cittadini, verrà trovata una<br />

nuova sistemazione. Il progetto vincitore del concorso per il memorial,<br />

ignorando completamente lo schema di Libeskind, propone di sollevare il<br />

tutto a livello stradale. Questo provoca la reazione di Libeskind e anche in<br />

questo caso si va avanti a colpi di compromessi che si concludono con un<br />

altro colpo per il master plan: solo le impronte delle torri saranno a -25<br />

piedi di profondità.<br />

• Il museo. Michael Arad vincitore del concorso per il memorial, elimina l’edificio<br />

aggettante sull’impronta della torre nord, spostandolo nel lato sudovest<br />

dell’area. Libeskind ottiene di ripristinarlo nel lato nord-est ma non<br />

aggettante sull’impronta. Chiunque abbia a che fare con l’area si sente in<br />

diritto, per un motivo o per un altro, di smontare il piano vincente. Anche<br />

quello splendido edificio in aggetto che guardava le impronte, snaturato.<br />

• La piazza del “cuneo di luce”. Già oggetto di polemiche, è praticamente dimezzata<br />

dalla proposta della Freedom Tower e nella metà rimanente è occupata<br />

in gran parte dall’hub di Santiago Calatrava.<br />

Libeskind giustifica come può le modifiche “Un progetto è un processo organico<br />

e se non è un buon progetto può evolvere, assorbire differenti punti di vista e<br />

coinvolgere il pubblico profondamente. Il fatto che non ho trovato difficile accogliere<br />

le modifiche mostra che la flessibilità è interna al progetto” 51 ma è evidente<br />

che il suo piano, nei punti-chiave, quei punti che avevano suscitato tanto<br />

interesse, è ormai saltato. I compromessi che invoca possono essere buoni, e<br />

51. Justin Davidson, New York's New Visionary - Daniel Libeskind, NYNewsday March 12


lo sono, in campo politico ma in architettura ed urbanistica producono solo,<br />

come abbiamo visto, mediocri risultati.<br />

Certo se si vuole scendere dal mondo delle idee belle e pure e incontrarsi/scontrarsi<br />

con i dati pratici e con la complessa realtà sociale bisogna mettere in<br />

conto il fatto che i progetti intoccabili non potranno mai essere realizzati se non<br />

a discapito della funzionalità e della penalizzazione di alcune forze sociali ed<br />

economiche, ma il pragmatismo che mira solo a rendere innocui i principi-cardine<br />

di un piano va contrastato e non assecondato. Libeskind sostiene che il<br />

suo era un piano abbastanza aperto ed elastico per inglobare i suggerimenti e<br />

gli adeguamenti tecnici necessari per metterlo in pratica e non lo mettiamo in<br />

dubbio, ma qui non di semplici adeguamenti si tratta ma di un puro e semplice<br />

stravolgimento. Tutti i cambiamenti introdotti non sono dovuti al coinvolgimento<br />

del pubblico ma ad interessi commerciali. E infatti chi prende decisamente il<br />

sopravvento nel processo pianificatorio non sono né la LMDC, né il comune, ma<br />

la Port Authority che sin dall’inizio del processo si è distinta per una posizione<br />

nettamente immobiliarista traducendo tutto in termini di profitti per questa<br />

preziosissima area. Gli effetti deleteri delle pressioni di Silverstein si sono visti<br />

nel progetto della Freedom Tower.<br />

C’è anche da rilevare che Libeskind paga la mancanza di esperienza in operazioni<br />

di così vasta scala, anche se è riuscito per un pò a mascherare ciò con<br />

un’accorta gestione politica. Cercando di mettersi sempre in posizione mediana<br />

Libeskind finisce per scontentare tutti.<br />

Naturalmente questi errori di Libeskind vengono usati dai circoli intellettuali per<br />

dimostrare che avevano ragione loro a proporre le esclusive “cittadelle della<br />

cultura” e a bandire semplicemente e irresponsabilmente una delle componenti<br />

del processo urbano. Demonizzare il commerciale senza distinguere tra spazi<br />

commerciali e gestione commerciale della ricostruzione è un’operazione di depistaggio<br />

degna della peggior scuola marxista.<br />

È assolutamente irrealistico e folle pensare che l’architettura debba trovare<br />

espressione solo in edifici culturali o in edifici pubblici. I disastri provocati da<br />

questa visione manichea li possiamo vedere nelle nostre città e principalmente<br />

nelle alienanti, squallide, invivibili periferie che non meritano l’attenzione della<br />

nuova razza ariana, ben arroccata nelle sue torri d’avorio.<br />

In una moderna società democratica è impossibile avere un mecenatismo alla<br />

Lorenzo de’ Medici, alla Sisto V o alla Ercole I per ampi brani di città. Impossibile<br />

che pochi, illuminati personaggi decidano per altri senza dover fare i conti<br />

con tutte le componenti dinamiche e attive di una società libera. I critici che si<br />

attardano sui pezzi di bravura calati dall’alto dalle ristrette cerchie dei detentori<br />

del sapere non si sono accorti di essere in ritardo sui tempi. O, più semplicemente,<br />

fingono di non essersene accorti.


<strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> e <strong>oltre</strong><br />

Traiettorie urbatettoniche per il XXI secolo<br />

(PARTE IV)<br />

di Mariopaolo Fadda


4. TRAIETTORIE URBATETTONICHE PER IL XXI SECOLO<br />

La “più importante sfida urbanistica e architettonica del nostro tempo” 1 , come<br />

l’ha definita Norman Foster, ha sollevato numerosi e complessi interrogativi la<br />

cui risposta non è solamente nella ricostruzione del World Trade Center in sé<br />

ma nelle prospettive future della pianificazione urbanistica e dell’architettura.<br />

Che i problemi a ground zero fossero di una grande complessità lo si era capito<br />

subito; una complessità che non attiene solo al lato puramente pratico o emotivo<br />

della ricostruzione, ma coinvolge aspetti più specificatamente comunicativi,<br />

educativi, professionali, etici, tecnologici.<br />

<strong>Ground</strong> zero si è dimostrato un laboratorio ben più pratico e autorevole di tante<br />

mostre, fiere, esposizioni nazionali e internazionali. Avvenimenti utilissimi<br />

per sperimentazioni disinibite ma raramente applicabili a contesti reali e, soprattutto,<br />

indirizzati ad un pubblico specifico di intenditori. L’operazione di ricucitura<br />

di un brano metropolitano massacrato da un attacco terroristico, unito<br />

all’irruzione massiccia dei media e del pubblico indifferenziato - il reale utente -<br />

ha spazzato via anacronistiche certezze mettendo tutti di fronte a nuove sfide<br />

e a nuove incertezze.<br />

La partecipazione dei media e del pubblico al processo di ricostruzione ha<br />

scombussolato i piani di quelle forze che la ritenevano un affare immobiliare da<br />

gestire al chiuso degli uffici della LMDC. Non solo, la loro influenza sulle scelte<br />

urbanistico-architettoniche è stata di non poco conto. La rumorosa bocciatura<br />

dei sei schemi-fiasco è un durissimo colpo per gli sponsors della pianificazione<br />

burocratica. Le previsioni economiche, i dati puramente quantitativi, la parcellizzazione<br />

funzionale, le astratte proiezioni dello sviluppo non sono più sufficienti<br />

a coprire il vuoto di idee, di fantasia per la configurazione dell’ambiente<br />

urbano. Gli aspetti formali – tattili, visivi – della città sono, per i cittadini, un’esigenza<br />

ormai irrinunciabile. Ma non al punto tale da legittimare l’altro lato della<br />

medaglia, cioè astratte operazioni da laboratorio culturale, indifferenti agli<br />

aspetti economici, sociali e politici. È evidente che il problema attiene alla comunicazione<br />

tra mondi che sinora si sono ignorati e che solo un intelligente lavoro<br />

educativo - degli utenti ma anche degli stessi architetti - può contribuire a<br />

dissolvere. Questo dell’educazione è un’altro aspetto che è emerso con prepotenza<br />

nella vicenda. Con tutte le sue carenze, ritardi e limiti il sistema educativo<br />

si rivela l’anello debole del sistema, e in maniera preoccupante. La grande<br />

stampa ha tentato di ovviare a questo gigantesco buco nero con risultati non<br />

sempre brillanti e, in certi casi, discutibili.<br />

Siamo di fronte a sconvolgimenti epocali che è inutile minimizzare o esorcizzare.<br />

La figura dell’architetto, quel genio creativo individuale, che Filippo Brunelleschi,<br />

nel XV secolo, impone sul lavoro collettivo e comunitario del medioevo,<br />

è apertamente in discussione. Quella figura, che ha accompagnato la cultura e<br />

l’arte occidentale per cinque secoli, sembra non reggere più alla sfida della<br />

complessa rete di relazioni della società contemporanea che esige una sempre<br />

più ampia partecipazione collettiva al processo creativo.<br />

1. Dalla relazione di presentazione della proposta di Foster and Partners per la ricostruzione<br />

del World Trade Center


Le ripercussioni sull’organizzazione professionale sono altrettanto epocali: la<br />

tradizionale gerarchia maestro/allievo, principale/collaboratore non regge più,<br />

predomina ormai una rete orizzontale di rapporti paritetici che, scavalcando i<br />

limiti fisici della localizzazione geografica, si articola in nodi distribuiti in tutto il<br />

globo. La gerarchia si stabilisce volta per volta, progetto per progetto, luogo<br />

per luogo. Gli studi professionali sono una rete di connessioni che viaggiano via<br />

fibra ottica e si materializzano solo nel luogo dell’intervento quando lo studio<br />

locale ne assume il controllo. Questo cambio di ruolo richiede una sofisticata<br />

rete di pubbliche relazioni che spinge inevitabilmente verso strategie di marketing<br />

tipiche del mondo affaristico/commerciale che poco spazio lasciano agli<br />

aspetti sociali della disciplina.<br />

La nuova organizzazione professionale, in cui l’aspetto etico è ormai poco più<br />

che una nozione romantica, si dimostra utilissima invece per sfruttare al massimo<br />

le potenzialità del nuovo strumento di conferimento degli incarichi professionali:<br />

il concorso.<br />

La competizione di ground zero non era, a detta della stessa LMDC, una competizione<br />

vera e propria perché ciò che si cercava non era un progetto chiuso e<br />

concluso ma idee in base al quale procedere per la redazione di un Master<br />

Plan. Idea non del tutto sbagliata se alla base ci fossero stati un programma<br />

chiaro ed una leadership autorevole, invece di indicazioni generiche ed un’organismo<br />

decisionale amorfo.<br />

Le competizioni architettoniche, che sono state sempre considerate lo strumento<br />

più idoneo per selezionare le idee e per far emergere forze nuove ed originali,<br />

diventano, per questa via, processi ambigui, quando non del tutto corrotti,<br />

che attirano sospetti e diffidenze sempre più diffuse.<br />

<strong>Ground</strong> zero è stato un test importante anche per la ricerca digitale che, posta<br />

di fronte ad esigenze dirette e immediate e non a variabili ipotetiche e potenziali,<br />

non è apparsa in grado di incidere efficacemente nel presente, restando<br />

nel limbo di un ipotetico domani. Anche al di là della specificità di ground zero,<br />

il digitale, che pure sembra essersi liberato da infatuazioni giovanili, continua a<br />

sollevare comprensibili perplessità, soprattutto di ordine metodologico, ma anche,<br />

ingiustificate, stroncature.<br />

La critica, infine, non poteva restare estranea a questi processi così radicali. È<br />

costretta ad aggiornare rapidamente la propria strumentazione ad abbandonare<br />

i circoli esclusivi, le riviste patinate, le aule universitarie e scendere nel terreno<br />

infido del dibattito quotidiano sulla grande stampa, nei forums di internet.<br />

E se un personaggio del calibro di Herbert Muschamp, accecato dalla scelta di<br />

campo, si esibisce in un disinvolto voltafaccia critico è segno che c’è qualcosa<br />

che va ben al di là delle differenze di giudizio. La critica si barcamena tra gli<br />

aristocratici autoincensamenti di una casta e il dilettantismo indolore di troppi<br />

che si scoprono critici senza avere competenze specifiche, preparazione e soprattutto<br />

senza amare l’architettura, con nient’altro da esporre se non le banalità<br />

dei luoghi comuni.<br />

Quelli che abbiamo brevemente enunciato sono i temi della vicenda della ricostruzione<br />

del World Trade Center che hanno attirato la nostra attenzione e che<br />

saranno sviluppati più approfonditamente dei capitoli seguenti.


4.1. Lo spettacolo, il pubblico, l’educazione<br />

“Alle 10 precise [del 18 dicembre 2002], in quello<br />

che resterà per sempre come il culmine della presenza<br />

popolare dell’architettura nella cultura americana,<br />

la presentazione inizia, con la copertura dal<br />

vivo di televisioni via cavo e di locali radio pubbliche<br />

e dove ad un prominente critico è stato chiesto di<br />

dare un colorito commento come se si fosse stati<br />

alla sfilata di Macy’s il giorno del ringraziamento.” 2<br />

La presentazione delle nove proposte da parte dei sette teams è stato il momento<br />

culminante del grande spettacolo ed ha ricordato ad alcuni – fatte le debite<br />

proporzioni - la finale del Super Bowl che è l’avvenimento televisivo più<br />

seguito negli Stati Uniti. Tre ore trasmesse in diretta dalla televisione via cavo<br />

NY1.<br />

È chiaro che l’attenzione dei mass media per l’avvenimento era, per i partecipanti,<br />

un potenziale e formidabile palcoscenico sul quale esibirsi, una ghiotta<br />

occasione da non farsi scappare. E ne abbiamo viste di tutti colori. <strong>Arch</strong>itetti,<br />

ingegneri, paesaggisti, pittori, scultori, studenti, semplici cittadini ognuno con<br />

la sua bella proposta sottobraccio e poi le infinite discussioni sui forums di giornali,<br />

giornaletti, riviste, televisioni, gruppi di pressione, associazioni varie.<br />

Oltre alla interessata attenzione dei media, nella vicenda del World Trade Center,<br />

irrompono con prepotenza sulla scena, in modo massiccio, due novità, in<br />

grado di scombinare ogni scenario preconfezionato: la partecipazione diretta<br />

del pubblico e internet. Nell’era della comunicazione interattiva gli architetti,<br />

come il più navigato dei politici, si rivolgono direttamente al pubblico considerandolo<br />

il vero cliente e su questa strategia impostano il loro lavoro di convincimento.<br />

La partecipazione di <strong>oltre</strong> 4,000 persone alla presentazione delle prime<br />

6 proposte-fiasco e l’attenzione dello stesso pubblico per il processo architettonico-urbanistico<br />

della ricostruzione è un avvenimento che farà epoca. Internet<br />

diventa un dibattito pubblico in tempo reale alimentato anche dai giornali<br />

quotidiani, mentre le tradizionali riviste di architettura che faticano a tenere<br />

il passo degli avvenimenti scanditi ormai a ritmo quotidiano continuano nel<br />

loro tradizionale ruolo di analisi a freddo non disdegnando comunque l’organizzazione<br />

di specifici forums nei loro siti internet. Mentre giornali e Internet consentono<br />

un dibattito a caldo - spesso fin troppo caldo - ad una vastissima platea,<br />

le riviste conservano il loro tradizionale ruolo di sede per ragionamenti più<br />

pacati e più meditati di ristrette minoranze di addetti ai lavori. Lo web site della<br />

Lower Manhattan Development Corporation, nelle due settimane seguenti la<br />

presentazione delle nove proposte, ha avuto circa sei milioni di contatti. Oltre<br />

70 mila persone hanno visitato la mostra durante le prime tre settimane e hanno<br />

spedito più di 4 mila commenti. Per settimane la ricostruzione del World<br />

Trade Center è sui titoli di prima pagina dei più importanti quotidiani americani,<br />

grazie anche ad un fatto nuovo: la campagna promozionale del prodotto architettonico,<br />

che normalmente viene condotta dal cliente, è qui orchestrata di­<br />

2. Philip Nobel, The fix at <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>, The Nation, January 27, 2003, pp. 25/8


ettamente dai professionisti che si trovano a che fare con un cliente vasto<br />

quanto un’intera città. Rilasciano interviste, partecipano a dibattiti, tengono incontri<br />

parlando di architettura, urbanistica, pianificazione, digitale, tecnologia<br />

senza lasciare nulla di intentato pur di “vendere” il proprio prodotto.<br />

Dopo il restringimento dei finalisti a due la campagna promozionale si fa più intensa,<br />

più aggressiva, più aspra, e vola anche qualche colpo basso. Libeskind<br />

ed esponenti di THINK partecipano a discussioni con i giornalisti all’Odeon bar<br />

e al Four Seasons Hotel - il quartier generale di Libeskind, mentre il quello di<br />

THINK è nell’ufficio di Viñoly a downtown - e si impegnano in un intenso lavoro<br />

lobbistico per con vincere i gruppi culturali e civici sulla bontà dei loro progetti.<br />

Quello che è importante, al di là del lato mondano, è che un lavoro che in passato<br />

era prassi eseguire in modo centralizzato e lontano da occhi indiscreti è<br />

ora in progress sotto gli occhi di milioni di cittadini. Così come lo sono i protagonisti.<br />

Un profilo di Libeskind appare sul The New York Observer, mentre Schwartz<br />

appare nel programma via cavo New York Tonight. I due appaiono anche nel<br />

talk-show di Oprah Winfrey.<br />

Libeskind ha la fama di uno che tiene duro pur di vedere realizzata la propria<br />

opera. Quando circola la voce che il progetto per l’ala ebraica del museo di<br />

Berlino sta per essere affossato si trasferisce a Berlino e segue da vicino l’evolversi<br />

della situazione “Devi impegnare completamente te stesso in qualcosa in<br />

cui credi. Non puoi farla giusto sulla carta e sperare che accada da sé. Devi essere<br />

lì, devi parlare a tutti gli interessati, devi impegnarti e devi avere la passione<br />

di essere lì fino alla fine.” 3<br />

L’architetto polacco-americano difende con passione sanguigna la sua visione,<br />

ne fa un caso pubblico perchè capisce che il progetto sarà un continuo avanti e<br />

indietro con il pubblico. Nelle presentazioni pubbliche non si rifugia nel linguaggio<br />

impersonale, neutro ma parla in prima persona e si dimostra pronto ad affrontare<br />

il campo minato degli interessi contrastanti. É pronto a discutere modifiche,<br />

perché ritiene che il progetto debba evolvere, ma sa anche di assumersi<br />

pesanti rischi, fino allo snaturamento dello spirito del suo lavoro.<br />

Intuisce, da subito, la grande novità della vicenda new yorkese “D’ora in poi,<br />

l’architettura sarà una cosa interessante di cui la gente discuterà, così come<br />

discute del gusto di un vino.” 4<br />

Viñoly e Schwartz appaiono meno sulla stampa perché sfruttano il fatto di essere<br />

residenti a New York per lavorare all’ombra, contattando le organizzazioni<br />

civiche e culturali per promuovere il loro piano con un’avvolgente tattica di<br />

persuasione promozionale. Gli altri teams sembrano più distaccati e convinti<br />

che tutto si giochi, come nelle altre competizioni, sul potere persuasivo della<br />

presentazione ufficiale. In questo caso però ci sono forze nuove che usano il<br />

loro potere di interdizione per condizionare le scelte: i gruppi civici, i media, il<br />

vasto pubblico. Comportarsi distaccatamente confidando sul buon nome, sul<br />

3. Joyce Purnick, An <strong>Arch</strong>itect With the Drive to Get It Done, The New York Times March 3,<br />

2003<br />

4. Daniel Libeskind citato in Julie V. Iovine, Finalists for <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> Design Pull Out the<br />

Stops, The New York Times February 26, 2003


fascino intellettuale, sul marchio di qualità ricorda un pò i triti rituali di corte<br />

che l’aristocrazia del XIX secolo continuava a ostentare quando era ormai chiaro<br />

che la classe borghese si era sbarazzata di simili retaggi.<br />

Olimpico il distacco del team New York 4 “Non abbiamo fatto lavoro di promozione.<br />

Abbiamo pensato che fosse un lavoro, non promozione. Non ci siamo<br />

comportati come si sono comportati gli altri teams, non è nella personalità del<br />

nostro team. E questo dimostra infatti che non siamo stati prescelti.” 5 Bisogna<br />

ricordare che tutti i membri di New York 4 hanno partecipato alle iniziative<br />

sponsorizzate dal New York Times e dal New York Metro che comunque le si<br />

vogliano chiamare erano alla fin fine opera promozionale. Incomprensile quindi<br />

la (quasi) sdegnata dichiarazione di Meier.<br />

Il momento culminante dell’happening è stato la scelta di Libeskind quale vincitore<br />

nel concorso ufficiale. Non sono mancati la suspence, i colpi proibiti e il<br />

colpo di scena finale. Proprio come in uno sceneggiato televiso. Se l’atteggiamento<br />

di alcuni teams può aver infastidito fino all’irritazione non bisogna dimenticare<br />

che ciò è stato fatto non solo nell’intento di vincere la competizione<br />

(intento più che leggittimo) ma anche per coinvolgere direttamente sia il pubblico<br />

che i media in un processo di norma riservato agli addetti ai lavori. È questa<br />

è una salutare boccata d’ossigeno per una professione sempre sull’orlo di<br />

un deprecabile élitarismo.<br />

Il fenomeno della spettacolarizzazione, a livello di massa, lo possiamo far risalire<br />

al Guggenheim di Bilbao, quando l’opera di Frank O. Gehry finisce sulle pagine<br />

dei quotidiani, delle riviste patinate e diventa argomento di discussione<br />

nei programmi televisivi di intrattenimento. Benché queste attenzioni appaiano<br />

come un’allargamento di interesse per l’architettura in realtà portano in sè,<br />

purtroppo, i germi della banalizzazione, del travisamento e dello svuotamento<br />

del valore artistico delle opere stesse. Portano in sé i germi del pettegolezzo,<br />

della mondanità e delle vuote dissertazioni. E non potevano mancare, in questa<br />

fiera della vanità, i films apologetici e celebrativi 6 . Il prototipo è The National<br />

Gallery Builds, sulla costruzione del progetto di I.M. Pei a metà degli anni 80.<br />

