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Discorso tenuto dalla prof.a Carla Poncina, Direttore dell'ISTREVI ...

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www.istrevi.it/commemorazioni<br />

COMMEMORAZIONE DEI DIECI MARTIRI<br />

Orazione ufficiale<br />

della Prof.ssa CARLA PONCINA<br />

<strong>Direttore</strong> dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Vicenza<br />

“ETTORE GALLO”<br />

PONTE DEI MARMI<br />

VICENZA, 10 novembre 2012<br />

Saluto tutti voi, autorità e semplici cittadini, associazioni che a vario titolo mantenete<br />

vivo il ricordo dei nostri maggiori, e saluto i giovani, ai quali più che a chiunque altro<br />

desideriamo rivolgerci, perché loro - in futuro - sarà il compito di tenere accesa la<br />

memoria delle vittime e ancor più delle idee e dei valori per cui lottarono.<br />

So che questi valori, i gesti, le cose di cui oggi parleremo, risuonano fiocamente<br />

nelle coscienze degli italiani, ma questo non li rende meno preziosi, meno essenziali.<br />

So anche di dover usare parole che possono risuonare “consumate” dal tempo,<br />

fruste, addirittura retoriche, ma non trovandone di più appropriate vi prego di ascoltarle<br />

come fossero “nuove”. E forse tali potranno più facilmente sembrare ai più giovani, che<br />

raramente –temo- avranno avuto modo di ascoltare storie come quella che qui ci<br />

apprestiamo a commemorare: il racconto di dieci giovani rinchiusi nelle carceri<br />

padovane, per rifiuto del nazifascismo e amor di Patria e di libertà, prelevati e uccisi in<br />

prossimità del luogo in cui ci troviamo, allora indicato come Ponte dei Marmi.<br />

Era novembre, e come singolarmente ciascuno di noi in questo mese ravviva il<br />

ricordo dei propri cari scomparsi, così da sessantotto anni, insieme, riaccendiamo la<br />

memoria di questi ragazzi, e ogni volta dalle loro storie cerchiamo di trarre spunto per<br />

migliorare il nostro impegno civile, per essere degni del loro sacrificio.<br />

Si chiamavano Walter Catter Vampa, Livio Gemmo, Lino Ercole Festini, Angelo<br />

Menardi, Guido Molon, Aldo Montemezzo, Massimiliano Navarrini, Silvio Paina, Luigi<br />

Pasqualin, Renato Mastini. Nomi tutti che risuonano familiari nelle nostre contrade, che<br />

sentiamo per ciò stesso vicini.<br />

Questo il racconto di Nino Bressan, comandante partigiano tra i più coraggiosi, da<br />

poco scomparso, che visse in prima persona queste vicende e le raccontò quarant’anni<br />

dopo in modo così asciutto, con parole così “giuste”, che trovo naturale riproporle a voi<br />

senza inutili parafrasi:<br />

«Erano tutti ventenni, abitanti nelle zone di Albettone, Rovolon, Villaga, dei colli<br />

Euganei, rastrellati o catturati nell’ottobre del ’44 con tanti altri perché o facenti<br />

parte delle Brigate Pierobon, Sabbatucci, Falco, o perché renitenti alla leva, o<br />

perché sbandati.<br />

Nella tarda mattinata piovigginosa di quell’11 novembre 1944 un autocarro delle<br />

