Tesi di dottorato_Master_7 - Padis

“ SAPIENZA” - UNIVERSITA’ DI ROMA
FACOLTA’ DI ECONOMIA
DIPARTIMENTO DI MANAGEMENT E TECNOLOGIE
DOTTORATO DI RICERCA IN
“GESTIONE BANCARIA E FINANZIARIA”
TESI DI DOTTORATO
XXII CICLO
LA PERFORMANCE DELLE IMPRESE ITALIANE PRIVATE EQUITY BACKED
SARA LUONGO

INDICE
ABSTRACT...........................................................................................................................4
INTRODUZIONE .................................................................................................................5
1. LE OPERAZIONI DI PRIVATE EQUITY E IL LORO IMPATTO ECONOMICO ....9
1.1 LE OPERAZIONI DI PRIVATE EQUITY.............................................................9
1.1.1 Il finanziamento dell’avvio..........................................................................11
1.1.2 Il finanziamento dello sviluppo ...................................................................14
1.1.3 Il finanziamento del cambiamento...............................................................16
1.2 IL PROCESSO D’INVESTIMENTO E DISINVESTIMENTO.........................20
1.3 L’EVOLUZIONE DEL MERCATO DEL PRIVATE EQUITY E VENTURE
CAPITAL IN ITALIA ......................................................................................................23
1.3.1 Gli operatori attivi nel mercato del private equity.......................................25
1.3.2 Principali tendenze degli investimenti di private equity e venture capital in
Italia .....................................................................................................................30
1.3.3 I rendimenti del mercato italiano del private equity e venture capital ........42
1.4 L’IMPATTO ECONOMICO DEL PRIVATE EQUITY ....................................49
1.4.1 L’impatto economico del private equity negli Stati Uniti ...........................53
1.4.2 L’impatto economico del private equity in Europa .....................................57
1.4.3 L’impatto economico del private equity nel Regno Unito ..........................64
1.4.4 L’impatto economico del private equity in Cina .........................................66
1.4.5 L’impatto economico del private equity in Italia.........................................68
1.4.6 L’impatto economico del private equity sulla singola impresa ...................75
1.4.6.1 Private equity e ricambio generazionale..................................................76
1.4.6.2 Private equity e internazionalizzazione ...................................................77
1.4.6.3 Private equity e innovazione....................................................................78
1.4.6.4 Private equity e corporate governance....................................................81
2. OBIETTIVI, LIMITI E METODOLOGIA D’INDAGINE ........................................83
2.1 OBIETTIVI E LIMITI DELLA RICERCA ........................................................83
2.2 METODOLOGIA D’INDAGINE .......................................................................86
2.3 IL CONTESTO ECONOMICO DI RIFERIMENTO .......................................103
3. LA PERFORMANCE DELLE IMPRESE PRIVATE EQUITY BACKED – LA
COMPARAZIONE NEL TEMPO ....................................................................................107
3.1 I RISULTATI DELL’ANALISI DI BILANCIO DELLE IMPRESE DEL
CAMPIONE...................................................................................................................107
3.1.1 L’analisi del fatturato, occupazione ed EBITDA ......................................109
3.1.2 L’analisi della solidità................................................................................116
3.1.2.1 La correlazione tra gli impieghi e le fonti: il quoziente secondario di
struttura ...............................................................................................................117
3.1.3 L’autonomia finanziaria.............................................................................121
3.1.3.1 L’indice di indebitamento (indice di dipendenza finanziaria) e l’indice
d’indebitamento a breve.........................................................................................122
3.1.3.2 Il quoziente d’indebitamento finanziario...............................................125
3.1.4 L’analisi della liquidità ..............................................................................130
3.1.4.1 L’indice di disponibilità e il quoziente di tesoreria ...............................130
3.1.5 L’analisi della redditività...........................................................................135
3.1.5.1 Il ROE (Return on Equity).....................................................................135
3.1.5.2 Il ROI (Return on Investment)...............................................................137
2

3.1.5.3 Il ROS (Return on Sales) .......................................................................140
3.1.5.4 L’indice di produttività del capitale investito ........................................142
3.1.5.5 Il Costo dell’indebitamento ...................................................................144
4. LA PERFORMANCE DELLE IMPRESE PRIVATE EQUITY BACKED– LA
COMPARAZIONE NELLO SPAZIO...............................................................................147
4.1 LA COMPARAZIONE NELLO SPAZIO ........................................................147
4.2 IL CAMPIONE DI CONFRONTO ...................................................................147
4.3 L’ANALISI DEL FATTURATO, OCCUPAZIONE ED EBITDA..................157
4.4 LA COMPARAZIONE NELLO SPAZIO: LA SOLIDITA’ E LA LIQUIDITA’ .
...........................................................................................................................160
4.5 LA COMPARAZIONE NELLO SPAZIO: LA REDDITIVITA’.....................165
ALLEGATO I – Dati di dettaglio – Campione analizzato ................................................173
ALLEGATO II – Indicatori di performance – Dati di dettaglio per classi di osservazione
...........................................................................................................................................182
Indice dei grafici e delle tabelle.........................................................................................192
BIBLIOGRAFIA ...............................................................................................................199
3

ABSTRACT
L’attività di private equity sta assumendo, con il passare degli anni, un ruolo di primo
piano nei sistemi economici di tutto il mondo ed è identificata, sempre più spesso, come
una “nuova forma di capitalismo”. Il capitale di rischio sta diventando, infatti, uno dei
principali attori del mercato delle imprese ed è protagonista di una crescita costante a
livello mondiale che lo ha portato a essere considerato uno dei più importanti fattori del
cambiamento. In particolare, si ritiene che tale cambiamento sia dovuto principalmente
alla capacità di accelerare e sostenere i processi interni alle aziende. La valutazione degli
effetti prodotti sulle imprese partecipate dagli operatori di private equity ha quindi, nel
corso degli anni, rappresentato uno dei principali ambiti di studio della materia. Il
presente lavoro intende contribuire ad alimentare la ricerca sull’impatto economico del
private equity in Italia, nei confronti del quale la letteratura non offre un’ampia copertura,
dato il recente sviluppo del fenomeno nel nostro Paese. Attraverso un’analisi ex post
effettuata sulle imprese “private equity backed”, si è verificato se, in quale misura e in
quale ambito, tali realtà abbiano fatto segnare performance economico – finanziarie
superiori rispetto al periodo precedente l’intervento dell’investitore istituzionale e rispetto
alle performance riconducibili a imprese simili, mai entrate in contatto con il private
equity. I risultati raggiunti dimostrano come l’investimento nel capitale di rischio
contribuisca sensibilmente alla crescita di grandezze quali fatturato, EBITDA ed
occupazione; meno visibili sono invece gli effetti sulla redditività, solidità e liquidità delle
imprese target.
4

INTRODUZIONE
L’AIFI (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital) definisce l’attività di
Private Equity come “l’attività d’investimento nel capitale di rischio delle imprese non
quotate con l’obiettivo della valorizzazione dell’impresa oggetto d’investimento ai fini
della sua dismissione entro un periodo di medio – lungo termine”. La letteratura distingue
le diverse tipologie d’investimento possibili in funzione della fase del ciclo di vita in cui si
trova l’impresa target. Ad ogni stadio di sviluppo dell’azienda infatti, mutando dimensioni
e prospettive, si rende necessario un intervento diverso dell’investitore istituzionale, in
termini di capitale e know how. Così la prassi europea distingue tra operazioni di private
equità, per intendere tutte quelle realizzate su fasi del ciclo di vita delle aziende successive
a quella iniziale, e venture capital ossia il finanziamento dell’avvio di un’impresa. In
entrambi i casi comunque, l’investimento nel capitale di rischio delle imprese consente alle
stesse di reperire fonti a medio – lungo termine che possono essere utilizzate per sostenere
tanto la loro fase di start up quanto i loro piani di sviluppo come il lancio di nuovi prodotti,
lo sviluppo di nuove tecnologie, l’entrata in nuovi settori o mercati, l’acquisizione di altre
aziende; negli ultimi anni, inoltre, i fondi di private equity vengono utilizzati in relazione ai
problemi connessi con la proprietà delle imprese o al passaggio generazionale. Si ricorda,
inoltre, che tanto nelle operazioni di venture capital quanto in quelle di private equity la
finalità è comune: investire in aziende generalmente caratterizzate da elevate prospettive in
termini di crescita e redditività per poi dismettere le partecipazioni acquisite al fine di
realizzare elevati capital gain.
Nel corso degli ultimi anni, il mercato del capitale di rischio è stato caratterizzato da un
trend di continua crescita a livello mondiale. Tale trend è riscontrabile anche per il mercato
italiano nel quale, secondo le statistiche dell’Associazione Italiana del Private Equity e
Venture Capital, l’ammontare delle operazioni concluse tra il 2005 ed il 2008 è quasi
raddoppiato (da 3 a 5,5 miliardi di euro). La crescita non riguarda solo l’importo dei
capitali investiti, ma anche il numero di deals: il volume delle operazioni è infatti
aumentato da 281 a 372, nel periodo 2005-2008. Così come per gli investimenti, anche
l’attività di disinvestimento ha presentato, negli ultimi anni, segnali di forte dinamismo.
Nel corso del 2009 l’ammontare complessivamente disinvestito, calcolato al costo di
acquisto della partecipazione (al netto quindi del capital gain), ha raggiunto i 1.821 milioni
5

di euro, il doppio rispetto al 2005. Il mercato del capitale di rischio italiano si colloca così
tra le prime cinque posizioni della classifica europea, seguendo a notevole distanza
l’Inghilterra ma allineandosi al mercato francese, spagnolo e tedesco.
La crescente importanza del private equity è da attribuire non solo al sostegno finanziario
alle imprese. I fondi di private equity hanno conquistato un’importanza crescente anche
perché sono annoverati tra i principali fattori in grado di apportare significativi
cambiamenti ai sistemi economici nazionali, attraverso l’ottimizzazione dei processi interni
alle imprese partecipate. I servizi forniti dall’investitore andrebbero, quindi, oltre il mero
apporto di capitale e riguarderebbero, tra gli altri, la consulenza strategica e finanziaria, la
gestione/selezione del management, i contatti professionali/industriali, lo sviluppo
dell’immagine verso il mercato, il miglioramento dello standing creditizio. Inoltre, sotto il
profilo del processo d’investimento, l’obiettivo degli operatori è quello di realizzare
un’importante plusvalenza (capital gain) nel medio termine, attraverso la cessione della
partecipazione acquisita. In generale, il buon esito dell’intervento è determinato dalla
capacità dell’investitore di contribuire a creare valore all’interno dell’impresa, generando,
nella maggior parte dei casi, un beneficio per l’intero tessuto economico ed imprenditoriale
del paese. I gestori dei fondi di private equity dovranno, pertanto, selezionare società ad
alto potenziale di crescita, per poi creare le condizioni per lo sviluppo. In quest’ottica,
possono essere definiti come dei veri e propri “talent scout” d’impresa..
La valutazione degli effetti prodotti sulle imprese partecipate dagli operatori di private
equity ha, nel corso degli anni, rappresentato uno dei principali ambiti di studio della
materia. Attraverso un’analisi ex post effettuata sulle imprese “private equity backed”,
diversi studi hanno verificato se, e in quale misura, tali realtà abbiano fatto segnare
performance economico-finanziarie superiori rispetto a quelle riconducibili a imprese
simili, mai entrate in contatto con il private equity. I risultati raggiunti dimostrano, nella
maggior parte dei casi, come l’investimento nel capitale di rischio contribuisca
sensibilmente allo sviluppo delle imprese, indipendente dalle caratteristiche operative dei
soggetti investitori e del tessuto produttivo sottostante.
6