Molti documentari sono già stati realizzati o sono in via di realizzazione tra cui:<br />

Mr. Gehry Goes to Washington, tre documentari sul Denver Museum di Libeskind,<br />

Making Modern sulla realizzazione del museo di Tadao Ando a Fort Worth.<br />

Un’altro ormai storico documentario è Concert of Wills sulla costruzione del<br />

Getty Center. Ma non mancano quelli sul non-costruito: A Construction Madness-Wherein<br />

Frank Gehry and Peter Lewis Spent a Fortune and a Decade, End<br />

Up with Nothing, and Change the World, la genesi di 8 anni di sperimentazioni<br />

per la progettazione della casa di Lewis ad opera di Gehry.<br />

Il tono inutilmente celebrativo ne fanno documentari propagandistici di terza<br />

categoria che a tutto servono meno che a un’analisi critica delle opere documentate.<br />

È indispensabile non lasciarsi andare ad atteggiamenti di autocompiacimento<br />

e autoindulgenza che possono giocare brutti scherzi, ma, allo stesso<br />

tempo, è necessario combattere contro generici ed ingiustificati ostracismi.<br />

5. Richard Meier citato in Julie V. Iovine, Finalists for <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> Design Pull Out the Stops,<br />

cit.<br />

6. Films celebrating the design and construction of projects…, Metropolis March 2004 pp. 74-<br />

77


“Le stars, le nostre stars, operando a un alto livello di successo, possiedono<br />

spesso qualità che ammiriamo, tra cui un’autentico talento, l’impegno, la capacità<br />

organizzativa, l’astuzia, la dimestichezza con i media e l'acume intellettuale.<br />

In più, spesso, questi architetti sono dotati di quello che alla maggior parte<br />

di noi manca: il senso di coraggio nell’esplorare idee, nello sperimentare nuovi<br />

sistemi, nell’avventurarsi per primi in territori dove la maggior parte di noi<br />

non oserebbe avventurarsi.” 7<br />

Terry Riley nel citato dibattito organizzato dal New York Times 8 e da lui moderato,<br />

affrontando l’argomento del coinvolgimento del pubblico chiede perplesso<br />

ai suoi interlocutori “Vogliamo il consenso, ma può qualcuno citare un esempio<br />

in cui questo tipo di processo ha prodotto realmente una grande architettura?” 9<br />

Le risposte sono diversificate e vanno dallo scetticismo di William Pedersen 10 ,<br />

alla visione mecenatistica di Ken Smith 11 , alle perplessità di Leslie E. Robertson<br />

12 , al deciso sostegno di Tod Williams al coinvolgimento del pubblico 13 , ma gli<br />

esempi citati, il Rockefeller Center, il Seagram Building, il Lincoln Center hanno<br />

ben poco a che vedere con quelli invocati da Riley.<br />

Il coinvolgimento dei cittadini nel processo pianificatorio e urbatettonico crea<br />

contrapposizioni, divisioni e alzate di scudi ma agli albori del XXI secolo è assolutamente<br />

irrealistico e controproducente tenerli alla larga dal processo creativo.<br />

Come recita la Carta del Machu Picchu la “pianificazione richiede un continuo,<br />

sistematico processo di interazione tra progettisti, utenti, amministratori<br />

e politici.” Obiettivo che, essenziale in un sistema democratico, è stato frustrato<br />

fino ad oggi dall’invadenza di oligarchie politico-finanziarie, da legislazioni<br />

inadeguate, dalla speculazione edilizia, ma anche dalla “disattenzione” degli architetti<br />

troppo intenti a soddisfare, in aristocratico isolamento, il proprio ego.<br />

Lungi da tentazioni di fare facile demagogia, riteniamo indispensabile che l’intera<br />

professione scenda dal piedistallo ed instauri un dialogo produttivo con chi<br />

in definitiva dovrà vivere gli spazi concepiti nel chiuso degli studi professionali.<br />

“Incoraggiare i cittadini a contribuire alla realizzazione del nostro intorno fisico<br />

è una componente critica di una società libera. Garantire voce in capitolo alla<br />

più vasta parte della popolazione rimane una sfida politica...” 14 E questo è reso<br />

ancora più urgente dal progresso tecnologico che consente ormai un dialogo ed<br />

una interazione che sino a pochi anni fa era impensabile.<br />

Un esempio che avrà sicuramente grandi ripercussioni nel futuro è la creazio­<br />

7. Robert Ivy, Starlight, Editoriale su <strong>Arch</strong>itectural Record, February 2004, p. 15<br />

8. What to Build, Debat Moderate by Terence Riley, The New York Times November 11, 2001<br />

9. Terence Riley in What to Build, cit.<br />

10. “Non c’è a dir la verità un processo che possa garantire una grande architettura “ William<br />

Pedersen in What to Build, cit.<br />

11. “Una grande architettura richiede mecenatismo” “Great architecture requires patronage.”<br />

Ken Smith in What to Build, cit.<br />

12. “Stavo riflettendo sul ‘noi’ business. Voglio dire, state parlando di ‘Noi faremo questò o<br />

‘dovremmo dare quello’. Chi è questo ‘noi’?” Leslie E. Robertson in What to Build, cit.<br />

13. “Dare la voce agli individui è critico. Lasciare in mano a poca gente una decisione per qualcosa<br />

in cui dovremo poi viverci, chiunque siano i promotori immobiliari, i politici o chiunque<br />

altro, penso sarebbe il nostro primo e più grande errore.” Tod Williams in What to Build,<br />

cit.<br />

14. Damon Rich, Learning to Teach, <strong>Arch</strong>itecture, February 2004, p. 96


ne, da parte di due architetti di San Francisco, dell’web site <strong>Arch</strong>itecture Radio,<br />

un’organizzazione non-profit la cui missione, recita la pagina di presentazione,<br />

è “promuovere l’apprendimento e la discussione sugli argomenti più urgenti del<br />

design e dell’ambiente costruito. Facciamo questo pubblicando su Internet registrazioni<br />

audio/video di importanti conferenze, interviste e discussioni.” 15<br />

Mentre il mondo culturale si interroga sulle strategie da adottare per la ricostruzione<br />

del World Trade Center, la LMDC, sorda ad ogni richiamo sul coinvolgimento<br />

di tutti i soggetti interessati, è impegnata in uno studio al chiuso dei<br />

suoi uffici che suscita perplessità e sospetti. A luglio raccolgono i frutti della<br />

loro scellerata insensibilità: "Listening to the City", gli incontri al Javits Convention<br />

Center del 20 e 21 luglio, a cui partecipano architetti, professionisti, gruppi<br />

civici e cittadini che raramente si sono occupati di pianificazione urbana e di architettura,<br />

impongono una clamorosa svolta alla gestione centralistica dell’operazione.<br />

Le <strong>oltre</strong> 4,000 persone in gruppi di dieci riunite sui tavoli, esaminano i<br />

progetti e attraverso il computer esprimono le loro valutazioni in tempo reale al<br />

grande schermo posto al centro della sala: in gran parte sono valutazioni negative.<br />

I pareri sono i più discordanti, come si conviene, in un libero dibattito, ma<br />

il generale rigetto dei sei piani di stampo prettamente burocratico-affaristico<br />

sono la dimostrazione lampante che la fredda burocrazia e il professionismo più<br />

grigio non fanno breccia nello spirito dei cittadini più avvertiti. Non pochi dei<br />

partecipanti all’assemblea pubblica dicono a chiare lettere che i progetti mancano<br />

di fantasia.<br />

Nella rubrica delle lettere del New York Times del 19 luglio - il quotidiano ha<br />

pubblicato i sei piani il 17 luglio - su 15 lettere pubblicate 9 erano contro 1 a<br />

favore e 5 erano di lettori che suggerivano idee alternative (per esempio non<br />

costruire nulla). Quindi dopo gli esponenti del mondo della cultura e della politica<br />

anche il grosso pubblico decreta pollice verso e il tentativo di clandestinizzare<br />

il processo viene liquidato. Alla LMDC non resta che prendere atto della<br />

generalizzata reazione avversa alle proposte e promettere un processo più<br />

aperto e democratico. Ma per essere tale un processo necessita di un sistema<br />

educativo tale da mettere il cittadino in condizione di comprendere non solo i<br />

termini generali del problema ma anche certi aspetti specifici per evitare che il<br />

confronto diventi uno scontro tra privilegiati ed emarginati. “I cittadini sono i<br />

consumatori di architettura, ma gli americani non ricevono l’educazione che li<br />

aiuti ad apprezzare e giudicare dove abitano e, quali contribuenti e clienti, cosa<br />

comprano. Poche scuole elementari o secondarie offrono tempo in classe all’architettura<br />

o alla pianificazione urbanistica... Quegli architetti ed urbanisti che<br />

hanno successo con le corporations, lo ottengono sacrificando la responsabilità<br />

sociale, le innovazioni estetiche e qualche volta il buon giudizio.” 16 Come non<br />

sottoscrivere simili, lucide osservazioni?<br />

La Goldhagen propone acutamente che le scuole primarie e secondarie del<br />

paese includano nel loro curriculum architettura e urbanistica. “Questo aiuterebbe<br />

ad avere clienti che comprendono che il marchio, buono o brutto che sia,<br />

15. “… to promote learning and discussion about the pressing issues of design and the built<br />

environment. We do this by publishing audio/video recordings of important lectures,<br />

interviews and discussions on the Internet.”Our Mission in www.architecture-radio.org<br />

16. Sarah Williams Goldhagen, Putting Some Pizazz Back in the Skyline, The New York Times<br />

February 15, 2003


che loro lasciano nel paesaggio urbano incide profondamente nella vita pubblica<br />

della società.” 17<br />

Per Damon Rich, insegnante di design e teoria al Center for Urban Pedagogy di<br />

New York, l’”intersezione tra avanguardia architettonica e mass media rappresenta<br />

una opportunità per fare dell’architettura una parte del nostro dialogo<br />

nazionale. E il posto per iniziare sono le nostre scuole.” 18<br />

Problematiche urbane complesse come la ricostruzione del World Trade Center<br />

filtrate solamente dai mass media finiscono inevitabilmente per essere banalizzate<br />

e trasformate in fuochi di paglia. In queso contesto la scuola può essere la<br />

sede ideale per prendere coscienza e dibattere queste problematiche, “L’anno<br />

scorso la mia cartella era spesso piena di tabloids che evidenziavano le prime<br />

pagine della copertura giornalistica per gli schemi del master plan del World<br />

Trade Center con tanto di modelli a colori e renderings... Senza retroterra o<br />

preparazione specifica, gli studenti hanno discusso di simbolismo, strutture,<br />

politica e estetica.” 19 L’architettura entra così nel curriculum educativo dei giovani,<br />

non in termini settoriali, che sono invece demandati alle scuole specifiche,<br />

ma in termini di attività sociale. “Invece di memorizzare stili, gli studenti<br />

beneficerebbero molto di più dal capire perchè gli edifici del loro quartiere hanno<br />

l’aspetto che hanno e funzionano come funzionano. Gli studenti dovrebbero<br />

essere anche posti di fronte alle visioni dell’avanguardia, da Walking City al cenotafio<br />

per Newton di Boullée.” 20 Utile metodologia anche se il rischio è di<br />

esporsi, talvolta, a quelle esasperate forme di intellettualismo, stigmatizzate da<br />

Mary McLeod “Le neo-avanguardie (almeno alcune scuole di architettura quali<br />

la Columbia e UCLA) hanno la tendenza a dividere forma e funzione. Da un<br />

lato abbiamo visto un ritorno a un tipo di determinismo biotecnico, la visione di<br />

un meccanismo organico che considera il computer come un qualcosa per realizzare<br />

l’effervescente sogno di un totale funzionalismo. Dall’altra abbiamo un<br />

persistente formalismo dove la forma è vista come autonoma sia che sia generata<br />

attraverso un criterio intuitivo, tipologico o attraverso una ricerca sintattica.”<br />

21<br />

Anche Rich sembra ben consapevole del rischio “Il potenziale dell’educazione<br />

architettonica non è minacciato da insegnanti ignoranti o da budget evanescenti,<br />

ma dalla cultura del design stesso. Se crediamo che la politica rovini<br />

qualche volta un buon progetto, stiamo sminuendo il ruolo dell’architettura<br />

come mediatrice tra valori sociali e forma costruita, che è intrinsecamente un<br />

processo politico.” 22<br />

E che Rich non stia esagerando sull’auto-minaccia lo testimonia Frank O. Gehry<br />

“Ho assunto un ragazzo che aveva studiato con Peter Eisenman. Era dotato,<br />

ma la sua esperienza con Peter lo ha portato a vedere ogni linea così preziosa<br />

che non poteva disegnare una linea o un muro. Aspirava ad una perfezione che<br />

17. Ibid.<br />

18. Damon Rich, Learning to Teach, <strong>Arch</strong>itecture, February 2004, p. 96<br />

19. Ibid.<br />

20. Ibid.<br />

21. Mary McLeod, Form and Function Today, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of<br />

the 21 st Century, Edited by Bernard Tschumi + Irene Cheng, The Monacelli Press, Inc.,<br />

New York 2003, p. 51<br />

22. Damon Rich, Learning to Teach, <strong>Arch</strong>itecture, cit.


mai raggiungerà e questo lo ha paralizzato.” 23<br />

Il fascino delle teorie filosofiche più alla moda, dal post-strutturalismo al decostruttivismo<br />

se hanno provocato un salutare svecchiamento anche in architettura<br />

rischiano però ora di soffocarla laddove pretendono che la vita si adegui<br />

alla teoria e non viceversa.<br />

C’è anche quello che Douglas Kelbaugh 24 , preside del Taubman College of <strong>Arch</strong>itecture<br />

+ Urban Planning della University of Michigan, denuncia come “Mandatory<br />

Invention Fallacy” e cioè quella sorta di obbligo che gli studenti sentono<br />

ad essere eternamente “innovatori, provocatori, critici”, confondendo spesso<br />

creatività e originalità. “L’originalità non è sinonimo di creatività. Entrambe richiedono<br />

immaginazione e ingegnosità ma la creatività è generare meno apparenzao<br />

forme improvvisate e lavorare più con i dati o con un sistema... Essere<br />

creativi è generalmente più difficile che essere semplicemente originali.” 25<br />

Se invochiamo la partecipazione attiva degli utenti al processo creativo, l’insegnamento<br />

urbatettonico deve trovare un ruolo centrale nel sistema educativo,<br />

sia generale “Progettare democraticamente non significa che tutti vanno alla<br />

scuola di architettura, ma potrebbe significare che l’architettura va nelle scuole<br />

di tutti” 26 , che settoriale. Quest’ultimo è ben incarnato nella singolare esperienza<br />

di Samuel Mockbee. Egli non pensa affatto di portare l’architettura nelle<br />

scuole ma catapulta i suoi studenti dalle aule scolastiche in una comunità reale.<br />

Dopo un inizio professionale imperniato sullo studio del vernacolo del profondo<br />

sud degli Stati Uniti, Mockbee cambia rotta e si impegna nel sociale costruendo,<br />

nel 1982, la prima con materiali di recupero e con l’ausilio<br />

di volontari. Da quel momento creatività e impegno sociale si intrecciano indissolubilmente.<br />

Progetta tre prototipi di che non riesce però a<br />

realizzare per mancanza di fondi e per le quali ottiene, nel 1982, il P/A award.<br />

Nel 1992 fonda insieme ad un professore di architettura, D. K. Ruth, il Rural<br />

Studio. Invece di andare in aree povere e depresse all’estero, decidono di stabilirsi<br />

in Alabama nella poverissima contea di Hale. Gli studenti non dovranno<br />

più limitarsi alla teoria ma realizzare direttamente gli edifici privati e comunitari<br />

che progettano. Nel 1999 lo Studio accetta anche studenti di altre università<br />

e discipline. “Il Rural Sudio di Mockbee ha rappresentato una visione dell’architettura<br />

che ha abbracciato non solo l’insegnamento degli aspetti pratici dell’architettura<br />

e quelli sociali del benessere ma anche l’uso di materiali di recupero,<br />

riciclati e curiosi e un’estetica del posto. ‘Voglio essere superiore, ambientalmente,<br />

esteticamente e tecnicamente’, dice Mockbee.” 27<br />

Nei Pods a Newbern, Alabama (1997-2001), usa come rivestimento targhe automobilistiche<br />

e cartone ondulato di rifiuto (www.ruralstudio.com/cardboard­<br />

23. Frank O. Gehry, <strong>Arch</strong>itecture and Intuition, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of<br />

the 21 st Century, cit., p. 53<br />

24. Douglas Kelbaugh, Seven Fallacies in <strong>Arch</strong>itectural Culture, in<br />

www.caup.umich.edu/publications/sevenfallacies/index.hmtl, 2004, p. 2<br />

25. Douglas Kelbaugh, Seven Fallacies in <strong>Arch</strong>itectural Culture, cit., p. 3<br />

26. Damon Rich, Learning to Teach, <strong>Arch</strong>itecture, cit.<br />

27. Andrea Oppenheimer Dean, Samuel Mockbee: A Life’s Work, <strong>Arch</strong>itectural Record, giugno<br />

2004, p. 190


pod.htm); per i muri della Bryant House a Manson’s Bend, Alabama (1994) usa<br />

le balle di fieno (www.ruralstudio.com/haybalebryant.htm), mentre per quelli<br />

della Yancey Chapel a Sawyerville, Alabama (1995) usa pneumatici consumati<br />

(www.ruralstudio.com/yanceytirechapel.htm); per il tetto del Manson’s Bend<br />

Community Center, a Manson’s Bend, Alabama (2000) usa parabrezza di macchine<br />

(www.ruralstudio.com/masonsbend.htm) e per i muri della Lucy’s House<br />

sempre a Manson’s Bend, Alabama (2001-2002) campioni di moquette<br />

(www.ruralstudio.com/lucyhouse.htm).<br />

Nel 1992 corsi universitari basati sul progettare/costruire erano non più di<br />

8/10, oggi sono 30/40. Programmi televisivi e riviste nazionali si sono occupati<br />

del Rural Studio “Era la prima volta che il pubblico era attratto da un modello<br />

architettonico.” 28<br />

Il primo periodo gli studenti realizzavano i loro stessi progetti ora sono impegnati<br />

anche in progetti dei comuni e della contea. Mentre Mockbee insisteva<br />

sull’improvvisazione lasciando che il progetto evolvesse durante la costruzione,<br />

Andrew Feear, il successore (Mockbee è morto nel 2001), vuole che le cose<br />

siano definite da subito così che non ci siano disorganizzazione e ritardi durante<br />

l’esecuzione. Ora non si usano più materiali di recupero ma materiali duraturi<br />

con costi di manutenzione minimi<br />

“Dopo la morte del fondatore, iniziative quali il Rural Studio raramente proliferano.<br />

La maggior parte della vitalità e creatività di Taliesin, per esempio, è<br />

morta con Wright.” 29<br />

Certo la comunità del Rural Studio potrà anche correre il rischio di smarrirsi ma<br />

la cultura architettonica non può permettersi il lusso di gettare al vento lo<br />

straordinario insegnamento di Samuel Mockbee.<br />

28. Bill Carpenter in Andrea Oppenheimer Dean, Samuel Mockbee: A Life’s Work, cit., p. 191<br />

29. Andrea Oppenheimer Dean, Samuel Mockbee: A Life’s Work, cit., p. 191


4.2. Business e disimpegno sociale<br />

"Gli errori del movimento moderno vengono usati<br />

come alibi per ripudiarne gli ideali sociali." 30<br />

Il cinismo del business unito al disimpegno sociale è sicuramente l’accusa più<br />

bruciante rivolta ultimamente all’intera professione. Gli architetti di valore hanno<br />

dovuto spesso condurre una vita stentata per non corrompere e commercializzare<br />

le proprie idee; sono stati tenuti ai margini della professione e ostracizzati<br />

dall’establishment culturale, ma oggi lo scenario sembra drasticamente<br />

cambiato, e non sempre, per il meglio. Infatti non solo si impongono nelle<br />

competizioni, come è naturale che sia, ma vengono contesi dalla clientela più<br />

variegata che va da amministrazioni cittadine in cerca di promozione turistica,<br />

a istituzioni artistiche e museali private che aspirano all’opera “firmata”, alle<br />

grosse corporations in cerca di immagine. Gli architetti, ma sarebbe meglio<br />

dire i grossi studi professionali, hanno messo in piedi elaborate strategie di<br />

pubbliche relazioni, lasciandosi spesso andare ad atteggiamenti cinici ed aggressivi,<br />

per conquistare la loro quota di mercato e gli aspetti sociali della professione<br />

finiscono inevitabilmente in secondo piano o del tutto dimenticati. E<br />

questo è un pretesto per la galassia di esponenti protomarxisti, contestatori<br />

no-global, ambientalisti e nostalgici storicisti per dare sfogo al loro livore antimoderno.<br />

Ancorati ad una visione statalista, centralista della pianificazione territoriale,<br />

privi di idee originali sull’ambiente urbano e architettonicamente fermi<br />

all’eclettismo ottocentesco, questi apocalittici predicatori, non hanno nulla da<br />

proporre se non rimedi peggiori del male. L’esperienza del mondo (ex)comunista<br />

dimostra abbondantemente il fallimento della pianificazione statalista e<br />

centralista, gli edulcorati villaggi del new urbanism testimoniano le infantili regressioni<br />

neo-romantiche di protoutopisti allo sbando, le rabbiose reazioni a<br />

opere contemporanee di grande valore sono il segno di insofferenza verso chi<br />

si eleva al di sopra della media e della mediocrità.<br />

Ragioniamo un attimo: se gli architetti impegnati in ricerche d’avanguardia rinunciano,<br />

con atteggiamento moralista, a fare la loro parte prevalgono forse la<br />

pianificazione democratica, l’urbanistica a misura d’uomo, l’architettura di qualità?<br />