SS li portò in questo posto. Si lasciò, per pochi minuti, a Padre Fedrizzi del Tempio<br />

di S. Lorenzo dar loro i conforti religiosi, e quindi fatti scendere e avanzare uno<br />

alla volta verso questi binari- allora c’era una specie di passaggio a livello- furono<br />

stroncati da raffiche di mitra, uno dopo l’altro. Per 48 ore i cadaveri rimasero sul<br />

posto, sotto la pioggia, affinché -si disse- tutti potessero constatare la giustizia<br />

tedesca».<br />

C. PONCINA – Vicenza, X Martiri pagina 1 di 7


www.istrevi.it/commemorazioni<br />

Due giorni sotto la pioggia, impedendo ai familiari di avvicinarsi per rendere loro le cure<br />

pietose che la circostanza richiedeva.<br />

Questa crudeltà nasceva da una scelta precisa dei nazisti e dei loro servizievoli<br />

amici fascisti: si cercava in questo modo di terrorizzare i partigiani, ma ancor più la<br />

popolazione civile, mettendola – per paura – contro i resistenti.<br />

In realtà la disumanità degli occupanti non fece che accrescere l’ostilità della<br />

popolazione nei confronti loro e di chi li sosteneva, i fascisti locali.<br />

Questo atteggiamento feroce risulta antitetico a quello di chi li combatteva non per<br />

amore della guerra e della violenza, ma per rispetto dell’uomo e della sua calpestata<br />

dignità. I canti partigiani nati in quegli anni ne sono testimonianza, tanto diversi da<br />

quelli grotteschi e cupi dei fascisti. Sono canti ingenui, senza pretese, eppure capaci di<br />

esprimere sentimenti veri:<br />

“Avevamo vent’anni e oltre il ponte,<br />

oltre il ponte ch’è in mano nemica, vedevam l’altra riva, la vita,<br />

tutto il bene del mondo oltre il ponte.<br />

La speranza era nostra compagna…<br />

Scalzi e laceri eppure felici”<br />

E più avanti:<br />

Vedevamo a portata di mano,<br />

Oltre il ponte, il cespuglio, il canneto,<br />

L’avvenire di un giorno più umano,<br />

E più giusto, più libero, lieto.<br />

Non è grande poesia 1 , ne siamo consapevoli, ma quando ho ascoltato questa canzone ho<br />

pensato che certo, quei versi erano stati scritti anche per loro, per questi dieci ragazzi<br />

fucilati al Ponte dei Marmi.<br />

Vorrei sottolineare con forza questo tema della differenza d’animo direi, prima<br />

ancora che politico-ideologica, tra partigiani e fascisti, visto che soprattutto in<br />

quest’ultimo, triste ventennio, si è fatto il possibile per confondere e mistificare I termini<br />

del feroce conflitto che contrappose i combattenti per la libertà e i fascisti, volonterosi<br />

alleati degli occupanti tedeschi. Lo si è presentato, nella migliore delle ipotesi, come una<br />

guerra tra opposte fazioni, entrambe ugualmente “rispettabili”. Nella peggiore -e la cosa<br />

mi indigna <strong>prof</strong>ondamente- parlando dei partigiani come di volgari ladri e assassini, e<br />

delle camicie nere e dei loro compari come di leali alleati dei tedeschi e sinceri patrioti.<br />

«Ci hanno chiamati fuorilegge, venduti al nemico. Nessuna offesa ci é stata<br />

risparmiata. Abbiamo sofferto la fame e la sete, abbiamo camminato nella neve con le<br />

scarpe rotte, e ci hanno chiamato ladri. Abbiamo regalato la vita a uomini che Dio stesso<br />

condannava e ci hanno chiamato assassini. Noi però siamo per la giustizia e l'onore. Per<br />

questo siamo generosi» 2 .<br />

Sono parole di Rinaldo Arnaldi, scritte nel vivo della guerra feroce in cui lottò e perse la<br />

vita.<br />

E Fiorenzo M. Costalunga, “Argiuna”, incarcerato a Vicenza, scrive: «È strano, non provo<br />

alcun odio, alcun rancore, mi raccolgo in me» 3 . E più Avanti, quando sta per essere<br />

liberato dal carcere, si sente paradossalmente in colpa, «quasi vergognoso d’essere<br />

prescelto <strong>dalla</strong> fortuna e di dover lasciare (in prigione) altri uomini con cui (ha) stretto<br />

