La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del ...

La potestas directa et indirecta in temporalibus
nella dottrina del Cardinale Ostiense
ABSTRACT
Alessandro BUCCI *
In the medieval Christianity from Renovatio imperii to the reform it has a new
social body, the Ecclesia Christi, that embracing the entire Christian community and that,
mainly governed by the emperor in the Carolingian period and that of Otoni, which is
considered governed as unum caput by the Pope.
It is certain that the weakening of the feudal imperial unity with the new regna
superiorem non recognoscentem, necessitated the strengthening of the Pope as head of
Christianity unique and supreme. This is justified in claiming that imperium habet a papa
imperium, or for a human reason (the donation of Constantine and the translatio imperii of
Gregory IX), or for a divine (the renunciation of Constantine to an illegitimate authority). It
is for this reason that Pope succedit imperio vacante.
Keywords: Potestas directa et indirecta in temporalibus, Imperium,
Sacerdotium, Vicarius Christi, Plenitudo potestatis.
0. Introduzione
Nella christianitas medioevale dalla renovatio imperii alla riforma si ha un
nuovo corpus sociale, l’Ecclesia Christi, che abbraccia l’intera collettività
cristiana e che, retta prevalentemente dall’imperatore nel periodo carolingio e
in quello degli Ottoni, si considerava ora retta quale unum caput dal Papa. Ed
ecco il perché si parla di nullus imperator extra Ecclesiam, di iura quae imperator tenet
ab Ecclesia romana, di cum enim unum corpus simus in Christo, di unum corpus duo
capita quasi monstrum. Del resto un diploma imperiale dell’epoca di Federico II
parlava di Chiesa e Impero come di unum et idem; Giovanni d’Orleans parlava
di duae potestates in Ecclesia; Stefano di Tournai dell’una civitas con le due
iurisdictiones. Certo è che l’indebolimento dell’unità feudale imperiale con i
nuovi regna superiorem non recognoscentem, rendeva tanto più necessario il
* Prof. Alessandro Bucci predă Dreptul bisericesc, Drept civil şi Drept roman la
Facultatea de Drept Canonic, Institutul Pontifical Oriental din Roma; Dreptul canonic
şi Drept bisericesc la Facultatea de Drept a UniversitaŃii din Cassino (Italia).
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rafforzamento dell’unità papale come capo unico e supremo della cristianità.
Ciò è giustificato sostenendo che imperium habet a papa imperium sia per una
ragione umana (la donazione di Costantino da una parte e la translatio imperii di
Gregorio IX dall’altra), che per una divina (la rinuncia di Costantino ad una
autorità di per sé illegittima). Ed è per questo motivo che Papa succedit imperio
vacante.
1. La dottrina precedente il Card. Ostiense
Per comprendere meglio la visione politica di Enrico da Susa, appare
opportuno a inquadrare gli avvenimenti che hanno dato luogo a quella
polemica tanto feconda di idee e di aspetti nuovi di un problema che, pur
essendo embrionalmente delineato prima di Graziano, solo con quest’ultimo
ha preso l’aspetto di una discussione viva e destinata a svilupparsi al punto di
diventare il motivo conduttore di tutto il periodo immediatamente posteriore,
gettando peraltro le basi di una nuova dottrina pubblicistica, sviluppatasi non
in un solo centro di studi, ma animando con aspetti sempre nuovi, ogni scuola
o corrente.
Su tre punti vertono pertanto le discussioni e le successive evoluzioni
di questa nuova querelle: sulla sufficienza della sovranità dello Stato, sulla
natura essenzialmente spirituale dell’imperium papale e infine sul principio della
iurisdictio divisa.
Non c’è dubbio che dopo la Concordia grazianea, un nuovo orizzonte
spirituale, finora ignoto, illuminato dalla polemica, si apriva denso di questioni
e ci si accingeva a scoprirne gli aspetti con metodi e criteri completamente
originali, data anche questa nuova visione giuridica del mondo cristiano,
questa nuova legalità.
A questa evoluzione degli aspetti così inconsueti, i glossatori canonisti
partecipavano apportando anche il prezioso contributo delle radici romane
non in contrasto bensì in armonia nello scoprire sempre nuovi punti di vista di
questo nuovo assetto politico, giuridico e religioso, in verità pieno di una
vitalità e di un dinamismo tali da farlo considerare non un fenomeno limitato
nel tempo e nella portata, bensì sintomo di una evoluzione dell’intero mondo
medioevale.
Per quanto riguarda questa prima parte della polemica, le fonti
purtroppo sembrano scarseggiare e praticamente disperse nelle varie
biblioteche europee; nonostante ciò gli aspetti principali del nuovo corso, i
protagonisti ed i rispettivi punti di vista possono essere delineati insieme alla
loro comune identità di vedute e se non altro, di problematiche. Di qui si
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
arriva a distinguere la voce organica e soprattutto nuova che avrà in seguito
sviluppi imprevedibili.
Il Magister Rufinus 1 ci indica questo rinnovamento pubblicistico con
una affermazione, che illustra la nuova impronta religiosa sul piano del diritto
e la nuova autonomia nella figura del Principe: “Summus Patriarcha quoad
auctoritatem ius habet terreni imperii; princeps post ipsum auctoritatem habet
saeculares regendi et praeter ipsum officium administrandi”. Affermazione,
questa, confortata dall’analoga presa di posizione di Stefano Tornacense 2 che
pone sullo stesso piano il Rex e l’Imperator dando al rex in regno suo la potestas
edicendi et costituendi mentre prima di Uguccio da Pisa, la scuola canonistica
anglo-normanna definisce giuridicamente il concetto di imperium spirituale nella
Summa Lipsiensis 3.
Nel 1186 vi sono inseriti inoltre anche quei re che jurisdictionem
temporalem a papa accipiunt e che perciò erano da considerarsi liberi nei confronti
della potestà imperiale 4. Un punto fermo su questo nuovo indirizzo è dato da
Uguccio che definisce il Pontefice come un iudex autonomo quale titolare del
suo imperium spirituale super reges et principes 5.
Una volta ribadito il principio della jurisdictio distincta, Uguccio afferma
sempre il carattere essenzialmente spirituale di ogni intervento papale in
temporalibus appartenendone la ratio, sempre al mondo dello spirito.
Quindi il rex nell’ambito del suo regno ha una propria sfera di attività
politica, una propria potestas plena et absoluta; in ogni regno può esservi un solo
potere politico “principalis et maior coram quo tractentur negotia
provincialia” 6: e, poiché ogni potestà è “impatiens consortis, rex ibi dicitur
imperator”. Posto sullo stesso piano il re e l’imperatore (“idem est rex et
imperator”) al “rex in regno suo” è attribuita la “potestas edicendi et
1 H. Singer, Die Summa decretorum des Magister Rufinus, Paderborn 1902, Dist. XXII.
2 Cfr. Summa in Decretum, Dist II, c. 4, in Schulte, Paderborn, 1903.
3 P. Erdö, Storia della scienza del diritto canonico: una introduzione, Editrice Pontificia
Università Gregoriana, 1999, pp. 57-58; R.C. Figueira, Ricardus de Mores at Common
Law: The Second Career of an Anglo-Norman Canonist, Regensburg, Bayern und Europa:
Festschrift Kurt Reindel, eds. Peter Segl and Lothar Kolmer, Regensburg 1995, pp.
281-99
4 J. Juncker, Die Summa des Simon von Bisignano und seine Glossen, in ZRGKA (Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte), 15 1926, p[p. 326-500] 492, nt. 2.
5 Huguccio di Pisa, Summa decretorum, f. 162 v (al c. 13, C. IX, q. III, v. iudex); f. 210 (al
c. 3, C. XV, q. VI, v. deposuit). Quest’opera è stata edita recentemente da U.
Prerovsky, Huguccio Pisanus Summa decretorum, Pontificia Università Salesiana. Istituto
storico [Monumenta iuris canonici, vol. 6], 2006. I manoscritti sono accessibili nella
Biblioteca Vaticana 2280.
6 C. VII q. 1, 41 In apibus.
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costituendi”; basandosi sul concetto “rex qui non subest imperatori”, Uguccio
applica e sostiene nei riguardi del re che allo stesso imperatore non è
sottoposto, ciò che aveva detto e sostenuto nei confronti dell’imperatore.
E non c’è dubbio che questa evoluzione appare matura sul finire del
secolo XIII; Riccardo de Mores 7 compendia una glossa pochi anni dopo la
decretale Causam di Alessandro III nella quale il pontefice aveva dichiarato di
non voler nessun modo di intaccare i diritti pertinenti alla regia potestas del re
d’Inghilterra, la sua dottrina sulla sufficienza e sovranità dei “regna et
civitates” attribuendo ad entrambi “jurisdictionem et imperium”, affermando
altresì non esserci alcuna “potestatis diversitas” tra la “regia potestas” e quella
imperiale 8.
Al principio del Duecento si ha la conferma di questo movimento di
pensiero riguardando le posizioni assunte da Vincenzo Ispano, Alano,
Tancredi e Lorenzo. Alano 9 affida allo “unum caput dell’unum corpus
7 Conosciuto anche come Riccardo Anglico (Riccardo de Mores o De Morins). – fu un
insigne canonista inglese, originario del Lincolnshire (n. circa 1160 - m. 1242).
Nell’ultimo decennio del sec. XII fu maestro a Bologna, dove scrisse un notevole
numero di opere. Ritornato in Inghilterra, fu, dal 1202 alla morte, priore di Dunstable,
nella diocesi di Lincoln. Fu incaricato di missioni diplomatiche, di visite ecclesiastiche
e della risoluzione di controversie giuridiche. Partecipò al IV Concilio Lateranense. È
autore della parte riguardante il suo tempo degli Annales prioratus de Dunstaple. Fra gli
scritti canonistici, in parte inediti, sono: la Summa quaestionum, le Distinctiones decretorum,
l’Ordo iudiciarius, le glosse alla prima delle cinque Compilationes antiquae, fatta da
Bernardo da Pavia per le quali cfr. E.A.T. Laspeyres, Bernardi Papiensis Faventini Episcopi
Summa Decretalium, Regensburg 1860 (rist. Graz 1956), pp. 327-352; S. Kuttner,
Repertorium der Kanonistik (1140-1234). Prodromus Corporis Glossarum, I (Studi e Testi 71),
LEV, Città del Vaticano 1937, p. 398; più specificamente, R.C. Figueira, Ricardus de
Mores and his Casus decretalium: the birth of a canonistic genre, [Proceedings of the eight
International Congress], Monumenta Iuris Canonici, Series C: Subsidia, v. 9, ed.
Stanley Chodorow, Vatican City 1992, pp. 172-178; R.C. Figueira, Auctoritates in the
Casus decretalium of Ricardus de Mores, [Proceedings of the Ninth International Congress],
Monumenta Iuris Canonici, Series C: Subsidia, v. 10, eds. Peter Landau and Jörg
Müller, Vatican City 1997, pp. 105-116. Inoltre, P. Erdö, Storia della scienza del diritto
canonico: una introduzione, Editrice Pontificia Università Gregoriana, 1999, p. 72.
8 Ricardus Anglicus, glossa al c. 7 Causam, Complatio Prima, 4, 18. in E. Friedberg,
Quinque compilationes antique, Lipsia 1933, pag. 51; per il testo cfr. E. Friedberg, Corpus
Iuris Canonici, t. II, Decretalium collectiones, Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959], col. 711.
9 Alano, glossa al c. 7 “si duobus” de appell. v. juris, in Compilatio Prima, 2, 20, in E.
Friedberg, Quinque compilationes antique, Lipsia 1933, pag. 20: “et quod dictum est de
imperatore, dictum habeatur de quolibet rege vel principe, qui nulli subest.
Uniusquisque enim tantum iuris habet in regno suo, quantum imperator in imperio.
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ecclesiae” il compito di capo supremo di tutto il mondo cristiano,
riconoscendo una ratio appartenente al mondo religioso ai suoi interventi in
temporalibus. L’Alano, inoltre, riafferma la distinzione nella guida temporale
considerando la struttura del mondo cristiano, non più secondo il principio
dello “unus imperator in orbe”, piuttosto sulla “divisio regnorum”, applicando
anche ad ogni re o principe “qui nulli subest”, tale principio usato nei
confronti dell’imperatore, perché ciascuno di questi “tantum iuris habet in
regno suo quam imperator in imperio”.
La testimonianza di Lorenzo Ispano è simile, benché sia arrivato alla
conclusione per via differente. Nella glossa al c. 19 Venerabilem 10 afferma:
“largo vocabulo quilibet potest imperator dici, qui habet,
quibus imperat. Unde quicumque est approbatus ab Ecclesia, sive
rex sive imperator, et est catholicus, eum credo imperatorem vel
regem. Extra Ecclesia nullum credo imperatorem, qui habeat de
iure gladium materialem qui a Deo processit”.
Un vero progresso verso questa nuova interpretazione è data da
Vincenzo Ispano; non c’è dubbio che la decretale Per venerabilem di
Innocenzo III 11 fu subito il punto principale di studio e di differenti
angolazioni di vedute di quelli che studiavano il problema dell’assenza o meno
di limitazioni alla “regia potestas”. La querelle era la seguente: quale valore
dare alla affermazione del re di Francia e all’espressione di Innocenzo III che
quel re “superiore in temporalibus non recongnoscit”. La risposta di una parte
della dottrina fu “de facto”, ma in pratica il significato era completamente
differente per ognuno di essi. Ed è proprio in un passo della decretale in
questione che l’esame assume un tono sicuramente deciso ed inequivocabile:
“quum rex ipse superiorem in temporalibus minime recognoscat” 12, con
l’osservazione “de facto”, e aggiungendo immediatamente citando Giovanni di
Divisio ennim regnorum de iure gentium a papa approbatur, licet antiquo iure um
imperator unus in orbe esse deberet”.
10 In Compilatio tertia, I, 6, in E. Friedberg, Quinque compilationes antique, Lipsia 1933, pag.
107; per il testo cfr. E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, t. II, Decretalium collectiones,
Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959], coll. 79-82.
11 In Compilatio tertia, IV, 12, in E. Friedberg, Quinque compilationes antique, Lipsia 1933,
pag. 128; per il testo cfr. E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, t. II, Decretalium collectiones,
Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959], coll. 714-716.
12 In Compilatio tertia, IV, 12, v. Recognoscat, in E. Friedberg, Quinque compilationes
antique, Lipsia 1933, pag. 128; per il testo cfr. E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, t. II,
Decretalium collectiones, Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959], col. 715.
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Galles, per poi subito continuare “immo de iure” citando la decretale Novit
ille 13 di Innocenzo III nella quale il pontefice aveva dichiarato di non voler
“perturbare aut minuere jurisdictionem aut potestatem” proprie del re di
Francia. La posizione di Tancredi è per così dire, un punto di incontro delle
diverse correnti: l’indipendenza del re doveva essere provata assumendo solo
in questo modo valore giuridico e poteva così essere esercitata e affermata.
Erano quindi necessari i normali mezzi di prova “de iure” e in tal caso
Tancredi si adoperò per facilitare appunto la ricerca della prova
dell’indipendenza dall’impero da parte di un qualsiasi monarca.
La posizione di questi quattro grandi, ci dà in parte l’idea di questo
nuovo movimento di pensiero, che pur nell’incertezza e nella scarsità dei testi,
si delinea quanto mai vivo e dinamico e capace di sviluppi finora inconcepibili.
La metà del XII secolo è dunque per la Chiesa un periodo pieno di
dinamismo intellettuale, caratterizzato da un apporto di forze fresche che,
prendendo spunto dai grandi conflitti dell’XI secolo, proseguono per la strada
ormai aperta dalla polemica gregoriana che aveva pronunciato in principio i
motivi ispiratori dell’azione del papato; motivi squisitamente spirituali e
religiosi, non solo nei riguardi dell’impero, ma anche degli Stati nazionali
europei. La ripresa di siffatta attività porta ad una novità ben più importante
ovvero alla completa sincronia tra pensiero giuridico e azione del Papato su
ogni problematica. Interessante di qui la spiegazione del perché di questo
fenomeno quasi di armonica compenetrazione che va ricercata nella
trasformazione della visione tradizionale dell’organizzazione politica del
mondo cristiano in una nuova e più aderente al momento storico se pur
concepita in modo del tutto teoretico e organizzata secondo le diverse
esigenze.
Evidentemente il giurista non poteva più essere soddisfatto dalle
forme tratte dal sistema feudale ed usate per definire e sistemare la singolare
superiorità pontificia su quegli Stati particolari che avevano fatto ricorso alla
Santa Sede per ottenerne la protezione. Di qui il sorgere dei quesiti per il
moderno canonista sull’essenza di questo singolare “imperiumpapale super
reges et principes”, sul valore giuridico del “principatus pontificio super regna
mundi”, sullo stato dei “regna et civitates” ormai fuori dall’orbita dell’impero e
sulla figura del monarca “non subiectus” all’Imperatore, ma al romano
Pontefice.
13 In Compilatio tertia, II, 1, c. 3 in E. Friedberg, Quinque compilationes antique, Lipsia
1933, pag. 111; per il testo cfr. E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, t. II, Decretalium
collectiones, Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959], coll. 242-244.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
Lo scopo principale era ormai quello di frantumare l’egemonia
legislativa e finanziaria dell’Imperatore, la negazione del principio “unus
imperator in orbe” e l’attribuzione, a ciascun re, di tutta una serie di poteri
imperiali, con la mediazione della “jurisdictio divisa”, facendo così un sovrano
completo e indipendente del “rex in regno suo”.
La provenienza da diversi Paesi di ciascun canonista non ha eccessiva
rilevanza per il pensiero, la formazione giuridica o culturale; ogni studioso
partecipa delle medesime tensioni culturali comuni a quelle di altri nel
territorio europeo, posti di fronte ad una realtà univa, ad una identica base
testuale, mentre quello che può essere un sostrato nazionalistico viene il più
delle volte attenuato dalla frequenza di centri e scuole fuori dal proprio Paese,
e contribuendo questo ad una formazione più obiettiva. Le personalità stesse
di Stefano Tornacense, di Riccardo di Mores, di Alano, Lorenzo e Vincenzo
Ispano e Giovanni Teutonico, sono stato di sicuro influenzate dagli studi
compiuti fuori dal proprio ambiente e Paese, e quindi ne subiscono una
profonda trasformazione rimanendone quasi internazionalizzate.
Ma mentre ognuno di questi studiosi ricopriva o una carica religiosa,
o comunque esercitava una attività nell’orbita della Curia Romana, portando in
qualunque modo un contributo di ingegno all’attività del Papato, disertavano
l’ambiente imperiale e la Corte o, almeno, se partecipi alla vita, solo in piccola
parte. Né viene tralasciato lo studio del diritto romano anche preso in
considerazione come strumento di lavoro, come per il caso di Lorenzo Ispano
per il quale il diritto romano rimaneva sempre e comunque visto come il
diritto dell’Impero e, perciò stesso, segue le sorti delle tendenze
autonomistiche.
Non c’è dubbio che l’azione e l’atteggiamento politico del Papato
spesso andarono di pari passo con i programmi dei poteri temporali
dell’Europa in una coincidenza di intenti dalla quale questi ultimi traevano
appoggio ed incoraggiamento. Testi prediletti della canonistica su questo
argomento sono state le Decretali Causam 14 e Si duobus 15 di Alessandro III, e le
14 La decretale riporta al 4, 18 “nos attendentes, quod ad regem pertinet non ad
ecclesiam de talibus possessionibus iudicare, ne videamur iuri et dignitati carissimi in
Christo filii nostri Henrici regis Anglorum (principis) detrahere qui, sicut accepimus,
motus est et turbatus, quod de possessionibus scripsimus, quum ipsarum iudicium es
se asserit pertinere, volumus et praeternitati vestrae per apostolica scripta praecipiendo
mandamus, quatenus regi possessionum iudicium relinquentes”.
15 La decretale in De appellationibus, recusationibus et relationibus, 2, 20 (= c. 8 X. 28) è una
risposta del pontefice all’arcivescovo di Reims che gli chiede se questi debba tenere
una seduta di appello nel caso in cui un giudice civile abbia inoltrato una tale richiesta.
Alessandro III risponde in modo affermativo ovvero che senz’altro l’appello deve
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Novit 16 e Per Venerabilem 17 di Innocenzo III. Riguardo all’insieme della dottrina
canonistica del tempo, si avverte facilmente il notevole e crescente sviluppo di
ricerca su quanto appena ricordato, tenuto conto che gli interrogativi a volte
essere tenuto in tutti quei casi che cadono sotto la sua temporalis iurisdictio. In tutti
gli altri casi è opportuno che le sedute non debbano svolgersi anche se la Chiesa le
tiene per consuetudine: “... denique quod in fine quaestionum tuarum quaeris, si a
civili iudice, ante iudicium vel post ad nostram audientiam fuerit appellatur an
huiusmodi appellatio teneat: tenet quidem in his, qui sunt nostrae temporali
iurisdictioni subiecti; in aliis vero, etsi de consuetudine ecclesiae teneat, secundum
iuris rigore credimus non timere”. E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, t. II, Decretalium
collectiones, Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959], col. 412.
16 Cfr. nt 13. Si riporta il 2.1 (=c. 13. X. II, 1): “…archiepp. et epp. Per Franciam
constitutis: Novit ille, qui nihil ignorat, quod clarissimum in Christo filium nostrum
Philippum regem Francosum sublimationem sedis Apostolicae reputantes, quum hoc
regnum benedictum a Deo semper in ipsius devotione permanserit, et ad eius
devotione nullo, sicut credimus, tempore sit discessurum... Non ergo putat aliquis,
quod iurisdictionem aut potestatem illustris regis Francorum perturbare aut minuere
intendamus, quum ipse iurisdictionem aut potestatem nec velit nec debeat etiam
impedire etc. Non enim intendimus iudicare de feudo, cuius ad ipsum spectat
iudicium, nisi forte iuri communi per speciale privilegium vel contrariam
consuetudinem aliquid sit detractum, sed decernere de peccato, cuius ad nos pertinet
sine dubitatione censura, quam in quemlibet exercere possumus et debemus. Non
igitur iniuriosum sibi debet regia dignitas reputare, si super hoc apostolico iudicio se
committat, quum Valentinianus inclitus imperator etc.”