Neanche per sogno. La pianificazione la fanno i burocrati delle amministrazioni<br />

e gli imprenditori immobiliari, l’urbanistica diventa terreno di vuote<br />

esercitazioni sociologiche, l’architettura scade ad edilizia nelle mani di grossi<br />

studi professionali il cui unico scopo è il profitto. Come è avvenuto sistematicamente<br />

per tutto il XX secolo. L’idea di sposare arte e politica, arte e impegno<br />

sociale si schianta contro il muro di intolleranza dei regimi totalitari, prima, e<br />

contro il muro di una classe dirigente democratica insensibile ai valori qualitativi<br />

dell’ambiente urbano e del paesaggio, poi. A questo fallimento contribuiscono<br />

quelle cariatidi della storiografia architettonica che giudicano la ricerca architettonica<br />

con ottica rozzamente economicistica, che scambiano le proprie<br />

crisi, le proprie disillusioni ed angosce con la crisi dell'architettura moderna;<br />

che sentenziano da anni la fine dell'architettura e quando si sentono scavalcati<br />

30. O. Bohigas, citato da Zevi, Oriol Bohigas attacca Albert Speer e i nazi-classicisti, editoriale<br />

in breve, in L'architettura - cronache e storia, n. 423, anno XXXVII, gennaio 1991, pag. 4.


dagli avvenimenti sostengono i più disgustosi recuperi storicistici.<br />

Mentre le idee di Le Corbusier, Wright, Gropius giacciono impolverate negli archivi<br />

di musei e fondazioni, e le cariatidi discutono sulla morte dell’architettura,<br />

bande di professionisti senza scrupoli si fanno carico di screditare l’intera professione<br />

scaraventando addosso alle nostre città da Roma a Tokio, da Los Angeles<br />

a Hong Kong, da Città del Messico a Mosca un’edilizia di infima qualità. I<br />

cittadini fanno ancora peggio, rispondono con l’abusivismo all’incomunicabilità,<br />

alle leziosità degli architetti e alla pianificazione delle burocrazie civiche.<br />

Che questa spirale perversa non sia esclusiva del mondo occidentale ce lo ricorda<br />

Akira Suzuki “La Kowloon Walled City [a Hong Kong] ha subito un grande<br />

afflusso di rifugiati dopo la rivoluzione cinese che ha provocato una forte<br />

domanda di abitazioni e causato una incessante estensione, senza metodo (o a<br />

macchia di leopardo), delle esistenti strutture multipiani. Originariamente un<br />

quartiere residenziale, si è sviluppato in quello che possiamo solo chiamare città<br />

in sè stessa. Era una complessa rete di appartamenti connessi tra loro –<br />

semplici piastre disordinate messe insieme come spaghetti in un piatto di zuppa<br />

cinese, con poche qualità architettoniche. Uno potrebbe chiamarlo slum, ma<br />

non appare interamente fatto a caso ed ha un certo suo ordine. Non c’era, comunque,<br />

un’ordine spaziale che in qualche modo possa rassomigliare alla ‘pianificazione<br />

urbana’. Kowloon Walled City non aveva in nessun senso norme urbane<br />

convenzionali.” 31<br />

La coscienza sociale, castrata degli aspetti creativi e qualitativi, si isterilisce in<br />

burocratiche esibizioni di città-modello, quartieri-modello, piani-modello che<br />

nascono e muoiono nello spazio di un mattino, lasciando dietro di sè recriminazioni<br />

di ogni genere. A nulla sono servite le raccomandazioni della Carta del<br />

Machu Picchu, "Le tecniche e la metodologia della pianificazione devono essere<br />

applicate a tutte le scale degli insediamenti umani - quartieri, città, aree metropolitane,<br />

regioni, nazioni - per orientare le localizzazioni, i tempi e le caratteristiche<br />

dello sviluppo...L'obiettivo del pianificare, in generale, cioè della programmazione<br />

economica, urbana e architettonica, è in sostanza l'interpretazione<br />

delle esigenze umane e l'approntamento di strutture e servizi urbani congeniali<br />

ad una situazione sociale in sviluppo." 32<br />

La maggior parte delle progettazioni di livello sono per un’infima minoranza di<br />

benestanti, per grossi gruppi industrial-finanziari o per opere pubbliche. “La<br />

maggior omissione, tuttavia, è la classe media. Né mecenate, né cliente, né<br />

fruitore involontario, questo ‘quarto stato’ della clientela architettonica è l’utente...<br />

Benché il lavoro degli architetti influenzi direttamente sensibilità vernacolari,<br />

la maggior parte degli architetti contemporanei vede i gusti della classe<br />

media come banali e al di sotto della loro attenzione.” 33 Il 90% dell’edilizia prodotta<br />

per questa classe media incide sugli aspetti qualitativi del territorio ben<br />

più del misero 10% di buona architettura edificata per una aristocratica minoranza.<br />

E gli architetti sembrano preoccupati solo di quel 10% “... la banale<br />

31. Akira Suzuki, Software rituals of the contemporary asian city or how to read asian cities, in<br />

Pacific Edge, Contemporary <strong>Arch</strong>itecture on the Pacific Rim, Rizzoli, New York 1998. (p.<br />

106)<br />

32. Carta del Machu Picchu, pubblicata integralmente su "L'architettura - cronache e storia", n.<br />

268,, anno XXIII, febbraio 1978, pp. 546-63.<br />

33. Douglas Kelbaugh, Seven Fallacies in <strong>Arch</strong>itectural Culture, cit, p. 11


quotidianeità di suburbia, che è stata ben documentata e studiata da storici<br />

dell’economia, da geografi urbani e dalle scienze sociali è stata finora evitata<br />

dagli architetti.” 34<br />

Le sofisticate ricerche per le abitazioni e per gli uffici di pochi privilegiati hanno<br />

la possibilità di trovare riscontri nella produzione di massa? Se non c’è nessun<br />

riscontro sulla produzione di massa vuol dire che la ricerca architettonica contemporanea<br />

è fine a sè stessa, chiusa in un pericoloso circolo tanto virtuoso<br />

quanto vizioso. Che le ricerche degli Eisenman, dei Koolhaas, degli Tschumi<br />

siano concepite per influenzare la produzione di massa è opinabile, anzi sembra<br />

proprio che non vogliano esserne per niente contaminate. “... abbiamo bisogno<br />

di fronteggiare il fatto che l’architettura sta rapidamente diventando<br />

parte dell’industria del sapere. ‘Design’ sta diventando sempre più dissociato<br />

dal semplice ‘edificio’ e sempre più associato con la produzione relativa alla<br />

proprietà intellettuale: idee, routines, contesti, interi ambienti sociali e culturali.”<br />

35 Koolhaas si contamina con i mondi dell’editoria, dell’arte, della comunicazione<br />

e degli studi socio-cultural-economici. Eisenman registra tempestivamente<br />

le mode culturali, strutturalismo, linguistica chomskyana, post-strutturalismo,<br />

formalismo. Un linguaggio aulico indirizzato a ristrette minoranze e incomprensibile<br />

alla stragrande maggioranza è come il latino, una lingua morta,<br />

e la gente si arrangia come può, affidando i propri gusti dialettali agli architetti<br />

del New Urbanism, o i gusti vagamente cosmopoliti delle imprese immobiliari.<br />

I tentativi di far derivare le scelte formali più che da un programma edilizio, da<br />

speculazioni filosofiche o, peggio, da mode sono il prezzo da pagare per l’ammissione<br />

ad esclusivi circoli intellettuali che lungi dal porsi come modelli di riferimento<br />

per l’intera disciplina, sono la sede di operazioni di autoriproduzione e<br />

di autoincensamento. O gli architetti contemporanei trovano il modo di instaurare<br />

un dialogo con questa famigerata classe media, oppure possono tranquillamente<br />

relegare le loro audaci ricerche negli impolverati depositi dei musei invece<br />

che renderli vivi e pulsanti per la vita contemporanea.<br />

Comprensibile che Wright si rifiutasse di progettare opere per le Housing Agencies<br />

36 , ma oggi la produzione di massa può essere facilmente personalizzata<br />

grazie al progresso tecnologico. Se guardiamo al settore automobilistico, sempre<br />

tecnologicamente all’avanguardia, possiamo vedere come il simbolo della<br />

produzione in serie per eccellenza sia diventato un simbolo altamente personalizzato.<br />

I softwares delle case costruttrici scompongono il modello dell’auto in<br />

layers che possono essere manipolati individualmente e adattati ai gusti del<br />

cliente. In campo architettonico, il computer del progettista può facilmente trasmettere<br />

i dati a quello del produttore per personalizzare il prodotto finito. Dei<br />

6,100 pannelli in acciaio della Disney Hall solo 2,100 sono uguali; il programma<br />

di Gehry ha trasmesso direttamente i dati al computer della casa produttrice<br />

che ha personalizzato i restanti 4,000. Dalla produzione di massa alla perso­<br />

34. Stan Allen in AA.VV. Nine Questions About the Present and the Future of Design, Harvard<br />

Design Magazine Spring/Summer 2004, p. 38<br />

35. Sanford Kwinter, Four Arguments for the Elimination of <strong>Arch</strong>itecture (Long Live <strong>Arch</strong>itecture),<br />

in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of the 21 st Century, cit., p. 94<br />

36. "Non costruirò mai una casa per una Housing Agency. Con la legislazione vigente si<br />

preparano i tuguri di domani. Agli slums del passato si aggiungono gli slums pseudomoderni."<br />

B. Zevi, Houses or homes, bettole aut focolari, in "Cronache di architettura",<br />

Bari 1971, vol. II, pag. 37


nalizzazione di massa.<br />

Anche certe ricerche digitali mostrano pericolose esasperazioni ‘neutralistiche’<br />

e formalistiche che mettono a rischio il coinvolgimento dei cittadini nel processo<br />

creativo “Gli spazi digitali sono parte della vita reale, non importa quanto<br />

‘virtuali’: i mercati elettronici e i sistemi di premonizione allargano il mondo del<br />

sociale nello spazio elettronico. Al contrario delle letture tecnologiche del regno<br />

digitale che escludono la logica sociale da ogni considerazione, lo spazio elettronico<br />

non è neutrale. Visto che gli architetti usano gli strumenti digitali sempre<br />

più intensamente è cruciale che riconoscano le logiche sociali radicate in<br />

quello che potrebbe essere provato o rappresentato come uno spazio tecnologico<br />

neutrale.” 37<br />

L’attuale aspetto sociale dell’architettura è oggi magnificamente incarnato nell’azione<br />

del Rural Studio di Samuel Mockbee che abbiamo già ricordato, che<br />

trova riscontro in uno degli angoli più poveri e desolati del pianeta, il Burkina<br />

Faso, grazie all’opera di Diébédo Francis Kéré, nell’azione di <strong>Arch</strong>itecture for<br />

Humanity ma anche, per esempio, nell’esperienza olandese e di Elemental,<br />

l’organizzazione non-profit fondata dai cileni Alejandro Aravena, Andres Iacobelli<br />

e Pablo Allart. Non dimentichiamo che impegno sociale significa anche impegno<br />

per porre rimedio alle devastazioni paesaggistico-territoriale e il gruppo<br />

danese Force4 fa una proposta, chiamata Boase, di grande valore ecologico,<br />

tecnologico e urbatettonico.<br />

Diébédo Francis Kéré è uno dei 7 vincitori degli Aga Khan Awards per l’architettura<br />

per il 2004. L’architetto africano è stato premiato per la costruzione, a<br />

basso costo, di una scuola, usando materiali locali del suo poverissimo villaggio,<br />

Gando (www.akdn.org/agency/akaa/ninthcycle/page_04txt.htm). Nel<br />

1998 ha creato un’associazione per raccogliere i fondi necessari alla costruzione<br />

($30,000), ha quindi addestrato la gente del luogo per produrre i mattoni in<br />

terra compressa e nell’ottobre del 2000 ha iniziato la costruzione, con l’aiuto<br />

anche degli scolari della scuola che è stata portata a termine in sei mesi. Non è<br />

un capolavoro ma incarna valori e principi che l’architettura “colta” sottovaluta<br />

o sembra aver smarrito. Un tetto in lamiera corrugata, sorretto da leggere capriate<br />

metalliche, è sopraelevato rispetto al soffitto dell’edificio scolastico non<br />

solo per l’ombreggiamento ma anche per consentire il passaggio d’aria necessario<br />

a regolare la temperatura interna delle tre aule. L’edificio è stato costruito<br />

in modo così semplice per evitare di trasportare il materiale da altre zone e<br />

perchè non ci si poteva permettere il lusso di una gru.<br />

<strong>Arch</strong>itecture for Humanity è un’organizzazione non-profit fondata da Cameron<br />

Sinclair, architetto e da Kate Stohr giornalista freelance, che si propone di promuovere<br />

soluzioni architettoniche immediate, “leggere” per le crisi gobali, sociali<br />

ed umanitarie. La prima iniziativa (1999-2000) è stata un concorso internazionale<br />

per la progettazione di case-transito per i profughi del Kosovo che<br />

potranno essere utilizzate ovviamente anche in altri contesti. Alcuni prototipi<br />

sono già stati realizzati (il prototipo qui illustrato è opera di Deborah Gans and<br />

Matthew Jelacic). Nel 2002 viene bandito un altro concorso internazionale per<br />

37. Saskia Sassen, Globalization and an <strong>Arch</strong>itecture of Unsettlement, in The State of <strong>Arch</strong>itecture<br />

at the Beginning of the 21 st Century, Edited by Bernard + Irene Cheng, The<br />

Monacelli Press, Inc., New York 2003, p. 83


una clinica trasportabile, da utilizzare in Africa, per l’istruzione, la prevenzione<br />

ed il trattamento del virus HIV/AIDS. Partecipano 530 teams provenienti da 51<br />

paesi (Nell’immagine su www.khras.dk/Projects/Chronological?g=76 il progetto<br />

del vincitore, opera del gruppo danese KHRAS <strong>Arch</strong>itects). L’ultima iniziativa ha<br />

per obiettivo la creazione di un campo sportivo a Somkhele, in Sudafrica, un’area<br />

con una delle più alte percentuali al mondo di HIV/AIDS e servirà sia quale<br />

luogo di raduno per ragazzi tra i 9 e i 14 anni che come la sede per la prima<br />

squadra femminile di calcio. Il campo funzionerà anche come centro informativo<br />

sull’HIV/AIDS, sulla sua prevenzione e il suo trattamento. Aspettiamo di vedere<br />

gli architetti che si autodefiniscono d’avanguardia inoltrarsi in questo interessante<br />

ed inesplorato territorio.<br />

Fig. 1: Deborah Gans and Matthew Jelacic -<br />

<strong>Arch</strong>itecture for Humanity competition, Transitional Housing for<br />

Returning Refugees: Kosovo 1999-2000, Mock-up<br />

(Cortesia di Gans & Jelacic)<br />

L’attività di <strong>Arch</strong>itecture for Humanity, che ha ormai ramificazione in circa 60<br />

paesi, coinvolge anche il sistema educativo, corsi universitari utilizzano i suoi<br />

concorsi per esercitazioni mentre scuole elementari e secondarie usano le sue<br />

iniziative per sensibilizzare i ragazzi alle problematiche sociali e progettuali affrontate.


Fig. 2: Deborah Gans and Matthew Jelacic -<br />

<strong>Arch</strong>itecture for Humanity competition,<br />

Transitional Housing for Returning Refugees:<br />

Kosovo 1999-2000, Tre unità<br />

(Cortesia di Gans & Jelacic)<br />

Fig. 3: Deborah Gans and Matthew Jelacic -<br />

<strong>Arch</strong>itecture for Humanity competition, Transitional Housing<br />

for Returning Refugees: Kosovo 1999-2000, Interno<br />

(Cortesia di Gans & Jelacic)<br />

Negli anni settanta in Olanda inizia il rinnovamento urbano e quindi il programma<br />

è ben più importante della forma, la pianificazione diventa un culto e l’ar­


chitettura quasi una bestemmia. Negli anni ottanta la generazione di architetti<br />

tra i 30 e i 35 anni, più liberi rispetto ai loro fratelli maggiori e slegati dalle loro<br />

ideologie, comincia a interrogarsi sul futuro dell’architettura. La discussione diventa<br />

pubblica con la prima Young Dutch <strong>Arch</strong>itects Biennale nel 1983 a cui<br />

partecipano tra gli altri, Jo Coenen architetto ufficiale del governo olandese e<br />

Sjoerd Soeters autore del piano per Java Island. La seconda mostra (dicembre<br />

2003-gennaio 2004) che celebra i vent’anni dell’avvenimento presenta i lavori<br />

di giovani architetti alcuni dei quali si occupano non solo di architettura in termini<br />

stretti ma anche di altri media. Che non siano solo chiacchiere e tendenze<br />

lo dimostrano due esemplari sistemazioni urbane ad Amsterdam: la ricostruzione<br />

degli Eastern Doklands nel distretto Borneo Sporenburg e la costruzione di<br />

un nuovo quartiere chiamato IJburg su sette nuove isole artificiali nell’Amsterdam<br />

Harbor.<br />

Il piano per la ricostruzione di un’area portuale dismessa a Borneo Sporenburg,<br />

è opera dello studio olandese West 8 (www.archnewsnow.com/features/Feature90.htm).<br />

Uno schema rettilineo di case a schiera interrotto diagonalmente da<br />

alcune grosse strutture ad uso collettivo (negozi, ristoranti). Le isole che fanno<br />

parte del piano sono collegate da tre sinuosi ponti pedonali. Le case a schiera<br />

(altezza massima consentita 3 piani) che si affacciano sull’acqua sono una reinterpretazione<br />

in linee moderne delle tradizionali case sui canali di Amsterdam.<br />

Linguaggio essenzialmente minimalista con un’elegante orchestrazione di materiali,<br />

mattoni, calcestruzzo e legno. Al piano terra è consentita un’altezza<br />

maggiore che agli altri piani in modo tale da consentire, nel futuro eventuali<br />

adattamenti e la conversione in caffè o bars. Il 30% sono abitazioni a prezzo<br />

sociale, cioè a prezzi inferiori a quelli di mercato.<br />

La varietà non manca anche se poteva essere maggiore se i promotori immobiliari<br />

non avessero spinto per limitare gli appartamenti-tipo.<br />

Sempre ad Amsterdam, l’amministrazione cittadina ha messo su un programma<br />

per la realizzazione di un quartiere per 45,000 abitanti, IJburg, seguendo<br />

l’organica esperienza storica della capitale olandese che è cresciuta isola dopo<br />

isola, creando nuovi quartieri collegati tra loro dai canali. Obiettivo principale<br />

del piano è quello di evitare la creazione di un suburbio, di un artificioso quartiere<br />

tradizionale, satellite del centro antico della città. Una strada collega il<br />

quartiere direttamente al centro città e alla stazione centrale. Ma un’altro fondamentale<br />

obiettivo è quello di evitare la disastrosa monotonia del progetto redatto<br />

da un’unica mano. Le costruzioni sono di due, tre e quattro piani con l’eccezione<br />

della Sluice House di Klaus&Kaan che sarà di 12 piani. Nessuno architetto<br />

o gruppo professionale potrà progettare più di 60 unità. Quasi metà delle<br />

abitazioni saranno vendute a prezzo sociale. Nella foto il primo blocco completato,<br />

opera dello studio Maccreanor Lavington.<br />

L’organizzazione non-profit Elemental, che ha sede nella scuola di architettura<br />

dell’Università cattolica del Cile, e usufruisce di un contributo finanziario del<br />

governo cileno ed ha il supporto della Harvard Design School, ha organizzato<br />

un concorso internazionale per la realizzazione di 7 complessi residenziali di<br />

200 unità ciascuno distribuiti in varie aree del Cile. Il costo massimo di ogni<br />

unità è stato stabilito in $ 7,500, il che significa costruire, in base ai prezzi correnti,<br />

non più di 25/30 metri quadrati. “ELEMENTAL non è qualcosa per co­


struire case più belle, ma intelligenti nella loro configurazione.” 38 Da segnalare<br />

le proposte di Fernandez, Hernandez & Labbe (www.puc.cl/arquitectura/elementalchile/info/proyectos/santiago.htm),<br />

Office dA, Pasel & Kunzel (www.puc.cl/arquitectura/elementalchile/info/proyectos/temuco.htm).<br />

L’intervento<br />

realizzato da Taller de Chile, di cui Aravena è membro, a Iquique, nel deserto<br />

cileno, è un prototipo per le iniziative di Elemental<br />

(www.puc.cl/arquitectura/elementalchile/es/ejemplo.html). Il complesso residenziale<br />

per 100 famiglie, che rimpiazza un’insediamento abusivo, è pensato in<br />

due livelli in modo tale da consentire ai singoli appartamenti di crescere nel<br />

tempo secondo le esigenze degli utenti: quelli del piano terra potranno estendere<br />

l’abitazione in orizzontale, mentre quelli al piano superiore potranno<br />

estenderlo in verticale.<br />

Fig. 4: Office dA - Elemental Competition<br />

(Cortesia di Office dA)<br />

La casa del futuro: questa la competizione vinta, nel 2001, da un gruppo di<br />

giovani architetti danesi, Force4 e illustrata sul numero di gennaio di Metropolis<br />

39 (vedi www.copenhagenx.dk/template/t15.php?menuId=109).<br />

Due i concetti guida della proposta chiamata Boase: sostenibilità e accessibilità<br />

(in termini economici). Produzione di massa, a bassi costi, di abitazioni. E quindi<br />

anche di terreni a basso costo che non mancano; ne hanno individuato circa<br />

14,000: tutti siti postindustriali inquinati. La città di Copenhagen ne ha fornito<br />

loro uno in un’area multietnica della città precedentemente occupata da un’industria<br />

per la distillazione di idrocarburi. I giovani non si sono persi d’animo ed<br />

hanno pensato di utilizzare al massimo la combinazione di estetica, scienza e<br />

tecnologia. La legislazione danese non consente di costruire in siti inquinati,<br />

ma Force4 ha ottenuto una deroga anche perchè le abitazioni saranno su palafitte<br />

e non toccheranno il terreno.<br />

Il sito verrà disinquinato attraverso la “phytoremediation”, un processo in cui le<br />

radici di certi alberi (salici e pioppi) aspirano l’inquinamento dal suolo. In collaborazione<br />

con un biologo e un paesaggista hanno progettato un parco con alberi-vampiro<br />

(di rapida crescita) integrati da vegetazione locale.<br />

38. “ELEMENTAL is not about making more beautiful houses, but about being intelligent in<br />

their configuration.” Alejandro Aravena, Building Innovative Social Housing in Chile,<br />