1 In realtà questi versi, così volutamente semplici, appartengono ad un grande intellettuale, Italo<br />

Calvino. Non fu l’unico nella prima, fervida fase storica che seguì la fine del 2° conflitto mondiale,<br />

ad impegnarsi nel tentative di avvicinare il sentire delle masse popolari alla parte più viva della<br />

nostra cultura. Potrei fare molti esempi ma non è questa la sede in cui farlo.<br />

2 Mimma Arnaldi, Rinaldo Arnaldi, tip. S. Gaetano, Vicenza 1947, p. 56.<br />

3 Prime impressioni di carcere, Fiorenzo Mario Costalunga, Quaderni dell’Anpi 1945, p. 10.<br />

C. PONCINA – Vicenza, X Martiri pagina 2 di 7


www.istrevi.it/commemorazioni<br />

rapporti di cordialità e di amicizia» 4 . Morirà il 6 settembre del ’44.<br />

Questo è l’animo del partigiano “vero”, che niente ha a che fare col fanatismo violento dei<br />

fascisti.<br />

Purtroppo la macchina del fango non è stata inventata oggi, lavorava fin dal ’45, se non<br />

prima, a rimuovere, mascherare, stravolgere la realtà.<br />

Come una menzogna così palesemente smentita dai fatti abbia potuto attecchire tanto<br />

<strong>prof</strong>ondamente, è cosa che meriterebbe un lungo discorso sulla natura degli italiani, o<br />

quantomeno di una loro parte.<br />

Il fatto è che gli eroi veri mettono in luce la cattiva coscienza di molti, e allora meglio<br />

buttarli giù dal piedistallo, inventando su di loro le più ignobili menzogne.<br />

Un modo cinico di coprire la cattiva coscienza di tanti, che subito dopo la fine del<br />

conflitto seppero rifarsi una verginità infangando la memoria delle migliaia di giovani<br />

che, attraverso percorsi diversi, seppero scegliere la parte giusta, che guarda caso era la<br />

più scomoda, rischiosa, dura.<br />

Non che non si possano trovare tra le gesta dei partigiani azioni o uomini<br />

condannabili. Lo cantavano anche, nella stessa canzone già citata: “Non è detto che<br />

fossimo santi, l’eroismo non è sovrumano”, ma non dimentichiamo che si trattò di una<br />

guerra civile, la più crudele tra le guerre.<br />

Certo a favorire la falsificazione della realtà intervennero delle concause di carattere più<br />

generale, come lo scoppio, successivo alla fine del conflitto ma implicito già prima, della<br />

guerra fredda tra le due maggiori potenze che si erano alleate contro il nazifascismo: gli<br />

Stati Uniti d’America e l’URSS, e ciò provocò la violenta contrapposizione tra comunismo<br />

e anticomunismo.<br />

Su questa si inserì la polemica antipartigiana, che identificava subdolamente partigiani e<br />

comunisti, mentre noi sappiamo che alla Resistenza parteciparono tutte le forze<br />

antifasciste sulla spinta - come scrisse Primo Levi - di “un muto bisogno di decenza”.<br />

Parlo di cattolici, laici, comunisti, sacerdoti, dei molti militari, come gli alpini di<br />

Cefalonia, i bersaglieri di Montelupo, gli ufficiali e i soldati dell’esercito italiano che dopo<br />

l’8 settembre salirono in montagna per organizzare la resistenza contro il nazifascismo,<br />

dei moltissimi internati nei campi di concentramento in Germania per aver rifiutato di<br />

combattere a fianco dei nazifascisti.<br />

Purtroppo sostenere le tesi dei fascisti, degli opportunisti, dei trasformisti, è<br />

risultato molto redditizio anche sul piano pratico, consentendo ancor oggi a giornalisti<br />

disinvolti di arricchirsi con libri che non sono altro che scaltre rimasticature delle tesi<br />