Il contributo del presente lavoro vuole inserirsi in questo filone di ricerca. Attraverso
l’analisi dei bilanci delle aziende italiane che sono state oggetto di investimento negli anni
2004 e 2005, si vuole verificare se le imprese private equity backed sovraperfomano, negli
anni in cui si trovano all’interno del portafoglio dell’investitore, rispetto al periodo
precedente, l’intervento dell’operatore e rispetto a imprese che non sono mai entrate in
contatto con l’investitore istituzionale.
A differenza della maggior parte degli studi svolti finora, la performance delle imprese
partecipate da operatori di private equity sarà valutata non solo in termini di crescita del
fatturato, EBITDA e occupazione, ma anche in relazione ai trend dei principali indicatori
di redditività (ROI, ROE, ROS), solidità e solvibilità (indici di struttura, di liquidità, di
indebitamento, etc.). L’obiettivo è quindi quello di valutare l’andamento delle imprese
partecipate a 360 gradi. Come detto, molti ritengono che l’apporto degli investitori
istituzionali abbia una ricaduta positiva sull’intera compagine sociale. Se tutto questo è
vero (e avviene), una gestione dell’impresa “influenzata” dalla presenza dell’investitore
istituzionale dovrebbe tradursi in risultati migliori. La scelta di entrare nel dettaglio e di
procedere ad analizzare anche i principali indici di bilancio è stata dettata dalla volontà di
rilevare, laddove possibile, l’ambito specifico in cui si riscontrano effettivi miglioramenti.
Il campione d’imprese partecipate analizzato è stato costruito selezionando dall’universo
dei 144 investimenti avvenuti negli anni 2004 e 2005, censiti dal Rapporto “Private equity
Monitor - PEM®”, unicamente le imprese (operative) di cui fossero disponibili i dettagli
anagrafici e i dati economico finanziari relativi a tutto il periodo di valutazione e la cui
partecipazione non fosse stata ancora dismessa al termine del quarto anno successivo
all’anno d’investimento. Risultano invece escluse, perché non contemplate nelle
rilevazioni del Private Equity Monitor, tutte le operazioni volte a finanziare la fase di start
up. Al termine del processo di selezione, il campione è risultato composto da 53 imprese le
cui caratteristiche (in termini di tipologia d’investimento, deal origination, area geografica,
settore di attività, dimensione) rispecchiano in larga parte quelle individuate per il totale
dei 144 investimenti realizzati negli anni 2004 e 2005 e quelle riscontrate per il mercato
italiano del private equity nel suo complesso.
7

Per ognuna delle variabili monitorate espresse in valore assoluto (Ricavi, Margine
operativo, etc.) è stato calcolato, così come è stato fatto nella maggior parte degli studi
analizzati, il tasso annuo di crescita composto (CAGR) intercorso tra il primo e il quarto
anno successivo all’acquisizione. Per le grandezze invece già espresse in termini relativi
(tutti gli indici) è stato calcolato il valore medio assunto dall’indicatore nel periodo di
permanenza all’interno del portafoglio dell’investitore. Una volta determinati i tassi di
crescita, per tutte le variabili e per tutte le imprese, al fine di ottenere un dato aggregato
riferibile a tutto il campione di società partecipate, si è proceduto al calcolo dei valori
medi. I dati economico – finanziari sono stati acquisiti direttamente dai bilanci ufficiali
delle società, pubblicati nella Banca Dati AIDA.
Al fine di dare maggiore significatività ai risultati ottenuti, si è reso necessario confrontare
gli stessi con un benchmark di riferimento. Da questo punto di vista si è proceduto in due
modi differenti. Il primo termine di confronto utilizzato è rappresentato dalle stesse
aziende che compongono il campione, di cui sono stati analizzati i dati di performance
relativi al quadriennio precedente l’acquisizione della partecipazione, al fine di verificare
in che misura e in quale ambito l’intervento dell’investitore istituzionale ha determinato
variazioni nelle grandezze monitorate (comparazione nel tempo). Il secondo termine di
raffronto utilizzato è rappresentato da imprese che non sono mai entrate in contatto con un
operatore di private equity (comparazione nello spazio) e, più in particolare, si è fatto
riferimento a quanto emerso dall’indagine “Le medie imprese industriali italiane” svolta
dall’Ufficio Studi di Mediobanca, in collaborazione con il Centro Studi di Unioncamere.
Naturalmente, al fine di preservare l’omogeneità dei dati e quindi dei confronti, le modalità
di calcolo dei tassi di crescita e degli indicatori del secondo benchmark sono state le stesse.
Il lavoro è strutturato in quattro parti principali: dopo una breve introduzione della tematica
(aspetti definitori, andamento del mercato e performance) e una rassegna della letteratura
sull’impatto economico delle operazioni di private equity, si descrive il campione
d’imprese analizzato, gli indicatori monitorati e la loro metodologia di calcolo. Nella terza
e quarta parte, infine, si illustrano le evidenze dell’analisi.
8

1. LE OPERAZIONI DI PRIVATE EQUITY E IL LORO
IMPATTO ECONOMICO
1.1 LE OPERAZIONI DI PRIVATE EQUITY
L’AIFI (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital) definisce l’attività di
Private Equity come “l’attività d’investimento nel capitale di rischio delle imprese non
quotate con l’obiettivo della valorizzazione dell’impresa oggetto d’investimento ai fini
della sua dismissione entro un periodo di medio – lungo termine” 1 . La letteratura distingue
le diverse tipologie d’investimento possibili in funzione della fase del ciclo di vita in cui si
trova l’impresa target. Ad ogni stadio di sviluppo dell’azienda, infatti, mutando dimensioni
e prospettive, si rende necessario un intervento diverso dell’investitore istituzionale, in
termini di capitale e know how. Così la prassi europea distingue tra operazioni di private
equity per intendere tutte quelle realizzate su fasi del ciclo di vita delle aziende successive
a quella iniziale, e venture capital ossia il finanziamento dell’avvio di un’impresa. In
entrambi i casi comunque, l’investimento nel capitale di rischio delle imprese, consente
alle stesse di reperire fonti a medio – lungo termine 2 che possono essere utilizzate per
sostenere tanto la loro fase di start up quanto i loro piani di sviluppo come il lancio di
nuovi prodotti, lo sviluppo di nuove tecnologie, l’entrata in nuovi settori o mercati,
l’acquisizione di altre aziende. Ricordiamo inoltre che tanto nelle operazioni di venture
capital, quanto in quelle di private equity, la finalità è comune: investire in aziende
generalmente caratterizzate da elevate prospettive in termini di crescita e redditività per poi
dismettere le partecipazioni acquisite al fine di realizzare una plusvalenza sulla vendita
delle azioni (capital gain).
Il private equity rappresenta un’importante risorsa finanziaria per quelle società che vivono
particolari momenti della loro vita, tra le quali figurano:
– imprese in fase di avvio;
– imprese interessate a implementare progetti di crescita interna e/o esterna;
– società alle prese con processi di ricambio generazionale;
– imprese in crisi a seguito della congiuntura economica o di errori gestionali;
1 AIFI, delibera del Consiglio Direttivo del 22 luglio 2004.
2 In genere 4 – 6 anni.
9

– imprese pubbliche in fase di privatizzazione;
– società o gruppi orientati a una rifocalizzazione sul core business aziendale;
– tutte le imprese in cui l’apporto di capitale “paziente” rappresenta un input
fondamentale per il prosieguo dell’attività.
La più diffusa ripartizione del mercato del capitale di rischio, le cui categorie sono
internazionalmente adottate dagli operatori, dalle associazioni nazionali e dai centri di
ricerca, classifica come detto le tipologie di investimento, a seconda della fase del ciclo di
vita dell'impresa target, individuando le seguenti tipologie di operazioni:
– seed capital (finanziamento dell’idea) e start up capital in riferimento agli
interventi di early stage ovvero il finanziamento delle prime fasi del ciclo di vita
dell’impresa;
– expansion o development capital per indicare finanziamenti volti alla crescita e
allo sviluppo di un’impresa già ben avviata;
– replacement capital (capitale di sostituzione) con riferimento a tutti gli
investimenti finalizzati alla ristrutturazione della base azionaria, in cui
l’investitore istituzionale si sostituisce, temporaneamente, a uno o più soci di
minoranza non più interessati a proseguire l’attività (l’intervento non è quindi
volto ad aumentare il capitale sociale ma a sostituire in parte l’azionariato);
– turnaround investment, per indicare le operazioni a sostegno di un’impresa che
sta vivendo una fase del suo ciclo di vita patologica (ristrutturazione di imprese in
crisi);
– buy out, per indicare tutte le operazioni orientate al cambiamento totale della
proprietà dell’impresa a favore di manager interni all’impresa stessa
(management buy out) o di manager esterni (management buy in) con l’uso della
leva finanziaria quale strumento di acquisizione (levarage buy out);
– bridge finanzing, per indicare gli interventi finalizzati all’accompagnamento
dell’impresa in Borsa.
Anche se, seppur con minimi adattamenti geografici, tale classificazione è dalla maggior
parte degli addetti ai lavori accettata, è innegabile che molto spesso risulta difficile
individuare con precisione lo stadio di sviluppo in cui un’impresa si trova (e le specifiche
10

esigenze finanziarie e non ad esso collegate). È allora forse più opportuno adottare una
classificazione più ampia, che segmenta gli interventi di private equity in tre sole tipologie,
andando successivamente a definire la maggior parte delle operazioni ad esse riconducibili:
– finanziamento dell’avvio;
– finanziamento dello sviluppo;
– finanziamento del cambiamento.
1.1.1 Il finanziamento dell’avvio
In questa categoria sono da ricondursi tutte le operazioni che hanno come finalità quella di
supportare la nascita di una nuova impresa 3 .
Le imprese in fase di start up presentano caratteristiche strutturali peculiari e necessitano
di un’assistenza mirata. L’aspetto finanziario poi, fondamentale per qualunque impresa in
ogni fase del ciclo di vita, riveste per esse un’importanza di ancora maggiore rilievo in
quanto le “neo imprese” non sono da subito in grado di autofinanziarsi e necessitano
pertanto di ingenti dotazioni di capitale a medio termine che difficilmente possono essere
messe a disposizione da strutture creditizie tradizionali dal momento che le prime fasi del
ciclo di vita si caratterizzano per una bassa redditività e una scarsa dotazione di capitale
fisso da utilizzare come garanzia a fronte dei prestiti.
Con il termine incubatore, s’intende un’istituzione che interagisce con potenziali soggetti
imprenditori offrendo servizi, e qualche volta risorse finanziarie, con l’obiettivo di
favorirne l’avvio fornendo tutto ciò di cui la nuova impresa necessita per nascere e
svilupparsi: reclutamento del personale, servizi amministrativi, assistenza nella redazione
del business plan, fornitura del seed capital necessario, contatti (network) e, più in
generale, la credibilità indispensabile per poter attrarre finanziamenti futuri. Per gli
incubatori quindi, il supporto di tipo finanziario diventa quasi secondario rispetto alla
molteplicità dei servizi offerti. Negli incubatori lavorano professionisti con elevate
competenze in tutte le tematiche del management (strategie, marketing, organizzazione,
contabilità e finanza) che analizzano la fattibilità (tecnica, economica e finanziaria) di
3 La finalità perseguita è quindi d’interesse primario anche per il sistema economico di riferimento in quanto
le nuove imprese generano occupazione, ricchezza e sviluppo.
11

