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osservatorio73-74 - Osservatorio Letterario

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di quell’antico imeneo. Tutti e due hanno negli occhi lo<br />

sguardo esterrefatto dei naufraghi e par che<br />

presentano l’irrevocabile sollevamento del livello di<br />

tenebre che li affoga. Né una mano, né una collana, né<br />

l’impugnatura d’un brando traspare attraverso il sudario<br />

nero che li va coprendo. Pure in mezzo ad essi si stacca<br />

dal bujo la linea d’un cero alto ben sette cubiti.<br />

L’ironia del tempo che parla da ogni cosa surta per<br />

mano d’uomo, sembra qui voler paragonare quel lungo<br />

cero dipinto all’altro rimasuglio di torcia che arde nel<br />

mezzo della cappella e che non ha più d’un palmo<br />

d’altezza. L’ironia diventa più bieca quando si sappia<br />

che uno è l’immagine intiera dell’altro. I secoli<br />

consumarono il cero ardente come consumarono i due<br />

monarchi effigiati nel quadro; l’ombra salì su questo, la<br />

luce calò su quello. 19<br />

Il tempo e la caligine hanno annerito l’antico dipinto,<br />

dando l’impressione che uno scuro sudario ricopra i due<br />

sposi ritratti, i quali sembrano fagocitati dalle tenebre.<br />

Con amara ironia, lo scorrere dei secoli ha conferito a<br />

quell’immagine matrimoniale un aspetto funereo,<br />

unendo la vita alla morte. Allo stesso modo, il lungo<br />

cero dipinto nel quadro trova il proprio doppio in un<br />

cero reale, che il tempo ha lentamente ma<br />

inesorabilmente consumato, in un processo inverso a<br />

quello che ha interessato le figure umane: mentre i due<br />

sposi ritratti sono stati ormai quasi completamente<br />

dissolti dal trascorrere degli anni, e vengono ora<br />

raddoppiati dall’immagine viva ed intatta di Estebano ed<br />

Elisenda, il cero raffigurato nel quadro ha mantenuto le<br />

proprie dimensioni originarie, mentre quello reale, sua<br />

immagine speculare, si sta dissolvendo.<br />

Talora, nelle opere scapigliate, la specularità che<br />

interessa i protagonisti di romanzi e racconti non si<br />

riferisce ad una somiglianza fisica, bensì si limita ad<br />

un’omonimia; nel romanzo di Tarchetti Una nobile follia<br />

(1866-1867) il narratore-protagonista incontra un<br />

vecchio amico, Vincenzo D***, il quale, raccontandogli<br />

le proprie avventure degli ultimi anni, gli descrive anche<br />

l’incontro con un secondo Vincenzo D***. L’incontro fra<br />

i due personaggi omonimi avviene casualmente, per un<br />

errore di indirizzo. Questo tipo di errore, dovuto<br />

appunto all’omonimia, si ritrova in un altro racconto<br />

dello stesso autore, La fortuna del capitano Gubart<br />

(1865), il cui protagonista, un povero suonatore di<br />

violino, viene nominato per errore capitano dell’esercito<br />

dal re Ferdinando IV delle Due Sicilie, che lo ha confuso<br />

con un omonimo.<br />

Il doppio speculare talvolta non corrisponde né ad<br />

una somiglianza fisica né ad un’omonimia, bensì si<br />

manifesta attraverso una maledizione capace di<br />

intrecciare inestricabilmente il destino di due distinti<br />

personaggi. Oltre che dei due protagonisti di Una nobile<br />

follia, ad esempio, sono fatalmente legate fra loro le<br />

tragiche sorti di Paw e Simeòn Levy, i due protagonisti<br />

della novella di Arrigo Boito Il pugno chiuso (1870): il<br />

polacco Paw, affetto da plica polonica, una malattia<br />

interessante i capelli, eredita dall’usuraio Levy una<br />

maniacale ossessione, interpretabile come maledizione,<br />

che gli fa credere di avere la mano destra stretta<br />

patologicamente a pugno intorno ad un fiorino rosso e<br />