repubblichine, riproponendo continuamente il peggio che ogni guerra civile<br />

inevitabilmente porta con sé, e consentendo di fare di ogni erba un fascio, mescolando<br />

confusamente gli ideali di chi ha combattuto per la giustizia e la libertà con le torbide<br />

aspirazioni alla supremazia di supposti forti contro i deboli, della razza superiore contro<br />

quelle giudicate inferiori.<br />

E a questo proposito non posso tacere il fatto che tra I dieci giovani uccisi al Ponte<br />

dei Marmi quattro erano Sinti, appartenenti ad una etnia che - seppure poco lo si ricordi<br />

- ha visto bruciare nei campi di sterminio nazisti un milione e mezzo dei suoi figli, e<br />

molti altri partecipare con coraggio e onore alla lotta di liberazione in tutta Europa.<br />

Ignorati al punto che, riguardo ai fatti che qui ricordiamo, solo nel 2007 è emerso che<br />

dei dieci martiri quattro erano “zingari”, come sprezzantemente vengono di norma<br />

chiamati. La memoria, nelle comunità Sinti e Rom, è essenzialmente orale e chiusa<br />

all’interno di gruppi isolati dal contesto entro cui vivono, e questo favorisce l’oblio.<br />

Oggi li ricordiamo con i loro nomi e le loro singolari, oserei dire poetiche,<br />

<strong>prof</strong>essioni, così come vennero indicate nei documenti ufficiali: Walter Catter, di<br />

<strong>prof</strong>essione circense, Lino Festini, musicista-teatrante, Silvio Paina, girovago-circense,<br />

4 Ivi, p. 24.<br />

C. PONCINA – Vicenza, X Martiri pagina 3 di 7


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Renato Mastini, di <strong>prof</strong>essione circense.<br />

Queste loro vite ai margini non ostacolarono l’impegno civile e la lotta coraggiosa<br />

contro il nazifascismo, impegno e lotta che molti bravi borghesi non seppero scegliere<br />

con altrettanto coraggio.<br />

L’Italia, il Paese per cui tutti costoro e moltissimi altri sono morti, in questi ultimi<br />

tempi sta vivendo momenti duri, i più duri <strong>dalla</strong> fine dell’ultima guerra, per cui il nostro<br />

ritrovarci insieme acquista un significato particolare: non si tratta solo di onorare –come<br />

dovuto- dieci giovani partigiani vittime della barbarie nazifascista. Dalle storie e dai volti<br />

semplici dei dieci martiri vorremmo, vogliamo, trarre esempio, forza, animo, per<br />

affrontare con più coraggio e generosità e soprattutto insieme, la decadenza del nostro<br />

Paese che, prima ancora che economica, è civile ed etica.<br />

Mi piacerebbe che il ricordo che oggi ravviviamo ci spingesse a tornare a casa più<br />

consapevoli di noi stessi e dei nostri doveri nei confronti della comunità, ci aiutasse a<br />

guardare al futuro con più speranza, ci sollecitasse a tirar fuori il meglio da noi stessi<br />

non per fini personali, ma per la gioia che dà il sentirci parte di una comunità coesa.<br />

Dico questo per togliere subito <strong>dalla</strong> mente di tutti noi l’idea che queste ripetute<br />

commemorazioni risultino gravate da una fredda ritualità, da un sentore di retorica che<br />

rischia di allontanare soprattutto i giovani. Mentre invece è proprio per voi giovani che<br />

ha senso – è anzi doveroso – fare tutto questo.<br />

È a voi che dobbiamo proporre il racconto e l’esempio di comportamenti<br />

coraggiosi, nobili nel senso originario e ormai perduto del termine, riferito ad azioni<br />

compiute da uomini che si sentono parte di una più ampia cominità.<br />

Tutto questo l’abbiamo dimenticato negli ultimi decenni di trionfante, narcisistico<br />

individualismo, sospinti da un vento che spirava fortissimo, alimentato dal thatcherismo,<br />

dal reaganismo, dal neoconservatorismo americano, ideologie queste ultime che hanno<br />

trovato appassionati quanto mediocri cantori (alla Giuliano Ferrara…) nei nostri giornali<br />

e nelle televisioni, tutti a spingere ossessivamente verso la ricerca dell’appagamento<br />

personale a tutti i costi: successo e denaro come valori primari da proporre ai giovani.<br />