diverse idee di business, per seguire solo quelle che superano questo primo screening. Gli
incubatori possono essere distinti a seconda dell’interesse principale che perseguono:
– economico;
– sociale.
Nel primo caso si tratta di soggetti di natura prevalentemente privata che a fronte dei
servizi offerti alle imprese in fase di start up, richiedono una fee o una partecipazione
azionaria.
Nel secondo caso il riferimento è a soggetti di natura prevalentemente pubblica, che
pongono l’obiettivo della redditività e del profitto in secondo piano, privilegiando obiettivi
di natura sociale (sviluppo del territorio o di aree depresse, promozione di nuova
imprenditorialità).
Nella categoria degli incubatori ci si fanno generalmente rientrare anche i business angels.
Trattasi di investitori privati (generalmente persone fisiche), in grado di fornire alla nuova
impresa tanto risorse finanziarie quanto competenze gestionali 4 . I business angels sono
chiamati anche “operatori informali” in quanto la loro attività non è disciplinata da alcuna
norma ma nasce spontaneamente da un rapporto di fiducia tra investitore e imprenditore.
4 In base a una ricerca svolta dall’Associazione Italiana degli Investitori Informali in Rete, su un campione di
268 business angels, si tratta generalmente di ex imprenditori, manager o liberi professionisti in pensione,
dotati di un discreto patrimonio personale, il cui profilo medio è il seguente: maschio (la componente
femminile è pari al 3%), età media 49 anni, residente al Nord, con titolo di studio elevato, con esperienza di
alto dirigente o imprenditore e patrimonio liquido personale intorno a 1.000.000 €; circa l’impiego del
proprio patrimonio personale, emerge un atteggiamento molto prudente (in media investono circa il 15/20%
del proprio patrimonio, ma oltre il 50% dichiara di investire meno del 10% del proprio patrimonio); oltre ai
soldi, il contributo del BA, si concentra nell’apporto di strategia aziendale e nei contatti; preferisce investire
nella propria Regione o all’estero, piuttosto che in altre Regioni d’Italia; è mosso dalla ricerca di una
soddisfazione personale di auto realizzazione più che dalla sete di guadagno; entra in progetti con forte
potenziale di crescita e dove vi sia un gruppo fortemente impegnato e competente; predefinisce la possibilità
di exit al momento dell’investimento e la modalità preferita è la vendita ad altra società/fusione (oltre il
70%), seguita dalla vendita ad altri investitori; esamina seriamente almeno 5 progetti prima di decidere di
investire e tra le cause principali del rigetto di un progetto imprenditoriale vi sono: la realizzazione di un
business plan incompleto, lo scarso potenziale di crescita, i dubbi sulle abilità dei manager e la mancanza di
fiducia nell’imprenditore; tra quelli che investono, per un terzo hanno investito meno di 30.000 €; per un
terzo tra i 30 e i 100.000 € e la restante parte si divide equamente fra le fasce 100/200.000, 300/500.000 e
oltre i 500.000 €; il BA italiano preferisce investire in progetti High-Tech (70%); preferisce acquisire una
percentuale del capitale sociale di larga minoranza (il 31% dichiara una partecipazione azionaria attorno al
5%); solo il 7% dichiara di possedere quote azionarie superiori al 50%; per quanto riguarda la durata
dell’investimento, si registra un valore medio di circa 4 anni. Per approfondimenti si veda [IBAN,
ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI INVESTITORI INFORMALI IN RETE], 2010.
12

Nella maggior parte dei casi la modalità d’intervento dei business angels è l’acquisizione
di una partecipazione di minoranza in settori caratterizzati da alto potenziale di crescita.
Con la definizione di “early stage” s’intende il finanziamento effettuato per supportare lo
stadio iniziale dello sviluppo di un’impresa. L’attività perciò si può far rientrare nella
categoria del venture capital in senso stretto. Anche nelle operazioni di early stage,
l’imprenditore necessita oltre che di risorse finanziarie, anche di un supporto
nell’affinamento dell’idea imprenditoriale, nel reperimento di personale qualificato, nel
lancio del prodotto/servizio sul mercato, nella creazione di meccanismi di protezione dalle
imitazioni. L’imprenditore propone così il proprio business plan a uno o più investitori
istituzionali che se lo trovano meritevole d’interesse, daranno il via a una fase negoziale
che porterà alla strutturazione dell’operazione. Nelle operazioni di early stage,
l’imprenditore apporta in prevalenza idee e conoscenze del business (l’apporto di capitale è
limitato) mentre il venture capitalist risorse finanziarie. Il supporto manageriale e
strategico richiesto all’investitore istituzionale, così come il rischio d’insuccesso,
aumentano in proporzione al contenuto innovativo dell’impresa che si sta avviando.
Diverso infatti è il caso del lancio di nuovi prodotti e servizi ad alto contenuto tecnologico,
rispetto all’avvio di un’impresa che deve operare in un settore tradizionale. La necessità di
conoscenze specializzate e la rapidità di obsolescenza dei prodotti tecnologici,
caratterizzano le modalità d’intervento dell’investitore istituzionale in tale comparto anche
in termini di riduzione dei tempi di permanenza nella compagine azionaria. Alla luce del
rischio insito in tale categoria di investimenti, le operazioni di early stage, rappresentano
statisticamente, e in tutto il mondo, quelle con il maggior tasso d’insuccesso in virtù delle
maggiori probabilità di fallimento dell’iniziativa.
A questo punto è utile procedere a una ulteriore sottoclassificazione per stadio di sviluppo
ed evidenziarne le singole peculiarità:
– si parla di seed financing (finanziamento del seme, cioè dell’idea imprenditoriale)
qualora il prodotto che si finanzia ancora non esiste ma esiste solo un’idea o
un’invenzione proposta nella maggior parte dei casi da un singolo inventore o
gruppo di inventori difficilmente già formati. Il business plan proposto agli
investitori è spesso non strutturato e le competenze necessarie richieste sono
13

soprattutto tecniche-scientifiche più che manageriali. Il taglio medio di un
investimento in seed capital è tra i 100.000 e i 150.000 euro, il rischio
d’insuccesso e il rendimento atteso sono molto alti;
– si parla di start up financing (finanziamento dell’avvio dell’attività), qualora pur
non conoscendo ancora la validità commerciale del prodotto/servizio, il prodotto
è già stato sviluppato (spesso sono state completate le fasi relative alla
brevettazione). Esistono quindi già le premesse per avviare un’impresa:
generalmente la società esiste, il management è già costituito, sono state svolte le
prime ricerche di mercato. All’investitore istituzionale è richiesto il capitale
necessario a supportare lo sviluppo dell’attività produttiva e delle altre funzioni
aziendali. Nonostante il prodotto sia già stato sviluppato, non ne è ancora stata
testata la validità commerciale. Per questo motivo le operazioni di start up capital
restano, come gli interventi di seed capital, ugualmente delicate per le incerte
possibilità di sviluppo dell’impresa;
– si parla infine di first stage financing (finanziamento della prima fase di
sviluppo), qualora l’avvio dell’attività produttiva sia completato, ma si deve
ancora valutare appieno la validità commerciale del prodotto/servizio. Il business
è quindi sviluppato in forma modesta e necessita di capitali (che per diverse
ragioni non è conveniente reperire a titolo di debito) per la sua crescita.
1.1.2 Il finanziamento dello sviluppo
La seconda macro-categoria di interventi effettuati da investitori istituzionali nel capitale di
rischio è riconducibile a tutte quelle situazioni nelle quali, l’impresa si trova di fronte a
problematiche connesse al suo sviluppo. L’azienda tipo che ricorre a questa tipologia di
finanziamento, è di medie dimensioni, matura, spesso a conduzione familiare e non sempre
in grado di sopravvivere nell’ambito concorrenziale internazionale.
Nella fase di sviluppo, il contributo dell’investitore nel capitale di rischio sarà differente a
seconda della modalità attraverso la quale l’impresa ha deciso di perseguire la sua crescita,
ovvero:
14

– il contributo sarà prevalentemente di natura finanziaria nel caso in cui l’impresa
intenda perseguire una strategia di sviluppo interno attraverso un aumento della
capacità produttiva;
– rispetto al contributo finanziario, fondamentale sarà invece il network che
l’investitore è in grado di attivare per l’individuazione del partner ideale, qualora
l’impresa intenda perseguire una strategia di sviluppo esterno attraverso
l’acquisizione di altre aziende.
Infine, nella categoria di operazioni volte a finanziare lo sviluppo di un’impresa, si fanno
generalmente rientrare anche quelle che hanno come obiettivo ultimo la quotazione in
Borsa (bridge financing o pre-ipo), in cui l’intervento dell’investitore nel capitale di
rischio rappresenta un collegamento tra lo status di azienda a capitale chiuso a quello di
società quotata.
In tutte le operazioni descritte l’operatore di private equity interviene con una
partecipazione di minoranza. Il controllo della società rimane perciò in mano all’azionista
di maggioranza che nella maggior parte dei casi è rappresentato da un imprenditore
familiare o dai suoi eredi. Come nelle operazioni di avvio, anche in quelle di sviluppo, il
ritorno sull’investimento deriva quasi esclusivamente dall’incremento di valore della
società nel tempo (e conseguentemente del valore della partecipazione detenuta
dall’investitore). La sola cosa che interessa è che la società si sviluppi e aumenti il suo
valore. Per fare questo, è necessario che la società sia guidata da persone capaci e
competenti, con obiettivi economici e finanziari chiari. È quindi fondamentale che vi sia
una totale chiarezza e sintonia tra l’operatore e l’azionista di controllo, su quelli che sono
gli obiettivi e le strategie di sviluppo della società. A tal proposito vengono generalmente
costituiti dei comitati dove, a differenza del consiglio di amministrazione, partecipano sia i
rappresentanti della proprietà, che dell’operatore nei quali si discutono, approfondiscono e
valutano tutte le azioni necessarie a realizzare gli obiettivi strategici stabiliti in fase di
negoziazione, che spesso vengono concordati anche formalmente tramite appositi
contratti. Sono inoltre usuali, in tali operazioni, clausole che prevedono delle specifiche
15

modalità di uscita nel caso in cui, per diverse ragioni, gli obiettivi prefissati non vengono
realizzati 5 .
Così come l’investitore di private equity dovrà valutare il profilo dell’impresa di cui
acquisisce la partecipazione, anche l’imprenditore deve valutare qual è l’operatore che più
si adatta alle sue esigenze in termini di:
– obiettivi: se la finalità per cui si ricorre all’investitore istituzionale è legata a una
espansione della propria azienda a livello internazionale, tramite ad esempio
acquisizioni, è opportuno scegliere un operatore che abbia una consolidata
esperienza di carattere internazionale e una notevole rete di conoscenze in diversi
paesi. Lo stesso discorso vale nel caso in cui l’obiettivo finale è quello della
quotazione: anche in questo caso è preferibile scegliere un operatore che di fatto
abbia già accompagnato con successo altre società alla quotazione;
– dimensione: in genere è opportuno scegliere operatori le cui dimensioni siano
coerenti con quelle aziendali. Ad esempio, i grandi fondi internazionali, si
concentrano prevalentemente su operazioni di grandi dimensioni e preferiscono
acquisire posizioni di controllo. Se quindi l’azienda target è di piccole-medie
dimensioni, è preferibile rivolgersi a operatori nazionali, che anche se piccoli,
hanno competenze e professionalità di altissima qualità;
– settore: esistono degli investitori che operano in specifici settori quali ad esempio
la moda, i prodotti di lusso, il turismo ed altri. È chiaro che se l’impresa target
opera in questi settori, avvalersi di competenze tanto specializzate, potrebbe
essere una buona soluzione;
– area geografica: in linea generale nelle imprese e operazioni di piccole
dimensioni la vicinanza geografica del partner può essere molto importante.
1.1.3 Il finanziamento del cambiamento
La terza e ultima macrocategoria d’interventi da parte degli operatori di private equity è
finalizzata al finanziamento dei processi di cambiamento interni all’azienda che spesso
portano a una modifica profonda dell’assetto proprietario. Un primo motivo che spinge
5 Tipica è la clausola che stabilisce, dopo un periodo determinato di comune accordo, che qualora
l’investitore non sia riuscito a vendere la propria partecipazione, vi sia un impegno da parte degli azionisti di
controllo a riacquistare, a condizioni stabilite, le azioni dell’operatore.
16