che, infine, lo porterà alla morte com’era accaduto<br />

all’usuraio stesso. In Una nobile follia, l’omonimia fra i<br />

due Vincenzo D*** assume un significato diabolico,<br />

tanto che sembra preannunciare sinistramente,<br />

collegandosi alla valenza negativa tradizionalmente<br />

attribuita al doppio, quella follia che si impossesserà di<br />

uno dei due personaggi. L’omonimia, l’errore di<br />

identificazione, la residenza dei due Vincenzo D***<br />

nello stesso palazzo e la malattia mentale di uno di loro<br />

vedono un importante precedente letterario nel<br />

racconto di Poe William Wilson, il cui protagonista trova<br />

in un personaggio suo omonimo il proprio persecutore<br />

(coincidente con lui anche per quanto riguarda l’aspetto<br />

fisico e la data di nascita), fatalmente destinato ad<br />

essergli accanto fin dai tempi della scuola. Come nei<br />

casi dei doppi negativi ai quali ho fin qui accennato,<br />

anche in questo racconto la persecuzione operata dal<br />

doppio porterà il protagonista a tentare di liberarsi di<br />

lui, ma l’eliminazione del sosia, ossia della propria<br />

immagine, della propria anima, causerà, anche se non<br />

fisicamente, ma solo moralmente, la morte del<br />

protagonista stesso. Così termina infatti il racconto di<br />

Poe:<br />

Dove prima non c’era che il legno della parete vedevo<br />

adesso, nel mio turbamento, uno specchio enorme; e<br />

siccome terrorizzato mi avanzai verso di esso, la mia<br />

immagine mi venne incontro, pallida in viso e coperta di<br />

sangue, con passo debole, malfermo.<br />

Così, ripeto, mi parve, ma così non era. Era Wilson,<br />

invece, era il mio nemico, che mi stava ritto dinanzi,<br />

nella sua agonia. Aveva gettato maschera e mantello<br />

sull’impiantito, ed ecco, non c’era filo del suo abito, non<br />

c’era tratto della sua fisionomia tanto caratteristica e<br />

singolare che non fossero, nel modo più assoluto, miei.<br />

Egli era Wilson; ma era un Wilson che non<br />

bisbigliava più, parlando, e io avrei potuto credere di<br />

sentir parlare me stesso.<br />

«Tu hai vinto» mi disse «ed io cedo. Ma tu pure, da<br />

questo momento, sei morto – sei morto al Mondo, al<br />

Cielo, alla Speranza! In me tu esistevi – e ora, nella mia<br />

morte, in questa mia immagine che è la tua, guarda<br />

come hai definitivamente assassinato te stesso». 20<br />

William Wilson, analogamente a Baldovino e a Dorian<br />

Gray, nella speranza di liberarsi del proprio doppio,<br />

ossia della propria coscienza, finisce con l’uccidere in un<br />

certo senso se stesso.<br />

Nella narrativa straniera, l’identità fra due<br />

personaggi distinti trova un significativo precedente<br />

anche nel breve romanzo giovanile di Dostoevskji Il<br />

sosia (1846), in cui però il protagonista, il consigliere<br />

titolare Goldjadkin, e il suo doppio non coincidono<br />

unicamente per quanto riguarda il nome, bensì sono<br />

nati nello stesso luogo e risultano identici anche<br />

nell’aspetto fisico, tanto da finire con l’essere<br />

considerati gemelli. Dopo una drammatica serata,<br />

Goljadkin incontra, girovagando per le vie di San<br />

Pietroburgo, il proprio doppio, della cui presenza<br />

persecutrice non sarà più in grado di liberarsi. Guido<br />

Davico Bonino, nella sua introduzione al romanzo,<br />

sostiene che:<br />

Questa fedele immagine speculare ha persino lo stesso<br />

nome ed è originaria della stessa città, per cui i due<br />

vengono scambiati per gemelli. Ma caratterialmente<br />

78<br />

OSSERVATORIO LETTERARIO Ferrara e l’Altrove ANNO XIV – NN. 73/<strong>74</strong> MARZ.-APR./MAGG.-GIU. 2010

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