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una società disgregata, che ostenta senza<br />

vergogna ignoranza e volgarità. Una società in cui ognuno rema per sè, con il rischio di<br />

far andare a picco tutti.<br />

Diventa allora assai importante, direi vitale, tornare allo spirito che unì – negli anni<br />

della Resistenza – cattolici e comunisti, laici e credenti, nello sforzo comune di salvare, in<br />

primis, la dignità di questo Paese, imprimendo alla Resistenza stessa un sigillo di<br />

Italianità.<br />

Perché lo sappiamo bene che per la Liberazione furono indispensabili le forze<br />

alleate, ma per l’onore dell’Italia ancora più indispensabili furono quelle migliaia di<br />

italiani e di Italiane che – non dimentichiamolo mai – non se ne stettero ad attendere la<br />

salvezza dagli alleati, ma con le armi o senza, rischiarono la vita e in molti casi la<br />

perdettero, per rispetto di sé e amore per il proprio Paese.<br />

Quello spirito e quella lotta consentirono a uomini delle più diverse provenienze<br />

sociali e culturali, di scrivere in diciotto mesi una Costituzione bellissima, persino dal<br />

punto di vista formale.<br />

Una Costituzione che collocò il nostro Paese alla pari con quelli più avanzati sul<br />

piano dei diritti: al lavoro, allo studio, all’uguaglianza, alla parità di genere, e proprio per<br />

questo fortemente osteggiata <strong>dalla</strong> classe politica dominante nell’ultimo ventennio, la<br />

peggiore dall’Unità d’italia – fascismo a parte. Una classe politica che ignara di storia,<br />

priva di sapienza giuridica, ha ripetutamente tentato di cancellare una Costituzione che<br />

ai suoi occhi è macchiata dal peccato originale di essere nata <strong>dalla</strong> Resistenza.<br />

Una Costituzione che non va stravolta, semmai pienamente attuata.<br />

Ho già ricordato Nino Bressan, figura esemplare di partigiano, da poco scomparso.<br />

A lui – come già detto – si deve la ricostruzione più asciutta e viva della vicenda dei Dieci<br />

C. PONCINA – Vicenza, X Martiri pagina 4 di 7


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Martiri, contenuta nel discorso commemorativo pronunciato l’11 novembre 1984,<br />

quarantesimo anniversario dell’eccidio.<br />

Insieme a Nino mi piace ricordare Bene Galla, che firmò la prefazione al libretto<br />

che ne raccoglie il testo, stampato da Neri Pozza, perché anche Bene, “piccolo maestro”, è<br />

uno di quei vicentini un po’ dimenticati che meritano un ricordo affettuoso da parte di<br />

noi tutti, nonostante o proprio per la ritrosia con cui preservò -dopo la Liberazione- la<br />

sua personale memoria di quegli anni.<br />

Queste le parole di Bene: «il comandante Nino, il militare Nino, ci ha lasciato una<br />

pagina di storia, detta nell’unico modo in cui la storia può essere detta: con la forza della<br />

verità».<br />

E introduce subito il criterio cui si è at<strong>tenuto</strong>:<br />

«Non scorda[re] mai che i fatti che meritano di essere ricordati sono quelli che sono<br />

illuminati da un ideale, da una speranza, <strong>dalla</strong> convinzione che essi contribuiscono al<br />

progresso del consorzio civile».<br />

Commenta Galla: «quello (l’eccidio dei dieci martiri, n.d.r) era stato uno di quei fatti. Uno<br />