Harvard Design Magazine, Fall 2004-Winter 2005, nella versione online<br />

www.gsd.harvard.edu/research/publications/hdm/current/21_aravena.html<br />

39. Kristi Cameron, Boase: Denmark’s model for sustainable, mass-produced housing. On<br />

stilts, Metropolis January 2004, pp. 66-9


Il processo di disinquinamento dovrebbe durare circa dieci anni e si risparmieranno<br />

milioni di corone che si sarebbero dovuti spendere per rimuovere il terreno<br />

fino ad una profondità di un metro e ottanta circa e trasportarlo in apposite<br />

aree per essere trattato.<br />

Se tutto va bene, in dieci anni l’area potrà essere edificata con tradizionale<br />

alta-densità. Se il sistema non funziona, ambientalmente non si perderà nulla,<br />

e gli alberi succhieranno ugualmente acqua dal terreno impedendo a questa di<br />

raggiungere le falde acquifere.<br />

Per la realizzazione delle unità abitative a basso costo puntano sulla metodologia<br />

utilizzata per la costruzione di treni ed auto. Infatti se si dovesse costruire<br />

un’auto nello stesso modo con cui costruiamo le case, nessuno sarebbe in grado<br />

di compare un’auto: costerebbe 10 volte tanto. Quindi ricorso massiccio alla<br />

tecnologia e a materiali non tradizionali: Force4 ha scelto una composizione di<br />

plastica e fibre di vetro rinforzate. Resistente, leggera ed isolante.<br />

Le unità sono articolate in due livelli (duplex) con due facciate in vetro che<br />

contengono cellule solari. Le unità (2,40x7,80x6,00 m.), per una o due persone,<br />

potranno essere facilmente rimosse e riciclate. Visto che è difficile controllare<br />

la temperature in strutture così leggere, pannelli contenenti un tipo di cera<br />

scambiatrice (ClimSel), montati all’interno della facciata, trattengono il calore<br />

durante il giorno e lo rilasciano durante la notte.<br />

Ma l’elemento più sorprendente è la tenda che copre gli spazi comuni, una sorta<br />

di foyer che connette gli appartamenti in gruppi di 4. L’idea originaria prevedeva<br />

una membrana intelligente, che si sarebbe gonfiata al freddo e sgonfiata<br />

al caldo, per regolare il passaggio dell’aria, e sarebbe diventata opaca nelle<br />

giornate di forte isolazione. L’impossibilità di produrre una tenda simile nei<br />

tempi previsti ha suggerito un’altra soluzione, una membrana translucente<br />

gonfiabile a tre strati chiamata ETFE. Più aria viene introdotta più isolante diventa<br />

la struttura. Per evitare surriscaldamenti verranno utilizzate cellule solari.<br />

Le unità sono 64 e l’ultimazione è prevista per il 2005.<br />

Questo progetto evidenzia il ruolo che può giocare l’urbatettura/paesaggistica<br />

nella decontaminazione urbana e territoriale combinando insieme processi naturali<br />

e tecnologia avanzata, senza scadere nella retorica naturista o in un freddo,<br />

anonimo hi-tech. 40<br />

40. La parte riguardante Boase è stata ripresa quasi integralmente da un’articolo pubblicato su<br />

AntiTHesi “Spigolature d’<strong>oltre</strong>oceano (2). E non.”<br />

www.AntiTHesi.info/testi/testo_2_pdf.asp?ID=330


4.3. Etica e professione<br />

“... dobbiamo riconoscere che potrebbero anche non<br />

esserci più architetti nel giro di trent’anni. Perchè?<br />

Perchè il materiale del mondo è generato largamente<br />

attraverso apparati amministrativi (...). Alcuni<br />

architetti hanno anticipato tempo fa il cambiamento<br />

del loro ruolo da costruttori, come tradizionalmente<br />

concepito, a organizzatori di relazioni sociali.”<br />

41<br />

La vicenda del World Trade Center mette in evidenza un fenomeno in via di<br />

consolidamento: il dominio, nella professione architettonica, del lavoro collettivo.<br />

Lo schema di Libeskind è stato preparato da 27 membri dello staff architettonico<br />

più ingegneri, paesaggisti, fotografi e consulenti vari. Da come lo ha<br />

presentato la stampa sembrerebbe che Libeskind abbia fatto tutto da sè lavorando<br />

in solitudine e in clausura. Serve alla pubblicità far credere che il modello<br />

del genio solitario abbia vinto il concorso a ground zero, ma la realtà è ben<br />

diversa. Emerge sempre più prepotente il lavoro non solo collettivo ma interdisciplinare<br />

che rende la professione dell’architetto una delle tante necessarie<br />

per la costruzione del nostro ambiente fisico. In altre parole l’eclissi della pratica<br />

solitaria e l’affermarsi del lavoro collettivo. Un fenomeno, questo, molto diffuso<br />

fra i giovanissimi architetti che ormai evitano la fase di lavoro non retribuito<br />

o sotto-retribuito nei grossi studi professionali e si aggregano tra loro per<br />

condividere spazi, costi, strutture e per competere con i colleghi più famosi e<br />

agguerriti. Una tendenza in atto ben prima di ground zero ma che a ground<br />

zero trova la consacrazione ufficiale grazie anche al fatto che alcuni architetti,<br />

già affermati individualmente, si associano a formare teams di un certo rilievo.<br />

É il caso di NewYork 4, di United <strong>Arch</strong>itects e di THINK.<br />

“In certe situazioni, come il concorso per la progettazione del WTC, è importante,<br />

per una generazione di gente creativa che la pensa allo stesso modo,<br />

precisare quelle che sono le questioni critiche per la progettazione in una più<br />

ampia sfera culturale così come nel più ristretto ambito della propria disciplina.<br />

La pubblicazione dei Five <strong>Arch</strong>itects, le riunioni di vertice del Team Ten, la<br />

biennale del post-modern a Venezia a metà degli anni 80, il CIAM, sono esempi<br />

che ci mostrano come architetti con un forte ego si ritrovarono insieme per<br />

articolare una visione comune. Dopo quegli avvenimenti tornarono tutti a competere<br />

l’uno contro l'altro, nel modo abituale. Questo è ciò che United <strong>Arch</strong>itects<br />

era ed è. Mettersi insieme per stabilire una base comune attraverso cui<br />

definire le proprie posizioni individuali. Credo che ci sia bisogno sia dei professionisti<br />

che lavorano in forma individuale che di quelli che lo fanno collettivamente.<br />

Questo è quello che è sempre avvenuto e che, presumo, continuerà ad<br />

avvenire. Gli iconoclasti isolati sono stati esaltati ma questo tipo di fenomeno<br />

alla ‘Fountainhead’, di solito, allontana i progettisti dal confronto critico conducendoli<br />

verso l'obsolescenza e l'irrilevanza. Ci sono molti grandi architetti,<br />

come Siza o Zumthor, che cessano di evolvere e stagnano, perché non hanno<br />

41. Sanford Kwinter, Four Arguments for the Elimination of <strong>Arch</strong>itecture (Long Live <strong>Arch</strong>itecture),<br />

in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of the 21 st Century, cit., p. 95


confronto critico ed un minimo di rapporti con i loro colleghi. Gli architetti devono<br />

dibattere e quindi, per certi versi, lavorare collettivamente. Una coalizione<br />

di tipo progettuale quale quella di United <strong>Arch</strong>itects è, nella mia esperienza,<br />

più la regola che l'eccezione.” 42<br />

Le due visioni, quella del lavoro individuale e quella del lavoro di gruppo, sono<br />

presenti nell’architettura moderna da molto tempo; è la controcultura degli<br />

anni ‘60 che inizia a puntare sul lavoro in collaborazione o spersonalizzato. Il<br />

gruppo migliore e più noto sarà <strong>Arch</strong>igram che lavorò molto in campo teorico e<br />

che collassò, non a caso, quando cominciarono ad arrivare, tra la fine degli ’60<br />

e l’inizio degli anni ’70, incarichi professionali. Ma il lavoro collettivo di <strong>Arch</strong>igram<br />

restava pur sempre un tipo di collaborazione di stampo gerarchico e con<br />

una chiara distinzione di ruoli soprattutto in ambito creativo.<br />

È Rem Koolhaas, negli anni ’70, che pone il lavoro di collaborazione come<br />

obiettivo primario della sua carriera, anche se le sue collaborazioni non sono<br />

mai state particolarmente di successo, ed egli resta, più per esegesi che di fatto,<br />

l’emblema dell’architetto individualista. Una struttura come il suo Office Metropolitan<br />

<strong>Arch</strong>itecture è tutt’altro che l’espressione di una concezione individualista<br />

del fare architettonico.<br />

I gruppi di oggi sono certo ben più intraprendenti di quelli dei decenni precedenti,<br />

e dietro nomi anonimi, burocratici (<strong>Arch</strong>itecture Research Office, Foreign<br />

Office <strong>Arch</strong>itects, United <strong>Arch</strong>itects) ci sono giovani che si muovono non solo<br />

nell’ambito della disciplina ma studiano i labili confini tra architettura, grafica e<br />

cinematografia. Il rapporto con il cliente, abituato al visionario solitario, diventa<br />

difficile e problematico.<br />

Resta il dubbio se un lavoro completamente collettivo nella creazione possa<br />

mai produrre un grande edificio. Ed in effetti, nella vicenda del World Trade<br />

Center, l’edificio di Meier & C. è tutto meno che un grande edificio.<br />

Il lavoro collettivo oggi ha preso diverse forme. Mentre molti progettisti preferiscono<br />

un modello ibrido, dove diversi studi sotto uno stesso tetto collaborano<br />

occasionalmente, altri hanno invece messo a punto networks di una o due persone<br />

per ufficio in differenti città. Lo studio Servo, ad esempio, ha micro-uffici<br />

a Los Angeles, New York, Stoccolma e Zurigo. Il gruppo n<strong>Arch</strong>itects usa nell’intestazione<br />

il linguaggio matematico, laddove la enne rappresenta un numero<br />

indefinito riferito alla fluttuazione dei partecipanti ad uno specifico progetto.<br />

L’attività di questi gruppi non è esattamente anti-gerarchica ma la gerarchia<br />

varia da un progetto all’altro in relazioni di tipo orizzontale anzichè verticale.<br />

Insomma l’intera professione, come l’abbiamo conosciuta finora, è apertamente<br />

in discussione.<br />

“Tutti noi abbiamo assunto ruoli specializzati, quasi come caricature di noi<br />

stessi. Penso che noi tutti ci consideriamo esperti di architettura e urbanistica<br />

in ogni sfaccettatura ma quando ci mettiamo insieme assumiamo i ruoli di specialisti<br />

in infrastrutture, paesaggio, volumetrie, geometria, programmazione,<br />

ecc.… Le gerarchie emergono in effetti dalla geografia della collaborazione.<br />

42. Greg Lynn intervistato dall’autore per AntiTHesi<br />

www.AntiTHesi.info/testi/testo_2.asp?ID=366


Chiunque è del posto assume su di sè più responsabilità come pure chiunque<br />

abbia la capacità di contribuire alla forza-lavoro del progetto. In termini di ruoli<br />

e di responsabilità nell’ambito del processo creativo, questi sono per lo più basati<br />

sul ruolo che gioca ciascuna delle nostre capacità e specialità.” 43<br />

Al lavoro collettivo si aggiunge la nuova dimensione interdisciplinare che ispira<br />

la clientela più avvertita nella preparazione del programma edilizio, nella scelta<br />

del progettista e nella realizzazione concreta dell’opera. “Chiamare la nuova<br />

sede centrale della Biblioteca Pubblica di Seattle un ‘edificio di Rem Koolhaas’<br />

significa ignorare i tre mesi di ricerca che hanno precedeuto la progettazione –<br />

gli input di bibliotecari, esperti di tecnologia, guru del business e persino il Dipartimento<br />

della Giustizia – per non menzionare i colpi di genio e i cosa-sè degli<br />

architetti e designers dello studio di Koolhaas, l’Office Metropolitan <strong>Arch</strong>itecture,<br />

e il suo partner nel progetto, l’LMN <strong>Arch</strong>itects di Seattle.” 44 E poi schiere<br />

di ingegneri, interior designers, paesaggisti, esperti di illuminotecnica e così<br />

via.<br />

In questo sconvolgimento epocale del fare architettura c’è poi, se vogliamo,<br />

l’aspetto etico del problema, sia in riferimento ad un sistema di valori in generale<br />

che ai rapporti professionali in particolare.<br />

Progettare contro il terrorismo? Nel dibattito sul New York Times del novembre<br />

del 2001 45 , alla domanda del moderatore se l’urbanistica e l’architettura possano<br />

essere uno strumento da utilizzare contro il terrorismo, Tod Williams risponde<br />

che questo è impossibile perchè non ci sono rimedi contro le insidie e sarebbe<br />

comunque una castrazione immaginativa.<br />

Di diverso avviso Greg Lynn che sostiene la necessità di fare ricorso sia alla<br />

tecnologia che al design militare, così come è accaduto in altre epoche storiche.<br />

Ma anche nella nostra, basti ricordare, ad esempio, che internet nasce,<br />

negli anni ’60, in ambito militare; Frank O. Gehry lavora con Catia che è un<br />

programma sviluppato per la progettazione di aerei militari. Disinteressarsi del<br />

problema, accampando un generico buonismo finto-pacifista, è da irresponsabili,<br />

così come lo sarebbe se ci si disinteressasse della sicurezza contro i terremoti.<br />

Il disinteresse lascerebbe via libera al professionismo commerciale in<br />

grado di tirare fuori dal cilindro quegli insulsi bastioni come il nuovo consolato<br />

americano a Istanbul (2003), mentre l’impegno disinibito e creativo è in grado<br />

di produrre ben altro, come ad esempio il già segnalato progetto di Zvi Hecker<br />

per il Royal Dutch Military Police Complex, ad Amsterdam.<br />

Dobbiamo anche registrare, purtroppo, ostentate autodifese di atteggiamenti<br />

disinvolti, come quella, recente, di Rem Koolhaas per il suo progetto per la<br />

CCTV, cioè la televisione di stato cinese. La Cina secondo Koolhaas “è comunista<br />

non nella forma di slogans maoisti ma nella forma di uno stato e, particolarmente,<br />

uno stato che ha ancora un progetto. In america ed in europa, lo<br />

stato non ha più un progetto e questo ha condotto ad un restringimento del<br />

ruolo degli architetti, come è sempre più difficile per noi allinearci con una impresa<br />

per il bene pubblico.” 46 Il buon architetto olandese prima fa un panegirico<br />

43. Greg Lynn intervistato dall’autore per AntiTHesi, cit.<br />

44. Karen E. Steen, The Making of a Library, Metropolis October 2004, p. 97<br />

45. What to Build, Debat Moderate by Terence Riley, cit.<br />

46. Rem Koolhaas, Skyscraper: A typology of Public and Private, in The State of <strong>Arch</strong>itecture


dello stato forte - ma non più maoista - che avrebbe un progetto, poi si inventa<br />

l’emarginazione degli architetti in america e in europa. Se sia un bene che uno<br />

stato abbia un progetto è tutto da dimostrare, che Mao non avesse un progetto,<br />

e che progetto!, in testa solo uno a corto di memoria storica può affermarlo,<br />

che il ruolo degli architetti si sia ristretto in america e europa è un fenomeno<br />

che solo Koolhaas ha percepito, l’opposto è più che evidente. Assolutamente<br />

vera però la conclusione che trae soprattutto se la applica a sè stesso, “Nell’insieme,<br />

il lavoro degli occidentali e degli architetti stranieri in Cina è incredibilmente<br />

cinico e insultante, che mira ad assumere la cultura cinese come volgare.”<br />

47 É triste sentire architetti del talento di Koolhaas lasciarsi andare a simili<br />

slogans e insulsaggini per giustificare un’opera che è affine alla cultura cinese<br />

quanto lo è cattedrale di Chartres. Opera, piaccia o no, di un regime che ha un<br />

progetto: tenere alla larga i cittadini dal potere e dai rituali di una nomenclatura<br />

che si autoriproduce e, oggi, si autocelebra grazie ad architetti occidentali<br />

accondiscendenti.<br />

Prima di aprire crediti culturali a un regime totalitario, Koolhaas dovrebbe meditare<br />

sulle lezioni della storia. Quando gli architetti italiani capiscono che con il<br />

fascismo non è possibile avere un rapporto dialettico rompono gli indugi e passano<br />

dall’altra parte, lasciando che il regime si esprima con il vocabolario tipico<br />

dell’autoritarismo: scenografiche esibizioni di archi, colonne, trabeazioni, viali e<br />

piazze sterminate. In Germania i nazisti, appena al potere, mostrano subito le<br />

loro credenziali chiudendo il Bauhaus, agli architetti moderni non resta che la<br />

via dell’esodo massiccio. I costruttivisti ed i suprematisti russi, che si erano subito<br />

messi a disposizione della rivoluzione, dopo qualche anno di benevola tolleranza<br />

vengono divorati dal “progetto” dello stato dei Soviet e scompaiono<br />

dalla scena artistica e civile.<br />

Quando i migliori architetti si avventurano nel terreno infido del massimalismo<br />

verboso e si rifugiano nell’élitismo per giustificare l’ingiustificabile, vediamo un<br />

film già visto con il movimento moderno che fu infatti soppiantato dalla commercializzazione<br />

dell’International Style. Ci furono certo responsabilità di amministratori,<br />

storici, critici, ma anche i maestri contribuirono non poco, con atteggiamenti<br />

supponenti, al gigantesco depauperamento delle loro stesse idee.<br />

Ma il problema etico coinvolge anche i rapporti professionali che nel caso del<br />

World Trade Center ha superato, in alcuni casi, i limiti della decenza.<br />

Dei sette teams finalisti 5 vengono scelti tra i 405 che hanno presentato le proprie<br />

credenziali, il sesto, Skidmore, Owings & Merril (SOM) è lo studio incaricato<br />

da Silverstein di progettare l’edificio 7 WTC ed il settimo, Peterson/Littenberg,<br />

che è stato consulente per la LMDC sin dalla primavera del 2002, viene<br />

semplicemente cooptato.<br />

Nè SOM nè Peterson/Littenberg sentono il dovere di denunciare la loro patente<br />

incompatibilità.<br />

Il 2 febbraio del 2002 il New York Times 48 pubblica un editoriale in cui critica<br />

duramente l’intenzione di Silverstein di procedere indipendentemente con la ri­<br />

at the Beginning of the 21 st Century, cit., p. 74<br />

47. Ibid., p. 75<br />

48. Starting at <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>, Editoriale, The New York Times February 2, 2002


costruzione sul sito 7 World Trade Center chiedendo che l’edificio dell’imprenditore<br />

immobiliare sia subordinato al piano generale. Nel giugno del 2002 <strong>Arch</strong>itectural<br />

Record pubblica un breve articolo in cui rende noto che Childs ha<br />

approntato il progetto per un grattacielo alto 1,300 piedi e 70 piani occupabili<br />

per uffici. Quando viene indetto il concorso internazionale SOM e associati vari<br />

vengono prescelti per partecipare alla fase finale, da cui si ritirano quando ormai<br />

appare chiaro che non riusciranno a prevalere. Dopo aver sospeso le prestazioni<br />

per partecipare al concorso, finito questo, riprendono a lavorare per<br />

Silverstein e David Childs è incaricato di progettare la Freedom Tower. Uno degli<br />

sconfitti del concorso progetta così, senza pudore, l’edificio più significativo<br />

del piano di Libeskind. Un disinvolto modo di intendere la professione che non<br />

può che provocare ripulsa.<br />

Lo studio Peterson/Littenberg cacciato via dalla porta – all’assemblea pubblica<br />

del Javests - rientra dalla finestra, così come lo studio Beyer Blinder Belle che<br />

resta quale consulente della PA per la pianificazione, per lo studio del sistema<br />

dei trasporti e per l’analisi delle nove proposte. Anche questo pare incredibile.<br />

Bocciati su tutta la linea sarà questo studio di mediocri architetti a gestire i<br />

progetti che hanno preso il posto di quelli fallimentari fatti da loro nel luglio del<br />

2002.<br />

Un intreccio di interessi economici, professionali e politici da far impallidire ogni<br />

pretesa di comportamento etico. Un’assalto selvaggio alla diligenza, da parte di<br />

professionisti senza scrupoli, come nella miglior tradizione dei films di Sergio<br />

Leone.


<strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong> e <strong>oltre</strong><br />

Traiettorie urbatettoniche per il XXI secolo<br />

(PARTE V)<br />

di Mariopaolo Fadda


4.4. Avanguardia e digitale<br />

“Lo spazio prodotto [dall’animazione digitale] può<br />

essere abitabile, ma non più non meno nello stesso<br />

modo in cui riteniamo abitabile una caverna naturale<br />

sebbene non sia stata costruita per noi.” 1<br />

In merito alle proposte per la ricostruzione del World Trade Center nessuna<br />

meraviglia che queste abbiano suscitato non poche avversità. Nel dibattito che<br />

ne è seguito la mediocrità compiaciuta non ha mancato di far sentire la propria<br />

voce tentando ancora una volta di riportare indietro l’orologio della storia architettonica<br />

ed urbanistica. Gli sfoghi viscerali verso le proposte più innovative<br />

hanno toccato punte accesissime. Ciò che suona preoccupante è che gran parte<br />

di quegli sfoghi sono stati cavalcati da giovani architetti che si sono sentiti<br />

esclusi dal gioco. Un campanello d’allarme che segnala un profondo scollamento<br />

tra avanguardia e professione, tra maestri e allievi, tra cultura e vita quotidiana.<br />

Da sempre nella storia dell’arte l’originalità è stata ostracizzata dai fautori dello<br />

status quo, dai conservatori, dalle menti pigre e questo fenomeno è ancor più<br />

marcato nei confronti dell’arte moderna e dell’architettura in particolare. Pablo<br />

Picasso, in parallelo con le scoperte di Einstein, introduce la quarta dimensione,<br />

lo spazio-tempo nella pittura e nella scultura, mette a nudo certezze e principi<br />

incrollabili. E, soprattutto, “offende” il buon senso comune che non comprende<br />

quei disegni “che anche un bambino saprebbe fare”, che non comprende quel<br />

guazzabuglio di facce, nasi, orecchie. Gaudi poetizza lo storto, gli anfratti, le<br />

colate materiche, scandalizzando i benpensanti e l’uomo comune che, con la<br />

complicità di storici e critici, ne decretano la morte artistica. Le Corbusier,<br />

Wright, Mendelsohn vengono scherniti e attaccati perché rompono drasticamente<br />

con la tradizione, buttano a mare le schematizzazioni classiciste, le nostalgie<br />

storicistiche, le regole Beaux Arts. I pionieri del movimento moderno<br />

pagano duramente lo scotto: gran parte del patrimonio di idee, proposte, suggerimenti<br />

viene gettato al vento. E così la gran massa, prigioniera dei pregiudizi<br />

inculcati loro da bande di intellettuali “organici” alle forze antimoderne, si ritrova<br />

a vivere in orripilanti condomini, in alienanti periferie, in invivibili città. Ci<br />

può essere stato certo un eccesso, una fuga in avanti ma questo non giustifica<br />

l’involuzione nella mediocrità compiaciuta.<br />

Non è mai stato facile districarsi nella giungla dei messaggi delle avanguardie,<br />

coglierne e divulgarne le autentiche novità e soprattutto valutarne l’operatività.<br />

É necessaria una costante attenzione critica per evitare di ritrovarsi catapultati<br />

in retroguardia dal mattino alla sera. Spesse volte, quello che appare avanguardia<br />

è nient’altro che velleitaria fuga in avanti e, per di più, molti esponenti<br />

delle avanguardie, animati spesso da una vuota verbosità, fanno di tutto per<br />

apparire incomprensibili, ermetici, alieni. Le esposizioni nazionali ed internazionali<br />

sono la sede in cui le avanguardie esibiscono le innovazioni tecnologiche,<br />

le nuove frontiere del multimediale e l’arte della simulazione. E non sempre per<br />

1. Anthony Vidler, The medium and its message, or I’m sorry, Dave, I don’t have enough<br />

information, <strong>Arch</strong>itectural Record May 2001, p. 72


il meglio.<br />

Nel luglio del 1999 si apre, al MoMA di New York, la mostra “The Un-Private<br />

House” che annuncia l’entrata dell’architettura nell’età dell’elettronica. È ancora<br />

una volta la casa privata a funzionare da cavia per la sperimentazione. Bisogna<br />

ancora una volta affidarsi al buon gusto (e al portafogli) di pochi illuminati<br />

committenti privati. Sono ricerche che partendo da fenomeni in corso cercano<br />

di prefigurare il futuro. Quello che salta maggiormente agli occhi è, come suggerisce<br />

il titolo stesso della mostra, il desiderio di rinunciare alla privacy in favore<br />

di una esposizione pubblica. D’altra parte basta ricordare l’uso del cellulare<br />

che espone al pubblico le conversazioni che qualche anno fa erano ristrette<br />

all’ambito privato. Per l’uomo metropolitano la casa, come focolare domestico,<br />

come contenitore protettivo verso il mondo esterno non esiste più. Le pareti si<br />

smaterializzano, anzi diventano membrane che interagiscono con l’ambiente<br />

circostante. “La progettazione digitale consente anche esperimenti con materiali<br />

quotidiani – tessuti, carta, liquidi - che consentono agli edifici di rispondere<br />

digitalmente a bisogni ecologici ed umani, perché le loro delimitazioni sono<br />

pelli sensitive che modulano temperatura, luce, suono e odore così come trasmette<br />

e mostra informazioni.” 2 Le contrapposizioni construito e non-costruito,<br />

casa e natura, città e paesaggio si affievoliscono sempre di più. All’architettura<br />

dell’oggetto finito, della forma in sè e per sè, del ricordo perenne e dell’ammonimento,<br />

che ha segnato la cultura occidentale sin dalle origini, succede l’architettura<br />

della smaterializzazione, della volatilità e della mutevolezza. La continuità<br />

spaziale casa-città-paesaggio perseguita da Wright non è più un romantico<br />

sogno ma una realtà definitivamente acquisita.<br />

Alle spalle di queste ricerche che appaiono avveniristiche e, in alcuni casi fantascientifiche,<br />

c’è il massiccio lavoro, considerato per molti anni avveniristico e<br />

fantascientifico, dei Gehry dei Foster dei Moss dei Morphosis dei Libeskind degli<br />

Tchumi dei Koolhaas e delle Hadid.<br />

“Il movimento moderno consegna al XXI secolo i risultati di una battaglia che<br />

ha sconfitto i canoni accademici, la proporzione, l’assonanza, il ritmo dell’,<br />

la prospettiva, l’idea dell’oggetto artistisco e perfettamente<br />

eseguito, consolatorio. I decostruttivisti mettono sotto processo gli architetti<br />

intenti a produrre forme pure, basate sull’inviolabilità di figure geometriche<br />

elementari, incontaminate, emblemi di stabilità, armonia, sicurezza, confort,<br />

ordine, unità. Nelle loro opere, da Eisenman e Gehry a Koolhaas e Libeskind,<br />

l’architettura è dichiaratamente un agente di instabilità, disarmonia, insicurezza,<br />

sconforto, disordine e conflitto. Respinge le ideologie del numero d’oro,<br />

dell’impianto immutabile, eterno e universale, per difendere i diritti<br />

di un calzante con la realtà. Forme impure, geometria<br />

sghemba, angoli non retti, diagonali, volumi contorti, piani concavoconvessi,<br />

accozzaglia di etimi e motivi. L’architetto non persegue più astratti<br />

valori sovrastrutturali; parla in prosa, accumula vocaboli risemantizzati, evita<br />

qualsiasi tipo di sintesi, e raggiunge una poesia carnosa, persuasiva, intrinseca<br />

alle cose.<br />

Riemerge cosi il traguardo di un della scrittura architettonica,<br />

anti-retorica e anti-autoritaria, popolare ma non vernacolare. Si riprende un<br />

2. Ibid., p. 71.


discorso esplorato nella preistoria, nella prima età cristiana, nell’alto medioevo,<br />

nelle ricerche di tutti coloro che da Arnolfo di Cambio a Borromini, hanno ripudiato<br />

stili, abitudini inerti, frasi fatte, modi codificati. Il che il XX<br />

secolo trasmette al XXI non appartiene agli eroi, ma alla comunicazione quotidiana.”<br />

3<br />

Pericoloso è l’eccessivo entusiasmo per ricerche che finiscono per avvitarsi su<br />

sè stesse, infatuazioni giovanili che raramente arrivano alla maturità. Il digitale<br />

4 ha corso questo rischio. Ha causato non pochi sprechi di energie; troppi si<br />

sono innamorati delle forme bloboidali fini a sè stesse, in simulazioni accattivanti,<br />

scadendo in vuoto formalismo. Ora però sembra emerge una più matura<br />

consapevolezza nel mezzo digitale, senza fughe in avanti e senza infatuazioni<br />

infantili. “… l’età del computer e l’euforia per tutto le cose ‘virtuali’ forse è già<br />

finita. Può darsi che l’architettura abbia investito troppo in una discutibile necessaria<br />

moda. Nessuno di quelli che ha chiamato il computer uno ‘strumento’<br />

sono mai stati sfiorati dalla minima idea di cosa il computer sia... quelli che<br />

considerano il computer uno strumento pare non abbiano il sentore quale meraviglioso<br />

miscuglio un computer rappresenta veramente, perché lo concepiscono,<br />

ubbidientemente e convenzionalmente, come ‘digitale’ quando in realtà<br />

è facilmente dimostrabile un’organizzazione analogica (fatta di vetro, silicio e<br />

elettricità)... Dovremmo reindirizzare la ricerca dalle simulazioni sullo schermo,<br />

che hanno predominato negli utlimi quindici anni verso, verso la considerevole<br />

più grande intelligenza che è già impressa nella materia, inclusa l’indagine di<br />

nuovi processi scientifici e industriali e di nuovi materiali in cui questi processi<br />

sono radicati.” 5<br />

Il messaggio è: dobbiamo imparare a conoscere il digitale senza dimenticare<br />

Newton e non è così facile star dietro a una giovane generazione di architetti<br />

(Greg Lynn, Ben van Berkel, MVRDV, dECOi) che sfidano concezioni estetiche<br />

radicate in nome di una continua ricerca formale dinamica, fatta di interazione,<br />

animazione che si sbarazza definitivamente della visione prospettica “Diversamente<br />

dal progetto basato sulla prospettiva, i programmi di animazione spaziale<br />

non riconoscono un soggetto umano come origine, nè punti di vista, nè<br />

privilegiano la verticale o l’orizzontale.” 6 Il risultato a cui giungono è quella regressione<br />

al grado zero dell’architettura invocata da Zevi. Non più spazi preconfezionati<br />

ma spazi trovati che possiamo adattare alle nostre esigenze così<br />

come l’uomo primitivo adattava la caverna, la grotta ai suoi usi. E, ricordiamolo,<br />

in quelle caverne (Lascaux, Altamira ecc.) l’uomo ha iniziato la sua avventura<br />

artistica.<br />

Negli anni ’90 il gruppo Asymptote è immerso in esperienze che hanno come<br />

obiettivo quello di rendere reale il virtuale. Crea un “Three Dimensional Trading<br />

Floor” (3DTF) per la Borsa di New York che fornisce in tempo reale tutte le informazioni<br />

sul mercato in un’ambiente completamente virtuale (vedi<br />

3. Bruno Zevi, Storia e controstoria dell’architettura in Italia, Newton, Roma 1997, p. 730<br />

4. Qui parliamo di digitale nella duplice veste di tecnica progettuale ed elemento multimediale<br />

dei nuovi edifici.<br />

5. Sanford Kwinter, Four Arguments for the Elimination of <strong>Arch</strong>itecture (Long Live<br />

<strong>Arch</strong>itecture), in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of the 21 st Century, cit., p. 95<br />

6. Anthony Vidler, The medium and its message, or I’m sorry, Dave, I don’t have enough<br />

information, cit., p. 71


http://www.archphoto.it/IMAGES/asymptote/nyse2.htm). Per il Guggenheim di<br />

New York progetta il primo importante edificio virtuale del XIX secolo, una fusione<br />

di spazio, arte, commercio e architettura (vedi http://www.arcspace.com/architects/asymptote/Guggenheim/).<br />

Un museo accessibile via Internet e<br />

interattivo in tempo reale con le varie componenti installate nel Guggenheim,<br />

immagini virtuali che possono essere modificate dagli utenti ed adattate ai<br />

loro gusti. Nei primi anni del nuovo secolo, rovescia l’impostazione e non cerca<br />

più di rendere reale il virtuale ma virtuale il reale attraverso la dematerializzazione.<br />

L’attenzione si trasferisce dal flusso di immagini all’immagine del flusso.<br />

Nel padiglione Hydra-Pier ad Haarlemmermeer in Olanda “l’acqua che scorre<br />

sopra il tetto dell’edificio non è uno spettacolo del movimento dell’acqua ma<br />

uno spettacolo sulla dematerializzazione della massa dell’edificio.” 7 L’edificio<br />

sorge nei pressi dell’aeroporto Schiphol e “per l’osservatore che vi vola sopra,<br />

il colore così come la profondità e la velocità dell’acqua corrente (...), funzionano<br />

per dissolvere l’edificio nel suo intorno, nel polder... Questa nozione di dissoluzione<br />

e trasformazione differisce dalle vecchie idee del collage o della pittura<br />

cubista ed è più simile alla simulazione, virtualizzazione, o alle nuove pelli<br />

mimetizzate digitalmente che leggono e simulano i loro intorni per poter così<br />

scomparire.” 8 Una sorta di camaleontismo, che ha il potere di dissolvere le rigide<br />

contrapposizioni tra naturale/artificiale, realtà/apparenza (vedi<br />

http://www.arcspace.com/architects/asymptote/Hydra/).<br />

Anche un lavoro artistico in via di realizzazione di Diller + Scofidio chiamato<br />

“Facsimile” si muove, per diversa via, in questa direzione, “... uno schermo<br />

LED largo 27 piedi e alto 18 viaggia su un binario orizzontale nella facciata del<br />

Moscone Convention Center a San Francisco, trasmettendo video dal vivo alimentati<br />

da numerose camere puntate sull’edificio. Le immagini sono un misto<br />

di realtà e finzione, in quanto scene preregistrate sostituiscono a intermittenza<br />

il filmato dal vivo. L’osservatore non può essere mai sicuro se le immagini del<br />

video sono reali o una messa in scena.” 9 (vedi anche http://www.arcspace.com/architects/DillerScofidio/moscone/)<br />

Fig. 1: Marcelo Spina -<br />

Land.Tiles<br />

(Cortesia di Marcelo Spina<br />

PATTERNS)<br />

7. Hani Rashid/Lise Anne Couture, Real Virtually, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the<br />

Beginning of the 21 st Century, cit., New York 2003, p. 114<br />

8. Ibid., p. 114<br />

9. Elizabeth Diller, Liveness and Mediation, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of<br />

the 21 st Century, cit., 2003, p. 110


Marcelo Spina usa il digitale non per lasciarsi andare a forme bloboidali ma per<br />

indagare, in interventi paesaggistici sperimentali, le potenzialità del materialesimbolo<br />

della rivoluzione moderna: il calcestruzzo.<br />

Fig. 2: Marcelo Spina -<br />

Snake-Rice<br />

(Cortesia di Marcelo Spina<br />

PATTERNS)<br />

La ricerca non è più tautologica, non è più feticista nelle simulazioni computerizzate,<br />

ma si concentra sul processo per svelare, in linea con il più avanzato<br />

pensiero scientifico, l’”intelligenza immersa nella materia” per dirla con Sanford<br />

Kwinter.<br />

Abbiamo da un lato un ampio ventaglio di possibilità offerte dall’utilizzo strumentale<br />

delle tecniche digitali e dall’altro un’indagine sempre più profonda sulla<br />

manipolazione della materia e quindi dello spazio. É però indispensabile non<br />

dimenticare i limiti ed i pericoli insiti in questa rivoluzione “La tendenza biotecnica,<br />

rappresentata al suo massimo estremo dal modello morfogenico di Karl<br />

Chu ma anche, più in generale, dal persistente richiamo per un oggettivo processo<br />

di progettazione generato dal computer, richiama i limiti del funzionalismo<br />

sostenute dal movimento moderno e le metodologie di progettazione influenzate<br />

dalla teoria dei sistemi degli anni sessanta, principalmente il linguaggio<br />

del pattern di Christopher Alexander. Non importa quanto sofisticato sia il<br />

programma del computer o quanto comprensive siano le variabili da soddisfare,<br />

le forme risultanti restano rimosse dagli attuali bisogni e desideri, sia materiali<br />

che simbolici... Quello che non sono state pienamente riconosciute sono le<br />

limitazioni del software, l’arbitrarietà dei criteri scelti, la soggettività del processo<br />

di editing della forma e la banale ripetitività della funzione stessa quando<br />

è strettamente vista come uno strumento o un sistema a priori. Il progetto<br />

sembra intrappolato tra determinismo strumentale e misticismo intuitivo.” 10<br />

La rivoluzione sembra coinvolgere non solo l’oggetto ma anche il soggetto.<br />

In campo pittorico è interessante la ricerca condotta da un artista, Young Hay<br />

in collaborazione con il Department of the Computer Science (CS), della City<br />

University of Hong Kong. La Body Brus, ispirata all’action painting di Jackson<br />

Pollock, consente di trasformare, attraverso l’uso di illuminazione a infrarossi,<br />

proiettori stereo, camere, e un software di grafica, i movimenti del corpo in<br />

una grande varietà di forme, colori, suoni e musica in un ambiente 3D. Il pittore<br />

cioè diventa il pennello.<br />

10. Mary McLeod, Form and Function Today, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of<br />

the 21 st Century, cit., p. 51


In campo architettonico l’architetto non ha ancora deciso di diventare la matita<br />

ma delega ad altri soggetti la funzione di medium. Lo studio dECOi, nella struttura<br />

Ether/l, realizzata a Ginevra nell’ambito dei festeggiamenti dei 50 anni<br />

dell’ONU, intrappola in una forma tridimensionale i movimenti, non visibili ad<br />

occhio nudo ma rintracciabili nel video, di una coppia di danzatori (vedi<br />

http://www.newitalianblood.com/progetti/687.html). È il punto estremo della<br />

ricerca a cui ha lavorato per anni, incompreso, Frank Owen Gehry.


4.5. La critica architettonica 11<br />

La critica architettonica si trova a dover fronteggiare, in questo inizio millennio,<br />

essenzialmente due sfide che ne segneranno, nel bene o nel male, il destino.<br />

La prima sfida riguarda la credibilità della stessa disciplina messa a dura prova<br />

da accuse, fondate e infondate: mancanza di obiettività, valutazioni superficiali,<br />

accondiscendenza verso lo “star system”. La seconda sfida è costituita dal<br />

peso sempre maggiore della stampa quotidiana nel processo critico.<br />

Ma veniamo alle accuse.<br />

a. Mancanza di obiettività. Tra tutte le accuse è quella meno infondata.<br />

L’obiettività è un concetto astratto, ideologico che fa parte del mondo<br />

delle idee non certo del mondo reale. Lo hanno capito persino i giornalisti<br />

che per anni hanno sbandierato le loro verità come informazione “obiettiva”<br />

e oggi, resisi conto che l’”obiettività” è un concetto che gli si può ritorcere<br />

contro, preferiscono parlare di informazione “equilibrata”. La valutazione<br />

obiettiva di un manufatto architettonico richiederebbe: a) un sistema<br />

univoco di regole a cui appellarsi; b) un critico autorevole e sufficientemente<br />

distaccato e disinteressato. Che in architettura esista un sistema<br />

univoco di regole a cui appellarsi per valutare un edificio solo un<br />

demente può sostenerlo. Il critico autorevole, se non ha un sistema codificato<br />

su cui poggiare la sua sentenza, che autorevolezza potrà mai avere?<br />

Quanto poi all’essere distaccato e disinteressato è inconcepibile perché<br />

nessuno di essi vive al di fuori della rete di interessi e rapporti che<br />

ruotano attorno alla disciplina. Ma anche se ciò fosse possibile, e potrebbe<br />

esserlo in una valutazione storica lontana nel tempo, sarebbe pur<br />

sempre inconcepibile perché non solo il critico ma ognuno di noi fa valutazioni<br />

in base al proprio bagaglio culturale che comprende nell’insieme<br />

anche pregiudizi, contraddizioni, dubbi. Quel che è importante, in definitiva,<br />

è non l’obiettività ma l’equilibrio con cui uno valuta un’opera, essendo<br />

ben consapevole dei propri pregiudizi, contraddizioni e dubbi.<br />

b. Valutazioni superficiali. Le valutazioni superficiali sono quelle che giustificano<br />

qualsiasi fenomeno persino il più capriccioso o alla moda. Più<br />

che dare valutazioni il “critico” è tutto intento a fornire fatti, dati, descrizioni<br />

e opinioni. Valutazione statistiche che trovano sbocco in quelle antologie<br />

dove c’è di tutto e tutto rigorosamente incasellato: high-tech,<br />

vernacolare, postmoderno, decostruttivismo, digitale e così via, che si limita<br />

a registrare quello che va al momento sulle riviste, nei dibattiti salottieri<br />

e nelle esercitazioni accademiche. Il rovescio della medaglia è<br />

rappresentato dalle valutazioni profonde degli studiosi ad hoc, talmente<br />

profonde che gli studiosi si smarriscono nel labirinto delle analisi ultime,<br />

dimenticandosi di risalire in superficie. Ci ritroviamo così sommersi di volumi<br />

che illustrano per pagine e pagine le “mirabolanti” architetture bloboidali,<br />

che presentano illeggibili scritti sulle teorizzazioni delle teorie e<br />

delle antiteorie, che mettono in mostra noiosissimi saggi di speculazioni<br />

filosofiche.<br />

11. Alcune considerazioni del presente capitolo sono apparse in un intervento su AntiTHesi del<br />

26/4/2004, http://www.AntiTHesi.info/testi/categorie/s_comm_aut.asp?autoreID=Mariopaolo_Fadda


c. Accondiscendenza verso lo “star system”. Se diamo uno sguardo<br />

allo squallore dell’ambiente costruito non possiamo che giustificare questa<br />

accusa. Troppa critica, ignorando la situazione generale, è prona davanti<br />

ad una classe di eletti pronta a giustificarne ogni rantolo, stabilendo,<br />

nel frattempo, forti legami con essa e diventandone in sostanza la<br />

cassa di risonanza anzichè esserne la frusta. Un fenomeno diffusissimo e<br />

pericoloso che sta producendo però un fenomeno contrapposto altrettanto<br />

pericoloso: la stroncatura. Per alcuni la vera critica è quella in negativo,<br />

quella che sbeffeggia opera e architetto ritendo la lode il segno di una<br />

critica debole e scarsamente incisiva. Anche qui siamo in un pericoloso<br />

circolo vizioso: molti architetti si sfregano le mani nel vedere nel fango i<br />

loro rivali e i critici prendono gusto a stroncare lavori non graditi.<br />

I giovani architetti, le ricerche meno appariscenti, le problematiche sociali, l’educazione<br />

del pubblico sono fenomeni estranei che non meritano interesse.<br />

Queste accuse sono risuonate ripetutamente a ground zero e, viste le dimensioni<br />

della vicenda, hanno avuto un’eco vastissimo. La critica ha dispiegato tutto<br />

il suo potenziale di nobiltà e miseria, serietà e frivolezza, dialettica e arroganza.<br />

Vincent Scully in una conversazione tenuta, cinque giorno dopo il criminale<br />

attentato, con Alec Appelbaum di Metropolis dichiara di aver cambiato<br />

idea a proposito delle due torri “Sembravano troppo grandi, mute e inarticolate.<br />