In questa decretale, Inocenzo III si rifà a Mt. 18, 15 perchè tenta di far valere sul Re di
Francia la “iurisdictio de peccato” per cui la Santa Sede può e deve intervenire in tutte
quelle questioni in cui sia insito un elemento di peccato. E ciò porterà nel XIII secolo
ad ingerenze della Chiesa nelle contese feudali o di confine tra vassalli e signori e tra
questi e Principi. E’, non c’è dubbio, un allargamento del concetto spirituale che
annulla totalmente quello temporale includendovi tutti i rapporti tra cives
includendovi anche e soprattutto l’ambito patrimoniale e non sottacendo quello
penale. Sulla decretale novit, cfr. F. Kempf, Zur politischen Lehre der früh- und
hochmittelalterlichen Kirche, in ZRG, 78 KA, 47, 1961, pp. 311-313; C.R. Cheney, Pope
Innocent III and England, Stuttgart 1976 (Päpste und Papstuum, 9), pp. 287-291,
comparso anche in Archivium Historiae Pontificiae, 15, 1977, pp. 402 e ss.
17 Extra. Qui filii sint legitimi. Per venerabilem, in E. Friedberg, Corpus Iuris Canonici, t.
II, Decretalium collectiones, Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959], coll. 714 - 716. La
decretale enuncia la classica dottrina della potestas directa e indirecta in temporalibus
della Chiesa. Cfr., inoltre, per questa decretale, B. Tierney, Tria quippe distinguit iudicia.
A note on Innocent III’s Decretal “Per Venerabilem”, in Speculum, 37, 1962, pp. 48-59,
comparso anche in Mediaeval Studies, 27, 1965, pp. 230 e ss.; K. Pennington, Pope
Innocent III’s Views on Church and State. A Gloss to “Per Venerabilem”, in Law, Church and
Society. Essays in Honor of Stephan Kuttner, Philadelphia 1977, pp. 54-61.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
polemici si fanno via via più consistenti nel tentativo di cogliere il vero
problema politico ed inserirsi nelle aspirazioni e nei programmi dei regna e
delle civitates della penisola italica, in Francia, Spagna e Inghilterra. Ciò portò
ad affermare nella Summa Coloniensis che “scientia de regimine civitatis,
castri et villae seu regni et orbis” 18.
La dottrina quindi tentava di dare una soluzione sicuramente più
moderna del problema politico dell’impero, una sistemazione dei regna et
civitates; in altre parole, il tentativo di una ricomposizione del ricorrente
dissidio tra papato e impero. Tutte le forze intellettuali si concentravano per
risolvere la questione tanto delicata favorendo in qualche modo il Papato in
quanto guida spirituale delle nazioni cristiane giustificando così gli interventi in
temporalibus del Pontefice. I glossatori canonisti cercavano, in un problema che
ormai era diventato il punto di saldatura dei due precedenti dibattiti, e cioè il
problema della iurisdictio divisa tutta gelasiana 19 e ripresa ben otto secoli più
tardi nella Unam Sanctam da Bonifacio VIII 20, di trovare una risposta che
potesse illuminare e comporre chiarificando, le questioni di svincolamento del
Papato da qualsiasi soggezione dell’Impero e ad ogni altra potestà secolare.
Il principio postulato dai canonisti, che altro non era che il dettato
paolino del “qui me judicat dominus est”, rappresentava ormai il punto di
sintesi di ogni pretesa di libertà da parte del Pontefice, che se anche non si
18 G. Fransen – S. Kuttner, Summa “Elegantius in iure divino” seu Coloniensis, in
Monumenta iuris canonici, vol. I, Fordham University Press, 1969, p. 94.
19 Nella quale si affermava la supremazia della sacra auctoritas del pontefice rispetto alla
potestas imperiale nella epistola all’imperatore Anastasio (in PL, 59, coll. 41-47):
“Nostri etenim, filii clementissime, quod licet praesideas humano generi dignitate,
rerum tamen praesulis divinarum devotus collatis submittis, atque ab eis causas tuae
salutis expectas, inque sumendis coelestibus sacramentis eisque ut competit
disponendis, subdi te debere cognosci religionis ordine potius quam praeesse, ita inter
haec ex illorum te pendere iudicio, non illos ad tuam velle redigi potestatem”. Cfr.
P.G. Caron, L’evoluzione dell’idea teocratica nel pensiero e nell’azione dei papi del Duecento, in
AA.VV., Diritto, persona e vita sociale, Scritti in memoria di Orio Giacchi, vol. I, Vita e
Pensiero, Milano 1984, p[p. 52-65] 52 per il quale “l’accento posto da papa Gelasio sul
gravius pondus dell’autorità pontificia rispetto alla potestà regale, ha il significato di
un’affermazione solenne della superiore maestà del pontefice nei confronti del
semplice potere amministrativo spettante al sovrano laico”.
20 Cfr. C. 1, De maioritate et oboedentia, in Extravag. Comm., I, 8, in Ae. Friedberg, Corpus
Iuris Canonici II, Decretalium collectiones, Leipzig 1879 [rist. anast. Graz 1959], coll. 1245-
1246.
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fosse voluto sottrarre alla chiamata di qualsiasi tribunale, ne restava fuori ed al
di sopra, perché “si satisfacere noluit a nemine cogetur” 21.
Il punto di forza di tutta la dottrina canonistica è quindi ora questa
visione che completa il pensiero di Rufino, con il Papa posto al di fuori ed al
di sopra di qualsiasi ordinamento terreno, perché qualsiasi suo intervento nella
vita dell’Impero e dei Regni esulava dalla sfera politica per la sua essenziale
natura sacra e religiosa; tutte le forze sono quindi coalizzate contro il dogma
dell’impero universale, attaccato ormai dal mondo canonista con un crescendo
sempre più polemico. Lo sconosciuto decretista della Summa «Omnis qui iuste
iudicat» di Lipsia ci dà un’idea di questo ispirato problema riferendosi tanto ai
lavori di Giovanni da Faenza, Simone da Bisignano e Gandolfo, e così pure ai
decretisti francesi: “… terreni simul et coelestis 22:
21 Tra i testi che comprovano tale principio, cfr.: J.F. Schulte, Zur Geschichte der Literatur
über das Dekret Gratians, in Weiner Sitzungberichte, 63, 1869, p[p. 299-352] 329 (Simone
da Bisignano: “Summa … vel potius hoc tractum est de decretalibus epistolis Anacleti,
ubi de appellatione facienda tractavit docens clericos ad sacerdotum appellare
iudicium, laicas vero ad saeculare ut sic in foro suo quisque audiretur…”); J.F. Schulte,
Zur Geschichte der Literatur über das Dekret Gratians, in Weiner Sitzungberichte, 64, 1870, p.
132 (“Summa Parisiensis”: l’assenso imperiale è necessario allorchè alla dignità si
uniscono le regalie “quia antiquitus reges instituebant episcopo set eligebant et omnia
caban praeter consecrationem, unde imperator solebat eligere Romanum Pontificem
sed illud totum antiquatum est per decreta, quae sequuntur …”); J.F. Schulte, Zur
Geschichte der Literatur über das Dekret Gratians, in Weiner Sitzungberichte, 64, 1870, p. 138
(... “apostolicus adversus affrene licentiam imperatoris coniuravit. Imperator de
factione conqueritur, et hic duplex quaestio formatur. Prima est an imperator
potestatem gladii ab apostolico sortiatur? Secunda, an apostolicus invitae factionis reus
debeat judicari? Placet quibusdam ut in hoc certamine apostolica sede obtineat…”);
J.F. Schulte Zur Geschichte der Literatur über das Dekret Gratians, in Weiner Sitzungberichte,
64, 1870, p. 11: gl. Al. c. 3 (Si papa D. XL: Nota quod pro heresis tunc demum potest
papa condemnari a subditis, cum errorem vult pertinaciter defendere …); J.F. Schulte
Zur Geschichte der Literatur über das Dekret Gratians, in Weiner Sitzungberichte, 64, 1870, p.
40: gl. Al. c. inferior 4 D. XXI. V. potiore (… vel cum superior heresim incurrit. Hoc
enim casu etiam ab inferioribus suis accusari et condemnari posset, ut infra di.XL. Si
Papa. Jo) (Giovanni da Faenza).
22 “Summa super Decretum” di Lipsia, c. I, D. XXII. Vedi J. Juncker, Die Summa des
Simon von Bisignano und seine Glossen, in Savigny Zeitschrift für Rechtsgeschichte, Kanonistische,
Abteilung 15, p[p. 326-500] 492, alla nota 2, v. terreni simul et coelestis. Cfr., inoltre,
l’interessante studio di P.V. Aimone Braida, De docrtina politica decretistarum, vol. II:
Fontes, Romae 1990, dove riporta con dovizia tutte le fonti usate per lo studio in cui
cfr. pp. 168-169 e soprattutto p. 168 nota 2 sulla bibliografia della Summa Coloniensis.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
“Coeleste vocat imperium celestium militum, id est
clericorum universitatem cum hiis, que ad eos pertinent.
Terrenum regnum vocat homines saeculares cum rebus
saecularibus.
Per hoc ergo videtur, quod summus pontifex utrumque habet
gladium, de quibus habetur in XXXIII. q. II c. I. Inter haec et
quod ab eo suum habet imperator et quod posset deponi ab eo, si
abutatur sua potestate, ut XV. q. VI. Alius. Item fidelitatem ei
facit imperator tamquam domino, ut Di. LXIII. Tibi. Item duo
gladii in passione domini erant quorum utrumque recepit
Petrus…” 23.
Pertanto, rendendosi conto perfettamente delle opposizioni che
avrebbero incontrato le sue teorie, affermava:
“Alii dicunt in contrarium et hiis rationibus: ante enim erit
imperatores quam Sum. Pon. Et tunc habebant potestatem, quia
omnis potestatas a Deo est. Item nonne potest uti gladio quam
consequitur in electione populi, quia populus ei et eum omne ius
et potestatem transfert? Item quo modo posset ei Papa dare
potestatem vel executionem gladii, cum non habeat, nec habere
vel exercere possit, ut XXIII q. ult. Saepe et Hii. et nullus possit
plus juris in alium transferre quam ipse habeat? Habet ergo, ut
diciunt, a domino, ut Di. XCVI. Si imperator et XXIII. q.IIII.
Quesitum, in XCVI. Cum ad verum, in D. VIII. Quo jure” 24.
Proseguendo nella sua esposizione con l’intento di eliminare i dubbi
che potevano essere provocati dalle sue affermazioni, esulando la potestà
papale dal terreno politico, ribadiva il concetto della natura squisitamente
spirituale della auctoritas papale, puntualizzandone la portata:
23 Ibidem.
24 Ibidem.
“… quod ergo dicitur, quod habet utrum(que) gladium, id est
tam super clericos, quam super laicos imperium habet spirituale,
ut quem ligat in terra, ligatus sit in coelis. Regem autem
deposuisse dicitur papa, cum ipsum pro sua contumacia
excommunicaret et ita subditos ab eius obedientia subtraxit, cum
nulli debeant domino excommunicato obedire, ut XV. q.VI.
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ALESSANDRO BUCCI
Iuratos, et hoc fuit regem per consequentiam degradari. Inter
fidelitatem ei facit ut sit obediens ei in spiritualibus, ut Ecclesiam
defendat. Item quid ergo eccepit a Papa cum inungitur imperator?
Confirmationem potestatis vel ut ei tamquam imperatori hec
liceant”.
E così conclude, certamente sotto l’influenza di maestro Rufino:
“…nota qui primam tenent sententiam, dicunt quod Summus
Pontifex utrumque habet glaudium: alterum non administratione,
set tantum auctoritate, ut materialem; coelestem vero et
ecclesiasticum plena auctoritate”.
D’altra parte, anche le opere precedenti, ci danno l’idea di come la
Summa super decretum non fosse altro che la logica espressione di un travaglio e
di un’evoluzione chiaramente delineate. Ad esempio, la Summa Coloniensis 25 sia
pur precedente di oltre dieci anni dalla Lipsiensis, ci dimostra come la visione
di una guida materna della Chiesa fosse il punto di vista della valutazione
giuridica 26: “mater nostra romana ecclesia, quia superlativam in omnibus
auctoritatem gerit et claves juris habet, inde privilegia et non habita concede et
concessa adimere praevalet”, e ribadisce: “non dedignatur etiam imperator
sanctam romanam ecclesiam matrem suam agnoscere; cuius advocatus est, et a
quae imperiale decus accepti”; considerando poi fuori dalla categoria dei laici
l’imperatore, per virtù della sacra unzione del Papa 27.
D’altra parte, nello svolgersi della polemica, l’elemento spirituale
s’intrecciava spesso, magari con similitudini, mentre veniva puntualizzato il
valore giuridico di alcuni fondamentali principi del Vangelo, che avrebbero
dato maggior valore nell’ambito del diritto pubblico al singolare e
caratteristico imperialismo religioso del Pontefice di Roma. Il compilatore
della Summa Colonienins, osservava al passo di Matteo:
“quecumque solvieris super terram e.s. in coelis: quid ergo
circa hoc sentiendum sit, discuti necesse est, quia et multa
25 J.F. Schulte Zur Geschichte der Literatur über das Dekret Gratians, in Weiner
Sitzungberichte, 64, 1870, p. 108.
26 Ibidem, p. 97.
27 Ibidem, p. 111–112: “…si opponitur de juramento fidelitatis, quod ab episcopis
imperatori praestatur, responderi potes, non omnem moderni temporis
consuetudinem canonibus concordare, vel, quod potius est, imperatorem propter
sacram unctionem in numero laicorum non haberi”.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
auctoritatem pugna hic est et contradicentium sibi grandis
conflictus” 28.
Il problema imperiale con la politica e le idee federiciane è quindi il
punto principale di attrazione, tuttavia non a scapito dei singoli regni del
mondo cristiano, senza che si possano quindi notare limitazioni in tal senso.
In questa azione la Chiesa è la forza viva ed equilibratrice che ne condiziona lo
sviluppo, poiché la superlativa auctoritas della Summa Coloniensis, fu concepita
come una superlativa auctoritas in omnibus, il terrenum imperium del Papa
comprendeva ogni potestà secolare; l’apostolicus totius orbis poteva juxta de causa
per decreta solvere et ligare ogni principe, ed il Papa fu visto come guida di ogni
princeps regnorum.
Ma non basta: l’autore della Summa Lipsiensis, (che ricalcò l’analogo
passo delle cd. Glossae Stuttgardienses) non prima di aver puntualizzato il
concetto di imperium spirituale del Papa, per rendere completo il disegno, si
domandò: “set quaeri solet de hiis judicibus (iudex sta qui per “rex”) qui ab
ipso jurisdictionem accipiunt vel ab episcopis, qui comites sunt. A quo
accipiunt tales potestatem?”. Ed ecco la risposta che si dà: “forte dici potest,
quod ab episcopis accipiunt et ex potestatis auctoritate executionem, vel ab
episcopis totum. Quedam enim aliis concedere possum que per nos exercere
non volemus, ut d.. LXXVIII Episcopus” 29. Si nota dunque come nell’ecclesia
nessuna potestà fosse esente dall’imperium papale. Ed occorre anche notare, in
linea con il principio gelasiano, come il potere spirituale è tradotto con potestas
e quello temporale con auctoritas in sintonia – quindi – con l’assunto gelasiano.
All’inizio del Tredicesimo secolo la Chiesa riprende attivamente, con
Innocenzo III a negare ulteriormente il principio gelasiano 30. Ecco il pensiero
28 Cfr. S. Mochi Onory, Fonti canonistiche dell’idea moderna dello Stato, [Pubblicazioni
dell’Università Cattolica del S. Cuore, Nuova Serie, vol. 38], Milano 1951, p. 72.
29 J. Juncker, Die Summa des Simon von Bisignano und seine Glossen, in Savigny Zeitschrift für
Rechtsgeschichte, Kanonistische Abteilung 15, 1926, p[p. 326-500] 492, nt. 2.
30 Come è stato ben messo in evidenza, “nel 493, all’inizio del suo pontificato, l’Italia e
Roma erano percorse dagli Ostrogoti, barbari cristianizzati e successivamente
convertiti all’arianesimo. Onde il papa era diventato suddito di un regime non solo
barbarico, ma eretico. Contemporaneamente, un’altra eresia si stava affermando
nell’impero d’Oriente: il monofisismo, il che complicava ulteriormente le relazioni fra
Roma e Costantinopoli, che i Romani avrebbero preferito migliori onde ricevere
dall’imperatore aiuti contro i barbari. Fu allora che Gelasio rivolse all’imperatore un
efficace appello, ponendosi come il maggior teorico, dopo sant’Ambrogio, dei
rapporti fra Chiesa e Stato. I suoi principi sono contenuti nell’epistola che egli inviò
55
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di Innocenzo III esposto, infatti, nel simbolismo dei due luminari, che
sintetizza perfettamente la sua opinione ed i suoi principi. Appare evidente dal
suo pensiero, la superiore dignità del Papato sull’Impero, e come quest’ultimo
derivi dal Pontefice la propria potestà, ma viene altresì negata quella
coordinazione feudale sull’equipollenza di dignità e sulla reciproca
indipendenza di attribuzioni e potestà derivanti ambedue da Dio; praticamente
la negazione del sistema gelasiano nella sua più intima essenza.
nel 494 all’imperatore Anastasio I per deplorare l’aiuto offerto da questi ai monofisiti.
«Due sono i poteri, con cui questo mondo é principalmente retto, afferma san
Gelasio, la sacra autorità dei pontefici e la potestà regale. Tra i due, l’importanza dei
sacerdoti é tanto più grande, in quanto essi dovran rendere ragione al tribunale divino
anche degli stessi reggitori d’uomini. Tu sai certo, o clementissimo figlio, che, pur
essendo per la tua dignità al di sopra degli uomini, tuttavia devi piegare devotamente il
capo dinanzi a coloro che son preposti alle cose divine, da loro aspettare le condizioni
della salvezza; e nel ricevere i santissimi Sacramenti e nell’amministrarli come
compete, tu sai che ti devi sottoporre agli ordini della religione, e non avere funzioni
di capo, e che pertanto in queste questioni tu devi essere sottomesso al giudizio degli
ecclesiastici e non volere che essi siano obbligati alla tua volontà». In queste parole
non v’è alcuna indulgenza verso il cesaropapismo; al contrario, viene ricordata
all’imperatore la sua qualità di membro della Chiesa, di laico fra i laici, e, pertanto,
tenuto ad ubbidire ai sacerdoti in materia di fede. Nel corso della medesima lettera
Gelasio garantisce l’ossequio della Chiesa alle leggi civili negli affari materiali, ma esige,
come contropartita, l’ubbidienza dell’imperatore e del suo governo alle leggi divine di
cui essa é depositaria. È qui ampiamente esposta per la prima volta quella che sarà la
dottrina fondamentale della Chiesa cattolica nelle sue relazioni con lo Stato. Elaborata
diciotto anni dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, la sua forma attuale può
essere espressa nel modo seguente: esistono due società perfette, la Chiesa e lo Stato,
ciascuna delle quali si é data una gerarchia ed un diritto. Allo Stato é affidato il
compito di provvedere al benessere dell’uomo sul piano materiale, alla Chiesa sul
piano spirituale. Alla Chiesa e allo Stato si chiede di cooperare, ma se entrano in
conflitto, la prima pretenderà il rispetto delle leggi divine, giusta il principio che i suoi
compiti e fini sono superiori al mero benessere materiale dei cittadini dello Stato. È
facile riconoscere in questa moderna versione i tratti fondamentali della dottrina
gelasiana, cui millequattrocento anni di vita nulla tolgono del rispetto dovuto al
coraggio con cui fu enunciata per la prima volta, essendo la Chiesa minacciata da tre
gravissimi pericoli: gli Ostrogoti, gli scismatici e il cesaropapismo bizantino, sotto
l’impulso congiurato dei quali viepiù si accentuavano le differenze fra il cristianesimo
orientale ed occidentale, mentre il vescovo di Roma appariva come l’intrepido
condottiero dell’episcopato occidentale in uno dei momenti cruciali del suo sviluppo”
(Z. Ehler, Breve storia dei rapporti tra Stato e Chiesa, Vita e Pensiero, Milano 1961, pp. 22-
25).
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
Si suole peraltro citare di Innocenzo III quella famosa lettera
indirizzata all’Imperatore bizantino Alessio ed entrata a far parte della
Compilatio Tertia e poi anche del Liber Extra (c. 2. X. I. 33). Innocenzo aveva
pure detto: “non negamus quod imperator praecellat in temporalibus” 31, ma è
chiaro che il Papa afferma solo una superiorità in temporalibus dell’Imperatore
su coloro che da lui derivano il proprio potere temporale, come si può rilevare
leggendo il passo per intero: “non negamus, quin praecellet imperator in
temporalibus illos dumtaxat, qui ad eo suscipiunt temporalia”. Per avere
comunque una manifestazione d’importanza basilare, riguardo a questa nuova
concezione papale nei rapporti con l’Impero, bisogna considerare la celebre
lettera Si memoria beneficiorum di Gregorio IX 32 a Federico II nella quale si
ricorda la famosa donazione (poi risultata falsa dagli studi di Lorenzo Valla 33
in poi) di Costantino alla Chiesa, attraverso la quale questi aveva ritenuto che,
come il Pontefice reggeva l’impero delle anime in tutto il mondo, così dovesse
avere anche quello sui corpi, quindi aveva consegnato al Vicario di San Pietro
le insegne imperiali, Roma, l’Impero e l’Italia per la cura e la dispositio del
Papato, trasferendo in Grecia la propria residenza.