di quei fatti che indicavano senza equivoci, quasi “necessariamente”, i termini della<br />

guerra che allora si combatteva, la posta in gioco, i suoi problemi, il suo fine, il suo<br />

prezzo. Non una sbavatura retorica, non un cenno di trionfalismo: cose che si dovevano<br />

fare, che si facevano con I mezzi che c’erano, consapevoli che il rischio era quello della<br />

vita, carichi della responsabilità, dei rischi che, per quel fine, si doveva far correre anche<br />

ad innocenti».<br />

Di queste storie, di queste persone si dovrebbe parlare a scuola, nei giornali, in<br />

televisione, per uscire dal clima opaco, <strong>dalla</strong> condizione di sfiducia, dai falsi miti con cui<br />

sono stati ingannati i giovani e i meno giovani in questi ultimi, tristi tempi. Più tristi, dal<br />

punto di vista delle certezze morali, di quelli vissuti da Nino, Bene, dai dieci giovani qui<br />

brutalmente giustiziati e dalle altre centinaia di migliaia che videro con chiarezza da che<br />

parte stava il bene, la giustizia.<br />

E del resto questa chiarezza nella scelta traspare dalle testimonianze scritte dai<br />

veri patrioti, dai partigiani in prossimità della fine: «Sopporto rassegnato: il corpo potrà<br />

soffrire, l’anima potrà soffrire, ma una cosa non muore: l’Idea. E la Patria è l’idea divina».<br />

Lo scrive un giovane ventenne in partenza per Mauthausen, dove morirà.<br />

E suona amaro ai nostri orecchi quanto scrive un altro prigioniero destinato ai campi di<br />

sterminio: «Penso che è giusto che come la gran parte dell’umanità paghi anche io il mio<br />

tributo al destino comune che divide, allontana, ma infine ricongiungerà, perché<br />

attraverso il dolore gli uomini siano purificati e migliori e rinascano alla felicità di vivere<br />

insieme, gioire insieme, amare, godere della natura, delle stagioni, della vita insomma» 5 .<br />

Non è blasfemo porre sullo stesso piano gli ideali di questi giovani e quelli delle<br />

camice nere col teschio, che esaltavano la “bella morte” e i cui eredi sono lasciati<br />

impunemente sfilare urlando slogan osceni, davanti alle telecamere di quest’Italia atona,<br />

amorfa, incapace di reagire in nome di quel “muto bisogno di decenza” di cui parla Primo<br />

Levi, e che sta all’origine della lotta partigiana?<br />

Dico questo perché è di pochi giorni fa la macabra sceneggiata di fascisti ripresi da<br />

tutte le televisioni in chiesa, ai funerali di un loro capo considerato un ideologo del<br />

terrorismo nero, seppure mai condannato da un tribunale. Ci siamo visti riproporre<br />

tutto l’armamentario retorico del fascismo, senza che i media più influenti proponessero<br />

un commento, osassero una critica, come fosse “normale” quella sfacciata apologia di<br />

fascismo.<br />

Ripropongo le parole di uno dei pochissimi giornalisti che ne ha parlato con<br />

sdegno: «Questa è gente che ha continuato a vivere nel fascismo come i Mafiosi nella<br />

mafia, dopo che è stato processato e condannato <strong>dalla</strong> Storia come un delitto grave con<br />