l’azienda a ricorrere a operazioni di questo tipo è la volontà da parte di uno o più azionisti
dell’impresa target di cedere le proprie quote. In tale contesto si parla di:
– replacement capital, qualora si tratta di azionisti di minoranza, la cui uscita dalla
compagine azionaria, non comporta generalmente grandi cambiamenti nella
strategia dell’impresa. Queste operazioni sono utilizzate in quelle situazioni in cui
non è più perseguibile una omogeneità d’intenti sulle strategie di sviluppo
dell’impresa tra l’azionariato di minoranza e quello di maggioranza. Quanti tra i
soci non sono più interessati a proseguire l’attività possono facilmente uscire
dalla compagine azionaria realizzando un guadagno.
– Turnaround finanzing, qualora l’esigenza di cambiamento è generata dal
verificarsi di crisi aziendali (più o meno gravi), per la cui risoluzione è necessaria
una variazione del gruppo proprietario o manageriale 6 . Spesso i fondi di
turnaround sono anche attivi in quella che si definisce attività di “secondary
investment”. Con tale espressione s’intende l’acquisto delle quote di un fondo
chiuso di private equity o venture capital detenute da investitori (chiamati limited
partner) che decidono di liquidare tali quote prima della scadenza prevista 7 . Tale
acquisto può essere effettuato sia da soggetti specializzati in questo genere di
operazioni (secondary investor) che dagli stessi limited partner, creando un sorta
di mercato di tali tipologie di investimento che contribuisce a renderle più liquide
(per sua natura un investimento in private equity ha delle tempistiche di realizzo
medio lunghe e quindi è scarsamente liquido).
– Buy out, qualora l’obiettivo dell’investitore istituzionale è quello di supportare
finanziariamente (e non) un cambiamento radicale dell’assetto proprietario. Tale
esigenza può nascere da diversi motivi, come ad esempio la semplice volontà del
gruppo di controllo di cedere la propria azienda o un ramo di essa; l’impossibilità
6 In Italia la presenza di fondi di private equity specializzati in ristrutturazioni è ancora debole. Le operazioni
di salvataggio di aziende in crisi sono demandate, nella maggior parte dei casi, alle banche creditrici
maggiormente esposte. Nel sistema economico italiano infatti, ogni crisi aziendale coinvolge anche il sistema
bancario a causa del tradizionale ricorso al credito bancario delle imprese italiane rispetto al finanziamento
col capitale di rischio.
7 Tali operazioni rientrano nella macrocategoria dei “turnaround” perché generalmente, la dismissione prima
della scadenza delle quote del fondo, è connessa a situazioni di difficoltà gestionale, di cattiva performance
del fondo o delle singole partecipate. Ci si chiede allora perché, se le performance non sono incoraggianti, un
soggetto (sia esso secondary investor che limited partner) può trovare conveniente acquistare tramite
secondary. La motivazione principale è legata alla possibilità di diversificare il portafoglio aumentandone il
rendimento complessivo oppure entrare in fondi che altrimenti sarebbero di difficile accesso.
17

di individuare un successore adeguato nei casi di ricambio generazionale; la
volontà da parte dello Stato (o amministrazione locale) di privatizzare un’azienda
pubblica; il cambiamento di strategia da parte di gruppi nazionali o internazionali
che decidono di mettere in vendita delle società o divisioni in quanto considerate
non più strategiche (spin-off).
Le operazioni di buy out rappresentano la categoria più importante, in termini di
ammontare investito, di tutto il settore del private equity. In tali operazioni,
contestualmente all’investimento, si verifica un cambiamento dell’azionariato di controllo
che normalmente viene acquisito dall’operatore istituzionale mentre la gestione e la
responsabilità operativa dell’azienda passa nelle mani del “management team”, anche se
l’investitore mantiene il controllo sull’indirizzo strategico, supporto allo sviluppo,
monitoraggio e valutazione dei risultati.
Nella categoria del buy out è possibile individuare diverse sottocategorie a seconda del
soggetto che si occuperà della gestione della società una volta realizzato il trasferimento
del controllo ed in particolare:
– management buy out (MBO) se il controllo viene assunto dal gruppo manageriale
interno;
– management buy in (MBI), se il controllo viene assunto da un gruppo
manageriale esterno;
– buy in management buy out (BIMBO), se il gruppo di manager che assume il
controllo è misto;
– employee o worker buy out (EBO O WBO) 8 , qualora l’intervento dell’investitore
sia finalizzato a un nuovo assetto proprietario che vede coinvolto un gruppo di
dipendenti 9 ;
8 [SATIN F., PANCAMO M.], 2005.
9 Dal punto di vista tecnico, le tipologie attraverso cui la partecipazione dei dipendenti può strutturarsi sono:
attribuzione ai dipendenti di una parte dei risultati economici attraverso la distribuzione di quote di azioni
vincolate in un fondo fiduciario per un certo periodo di tempo; attribuzione di azioni privilegiate (sconti sul
corrispettivo, diritto di prelazione nell’acquisto in caso di offerta al pubblico, dilazioni di pagamento);
emissioni riservate a dipendenti che si trovano in condizioni particolari (ad esempio in posizioni chiave nel
caso delle stock option). In Italia questa tipologia di operazioni si è originata prevalentemente in situazioni di
crisi aziendali in cui i dipendenti, per evitare la scomparsa dell’azienda, ne hanno rilevato il controllo.
18

– family buy out, qualora l’intervento dell’investitore sia finalizzato all’acquisizione
del controllo da parte dei componenti della famiglia interessati al prosieguo
dell’attività aziendale e contemporaneamente, all’uscita dalla compagine
proprietaria, dei componenti non più interessati.
Per consentire al management di acquisire con un investimento limitato una quota
significativa di azioni, queste operazioni sono molto spesso realizzate attraverso l’uso della
leva finanziaria (leverege) da cui il termine leverage buy out 10 . La caratteristica peculiare
di queste operazioni sta nel fatto che si verificano contemporaneamente due ordini di
eventi: da un lato il cambiamento della proprietà (buy out), dall’altro una completa
ristrutturazione delle passività della società oggetto della cessione (leverage). La società
oggetto dell’operazione viene generalmente chiamata “società target”. La prima fase
dell’operazione consiste nella creazione di una società, generalmente chiamata holding o
newco, nella quale alcuni imprenditori, che potrebbero essere gli stessi manager
dell’azienda (leverage management buy out – LMBO) o manager provenienti da altre
aziende (leverage management buy in – LMBI), versano normalmente, supportati da un
investitore istituzionale nel capitale di rischio, una certa somma a titolo di capitale proprio
che rappresenta solo una piccola parte dell’ammontare necessario all’acquisizione
dell’impresa target. Entrano quindi in gioco uno o più istituti bancari che concedono alla
newco un finanziamento tale da coprire la differenza tra il prezzo di acquisto delle azioni
dell’impresa target e l’ammontare versato a titolo di capitale di rischio. Essendo la newco
una holding e non avendo una struttura operativa, il finanziamento viene effettuato sulla
base di scarse se non nulle garanzie reali (unsecured financing). A questo punto
dell’operazione il bilancio della holding sarà così strutturato: l’attivo sarà composto dalle
azioni della società target, il passivo dal capitale di rischio (messo a disposizione dei
manager e dell’investitore istituzionale) e dai debiti (finanziamenti erogati dalle banche).
Una volta effettuato l’acquisto di azioni, la holding si fonde con l’impresa target e così il
finanziamento entrerà a far parte di una società operativa e potrà usufruire delle garanzie
10 Per leverage buy out, s’intende nella sua accezione più propria, una qualsiasi acquisizione di azienda o di
beni aziendali effettuata ricorrendo in misura prevalente a capitale di terzi (in genere istituti bancari) e
limitando l’investimento finanziario del compratore, in termini di capitale di rischio, solamente a una parte
circoscritta del prezzo. L’azienda acquisita si caratterizzerà perciò da un rapporto d’indebitamento più
elevato di quanto non fosse prima dell’operazione di acquisto. I capitali presi a prestito, a loro volta,
dovranno essere rimborsati attraverso flussi di cassa attivi prodotti dall’attività operativa della società o
attraverso la cessione di beni acquisiti (break up).
19

eali che questa sarà in grado di produrre (secured financing). Come conseguenza
dell’operazione, l’indebitamento della società target risulterà, dopo la fusione,
considerevolmente più elevato rispetto al periodo precedente l’operazione. Il forte aumento
dell’indebitamento che si genera, fa sì che non tutte le imprese si prestano a essere oggetto
di LBO ma solo quelle per cui si può ragionevolmente ritenere che siano in grado di
produrre flussi di cassa abbondanti e costanti per far fronte ai maggiori oneri finanziari 11 .
Si precisa che l’utilizzo della leva finanziaria per realizzare un’acquisizione, è una
modalità tecnica che da sempre viene utilizzata da molteplici soggetti economici e non è da
considerarsi come una tecnica esclusiva di pertinenza degli operatori di private equity. È
anche vero però che l’utilizzo della leva finanziaria è determinante, se non decisivo, per la
quasi totalità di operazioni di buy out. Si precisa inoltre che l’utilizzo della leva non
dovrebbe compromettere la performance delle imprese oggetto di tali operazioni e che le
imprese oggetto di tali operazioni realizzano molto spesso una performance superiore
rispetto a quella di aziende concorrenti caratterizzate da un più basso livello di
indebitamento. Infine, se come detto le operazioni di buy out rappresentano la categoria più
importante in termini di ammontare investito di tutto il settore del private equity, la ragione
va da ricercarsi anche nel fatto che esse sono caratterizzate statisticamente da un basso
tasso d’insuccessi, a fronte peraltro di ritorni in media più elevati rispetto alle altre
modalità d’intervento tipiche del private equity 12 .
1.2 IL PROCESSO D’INVESTIMENTO E DISINVESTIMENTO
Dopo aver analizzato le diverse modalità d’investimento dell’investitore istituzionale nel
capitale di rischio, analizzeremo brevemente le fasi che caratterizzano i processi
d’investimento e disinvestimento.
11 Adoperando la matrice della Boston Consulting Group, l’impresa target ottimale dovrebbe operare in un
mercato maturo ed avere un portafoglio prodotti prevalente formato da c.d. cash cow (generatori di cassa).
Poco si adottano invece alle operazioni di LBO ad esempio i prodotti ad alta tecnologia che sono esposti al
rischio di obsolescenza e generano forti costi di ricerca e sviluppo.
12 Molti giustificano questi risultati proprio dal profondo e attivo coinvolgimento degli operatori di private
equity nella gestione delle società da loro partecipate.
20

Le fasi del processo d’investimento differiscono in funzione della tipologia di operazione.
Tuttavia, è comunque possibile sostenere che esistano delle fasi tipiche comuni a tutte le
tipologie d’investimento analizzate che possono essere così schematizzate 13 :
– individuazione dell’impresa target: l’identificazione delle opportunità
d’investimento rappresenta in Italia uno dei principali problemi. A differenza di
quanto accade nei mercati finanziariamente più evoluti (Gran Bretagna e Stati
Uniti), dove le opportunità d’investimento arrivano direttamente agli investitori in
forma strutturata, in Italia la scarsa conoscenza di questi strumenti rende
necessaria l’identificazione preliminare, da parte dell’investitore, di un flusso di
opportunità, di proposte d’investimento potenzialmente interessanti (deal flow)
attraverso la raccolta di informazioni e l’instaurazione di una rete di contatti con
altri professionisti e manager di società, banche e centri di ricerca;
– valutazione del profilo imprenditoriale e/o management team 14 : in particolare si
cercherà di accertare l’affidabilità e la competenza, l’esperienza e la reputazione
dell’imprenditore che propone l’operazione. Ricordiamo che la finalità ultima
dell’investimento è ottenere tassi elevati d’investimento in un orizzonte temporale
di breve periodo. Gli investitori, dunque, prediligono normalmente imprese
dinamiche, con elevati tassi di crescita prospettici. Il profilo dell’impresa
ottimale, tuttavia, varia moltissimo in funzione della tipologia di investimento che
s’intende effettuare. Ad esempio, per le operazioni di buy out, si andranno a
privilegiare aziende consolidate, di medie e grandi dimensioni, spesso operanti in
settori maturi; per le operazioni di turnaround, si identificheranno delle società
che, anche se in difficoltà economica, hanno notevoli possibilità di recupero; per
le operazioni di early stage, ci si concentra generalmente su imprese giovani, con
elevate potenzialità di crescita, spesso operanti in settori innovativi;
– valutazione dell’azienda target e della struttura dell’operazione: si tratta di una
fase particolarmente delicata volta alla ricerca di un equilibrio tra le aspettative
dell’imprenditore, quelle dell’investitore e i bisogni dell’impresa. Se si pensa di
poter raggiungere tale equilibrio, verrà definita la struttura dell’operazione, in
termini di modalità, tempi e valore della partecipazione;
13 [AIFI], 1999.
14 Qualora ci riferiamo ai soggetti che investiranno nel capitale di rischio dell’impresa target assieme
all’operatore di private equity nell’ambito delle operazioni di buy out.
21