Quindi Carlo Magno, predecessore di Federico, è colui che ha
raccolto la dignità imperiale trasferita ai Germani dalla Chiesa, che peraltro ha
anche sottoposto a Carlo Magno ed ai suoi successori la dignità dell’Impero,
“et gladii potestatem in subsecuta coronatione” 34, senza altresì diminuire in
“consecrationis et in unctionis munere nihil de substantia suae
jurisdictionis” 35; perciò il Papato è da considerarsi come il vero factor della
potestà imperiale di Federico II. E’ quindi notevolmente interessante lo studio
del contenuto della parte centrale di questa lettera di Gregorio IX; in pratica,
quindi in temporalibus, l’imperium papale appare determinato dalla rinuncia di
Costantino al comando sull’Occidente. E’ stato lui a volere il dominio
temporale del Pontefice su tutto il mondo (così afferma il Papa, ma egli
intende l’Occidente).
Il fatto che il Pontefice abbia trasferito la dignità imperiale ai
Germani, e precisamente a Carlo Magno, dopo che Costantino si è spostato in
31 A. Friedberg, Corpus Iuris Canonici II, Decretalium collectiones, Leipzig 1879 [rist. anast.
Graz 1959], col. 197.
32 A. Huillard Bréholles, Historia diplomatica Friderici II, t. IV, II, p. 922.
33 In De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio, ed. W. Schwahn, Lipsiae,
1928. Cfr., inoltre, lo studio di P.V. Aimone Braida, De docrtina politica decretistarum, vol.
II: Fontes, Romae 1990, pp. 59-60.
34 C. Baronio, Annales ecclesiastici denuo exclusi et ad nostra usque tempora perducti, vol XXI,
L. Guérin ed. 1870, col. 130.
35 Ibidem.
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ALESSANDRO BUCCI
Oriente, non vuol dire affatto che, pur concedendo l’esercizio del potere
temporale, abbia rinunciato alla substantia del potere temporale spettante a sé:
in pratica è solo l’esercizio del potere temporale che de jure spetta
all’Imperatore.
Questa era la negazione ufficiale ed esplicita della teoria che vedeva
derivato direttamente da Dio il potere imperiale: presente ed insostituibile tra
quest’ultimo e nostro Signore, c’era la mediazione del Papato, dal quale
l’Impero derivava de jure ogni suo potere. Se si aggiunge, poi, che dal principio
del sec. XIII il Papa aveva il potere di examen e di approbatio dell’elezione del
rex romanorum in imperatorem promovendus, ciò, per la concezione ufficiale del
Papato, rimane ancora più legittimo.
Era ovvia ed attendibile la reazione contro questa nuova teorica
papale, da parte dell’impero da Dio, reazione che non serviva comunque che
ad inasprire sempre più la nuova concezione, non certo abbandonata dal
Papato, specialmente negli anni immediatamente successivi.
L’ascesa al trono di Pietro, di Innocenzo IV (Sinibaldo de’ Fieschi)
dopo Gregorio IX, segnava un’accentuazione del contrasto per opera di
questo nuovo canonista e aspro rappresentante della tendenza teocratica, che
dopo aver deposto dall’Impero e da tutti i suoi regni il già scomunicato
Federico II, replicava, inoltre, alle sue rimostranze con l’enciclica: Eger cui levia
che segnava un notevole inasprimento della concezione teocratica sostenuta
pochi anni prima da Gregorio IX. Il nuovo Pontefice esordisce polemizzando
implicitamente col suo immediato predecessore, ed affermando con durezza
che dimostrano certo poco intuito coloro i quali affermano che l’imperii
principatum della sede apostolica è cominciato appena per opera di Costantino,
mentre viceversa esso fin dalle sue origini lo ha avuto “naturaliter et
potencialiter” poiché Gesù Cristo, essendo “verus rex ac verus sacedos”
secondo l’esempio di Melchisedech, costituì in apostolica sede, “non solum
pontificalem, sed et regalem monarchatum” affidando a San Pietro ed ai suoi
successori, le redini dell’Impero terreno nonché di quello celeste.
Perciò, quello di Costantino, non fu che un atto di rinuncia ad una
dominazione di per sé illegittima al momento della conversione, mentre tra il
Papato, che gli conferiva “ex novo”, una legittima potestà sull’Impero,
ordinata secondo la volontà divina, per cui egli “qui prius abutebantur
potestate permissa, deinde fungeretur auctoritate concessa. In gremio enim
fidelis ecclesiae ambo gladii habentur administrationis utriusque reconditi…”.
Peraltro, persino la spada temporale è presso il Vicario di Dio, capo
della Chiesa militante: il fatto poi che l’esecuzione di questa spada è a questi
proibita da Dio, non esclude comunque il fatto che la sua “auctoritas” è
presso di lui:
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
“Cuius si quidem materialis potestas gladii apud ecclesiam est
implicata, sed per imperatoremqui eam inde recipit, explicatur et
inclusa, fit, cum transfertur in principem actualis. Hoc nempe ille
ritus ostendit quo summus Pontifix Caesari, quam coronat, exibet
gladium vagina contentum, quem acceptum princeps eteri et
vibrando innuit se illius exercitium accepisse”.
E’ facilmente intuibile come l’attuale posizione si presenti su di un
piano più aspro e polemico della pur recente concezione gregoriana.
La Chiesa “ex novo” non ha ricevuto nessuna donazione “de jure” da
parte di Costantino, avendo fin dalle sue origini “natuliter et potencialiter” il
dominio sull’Impero romano, per diretta volontà del Signore. Infatti, tutti gli
imperatori romani, prima di Costantino, erano da considerarsi solo dei tiranni
e quindi il loro governo solo un dominio “de facto”; la rinuncia dell’Impero
nelle mani del Pontefice fatta da Costantino convertendosi, aveva trasformato
la sua usurpazione in governo voluto da Dio, nonché conforme ai suoi
dettami.
La “potestas” tirannica fino ad allora persistente perché permessa
dall’imperscrutabilità del Signore, diveniva ora “auctoritas legittima”,
conforme ai dettami di Dio, ma derivata, o meglio delegata, dal Papato.
Derivando questo stato di diritto del tempo di Costantino e
continuando fino a Federico II, era impossibile un potere originario di
quest’ultimo sull’Impero; ogni suo potere, invece, gli era derivato dalla sola
concessione pontificale; al papato spetta, ed è sempre spettato, anche il potere
temporale. Se è vero che Dio ha proibito al Papa l’esercizio di tale potere, ciò
nondimeno la sua titolarità è presso di lui, e quando, nel rito
dell’incoronazione, il Papa consegna una spada chiusa nel fodero
all’Imperatore, e questi la sguaina per dichiarare che egli ha ricevuto l’esercizio
del potere temporale dal Papa, tale potere da potenziale che era per volontà di
Dio presso la Chiesa, con questo passaggio diviene attuale.
La teocrazia pontificale progredisce non poco, quindi, con l’avvento
di Innocenzo IV: da Gesù in poi, e per sua istituzione diretta, per tutta la
durata della sua storia, la Chiesa cattolica è stata la legittima titolare del potere
temporale sul mondo, ed il potere temporale dell’Imperatore non è che
l’esercizio di u potere delegato, e non originario, che parte dal Papa che per
volere del Signore non può esercitarlo direttamente. Nel suo celebre Apparatus
in quinque libros Decretalium alla glossa “Vacante” Innocenzo IV, dogmatizzando
la sua teorica dell’Impero, non solo come Pontefice, bensì anche come
canonista, afferma: “specialis coniunctio est inter Papam et Imperatorem, quia
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ALESSANDRO BUCCI
Papa eum consecrat et examinat et est Imperator eius advocatus et jurat ei
(Enrico da Susa aggiungerà tra poco alla stessa glossa: “tamquam domino”) et
inde est quod in jura quae ab ecclesia romana tenet succedit Papa imperio
vacante”.
E’ necessario vedere in questo “apparatus” scritto da Sinibaldo come
Papa, proprio negli anni in cui promulgava l’enciclica, e certo dovuta alla sua
stessa penna, una concordanza con i concetti puntualizzati nell’enciclica stessa.
Infatti, come è possibile desumere dalla glossa precedentemente citata, egli
costituisce per il Papato “ex novo” anche il diritto di tratte a sé il Vicariato
nonché l’amministrazione dell’Impero qualora quest’ultimo manchi del suo
titolare, cioè secondo la concezione papale, non vi sia un “rex romano rum
approbatus” dal Papa e con ciò riconosciuto “ipso jure” degno della
“promotio” alla dignità imperiale.
Ora, quali ragioni Innocenzo IV pone per sostenere questo diritto al
vicariato dell’Impero “vacante imperio”? Dall’enciclica si arguisce derivante
dal Papa qualsiasi potere temporale dell’Imperatore, di modo che gli “jura
quae ab ecclesia romana tenet” secondo la glossa “Vacante”, costituiscono
appunto il complesso dei poteri imperiali, anzi si identificano proprio con il
potere imperiale; ed anche se nella glossa tali “jura” sembrano derivare
piuttosto dalla “consecratio” e dalla “examinatio” che il Papa fa
dell’Imperatore e dalla qualifica di avvocato della Chiesa dell’Imperatore e del
relativo giuramento al Papa, è vero anche che tutto ciò non è che un corollario
della fondamentale ed originaria dipendenza temporale dell’Imperatore dal
Papa.
Innocenzo IV, poi, attribuisce a questa dipendenza, come giustamente
ha detto il Baethgen 36, un carattere ormai feudale, e secondo tale sistema
proprio come un feudo vacante ritorna al “dominus feudi” e presso di lui
permane finché questi non ne abbia concesso una nuova investitura, così
anche il pontefice amministra e deve amministrare l’Impero fino a che non vi
sia un nuovo Imperatore. Tali concetti, con Innocenzo IV ed i pontefici dopo
di lui, sono stati praticamente applicati nominando, durante il grande
interregno, dei Vicari in alcune regioni italiane a nome dell’Impero, nomine
conferite non in qualità di pontefici, bensì di amministratori dell’Impero
vacante 37.
36 Baethgen, Der Anspruch des Papsthums auf das Reichsvivariat. Untersuchungen zur Theorie
und Praxis der “potestas indirecta in temporalibus”, in Zeitschrift Sav. Stift. Rechtsgesch., Kan.
Abt., vol. X (1920).
37 Forse questa asserita dipendenza dell’Impero nei riguardi del Papato poteva essere
puntualizzata anche come un allargamento della dipendenza feudale degli Svevi dal
Papato in quanto re di Sicilia; come suppone a tale proposito un passo notevole di
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
Dalla prima metà del tredicesimo secolo prosegue la serie delle
sottomissioni feudali dei regni europei al Papato, riallacciandosi già alle pretese
ed ai rapporti positivi del tempo di Gregorio VII, specialmente sotto
Innocenzo III; ed in base a questo concetto, Innocenzo IV teorizza
implicitamente nel suo “Apparatus” la “Potestas directa” papale anche di
fronte a taluni di essi.
Questa, in brevi linee, l’evoluzione storica e la situazione dei rapporti
tra Impero e Papato, quando si inseriscono la figura e l’opera di Enrico da
Susa. Una situazione che, iniziata con spunti polemici, ma limitati alla
dissertazione scolastica e giuridica dei primi studiosi canonisti, a questo punto
è giunta ad una fase quanto mai critica; questione fondamentale di tutto il
mondo cristiano ed operante sotto tutti gli aspetti, reali e teoretici. In questa
discussione l’Ostiense porta il suo contributo, non solo di uomo di scienza,
ma anche di diplomatico: come uomo di scienza e di legge, tradizionalista e
conservatore, ma non convenzionale, anzi pronto ad assumere atteggiamenti
audaci se del caso; come diplomatico, non essenzialmente legato alla propria
porpora, bensì giunto ai fastigi della medesima, proprio per le sue doti di
equilibrio e di equidistanza dagli estremi.
2. I rapporti tra autorità ecclesiastica e civile nel pensiero di
Enrico da Susa.
La teoria canonica dell’autorità del Papato è stata profondamente
modificata da Innocenzo IV e per questo sarà opportuno considerare la
visione di Enrico da Susa, inserita in questo nuovo indirizzo, come cioè la
visione di una personalità e forte e tutt’altro che servilmente conformista,
delineata in un mondo che era uscito esso stesso dalle posizioni fino allora
osservate.
E’ naturale, per quel che riguarda l’Ostiense, che è nel discutere le
relazioni dell’Imperatore con il Papato che questa teoria canonica è
principalmente sviluppata, sebbene la sua posizione non sia certo limitata a
questo. Il trattamento del soggetto, o meglio, di uno degli aspetti della
questione da parte di Enrico, è esposto molto dettagliatamente in un brano
della sua “Summa decretalium” in cui egli discute e sviluppa il contenuto della
Roffredo da Benevento, insigne civilista e canonista della prima metà del tredicesimo
secolo. Questo studioso nel suo trattato “De libelli set ordine judiciorum” (composto
quasi venti anni avanti all’«Apparatus» di Innocenzo IV) così si esprimeva: “Vasalli
sunt qui rem aliquam ab aliquo in feudum recipiunt, sicut dominus imperator a papa
habet regnum Siciliae et multi de imperio idem dicunt”.
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ben lettera decretale di Innocenzo III riguardo alla legittimazione dei figli del
Conte di Montpellier 38.
E’ ammirevole la serenità con la quale egli arriva alle conclusioni, ma è
necessario osservare che egli stesso riconosce che altri canonisti hanno avuto
un punto di vista differente. Afferma, infatti, che alcuni discutono che il Papa
non dovrebbe interferire in faccende quali la legittimazione per scopi secolari,
ma dovrebbe tale incombenza all’Imperatore. D’altra parte, continua Enrico,
si potrebbe discutere sul fatto che il Papa può ed anzi dovrebbe interferire in
faccende temporali, e qui cita un canonista che egli designa con H. (Uguccio),
il quale afferma che l’Imperatore ha il suo potere sulle cose temporali,
derivandolo solamente da Dio, come il Papa ha il suo potere sulle cose
spirituali, e così le due giurisdizioni sono distinte.
A questo punto, l’Ostiense cita i due canonisti Alano e Tancredi i
quali sostengono che mentre l’imperium viene solo da Dio, l’Imperatore riceve
l’uso della spada temporale dalla Chiesa e perciò il Papa è più grande, e può far
uso di entrambe le spade, perché Dio e Mosè le usarono ambedue.
E’ evidente come sia caratteristico nell’Ostiense sintetizzare i giudizi
antitetici degli altri grandi maestri, puntualizzarne in modo scarno ma efficace
le posizioni, per poi porre la sua opinione in termini misurati e magari, a volte,
troppo guardinghi. Comincia col mantenere il concetto che le sue giurisdizioni
non solo sono distinte e che ciascuna deriva da Dio, ma che la spirituale
giunge più vicino al Signore ed è perciò più grande.
Il Sacerdotium e l’Imperium non differiscono tanto per la sorgente da cui
derivano, ma sono molto diversi per maestà. Una dimostrazione di questa
differenza può essere tratta dalla simbolica diversità tra l’unzione del Vescovo
e del Re. Tale differenza, continua Enrico, è come quella tra il sole e la luna,
ed ammettendo che tale analogia è stata variamente interpretata da diversi
dottori, afferma che è ben detto che come la luna riceve la luce dal sole,così il
potere legale riceve la sua autorità da quella ecclesiastica; quindi come il sole
illumina il mondo per mezzo della luna di notte, così l’ufficio ecclesiastico
illumina il mondo per mezzo del titolo imperiale, in quegli affari che egli non
può trattare, dove cioè debba venir sparso del sangue. Per l’Ostiense la teoria
conclusiva, a differenza di Uguccio, è dunque che, mentre le due giurisdizioni
sono distinte nel loro esercizio, l’Imperatore riceve l’imperium dalla Chiesa di
Roma e può essere chiamato suo officialis o Vicario.
Fu la Chiesa romana che trasferì l’Impero ai Germani: perciò il Papa
conferma e corona l’Imperatore, può censurarlo e persino deporlo, quindi il
Papa è superiore e non dovrebbe interferire in ciò che è stato fatto
38 Summa aurea, 17, 13 Per Venerabilem. IV.
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
dall’Imperatore in affari temporali, tranne in casi speciali; il Pontefice perciò
prende il posto del governatore quando il regno è vacante. C’è quindi, quo ad
majestatem, solamente un capo; il Papa, perché c’è solo un Dio, un capo, il
Signore delle cose spirituali e temporali; ed egli affidò tutte le cose a Pietro e
quest’ultimo ebbe tutte le spade. Il Signore dei Signori gli dette due chiavi, non
una soltanto: la prima per le cose spirituali, la seconda per quelle temporali. A
questo punto Enrico, come è sua abitudine, ci tiene a precisare che le parole di
nostro Signore sono state oggetto di varie interpretazioni.
Noi siamo un solo corpo in Cristo, e sarebbe perciò mostruoso se tale
corpo avesse due teste. Questo è ciò che è implicito nella “Donazione di
Costantino” e se uno volesse sostenere che Costantino non aveva il diritto di
garantire questo, potrebbe ben dire che il popolo non aveva il diritto di
trasferire la sua autorità al principe 39. Tale enunciazione di Enrico è una delle
39 Enrico da Susa, Summa aurea, 17, 13 (Qui filii sint legitimi) 9: Qualiter et a quo filii illegittimi
legitimentur, vel sui fiant. Et quidem, legitimantur per principem temporalem, quo ad
temporalia; per spiritualem quo ad spiritualia: quia jurisdictiones sunt distinctae: ut in authent.
Quomodo oportet episcopo, in principio collationis (Nov. Justinian VI Praef.) i. de consecr. dis.
III, celebritatem, in fin. (Decretum, de cons. D. III., 22, 2). Non ergo Papa debet intromettere
se de legitimatione facienda, quo ad temporalem hereditatem, sed debet hoc dimittere
imperatori, ut dist. VIII, quo jure (Decretum D. 8, 1) i.e. latore etc. causam (Decretali, IV 17, 5,
4) alios poneret falcem in messem alienam; ut s. de electione, venerabilem (Decretali i. 6, 34)
quod non est faciendum ut 6, q.3, c.1 (Decretum, c. 6,3,1).
Sed contra, quia Papa etiam de temporalibus, se potest et debet intromittere i. eo c. 1 (Decretali
IV 17,1), XX., q. III. Praesens (Decretum, c. 20,3,3) XV., Alius (Decretum c. 15,6,3) XXIV., q.
1. loquitur (Decretum, c. 24, 1, 18). H (Huguccio) dixit quod imperator a solo deo habet
potestatemin temporalibus, Papa in spiritualibus, et sic jurisdictiones sunt distinctae, ut dicunt
primae concordantiae: tamen coronam recipit a Papa et gladium ab altari, 93. Dist. Legitimos et
etiam antefuit imperium quam apostulatus. Alia. et T. dixerunt, quod quamvis imperium a solo
Deo dicatur processasse, executionem tamen gladii temporalis accepit ab Ecclesia, quare Papa
major est: ut utroque gladio uti potest. Nam et dominus utoque gladio usus est, et Moyes, ad
hoc s. de ju. novit (Decretali II 1;13), et de majo. et ob solitae (Decretali I 33,6). Ego
jurisdictiones distinctas assero: et utramque a Deo processasse: ut dicitit Auth. Quomodo
oportet episcopos (Nov. VI Pref.) tamen quanto altera magis Deo appropinquatur tanto major
est ergo sacerdotium majus. Quod probatori ex ordine scripturae dictae auth. (Nov., VI Pref.);
est sic intellige, quod non multum discrepant sacerdotium et imperium, ut in authent. de alien.
aut permut. re eccles. si minus col. II. (Nov., VII., 21). Non multum discrepant quo ad
principium unde procedunt, sed multum discrepant quo ad majoritatem. Inde, est quod caput
episcopi inungitur, sed armis regis: et episcopus chrismate, et rex oleo, ut scias, quod episcopus
est. Vicarius capitis nostri id est Christi, et ut ostendantur quanta sit differentia inter
authoritatem pontifici set principis potestantem, ut s. de sa. un. c. unico unde in veteri
testamento et precedenti (Decretali i. 15,1,5). Quia quanta est differentia inter solem et lunam
tanta est inter sacerdotem et regalem dignitatem, ut s. de majo. et. obe. solite praeterea ad fin.
(Decretali i. 33, 6, 4). Quae verba licet per doctores diversi mode exponantur, tu tamen dic
quod sic luna recipit claritatem a Sole, non sol a luna, sic regalis potestas recipit authoritatem a
sacerdotali, non e contra; sicut itiam sol illuminat mundum per lunam, quando per se non
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Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

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ALESSANDRO BUCCI
potest, scilicet, de nocte, sic sacerdodalis dignitas clarificat mundum per regalem, quando per se
non potest, scilicet ubi agitur de vindicta sanguinis, ut n.s., ne cle. vel mona. quae sunt permissa
clericit vers. episcopus. (Decretali III. 50,5) unde et l. secularis debet servire canonicae. 10 di
lege (Decretum, D. 10,1) i. de privi. c. 2 (Decretali v. 33,2). Per hoc etiam innuitur. Quod seppie
millies et sexcenties et quadragesies quater, et in super ejus medietatem est majora sacerdotalis
dignitas quam regalis… Et in “Summa” hujus majoritas comprobatur, tum ratione ordinis
scripturae ut dixi, s., ver. ego, tum ratione subjecti quod nobilius et majus est, ar. c. de sacros,
ec. sancimus (Cod., II 1,22), XX., q. 1 cepimus (Decretum c. 12,1,24), et quanto quis melioribus
praeest, tanto magis ipse major et honestior est. in auth., de defenso. civi nos igitur. Col. III.