5 Dal libro:Voci dal lager, a cura di M. Avagliano e M. Palmieri, Einaudi 2012.<br />

C. PONCINA – Vicenza, X Martiri pagina 5 di 7


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una vocazione ad uccidere. Da Gramsci a Gobetti, da Matteotti ai fratelli Rosselli, tutta la<br />

storia italiana del secolo scorso è testimonianza di delitti repellenti che hanno recato<br />

all’Italia danni immensi».<br />

Ma quanti italiani ne sono consapevoli, quanti giovani italiani conoscono i personaggi<br />

succitati?<br />

È da questa consapevolezza amara che bisogna ripartire.<br />

Confrontando la nostra situazione con quella vissuta dai dieci martiri, noi sentiamo<br />

che quelle vite, pur tragicamente troncate, hanno avuto un senso, e di questo ciascuno di<br />

loro era certo consapevole. Non intendo con questo rimpiangere gli anni durissimi,<br />

tragici della guerra di Liberazione –sarebbe folle- ma solo sottolineare come l’assenza di<br />

valori, speranze, senso di appartenenza ad una civitas, possono bruciare tante<br />

giovinezze e produrre danni gravissimi ad una comunità. Purtroppo è quello che stiamo<br />

vivendo oggi in Italia. È la grigia guerra cui sono condannate le nuove generazioni, ma<br />

cui dobbiamo reagire anche grazie all’esempio di Walter, Livio, Rino, Angelo, Guido,<br />

Aldo, Massimiliano, Silvio, Luigi, Renato.<br />

Un’ultima osservazione prima di concludere. Riprendo ancora una volta le parole<br />

di Nino Bressan, sempre allo scopo di ristabilire la verità smentendo le calunnie sulle<br />

rappresaglie “causate” dai partigiani. Colpisce quanto egli ci tenga a sottolineare la cura,<br />

nell’organizzare le azioni, volta ad evitare rappresaglie tra i civili, facendo in modo che<br />

gli attentati ostacolassero il controllo tedesco del nostro territorio senza provocare<br />

morti tra i soldati tedeschi che giustificassero le loro feroci rappresaglie. Ci sono molti<br />

passi dei suoi scritti che testimoniano della grande attenzione che i partigiani avevano<br />

per la vita dei civili: case di spie fasciste che avrebbero dovuto saltare in aria e che<br />

invece vennero preservate per aver sentito provenire di lì il pianto di un bambino. Mine<br />

pronte per essere fatte brillare, freneticamente disinnescate per l'apparire di un treno<br />

carico di civili. Costante era la cura per le vite degli altri, a volte anche dei fascisti,<br />

nonostante tutto.<br />

Al contrario, I morti che qui ricordiamo testimoniano della totale assenza di pietas<br />

in chi decide della vita dei propri simili non sulla base di una riflessione<br />

consapevolmente umana, ma servendosi della nuda casualità nel decidere della vita e<br />

della morte altrui, affidandola a una macabra scelta tra chi ha diritto di vivere e chi, per<br />

insindacabile e irrazionale volontà deve morire.<br />

Il fatto è, come ap<strong>prof</strong>onditi studi storici recenti hanno dimostrato 6 , che solo in<br />

pochi casi le cosiddette rappresaglie tedesche rispondevano ad atti di violenza dei<br />

partigiani.<br />

La semplice correlazione tra le innumerevoli stragi che soprattutto tra l’estate e<br />

l’autunno del ’44 e la primavera del '45 insanguinarono l’Italia centrale e settentrionale<br />

e le azioni partigiane, evidenzia sulla base della semplice cronologia come in realtà le<br />

rappresaglie venissero decise all'interno di una precisa strategia del terrore rivolta alla<br />

popolazione civile, che diversamente da quanto sos<strong>tenuto</strong> da una certa storiografia, non<br />

era composta in maggioranza <strong>dalla</strong> cosiddetta zona grigia, indifferente alle ragioni dei<br />

due contendenti e sostanzialmente attendista. La zona grigia è esistita – certo – ma non<br />

rappresentava la maggior parte degli italiani, quantomeno al Centro e al Nord, né era<br />

innocente.<br />

La neutralità fu in ogni caso colpevole, se condividiamo le parole del teologo<br />

tedesco Dietrich Bonhoeffer, ucciso dai nazisti nel campo di concentramento di<br />