– trattativa e definizione del prezzo.
La fase dello smobilizzo costituisce la parte finale del processo d’investimento. Si tratta di
una fase estremamente delicata, in quanto dal suo esito si determina il profitto o la perdita
per l’investitore istituzionale. Generalmente le modalità e i tempi di disinvestimento
vengono preliminarmente stabiliti al momento dell’acquisizione della partecipazione,
anche se spesso si verificano variazioni rispetto a quanto pianificato inizialmente.
L’obiettivo dell’investitore è ovviamente massimizzare il ritorno sull’investimento. La
cessione delle partecipazioni precedentemente acquisite rappresenta, dunque, un atto
particolarmente importante e delicato all’interno del c.d. venture capital process e
nell’ambito di esso due sono gli aspetti di maggiore rilevanza su cui l’investitore e gli altri
azionisti devono tendere al raggiungimento del massimo accordo:
– l’individuazione del momento più opportuno per realizzare il disinvestimento;
– la definizione del canale di disinvestimento più adeguato.
Come detto, l’attività di cessione della partecipazione non risulta mai realmente
programmabile con un grado di certezza assoluta perché l’investitore istituzionale può non
riuscire a far raggiungere all’impresa alcun grado di appetibilità da parte del mercato o di
un eventuale singolo acquirente. Al tempo stesso, data la caratteristica di temporaneità
dell’investimento posto in essere, è importante che l’investitore preveda, fin dall’ingresso
nella compagine azionaria, le caratteristiche generali che il disinvestimento potrà assumere.
È quindi necessario, innanzitutto, che il disinvestimento sia attivabile all’interno di un
determinato arco temporale precedentemente determinato, in modo da poter eventualmente
superare possibili situazioni congiunturali sfavorevoli al disinvestimento stesso. Inoltre,
sempre a livello generale, è necessario che in fase di dismissione, il valore della
partecipazione sia stabilito secondo criteri oggettivi. Si ricorre generalmente a consulenti
indipendenti oppure si applicano, ad alcuni coefficienti preliminarmente stabiliti,
determinati parametri di performance aziendale. È importante inoltre individuare dei
meccanismi che rendano il processo di dismissione realmente perseguibile nei tempi e nei
modi stabiliti, evitando qualunque possibilità di rallentamento o opposizione da parte degli
altri soci.
22

Al di là dei principi che devono regolare il processo di disinvestimento, le principali
modalità di cessione della partecipazione, sono rappresentate da:
– la vendita delle azioni sul mercato borsistico, sia nell’ambito di un’offerta al
pubblico collegata al processo di prima quotazione (Initial Public Offering), sia
realizzata in momenti successivi rispetto alla fase di collocamento;
– la cessione della partecipazione ad un socio di natura industriale (trade sale);
– la cessione ad un altro operatore di private equity o venture capital (secondary
buy out);
– il riacquisto della partecipazione da parte del socio originario rimasto con quote
di maggioranza o di minoranza nella compagine azionaria per tutta la durata
dell’operazione (buy back).
Viene poi ricompreso, quale possibile modalità di disinvestimento, anche il caso di
abbattimento parziale o totale del valore della partecipazione a seguito di perdita di valore
della stessa (write off). Al pari infatti delle altre modalità di cessione, si determina anche in
questo caso la totale o parziale scomparsa della specifica voce di attivo all’interno del
bilancio dell’investitore.
1.3 L’EVOLUZIONE DEL MERCATO DEL PRIVATE EQUITY E VENTURE
CAPITAL IN ITALIA
La nascita in Italia di un vero e proprio settore di operatori professionali e specializzati
nell’attività di investimento nel capitale di rischio può essere fatta risalire alla metà degli
anni Ottanta, quando nove società finanziarie private e di emanazione bancaria si
raggrupparono per dare vita ad un’associazione di categoria, l’AIFI (all’epoca
Associazione Italiana delle Finanziarie di Investimento, oggi Associazione Italiana del
Private Equity e Venture Capital). Negli anni, il numero degli operatori e il loro profilo
hanno subito una notevole evoluzione in relazione ai mutamenti del contesto economico e
finanziario nazionale e al quadro normativo che ha disciplinato le strutture giuridiche
utilizzate per svolgere l’attività di investimento nel capitale di rischio 15 . Va ricordato che
inizialmente e fino al 1986 l’attività di investimento nel capitale di rischio non era
consentita alle aziende di credito. Solo successivamente, con la delibera del CICR e
15 [BRACCHI G., GERVASONI A.], 2006.
23

l’emanazione della normativa da parte della Banca d’Italia, anche questi istituti furono
abilitati all’attività di investimento, seppur nel rispetto di precisi vincoli 16 . Per lo sviluppo
del settore sono stati fondamentali due episodi risalenti al 1993:
– l’introduzione del Testo Unico (TU) in materia bancaria e creditizia 17 che
introdusse il principio della despecializzazione temporale e funzionale e propose
il modello organizzativo della “banca universale multiprodotto”;
– l’istituzione dei fondi chiusi di diritto italiano 18 che sono, nel tempo, divenuti a
livello internazionale il principale strumento per lo svolgimento dell’attività di
investimento nel capitale di rischio delle imprese non quotate.
Un elemento di svolta, sempre a livello normativo, si è avuto con l’emanazione del Testo
Unico della Finanza 19 , che ha riformato l’intera disciplina relativa all’attività
d’intermediazione finanziaria, introducendo le Società di Gestione del Risparmio (SGR) ed
ha abrogato la legge di emanazione dei fondi chiusi che, per quanto fondamentale allo
sviluppo del mercato, presentava molti vincoli e divieti che di fatto condizionavano
negativamente l’operatività dei fondi stessi 20 .
Detto ciò, è possibile riscontrare una evoluzione (sia qualitativa che quantitativa) del
mercato degli operatori di private equity che viaggia parallelamente all’evoluzione del
quadro normativo di riferimento. Lo sviluppo del private equity in Italia è stato infatti
rapido solo a partire dagli anni novanta quando il sistema bancario, svincolato dalle
precedenti restrizioni normative, si è affacciato sul mercato, prima attraverso società
specializzate, e poi, direttamente, attraverso divisioni interne delle banche stesse.
Ricordiamo, inoltre, che negli stessi anni hanno cominciato ad operare un numero
crescente di fondi chiusi internazionali e i primi fondi chiusi di diritto italiano 21 . Infine, un
16
Le aziende di credito potevano investire nel capitale di rischio solo attraverso società di intermediazione
finanziaria di loro emanazione (SIF), che potevano acquisire temporaneamente, obbligazioni, azioni e titoli
similari d’imprese, per partecipare al capitale di rischio in posizione minoritaria.
17
Decreto legislativo n. 385 del 1993.
18
Legge del 14 agosto del 1993, n. 344.
19
Decreto legislativo n. 58 del 1998.
20
Successivamente le norme regolamentari emanate dalla Banca d’Italia e dal Ministero del Tesoro hanno
ridisegnato l’operatività dei fondi chiusi dotandoli di maggiore flessibilità.
21
Questa tendenza è ancora presente nel mercato italiano. Sui 170 operatori presenti in Italia monitorati
dall’AIFI, 88 (ovvero il 51%) sono rappresentati da SGR che gestiscono fondi chiusi italiani e country fund.
Si veda [AIFI], 2010.
24

vero e proprio sviluppo del settore si osserva tra il 1997 e il 2001, quando la diffusione
delle nuove tecnologie dell’ITC ha attratto risorse finanziarie favorendo la nascita di nuovi
operatori.
1.3.1 Gli operatori attivi nel mercato del private equity
L’ambito istituzionale nel quale gli investitori nel capitale di rischio operano ha subito, e
continua tuttora a subire, una significativa evoluzione, che si riflette sul profilo degli
operatori e nelle caratteristiche delle operazioni effettuate. Le principali categorie di
investitori professionali attivi nelle operazioni di investimento nel capitale di rischio delle
imprese, classificati in base alle caratteristiche operative, sono individuabili in:
– fondi chiusi italiani gestiti da società di gestione del risparmio (SGR) e altri fondi
locali;
– fondi specializzati nel segmento dell’early stage;
– fondi pan-europei;
– banche d’affari e divisioni di banche commerciali;
– investitori pubblici e regionali 22 .
Una prima macro distinzione tra le categorie citate si può fare tra fondi chiusi (sia a
carattere regionale che internazionale) e altri investitori. Nei fondi chiusi, infatti, il
management del fondo è investito di un maggior livello di responsabilizzazione nei
confronti dei soggetti che conferiscono il capitale, soggetti che generalmente forniscono le
risorse finanziarie proprio in virtù di un rapporto di fiducia che si viene a creare con il team
di gestione. Inoltre, l’obiettivo della massimizzazione del rendimento da parte del
management dei fondi può essere ricondotto anche alle differenti formule di
redistribuzione basate, nel caso dei fondi chiusi, prevalentemente sul meccanismo del
carried interest 23 e solo marginalmente sulle management fees 24 .
22
[DEL GIUDICE R., BETTONICA C.], 2006.
23
Quota parte del capital gain realizzato (generalmente pari al 20%) trattenuta dal gestore a titolo di success
fee.
24
Tale meccanismo risulta più improntato al concetto di “stipendio” al quale sommare eventualmente bonus
sull’attività svolta ed è utilizzato generalmente da gli altri investitori (prevalentemente società finanziarie).
25

Un’altra caratteristica che distingue i fondi dagli altri operatori è la presenza di un termine
formale all’attività d’investimento 25 . Questo determina una maggiore attenzione da parte
del team di gestione nella pianificazione temporale dei singoli deals. Viceversa, gli altri
operatori si caratterizzano per una maggiore flessibilità nelle scelte di disinvestimento,
potendo ad esempio rimandare il processo di dismissione nel momento in cui è maggiore il
valore dell’impresa partecipata.
Altre distinzioni devono essere fatte tra fondi internazionali e regionali. I primi operano
generalmente attraverso una rete di advisors locali, ai quali non viene quasi mai attribuita
una dotazione di capitale predefinita, ma la cui possibilità di attingere al patrimonio del
fondo dipende dalla capacità del singolo advisor di individuare buone possibilità
d’investimento 26 . I fondi regionali, invece, possono raccogliere risorse finanziarie
esclusivamente tra altri investitori istituzionali (come avviene per i fondi internazionali)
oppure rivolgendosi al pubblico risparmio. Nel primo caso il management team tenderà
verso scelte di portafoglio a maggior profilo di rischio in quanto la controparte è
rappresentata da un numero ristretto di sottoscrittori (che apportano generalmente elevate
quote di capitale) professionisti del settore e caratterizzati da un rapporto di fiducia diretto
e consolidato con il gestore. Qualora la raccolta del patrimonio avvenga mediante
sollecitazione del pubblico risparmio, le politiche d’investimento risentiranno
maggiormente di un vincolo di responsabilità nei confronti dei sottoscrittori.
Un’altra classificazione in base alla quale è possibile esaminare l’evoluzione delle
tipologie di operatori presenti sul mercato riguarda la distinzione tra gli investitori captive
e “indipendenti”. I fondi captive sono promossi e gestiti da una struttura che è emanazione
diretta di istituzioni finanziarie o industriali; essi hanno come fonte di approvvigionamento
dei capitali, esclusiva o prevalente, la società capogruppo o altre imprese affiliate, non
ricorrendo quindi direttamente al mercato dei capitali per la raccolta delle risorse
25 I fondi chiusi di qualsiasi natura devono prevedere una precisa scadenza entro la quale è necessario
smobilizzare gli investimenti e restituire le quote.
26 Il fondo, spesso di dimensioni elevate, opera con un orizzonte territoriale continentale (paneuropeo, nel
nostro caso) o addirittura mondiale, in funzione della ricerca del massimo rendimento.
26