Quando sono state colpite, tutte le associazioni sono cambiate. Tutto ad un<br />

tratto, invece di apparire smisuratamente alte, esse appaiono strazianti. Ora le<br />

amo.” 12 Si può non concordare ma bisogna dare atto allo storico americano di<br />

una sensibilità fuori dal comune nel rapportare la critica alla vita. E la vita non<br />

contempla nè l’immutabilità nè la stabilità.<br />

A ground zero passata l’ondata emotiva sia l’ambiente professionale che la critica<br />

devono fare i conti con la ricostruzione. Dal numero di ottobre dello stesso<br />

anno <strong>Arch</strong>itectural Record, per esempio, gli dedica ogni mese una speciale sezione.<br />

L’intenzione è quella di esercitare una funzione di stimolo per una ricostruzione<br />

consona alle aspettative. Al di là del fortissimo riflesso emotivo, la<br />

sfida in termini urbatettonici è di importanza straordinaria. Dopo il periodo iniziale<br />

in cui la critica, unitamente alla grande stampa e a una larga fascia di<br />

pubblico, è impegnata a sventare la gestione commercialistica della vicenda<br />

emergono atteggiamenti di arroganza culturale e di élitismo che finiscono per<br />

ritorcersi contro l’ambiente architettonico in generale; in questo senso sono<br />

state interpretate le iniziative di Muschamp e Giovannini che infatti sono state<br />

subito relegate in soffitta e dimenticate. Ogni tentativo di imporre una visione<br />

particolaristica, di restringere il campo a potentati professionali si scontra con<br />

l’ormai irrinunciabile spirito pluralista e inter-multidisciplinare che anima la cultura<br />

e la società contemporanee. Uno spirito che rifiuta di privilegiare a scatola<br />

chiusa un punto di vista particolare e soprattutto rifiuta presunte egemonie. Il<br />

critico di architettura deve districarsi in una giungla di interessi contrapposti,<br />

setacciare l’inarrestabile flusso di informazioni del villaggio globale e fronteggiare<br />

agguerrite argomentazioni che si fanno strada a fianco di valutazioni puramente<br />

estetico-formali. Il critico non è più chiuso in un ovattato studio inten­<br />

12. Vincent Scully in Alec Appelbaum, A professor learns to love the twin towers--and hate the<br />

void they left behind, Metropolis, December 2001,<br />

http://www.metropolismag.com/html/content_1201/scu/


to a mettere insieme la sua “sentenza” ma si trova catapultato in un’arena<br />

dove <strong>oltre</strong> che prendere posizione deve anche difenderla a denti stretti.<br />

Un tempo si sarebbe chiamata critica militante oggi potremmo definirla critica<br />

orizzontale, prendendo a prestito da Saskia Sassen la definizione di orizzontalità,<br />

e cioè secondo una rete di rapporti meno verticistici e più democratici. La<br />

critica verticale è quella che ci impone di aspettare in riverente silenzio l’editoriale<br />

dei direttori delle riviste del settore, le interpretazioni dell’accademico di<br />

turno, le fredde analisi di impeccabili studiosi, mentre la critica orizzontale, vista<br />

la “tempestività” richiesta dalla società contemporanea si affida alla stampa<br />

quotidiana, ai forums con i protagonisti da mandare in diretta sugli web sites,<br />

alle discussioni pubbliche, alle mostre praticamente in diretta. E questo per la<br />

critica verticale significa abbandonare i salotti buoni, le esclusive cittadelle del<br />

sapere e confrontarsi direttamente con il pubblico. In questo contesto acquistano<br />

grande importanza anche gli aspetti giornalistici e, se vogliamo, mondani<br />

nella valutazione estetico-formale. La critica però non può limitarsi a registrare<br />

passivamenti gli avvenimenti, anche se è necessario tenerli d’occhio, e deve<br />

condannare e combattere fenomeni che ritiene dannosi rifiutandosi di fornirgli<br />

alibi e coperture. La preoccupazione di dare un’informazione “obiettiva” non<br />

sussiste, perché oggi, a differenza di ieri, la rete web si è fatta carico di garantire<br />

le notizie, quindi sono assolutamente inconcludenti tutti quei siti che si occupano<br />

di critica architettonica inondando il povero navigatore con materiale di<br />

ogni genere, che provoca inevitabilmente crisi di rigetto, tutto a scapito della<br />

linearità espositiva e della chiarezza critica. Compito della critica è non solo<br />

quello di aiutare a leggere le opere ma anche guidare, fornire chiavi di lettura<br />

di fenomeni in formazione a chiunque si inoltri nel terreno infido della comunicazione<br />

globale.<br />

La seconda sfida che si trova a fronteggiare la critica architettonica è costituita<br />

dalla stampa quotidiana. Abbiamo visto nella vicenda del World Trade Center il<br />

ruolo che essa può giocare sia in campo esplicitamente critico che educativo,<br />

ma dobbiamo anche registrare aspetti particolarmente negativi che non bisogna<br />

assolutamente sottovalutare o ignorare.<br />

Il New York Times è il primo grande quotidiano che sin dagli anni ’70 ha tra i<br />

suoi collaboratori fissi un critico di architettura, Ada Louise Huxtable. Da allora<br />

in poi altri quotidiani faranno altrettanto. Da un’indagine eseguita nella primavera<br />

del 2001 dal National Arts Journalism Program della Columbia University<br />

di New York 13 , emerge che su 140 quotidiani che superano la tiratura di 75,000<br />

copie poco meno di 45 hanno nel loro organico un critico di architettura a tempo<br />

pieno. A prima vista ci sarebbe da brindare a questo sorprendente interesse<br />

per l’architettura ma se esaminiamo bene il rapporto c’è invece di che preoccuparsi.<br />

Rispondendo al questionario distribuito loro, una grande maggioranza di<br />

essi hanno giudicato, su una - discutibile - lista di 29, il ponte di Brooklyn la<br />

miglior opera architettonica degli ultimi 150 anni, seguito dalla Grand Central<br />

Station, dal grattacielo Chrysler, da Monticello e dall’University of Virginia e<br />

dalla Robie House. Esprimono una generale antipatia per le opere postmoderne<br />

ma giudicano positiva la loro influenza sull’architettura. Mettono in cima alla lista<br />

dei migliori architetti Gehry, Piano e Calatrava e tra gli ultimi Hadid, Tschumi,<br />

Eisenman, Lynn. Tra i teorici mettono in testa gli urbanisti e i new-urbani­<br />

13. András Szántó, Eric Fredericksen,and Ray Rinaldi, The <strong>Arch</strong>itecture Critic, a Survey,<br />

<strong>Arch</strong>itecture California 04.1, pp. 32-39


sti, in coda Eisenman, Foucault e Tschumi. Considerano Jane Jacobs la più influente<br />

scrittrice di architettura, seguita da Ada Louise Huxtable e solo al quarto<br />

posto Lewis Mumford. Tutti preferiscono scrivere su argomenti che riguardano<br />

gli aspetti urbani e meno i singoli edifici e molti si lamentano per la troppa<br />

attenzione data agli architetti più celebri. La stragrande maggioranza di essi si<br />

professano politicamente liberals o progressisti.<br />

Non stiamo parlando di giornalisti prestati alla critica di architettura ma di critici<br />

veri e propri che si occupano di architettura come mestiere a tempo pieno.<br />

Certo critici come Herbert Muschamp (New York Times), Paul Goldberger (The<br />

New Yorker), Nicolai Ouroussoff (Los Angeles Times), Blair Kamin (Chicago Tribune),<br />

Ada Louise Huxtable (Wall Street Journal) sono di assoluto valore ed<br />

hanno le idee abbastanza chiare sul loro ruolo e sul ruolo della critica ma non<br />

altrettanto possiamo dire per la restante stragrande maggioranza inquadrata<br />

così bene dall’indagine della Columbia University. Si ritengono degli educatori<br />

ma cosa diavolo insegnano al grosso pubblico se non apprezzano sufficientemente<br />

capolavori come il Guggenheim di New York, quello di Bilbao e l’ala<br />

ebraica del museo di Berlino? Se sul postmoderno hanno idee così confuse e<br />

rabberciate? Se si attardano sugli scritti della Jacobs? Si ritengono progressisti<br />

ma come mai si fanno incantare dai richiami alla tradizione di un fenomeno<br />

così squalificato e reazionario come il new-urbanism?<br />

Nella vicenda del World Trade Center, benché se ne siano occupati un pò tutti,<br />

sono emersi, come era facilmente prevedibile, i critici dei quotidiani più diffusi<br />

e prestigiosi. Sin da quando appaiono chiare le intenzioni degli addetti alla ricostruzione,<br />

Herbert Muschamp si fa carico di minare la credibilità dei progetti<br />

gestiti nel chiuso degli uffici della LMDC. Spara a zero sui consulenti, lo studio<br />

Beyer Blinder e Belle e Peterson/Littenberg giudicando i primi incapaci di produrre<br />

architettura moderna di qualità; ed i secondi di essere architettonicamente<br />

“reazionari”, seguaci di Leon Krier e Prince Charles. Accusa Garvin, il<br />

coordinatore per il settore urbanistico-architettonico, di separare artificiosamente<br />

l’aspetto urbanistico da quello architettonico per marginalizzare il ruolo<br />

di quest’ultimo. 14<br />

Muschamp e Joseph Giovannini, critico di architettura di New York Metro, si<br />

fanno portavoce del malumore che serpeggia in certi settori del mondo culturale<br />

di New York e buttano sul piatto della bilancia le proposte di un selezionato<br />

gruppo di architetti. Questi due contributi fanno seguito all’esibizione organizzata<br />

da Max Protetch nella sua galleria appena quattro mesi dopo l’attentato. I<br />

due critici sono stati fatti oggetto di numerosi attacchi perché per i sostenitori<br />

dell’”obiettività” della stampa è sembrato anatema che si fossero buttati nella<br />

mischia giocandosi la reputazione, e giocandosela per davvero, mandando in<br />

malora quell’aurea di finta imparzialità che ne circondava la figura. Qualcuno,<br />

anche in ambito disciplinare, reclamerà addirittura provvedimenti del giornale<br />

– sino alla cacciata - contro Muschamp. Abbiamo già abbondantemente valutato<br />

i lati discutibili dell’iniziativa del critico del New York Times, dissentendo soprattutto<br />

da impostazioni élitarie che si scontrano ferocemente con il sapere<br />

diffuso della globalizzazione elettronica, senza per questo giustificare minimamente<br />

le esagerate e scomposte reazioni a cui abbiamo assistito.<br />

14. Herbert Muschamp, Marginal Role for <strong>Arch</strong>itecture at <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>, The New York Times<br />

May 23


Per quanto riguarda i giudizi sulle 9 proposte scaturite dal concorso internazionale,<br />

sono variegati quanto le proposte stesse ed il dibattito travalica i limiti<br />

della discussione specialistica a cui partecipano non solo i critici di architettura<br />

ma giornalisti, sociologi, docenti, studenti e il pubblico in generale. <strong>Arch</strong>itectural<br />

Record 15 , organizza un forum a cui partecipano anche alcuni dei progettisti<br />

e dal forum escono i giudizi più disparati così come sono disparati i giudizi del<br />

pubblico che è possibile leggere sui quotidiani e sui vari forums online.<br />

Oltre alle preferenze scattano, inevitabilmente, le “stroncature”. A parte quella<br />

scontata e generalizzata della coppia Peterson/Littenberg, la stroncatura più<br />

importante e controversa è opera di Muschamp – ancora lui - che pur di vedere<br />

vincere il progetto di THINK, aggredisce con un linguaggio che non lascia spazio<br />

ad ambiguità il progetto di Libeskind, dimenticando che neanche due mesi<br />

prima ne aveva cantato le lodi. Muschamp scrive così una delle pagine più<br />

brutte della critica architettonica. Il critico del New York Times tenta così per la<br />

seconda volta, con presunzione e arroganza fuori del comune, di far prevalere<br />

il suo personalissimo punto di vista in un processo reso complicatissimo dal delicato<br />

equilibrio tra le varie componenti in gioco. Se è legittima e, per certi versi,<br />

ammirevole la difesa del progetto di THINK altrettanto non possiamo dire<br />

dell’accanimento contro Libeskind: un’aggressione criticamente discutibile e intellettualmente<br />

disonesta.<br />

Ciò che esce comunque a pezzi da questa vicenda epocale è la visione élitaria<br />

della cultura. Il sessantotto aveva provato a mettere in discussione la cosiddetta<br />

cultura borghese, ma non avendo nulla da contrapporgli se non le stupidaggini<br />

di una “presunta” cultura popolare, di fatto ne certificava l’ineliminabilità.<br />

Internet e la globalizzazione sono dei potentissimi strumenti attraverso cui la<br />

conoscenza diffusa intacca il potere della cittadella. Muschamp, critico acuto e<br />

di grande valore, è l’unico che tenta una strenua e aperta difesa di questa concezione<br />

quando si schiera con il progetto di THINK che sarebbe, a suo dire, una<br />

risposta al concetto consumistico di cultura.<br />

È curioso che i critici di architettura si uniscano al generale coro di coloro i quali<br />

invocano la partecipazione pubblica, salvo poi rifiutarla nel proprio ambito. Se<br />

l’arte così come la critica pretendono di essere una forma di critica sociale non<br />

si capisce perché debbano sfuggire al confronto e allo scontro. Chiudendosi a<br />

riccio in difesa di una concezione aristocratica della cultura la critica allarga il<br />

fossato pubblico/opera invece che colmarlo. Il libero confronto e la libera discussione<br />

devono diventare un punto fermo ed irrinunciabile. D’altra parte basta<br />

leggere i giudizi critici espressi nei forums da studenti, professionisti e cittadini<br />

comuni: qualcuno di essi non ha nulla da invidiare a quelli espressi da<br />

critici di professione.<br />

In contesto così fluido, così mutevole la critica architettonica non può sottrarsi,<br />

per meschini calcoli di convenienza, di interessi e di carriera, alle proprie responsabilità.<br />

La vicenda del World Trade Center è un sinistro scricchiolio ad abbandonare<br />

la torre d’avorio, prima che sia rasa al suolo dal “buon senso” dei<br />

giornalisti e dalla rabbia del cittadino globale emarginato e vilipeso.<br />

15. Need for revised program raised as issue in World Trade Center panel discussion,<br />

<strong>Arch</strong>itectural Record web site, January 8, 2003


4.6. I concorsi<br />

“Il tipo di lavoro che facciamo per i concorsi, giusto<br />

dieci anni fa, era chiamato sviluppo progettuale; ora<br />

lo chiamiamo marketing.” 16<br />

“benché la L.M.D.C. abbia insistito per un bel pò che non stava tenendo un<br />

concorso architettonico che sarebbe culminato con la scelta di un singolo vincitore<br />

– che essa aveva commissionato i piani semplicemente come una via per<br />

la ricerca di idee fresche – essa si è comportata come se stesse gestendo un<br />

concorso di architettura che era esattamente quello che stava facendo, con il<br />

pubblico quale appassionata giuria.” 17<br />

Quando la LMDC annuncia l’intenzione di rivolgersi alla comunità architettonica<br />

per la ricostruzione, lo spettro dei due più disastrosi concorsi internazionali del<br />

XX secolo si staglia minaccioso sullo sfondo: il palazzo dei Soviet del 1931 e la<br />

sede della Società delle Nazioni a Ginevra nel 1927. Allora l’architettura moderna<br />

era ancora in cerca di affermazione e di radicamento e doveva fronteggiare<br />

l’architettura ufficiale dei regimi totalitari. Il verdetto delle giurie ne sancì<br />

la sconfitta, il più volgare monumentalismo trionfò sia in URSS che a Ginevra.<br />

Ma gli architetti moderni vinsero moralmente, grazie soprattutto a due splendide<br />

soluzioni di Le Corbusier.<br />

Il concorso come strumento di promozione dell’eccellenza progettuale e delle<br />

innovazioni tecniche e tecnologiche, nonché formidabile strumento di selezione<br />

democratica e meritocratica, ha un atto di nascita ben preciso e certificato: la<br />

cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze del 1420. Brunelleschi vincendo quel<br />

concorso impone l’architetto come unico ideatore e unico responsabile del progetto<br />

architettonico.<br />

Benché gran parte dei capolavori dell’architettura moderna non siano espressione<br />

di concorsi come segnala una ricerca della Ohio State University 18 è fuori<br />

dubbio che essi abbiano offerto la possibilità a sconosciuti di emergere ed imporsi<br />

all’attenzione generale: Piano, Hadid, Libeskind, Lynn e tanti altri ancora.<br />

È incontestabile che abbiano favorito l’immissione nel circuito di idee fresche,<br />

nuove, attraverso la sperimentazione e le innovazioni tecnologiche. Infine hanno<br />

consentito di coinvolgere nel processo strati sempre più ampi di cittadini<br />

Ma non sono tutte rose e fiori e benché oggi i concorsi siano diffusi e generalizzati<br />

come non mai, essi sono, paradossalmente, nell’occhio del ciclone. “Cosa<br />

può fare uno in un mese per risolvere legittimamente un problema, altro che<br />

creare una bella immagine? Questo è come i concorsi vengono vinti. Non perché<br />

risolvi i problemi della circolazione, lo fai meno costoso e ricerchi nuovi<br />

materiali, lo vinci con un’immagine che seduce la commissione giudicatrice.” 19<br />

16. Ray C. Hoover III citato in C.C. Sullivan, Competing, at a Loss, <strong>Arch</strong>itecture, May 2003,<br />

p.44<br />

17. Paul Goldberger, Eyes on the Price, The New Yorker, March 10, 2003, Vol. 79, Iss. 3; p.<br />

78<br />

18. Istituto di Ricerca della Ohio State University, Design Competitions don’t Result in Well-<br />

Liked Buildings, http://researchnews.osu.edu/archive/descomp.htm<br />

19. Timothy P. Hartung citato in C.C. Sullivan, Competing, at a Loss, <strong>Arch</strong>itecture, May 2003,


E Philip Nobel, dalle colonne di The Nation rincara la dose “Per gli architetti, le<br />

tecnologie di rappresentazione sono una maschera e una stampella; il giusto<br />

software, ben maneggiato, può fare di ogni idea un’idea vincente.” 20<br />

A parte queste considerazioni legate al medium della rappresentazione ci troviamo<br />

di fronte ad una serie di accuse sostanziali e circostanziate che non possono<br />

essere passate facilmente sotto silenzio.<br />

a. I concorsi rappresentano per gli architetti, il più delle volte, tempo,<br />

risorse e soldi sprecati. “L’ammontare di tempo e denaro spesi in<br />

una proposta di concorso – e nella presentazione in persona – sono aumentati<br />

ultimamente quando i clienti hanno cominciato a pretendere di<br />

più e gli architetti hanno volontariamente investito più tempo e denaro.<br />

Ancora, i compensi dei concorsi raramente coprono i costi... In più di una<br />

occasione, gli architetti hanno scoperto che se anche avessero vinto il<br />

concorso, le parcelle professionali non avrebbero coperto nè il lavoro nè<br />

il costo dei materiali per la proposta.” 21 .<br />

b. Troppo spesso le proposte vincenti di un concorso non vengono<br />

realizzate. Dopo l’ubriacatura degli anni recenti c’è ora uno stop a molti<br />

progetti vincenti di concorsi, dovuto principalmente a questioni economiche<br />

ma che comunque conduce ad un ripensamento del sistema competitivo<br />

nel suo insieme. Ne sanno qualcosa Gehry, Koolhaas, Libeskind e altri<br />

che hanno visto cancellati alcuni dei loro progetti vincenti. Le difficoltà<br />

maggiori devono affrontarle paesi economicamente ai margini, come ad<br />

esempio l’Estonia che si è sbarazzata dei Soviet ed ora fa parte dell’Unione<br />

Europea. Un articolo di Triin Ojari 22 su Estonian Art del febbraio del<br />

1999 illustra la situazione delle competizioni architettoniche nel paese<br />

baltico. “Dando uno sguardo ravvicinato alle nostre competizioni degli<br />

anni ’90, possiamo osservare un certo tipo di discrepanza: mentre sembra<br />

che ci siano un sacco di competizioni statali, che vantano ‘eque opportunità’,<br />

in realtà solo un’infinitesimale proporzione di esse ha raggiunto<br />

lo stadio dell’effettiva realizzazione.” 23 Dopo aver illustrato le vicissitudini<br />

di tre concorsi – la nuova Central Library a Pärnu, il Kaali Meteorite<br />

Museum a Saaremaa e il padiglione dell’Estonia all’Expo 2000 di Hannover<br />

– conclude amaramente “Molti concorsi ma pochi edifici risultanti<br />

sono il segno di un paese povero. Ma più deludente è il fatto che spesso i<br />

concorsi non sono preparati molto bene e sono carenti di intenti decisi e<br />

di standard.” 24<br />

c. All’architetto vengono richieste modifiche sino allo snaturamento<br />

del progetto. “… il progetto selezionato viene tipicamente modificato,<br />

cambiato o all’architetto viene addirittura chiesto di cambiare l’intero<br />

schema. Quindi, la questione della validità dei concorsi di progettazione<br />

p.44<br />

20. Philip Nobel, The fix at <strong>Ground</strong> <strong>Zero</strong>, The Nation, January 27,<br />

2003. v. 276, Iss. 3; pp. 25/8<br />

21. Bay Brown, Tyranny of the Contests, <strong>Arch</strong>itecture May 2004<br />

22. Triin Ojari, The Library, the Museum and the Fair pavilion: architectural policy just idling at<br />

a time of accelerating construction activity, http://www.einst.ee/Ea/architecture/ojari.html<br />