(Nov. 15, Pref.). um ratione naturale,ut patet, s.e.ver. qui verba et seq. Item, contra sicut et s.
praeter naturalem et humanam rationem filius Dei incarnatus et natus est, sic jurisdictio
spiritualis quam ecclesiae reliquit contra et s. praeter naturam jurisdictionis trahit ad se
principalem jurisdictionem temporalem si id quod de jurisdictione spirituali est in ea incidat…
10 – Tum authoritatibus sanctorum dicentium,quod quanta est differentia inter metalli
plumbum, et auri fulgorem, etc., ut 96 Dist. duo sunt et c. cum ad verum (Decretum D. 96, 10
et 6). Ideo quamvis jurisdictiones sunt distinctae quoad executionem, tamen imperator ab
Ecclesia Romana imperium tenet, et potest dici officialis ejus, seu vicarius. Ecclesia Romana in
personam magnifici Caroli e Graecis transtulit imperium in Germanos. Et Papa ipsum
confirmat, et inungit, et coronat, vel reprobat, et etiam deponit, ut patet s. de ele., venerabilem
(Decretali, I, 6, 34). Nec enim lex imperatoris legare potest nisi illos quos Romanorum lex tenet,
et ecclesiae catholicae sanctio. Quia extra, non est imperium, ut in auth.: de non alie. aut
permu.re ec. pen. col. II. (Nov., VII, Epil.). Ergo Papa superior est argu. s. de ele. Innocui
(Decretali, I, 6,20) de arb. nam magistratus (Dig., 4,8,4) s. de majo. et. obe. cum inferior
(Decretali, I, 33,6). Verum tamen quod rite factum est, per imperatorem in temporalibus, non
debet infingi per Papam, nec debet se intromettere de subditis imperatoris, nisi forte in casibus,
sicut dicitur de archiepiscopo quoad subditos suffraganeo rum ut no.s.de. off. ord. quid pertinet
ad officium suum, versi. est autem archiepiscopus (Decretali, I, 31) et seq. et hoc expressim
comprobatur s., eo. per venerabilem rationibus ibi verum etiam in aliis regionibus, etc.
(Decretali IV. 17,13).
Ergo vacante regno et imperio succedit Papa, ut s. de. elect. Inter universos (Decretali, I, 6,18)
et no. casus s.de for. comp. quibus ex causis versi item in curia romana et seq. (Decretali, II,
2,10). Nec mirum quia Christus reliquit ipsum successorem, seu vicarium suum proximiorem, et
majorem ut I, e per venerabilem sane (Decretali, IV, 17, 13), s. de trasl. Quanto (Decretali, I,
7,4). Ergo quo ad majoritatem, unum est caput, scilicet Papa: unus debet tantum esse caput
nostrum, dominus spiritualium et temporalium: quie ipsius est orbis et plenitudo ejus: ut s. de
deci. tua nobis (Decretali, III, 30,26). Quia omia commisit Petro, s., de majo, et obe. solitae
(Decretali, I, 33,6) et de elec. signific. in fi. (Decretali, I, 6,4), et Petrus utrumque gladium
habuit. Unde disit, ecce duo gladii hic. Ideo etiam dominus domino rum, non sine causa, dixit
Petro: “Et ibi dabo claves regni caelorum” et no. non dixit claves, scilicet duas, unam quae
claudet, et aperiat, liget et solvet quoad spiritualia, aliam qua atatur, quoad temporalia. Licet hoc
verbum multis aliis modis exponatur, ut no. I, de poe. sub. rub.de remissionibus (Decretali
v.38), ad hoc I, per venerabilem rationibus (Decretali IV,17,13) XL. dist. c.1 (Decretum D.40,1),
21 dist. in novo (Decretum D.21,2), XX di. (Decretum D.20 Pref.) cum enim unum corpus
simus in Christo, pro monstro esset, quod duo capita haberemus, ut s.de off. ord. quoniam
(Decretali, I,31,14). Hoc etiam expressim innuitur 96 Dist. Constantinus (Decretum D.96,4) et
si dicas Constantinus non potuit illa concedere, respondebo, ergo nec populus potestatem sua
in principem transferre, quod tamen falsum esse constat; super quo vide quod no.s.de Constit.
quis possit, versi item populus et seq.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
più eleganti della dottrina curialistica, in posizione bilanciata, tra le posizioni di
Uguccio, Alano e Tancredi: la concezione teocratica della società cristiana, che
caratterizza anche l’effettiva realtà giuridica europea, oltre che la sola
speculazione dottrinale, postula quindi la collaborazione del Regnum, al fine di
realizzare in spiritualibus il compito della Chiesa e quindi la collaborazione di
quest’ultima nella realizzazione in temporalibus del compito civile; i due magna
luminaria dell’Ostiense divinamente istituiti a rischiarare, nel reciproco
concorso, il cammino degli homines viatores, ne danno una felice sintesi.
E’ necessario comunque puntualizzare la sua visione del concetto di
Imperatore, inserendola tra i vari punti di vista dominanti su tale questione,
tenendo conto anche dell’evoluzione della sua teoria dalla Summa alla Lectura.
Il concetto dell’Imperatore, signore del mondo, lo troviamo in taluni scrittori,
specialmente in alcuni civilisti, oltre che nei canonisti. L’eminente civilista
Odofredo, nel suo commento al rescritto di Giustiniano, che era premesso al
Digesto, afferma che il principe romano è chiamato Imperatore, perché
dovrebbe essere capace di governare come tale su tutti quelli che vivono sotto
la luce del sole 40.
Non era esplicitamente e chiaramente capace di dichiarare che
l’Imperatore eserciti questa autorità, ma pensa che egli sarebbe stato ben
capace di farlo. Più deciso, forse, appariva il Boncompagni; nella sua Rhetorica
Novissima del 1235 41 enumera varie forme sotto le quali l’Imperatore dovrebbe
essere avvicinato. In una, l’Imperatore è considerato come quella maestà
imperiale, che sotto la provvidenza di Dio, possiede la monarchia dell’intero
mondo; in un’altra, come l’Imperatore e l’Augusto, l’intero impero con le
redini per le quali la giustizia è mantenuta nel mondo ed alla quale il Signore
ha concesso il potere della spada temporale.
Queste frasi sono l’espressione della concezione tradizionale
dell’autorità imperiale di Roma e sono molto naturali in quegli uomini che
furono legalmente sottomessi all’Imperatore. In qualche cosa simile a questa,
40 Odofridus “Commentario sul Digesto”, Prima Cont., I, 7 (fol. 2,2a): “(Imperator)
Quia princepr Romanorum vocatur Imperator: quia ipse est qui omnibus
subsistentibus subsole debet posse imperare: et nemo sibi imperare potes quantum ad
temporalia”.
41 Boncompagni, “Rhetorica Novissima”, v. 4: “Quatuor exordiorum varietates quae
pro cnctis et sigulis volent coram imperatoria magistate preponi… Imperiali majestati
qua disponette domino totius orbis obtinet monarchiam… Romanorum Imperatori et
semper Augusto, qui orbem terrarum juris et justitiae freno contringit… Duae
varietates exordiorum quibus pauper uti valet coram imperatorum. Ad illum per quem
Reges regnant, justitiam conservatur in terris, et cui a Domino collata est potestas
gladii temporalis”.
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ALESSANDRO BUCCI
sono i termini usati di quando in quando nelle costituzioni imperiali. In una di
queste, Federico II parla di se stesso come di colui che è stato posto da Dio su
re e regni 42. Nel 1239 Federico II pubblicò l’enciclica protestando contro
l’azione di Gregorio IX nell’incitare i milanesi e gli altri nemici contro di lui.
Conclude l’enciclica indirizzata ai germani, scongiurandoli di ricordare la
grandezza e la dignità di quell’Impero per il quale furono invidiati da tutti le
nazioni ed in virtù del quale essi tennero la monarchia del mondo 43. E’ da
notare però che Federico II non usa questi termini nel testo della stessa
enciclica indirizzata ad Enrico III d’Inghilterra. Ora l’Ostiense, nella Summa
trattando la relazione dell’autorità imperiale con quella papale, mentre afferma
l’immensa superiorità di quella spirituale, poiché paragonata al potere
temporale, asserisce anche che l’Imperatore è signore del mondo ed ha tutte le
nazioni sotto di se 44. Tale affermazione non è certo occasionale, ed appunto
passando dalla Summa al Commentario, esprime praticamente lo stesso concetto
confermandolo pienamente 45.
In questo stesso passo della Lectura è condensata una parte notevole
del pensiero dell’Ostiense sul potere imperiale; altrove, nell’opera, ritorna sugli
argomenti qui trattati, ma forse in nessun altro capitolo come proprio nel
XXXIV tratta così diffusamente ed in modo così organico, la figura e talune
delle attribuzioni dell’Imperatore. Enrico, divide la decretale in cinque parti:
nella prima tratta del legato, nella seconda, con l’attirare a se i principi, porta la
farina al proprio molino, nella terza risponde all’obiezione dei principi, nella
quarta li ammonisce affinché allontanandosi dal principe Filippo, stiano
attaccati a Re Ottone, quindi si sforza di provare perché debbano far ciò in
quattro ragioni: tre spirituali ed una temporale, mentre nella quinta parte,
fornendo l’occasione di valersene, dà questo consiglio al Duca di Carinzia, al
quale è inviata la Decretale. In seguito, risponde all’obiezione dei principi sul
42 M.G.H., Const., vol. II, 197: “Gloriosus in majestate sua dominatium dominus qui
regna constituit et firmavit imperium… ad hoc nos supra reges et regna preposuit, et
in imperiali solio sublimavit”.
43 Id., vol. II, 224: “Exargat igitur invicta Germania, esurgite populi Germanorum.
Nostrum nobis defendatis imperium, per quod invidiam omnium nationum,
dignitatem omnium et mundi monarchiam obtineties”.
44 “Summa aurea”: “Qui filii sint legitimi”, 13… “Ipse (Imperator) est mundi dominis,
et omnes nationes sub eo sunt”.
45 “Lectura” X, “De electione” 1,6, c.34 venerabilem: Unus enim est imperator super
omnes reges, et omnes nationes sub eo sunt hanc si quis, ver, volumus (Gratiam
Decretum, c.XI. 1, 36,37). Etiam Judaei ut c.de Judaeis, Judaei (cod.I, 9,8). Et omnes
provinciae 63. Dist. Adrianus (Gratian, Decretum D. 63,2). Et demum omnia
temporalia ut VIII. Dist. qui iure (Gratian, Decretum, D. VIII, 1).
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
fatto che l’Imperatore Ottone deve essere approvato come re, mentre Filippo
va riprovato.
Veramente, la parte nella quale è posto il riconoscimento del
Pontefice, dice che spetta ai principi l’elezione del re che deve essere innalzato
ad Imperatore, quindi incomincia a rispondere alle varie obiezioni dei principi.
Essi sono gli Arcivescovi di Magonza, di Colonia, di Treviri, il conte
del Reno, il duca di Sassonia e di Brandeburgo. Settimo, dopo questi, viene il
Duca di Boemia, che in questo momento è re. Comunque non è necessario
fare ricorso a tutti questi se non nel caso che gli altri siano discordi. Tale
usanza non è d’altra parte molto antica, ma si verifica soltanto oggi. A questo
punto Enrico da Susa fissa un principio di vitale importanza nella sua visione
del potere imperiale: l’Imperatore è scelto dal popolo, ha la sua giurisdizione,
tuttavia, in altre parti, si dice anche che Dio pose questa legge sulla terra, come
è scritto nell’Authenticum; da ciò sono nati il sacerdozio e l’Impero che
derivano quindi da uno stesso principio, cioè Dio, come è scritto
nell’Authenticum, perciò le due giurisdizioni, temporale e spirituale, non
differiscono molto tra di loro: per tale ragione il popolo ha il diritto di
scegliersi il principe e scegliersi qualsiasi collegio pontificio che sia per lui il
preferito.
Tale diritto deriva da una ragione naturale e da un’antica consuetudine
a lungo ragionata e ponderata che attribuisce appunto tale potestà. Che tale
usanza sussista lo testimoniano i testi antichi ed il diritto di elevare il re ad
Imperatore spetta ai principi ed a Carlo, al quale è concessa la dignità del
principato.
L’Ostiense passa quindi ad esporre quello che è uno dei maggiori
argomenti sulla polemica politica del tempo: il fatto cioè, che quando la Chiesa
di Roma era oppressa da Astolfo, re dei Longobardi, chiese aiuto a Costantino
ed a suo figlio Leone, Imperatore di Costantinopoli, e poiché questi non
volevano difendere la Chiesa, il Papa Stefano, romano di nazionalità, trasferì il
potere a Carlo Magno, figlio di Pipino il Breve, che il predecessore Zaccaria
aveva sostituito al re dei Franchi Hilderico, che egli aveva deposto: ciò
avvenne l’anno del Signore 776, - trascorsi da questo episodio quindici anni,
Carlo fu incoronato dal Papa Leone III.
Il regno del mondo fu così trasferito ai Teutoni, che hanno il
comando della Romana Chiesa, ed in tal modo appare che l’Impero non è
affatto presso i Greci, quindi impropriamente è chiamato per tale fatto, con
questo appellativo, l’Imperatore di Costantinopoli. In tal modo risulta che il re
dei Franchi, chiunque esso sia, è padrone delle cose di questo. Ciò si verifica
anche nei riguardi del re d’Inghilterra Riccardo, il rustico inglese abitante nelle
foreste. E coloro che hanno il governo della Chiesa di Roma, solo a questi
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ALESSANDRO BUCCI
propriamente, può essere conferito il titolo di re, poiché non vi è potestà fuori
della Chiesa.
Uno solo infatti è l’Imperatore, sopra tutti i re, ed ha tutte le nazioni
sotto di sé, anche i Giudei, nonché tutte le province ed ogni altra cosa
temporale. Tali concetti, come esposto più sopra, l’Ostiense li aveva ribaditi
anche nella Summa e qui, nella Lectura, essi appaiono maggiormente estesi e
puntualizzati, come è comprensibile nel seguito del capitolo. Il Pontefice ha
concesso al Vescovo d’Ostia il diritto d’unzione, e ciò costituisce un privilegio
di antica data.
Ora Enrico da Susa illustra quello che è il suo concetto riguardo alla
consacrazione, rispondendo così alle obiezioni mosse dai principi elettori: egli
recisamente afferma che per quanto riguarda il Pontefice, la questione si pone
impropriamente, in quanto il Papa ha la superiorità assoluta mentre la
consacrazione riguarda in particolare il Vescovo e l’unzione i Re. Tale unzione
dei regnanti è privilegio del Vescovo di Colonia, mentre la consacrazione
appartiene appunto a quello d’Ostia; l’incoronazione poi avviene attraverso
l’autorità papale. Quindi le incoronazioni sono praticamente due: una che
almeno nel nome è una unzione legale ed avviene ad Aquisgrana, mentre
l’altra ha luogo a Roma. Per consuetudine generale approvata e lungamente
considerata, avviene che l’autorità pontificia, poi, compie l’esame della persona
da incoronare con possibilità d’indagare sui meriti e sulla vita senza escludere
quindi eventuali eccezioni o mancanze. Tale indagine è necessaria perché
nell’unzione che precede l’incoronazione avviene l’imposizione delle mani,
equivalente all’attribuzione dell’autorità; nell’incoronazione poi si dà la
confermazione per la quale anche tale esame è necessario.
Nei paragrafi che seguono, l’Ostiense fornisce precise istruzioni per
tutte le contestazioni, i casi dubbi e le norme in genere per l’incoronazione. E’
preciso, conciso ed esatto; talvolta, per una migliore comprensione del suo
pensiero, adotta circonlocuzioni e forme interrogative che possono sembrare
forse un po’ retoriche. Ma l’effetto viene raggiunto senza che lo si possa
tacciare di prolissità o di desiderio di far eccessivo sfoggio di quell’erudizione
che possedeva in maniera cospicua.
Continua dunque, chiedendo che cosa accada qualora qualcuno
fornisca la prova di qualche grave crimine che era stato nascosto. E’
opportuno ascoltare in tal caso colui che pone l’eccezione. Come deve fare
l’abate che deve essere benedetto ed esaminato, così quando gli venga fatta
“manus impositio”, questo è il momento per eccepire quali cose riguardi
l’accusa. E’ da notare, però, che qualunque abate che riceva nella benedizione
la pienezza della carica, non riceve tuttavia la confermazione, cioè l’autorità di
amministrare nelle cose temporali, poiché l’ha ricevuta nella cerimonia
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
precedente. Così l’Arcivescovo, nella confermazione, riceve il potere di
amministrare e ricevere ciò che gli è stato trasmesso nella vestizione, cioè la
pienezza della missione, riguardo l’autorità e l’uso del manto e quello poi che
deve attenere alle cose spirituali. E’ tuttavia meglio dire che la pienezza del
potere si assume in virtù della confermazione. Diversamente da quello che
avviene per l’Arcivescovo, il quale se è stato confermato tuttavia riceve la
pienezza dell’ufficio solo al momento dell’investitura.
Per l’Imperatore, invece, è necessario esaminare se sia “legitima
persona” secondo il diritto canonico. E’ infatti di vitale importanza
considerare se un sacrilegio impedisca che venga innalzato da re ad
Imperatore, poiché ci sono moltissimi crimini riguardanti la Chiesa e la
famiglia che costituiscono cause d’indegnità, in quanto scacciano chi li compie
della famiglia e dalle cose sacre.
L’Ostiense, dopo questa elencazione ed illustrazione di precetti che
devono essere osservati nell’elezione imperiale, risponde, anzi, per meglio dire,
continua a rispondere alle obiezioni dei principi. Veniva infatti affermato che
l’investitura di Ottone, pur essendo stato eletto secondo la legge, ma essendo i
suoi elettori di un’altra parte rispetto a quelli che dovevano dargli la
preferenza, e per i demeriti del Principe, era quindi da considerarsi nulla.
A questo punto Enrico da Susa espone il nocciolo della questione
nella vertenza in corso affermando che non osta che pochi furono gli elettori
del re, e che per questo fatto fu appunto scelto dagli altri elettori un individuo
notoriamente scomunicato, per altre cose poi indegno, in quanto avevano
disprezzato quelli che dovevano essere gli altri elettori; costoro quindi furono
ingiustamente trascurati, e poiché quelli erano molti, disprezzarono gli altri che
avrebbero avuto il diritto di eleggere l’Imperatore ed eleggendo essi stessi
Ottone, secondo il diritto canonico, procedettero falsamente. Da ciò si può
comprendere che avvennero, quindi, due elezioni, in quanto ad Aquisgrana
Ottone ricevette la corona dall’Arcivescovo di Colonia nonché l’unzione ed è
perciò ricordato come re.
Ora, prosegue l’Ostiense, bisogna considerare che il luogo dove
avvenne l’unzione, sia l’incoronazione e la persona dalla quale queste cose
devono essere ricevute. Non è secondo dritto, se venga nominato re
mancando l’unzione episcopale, anche se è nel possesso del regno e cinge la
corona; ora Filippo fu incoronato ed imposto dall’Arcivescovo di Taranto,
come si legge, ma l’autorità Papale nominò Ottone, e non Filippo. Il Papa
infatti può favorire qualcuno in un contrasto a chi sia nel peccato. Dopo
l’ammonizione, costoro si scusino dei loro eccessi, se è possibile si accordino e
siano perciò disposti ad una maggiore amicizia; comunque va favorito soltanto
l’eletto, non quello che ha diritto all’elezione. Cosa avviene se non compare o
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ALESSANDRO BUCCI
non può comparire chi di quei due che ha appunto il diritto all’elezione? E’ da
giudicarsi più degno di favore chi è approvato dall’assenso dei più ed aiutato
da meriti maggiori. Le parti contendenti, poi, possono essere costrette ad un
accordo per un patto sopravvenuto fra i principi mentre sia pendente la
vertenza ed ancora si attenda il risultato dell’elezione, così in tal caso chi dà il
consenso ad uno, può modificare la propria volontà e concederlo ad un altro,
poiché non tanto alla collegialità, quanto ai singoli, spetta il diritto di questa
scelta, diritto che compete ai principi come ai laici che, come si vede, possono
variare nella rappresentanza. L’Ostiense a questo punto pone alcuni dei suoi
principi sui doveri dell’Imperatore nei riguardi della Chiesa ed alcune potestà
basilari conferite al Pontefice, approfittando anche, per puntualizzare il suo
pensiero, sulla natura di alcuni rapporti tra Stato e Chiesa.
I principi ed i concetti che Enrico qui espone non sono per inciso o in
maniera saltuaria, ma costituiscono un’argomentazione organica del suo
pensiero in proposito e sono definiti con chiarezza ed esattezza. A tal
proposito, continua, dichiarando che l’Imperatore deve difendere la Chiesa ed
esaltare il Divino Pontefice, paragonandolo al tutore onorario che difende gli
altri dalle vessazioni. Se poi gli elettori sono negligenti e non eleggono
l’Imperatore, lo elegge il Papa. Se molti sono gli elettori, il compito del
Pontefice è udire e determinare, e se uno dei prescelti è in contumacia, può
procedere in sua assenza. Se le pretese delle varie persone sono uguali, egli in
tal caso, può decidere come ritiene più opportuno. E’ il caso di notare, a
questo proposito, che tale interpretazione dell’Ostiense è un po’ più larga della
ben nota lettera decretale di Innocenzo III, ed è senza dubbio basata su
Innocenzo IV.
Alcuni di questi giudizi sono riferiti al solo Imperatore, ma altri hanno
un significato più generale e sarà bene, per ottenere una valutazione più
precisa, riguardare i suoi pensieri a proposito, volta per volta, seguendo
l’argomento specifico. I sudditi quindi, riprende l’Ostiense, vadano insieme al
re approvato e si allontanino da quell’altro. Infatti il Papa annullò qualsiasi
cosa fatta da Filippo imperatore, ma non confermò l’elezione di Ottone,
tuttavia i suoi sudditi devono considerarlo come re e valida pertanto la corona
ricevuta ad Aquisgrana dall’Arcivescovo di Colonia.
Secondo l’opinione più antica l’Imperatore può essere deposto per
qualsiasi peccato mortale, purché ciò avvenga per cause gravi ed incorreggibili,
specialmente quando venga dato scandalo alla Chiesa universale. Se infatti il
Papa Zaccaria depose dal Regno il Re dei Franchi (che non aveva ricevuto dal
Romano Pontefice la corona, né era stato da lui nominato né approvato), lo
fece non tanto per le sue iniquità quanto per lui stesso, poiché era inutile per
tanta potestà e lo sostituì appunto con un altro.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
Se l’Imperatore palesemente manca di rispetto al potere della Chiesa
di Roma, ciò è sufficiente per scivolare verso l’eresia, indubbiamente, come se
violasse la fede, perché la Chiesa Romana è per lui Madre e Fede. E dice
Geremia che costui dà prova di essere eretico, non cattolico; e se nulla ha
attentato contro di essa, tuttavia sia stato scomunicato per un anno perché ha
trascurato di obbedirle, è ugualmente eretico. Enrico da Susa a tal punto, si
sofferma con delle parole bellissime sui doveri del Re, doveri che egli pone
come principi generali, oltre che come applicazioni del caso che va trattando.