finanziarie. Caratteristiche opposte 27 hanno, invece, i fondi promossi e gestiti da una
società di gestione che raccoglie le risorse direttamente sul mercato 28 .
Infine, un discorso a parte deve essere fatto per gli operatori di emanazione pubblica che
utilizzano lo strumento del private equity e venture capital prevalentemente per il sostegno
di aree geografiche depresse o settori industriali svantaggiati. Il raggiungimento di tale
obiettivo e l’inserimento dell’attività di questi operatori nei programmi di politica
economica dei diversi paesi vincolano il loro operato, ne limitano l’autonomia gestionale e
ne modificano l’obiettivo principale che non è più il raggiungimento di alti rendimenti ma,
come detto, il sostegno economico e l’occupazione di un paese o di parte di esso.
Con riferimento alle statistiche più recenti, nel corso del 2009, sono stati censiti
complessivamente 170 investitori o advisor nel nostro paese, rispetto ai 157 censiti nel
2008 (CAGR 29 pari all’11% tra il 2005 e il 2009). In particolare, il campione oggetto di
analisi, oltre agli Associati AIFI, comprende i membri Aderenti all’Associazione che
svolgono occasionalmente attività di investimento, alcuni investitori e istituzioni
finanziarie italiane che non rientrano nella compagine associativa di AIFI, nonché gli
operatori internazionali che, pur non avendo un advisor stabile sul territorio italiano, hanno
realizzato operazioni in imprese del nostro Paese nel corso dell’anno.
A questa situazione si è però, come detto, arrivati per gradi. Negli anni di avvio
dell’attività di private equity e venture capital furono gli operatori locali, per lo più
organizzati sotto forma di finanziarie di investimento, private e industriali, a promuovere la
crescita del settore, rappresentando la quasi totalità degli operatori attivi. Successivamente,
27 Gli operatore indipendenti sono operatori nel capitale di rischio non riconducibili, in termini sia di
emanazione che di provenienza dei capitali utilizzati, ad altre istituzioni finanziarie o industriali;
mantengono, pertanto, totale autonomia strategica e gestionale.
28 Gli operatori captive hanno rappresentato i soggetti prevalenti nella fase di sviluppo iniziale del mercato,
mentre attualmente è in crescita il peso degli operatori indipendenti. Questa tendenza è riconducibile
all’evoluzione del mercato dalla prima fase di avvio ad una fase di consolidamento e di maturità, in cui i
manager delle società che hanno maturato un’esperienza presso un’istituzione di riferimento tendono a
separarsi da essa e operare autonomamente, avendo consolidato la propria reputazione.
29 Il CAGR (Compound Annual Growth Rate), o tasso annuo di crescita composto, è un indice che
rappresenta il tasso di crescita medio di un certo valore in un dato arco di tempo. L’ipotesi che sottende a
questo concetto è che, a prescindere da quali siano state le oscillazioni nella crescita del valore, tra il periodo
T1 e il periodo TN, si sia avuto un certo tasso di crescita costante. Se si usa il CAGR per ogni singolo periodo
di capitalizzazione (T1, T2, … TN) il valore al tempo T1 giungerà a eguagliare il “montante” al tempo TN.
27

il mercato ha visto la progressiva diffusione di operatori internazionali: i fondi cosiddetti
“pan europei” o globali, praticamente assenti in origine, sono passati nel 2009 a
rappresentare la quota del 25% (Grafico 1.1), dimostrando un’apertura del nostro sistema
verso il contesto europeo e nord americano.
Grafico 1.1
100
90
80
70
60
50
40
30
20
10
0
69
65
88
81
SGR generaliste e
country funds
Distribuzione del numero di operatori nel mercato italiano
(anni 2006 - 2009)
43
35 36
28
16 15 16 17
13 11 12 10 11 10 12 12
Fondi pan-europei Operatori Reg./Pub. Banche italiane Fondi di early stage
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI - PricewaterhouseCoopers
Verso la metà degli anni novanta iniziarono, come accennato precedentemente, ad operare
le prime SGR di fondi mobiliari chiusi, istituite dalla Legge n. 344 del 14 agosto del 1993.
Tali società, che costituivano appena l’1% del mercato alla fine del primo anno di vita
della nuova legge, hanno successivamente progressivamente consolidato la loro presenza,
arrivando a rappresentare, nel 2009, il 52% degli operatori.
Anche gli investitori di diretta emanazione bancaria si sono diffusi con una certa rapidità
alla fine degli anni ottanta, fino a rappresentare circa il 30% del numero di operatori verso
la fine degli anni novanta. Dopo il 2000 la presenza delle divisioni bancarie sul totale degli
operatori ha iniziato a calare per effetto della creazione di numerosi fondi chiusi di
emanazione degli stessi gruppi creditizi. Oggi infatti gli investitori di diretta emanazione
bancaria rappresentano solo il 6% del totale. Di fatto, le banche partecipano in maniera
sempre più consistente all’attività di private equity ma come investitori nei fondi.
2006
2007
2008
2009
28

Anche gli operatori pubblici, sia di carattere nazionale che regionale, hanno rappresentato
una quota importante del mercato, specialmente nel comparto delle operazioni di start up e
expansion. Oggi rappresentano il 10% del totale degli operatori, dato che non ha subito
grosse variazioni dal 2006.
Guardando all’attività d’investimento riconducibile ai diversi operatori (Tabella 1.1),
nell’anno 2009 circa la metà dell’ammontare (47%) è stato investito da società di gestione
del risparmio (SGR) e da country funds, seguiti dai fondi pan-europei (43%), dalle banche
(6%), dagli operatori regionali/pubblici (3%), e dagli operatori di early stage (1%).
L’analisi dei valori medi del quinquennio 2005 – 2009 indica che ai fondi pan europei sono
attribuibili i valori di investimento annuo più elevati (oltre 2 mld €), seguiti da SGR e
country funds, che hanno mediamente impiegato un ammontare di poco superiore al
miliardo di euro. Più contenuta risulta, invece, l’attività degli operatori bancari (430 mln €
in media nel quinquennio), degli investitori regionali e pubblici (circa 60 mln €), e quella
dei fondi specializzati sull’early stage (circa 30 mln €). Tali evidenze indicano che i fondi
pan europei tendono a concentrare i propri investimenti su poche operazioni di dimensioni
elevate (grandi e mega deal), mentre gli altri operatori effettuano numerosi deal di
dimensioni più contenute.
Tabella 1.1 - Distribuzione degli investimenti (€ mln) per tipologia di operatori (anni
2005 - 2009)
2005 2006 2007 2008 2009
Ammontare
investito sul totale
(anno 2009)
Media
(anni 2005
– 2009)
SGR generaliste e
country funds
892 950 938 1.837 1.239 47% 1.171
Fondi pan-europei 1826 1.858 2.742 3.073 1.123 43% 2.124
Operatori Reg./Pub. 39 44 51 92 68 3% 59
Banche italiane 277 872 443 412 152 6% 431
Fondi di early stage 31 7 23 44 33 1% 28
Totale 3.065 3.731 4.197 5.458 2.615 100% 3.813
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
29

Grafico 1.2
3300
3000
2700
2400
2100
1800
1500
1200
900
600
300
0
938
892 950
Distribuzione degli investimenti (€ mln) per tipologia di operatori
(anni 2005 - 2009)
1.837
1.239
SGR generaliste e
country funds
1.858
1826
2.742
3.073
1.123
872
443
277 412
39 44 51 92 68 152 31 7 23 44 33
Fondi pan-europei Operatori Reg./Pub. Banche italiane Fondi di early stage
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
1.3.2 Principali tendenze degli investimenti di private equity e venture capital in Italia
La maggior parte dei dati di seguito presentati ed analizzati sono stati raccolti da AIFI, in
collaborazione con PricewaterhouseCoopers Transaction Services, nell’ambito della survey
semestrale sul mercato italiano del private equity e venture capital. La ricerca, effettuata
attraverso la raccolta di questionari compilati on-line, analizza l’attività di investimento,
disinvestimento e raccolta di nuovi capitali posta in essere nel corso di diversi anni. Di
seguito si analizzeranno i principali aggregati del mercato italiano (investimenti, raccolta e
disinvestimenti) relativamente al quinquennio 2005 – 2009 30 .
Ad eccezione dell’anno 2009 31 (Grafico 1.3), nel corso dell’ultimo quinquennio (2005-
2009) il mercato italiano del private equity e venture capital è stato caratterizzato da un
processo di crescita sia per quanto concerne il numero di operazioni sia in relazione
all’ammontare investito. Tale crescita è per lo più riconducibile ad un incremento delle
operazioni di capitale per lo sviluppo (expansion), nonché all’aumento del numero di
30 [AIFI, PRICEWATERHOUSECOOPERS], 2005, 2006, 2007, 2008, 2009.
31 Come si evincerà dall’analisi di tutti i dati, nel 2009 gli effetti della crisi internazionale si sono fatti sentire
anche sul mercato italiano del private equity e del venture capital che, dopo le cifre record fatte segnare nel
2008, ha visto un rallentamento dell’attività di investimento. Anche in termini di raccolta, come vedremo più
avanti, il 2009 registra un’ulteriore contrazione, dovuta alla crisi di liquidità che si è abbattuta su tutti i
comparti del mercato finanziario.
2005
2006
2007
2008
2009
30

operazioni di buy out di piccola e media dimensione. L’ammontare investito 32 è risultato
in media pari a circa 3,8 miliardi di euro in ciascun anno, mentre il numero di operazioni si
è attestato intorno ad un valore medio di poco superiore a 300.
Grafico 1.3
6.500
5.500
4.500
3.500
2.500
1.500
500
-500
3.065
281
Fonte: AIFI – PricewaterhouseCoopers
Ammontare investito (€ mln) e numero operazioni
(anni 2005 - 2009)
3.731
292
4.197
302
5.458
372
2.615
2005 2006 2007 2008 2009 0
Ammontare investito (€ mln) Numero operazioni
A livello di stock, alla data del 31 dicembre 2009, il valore al costo del portafoglio degli
operatori di private equity e venture capital ammontava a 19,6 miliardi di euro (valore in
costante crescita dal 2005); queste risorse sono state investite in 1.062 società (Grafico
1.4).
Grafico 1.4
18.000
15.000
12.000
9.000
6.000
3.000
-
10.573
1060
Portafoglio degli operatori (€ mln) e numero società
(anni 2005 - 2009)
11.186
1074
12.603
1120
16.780
1.182
283
19.543
2005 2006 2007 2008 2009
Portafoglio al costo al 31 dicembre Numero Società
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
32 Per quanto concerne l’attività di investimento, i dati aggregati si riferiscono alle sole quote di equity e
quasi equity complessivamente versate per l’operazione e non al valore totale della transazione.
1.062
600
500
400
300
200
100
1.200
1.150
1.100
1.050
1.000
31

Nel quinquennio considerato, la maggior parte del capitale è stato investito in operazioni di
buy out (Grafico 1.5), che hanno mediamente attratto ogni anno poco meno del 70% del
totale dei capitali impiegati nell’intero mercato 33 , seguiti dalle operazioni di expansion
(18%), di replacement (11%) e, infine, di early stage (2%).
Grafico 1.5
3.500
3.000
2.500
2.000
1.500
1.000
500
-
2.401 2.444
Distribuzione degli investimenti (€ mln) per tipologia di operazioni
(anni 2005 - 2009)
3.295
2.869
2.104
413
1.094
786 838
371
30
221 165
28 66 115 98
50
1.636
Buy out Expansion Early stage Replacement
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
Guardando alla distribuzione del numero di investimenti per tipologia 34 (Grafico 1.6),
primeggiano invece le operazioni di expansion, con poco più di 120 interventi ogni anno;
seguono le operazioni di buy out (92), early stage (75) e di replacement (18).
Grafico 1.6
160
140
120
100
-
80
60
40
20
75
Distribuzione del numero degli investimenti per tipologia di operazione
(anni 2005 - 2009)
100
87
113
83
135
113
105
145
112
Buy out Expansion Early stage Replacement
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
33
Nel dato del 2009 del buy out, pari a € 2.401.000 è compresa una quota (€ 416.000) relativa alle operazioni
di turnaround.
34
Nel dato del 2009 del buy out, pari a 83 è compreso il numero (11) relativo alle operazioni di turnaround.
56
62
88
88
79
15
25
14
26
42
9
2005
2006
2007
2008
2009
2005
2006
2007
2008
2009
32