Flossemburg a poche settimane <strong>dalla</strong> fine della guerra: «Il silenzio di fronte al male è<br />

esso stesso un male. Non parlare è parlare. Non agire è agire».<br />

I partigiani hanno parlato, hanno agito anche per chi se ne stava immobile,<br />

6 Cfr.: M. Battini, P. Pezzini, Guerra ai civili: occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana<br />

1944, Marsilo 1997.<br />

C. PONCINA – Vicenza, X Martiri pagina 6 di 7


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salvando la dignità di tutto un popolo altrimenti condannato all’ignavia e alla vergogna.<br />

Ma il loro successo e la loro stessa vita -stiamo parlando di circa duecentomila uomini-<br />

erano legati a tutti quegli italiani e italiane che li sostennero nascondendoli, nutrendoli,<br />

rischiando la vita col loro muto appoggio, anche se non toccarono mai un’arma né<br />

combatterono in campo aperto.<br />

Gli studi più recenti hanno confermato ciò che era chiaro all'indomani della<br />

Liberazione e che fu in seguito coperto, e cioè che la gran parte della popolazione<br />

italiana, con più forza ovviamente nelle zone occupate dai nazifascisti, appoggiò i<br />

partigiani esponendosi a rischi enormi, nascose i soldati prigionieri dei tedeschi, aiutò<br />

gli ebrei nascondendoli o accompagnandoli al confine.<br />

I veleni diffusi in quegli anni purtroppo agiscono ancora, ed è lecito sospettare che<br />

l'ultimo ventennio, pur non avendo privato delle libertà nè oppressi con la violenza gli<br />

italiani, abbia modificato a fondo il loro carattere, immiserendo le antiche virtù di<br />

solidarietà ed esaltandone i difetti: individualismo, immoralità scarso senso del Bene<br />

Comune.<br />

La Resistenza fu un momento in cui il bisogno di “giustizia e libertà” si sostituì a<br />

ogni altro impulso, anche a quello della sopravvivenza; era quella l'ora in cui si era<br />

chiamati a testimoniare; «non era una scelta di morte, anche se si traduceva nel morire<br />

e nel far morire» 7 . Purtroppo: «gli uomini dell'antifascismo scoprirono presto che la<br />

scomparsa del loro nemico storico non coincideva affatto automaticamente con la loro<br />

vittoria [...] i venti mesi della lotta armata erano stati troppi per i lutti e le sofferenze che<br />

avevano causato, ma pochi, troppo pochi perché sulle lacerazioni non si formasse<br />

immediatamente la crosta della continuità» 8 .<br />

L'ennesima svolta trasformista si consumava «in questo povero paese che non ha mai<br />

avuto una vera rivoluzione, che non ha mai conosciuto il costruttivo tormento di una<br />

riforma religiosa». Un Paese in cui gli accordi tra partiti si sono realizzati «più che sul<br />

piano politico su un piano di compromesso e di fiacchezza morale», producendo l'eterno<br />

ritorno «all'Italietta delle cricche elettorali, dei protezionismi, delle pastette<br />

governative». (G. Agosti)<br />

Dio non voglia che che nei prossimi mesi ci tocchi assistere all’ennesima “pastetta<br />

governativa”. Per evitare la quale non resta che imitare il coraggio e l’impegno civile di<br />

questi giovani, assumere su di noi il loro bisogno di decenza e dignità, imporci sempre e<br />

ovunque di ristabilire almeno la verità dei fatti.<br />

Questo l’impegno cui il sacrificio di questi giovani ci chiama, per il bene dell’Italia.<br />

E dunque: ora e sempre, Resistenza!<br />

7 Dalla prefazione di G. De Luna al libro: Un filo tenace. Lettere e memorie 1944-1969, di Willy<br />

Jervis, Lucilla Jervis Rochat, Giorgio Agosti, Bollati-Boringnieri 2008.<br />

8 Ivi.<br />

C. PONCINA – Vicenza, X Martiri pagina 7 di 7

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