E’ infatti compito dei re giudicare secondo giustizia, liberare gli
oppressi, evitare la violenza e che venga sparso sangue innocente. Infatti se i
Re osserveranno ciò, manterranno l’antico potere, altrimenti lo perderanno: né
merita di regnare chi si macchia del peccato di spergiuro. Se ci sforziamo di
mettere insieme i vari aspetti della teoria dell’Ostiense in relazione al potere
temporale e spirituale, la prima cosa che ci sembra ovvia è che egli continua il
metodo di Innocenzo IV, cioè estrae tutto il significato possibile dalle frasi
usate da Innocenzo III allargandole in principi generali più vasti.
E’ ben chiaro, secondo il suo pensiero, che il potere secolare è divino
per origini e natura. Non c’è traccia di supposta concezione che l’autorità
secolare fosse per sua natura cattiva; mentre la riteneva derivante da Dio, ed
era chiaro che non solo era inferiore al potere spirituale quanto a dignità, ma
che era derivata da Dio per tramite appunto del potere della Chiesa. Poiché
entrambe le spade appartengono al Papa, ed è da lui che gli Imperatori ed i Re
ottengono la spada temporale, così il Papa mantiene il diritto di reclamare
l’autorità diretta, persino in questioni temporali, in virtù della “plenitudo
potestatis”, che ha come Vicario di Cristo, in casi come la mancanza
dell’Imperatore o dei Re eletti o l’incompetenza e il difetto di giurisdizione nei
governanti, ed in tutti i casi di peccato. Questi principi sono validi per tutte le
società politiche, ma egli guarda all’Impero come appunto all’Ente più
strettamente subordinato al Papato. Tiene fermo il principio che il Pontefice
ha il diritto di giudicare e decidere tutti i casi di elezioni controverse e, mentre
in realtà egli non dice che l’Imperatore era vassallo del Papa, afferma che
quello può appropriatamente essere chiamato “officialis” o “Vicario della S.
Sede”.
L’Ostiense in molte occasioni puntualizza i limiti, la figura e gli
attributi dell’Imperatore, sia come tale che in contrapposizione al Pontefice.
Nel commento alla “Dilecto filio” 46 infatti, afferma:
46 “Dilecto filio” cap.10 L.I, de officio archidiaconi. “Lectura” X.
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Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

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ALESSANDRO BUCCI
“Per la qual cosa l’Imperatore è detto Signore del Mondo e
questo privilegio sembra sia esteso ai Re, tuttavia può
comprendersi soltanto riguardo agli Imperatori ed ai Re Romani.
Né osta il fatto che si parli a volte al plurale, a volte al singolare,
poiché quando si usa la forma plurale si considerano quelli passati
e futuri e le leggi dei medesimi, quando si parla al singolare si
considera soltanto colui che è a capo, in tal modo quando diciamo
“i Pontefici Romani” è come dire il Pontefice Romano”.
Si parla infatti al plurale perché una volta vi furono due diversi
Imperatori che regnavano insieme e a volte ne comandavano anche tre. Come
si vede, l’Ostiense oltre alla definizione viene anche a chiarire il significato nel
senso letterale della parola pur se non si sofferma ad illustrarne gli attributi,
come invece fa nella Per Venerabilem 47. Per Enrico - l’Imperatore può molto
più nelle cose temporali che ha da Dio e perciò, purché si guardi dal peccato,
può disporre di quelle come gli piace, potendo quindi anche donare la cosa
altrui.
Può anche legittimare con l’intenzione di compiere una donazione,
cioè ammettere l’illegittimo come legittimo all’eredità temporale, per mezzo
della costituzione generale o speciale de Papa, poiché ciò è dovuto
dall’Autorità Pontificia in virtù della sua missione, non deve essere negato a
chi lo chiede, e questo spetta nel suo ufficio anche per le cose temporali, come
è detto nel “Deuteronomio”-.
Appare chiaro che per quanto riguarda i rapporti tra le “duae
supremae potestates”, si rileva viva e pressante, sia da parte canonista quanto
civilistica, la preoccupazione di puntualizzare e rendere concrete e precise
esigenze politiche. Da ciò la tendenza a volte assai marcata delle rispettive
costruzioni dottrinarie ad influire dinamicamente, ciascuna dal suo canto, sul
modo d’essere della realtà sociale e normativa, quindi se da un lato la tendenza
aulica tende ad attuare la concezione laicizzante (almeno per i tempi) della
“Dependentia aeque principalis a Deo” di ambedue le potestà… “Cum Papa
et imperator aeque principaliter sunt instituti a Deo, statutum unius non tolli
per statutum alterius” 48, dall’altra la tendenza curialistica propende a realizzare
l’idea teocratico-jerocratica della superordiazione diretta della “Sacerdotium”
sull’ “Imperium”, “imperator a Papa ut Vicario Christi”, per cui Enrico da
Susa dichiara che pur nel presupposto della competenza della “lex imperialis”
47 “Lectura”, IV, 17, c.13. “Per Venerabilem”.
48 Cino da Pistoia, Lectura super Codicem, in Auth. glossa, de episc. et cler., 1,3.
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
“Apostolus tatem et Apostolicus superior est, ergo costitutio sua, tamquam a
superiore facta, tolleret primam” 49.
In tutti i casi bisogna osservare che considerando come antesignano
della concezione dualistica Uguccione da Pisa 50, Enrico non ne condivide in
via teorica i principi e le soluzioni, per quanto abbandoni almeno in parte tale
posizione in via di attuazione pratica delle soluzioni dottrinarie.
Nel paragrafo 1, al cap. “Causam” della “Lectura”, a tal proposito è
esplicito e preciso, quando dichiara che la giurisdizione temporale e quella
della Chiesa di Roma sono distinte e divise l’una dall’altra, né il giudice
secolare può intromettersi in cose spirituali, né il giudice spirituali nelle cose
secolari, e ciò perché il Papa deriva il potere da Dio, come l’Imperatore deriva
anch’esso il potere da Nostro Signore. Il Signore dal cielo costituì l’Impero e
mandò il Papa e l’Imperatore affinché con la loro giurisdizione fossero legge
animata in terra, ciascuno nella propria sfera di competenza.
Il Pontefice non ha l’una né l’altra giurisdizione, per cui non può
intromettersi riguardo all’eredità e alle altre cose temporali. Uguccio ha detto
che il Papa ha ricevuto da Dio la potestà solo per ciò che riguarda le cose
spirituali, mentre l’Imperatore l’ha ricevuta per le cose temporali, né vi si
inserisce in questo la spada del Papa, anche se l’autorità è di derivazione
divina. Leggiamo poi che vi fu prima l’Impero che l’Apostolato, ed anche per
questa opinione le giurisdizioni furono divise e distinte, e vi sono perciò due
vicari di Dio sulla terra, uno nelle cose spirituali, l’altro in quelle temporali.
Alano e Tancredi, al contrario, dicono che il comando deriva bensì
all’Imperatore da Dio, ma egli riceve la spada per eseguire il comando dalla
Chiesa. La Chiesa è appunto una sola ed è un solo corpo, perciò vi è soltanto
un Vicario, né un sol corpo avrà due teste come un mostro, e per tale ragione
il Signore usò insieme dell’una e dell’altra spada. Ed il Papa, quindi, approva e
disapprova l’Imperatore ed attribuisce a lui l’autorità. L’Ostiense tiene però a
precisare che il Papa non deve intromettersi nelle cose temporali, mentre
l’Imperatore vi si intromette indistintamente perché da Dio ciò gli è stato
concesso “immediate”. Può darsi tuttavia che se la persona dell’Imperatore
eccede anche nelle cose temporali debba essere costretto dal Pontefice come
l’inferiore da un superiore.
L’Ostiense ha qui ribadito con maggior vigore ciò che aveva già
affermato nella “Summa” 51, quindi passa stabilire come lui stesso dice, “ciò
49 Lectura in cam. 5 cum secundum X de secondi nuptiis, 4,21, n.3.
50 “…Hug. dixit quod imperator a solo Deo habet poteste in temporalibus, papa vero
in spiritualibus et sic divisa est jurisdictio…” glossa ordinaria s.vv. ad regem, cap. 7 ad
causam X, qui fili sint legitimi 4,17.
51 “Summa aurea” loc. cit.
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ALESSANDRO BUCCI
che spetta regolarmente e principalmente alla Chiesa”. Ad essa tuttavia spetta
di giudicare interamente, conoscere della legittimazione e pronunciare, e
mentre questa questione è pendente non è permesso al giudice secolare di
procedere sopra la questione dell’eredità (si avrebbe infatti in questo caso una
pregiudiziale). Ora esaminando la causa di legittimazione, cosa avviene se colui
che era detto legittimo sia poi detto illegittimo e pertanto chiede ugualmente
l’eredità o altre cose che in quanto illegittimo non può ricevere, andando
contro colui che risultò vincitore nella causa di legittimazione?
a) Legittimazione
In materia di filiazione, dai primi tentativi canonistici di ampliare i
poteri pontifici di legittimazione, non solo in “spiritualibus”, o in
“temporalibus” nelle terre della Chiesa, ma anche in “temporalibus” nelle terre
dell’Impero (o riprendendo l’argomento a fortiori già avanzato nella supplica
del signore Montpellier e non accolto da Innocenzo nella “Per Venerabilem”
in “temporalibus” della Pontificia “legitimatio in temporalibus”; o ripiegando
sulla nozione di una legittimazione in “temporalibus” parziale: “quo ad
honores non tamen quoad successionem”), con Enrico da Susa si arriva alla
tesi radicale che, con un argomento a fortiori ben più rigorosamente costruito
(“… si ergo Papa de legitimis potest facere illegitimos, quanto magis poteri
legitimare…”), proclama in fatto di legittimazione dei figli naturali la
competenza ordinaria ed esclusiva del Pontefice: “… et dicas quod solus papa
habet potestatem legitimandi, non solum per quandam consequentiam… sed
proprie et immediate, ita quod nullus alius hanc potestatem habet” 52.
Il commento alla “Per Venerabilem”, illustra ampiamente, in quasi
tutto il suo contesto, la posizione avanzata di Enrico, che fin dall’inizio pone
la ragione che comprova che il Papa ha la potestà di legittimare anche per ciò
che riguarda le cose temporali. A volte avviene per necessità o utilità della
Chiesa, o per prerogativa delle persone. Vi è un argomento per cui il Papa non
può dispensare senza causa: perché è un uomo e può peccare come un altro,
ma in questo mondo non può e non deve essere giudicato da nessuno. Tutti i
figli generati da una donna vengono detti naturali: perché sono stati generati
dai loro padri, ad eccezione di quelli adottivi e spirituali. Ma proprio in ispecial
modo, i nati da concubine sono chiamati naturali, e ciò si dice anche per i
sacerdotali, essendo questi sposi della Chiesa, pertanto sono detti adulterini ed
52 “Lectura” per Venerabilem – loc.cit. vv. n.8 per l’esclusione del potere imperiale vv.
9 e 10.
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
anche se siano promossi al grado di Vescovi, rimane loro tale nome, ma in tal
caso vengono appunto dispensati per i meriti.
Per questa causa, poi, anche i nati da adulterio che è ovvio che non
possono essere legittimati, tuttavia, sono ammessi come legittimi. Chi può far
Vescovo un illegittimo, può, a maggior ragione, renderlo erede. Tale seconda
qualità è infatti incommensurabilmente meno elevata della prima, come per il
caso dei Vescovi. Nessuno infatti è veramente legittimo, se non colui che è
legittimato dal Pontefice, o la cui legittimazione è da costui approvata. Se il
Papa, infatti, può usare di questa potestà nelle cose spirituali legittimando
qualcuno, a maggio ragione ne può usare nelle cose temporali che sono di
ordine assai inferiore. Le cose spirituali sono maggiori e più importanti, perciò
si deve agire in esse più prudentemente.
Se la dignità episcopale, in ragione della forza spirituale può sciogliere
vincoli naturali, che dovrebbero rimanere saldi, a maggior ragione può
sciogliere vincoli di carattere meramente civile, quale quello che annoda
l’illegittimo allontanato dalla successione. E’ certamente molto più difficile
creare un Vescovo che un erede. Il Papa, poi, può fare molto più di un
semplice Vescovo, perché ha maggior potestà.
Riporta qui, l’Ostiense, le notissime opinioni di Alano Anglico e di
Tancredi di Bologna, per i quali il Papa può legittimare quanto agli atti
legittimi, ma non anche quanto alla successione “in temporalibus”. Ricorda
ancora l’opinione di Goffredo da Trani e quindi esprime la sua, favorevole ai
più lati poteri pontifici. Prosegue, Enrico da Susa, riportando le opinioni
discordanti di Tancredi e di Giovanni (probabilmente di Galles), a proposito
della estensione dei poteri pontifici di legittimazione del patrimonio di San
Pietro, rivendicati da Innocenzo III nella decretale.
Mentre Tancredi appone la parola “patrimonio” la glossa “Tantum”, e
cioè sostiene che il Papa possa legittimare i figli naturali soltanto nel
patrimonio di San Pietro, Giovanni appone invece la glossa “Maxime”, con il
che vuol dire che il Pontefice, può esercitare il potere di cui trattasi,
specialmente nelle sue terre, senza che per altro sia preclusa la sua potestà nei
territori dell’Impero. L’Ostiense si accosta a questa seconda opinione: “hoc
admitto”, ma non fa che prenderne le mosse per superare decisamente gli
schermi tradizionali, affermando una potestà esclusiva in materia, del
Pontefice Romano. Infatti, secondo la legge divina ed umana, i figli di due
fratelli vengono uniti in matrimonio in maniera lecita e pertanto secondo l’una
e l’altra delle leggi, i figli nati da tale matrimonio sono legittimi, se non osti la
proibizione del Pontefice. Se dunque il Papa da legittimi può renderli
illegittimi, maggiormente potrà legittimare gli illegittimi.
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Ma l’Imperatore, che è primo fra i principi, non può né legittimare, né
promulgare sopra questa costituzione, poiché ciò esula dal suo foro; infatti
oggi i matrimoni avvengono “de jure poli et non de jure fori”.
La questione, come è chiaro, si ricolloca direttamente a quelle dei
rapporti di giurisdizione fra le “duae supremae potestates”, in particolare ai
poteri pontifici giurisdizionali “in temporalibus”. Il problema stava
nell’accertare quali interferenze pontificie “in temporalibus” fossero consentite
alla superiore ripartizione delle competenze tra i due poteri, ricollegabili al
principio evangelico “reddite Caesari quae Caesaris et Deo quae dei sunt”.
b) Scomunica
Si può quindi analizzare, introdotto dalle argomentazioni precedenti, il
provvedimento ecclesiastico di scomunica, da guardare, per quanto riguarda
l’Ostiense, non tanto sul piano della speciale intensità del sentimento religioso
nel particolare periodo della società medioevale contemporanea, quanto sulla
sorte giuridica ulteriore del provvedimento ecclesiastico di scomunica, il quale
non esauriva la nuova funzione nel fatto di disporre il peccatore dalla
partecipazione ai sacramenti o anche il suo allontanamento dalla Chiesa
universale, ma metteva in moto tutta una serie di altri mezzi di pressione e di
coercizione volti a ridurre il colpevole all’obbedienza.
Quello che interessa, comunque, di tale procedura, è il fatto che oltre
a tali strumenti di pressione, innanzitutto spirituali, tendenti per proprio scopo
immediato a determinare il pentimento nel soggetto, quali l’ “anathema”,
l’“aggravio” o la cosiddetta “excomunicatio indirecta” dei soggetti già
scomunicati, analoga alla “excomunicatio indirecta” dei soggetti non
scomunicabili, esistono anche strumenti da usarsi in stretta connessione con il
foro esterno, secolare. Ed il punto importante è proprio questo, cioè quella
inscindibile unità del “populus christianus”, alla cui guida, entrambe istituite
dal Creatore e legate da una “amicitia vivissimo fortissima” intimamente
coordinate come sono, al perseguimento di uno stesso scopo ultimo,
concorrono l’autorità civile e quella ecclesiastica “neutra ab altera pendens sed
se ad invicem adjuvantis”: punto di forza, si può dire, di ogni dottrina politica
dell’età di mezzo e punto fermo della realtà giuridica del tempo, postulante, in
linea di principio che all’esclusione “per ecclesiasticam districtionem” del
peccatore pertinace dalla vita associata religiosa, valevole per tutto l’ambito
della cristinianità 53, si accompagnasse la correlativa esclusione del ribelle
53 “…nam excommunicatus apud unam ecclesiam, excommunicatus intelligitur apud
omnes… quilibet enim episcopus servare et publicare et facere servari debet
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
“principali vel judiciali authoritate”, dalla partecipazione della vita associata
civile.
Sarebbe sopravvenuta, altrimenti, una situazione di squilibrio e di
scissione inammissibile nell’ambito di una “eadem societas”: “item”, si
arrivava a dire, “quis dicitur non civiliste seu per excommunicationem” 54. E
faceva sì che alla pressione ecclesiastica esercitata sul soggetto, affinché si
correggesse o desse pubblica prova almeno il ravvedimento, si aggiungesse
con la sua forza materiale, l’ausilio del braccio secolare, il cui intervento a
garanzia della missione ecclesiastica, sollecitavano, anzi, vivamente richiesto
dalla Sacra Gerarchia. Questa rappresentanza quale dovere di coscienza e di
diritto divino positivo del principe e del giudice civili, esercitata essa stessa
“per censuras ecclesiasticas” 55, costituirà, fino a tempi assai vicini ai nostri, la
caratteristica prima dello stato cosiddetto confessionale: “potestas quodem
terrena est quasi quoddam organum et quidem mantellus potestatis
ecclesiastice” 56.
L’intromissione nelle faccende della Chiesa del giudice civile non
comporta l’esercizio da parte di quest’ultimo di un potere d’ingerenza “in
rebus ecclesiasticis”, ma è manifestazione, e ciò i canonisti tengono a ripeterlo,
del dovere di “praebere auxilium”, espressione del più generale dovere
sententiam sibi ab alio episcopo liberatorie declaratam… sede t in omnibus debet se
episcopi ad invicem adiuvare”. Ostiense, “Lectura” in c.8 ad rerimendam X. de officio
judicis ordinarii 1,31.
54 P. Ungaro, I Notabili di Paolo Ungaro, canonista bolognese del sec. XIII, Roma, ed. Dénes,
1944, p.63, tit. XII, c. per venerabilem
55 La questione su cui la canonistica ritorna spessissimo, della correzione e coercizione
“per distrinctionem ecclesiasticam” del giudice secolare “qui negligit facere justitiam”
appare riferita anche al caso del giudice civile che trascuri di decidere questioni
sottoposte al suo giudizio: e qui si configurava un potere del giudice ecclesiastico di
sostituirsi al suo collega secolare “…item judet ecclesiasticus potest compellere
secularem ut faciat justitiam etiam in causa propria, quod est note dignum, item ob
negligentiam secularis devolvitur jurisdictio ad ecclesiasticum”. (gl. di Paolo Ungaro in
Comp. II 2,4,2).
56 Egidio Romano, De ecclesiastica potestate III, 4 ed. Scholz p. 163. L’enunciazione più
completa della strumentalità istituzionale del potere civile rispetto al compito
ecclesiastico è quella derivata da Bernardo di Chiaravalle e contenuta nella Bolla
“Unam sanctam” di Papa Caetani: “uterque ergo est in potestate ecclesae, spiritualis
scilicet gladius et materialis, sedi s quidem pro ecclesia, ille vero ab ecclesia
esercendum, ille sacerdotis, is manu regnum et militum, sed ad mutua et patientiam
sacerdotis” gl. ord. s. vers. uterque ergo est: “…reges ergo et principes, videntes per
signa haec expedire ecclesiae, debent contra rebelles et inoboedientes materialiem
gladium exercere”.
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ministeriale di “defendere ecclesiam”. Carattere questo dell’intervento secolare
che è espresso chiaramente dall’Ostiense ad esempio nel commento alla
decretale “Perniciosam” 57.
Enrico è esplicito nel dichiarare che infatti un potere ha bisogno
sempre dell’altro, quindi sono tenuti ad aiutarsi vicendevolmente; perciò i
vescovi ed i principi si diano scambievolmente aiuto nel bene e nel male. Vi
sarebbe, però, questa differenza: il giudice secolare può essere costretto a
prestare aiuto mediante il giudice ecclesiastico, ma non così avviene per
quest’ultimo. Il motivo è chiaro: perché il giudice secolare è inferiore all’altro,
per cui non ha potestà verso quello che gli è superiore.
Vi è poi una seconda differenza: perché il secolare non ha il potere di
esaminare il processo dell’ecclesiastico. Dunque mai l’ecclesiastico
scomunicherà su richiesta del secolare ed a ciò non può prodigarsi, se non per
una causa ragionevole ed osservata, la forma canonica. Se poi il giudice ritenga
che qualcuno sia da scomunicare per un motivo ragionevole, sarà ascoltato.
Però ciò è da disapprovare dicendo che né l’ecclesiastico scomunicherà i
condannati secolari, né il secolare condannerà gli scomunicati ecclesiastici,
quantunque però l’ecclesiastico debba evitare i condannati; nelle prediche, poi,
persuaderà il popolo perché li eviti, soprattutto coloro che sono stati
scomunicati dalla Chiesa, mentre il secolare, secondo il precetto della Chiesa,
può e deve allontanare lo scomunicato.