Nel confronto con gli altri mercati europei il segmento dell’early stage e, in particolare,
degli investimenti in nuove imprese ad alta tecnologia, risulta ancora poco sviluppato, a
fronte di una progressiva crescita delle operazioni indirizzate verso imprese mature o in
fase di crescita, di medie dimensioni. È inoltre importante e significativo sottolineare come
la maggior parte del numero di investimenti finalizzati a supportare la nascita di nuove
imprese sia stato realizzato da operatori di emanazione pubblica o regionale, a conferma
dell’equity gap che contraddistingue questo specifico segmento di mercato relativamente
agli investimenti da parte di operatori privati.
Altre tipologie di interventi, quali operazioni di turnaround su imprese da ristrutturare,
sebbene già relativamente diffuse in altri paesi, sono come detto, ancora in via di sviluppo
in Italia. Attorno a questo segmento si segnala un accresciuto interesse, anche a seguito
delle modifiche normative apportate alla legge fallimentare, tese a favorire il rilancio
dell’attività imprenditoriale in crisi. L’elevato ricorso ad operazioni di buy out, volte ad
una sostituzione della compagine azionaria, spesso a favore dei manager che guidano
l’impresa, è in parte legato alle caratteristiche strutturali delle PMI italiane ed al loro ciclo
di vita: sempre più spesso, infatti, queste imprese si trovano a dover fronteggiare delicati
processi di ricambio generazionale 35 . La forte incidenza, sia per ammontare sia per
numero, dei buy out non è, tuttavia, tipica del mercato italiano, ma si riscontra anche in
altri paesi, quali Germania e Francia, date le caratteristiche simili delle imprese europee.
Nel complesso, il mercato ha registrato negli ultimi anni, sempre ad eccezione del 2009 36
(Grafico 1.7), un incremento dell’ammontare medio unitario dell’investimento per singola
operazione, salito nel 2008 a circa 15 milioni di euro, da 10,9 milioni nel 2005. Il dato
normalizzato, al netto cioè delle operazioni di grandi dimensioni (large e mega deal 37 )
realizzate negli ultimi cinque anni, risulta, però oscillante; si riduce infatti dal 2006 al 2007
(passando da 8,5 milioni a 7 milioni) per poi risalire nel 2008 (8,9 mln €) e scendere
35 [PEVERARO S.], 2007.
36 La crisi ha determinato una diminuzione del taglio medio dell’ammontare investito per singola operazione,
passato da circa 15 milioni di Euro nel 2008 a 9 milioni nel 2009. A determinare questi risultati è stata
soprattutto l’assenza del 2009 di operazioni di ammontare superiore ai 300 milioni di Euro (mega deal),
mentre le società oggetto di un investimento il cui equity versato abbia superato i 150 milioni di Euro (large
deal) sono state sei, contro le 8 dell’anno precedente.
37 Investimenti di importo compreso tra 150 e 300 milioni di Euro (large deal) o maggiore di 300 milioni di
Euro (mega deal).
33

nuovamente, ma questa è una conseguenza dovuta al generale negativo andamento del
mercato, nel 2009 (6,6 mln €).
Grafico 1.7
16,0
14,0
12,0
10,0
8,0
6,0
4,0
2,0
-
10,9
n.d.
Ammontare investito medio (€ mln)
(anni 2005 - 2009)
12,8
8,5
13,9
7,0
2005 2006 2007 2008 2009
Ammontare investito medio (€ mln) Ammontare esclusi large e mega deal (Euro Mln)
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
Con specifico riferimento alle operazioni di grandi dimensioni (Grafico 1.8), nel corso
degli ultimi cinque anni gli investimenti hanno attratto risorse complessive per circa 10,3
miliardi di euro, pari al 54% dell’ammontare complessivamente investito negli anni
considerati.
Grafico 1.8
5.000
4.000
3.000
2.000
1.000
0
2.064
1.001
14,7
Evoluzione dell’ammontare investito (€ mln) per dimensione
dell’operazione (anni 2005 - 2009)
1.348
Fonte: AIFI – PricewaterhouseCoopers
2.383
2.059
2.138
8,9
2.586
2.872
9,2
6,6
1.293
1.322
2005 2006 2007 2008 2009
Ammontare small e medium deal (€ Mln) Ammontare large e mega deal (Euro Mln)
10
8
6
4
2
0
34

L’analisi delle dimensioni medie delle imprese target evidenzia tuttavia come la maggior
parte delle operazioni si sia concentrata su aziende di taglio medio-piccolo (Tabella 1.2 –
Grafico 1.9). Le imprese con meno di 250 dipendenti nel periodo 2005 – 2009, sono infatti
state oggetto in media del 76% degli interventi: la maggioranza degli operatori concentra
quindi i propri investimenti nelle aziende con le caratteristiche tipiche del tessuto
industriale italiano.
Tabella 1.2 - Distribuzione % del numero di investimenti per dipendenti delle
aziende target (anni 2005 - 2009)
2005 2006 2007 2008 2009 Media
0 - 19 35% 28% 34% 29% 31% 31%
20 - 99 26% 28% 28% 26% 30% 28%
100 - 249 17% 18% 16% 16% 16% 17%
+ 250 22% 26% 22% 29% 23% 24%
Totale 100% 100% 100% 100% 100% 100%
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
Grafico 1.9
17%
Distribuzione % del numero di investimenti per dipendenti
delle aziende target (valore medio - anni 2005 - 2009)
24%
28%
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
31%
0 - 19
20 - 99
100 - 249
L’analisi della distribuzione del numero di operazioni di investimento per classi di fatturato
delle aziende target conferma che le aziende di piccola e media dimensione (con un
fatturato inferiore ai 50 milioni di euro) hanno rappresentato, nei cinque anni, il principale
target verso cui sono stati indirizzati gli investimenti degli operatori attivi in Italia, con una
+ 250
35

quota media, anche in questo caso del 76% sul numero complessivo di operazioni (Tabella
1.3 – Grafico 1.10).
Tabella 1.3 - Distribuzione % del numero di investimenti per fatturato delle aziende
target (anni 2005 - 2009)
2005 2006 2007 2008 2009 Media
0 - 2 34% 29% 37% 28% 30% 32%
2 - 10 17% 6% 15% 12% 22% 14%
10 - 50 20% 34% 32% 33% 29% 30%
50 - 250 17% 20% 12% 22% 12% 17%
+ 250 12% 11% 4% 5% 7% 8%
Totale 100% 100% 100% 100% 100% 100%
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
Grafico 1.10
Distribuzione % del numero di investimenti per fatturato delle
aziende target (valore medio - anni 2005 - 2009)
17%
30%
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
8%
14%
32%
0 - 2
2 - 10
10 - 50
50 - 250
Analizzando più in dettaglio le dimensioni delle imprese oggetto di intervento, risulta in
Italia ancora scarsamente presidiato il segmento degli operatori che si dedicano alle
imprese che, seppure già esistenti, sono caratterizzate da soglie “critiche” di fatturato. Si
tratta di imprese con fatturato tra i 2 e i 10 milioni di euro, che non risultano appetibili né
per un operatore puro di venture capital, né per un operatore di private equity, che si
muove su aziende target più mature.
Per quanto riguarda, infine, la distribuzione geografica del numero di investimenti sul
territorio italiano, permane una situazione di squilibrio (Tabella 1.4). Nel quinquennio
+ 250
36

infatti, nelle regioni del Nord si sono realizzate il 70% di operazioni, nel Centro il 18% e
infine nelle regioni del sud (e le isole) solo il 4%.
Tabella 1.4 - Distribuzione geografica del numero di investimenti (anni 2005 – 2009)
2005 2006 2007 2008 2009 Media
Sud e Isole 1% 5% 6% 3% 4% 4%
Centro 13% 15% 19% 23% 22% 18%
Nord 81% 72% 64% 65% 66% 70%
Estero 5% 9% 11% 9% 8% 8%
Totale 100% 100% 100% 100% 100% 100%
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
Nel Mezzogiorno, infine, è stato investito appena il 2% dell’ammontare (Tabella 1.5 –
Grafico 1.11). La dinamica degli investimenti suggerisce, infatti, una maggiore attenzione
degli operatori verso le imprese localizzate nelle regioni del Centro, mentre rimangono
pressoché costanti le operazioni effettuate nelle regioni del Mezzogiorno.
Tabella 1.5 - Distribuzione geografica dell’ammontare investito (anni 2005 – 2009)
2005 2006 2007 2008 2009 Media
Sud e Isole 1% 2% 2% 1% 4% 2%
Centro 13% 10% 8% 27% 6% 13%
Nord 81% 86% 78% 70% 87% 80%
Estero 5% 1% 12% 2% 3% 5%
Totale 100% 100% 100% 100% 100% 100%
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
Grafico 1.11
100%
90%
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Distribuzione geografica del numero di investimenti e
dell'ammontare investito (valore medio - anni 2005 - 2009)
4%
2%
18%
13%
70%
80%
Sud e Isole Centro Nord Estero
Numero Ammontare
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
8%
5%
37

Considerando il secondo grande aggregato che caratterizza il mercato del capitale di
rischio, anche l’attività di raccolta 38 di nuove risorse finanziarie da parte degli operatori, si
è costantemente evoluta raggiungendo nel 2007 valori record, portandosi a quota 3.028
milioni di euro (Grafico 1.12). Tale valore è particolarmente significativo se si considera
che è il dato più alto mai registrato per la raccolta nel mercato italiano e che ha fatto
segnare un incremento pari a circa il 125% rispetto ai 1.345 milioni di euro del 2005.
L’ammontare raccolto subisce invece una leggera contrazione nel 2008 (2.267 mln €) e una
decisa contrazione (come tutto il mercato) nel 2009 (raggiungendo quota 957 milioni di
euro). Le difficoltà dell’attuale contesto economico hanno inciso sulle possibilità di
raccolta di nuovi fondi, determinando una contrazione del 58% rispetto al 2008, quando i
capitali raccolti ammontavano a 2.267 milioni di Euro; il valore medio si attesta così, nel
quinquennio 2005-2009, sui 2 miliardi di euro.
Grafico 1.12
3.500
3.000
2.500
2.000
1.500
1.000
500
-
1.345
2.275
Evoluzione dei capitali raccolti
(anni 2005 - 2009)
3.028
2.267
957
1.974
2005 2006 2007 2008 2009 Media
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
La maggior parte di tali fondi proviene da raccolta indipendente (Grafico 1.13) svolta sul
mercato nazionale ed internazionale (1,6 miliardi di euro medi nel quadriennio 2006 -
2009), mentre circa il 22% è riconducibile a capitali forniti dalle società capogruppo dei
veicoli d’investimento di tipo captive (circa 500 milioni di euro). Rimane, infine,
marginale la quota di capital gain proveniente dalla medesima attività di private equity che
38 L’attività di fund raising analizzata riguarda: gli operatori indipendenti aventi focus specifico di
investimento sul mercato italiano (SGR e country funds) e gli operatori captive italiani, che non effettuano
attività di raccolta indipendente, ma ricevono i capitali dalla casamadre.
38

viene utilizzata per reinvestimenti (75 milioni di euro). Secondo la metodologia
internazionale, tali dati non considerano le risorse riconducibili ai fondi pan-europei con
base stabile nel nostro paese, sottostimando, dunque, il valore complessivo delle risorse
disponibili sul mercato.
Grafico1.13
2.400
2.100
1.800
1.500
1.200
900
600
300
-
85
736
1.454
Provenienza dei capitali raccolti ( € mln)
(anni 2006 - 2009)
175
2.337
516 482
1750
35 3
2006 2007 2008 2009
169
Capital gains Capitale fornito dalla capogruppo Raccolta indipendente
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
Con riferimento alla provenienza geografica delle risorse raccolte (Grafico 1.14), negli
ultimi cinque anni la quota di capitali di origine internazionale ha raggiunto il 39%, da un
lato confermando l’interesse degli investitori istituzionali esteri, soprattutto europei, per il
mercato italiano, dall’altro evidenziando la scarsa propensione degli investitori domestici
ad allocare parte del loro patrimonio verso il settore del private equity. Si segnala inoltre
un’importante versione di tendenza rispetto al 2008, quando i capitali internazionali
avevano registrato una sensibile contrazione. Nel corso del 2009, la quota di capitali di
derivazione non domestica è tornata a rappresentare circa il 32% del totale delle ricorse
raccolte sul mercato, facendo registrare un incremento di circa l’80% in valore assoluto se
confrontato con il dato dell’anno precedente, anche se ancora inferiore a quanto rilevato
nel 2005 (39%), 2006 (50%) e 2007 (57%).
785
39