23. Ibid.<br />

24. Ibid.


si erge!” 25<br />

d. Le competizioni sono mal gestite e troppe volte lo scopo stesso è<br />

confuso e incomprensibile. Illuminante in proposito è la denuncia di<br />

Naomi Stead, dalle colonne di <strong>Arch</strong>itecture Australia 26 , sulla gestione del<br />

concorso nazionale per l’Ultimo Aquatic Centre a Sidney. Viene prima indetto<br />

in forma aperta e in due fasi. Nella prima fase tutto procede per il<br />

meglio ma nella seconda fase, a cui vengono ammessi sei teams, iniziano<br />

i guai. Prima si allentano i requisiti progettuali, si pagano i teams per sviluppare<br />

le proposte e infine nessuna delle proposte viene ritenuta funzionalmente<br />

e finanziariamente conforme alle direttive e non viene assegnato<br />

il premio finale. Questo scenario è, ovviamente, contemplato dalle<br />

norme. Subito dopo questa débacle viene organizzato un concorso ad inviti<br />

a cui vengono invitati tre teams che avevano già partecipato al precedente<br />

concorso. Vengono pagati per sviluppare le loro proposte ed alla<br />

fine viene scelto il progetto vincente che non è stato a tutt’oggi ancora<br />

realizzato. “Alcuni degli architetti coinvolti pensano che l’intero processo<br />

del concorso sia stato una sorta di processo architettonico kafkiano,<br />

completo di loschi burocrati, intenzioni nascoste e terribili costrizioni programmatiche,<br />

e tutto per progettare un edificio che alcuni dicono non sarebbe<br />

mai stato realizzabile con il budget stabilito.” 27<br />

e. Le giurie. “Le giurie possono essere radicalmente condizionate dagli<br />

orari aerei, dal livello degli zuccheri del sangue, da conflitti di personalità<br />

e dal minimo comun denominatore per i compromessi: differenze in gusto<br />

non possono essere composte senza che qualcuno ceda.” 28 È fin troppo<br />

ovvio attaccare le giurie, qualunque decisione prendano lasciano sempre<br />

degli scontenti. Pretendere che il giudizio della giuria si basi su un<br />

presunto sistema “oggettivo” è una favola. A ground zero ad esempio<br />

sono ricorsi al sistema del punteggio per funzioni specifiche “Ingegneri,<br />

esperti di traffico, consulenti finanziari le hanno classificate in dodici categorie<br />

in una scala di cinque punti. Quelli ‘ideali’ prendono due pallini<br />

verdi. Un solo pallino verde significa ‘eccellente’; uno giallo ‘accettabile’.<br />

Uno rosso è segno di preoccupazione e un paio di pallini rossi indicano<br />

fallimento.” 29 Anche se alcuni aspetti potrebbero essere facilmente ricondotti<br />

a schemi quasi matematici in realtà il giudizio finale complessivo<br />

coinvolge aspetti estetici che sono valutazioni critiche soggettive e personali<br />

tali da non lasciare spazi ad astrazioni numeriche.<br />

Una volta accertata la correttezza del procedimento le valutazioni del merito<br />

non possono che essere di esclusiva competenza dei singoli giurati che devono<br />

esprimerle in piena libertà, senza limiti o restrizioni al livello degli zuccheri nel<br />

sangue.<br />

25. Ashraf Salama, in The dilemma of architectural competittions in Egypt,<br />

http://archnet.org/forum/view.tcl?message_id=25715<br />

26. Naomi Stead, Radarcompetition,<br />

www.archmedia.com.au/aa/aaissue.php?issueid=200205&article=2&typeon=1<br />

27. Ibid.<br />

28. Michael Sorkin, Confession of a competitions junkie, and why may be time to kick the<br />

habit, <strong>Arch</strong>itectural Record, November 2003, p. 63/6<br />

29. Paul Goldberger, Eyes on the Price, The New Yorker, cit., p. 78


f. Il gioco di interessi della lobby. Questo è vero soprattutto in paesi<br />

dove la corporazione degli architetti ha un potere incontrollato che favorisce<br />

circoli viziosi pericolosi “I concorsi greci sono un’affare di un gruppo<br />

di architetti che, dipende dal caso, cambiano ruolo come giudici, vincitori<br />

o palesi (nel migliore dei casi) o ‘silenziosi’ (la maggior parte delle volte)<br />

consulenti di alcuni giovani architetti che dai banchi di scuola si ritrovano<br />

fianco a fianco con Santiago Calatrava e Jean Nouvel.” 30 In Italia accade<br />

esattamento lo stesso.<br />

g. Accuse di abusi e arbîtri in cui è spesso difficile demarcare il lecito<br />

dall’illecito. “Per iniziare, c’è qualche forma di sfruttamento nella<br />

gran quantità di lavoro non compensato che il sistema richiede per essere<br />

tenuto in vita. E ci sono una moltitudine di opportunità per scambi di<br />

favori, per operazioni senza scrupoli, per grattacapi ed altro.” 31<br />

Un processo, come si vede, messo apertamente in discussione e che chiede di<br />

essere profondamente rivisto e regolamentato.<br />

Occorre innanzitutto delimitare i tipi di concorso e stabilire le opportune procedure<br />

e quelle sponsorizzate dal RIBA sembrano certamente un ottimo punto di<br />

partenza.<br />

“Tipi di Concorso. Oggi, il formato di un concorso di architettura è determinato<br />

dalle esigenze del cliente e dallo specifico progetto. Ogni concorso è tagliato<br />

su misura dei bisogni individuali.<br />

Ci sono 2 distinte forme di concorso:<br />

• trovare il giusto architetto o team progettuale per un progetto;<br />

• trovare un’appropriata soluzione progettuale per un progetto.<br />

Ricerca di un architetto. La ricerca del giusto architetto avviene normalmente<br />

attraverso un colloquio competitivo. Questo processo è relativamente rapido<br />

ed è specialmente adatto per progetti dove all’architetto designato è richiesto<br />

di aiutare il cliente a sviluppare le direttive sul progetto.<br />

Ricerca di una soluzione progettuale. Ricercare la più appropriata soluzione<br />

progettuale richiede dettagliate direttive da impartire a tutti i partecipanti<br />

per consentire la presentazione di proposte progettuali comparative.<br />

Processi competitivi standard. Ci sono molti processi competitivi già sperimentati<br />

e collaudati che consentono a un cliente di selezionare un’architetto o<br />

una soluzione progettuale:<br />

• Colloquio competitivo per trovare il giusto architetto. Espressioni di interesse<br />

vengono richieste ad architetti iscritti, con una breve lista di selezionati<br />

per il colloquio. Sono richiesti solo generiche direttive progettuali<br />

e un’impegno a costruire.<br />

30. Ath. Zoulias, Some Thoughts on Greek <strong>Arch</strong>itectural Competitions,<br />

www.zoulias.com/articles/article020_en.html<br />

31. Michael Sorkin, Confession of a competitions junkie, and why may be time to kick the<br />

habit, cit., p. 63/6


• Concorso di idee aperto per identificare un ventaglio di possibili soluzioni,<br />

contro generiche direttive concettuali, senza impegno a costruire.<br />

• Concorso progettuale aperto per trovare una singola soluzione progettuale.<br />

Spesso un concorso in 2 fasi, aperto a tutti gli architetti iscritti,<br />

con dettagliate direttive progettuali e un’impegno a costruire.<br />

• Concorso ad inviti per trovare un’unica soluzione progettuale. Ristretto a<br />

un numero di selezionati architetti, con dettagliate direttive progettuali e<br />

un’impegno a costruire.<br />

• Concorsi su misura. Il vantaggio del processo competitivo è che esso è<br />

completamente flessibile e può essere adattato per soddisfare specifiche<br />

esigenze per ogni cliente e ogni progetto. Molti clienti scelgono di combinare<br />

il concorso progettuale con i colloqui competitivi. Introducendo un<br />

elemento colloquio nel processo progettuale, il cliente è in grado di determinare<br />

il potenziale rapporto lavorativo con i teams progettuali concorrenti.”<br />

32<br />

A complemento dell’organigramma del RIBA riportiamo le interessanti proposte<br />

33 del Co. Di. <strong>Arch</strong>. (un comitato privato creato per difendere gli interessi<br />

degli architetti), con sede a Milano, che come dice Beniamino Rocca, vice-presidente<br />

del comitato, “dovrebbero supportare un processo più democratico ed<br />

evitare perdite di tempo e di denaro ai partecipanti e ai promotori.”<br />

• “Il dibattito tra i membri della commissione giudicante deve essere pubblico<br />

e il voto dei commissari palese. I concorrenti e il pubblico possono<br />

assistere al dibattito senza poter intervenire e solo i commissari, se vogliono,<br />

possono fare domande ai progettisti per chiarimenti sulla loro<br />

proposta di concorso.<br />

• I concorsi d’idee devono richiedere una sola tavola di disegno formato<br />

(A0 o E format) e una sola pagina (A4 o Letter format) di relazione. La<br />

capacità di sintesi, in architettura, è sempre espressione di qualità, basterebbe<br />

ricordare che una tavola è bastata a Le Corbusier per illustrare,<br />

pubblicamente, il suo Plan Voisin.<br />

• Il corrente (falso) sistema dell’anonimato deve finire. “L’architettura per<br />

nascere ha bisogno di un padre e di una madre”, scrisse Filarete, nel suo<br />

“Trattato di <strong>Arch</strong>itettura” nel XV Secolo.<br />

• Il numero degli architetti nelle giurie dovrebbe essere ridotto. Oggi un’opera<br />

d’architettura esprime saperi sempre più complessi e diversificati e<br />

il “ senso del bello”, si sa, può essere più forte in un analfabeta che in<br />

un laureato.”<br />

Un concorso non produce automaticamente una buona architettura, ma consente<br />

il confronto ed amplia la partecipazione. Una regolamentazione, per<br />

quanto buona, non produce il concorso ideale ma può limitare abusi, arbîtri, illeciti.<br />

32. RIBA, Competitions, http://ww.ribacompetitions.com<br />

33. Pubblicate, nella sezione lettere al direttore, su <strong>Arch</strong>itecture August 2004, p. 94


Un concorso per avere successo deve poter contare su quattro fattori concomitanti:<br />

un cliente illuminato, un buon programma, una giuria autorevole e un<br />

positivo input degli utenti. Un mix, talvolta esplosivo, ma senza il quale è difficile<br />

ottenere un grande risultato.<br />

A ground zero sono mancati ben tre dei quattro ingredienti: l’unico che ha giocato<br />

un ruolo positivo è stata la partecipazione pubblica e per partecipazione<br />

pubblica intendiamo critici, giornalisti, studiosi, studenti e generici cittadini. A<br />

fronte della ispirata proposta progettuale siamo ora di fronte ad una gestione<br />

operativa che paga i limiti di un cliente ostaggio di interessi commerciali e di<br />

un programma nebuloso. Il concorso è stato forse solo un incidente di percorso<br />

o molto più probabilmente un colpo d’astuzia: “Roland Betts, il membro del<br />

consiglio della L.M.D.C. che ha concepito l’idea del concorso, si rende conto<br />

che la sola via per convincere la Port Authority ad accettare i piani, abbastanza<br />

radicali era dimostrare che erano pratici.” 34 E per renderli pratici bastava fare<br />

solo una cosa: silurare il progetto vincente.<br />

34. “Roland Betts, the L.M.D.C. board member who had conceived the idea of the competition,<br />

realized that the only way to convince the Port Authority to accept the fairly radical plans<br />

was to prove that they were practical.” Paul Goldberger, Eyes on the Price, The New<br />

Yorker, March 10, 2003, p. 78


4.7. Il paesaggio globale del XXI secolo.<br />

“La buona notizia è che al design [dell’World Trade Center] è stato dato<br />

un ruolo iniziale, rompendo con la falsa premessa che il design sia il dessert<br />

che segue il banchetto degli accordi della pianificazione e dell’approvazione<br />

dei diretti interessati... L’approccio del progetto urbano è il solo<br />

‘visionario’ possibile... Al suo meglio, il disegno urbano rafforza e non indebolisce<br />

la relazione tra pianificazione e discipline progettuali...” 35<br />

Lo scenario territoriale è cambiato in modo ragguardevole negli ultimi decenni<br />

e la pianificazione si trova ad affrontare problemi particolarmente complessi<br />

dovuti alla crescita incontrollata della popolazione del pianeta, alle influenze<br />

delle mutazioni climatiche sul nostro ambiente e sulle risorse disponibili, alle<br />

ondate migratorie dalle aree depresse, alla mobilità crescente, alla sempre più<br />

marcata specializzazione delle aree geografiche.<br />

Nel corso degli ultimi 50 anni la popolazione mondiale è più che raddoppiata<br />

creando squilibri ambientali e depauperando le principali risorse naturali. Un<br />

fenomeno irresponsabilmente sottovalutato che ha significato un generale decadimento<br />

della qualità della vita. “La pianificazione, quale strumento sintetico<br />

per analizzare i bisogni, i problemi, le possibilità e per guidare la crescita, lo<br />

sviluppo e i mutamenti urbani nei limiti delle risorse disponibili, è un obbligo<br />

fondamentale dei governi impegnati nel tema degli insediamenti umani.” 36<br />

Nel secondo dopoguerra con il boom del trasporto privato ha inizio, in america,<br />

la suburbanizzazione del territorio che dà origine a quello che Stan Allen e James<br />

Corner 37 chiamano “Field Urbanism”, uno sviluppo prevalentemente orizzontale<br />

degli insediamenti punteggiati da aree di intensa edificazione dove entra<br />

in gioco la terza dimensione. Questa disseminazione sul territorio svuota i<br />

centri delle città che finiscono in mano alle grosse compagnie bancarie e finanziarie,<br />

mentre le aree contermini diventano meta ambita per le popolazioni rurali<br />

che emigrano in città.<br />

Le città dell’occidente americano, dalle estreme propaggini delle montagne<br />

Rocciose in Canada, alle Ande, sono un collage urbano di segni, una griglia<br />

continua di immagini che galleggia in un paesaggio non tanto usato per i suoi<br />

potenziali agricoli o industriali quanto per essere soggiogato alla logica dell’urbanizzazione.<br />

Questa zona è il regno dello sprawl, dell’espansione incontrollata.<br />

Ma queste caratteristiche possiamo trovarle anche al di fuori dell’america occidentale.<br />

Possiamo vedere ormai quasi dappertutto il collage di immagini, il tappetto<br />

tecnologico che si prolunga nel paesaggio. Possiamo vedere dappertutto<br />

strutture costruite e buttate giù in pochissimo tempo, seguendo la logica del<br />

profitto.<br />

Viviamo in città in cui centro e periferia non hanno più senso. La rivoluzione<br />

elettronica ha reso definitivamente obsoleti i due concetti.<br />

“In nord America, la terra non è mai stata soggetta a insediamenti fissi o permanenti<br />

per uno o due secoli e spesso città ampie come Las Vegas o i centri di<br />

35.Raymond W. Gastil, Competition Rules, <strong>Arch</strong>itecture September 2002, p. 39<br />

36.La Carta del Machu Picchu<br />

37.Stan Allen e James Corner in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of the 21 st Century, cit., p. 17


vacanza in Messico sono cresciute in un limite di tempo molto più ristretto... In<br />

Sud America, l’incredibile crescita della popolazione delle città ha coinciso con<br />

l’emergere della cultura del consumatore globale che sta rapidamente cancellando<br />

tutte le tracce di una cultura indigena in chiara relazione di tempo e spazio<br />

con posti particolari.” 38 Non che questi luoghi siano privi di forma ma si presentano<br />

con altri aspetti: invece di un’architettura di muri, un’architettura di<br />

immagini e strutture. La leggerezza costruttiva molto spesso è di supporto alla<br />

pubblicità.<br />

Da nessuna parte meglio di Città del Messico si possono vedere griglie in cemento<br />

o acciaio in molti edifici che non si nascondono dietro facciate in stucco<br />

o pietra ma esprimono sè stesse come impalcatura che supporta pelli di vario<br />

genere. Un’apparenza di modernità.<br />

“Un collage è una collezione di pezzi... Un collage è anche un condensato di<br />

differenti parti, ognuna delle quali è presentata solo come un frammento di<br />

una più larga composizione... Un collage è una forma di astrazione...” 39<br />

Il carattere effimero di questi edifici è altresì evidente ed è un’antidoto al monumentalismo<br />

tipico delle città americane della East Coast. Nessun ordine<br />

esterno può essere imposto alle città del west. Non ha nessun senso tentare di<br />

trovare un senso o un sistema classico di proporzioni in questo ambiente. Neppure<br />

le chiare, limpide linee dell’architettura moderna (razionalista) riescono a<br />

dare forma a questa complessità figurativa. Non è facile trovare una “buona”<br />

architettura o urbanistica in queste città. 40<br />

Dall’altra parte del Pacifico, il sud-est asiatico continua ad attrarre business e<br />

nascono nuovi centri urbani ad un ritmo talmente frenetico da essere praticamente<br />

incontrollabili con i tradizionali sistemi della pianificazione urbana.<br />

L’Europa, gli Stati Uniti ed il Giappone hanno già sperimentato queste trasformazioni<br />

ambientali negli anni 80, ma ciò che è diverso è la scala più vasta del<br />

boom asiatico di oggi. La richiesta di nuove strutture urbane nasconde anche<br />

operazioni di carattere speculativo, nella speranza che, a seguito delle costruzioni<br />

correnti, emerga una domanda nel prossimo futuro.<br />

Molti architetti si sono sentiti attratti non da tutto ciò ma dalla possibilità di lavorare<br />

in così grandi spazi e trovare capitali per realizzare grattacieli. Sono<br />

aree in cui le maglie dei regolamenti si sono allentate e quindi è possibile veder<br />

realizzati i propri sogni, per non dire incubi. “L’Asia sta attirando non solo architetti<br />

che cercano buoni affari ma anche teorici della città che vogliono sperimentare<br />

di prima mano la traiettoria di queste esplosive trasformazioni.” 41 Il<br />

sud-est asiatico diventa, per questa via, terra di conquista per architetti-speculatori<br />

malati di megalomania.<br />

38. Aaron Betsky, Collage Cities: Homes Beyond the Range, in Pacific Edge, Contemporary<br />

<strong>Arch</strong>itecture on the Pacific Rim, Rizzoli, New York 1998, p. 50<br />

39. ibid., p. 51<br />

40. Aaron Betsky, Collage Cities: Homes Beyond the Range, in Pacific Edge, Contemporary<br />

<strong>Arch</strong>itecture on the Pacific Rim, cit., p. 52<br />

41. Akira Suzuki, Software rituals of the contemporary asian city or how to read asian cities, in<br />

Pacific Edge, Contemporary <strong>Arch</strong>itecture on the Pacific Rim, Rizzoli, New York 1998. (p.<br />

105)


In Europa abbiamo da un lato il prevalere di visioni fossilizzate sul passato dall’altro<br />

una intelligente politica di rinnovamento dei centri urbani. Roma, ad<br />

esempio, è ostaggio di una concezione archeologica della dinamica urbana in<br />

cui tutto è frammentario, sparpagliato senza una visione unitaria dell’intero<br />

contesto. In altre città come Parigi, Berlino, Londra, Barcellona vasti programmi<br />

di rinnovamento, non sempre felici, le tengono ancorate ai rapidi cambiamenti<br />

introdotti dall’era informatica. I problemi maggiori sono però a livello periferico<br />

dove, passata la lucida follia degli immondi, squallidi quartieri intensivi<br />

e semi-intensivi per la classe media e lavoratrice, è in atto un ripensamento-riciclaggio<br />

che produce non pochi strappi e tensioni, dovute in gran parte al sorgere<br />

di enclavi di immigrati che non riescono ad integrarsi in contesti poco ben<br />

disposti verso il cosmpolitismo.<br />

L’esperienza olandese si dimostra ancora una volta valida ed efficace nella riconversione<br />

di un blocco di appartamenti (500) il Kleiburg nel distretto di Bijlmermeer<br />

ad Amsterdam. É stata indetta una competizione, vinta da Greg<br />

Lynn, il cui imperativo categorico era di evitare la demolizione del complesso,<br />

costruito negli anni 70, in un’orrido intensivo. E la proposta di riciclaggio presentata<br />

da Lynn è stata premiata perché è prevista la suddivisione del lungo<br />

blocco (400 m) in sub-blocchi organizzati intorno a 50 abitazioni che godranno<br />

di servizi comuni ed accessi separati. Per incrementare del 30% gli spazi delle<br />

residenze sono stati eliminati i corridoi interni e rifatti all’esterno nella facciata<br />

dove è stato localizzato l’intero sistema del traffico pedonale: scale, ascensori,<br />

gallerie e scale mobili. Questo sistema è supportato da “onde” in strisce metalliche<br />

che dinamizzano la piatta facciata del serpentone. 42 Un’ottimo atto di riciclaggio<br />

dell’edilizia di scarsa qualità, tipica dell’ondata speculativa della seconda<br />

metà del secolo scorso, che dovrebbe essere preso ad esempio in ogni serio<br />

programma di rinnovamento urbano.<br />

Fig. 3: Greg Lynn -<br />

Kleiburg Apartments vista, Amsterdam<br />

(Cortesia di Greg Lynn FORM)<br />

42. Vedasi www.AntiTHesi.info/testi/testo_2_pdf.asp?ID=330


Fig. 4: Greg Lynn -<br />

Kleiburg Apartments dettagli, Amsterdam<br />

(Cortesia di Greg Lynn FORM)<br />

Nei paesi del terzo mondo le popolazioni rurali si riversano in modo caotico nelle<br />

già caotiche città trasformando le periferie in sterminate favelas e barriadas<br />

prive delle più elementari infrastrutture e dei servizi primari. “Questi fenomeni<br />

non possono essere risolti e neppure controllati con gli usuali strumenti e con<br />

le normali tecniche della pianificazione urbana. Dette tecniche tentano di incorporare<br />

le aree marginali nell’organismo della città e, in molti casi, le misure<br />

adottate per regolamentare la marginalità (introduzione di servizi pubblici,<br />

strade, case popolari ecc.) paradossalmente contribuiscono ad aggravare il<br />

problema, incentivando i movimenti immigratori. Le variazioni quantitative<br />

producono così fondamentali alterazioni qualitative.” 43<br />

In questo contesto, che si tiene insieme solo grazie al primo principio della termodinamica<br />

– la conservazione dell’energia - gli architetti più accorti si ribellano<br />

ai piani astratti e alle normative generali che reprimono la libertà creativa,<br />

frenano lo sviluppo tecnologico e incrementano il caos e la confusione. È il colpo<br />

finale alla bancarotta della pianificazione burocratica, centralista, statalista<br />

che ha segnato gli ultimi decenni del XX secolo. “Il piano si illude di governare<br />

l’ambiente, ma in effetti è travolto perché svincolato da previsioni architettoniche<br />

di qualità. Nasce così spontanea la tendenza, incarnata dall’espressionismo,<br />

di liquidare il piano urbanistico restituendo piena libertà all’edilizia.” 44 Un<br />

atteggiamento radicale riassumibile, secondo Aaron Betsky, in due colorite<br />

espressioni “fotti il programma” e “mai credere a quello che ti dice l’imprenditore<br />

edile”. 45 E si vedono subito i risultati. Una nuova generazione di architetti<br />

svincolata da ogni timore riverenziale per i maestri del movimento moderno<br />

impone una svolta che si sviluppa tumultuosa negli ultimo anni del secolo scor­<br />