E d’altro canto, l’ecclesiastico deve scomunicare i proscritti ed i ribelli
secolari, secondo appunto l’ordine del giudice secolare. Quest’altra cosa è poi
certa: che l’uno e l’altro sono da evitare, sia lo scomunicato che il proscritto,
come i banditi, ed a nessuno di essi i vassalli sono obbligati, finché non
vengono restituiti dalla Chiesa o dal Re, come dice anche il libro feudale, ai
loro diritti, sia secolari che spirituali.
Ed invero è necessario il potere secolare alla Chiesa, mentre il potere
secolare ha bisogno della scienza ecclesiastica: infatti per ciò che riguarda la
potenza secolare, il giudice ecclesiastico è per lo più come un paralitico, per
quel che riguarda la scienza ecclesiastica, invece, il laico è quasi come un
demente. Per cui se le due autorità vogliono procedere rettamente, la spirituale
sarà sempre prima, e come un cero che arde e illumina, deve andare avanti; poi
per trattenere il ribelle, come un maglio, seguirà l’autorità secolare.
Ma oggi, in molti luoghi, il cieco è condotto da un altro cieco, perché
l’autorità spirituale né forma, né corregge, ed il secolare preferisce i deboli ed i
malati, occupandosi indistintamente anche dei diritti ecclesiastici. Ed è
necessario, a questo riguardo, avere molto timore ed esercitare molta
57 “Lectura” X, L. I, cap. I, tit. “de officio judicis ordinarii”.
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
prudenza. E così un vescovo deve approvare la sentenza di un altro, e renderla
nota nel caso che non sappia però che quella forse è ingiusta, essendo suo
dovere infatti aiutarlo solamente nel bene.
L’ausilio del braccio secolare non comporta un pregiudizio della
giurisdizione ecclesiastica. Con immagine felice l’Ostiense compendia il suo
pensiero dicendo che il giudice ecclesiastico così si rivolge a quello secolare:
“noi vi interpelliamo, non perché abbiate diritto a questa cosa, o in tale
circostanza, ma perché ci offriate aiuto”. Né si ha alcuna duplicazione di
giurisdizione. Infatti il vescovo procede per quel che riguarda la pena
spirituale, cioè la penitenza e la correzione dei peccatori, mentre il giudice
secolare per quel che riguarda la pena corporale, cioè temporale.
Altro argomento sul quale si esercitano le facoltà costruttive
dell’Ostiense è quello, assai dibattuto nei secoli dei quali ci occupiamo, della
“correctio de jure canonico” del diritto secolare contrastante con la “ratio
aequitatis” o nutritivo di peccato.
È necessario ricordare, innanzi tutto, come i canonisti non
distinguessero sempre, con la necessaria precisione, “in temporalibus rebus”,
le ingerenze correttive alle quali addiveniva la potestà ecclesiastica nella sua
qualità “propria et vera” di autorità religiosa investita del governo spirituale
della “societas hominum viatorum”, da quegli interventi in cui essa si
produceva nella veste di Autorità secolare proposta al reggimento temporale
di dati territori.
È appena il caso di notare, infatti, che si tratta di fenomeni giuridici
affatto eterogenei, fondati su presupposti dogmatici diversi, nonché operanti
entro diversi limiti.
Di questi possiamo considerare attinenti al compito ecclesiastico
solamente il primo, essendo l’altro, espressione di un compito civile. Solo il
primo, comportava una correzione vera e propria in dipendenza del sindacato
ecclesiastico della “rationabilitas” del suo contenuto normativo, del diritto
civile con effetto obiettivo e generale. Il secondo esauriva la propria rilevanza
nell’ambito territorialmente circoscritto entro il quale era data facoltà al
Pontefice di esercitare i due poteri.
Ma con la differenza, d’altra parte, che mentre tanto da parte
canonistica quanto civilistica non si aveva generalmente difficoltà a
riconoscere al Papa “tamquam princeps saecularis” un potere ordinario di
riforma “in terris Ecclesiae” delle leggi in materia temporale: “et ideo nulla est
oppositio” 58, al contrario non poteva essere configurata, se non come
58 Glossa ordinaria super verbis hoc occasione in cap. 1 conquestus, X qui filii sint
legitimi, 4,17.
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eccezionale, la potestà del Pontefice di “tollere leges” nelle cose temporali con
effetto generale. Il fatto è che nelle terre del patrimonio del Beato Pietro, nelle
quali la sede apostolica “et summi Pontificis authoritatem exercet et summi
Principis exequatur potestatem”, il Papa non aveva bisogno di giustificare i
suoi interventi “in temporalibus rebus”, altrimenti che come manifestazioni
dirette del proprio principato secolare.
In esse, il fenomeno della necessaria correzione del diritto civile in
quei punti dove contrastava con la “ratio juris naturalis”, correzione a cui il
Pontefice Romano era a maggior ragione legato più di qualsiasi altro
potentato, e quella dell’opportuna integrazione dello stesso in quegli altri punti
dove veniva giudicato lacunoso rispetto alle esigenze del diritto naturale, non
mostrava una propria indipendenza rispetto al fenomeno consueto della
benevolenza sul “jus commune” degli ordinamenti giuridici particolari.
Sotto l’aspetto formale, la questione si riduceva ad una semplice
circostanza di successione di leggi nel tempo: di prevalenza su una precedente
norma generale, di norme speciali successive emanate da una autorità
legislativa competente, nei casi occorsi, per materia e territorio.
A valutazioni parzialmente simili a queste, si può arrivare per ciò che
riguarda l’operatività del principio “lex cedit canoni”, nel foro ecclesiastico per
le terre estranee al patrimonio del Beato Pietro, ossia in quei luoghi “ubi
episcopus habet temporalem jurisdictionem et gerit vicem comitis”; ovvero in
quei casi in cui le controversie di natura temporale vengano a vertere “inter
ecclesiasticas personas” o comunque riguardo ad un convenuto chierico, ed in
genere nei casi in cui si faccia questione di foro privilegiato e di “tuitio
ecclesiae” su determinate persone o nei quali l’ecclesiastico intervenga come
arbitro “inter consensientes”.
Le maggiori difficoltà dogmatiche, sorgevano, invece, in quelle terre
che erano al di fuori del patrimonio di San Pietro: quelle terre che l’Ostiense
chiama “alia mundi partes”.
Dalla canonistica, per quanto concerne il potere pontificio di
“tollerare leges” in tali terre, si doveva invero superare una difficoltà
dommatica centrale singolarmente seria, la quale, si può dire, condizionava la
soluzione di qualunque altra connessa questione, sia pure di dettaglio: - come
ricondurre al ministero ecclesiastico gli interventi della Chiesa “in rebus
temporalibus”, sfocianti nella modificazione del diritto secolare nella sua
propria sfera di competenza ordinaria, senza sovvertire con ciò stesso il
sistema, superiormente instaurato, della “discretio officio rum utriusque
potestatis”, riconosciuto valido, non solo dalla dottrina moderata, di tradizione
gelasiana, ma anche, “respectu exercitii”, dalla canonistica di più spiccata
tendenza curialistica e dagli stessi polemisti di parte ierocratica.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
Al di fuori delle terre della Chiesa e al di fuori della sfera del foro
ecclesiastico, la questione non poteva non spostarsi dal piano della semplice
esegesi delle disposizioni normative chiesastiche, a quello della idoneità
formale delle stesse a operare in un settore di rapporti e d’interessi sottratto
“ratione materiae” al potere diretto del Romano Pontefice, ovvero in un
ambito soggettivo comprensivo di persone non sottoposte al potere temporale
della Chiesa.
Gli sforzi canonistici per superare tali difficoltà dogmatiche, si
esercitano nel senso di ricondurre la correzione delle leggi civili al compito
ecclesiastico “ratione aequitatis”, o meglio, “ratione peccati”.
Presupposto primo dell’intera costruzione canonistica dell’istituto
della correzione, con efficacia generale, dello “jus civile”, è che le attività
autoritarie nelle quali si sostanzia la giurisdizione secolare, non diversamente
da ogni altro comportamento individuale non indifferente sotto il profilo
morale, lungi dal costituire materie ecclesiasticamente irrilevanti, o comunque
sottrarre al sindacato prelatizio, presentano, esse stesse, un interesse
immediato in ordine ai fini propri della Chiesa:
− “ratione peccati”, in rapporto al bene spirituale dello stesso legislatore o
del giudice terreni “tamquam nomine viatores”;
− “ratione scandali”, in rapporto al danno spirituale che può derivare ai
consociati dall’esempio dei “mali pastores” e della stessa operatività
sociale di leggi o decisioni inique.
I “supremi moderatores civitatis” – questo l’insegnamento della
Chiesa – non possono pretendere, a cagione della propria posizione sociale
preminente, d’andar esenti dall’osservanza, al pari di tutti gli altri uomini, delle
regole morali generali e delle norme di ordine pubblico chiesastico. Essi anzi
sono soggetti ad un complesso d’altre regole morali e di diritto divino naturale
e positivo, della cui osservanza debbono del pari rendere ragione al Sacerdote,
che ad essi specificatamente s’indirizzano in considerazione proprio di quella
loro preminenza e autorità sociale.
Sulla base del quale presupposto era relativamente agevole ricondurre
al ministero ecclesiastico, di foro interno e di foro esterno, la prima delle due
fasi della “correctio”:
− in foro interno, operando sulla “coscientia” stessa del “princeps
saecularis”, colpevole d’avere introdotto leggi “contra Deum” o di
tollerarne la vigenza; lo stesso, anche se contrito, non poteva venire
scusato dal peccato se non dopo aver provveduto alla “satisfactio”
rimuovendo lo stato di fatto illecito;
− in foro esterno, proclamando, siccome esigenza ecclesiastica, l’urgenza di
eliminare le leggi inique, nell’interesse spirituale della “multitudo fidelium”
81
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ALESSANDRO BUCCI
ed in particolare del soggetto che presumesse di giovarsene nel proprio
illusorio tornaconto terreno.
È interesse giuridico della Chiesa, e pertanto compito di foro esterno
della Sacra Gerarchia, eliminare quelle situazioni normative che favoriscano il
peccato-delitto nell’ambito sociale.
In questo campo, appare molto rilevante l’apporto di Enrico da Susa,
del quale è nota la propensione ad una costruzione diremmo oggi
spiritualistica del diritto canonico e della funzione ecclesiastica.
c) Aequitas canonica
Notevolissimo, infatti, in Enrico da Susa, lo sforzo nel tentativo di
rendere evidente in ogni suo lavoro, quel carattere di spiritualità assoluta, che
deve essere il segno distintivo della dottrina canonistica e di tutto il diritto
della Chiesa 59. È quindi conveniente esaminare il concetto di “aequitas
canonica”, secondo l’Ostiense, considerata l’influenza che tale principio
doveva avere in tutto il suo pensiero. È necessario altresì cogliere lo spirito di
tale equità, anche per avere, infine, un quadro chiaro su come questo insigne
studioso puntualizzava il concetto del diritto della “res publica christiana 60”.
Fondamentale è il concetto di “periculum animae”, quindi la necessità di
evitarlo, che traspare in tutti gli aspetti del suo lavoro, non esclusi affatto quelli
che trattano questioni strettamente connesse ai rapporti tra Chiesa e Stato, sia
59 Questa tendenza è particolarmente accentuata nella Lectura, ed. Venezia 1581. Come
d’altra parte è possibile notare nelle critiche, a volte anche molto vive, che egli
indirizza ad Innocenzo IV, per quanto alcune manifestazioni ambigue sono rilevabili
nella “Summa” (ed. Venezia 1570), così nell’atteggiamento assunto sulla portata delle
decretali “Quum Secundum” et “Super illa”, X.IV.21, De secondi nuptiis 4,5). Questo
ragionamento vale in particolar modo per il diritto romano, delineando egli il carattere
sostanzialmente differente, nella sua spiritualità, del diritto canonico anche se quello
secolare o magari i suoi interpreti possono a volte insistere anch’essi su questo
elemento. (Si riferisce in particolare a Martino Gosia ed al Piacentino, attribuendo,
specialmente al primo, notevoli qualità spirituali – “Lectura in X.I.43 De arbitris, 9,
Per tuas, n.5, v. indistincte”).
60 È a questo proposito, soprattutto, che può esserci questione di sottilità, cioè di casi
di estensione di regole legali o di casi che si presentano in diritto canonico senza che ci
sia necessariamente pericolo di peccato; così in materia testamentaria,
nell’interpretazione del c. Rainuntius, 16,X,III,26. Tuttavia ci sono dei casi dove vi è
pericolo per le anime, e nei quali l’Ostiense parla ugualmente di sottilità, così nel suo
Commentario del c. Albericus 43 ib. egli riserva, peraltro in linea di massima tale
qualifica, ai casi visti in primo luogo.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
pure in forme talvolta approssimate 61; strettamente connesso a questo è poi il
concetto del peccato, da evitare assolutamente insieme alla necessità di
prevenire il “periculum animae”, e l’esaltazione dei valori spirituali del diritto,
superiori a tutti gli altri aspetti di quest’ultimo, sia esso ecclesiastico o civile.
Sarà bene così dividere la trattazione di questi principi, anzi per
meglio dire, aspetti di un unico concetto; quello appunto dell’esaltazione delle
virtù dello spirito nell’ambito delle leggi che regolano sia il diritto della Chiesa
che quello dello Stato. Leggiamo nel commento al c. Vigilanti, della “Lectura”:
“Nullum vinculum servandum est ex quo periculum animarum inducitur… 62”.
Questo passo è certo estremamente indicativo per affermare il pensiero di
Enrico, netto e categorico in materia di “periculum animae”, forse più degli
altri, che ricorrono spesso come questo: “Ubicumque vestitur periculum
animarum…”, certo meno efficace 63.
Anche la dottrina anteriore, naturalmente, aveva precisato questo
concetto, perché è troppo conforme allo spirito del diritto della Chiesa per
poter passare inosservato; tuttavia l’Ostiense questo principio assume una
preminenza ben difficile a negarsi, anche se non è ben chiaro se ciò accada per
i suoi tentativi di sistemazione e per l’effetto della sua concezione teologicomorale
del diritto 64; comunque sia è interessante notare alcuni lati di questo
principio, sia pure poco trattati da altri canonisti o addirittura negati. Tuttavia
per alcuni argomenti e per talune regole non c’è contrasto tra i canonisti che,
quindi, non si soffermano né in polemica né in distinzioni. Pertanto un fatto è
certo, senza entrare in elencazioni prolisse ed inutili, che nessuna sentenza
acquisterà valore di cosa giudicata, né l’appello sarà possibile e non avranno
valore né una legge, né un privilegio, né una consuetudine o una regola 65.
61 Che una unione diretta ci sia tra l’equità canonica ed il “periculum animae”, appare
formalmente nell’Ostiense: egli afferma: “…hancaequitam de jure naturae habent
sequi ubicumque agitur de periculo animarum – “Lectura” X,I,43, De arbitris, 9, Per
tuas. Ugualmente quando si pronuncia “contra quosdam legistos qui volunt regi duci
in ecclesiasticis, maxime in his in quibus vestitura periculum animae, suo sensu legum
subtilitatem aequitati canonum praeferents – ib. in X,II,20, De tertibus, 4, In omni.
62 Ib. in X,II,26. De prescriptionibus 5. Vigilanti n.7 v. placuerit: cfr., ibidem, in X,II,14,
De restit. spo. 18 Saepe, n. 8: “… Anima omnibus est praeferenda”.
63 Ib. in X,40, De his quae matu, I, Abbas, n.II; X,I,43 De Arbitris, 9, Per tuas, n.5,
v.indistincte, X.V.32, De operis novi nuntiatione, I, Intelleximus, v.imitari.
64 Cfr., su questo argomento, i precisi rilievi di L. Scavo Lombardo, Il concetto di buona
fede nel diritto canonico, Roma, 1944, p.124 ss.
65 “Summa aurea” De officio archidiaconi n.5; “Lectura” in X.III, 5 De praebendis, 30
Extirpandae n.2.
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ALESSANDRO BUCCI
Ma quando l’Ostiense, intende estendere queste assolute conseguenze
del “periculum animae” alle relazioni tra il diritto canonico ed il diritto
secolare, un certo numero di suoi contemporanei non condivide tale opinione.
Ciò non di meno, la posizione di Enrico da Susa resta ferma, e a
questo proposito ribadisce che le norme del diritto della Chiesa debbono
assolutamente prevalere sopra quelle disposizioni legali di diritto secolare che
contrastano con esse e dichiara: “…canones vincunt leges” 66 ed anche: “…si
ergo evidenter apparet laesione partis, et per consequens de peccato non est
standum legi, sed canone, etiam in foro civili” 67.
Non dobbiamo comunque considerare la posizione dell’Ostiense,
come rivoluzionaria rispetto a quello che era il mondo giuridico del suo
tempo, rispettoso delle regole del diritto secolare che godeva di una
importanza incontrastata; ma la sua intransigenza è limitata, eppure non per
questo meno decisa, alla considerazione appunto del problema del “periculum
animae” o anche 68 della “ratio peccati”, rifiutandosi su questo punto di
ammettere una preminenza, troppo facilmente accettata, della legislazione
romana secondo il suo punto di vista 69.
Pienamente d’accordo è invece Enrico con i suoi contemporanei, per
estendere in taluni casi alcune regole del diritto canonico al diritto secolare,
come in caso di matrimonio di servi 70 o in materia di sacramenti 71.
66 “Lectura” in X.I, 4, De Consuetudine II. Cum tanto, n. 2, v. Naturali; in X.I.14 De
aetate et qualitate praeficendorum, 14, Cum sit, n. 4; ibidem, 43, De arbitris, 2, Non
sine, n. 9; ibidem, III. 5. De praebendis 30, Extirpandae n. 2.
67 Ib. in X.I. 43, De arbitris, 2. Non sine, n.9.
68 La decretale “Novit” (X.II. 1,14) fornisce un argomento di notevole importanza su
questo punto.
69 “Lectura” X.II. 10. De ordine cognito rum, 2, Cum dilectus, v. rispondere, n.34
“…secundum d.n. cuius est mens totius glossae. Se in hac parte, sicut in multis aliis
articoli nimisvidetur fuisse civilis, nimis subtilis; quamvis enim praedicta in omnibus
civilibus questionibus locum habere possint, in spiritualibus tamen non est ite
subtiliter praecedendum, sed potius de bona fide agendum et animarum pericoli
obviandum…” Afferma poi al c. “Per venerabilem” X. IV. 13. “Qui filii sint legitimi
17, n.23… in omnibus dissensionibus magis est credendum legi canonicae, quam
dictis sanctorum vel magistrorum inter se in multis discrepantium”. Risponde poi ai
canonisti al c. “Perniciosam” I.X.I. De officio ordinarii, 31, n.10 v. fuerit “…sed hodie
in multis locis caecus a caeco ducitur, quia nec spiritualis intruit, et saecularis (gladius
aut malleus) debiles et imbecilles malleat indistincte, jura etiam ecclesiastica
occupando.”
70 “Lectura” X.IV. De coniugio servo rum, 9. Dignum, I. n.5 v. Inter servos.
71 Ibidem X.I. De arbitris, 43. Non sine, 2, n.4, v. Sacramentum.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
d) Seconde nozze in Tempore Luctus
Interessante è la sua posizione a proposito delle seconde nozze. La
legge romana, come è noto, infliggeva una pena di infamia 72, oltre ad altre
sanzioni 73, alle vedove che riprendevano marito durante il “tempus luctus”,
cioè l’anno di vedovanza; ma l’apostolo Paolo, allo scopo di evitare il pericolo
di incontinenza, ammetteva la possibilità di un nuovo matrimonio
immediato 74, quindi, in conformità a questa decisione apostolica, Alessandro
III aveva rimosso la pena di infamia 75 ed Innocenzo III aveva giudicato utile
confermare questa decisione 76, che anche Gregorio IX aveva mantenuto
congiuntamente con la precedente 77. Quale atteggiamento prendere non tanto
da un punto di vista canonico, per il quale non si presentava alcuna difficoltà,
ma dal punto di vista del diritto secolare per l’occorrenza considerato da solo?
L’accordo era certamente completo tra tutti i canonisti, nel respingere la stessa
pena d’infamia, ammettendo tutti, dopo Graziano, che il diritto secolare, su
questo punto, dalle regole di diritto canonico: “Matrimonia, non jure fori, sed
jure poli reguntur” 78.
La questione sorgeva per le atre pene, inflitte dal diritto secolare;
poiché qui i canonisti si dividevano in tre correnti. Alcuni si attennero al
diritto secolare e si assicurarono che l’Apostolo Paolo, e la legislazione
canonica al suo seguito, non avessero affatto voluto considerare tali questioni;
altri, come Innocenzo IV 79, distinsero tra le pene quelle che realmente
costituivano sanzione personale per la presunta infedeltà della vedova; quanto
all’Ostiense, almeno nelle “Summa” 80, prese la posizione di Damaso 81 e cioè: il
diritto romano viene corretto su questo punto dalle disposizioni canoniche e,
72 COD. V. 17, De repudiis, 8, Consensu 7, Si vero; Dig. III. 2, De his qui notantur
infamia, II. Liberorum, 2, et si talis.
73 COD. V.9, De secondi nuptiis, 1. Si qua. Auth. Eisdem poenis; Coll. IV. 6, De
restitutionibus e tea quae parit, ult.
74 Rom 7,2; 1 Cor 7,39.
75 Comp. I. IV. 22. De secondi nuptiis 2, Super Illa.
76 Comp. III. IV. 16. De secondi nuptiis, Quam secundum I, (201).
77 X. IV. 21. De secondi nuptiis, 4 et 5.
78 II. qu. 3, Dic. Grat. Hinc colligitur.
79 In Commentarium in quinque libros decretalium, Venezia, 1570. In X.IV.21. “De secondi
nuptiis” 4. Super Illa.
80 “Summa”, De secondis nuptiis, v.1.
81 …ipsius muliebri et eius qui cum ea subit, et non tantum a poena infamiae liberarur,
sed etiam de aliis poenis quae infliguntur ei.
85
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al fine di evitare il pericolo per l’anima e quindi se la sua salute spirituale lo
richiede, prevede che la deve essere interamente libera di risposarsi.
A dispetto di un’identica opposizione di taluni canonisti suoi
contemporanei, concedenti la minore attenzione possibile al diritto secolare,
senza parlare della regola “jura sunt concordanda”, il Cardinale d’Ostia adotta
in materia di prescrizioni una posizione ben retta e definita.
e) Prescrizione
Egli precisa che le norme della prescrizione furono definite dal “c.
Quoniam vulgare” per tutti i cristiani ed in tutti i fori 82. In questo argomento,
prima di lui, avevano sottolineato la “Ratio peccati” come comportante una
deroga in rapporto al diritto civile, canonisti come Vincenzo di Spagna ed in
seguito Giovanni Teutonico, ma quest’ultimo, in particolare, una volta
ammesso questo punto di vista, tende a minimizzare ed a restringere quanto
più possibile la portata della decisione conciliare.
Dice infatti Giovanni che la legge si pone in un punto di vista
differente da quello adottato dal diritto canonico, perché considera la
negligenza del proprietario, allorquando il canone si pone nel punto di vista
del peccato che vieta di conservare un bene in malafede.
Bernardo da Parma, tentando di indebolire l’argomentazione dei suoi
avversari, da poca importanza al diritto secolare.
f) Solennità dei testamenti
Orbene, l’Ostiense confuta tutte queste argomentazioni opponendo la
correzione della legge stessa dal Quarto Concilio Lateranense: “…un atto,
malvagio di per se stesso, non può essere ritenuto colpevole da un legislatore e
lecito da un altro. Non ci si può che porre dal punto di vista dell’anima
quando il legislatore secolare si pone troppo esclusivamente dal punto di vista
degli interessi materiali” 83.
82 “Lectura” al c. Vigilanti, 5, X.II. De praescriptionibus 26, n.7 v. Placuit: “…
omnibus cristiani set in omni foro placere debet, nam nulla praescriptio, nulla
consuetudo, nullum vinculum servandum est vel probandum ex quo inducit periculum
animarum”.
83 “Summa aurea”. De praescriptionibus, n. 3: “… quo denim est mortale in foro
canonico est mortale et in civili, et illud intendit removere, et legis ipsm faventes
corrigere”.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
Per quanto riguarda la materia testamentaria, si presenta una difficoltà
dello stesso genere. Si conoscono a tal proposito le esigenze della legge
romana 84.
Per Alessandro III è sufficiente la presenza di un prete e due
testimoni; l’Ostiense afferma che tale regola è da applicare ugualmente al foro
civile 85. Enrico afferma l’esistenza su questo argomento di due teorie
contrastanti: una, con Giovanni Teutonico, ritiene inammissibile una tale
deroga, senza un’istanza formale da parte del Pontefice, altrimenti tale
disposizione non avrebbe valore che per gli atti testamentari fatti in favore
della Chiesa e delle altre Opere Pie; l’altra corrente sostiene, invece, che tali
atti non avrebbero valore che per il foro canonico o per quei territori dove si
esercita la giurisdizione temporale dei Pontefici; il foro secolare conserverebbe
le sue proprie regole.
g) Nudi patti
Senza considerare, poi, gli altri contrasti tra gli stessi canonisti per ciò
che riguarda le relazioni col diritto secolare (per es. in materia di
compromesso, di eredità, di eresia, di ratto e di appello), è interessante
puntualizzare il concetto sul nudo patto. L’Ostiense a tal proposito ci ricorda
la posizione formale della tradizione canonistica: quando è stato concluso fra i
contraenti un nudo patto, anche se non siano sempre previste sanzioni legali 86
non rispettando l’impegno preso, si commette sicuramente peccato. Enrico
sostiene poi con ugual fermezza la necessità dell’azione 87 tanto nel foro
ecclesiastico quanto in quello secolare, nonostante la tradizione canonica,
sostenuta anche dal desiderio di non prestare eccessiva considerazione al
diritto romano, ammetteva il solo ricorso all’Officium judicis” o alla
“Denunciatio Evangelica”.
A sostegno delle sue soluzioni correttrici del diritto secolare ed
imposte dal “periculum animae”, l’Ostiense argomenta in modo veramente
brillante, a proposito dei nudi patti, nei riguardi di coloro i quali si rifiutano di
84 COD. VI. Qui testamentum facere possunt vel non 8, Hac consultissima.
85 “Lectura” X. III. n. 4. Improbamus “… Per hanc decretalem videtur derogatum
omnibus legibus loquentibus de solemnitate testamento rum… et ita per hoc legibus
contrariis derogatur secundum Io… quod verissimum est …pro hac opinione facit lex
divina, lex canonica, consuetudo generalis ecclesiae”.
86 “Lectura” X. I. 43. De arbitris 9. Per tuas n. 5 v. indistinte.
87 “Lectura” X. I. 43. De arbitris 9. Per tuas n.5 v. indistinte “…caveat ergo sibi is qui
consentit, qua pacta sunt servanda”. Cf. ib. 3. Qualiter. V. promittentes secundum
canoes etiam ex nudo pacto datur actio.
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ALESSANDRO BUCCI
ammettere l’equità naturale quale soluzione ammessa, per di più dai pagani
stessi, come anche Ulpiano.
Quindi, a maggior ragione, una soluzione così deve essere ammessa
anche da un cristiano. Peraltro Enrico non si fa pregare d’insistere su un
ricorso immediato alla legislazione romana; dall’interpretazione
dell’Authenticum trae infatti alcuni passaggi dai quali fa risultare la volontà
stessa degli Imperatori di fare adottare su quei punti concernenti materie
ecclesiastiche, la soluzione canonica; cita poi, a questo riguardo, frammenti
delle collezioni III, VI e IX dove la legislazione romana stessa impone il
ricorso al diritto canonico ed alle sue decisioni 88.
Dobbiamo considerare netta ed avanzata, quindi, la posizione di
Enrico da Susa, pienamente conforme alle teorie preconizzate da Innocenzo
III; sia il diritto della Chiesa con le sue regole, nonché il diritto dello Stato,
vengono subordinati al periculum animae nella sua assolutezza. Si tratta di un
concetto essenziale e fondamentale che in virtù della sua stessa materia
appartiene ad ambedue i diritti e per conseguenza, almeno su questo punto, il
diritto dello Stato deve accettare le regole della “aequitas canonica”.
Quello che conta, secondo l’Ostiense, oltre le varie misure punitive,
sono tutte le precauzioni per prevenire il verificarsi di circostanze che possono
dar luogo a peccato, ed energicamente sostiene che “…obviandum est
periculum animarum” quindi è facilmente osservabile la differenza tra questo
ed il punto di vista precedente: qui non si tratta di un peccato esistente di un
attentato alla morale del quale bisogna tener conto, bensì della sola
prevenzione di quegli elementi che sarebbero suscettibili di essere occasione di
peccato o, quanto meno, di poterlo favorire.
Per quanto riguarda, in questa circostanza, la sua posizione con il
diritto dello Stato, rimprovera a quest’ultimo le sue sottigliezze e cavilli,
presentando l’assoluta necessità di evitarle, almeno in certi casi.
La sua posizione è così più indefinita e meno decisa che nel caso
precedente:…in diritto canonico si dovrà evitare l’intervento abusivo delle
leggi secolari 89. Per ciò che concerne la pluralità di cause che si presentano in
un processo, può essere ammessa una soluzione di questo genere: mentre il
diritto dello Stato comporta una scelta di ciascuna avanti che sia resa la
88 “Lectura” X. II. 20. De testibus, 4. In omni n. 5 v. Vestra; per i suoi riferimenti alla
collectio III: 4, de mandatis principum, II, neque occasione si vero canonicum; per la
collectio VI vedi II. Ut clerici apud proprios episcopos 1, si vero; per la collectio IX
n.6. De ecclesiastici titulis, I. sancimus; ib. 15. Si quis contra 2, si quis autem, v. si
autem ecclesiastica.
89 “Lectura”, X.II. 10. De ordine cognitorum, dove rimprovera ad Innocenzo IV di
essere “…nimis civilis, nimis subtilis”.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
sentenza, e ciò allo scopo di fissare con precisione le pretese del postulante e
di assicurare nel contempo al giudice la possibilità di applicare il diritto
sottoposto nel litigio al suo apprezzamento, per l’Ostiense tale sottigliezza non
ha fondamento legittimo alcuno.
Dal punto di vista del pericolo dell’anima non c’è infatti da fare
nessuna distinzione e tutto si riduce a sapere se vi sia o meno un’obbligazione;
importa solo che si tratti di una o più cause riconoscibili o riconosciute.
Comunque il pensiero di Enrico non è certo limitato solo al foro della Chiesa:
molte di queste formalità sono nocive dal punto di vista dell’anima e quindi da
scartarsi anche nel foro dello Stato. Dichiara infatti: “merito igitur, quid quid
nocat aliqui doctores, huius modi subtilitatibus in utroque foro judex
recusabit”. Appare anche che benché relativamente lontana dal principio
assoluto posto in primo luogo, tale conseguenza non è meno significativa: è
chiaro l’indirizzo dell’Ostiense ad estendere delle regole di incontestabile
valore nel diritto della Chiesa allo stesso diritto dello Stato.
Tale tendenza è importantissima nella formazione dell’utrumque ius o
meglio dello jus commune destinato a governare la Repubblica cristiana del
Medio Evo. Certo l’Ostiense, in rapporto alle argomentazioni apportate per
sostenere la sua posizione, dà ad esse una portata generale almeno imprevista
ed inconsueta, così, nei riguardi delle disposizioni da porre in atto per evitare
ogni minimo rischio di pericolo per l’anima, è costretto a scartare tutte quelle
sottigliezze che troppo spesso sussistono nel diritto romano, almeno
eventualmente. Quindi le allontana dal diritto della Chiesa e questo in primo
luogo, traendo in seguito, secondo la sua natura, spunti per andare anche più
altre, estendendo al diritto dello Stato ed al foro secolare, in virtù dell’equità
canonica, misure incontestabilmente opposte.
h) Il Giuramento
Per concludere la questione fin qui trattata, si può esaminare la
posizione di Enrico da Susa sia dal punto di vista del diritto della Chiesa, che
dello Stato in quei casi in cui un elemento giuridico sia semplicemente
sfavorevole anche se non contrario con il bene di un’anima; la questione si
presenta allo stesso modo anche quando può essere trovata una misura più
sicura, più favorevole agli interessi spirituali.
A questo proposito, è particolarmente esplicativo il commento alla
decretale “Cum contingat – De jure jurando” 90. Tratta di una risposta fatta da
Innocenzo III ad una domanda indirizzata dal Vescovo di Beauvais: alcune
90 X.II. 24, 28.
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donne, durante il loro matrimonio, avevano consentito a delle alienazioni di
beni dotali o a delle donazioni “propter nuptias” e per impedire gli effetti
dell’illegalità di questi atti confermarono i loro impegni con giuramento. Di
qui la questione, se riconoscere la nullità di un giuramento contro la legge o
ammetterne la validità.
La decisione pontificale si inspira agli interessi spirituali; due elementi
sono in gioco: uno materiale, sul rispetto della legge romana vietante alla
donna di attentare ai suoi beni personali e l’altro spirituale sul rispetto della
parola data. La risposta di Innocenzo III è conforme alla posizione di Enrico
da Susa, cioè l’assoluta prevalenza degli interessi spirituali. Quindi l’Ostiense
non solo loda la ben fondata decisione papale, ma trae stabile principio per
altre applicazioni, come nel caso di vendita fatta oltre il giusto; se cioè in tal
caso un giuramento possa mantenerla tale e quale, o in caso di donazione
rafforzata dal giuramento di non revocarla, o nei riguardi di impubere. Enrico,
anche in altri casi, adotta una medesima posizione, come nella circostanza
riguardante la materia della prescrizione, dove la questione verte sul
considerare o meno in buona fede una coscienza esitante o dubbiosa 91.
Qui c’è un raffronto diretto con la posizione di Bernardo da Parma 92,
ripresa da Giovanni Teutonico 93, ambedue sostenenti argomentazioni tratte
dal diritti romano. Infatti concedono, nel dubbio, che debba prevalere il
concetto di buona fede: l’Ostiense al contrario, proprio per avere la sicurezza
più assoluta, opta per la soluzione opposta, più sicura per l’anima: “…in
dubbio semper quod est tutius animae sequendum est” 94.
Questo suo atteggiamento rigido lo ritroviamo, d’altra parte, sempre
in marcata polemica con Giovanni Teutonico nel caso di coscienza fallace.
Anche qui, infatti, l’Ostiense assume la posizione più severa, quella della
restituzione dei beni prescritti in tali condizioni ove la coscienza nel dubbio
potesse rimordere 95, quindi la restituzione Summa’impone 96. La questione più
importante comunque, ai nostri fini, rimane questa: tutte queste soluzioni
debbono essere considerate valide per il solo diritto della Chiesa, o dobbiamo
considerarle efficaci anche per il diritto dello Stato? Nessun dubbio nel caso,
91 “Lectura” X.II – De praescriptionibus 26. Si diligenti 17, n.11.
92 Gl. ib. vedi bona fides.
93 Ms. B.N. 3932 f° 214 v. Comp. IV c. Quoniam v. temporis.
94 “Lectura” 3. X. IV. De sponsalibus 1. – Decretale Juvenis.
95 “Lectura” ib. dum tamen is qui praescripsit non habeat conscientiam remordentem.
96 “Lectura” X.II. De praescriptionibus, 26. Vigilanti, 5 n.7 v. noveris possidere
“…dum tamen is qui praescripsit non habeat conscientiam remordentem, tunc enim
tenetur rem restituire et conscientiam suam sequi, etiam si erronea sit.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
ad esempio, della decretale “Dum contingat” 97, a parte il fatto che si tratta di
un giuramento, quindi di materia relativa al foro ecclesiastico, invece di un
testo romano per legittimare la preferenza da riconoscere agli interessi
spirituali.
Negli altri casi poi, trattandosi di elementi concernenti il diritto
naturale, tale estensione è possibile. Quindi anche quando non vi è “periculum
animae” in senso assoluto, ma ci sono in campo interessi spirituali, li considera
da preferire a quelli del corpo, quindi la soluzione da seguire è, ancora una
volta, non solo nei nei riguardi del foro della Chiesa, ma per questa Superiore
giustificazione anche per quello dello Stato. Questo è d’altra parte lo spirito
che anima tutte le sue opere non come semplice tendenza o indirizzo, bensì
come regola prima; la sua “aequitas canonica” lo porta ad opporsi spesso a
numerose soluzioni ammesse dal diritto dello Stato.
La “misericordia” è in grado di apportare a quest’ultimo diritto
numerosi temperamenti, anche nei casi più rigorosi; la visione di Enrico in
quest’argomento va molto oltre i semplici aspetti esteriori o procedurali della
comparazione fra i due sistemi. Il diritto della Chiesa deve innanzi tutto fare
evitare all’uopo il peccato e l’equità consiste nell’assicurare il regno degli
elementi spirituali e del loro dominio.
In questa sua visione l’Ostiense non ha mai esitato a porsi contro
canonisti e legisti che, abbandonando questo fine superiore, traevano dalla
legislazione umana e dal diritto dello Stato in genere, argomentazioni di natura
esclusivamente tecnica senza pensare al lato squisitamente morale dei
problemi giuridici. Enrico, d’altra parte, non ha mai rinnegato il diritto
romano, anzi tutt’altro 98, ma ha avuto sempre la massima cura di non
dimenticare il carattere teologico e morale del diritto della Chiesa, operando
così una combinazione. Anche se i suoi sforzi non hanno avuto il successo
scontato, non ha soverchia importanza, ma nei tempi seguenti le sue soluzioni
sono rimaste vitali; in tal senso facendo risaltare in ogni questione di diritto la
vera natura dell’uomo, essenzialmente spirituale e sopratutto volta verso un
superiore traguardo.
97 “Lectura”, X.II. 24, - De jure jurando 28, cum continua n.5 “…secundum canones
quibus standum in hac parte; in omnibus his et similibus regular iter servandum
juramentum a qualibet christiano”.
98 Enrico da Susa tende a dare al diritto romano una posizione di primo piano, come
d’altra parte manifesta la sua concezione nelle “Summa”, fatta riserva tuttavia dei
principi canonici.
91
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ALESSANDRO BUCCI
3. La tolleranza religiosa nel pensiero dell’Ostiense.
Costituisce un aspetto interessante, del pensiero di Enrico da Susa sui
rapporti del potere ecclesiastico con il potere temporale e dei due diritti in
generale, la sua posizione su un problema indubbiamente di rilievo: quello
della tolleranza religiosa, sul quale egli più volte si pronuncia, sia su principi a
lui contemporanei, sia su principi di un passato ancora recente e perciò avente
notevole influenza sul suo periodo.
Presso i decretalisti vigeva ancora il criterio secondo il quale gli
infedeli non sono sottoposti alla giurisdizione ecclesiastica, specialmente dopo
la riaffermazione fatta da Graziano. Tali limiti, seguendo appunto gli
insegnamenti di questo ultimo, sono ancora perfettamente validi con Uguccio,
che ribadisce tale concetto. È da considerare però che forse proprio in qualche
affermazione del decretista pisano, si può notare il primo passo della dottrina
canonistica verso il disconoscimento di quel tradizionale principio, il germe
dal quale l’elaborazione dottrinale doveva prendere le mosse per negare la
limitatezza della giurisdizione ecclesiastica.
Nel commentare il c. 12 D.I. dove, sotto l’intitulatio “quid sit ius
Qiritium”, viene affermato che questo diritto “est proprie Romanorum, quod
nulli tenent, nisi Quirites, id est Romani”, Uguccio prendeva nettamente
posizione rispetto al travagliato problema del valore del diritto romano nei
confronti di quei popoli che contestavano la tradizionale “subiectio”
all’Imperatore. Per quanto concerne i popoli cristiani, il Pisano affermava che
essi “saltem ratione pontificis subsunt romano imperio, omnes enim cristiani
subsunt apostolico et ideo omnes tenentur vivere secundum leges romanas,
saltem quas approbat ecclesia” 99. La soluzione affermativa circa il valore
universale del diritto romano, veniva dunque fondata, oltre che sul
tradizionale principio dell’Impero universale, anche su un’argomentazione del
tutto nuova: la “approbatio ecclesiae” quale crisma dell’assoluta obbligatorietà
delle leggi imperiali.
Il Calasso, in questa affermazione, ha scorto il germe della tesi
ierocratica destinata nel futuro a straordinario sviluppo; essa però, non
toccava, essendo stata avanzata solo in rapporto ai popoli cristiani, i limiti
della giurisdizione ecclesiastica, ed era suggerita dalla preoccupazione di
evitare che la crisi del principio imperiale si estendesse al sacerdozio e
compromettesse la fondamentale unità della Repubblica Cristiana. È da
considerare, però, che il decreti sta pisano, non si limitava a porre il problema
99 Uguccio, Summa, ad v. “in eos solos” in c.12, D.I. riport. da G. Catalano, Impero
Regni e Sacerdozio nel pensiero di Uguccio da Pisa, Milano, 1959, p. 62.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
del valore delle leggi imperiali solo nei riguardi dei popoli cristiani; ma rispetto
agli infedeli egli esponeva la conclusione che logicamente discendeva dal
cogliere nell’ “approbatio ecclesiae” i crismi dell’assoluta obbligatorietà delle
leggi imperiali; nello stesso precedente punto della Summa scrive: “quid de
sarracenis? Responde, non ligantur legibus romanis, quia eas non receperunt,
unde secundum eas non tenentur vivere, licet in aliis peccent” 100.
Il tradizionale principio dei limiti della giurisdizione ecclesiastica
veniva così ancora rispettato; principio che riguardo agli infedeli affermava si
potesse far ricorso alla “approbatio ecclesiae” dimostrando il vincolante
carattere delle leggi romane nei loro riguardi, per quanto fosse opportuno
riconoscere la possibilità di qualificarne il comportamento alla luce dei principi
canonistici (“licet in aliis peccent” soggiungeva Uguccio). D’altra parte, trarre
argomento dalla “approbatio ecclesiae” per il carattere vincolante delle leggi
imperiali anche nei confronti degli infedeli, avrebbe significato ammettere
implicitamente che pur essendo gli infedeli sottoposti alla potestà della Chiesa,
veniva a quest’ultima data la facoltà di vincolare i comportamenti dei suoi
soggetti anche in rapporto alle leggi civili.
Tale soluzione, comunque, non veniva considerata soddisfacente da
Uguccio, anche se, in perfetto accordo con le premesse, si presentava come
indefettibile conseguenza dell’implicita svalutazione del principio
dell’universale validità delle leggi imperiali, contenuta nel ricorso alla
“approbatio ecclesiae” come al solo criterio atto a determinare la portata delle
“leges romanae” 101.
E per questo, il decretista pisano, prescindere dalla specifica
argomentazione valida nei confronti dei fedeli, concludeva nel senso che
“videtur tamen quod et ipsi (sarraceni) debeant subesse romano imperio et
vero teneantur vivere secundum leges romanas” 102.
In sintesi, se il principio dei limiti della giurisdizione ecclesiastica
restava intatto, veniva tuttavia confermare l’esistenza di un ambito nel quale la
condizione giuridica degli infedeli, innanzi alla suprema autorità temporale ben
poteva essere distinta da quella dei fedeli. Si potrebbe affermare che tale
conferma costituì il primo passo di tutta la posteriore elaborazione dottrinale
diretta a svalutare il tradizionale principio canonistico dei limiti della
giurisdizione ecclesiastica.
La soggezione degli infedeli all’Imperatore, affermata dalla dottrina
canonistica, rendeva agevole ed intuitiva la dimostrazione della possibilità che
100 Uguccio, Summa, loc. cit.
101 Così Catalano, op. e loc. cit., circa la svalutazione dell’universale validità delle leggi
imperiali.