43. La Carta del Machu Picchu<br />

44. Bruno Zevi, Paesaggistica e grado zero della scrittura architettonica, L’architettura,<br />

cronache e storia n. 503/6, 1997, p. 394<br />

45. Aaron Betsky intervistato da John Jourden in Double Dutch: Aaron Betsky,<br />

www.archinect.com/features/article.php?id=8842 _0_23_0_M


so. Sono ormai le singole opere architettoniche a esercitare un ruolo di guida e<br />

di indirizzo nello sviluppo urbano mentre “… la pianificazione è diventata un’attività<br />

per hobbisti, una divisa per politici e l’ultima risorsa per immobili idealisti...<br />

l’urbanistica è diventata un rifugio di resistenza e protezionismo, un problema<br />

di creare zone anzichè possibilità.” 46<br />

“Invece della tradizionale pratica pianificatoria dall’alto verso il basso, suggerisco<br />

che gli architetti potrebbero cercare opportunità specifiche e localizzate per<br />

intervenire nella maglia cittadina e nelle infrastrutture.” 47<br />

Le caselle dei piani regolatori generali da riempire con i blocchi dell’edilizia<br />

anomina appaiono sempre più come i reperti archeologici di una concezione<br />

dello spazio urbano quale somma di oggetti statici e non come dinamiche relazioni<br />

tra oggetti e fruitori. Le nuove qualità urbane sono, come dice Ben van<br />

Berkel illustrando il suo Deep Planning, la mutevolezza e l’instabilità che spingono<br />

a nuovi approcci pianificatori basati sulle nuove tecnologie digitali. “L’uso<br />

combinato di progettazione automatizzata e tecniche di animazione, rende<br />

possibile un metodo di lavoro che integra problemi legati al movimento dell’utente,<br />

alla pianificazione urbanistica, alla costruzione e, potenzialmente, lo sviluppo<br />

di un programma sull’web.” 48 Già oggi sono disponibili programmi e tecnologie<br />

che consentono l’intervento manipolativo interattivo contemporaneo di<br />

più persone su modelli tridimensionali di brani di città. La valutazione dei risultati<br />

e le ripercussioni sull’insieme sono immediate.<br />

La città però non è il solo aspetto della gestione territoriale e il cambio di scala<br />

ci introduce in quel vasto ambito che è il paesaggio, l’alternarsi cioè di natura e<br />

artificio, costruito e non-costruito.<br />

“Pensate alle grandi città che vi sono note, poi cercate di immaginarvi quel che<br />

già fin d'ora provocano in esse la moderna motorizzazione e le nuove comodità<br />

che annullano le distanze”. 49 Wright fu il primo a comprendere che l'avvento<br />

dell'automobile e l'evoluzione della tecnica moderna avrebbero posto fine alla<br />

contrapposizione tra città e campagna “... saranno l'automobile, l'aereo, la<br />

parkway, la televisione, le tecniche più avanzate di trasporto e di comunicazione<br />

a dare un senso a questo tipo di insediamento dispersivo”. 50 Il senso non<br />

gli è stato dato da una pianificazione intelligente, come egli auspicava, o da<br />

una visione del paesaggio in cui “... la civiltà rispecchia se stessa, riconosce se<br />

stessa, immedesimandosi nelle sue forme...” 51 , ma dal prevalere di una concezione<br />

mercantile, consumistica che ha trasformato gli insediamenti in agglomerati<br />

informi ed alienanti e la campagna in territorio di conquista per la speculazione<br />

edilizia.<br />

A questa vandalica visione si oppone quella del paesaggio inteso come “prodotto<br />

della cultura” “Il paesaggio, insomma, è l'aspetto estetico di quella stessa<br />

natura che è oggetto di conoscenza scientifica e campo d'azione per la socie­<br />

46. Winy Maas in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of the 21 st Century, cit., p. 14<br />

47. Gregg Pasquarelli, <strong>Arch</strong>itecture beyond form, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning<br />

of the 21 st Century, cit., p. 18<br />

48. Dalla relazione di UN Studio Van Berkel & Bos.<br />

49. F.Ll. Wright, The Living City, in F. Choay, La città. Utopie e realtà, Torino 1973, p. 305.<br />

50. Ibid., p. 45.<br />

51. Rosario Assunto, "Il paesaggio e l'estetica", Napoli 1973, vol. I p. 365.


tà...” 52 E su questo convergono, sin dagli anni ’60, le esperienze delle arti visive<br />

“Lo sviluppo in senso prevalentemente plastico della ricerca spazio-visiva dà<br />

luogo alla riduzione della ‘scultura’ all'apparente elementarità delle cosiddette<br />

strutture primarie... È facile intendere come dal concetto della forma ambiente<br />

si passi a interventi in grande scala miranti a ri-strutturare e ri-qualificare il<br />

paesaggio (urbano e non)... ciò che si propone...è una confluenza terminale<br />

delle esperienze ormai esaurite della pittura, della scultura, dell'architettura, e<br />

convogliate in un'unica, grandiosa ipotesi ‘urbanistica’.” 53<br />

Questa consapevolezza verso la paesaggistica così acutamente intuita da Giulio<br />

Carlo Argan viene consacrata dal convegno di Modena del 1997, organizzato da<br />

Bruno Zevi, dal significativo titolo “Paesaggistica e grado zero del linguaggio<br />

architettonico”. Stan Allen e James Corner ne danno una versione ancora più<br />

spinta “La radicale rivendicazione degli anni ’80 era di estendere l’architettura<br />

e l’urbanistica nel paesaggio, in altre parole, promuovere la cultura sulla natura<br />

rendendo artificiale il paesaggio. Più recentemente, una nuova informazione<br />

fondata sul modello di natura è emersa e con essa una nozione di paesaggio<br />

come natura sintetica... Come la città, questi paesaggi sintetici sono attivi invece<br />

che passivi; il design come un organismo trasformativo e attivante... Invece<br />

della natura come una scenica, benigna forza, il paesaggio sintetico come<br />

una macchina batterica.” 54<br />

Che il richiamo alla paesaggistica sia forte lo dimostrano le proposte per lo<br />

World Trade Center che includono l’elemento naturalistico vuoi a livello terra<br />

vuoi nei livelli alti degli edifici. L’idea originaria di Libeskind per i giardini sospesi<br />

è un ricordo dei mitici giardini pensili di Babilonia. Il giardino quale paesaggio<br />

ideale, quale microcosmo del paesaggio inteso come macrocosmo, quale<br />

bellezza che trascende l'utilità, e che affonda le sue lontane origini nel biblico<br />

paradiso terrestre: l'Eden. United <strong>Arch</strong>itects propone ampie aree verdi nella<br />

grande area unificata al sessantesimo piano. Foster prevede parchi verdi nelle<br />

aree in cui le due torri si uniscono. Nel progetto di SOM il tetto delle torri costituisce<br />

un’unica area verde chiamata “Trans-horizon”. Meier & C. propongono<br />

anche loro giardini nei tetti della scacchiera verticale.<br />

Il paesaggio non solo entra in città ma la città fornisce al paesaggio un modello<br />

di riferimento che non sia quello delle anime agresti che sono attaccate ad un’idea<br />

romantica e idealizzata della natura. Clark Stevens titolare di RoTo <strong>Arch</strong>itects<br />

di Los Angeles lavora a quello che lui chiama “Conservation Development”<br />

che si oppone alla pura e semplice conservazione romanticamente appagante<br />

ma finanziariamente insostenibile “... ogni qualvolta viene proposto lo<br />

sviluppo di un’area agricola o naturale, ci sono obiezioni. Ma crescita dinamica<br />

e pressioni immobiliari possono essere controllate. E facendo ricerche, conoscendo<br />

le intenzioni dei pianificatori delle infrastrutture locali e studiando i piani<br />

immobiliari di grossi proprietari terrieri, possiamo certamente prevedere<br />

quale area potenzialmente sviluppare e il tempo previsto. E una volta immaginati<br />

gli inevitabili risultati – e illustrati alla gente – lo sviluppo che finanzia la<br />

52. Ibid., pag. 5.<br />

53. Giulio Carlo Argan, L'arte moderna 1770/1970, Firenze 1970, p. 668-72<br />

54. Stan Allen e James Corner, Urban Natures, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning<br />

of the 21 st Century, Ibid., p. 15


conservazione culturale ed ecologica inizia ad avere senso.” 55<br />

“Recenti tentativi di ben conosciute organizzazioni di usare lo sviluppo come<br />

strumento per la conservazione hanno incontrato immeritata copertura negativa<br />

da parte della stampa. Ma stanno imparando che ignorando le economie rurali<br />

quando acquistano con l’intenzione di conservare la diversità, stanno<br />

creando quello che The Nature Conservancy ha chiamato ‘isole di estinzione’:<br />

compri un habitat in condizioni critiche solo per vedere lo status-quo della pratica<br />

dell’uso del suolo rurale distruggere la sua connessione e compromettere<br />

la sua capacità di ripresa.” 56<br />

Alle tradizionali attività di allevamento e coltivazione si affianca il turismo rurale<br />

che costituisce un ottimo incentivo per la conservazione delle suddette attività<br />

con un conseguente impatto sul paesaggio di enorme importanza.<br />

A queste esperienze si contrappongono atteggiamenti nostalgici e legati a stereotipi<br />

tradizionalisti. Sappiamo che dietro questi atteggiamenti, in gran parte<br />

di derivazione marxista, c'è in generale un sottile, moralistico rifiuto globale<br />

della civiltà moderna, ed in particolare un rifiuto ideologico della civiltà capitalistica<br />

occidentale. Usando a pretesto la globalizzazione attaccano la moderna<br />

cultura urbatettonica, accusandola di una sorta di genocidio culturale. Il silenzio,<br />

o meglio, il compiacimento con cui vengono accolti questi continui, ossessivi<br />

richiami ideologici alle tradizioni e il dilagare del sentimentalismo naturista<br />

fanno riflettere sulla pericolosità di un fenomeno quale quello che si autodefinisce<br />

New Urbanism, che non è nient’altro che la versione urbana di questi richiami<br />

tradizionalisti. Riproducono villaggi del XIX secolo con tanto di portici,<br />

staccionate, piazze e… garages (nascosti però sul retro). Non sono nient’altro<br />

che storpiature dei già storpi suburbi. Vorrebbero ricostruire la vita del bel<br />

tempo che fu ma gli abitanti, la mattina prendono l’auto e vanno a lavorare a<br />

downtown esattamente come un qualsiasi altro cittadino di suburbia. Predicano<br />

sull’alta densità per non depauperare territorio ma i loro villaggetti sono talmente<br />

radi che i negozi non sono in grado di sopravvivere.<br />

C'è in queste posizioni una voglia di ritorno ad un mitico passato che non è mai<br />

esistito, ad una bucolica vita agreste che ricorda, in tono minore, il furore antimoderno<br />

con cui il fascismo, il nazismo ed il comunismo, pianificavano il ritorno<br />

alla società rurale, al mondo preindustriale, in nome della sana tradizione e<br />

di un antiurbanesimo da operetta, che sarebbe dovuto sfociare nell'esodo, volontario<br />

o forzato, verso le campagne.<br />

La globalizzazione, al di là dei vuoti slogans porta, paradossalmente, allo scoperto<br />

ambiti regionali sconosciuti rilanciandoli e dandogli ossigeno, favorendo<br />

così l’espansione dell’educazione architettonica “Il Guggenheim Museum a Bilbao...<br />

ha non solo messo la città nella mappa turistica internazionale ma ha effettivamente<br />

rigenerato l’economia e rivitalizzato la cultura storica della città.”<br />

57 E questo è accaduto in una regione, i Paesi Baschi, a fortissima tendenza<br />

indipendentista.<br />

55. Clark Stevens intervistato da Chris C. Sullivan, Conservation Development is not an<br />

Oxymoron, <strong>Arch</strong>itecture August 2004, p. 39/40<br />

56. Ibid., p. 40<br />

57. Joan Ockman, Criticism in the Age of Globalization, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the<br />

Beginning of the 21 st Century, cit., p. 79


Un’altro esempio può essere considerato il Graz Kunsthaus a Graz in Austria,<br />

opera di Peter Cook (ex-<strong>Arch</strong>igram) e Colin Fournier un edificio che è consapevolmente<br />

e “completamente alieno al suo contesto.” 58 Interessante sperimentazione<br />

di un’opera aperta catapultata nella città austriaca con una pelle che<br />

cambia apparenza grazie a un layer elettronico e il cui interno può essere modificato<br />

a piacimento dagli allestitori delle mostre, non essendo un museo permanente,<br />

“... in architettura, cosi come nell’evoluzione culturale in generale,<br />

l’iniezione di elementi estranei, sia sollecitati dall’interno da progettisti indigeni<br />

o da estranei è vitale per la sopravvivenza delle città.” 59 (vedi anche<br />

http://www.rafocus.org.uk/architecture/index.php?pid=42&view=image)<br />

La globalizzazione, se non la si legge con la lente deformante delle ideologie<br />

terzomondiste, segna il trionfo, con un secolo di ritardo su Einstein, del relativismo<br />

culturale. Non esiste più un punto di vista privilegiato ma ne esistono<br />

molteplici e tutti ugualmente validi. “Credo che la nostra professione sia più<br />

globale, non perché ci stiamo sciogliendo in un’amorfa cultura mondiale ma<br />

perché gli architetti della mia generazione sono capaci di capire l’unicità di<br />

molteplici posti. perché abbiamo l’opportunità di discutere e praticare l’architettura<br />

in questi siti particolari, stiamo diventando più locali, individuali, differenziati<br />

e, paradossalmente, più globali.” 60<br />

Certo nel vasto regno della globalizzazione la concentrazione di potere in corporations<br />

multi-nazionali è qualcosa di cui bisogna essere coscienti ma non bisogna<br />

farsi trascinarsi sulla sponda opposta di un acritico localismo dove prevalgono<br />

forme di governo dispotiche, oligarchiche e/o ipotecate dal fondamentalismo<br />

religioso.<br />

“Nessuno dei due gruppi, direi, tiene a sponsorizzare buona architettura e buona<br />

urbanistica: l’assolutismo vuole liofilizzare il design con zero tolleranza per<br />

le novità e il cambiamento.” 61<br />

Non esistono più pure e semplici strutture che determinano sovrastrutture in<br />

un flusso dall’alto verso il basso ma esiste una complessa rete di networks influenzati<br />

tanto da fattori locali quanto da fattori globali che agiscono orizzontalmente<br />

“Ognuno di quelli che hanno la CNN o Al Jazeera in onda ora nella propria<br />

camera da letto può attestare il fatto che tutto il locale è completamente<br />

permeato dal globale e tutto il globale diventa alla fine dilatato dal locale.” 62<br />

Il passaggio dalla società industriale a quella informatica impone quindi un diverso<br />

approccio metodologico e il concorso per la ricostruzione del World Trade<br />

Center è un esempio particolarmente calzante.<br />

Saskia Sassen, docente di sociologia all’università di Chicago, mette in evidenza<br />

quanto siano strumentali, improvvisate le conclusioni a cui molti sono giunti<br />

58. Colin Fournier, “A Friendly Alien”: The Graz Kunsthaus, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the<br />

Beginning of the 21 st Century, cit., p. 84<br />

59. Ibid., p. 84/5<br />

60. Enrique Norten, Questioning Global <strong>Arch</strong>itecture, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the<br />

Beginning of the 21 st Century, cit., p. 87<br />

61. Douglas Kelbaugh, Seven Fallacies in <strong>Arch</strong>itectural Culture, in<br />

www.caup.umich.edu/publications/sevenfallacies/index.html, 2004, p. 10<br />

62. Joan Ockman, Criticism in the Age of Globalization, in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the<br />

Beginning of the 21 st Century, cit., p. 79


dopo l’attacco terroristico, conclusioni che prefiguravano la fine della concentrazione<br />

del business e del market. Per costoro le telecomunicazioni globali<br />

avrebbero reso inutile alle comunità finanziarie assemblarsi fisicamente in un<br />

luogo. In una economia globale i settori più avanzati “hanno bisogno di concentrazione<br />

delle risorse: talento, gestione, infrastrutture tecnologiche e edifici.<br />

Essi hanno bisogno di un’ambiente denso dove l’informazione non circola<br />

semplicemente ma viene prodotta.” 63 Questa concentrazione la offrono oggi<br />

circa 40 città in tutto il mondo tra cui New York, Londra, Francoforte, Tokio e<br />

Parigi.<br />

Lower Manhattan ha dovuto reinventarsi continuamente. Negli anni ‘70 l’esodo<br />

delle grosse banche e delle compagnie di assicurazione aveva fatto dire a molti<br />

che Wall Street era ormai finita. Ma quell’esodo provocò l’arrivo di compagnie<br />

finanziarie più piccole e dinamiche. “In modo simile, oggi, la partenza può rendere<br />

possibile a nuovi settori e a nuovi mix di talenti di emergere a Lower Manhattan.<br />

Abbiamo già visto questo con le società new-media, le quali benificiano<br />

della prossimità a farie risorse e forme di competenza, inclusi esperti finanziari<br />

e legali di contabilità.” 64<br />

L’addensamento ha quindi un senso economico, ma architettonicamente? Cioè<br />

la città ha ancora ragione di esistere? Sassen individua alcuni pregiudizi che il<br />

pubblico si trascina dietro ai modi di costruzione:<br />

• Il modello orizzontale che viene erroneamente percepito come incompatibile<br />

con la densità e con la verticalità. Los Angeles è l’esempio che smentisce<br />

questa visione. Ma basta pensare anche alle città medievali. Si fa<br />

un’equazione semplicistica tra “thin”, rado e “flat” disteso.<br />

• Di conseguenza l’orizzontalità è qualcosa che accade solo al livello terra.<br />

• La terza nozione identifica la verticalità solo verso l’alto, verso il cielo e<br />

non in profondità. I sotterranei di New York non godono di buon nome.<br />

“Ma città così diverse come Mosca, Montreal e Tokio hanno realizzato<br />

spazi spazi interrati usabili e buona qualità per il trasporto, shopping ed<br />

eventi culturali, occupandosi di esigenze basilari quali la sicurezza, l’evacuazione<br />

e la ventilazione.” 65<br />

• Edifici ad alta densità come i grattacieli sono spesso associati a spazi<br />

pubblici morti al livello terra.<br />

L’edilizia di infima qualità contribuisce ad alimentare i pregiudizi. “L’orizzontalità<br />

architettonica ha acquistato una nuova importanza quanto i networks economici,<br />

culturali e politici che si sono resi conto quanto fosse cruciale operare<br />

orizzontalmente invece che gerarchicamente.” 66<br />

La proposta di UA è in questo senso la più adeguata e la più lungimirante laddove<br />

inserisce l’orizzontalità al sessantesimo piano.“Possiamo avere una vibrante,<br />

densa vita al livello terra quando ci sono massicci alti edifici tra di noi,<br />

63. Saskia Sassen, How Downtown Can Stand Tall and Step Lively Again, The New York Times<br />

January 26, 2003<br />

64. Ibid.<br />

65. Ibid.<br />

66. Ibid.perchè


ma gli edifici devono essere alti in modo nuovo.” 67<br />

Sassen mette in evidenza come Lower Manhattan sia un mix di varie funzioni,<br />

opposta alla monotona omogeneità delle shopping malls o dei parcheggi per<br />

uffici. Aree per lo shopping a basso costo confinanti con il potentissimo distretto<br />

finanziario, comunità di immigranti sul lato nord e artisti e attività negli obsoleti<br />

grattacieli abbandonati dalle grosse compagnie.<br />

Lo stesso “World Trade Center era un microcosmo di questo mix. Ospitava il<br />

terzo più largo shopping complex del paese, con molti businesses gestiti da<br />

immigranti, molti uffici governativi di medio livello e alcune società finanziarie<br />

di primo piano. Il sito cattura qualcosa della storia profonda di Lower Manhattan:<br />

un ibrido squarcio di umanità e urbanità.” 68<br />

Loda non solo gli approcci di UA e Libeskind, i primi per la loro città verticale<br />

perché “usano la verticalità... ma reinventandola” 69 , il secondo per la soluzione<br />

del memorial, ma di tutti i concorrenti per la complessità ed il mix di spazi. “É<br />

impossibile che nessuno di questi progetti non venga costruito.” 70 Non bisogna<br />

guardare al passato ma al futuro senza farsi distrarre da diversivi come l’edificio<br />

più alto del mondo.<br />

“Questi progetti ci mostrano Lower Manhattan come parte di una più ampia<br />

città: un hub per i trasporti, un centro finanziario, un sito per uffici governativi.<br />

Ma è anche un’area della città: questo significa che spazi pubblici, residenze e<br />

attività miste al livello strada hanno bisogno di essere incluse nella forma finale<br />

della ricostruzione.” 71<br />

Ma forse ha ragione Sanford Kwinter quando dice che “Sebbene la città sia<br />

sparita è comunque qui che dobbiamo stare - uno scomodo paradosso. Non<br />

sappiamo più a lungo dove guardare per trovare i gloriosi aggregati e le prestazioni<br />

di quelle che una volta chiamavamo ‘città’. In una moderna economia,<br />

la città non è solo dove siamo, ma chi siamo, e la ristrettezza di vedute che è<br />

stata così piacevole e fruttuosa in questi ultimi decenni è probabilmente già finita.”<br />

72<br />

Per l’urbatettura sfide di non poco conto.<br />

67. Ibid.<br />

68. Ibid.<br />

69. Ibid.<br />

70. Ibid.<br />

71. Ibid.<br />

72. Sanford Kwinter, Four Arguments for the Elimination of <strong>Arch</strong>itecture (Long Live<br />

<strong>Arch</strong>itecture), in The State of <strong>Arch</strong>itecture at the Beginning of the 21 st Century, cit., p. 95

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