102 Uguccio, Summa, loc. cit.
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ALESSANDRO BUCCI
le sanzioni canoniche toccassero almeno indirettamente gli infedeli. Invero
una volta affermata la soggezione degli infedeli all’Imperatore, per estendere
legittimamente l’esercizio delle potestà ecclesiastiche anche su quanti non
fossero sottoposti alla giurisdizione della Chiesa, non occorreva che assumere
a tramite fra Chiesa ed infedeli quella potestà dell’Imperatore, che era
vincolata alle direttive della Chiesa dalla necessità della “approbatio” quale
crisma dell’assoluta obbligatorietà delle leggi imperiali.
Orbene, Enrico da Susa, si pone appunto su questa base, prendendo
spunto, insieme a gran parte della dottrina canonistica del tredicesimo secolo,
da quell’affermazione circa la soggezione degli infedeli all’Imperatore, per
evincerne poi una sostanziale sottoposizione anche alla giurisdizione
ecclesiastica, come limpidamente conferma commentando la decretale
“Gaudeamus” 103:
“Patet per praedicta, quod infedele subiacent legibus
imperialibus directe, sed directe non subiacent.. legi canonicae
…rationem diversitatis ostendit censura diversa. Nam censura
legis imperialis respicit corpora, et in facto consistit …qua arceri
potest infedeli, simun et fidelis, censura vero legis canonicae
respicit animas, et in iure consistit …quia non potest arceri nisi
fidelis et obediens Christianus …In eo vero, quod infedeli subiate
legibus imperialibus, et censurae imperiali, liquet, quod canonicae
legi subiate mediate, cum et imperator et lex sua subiaceat
canonicae saltem in talibus, et ideo quod non potest per se lex
canonica, per secularem iudicem exercebit”.
Enrico dichiara quindi la soggezione diretta degli infedeli alle leggi
imperiali, ma solo indiretta a quella canonica: la differenza di valutazione è
data da una diversità di censura, riguardante il solo aspetto materiale per quella
imperiale, mentre quella canonica riguarda le anime. Questa può essere inflitta
“de iure” e non può trattare che il cristiano ed il fedele obbediente. Quindi,
mediamente, visto che l’infedele è sottoposto alle leggi imperiali nonché alla
103 Enrico da Susa, In quartum Decretalium librum commentaria, Venezia, 1581, a c.8,
Gaudeamus, X, de divortii, IV, 19, f.45 verso, numm. 3 – 5. Circa l’adesione
dell’Ostiense alla posizione filo imperiale di Uguccio, cfr. De Vergottini, Lezioni di
storia del diritto italiano. Il diritto pubblico italiano nei secoli XII – XV, vol. I, pp. 235 e ss. Si
veda, inoltre, P.A. d’Avack, Chiesa, S.Sede e Città del Vaticano nel jus publicum ecclesiasticum,
Firenze 1937, p. 51, il quale presenta la necessità della “approbatio ecclesiae” per le
leggi imperiali come uno dei corollari della dottrina dell’ecclesiae potestas directa in
temporalibus.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
censura imperiale, appare chiaro che soggiace alla legge canonica, poiché
anche l’Imperatore e la sua legge soggiacciono alla legge della Chiesa, che
eserciterà tramite il giudice secolare la sua potestà, non potendo essa farlo
direttamente.
Quindi Enrico da Susa, attraverso l’accoglimento della dottrina nei
riguardi della soggezione degli infedeli all’Imperatore, dimostrava quanto era
stato affermato, in sostanza, anche da Goffredo da Trani; cioè che almeno
mediante gli infedeli dovessero ritenersi sottoposti alla giurisdizione
ecclesiastica. Quel testo di Uguccio, nel quale il Calasso ha scorto l’inizio della
tesi ierocratica, costituiva così anche l’inizio dello svolgimento canonistico
circa il problema della posizione degli infedeli innanzi all’ordinamento
canonistico.
Infatti, Enrico da Susa, metteva a contatto da una parte l’esigenza
della “approbatio” celeste, per le leggi imperiali, e della’altra l’affermata
soggezione degli infedeli all’Imperatore, tenute ancora concettualmente
separate da Uguccio, e ciò al fine di costituire il tramite che avvincesse alla
Chiesa, non solo, ormai, tutti i popoli di religione cristiana, ma anche gli
infedeli. A tal proposito, però, sarà opportuno precisare che sembra che
l’Ostiense affermasse la soggezione alle leggi imperiali solamente di quegli
infedeli “qui inter christianos morantur”; che conseguentemente solo di questa
categoria di infedeli affermasse la mediata soggezione alle norme canoniche,
ciò si può desumere quando afferma:
“qui in potestate christianorum existt, et eorum fidem
servant. Quid nam ad nos de his, his extra ecclesiam sunt. 2. q. I.
multi (c.18). exceptis his, qui inter christianos moruntur, quo set
leges imperiale adstringunt… Et licet istos non possit directe
coercere ecclesia, quia non potest ipsos excommunicare, indirecte
tamen eos coercet, et distringi facit per dominos
temporales…” 104.
Non si può comunque fare a meno di sottolineare che Enrico,
formulando i concetti suesposti, sia andato assai più oltre della semplice
affermazione di una indiretta soggezione degli infedeli, tramite l’Imperatore,
alla giurisdizione ecclesiastica. Infatti, nel passo citato, aveva affermato che
“infedele …directe non subiacent legi canonicae”; aveva però scorto la
ragione di ciò nel fatto che, mentre “censura legis imperialis respicit corpora,
104 Enrico da Susa, In quintum …Commentaria cit., ad c.9, Ad abolendam, X, de
haereticis, V. 7, f.36 recto, num. I. v. “universos”.
95
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et in facto consistit”, invece “censura legis canonicae respicit animas, et in iure
consistit… quia non potest arceri nisi fidelis et obediens Christianus”. Non
siamo più, dunque, di fronte al principio dei limiti della giurisdizione
ecclesiastica scolpito nel testo paolino, ma davanti ad una considerazione
sull’efficacia di fatto delle sanzioni canoniche.
In effetti, Enrico aveva aderito all’opinione di Sinibaldo e nel passo
avanti riportato, non faceva che ricordare una delle opinioni avanzate dalla
dottrina; ma finché la questione veniva affrontata su questo livello, non si
poteva che concludere: “ideo quod non potest per se lex canonica, per
secularem iudicem exercebit”; finchè si prendevano le mosse dalla diretta
soggezione degli infedeli all’Imperatore, e non alla Chiesa, era necessario
ricorrere al tramite costituito dall’autorità temporale.
Forse, però, in qualche punto, l’Ostiense aveva travalicato la
posizione di Sinibaldo, specialmente per quanto riguarda il regime giuridico
dei culti degli infedeli. A tal proposito quest’ultimo aveva affermato che i
domini, i possessi, le giurisdizioni, lecitamente, senza peccato, possono
sussistere tra gli infedeli; tutte cose create non solo per il credente, bensì per
tutte le creature fornite di ragione, quindi non è lecito portar via agli infedeli il
loro dominio e le giurisdizioni, poiché le possiedono senza peccato, né da
parte del Papa, né dei credenti 105.
105 Commentaria, cit. a c.8. Quod super, X. de voto III, 34 f.163 verso n.3; “dominia,
possessione set jurisdictiones licita sine peccato possunt esse apud infedele, hoc enim
non tantum pro fideli, sed fideli, sed pro omni rationabili creatura facta sunt…
propter hoc dicimus non licet pape vel fidelibus auferre sive dominia sive
jurisdictiones infidelibus, qui asine peccato ex possident”.
Può essere utile anche riportare questi altri passi di Innocenzo IV sull’argomento.
Cap.IV: “Papa etiam super infedele de jure jurisdictionem et potestatem habet, et
potest Judeas iudicare. Item ipse Petro et successoribus eius dedit claves regni celorum
et ei dixit… Pasce oves meas… omnes autem tam fidelesquam infedele oves sunt
Christi per creationem: licet non sint de ovili eclesie, et sic per predicta apparet quod
papa super omnes habet iurisdictionem et potestatem de iure, licet non de facto; und
per potestatem quam habet papa credo quod si gentilis qui non habet legem nisi
nature si contra legem nature facit potest licite poniri per papam. Arg. Gen. XIX, ubi
habes, quod sodomite qui contra legem nature peccabant puniti sunt a Deo: cum
autem Dei iudicia sint nobis exemplaria non video quare papa qui est vicarius. Christi
hoc non possit et etiam dummodo facultas adsit, et idem dicunt si colant idola.
Naturale enim est unum et solum Deum creatorem colere et non creaturas”. Cap.
VIII. “Infedele non debent cogi ad fidem, possunt tamen cogi ad mittere
praedicatores evangelii, et quid si non admittant?
Item licet non debeant infedele cogi ad fidem: quia omnes libero arbitrio relinquendi
sunt …tamen mandare potest papa infidelibus quod admittant predicatores evangelii
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
L’Ostiense invece asserisce di diritto gli infedeli debbono essere
sottoposti ai fedeli, non il contrario. Concedeva, tuttavia, agli infedeli che
riconoscevano e sottostavano alla dominazione della Chiesa, la possibilità di
convivere come tollerati. Gli infedeli invece, che non riconoscevano la potestà
della Chiesa di Roma, e quindi a questa non ubbidivano, erano giudicati
indegni del regno, del principato, della giurisdizione e di ogni dominio 106.
L’opinione di Enrico, in ogni caso, appunto su questo regime
giuridico dei culti degli individui, appare schematizzata in un passo, non
dissimile per le posizioni assunte da quello di Goffredo da Trani:
“In quibus tolerentur. Et certe ut habeant veteres sinagoga…
et suis observantiis tolerantur, ut infra eo. Iudaei. Et c. consuluit
(cc. 3 e 8, X. De judaeis, V. 6)… Sed nonne peccat ecclesia dum
sinit Iudaeos ritus suos observare, ut supra dictum est? non: quia
non approbat, sed permetti: quod autem permittimus, nolentes
percipimus, concidimus, quia malas hominum voluntatem ad
in terris sue gliurisdictionis: nam cum omnis creatura rationabilis facta sit ad deum
laudandum … si ipsi prohibent predicatores predicare peccant, et ideo puniendi sunt”.
Cap. IX. “In omnibus autem praedictis casibus et in aliis, ubi licet Ppae eis aliquid
mandare, si non obediant, compellendi sunt brachio seculari, et indicendum est bellum
contra eos per papam, ubi quis de jure suo contendit. Nec est contra II, q.I. mult., ubi
dicitur, quod non pertinet ad nos judicare de his, qui foris sunt, qui intellegitur, quod
non debemus eos judicare excommunicando, vel compellendo ad fidem, ad quam sola
Dei gratiam vocantur XIV dist. de. judaeis”.
Cap. X. “An infedeli possit dominium habere super fideles. Sed dice, quare non
eodem modo licet eis repeter terram istam, scil. Italiam, vel alias; ubi dominati fuerunt
infedeles. Respondeo quia domini harum terrarum cum populis eorum conversi sunt;
potemur tamen, quod si populi conversi essent sed domini remanerent in fideles,
quod Papa bene posset domino infideli dominium et jurisdictionem dimittere super
fideles, ar.I. ad Thim. 6, In princ., dummodo christianos non gravaret iniuste. Item
propter periculum posset cogi dominus ad recipiendum praetium vel commutationem;
saepe enim quis amittit res suas sine culpa sua”. Innocenti IV Pontificis Maximi, In
quinque Decretalium libros commentaria, Venezia, 1570, III. Tit. De voto, 34, Cap.4, n.8 – 10.
106 In tertium Commentaria cit. a c.8 Quod super X de voto III. 34. f. 128 verso n.27:
“…asserimus quod de jure infedele debent subiici fidelibus, non e contra…
Concedimus tamen quod infedele, qui dominium ecclesiae recognoscunt, sunt ab
ecclesia tolerandi: quia nec ad fidem praecisa congendi sunt ut dictum est supra. Tales
etiam possunt habere possessiones, et colonos christianos, et etiam jurisdictionem ex
tollerantia ecclesiae… alios autem infedeles qui nec potestatem Ecclesiae Romanae,
nec dominum recognoscunt nec ei obeliunt, indignos Regno, principatu, jurisdictione,
et omni dominio judicamus”.
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plenum prohibere non possumus 31, q.I hac ratione (rectius: hac
Auctoritate – c.9, c.XXXI, q.I) Item si ecclesia eos non toleraret,
videatur eos ad fidem precise velle cogere, quod fieri non
debet” 107.
L’uso del termine tolerare e sinere al posto di permettere usati dagli altri
decretasti, ci da un’idea di come Enrico si trovasse nella condizione più
estremista e rigida della corrente che faceva capo a Sinibaldo dei Fieschi, circa
la potestà del Pontefice sugli infedeli, e le conseguenze da essa derivanti in
ordine alla repressione dei comportamenti contrari al diritto divino.
L’accoglimento di questa dottrina consentiva indubbiamente di porre vincoli
assai più rigidi dell’esercizio dei culti degli infedeli. La sua opinione sul
problema in questione tendeva col tempo a definirsi sempre più strettamente
come ne fanno prova i diversi toni usati prima della “Summa” (passo citato),
per poi assumere la più rigida posizione definitiva, in seguito, nella “Lectura”
dove soggiungeva, stigmatizzando così il suo pensiero: “Hoc autem ideo fit, ut
ad fidem facilis trahantur, XLV. dist. qui sincere (c.3 D.XLV.) et quia ubique
parati sunt servire. 23 – q.8 dispar (c.11)”.
4. Il concetto di Vicarius Christis
Il concetto di Vicarius Christi viene affrontato anche dall’Ostiense,
insieme agli altri grandi decretalisti suoi contemporanei nonché dai maggiori
teologi del tempo, che in linea di massima lo accettano con posizioni più o
meno temperate rispetto a quella formulazione rigorosa ed originaria,
concepita da Sinibaldo de’ Fieschi. Fu infatti appunto questo Papa che se ne
fece strenuo assertore, inquadrandolo in un grande sistema teologico –
giuridico che in breve tempo trovò larga diffusione nelle scuole di diritto
canonico della seconda metà del 1200.
Enrico da Susa segue Innocenzo IV nel commento alla “Quod
supra”, ripetendo letteralmente la formula già vista dal Pontefice canonista 108.
Ciò non impedisce tuttavia in altri punti una riflessione personale sul concetto
in questione. Definisce nella Summa aurea, il Pontefice come il più vicino e più
grande Vicario di Cristo: “Christus reliquit ipsum (sc. Papam) successorem,
seu vicarium suum proximiorem et mejore” 109. Interesse dell’espressione un
po’ curiosa, forse, è dato dal fatto che dimostrava quanto rimanesse tenace tra
107 Summa Aurea, cit. lib.V tit.6, de Judaeis, coll. 1517-1519 nn. 3 – 4.
108 Commentaria in decretales, al c.VIII. X. III. 34; ediz. Venezia 1581, t. II f.128. E’
interessante constatare la dipendenza letterale del Cardinale, da Sinibaldo de’ Fieschi.
109 Summa Aurea, L. IV. Qui filii sint legitimi n. 10; ed. Venezia 1581, f. 243 v.b.
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La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
i canonisti l’attribuzione ai Vescovi di “Vicarium Christi” conservata dalla
Glossa ordinaria del Decreto che Enrico stesso ricorda in un altro testo 110.
La ragione dei due comparativi che attribuiva al Papa peraltro è
questa, al fine di distinguere il titolo, rispetto ai Vescovi. Nel suo
notevolissimo commento alle decretali Gregoriane le sue considerazioni in
proposito, e la trattazione che svolge, sono più ampie con uno svolgimento
anche più sottile ed elegante. Non si limita a ripetere gli argomenti trattati dai
decretalisti e nella Glossa ordinaria, ma, come nella Decretale “quante
personam”, li riassume e li sviluppa con espressioni proprie. Dice infatti alla
parola “Vicem”: “ergo consistorium Dei et Papae unum et idem est
censendum. Et breviter excepto peccato, quasi omnia de jure potest, ut
Deus” 111.
Appare significativo come Enrico non intenda soffermarsi sulla
enumerazione della casistica come facevano gli altri, come è significativa la
limitazione posta da quel quasi. Piuttosto nella Summa 112 formula una certa
enumerazione delle prerogative e delle particolarità del potere papale; d’altra
parte anche in questo caso si riscontra l’inferiore maturità di pensiero rispetto
ai “Commentaria”. Riprende appunto in questi le argomentazioni
commentando il c.12, X.II nel quale dimostra la possibilità del pontefice di
essere giudice in causa propria:
“Et est ratio, quia non est presumendum quod vicarius Dei
aliter sudice quam ipse Deus esset judicaturua… Caveat ergo Papa
quod juste judicat, quia sibi terribilius est quam parti… Sede et
quamvis dicatur dominus, quia quandiu vivit potest mutare quadrata
rotondi et omnia disponere tamquam dominus, salva violazione fidei,
tamen vere loquendo nec ipse nec alius praelatus dominus est, immo
bona Ecclesiae communia sunt” (l.c. t.II f.5 rb.).
È facile notare la sottile ironia nascosta nelle parole “murae quadrata
rotundis” a proposito dell’onnipotenza papale asserita dai canonisti,
argomento questo che li appassionava anche nel ‘300. È di notevole
importanza il fatto che egli riconosciuta l’autorità del Pontefice, come Vicario
di Gesù Cristo, si faccia un dovere di ammonire che deve chiaramente
giudicare come anche la sua precisa asserzione che per quanto il Papa sia
nominato padrone di tutto, tamen vere loquendo, non possiede i beni della Chiesa,
110 “… et etiam episcopus Vicarius Dei est”: Commentaria in c.12, X.II. 1 n.4;
111 Commentaria a c.3. X.I. 7;
112 Nel L.I. De officio legati, n.2.
99
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100
ALESSANDRO BUCCI
che ritiene essere posseduti in comune. È impossibile non notare, in questa
argomentazione, l’essenza prima dello spirito dell’Ostiense e la sua
caratteristica precipua di non affiancarsi pedissequamente alle tesi
contemporanee o comunque vigenti; da questo argomento traspare una critica
sottile mista a notevoli riserve di fronte a quella teoria del potere diretto che
vide assertore fio all’estremo limite Innocenzo IV, dopo essere stata elaborata
da alcuni decretalisti della prima metà del secolo.
Questo non comporta affatto una sua definizione o magari una sua
posizione antitetica, piuttosto non intendeva abbracciarla in quelle forme
estreme che ormai la caratterizzavano. In altri passi del suo commento, poi,
Enrico da Susa riprende la dottrina ierocratica di Alano e Tancredi, contro la
distinzione dei due poteri sostenuti da Uguccione.
Alle parole “nos attendentes” della decretale “Causam”, dopo aver
riportato con riguardo il pensiero di Uguccione, così precisa:
“Et secundum hanc opinione jurisdictiones divisae sunt et
distinctae. Et sunt duo vicarii Dei in terris, unus in spiritualibus,
alius in temporalibus. Alanus et Tancredus contra: et dicunt quod
licet imperium addeo precesserit, tamen executionem gladii abet
imperator ab ecclesia, et ecclesia una et unum corpus est… unde
et unus tantum vicarius est: nec abetit unum corpus duo capita
quasi monstrum… Hoc amplector” 113.
È poi cura di Enrico aggiungere e precisare immediatamente il fatto
che il Papa non deve intromettersi nel temporale in pregiudizio dell’altra
autorità; d’altra parte anche da altri passi è evidente che la sua concezione
ierocratica come giustificazione dell’intervento straordinario del Pontefice nel
temporale (casualiter, secondo la terminologia di Innocenzo III), peraltro, è
arguibile da questo passo che egli ha visto l’opposizione tra la vecchia e la
nuova concezione dei due poteri, individuandola nella diversa dottrina del
Vicarius Christi, preferendo poi, almeno in parte la teoria di Alano e Tancredi
e le loro argomentazioni sul titolo papale, più confacenti della loro visione al
principio teologico della unità della Chiesa, rispetto alla posizione di
Uguccione, credendo di scorgere in tale teoria l’idea di due vicari di Dio in
terra.
Nel commento della decretale innocenziana “per venerabilem” traspare la
sfavorevole opinione di Enrico per tale idea e la confuta con notevole con
notevole vivacità dimostrando la “plenitudo potestatis” del Pontefice:
113 Commentaria a c.7, X.IV. 17;
Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

La potestas directa et indirecta in temporalibus nella dottrina del Cardinale Ostiense
“ex vi fidei orthodoxae, sicut enim ponere duo principia
haereticum est… sic ponere duos vicarios generale et sibi aequales
in terris haereticum videtur quod jus pertiner. Ne igitur videaris ha
eresiarca juris, haec sit fides tua catholica quod sicut unus Deus
est immuntabilis… sic est unus vicarius legitimus generalis in
terris, cui omnes angeli id est omines debent esse subjecti et in
omnibus obedire… sic etiam superiori convenit inferior hierarchie
quando omnes nomine vicarios in terris, sicut in coelo omnes
angeli serviunt, obediunt et intendunt” 114.
Il principio della “reductio omnium ad unum”, tipico della teologia
del suo tempo, viene applicato chiaramente dall’Ostiense che ne appare certo
influenzato, come pure dal parallelismo tra gli ordinamenti umano e celeste;
ma la caratteristica, senz’altro lodevole di Enrico, è quella di riportare questi
concetti teologici ai propri principi giuridici e con apprezzabile prudenza
limita il valore del suo argomento, con le felici espressioni: “quod ius pertinet
et haeresiarca iuris”. In seguito, i polemisti di Bonifacio VIII, nonché i
posteriori teologi e canonisti, ritoccheranno spesso questi argomenti, ma ciò
non sarà fatto sempre con quell’eleganza e fine precisazione che caratterizzano
il pensiero di Enrico.
Accettando l’interpretazione ierocratica, svolgono la dottrina del
Vicarium Christi numerosi altri canonisti come Guglielmo Durante, autore
dello “speculum juris”, ricordato anche da Dante Alighieri, il quale ripete ed
approfondisce gli argomenti dei decretalisti della prima metà del secolo
nell’estensione dell’autorità del Papa, perché Vicario di Cristo.
114 Ib. a c.13, X.IV. 17;
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Caietele Institutului Catolic X (2011) 43-102

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