Grafico 1.14
100%
80%
60%
40%
20%
0%
Evoluzione dell’origine geografica dei capitali raccolti sul mercato
(anni 2005 - 2009)
39% 50%
61%
50%
57%
43%
18%
82%
32%
68%
39%
61%
2005 2006 2007 2008 2009 Media
Italia Estero
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
Considerando poi i soggetti da cui provengono i capitali (Tabella 1.6 – Grafico 1.15), le
risorse provenienti da banche e fondi di fondi, continuano a costituire la quota più
importante del totale delle risorse affluite sul mercato, rappresentando entrambi poco più
del 40% nel quinquennio 2005-2009. Si sottolinea l’importante ruolo svolto dai fondi di
fondi, tipicamente di matrice internazionale, che hanno superato nel periodo considerato la
leadership del sistema bancario (23% vs 19%), tradizionalmente il principale sottoscrittore
di fondi di private equity e venture capital italiani. La restante quota della raccolta si
suddivide, invece, fra investitori individuali (13%), assicurazioni (9%) e fondazioni
bancarie e accademiche (7%), mentre svolgono un ruolo relativamente marginale i gruppi
industriali, i fondi pensione e le istituzioni pubbliche.
Tabella 1.6 - Evoluzione dell’origine dei capitali raccolti sul mercato per tipologia di
fonte (anni 2005 - 2009)
2005 2006 2007 2008 2009 Media
Fondi di Fondi 12% 42% 30% 9% 20% 23%
Banche 33% 22% 27% 10% 5% 19%
Investitori Individuali 5% 16% 12% 22% 12% 13%
Fondi Pensione 1% 8% 7% 11% 18% 9%
Assicurazioni 14% 3% 7% 7% 14% 9%
Fondazioni bancarie e
12% 2% 7% 10% 6% 7%
accademiche
Istituzioni pubbliche 3% 1% 1% 5% 13% 4%
Mercato dei capitali 0% 1% 5% 0% 0% 1%
Gruppi industriali 12% 1% 4% 23% 1% 8%
Altro 8% 5% 1% 4% 13% 6%
Totale 100% 100% 100% 100% 100% 100%
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
40

Grafico 1.15
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
23%
Fondi di Fondi
Evoluzione dell’origine dei capitali raccolti sul mercato per tipologia di
fonte (valore medio - anni 2005 - 2009)
19%
Banche
13%
Investitori
Individuali
9%
Fondi
Pensione
9%
Assicurazioni
7%
Fondazioni
bancarie e
accademiche
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
La dinamica dei disinvestimenti 39 e degli ammontari disinvestiti riflette quella degli altri
indicatori (Grafico 1.16). Anche l’attività di disinvestimento nel 2009 infatti è stata
condizionata dalle turbolenze dei mercati finanziari che, da un lato, hanno reso più difficili
le dismissioni delle partecipazioni degli operatori e, dall’altro, hanno inciso in modo
significativo sulla valorizzazione delle società in portafoglio. Nel corso degli ultimi 5 anni
l’ammontare medio disinvestito annualmente, calcolato al costo di acquisto della
partecipazione (che quindi non include i capital gain) è stato pari a circa 1,7 miliardi di
euro, mentre il numero delle società oggetto di disinvestimento risulta pari a 145.
Grafico 1.16
2.800
2.400
2.000
1.600
1.200
800
400
0
150 131
906
4%
Istituzioni
pubbliche
1%
Mercato dei
capitali
Evoluzione dell’attività di disinvestimento
(anni 2005 - 2009)
1.763
2.633
1.185
1.821
8%
Gruppi
industriali
207
181 151 184 181 152 143 108 172 145
2005 2006 2007 2008 2009 Media
Numero Società Ammontare (€ Mln)
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
39 I dati aggregati relativi all’attività di disinvestimento si riferiscono al valore complessivo delle dismissioni
considerate al costo di acquisto della partecipazione ceduta e non al prezzo di vendita.
6%
Altro
1.662
41

Sotto il profilo del canale attraverso cui le partecipazioni vengono dismesse (Grafico 1.17),
il mercato italiano si caratterizza per la prevalenza delle cessioni delle partecipazioni a
partner industriali (trade sale), utilizzate in media nel 43% dei casi. Seguono, al 16%, le
operazioni di cessione ad altri investitori finanziari, mentre la quotazione in Borsa rimane
ancora poco utilizzata, con una quota media pari al 9%, anche se il valore è cresciuto nel
2009 rispetto al 2008. Nonostante il dato relativo ai capitali disinvestiti faccia emergere un
incremento rispetto all’anno precedente, va segnalato che nel 2009 l’85% dell’ammontare
complessivo ha riguardato i cosiddetti write off 40 , vale a dire svalutazioni, totali o parziali,
delle società in portafoglio, con conseguente riduzione della quota detenuta o uscita
definitiva dalla compagine azionaria. Anche in termini di numero, le svalutazioni hanno
rappresentato la principale tipologia di uscita dalle società, con il 39% delle dismissioni
realizzate.
Grafico 1.17
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Evoluzione della distribuzione % del numero di disinvestimenti per tipologia
(anni 2005 - 2009)
43%
Trade sale Vendita ad altri
investitori
16%
9%
16%
IPO - post IPO Write off Altro
2005 2006 2007 2008 2009 Media
Fonte: elaborazione propria su dati AIFI – PricewaterhouseCoopers
1.3.3 I rendimenti del mercato italiano del private equity e venture capital
La performance degli investimenti di private equity è misurata generalmente attraverso il
tasso interno di rendimento (Internal Rate of Return, IRR), espresso su base annua, che
rappresenta il tasso di attualizzazione che pareggia il valore attuale dei flussi in uscita
40 Per write off, si fa riferimento ai soli casi di abbattimento totale o parziale del valore della partecipazione
detenuta, a seguito della perdita di valore permanente della società partecipata ovvero della sua liquidazione
o fallimento, con conseguente riduzione della quota detenuta o uscita definitiva dalla compagine azionaria.
16%
42

(outflows) con la somma dei flussi in entrata (inflows) derivanti dal disinvestimento a cui si
aggiunge l’eventuale valore attuale del portafoglio non ancora disinvestito (unrealisd
portfolio). L’IRR, di norma calcolato sulla base di flussi mensili, individua quindi il
rendimento medio percentuale annuo derivante da una qualsiasi attività d’investimento 41 .
In formula 42 (1):
Out
0
(1+ IRR )0 )0
m
+…+…
Out
n
(1+ IRR )n )n
m
dove Out e In rappresentano rispettivamente i flussi di cassa in uscita e in entrata alle
differenti scadenze i, per i=0, 1,…,n.
Il tasso di rendimento interno mensile (IRRm), definito dalla soluzione dell’equazione (1),
deve poi essere riportato su base annuale (IRRa), attraverso la seguente formula (2) 43 :
I rendimenti del mercato italiano del capitale di rischio vengono rilevati sin dal 1986
dall’AIFI, in collaborazione con KPMG Corporate Finance 44 . L’analisi, basata sulle
informazioni fornite direttamente dagli operatori del settore attivi in Italia, presenta dei
risultati di sintesi in termini di IRR Lordo Aggregato, calcolato sulla base di flussi mensili.
Tali risultati vengono calcolati attraverso la media ponderata dei rendimenti della totalità
degli investimenti realizzati dagli operatori e non la media dei rendimenti dei singoli
operatori. In sostanza, si considera il mercato italiano come un unico fondo di private
equity, il cui rendimento complessivo è calcolato sul totale dei flussi in entrata ed in uscita
derivanti dall’insieme delle operazioni monitorate 45 .
41
Per approfondimenti si veda DEL GIUDICE R., “L’analisi e la valutazione degli investimenti”, in
[AA.VV.], 2003 e [Braeley R., et al.], 2002.
42
Per semplificare presupponiamo che il valore dell’unrealised portfolio sia pari a 0.
43
La soluzione di tale equazione può avvenire sia individuando un primo livello di IRR approssimativo e
procedendo poi per tentativi successivi sia, più semplicemente, utilizzando un qualsiasi foglio di calcolo
elettronico dotato di tale formula come per esempio Excel.
44
AIFI, Statistics on Performance, in AIFI Yearbook, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010.
45 [KPMG CORPORATE FINANCE], 2007.
IRRa = ( 1 + IRRm) 2 - 1
=
In
0
(1+ IRR )0 )0
m
+…+…
In
n
(1+ IRR )n )n
m
43

In particolare, i dati KPMG si focalizzano su tre indicatori principali:
– IRR Lordo Aggregato “From Inception” (definito, nella terminologia
internazionale, “Gross Pooled IRR on Realised Investments”), ovvero la
performance relativa alle partecipazioni cedute nel corso dell’anno di riferimento,
indipendentemente dal periodo cui risale l’investimento iniziale;
– IRR Lordo Aggregato “Since Inception” (definito, nella terminologia
internazionale, “Historical Gross Pooled IRR on Realised Investments”), indice
della performance storica di tutte le partecipazioni dismesse dal 1986;
– IRR Lordo Aggregato “By Horizon” (definito, nella terminologia internazionale,
“Gross Pooled IRR on All Investments”), che esprime la performance relativa alle
partecipazioni acquisite in un determinato orizzonte temporale di riferimento (3, 5
e 10 anni), indipendentemente dal fatto che esse siano state successivamente
cedute o risultino ancora in portafoglio (nel qual caso, ai fini del calcolo della
performance, si prende a riferimento la stima del valore della partecipazione a
fine periodo).
Nell’ IRR Lordo Aggregato “From Inception” si prendono in considerazione
esclusivamente i flussi di cassa, in uscita (Cash Out) ed in entrata (Cash In), relativi alle
partecipazioni disinvestite nell’anno di riferimento, mentre i flussi riconducibili a
dismissioni parziali vengono considerati “pro-quota”.
Tabella 1.7 - Evoluzione del campione “From Inception” (anni 2005 - 2009)
2005 2006 2007 2008 2009
Operatori coinvolti nella ricerca 51 62 66 71 75
Operatori che presentano operazioni
realizzate
23 30 33 38 23
Numero transazioni dismesse 71 88 99 78 42
Dimensione media dell’investimento
7,2 10,9 16,4 16,5 19,9
(Euro mln)
Cash Out complessivo (Euro mln) 512 966 1.627 1.289 836
Cash In complessivo (Euro mln) 995 1.956 4.105 2.193 361
Fonte: KPMG Corporate Finance
La struttura del campione considerato nell’analisi mostra un progressivo incremento del
numero di operatori coinvolti nella ricerca, che passano dai 51 del 2005 ai 75 del 2009
44

(Tabella 1.7). L’aumento, fino al 2008, del numero di operatori che presentano operazioni
realizzate e del numero di transazioni dismesse, benché risulti parzialmente riconducibile
al suddetto ampliamento del campione, fornisce, in ogni caso, un chiaro riscontro del trend
di crescita del mercato. Come evidenziato per gli altri indicatori presi in considerazione
(raccolta, investimenti e disinvestimenti), la crisi globale del 2009 ha influenzato il
mercato anche in termini di volumi e performance. Nel 2009, infatti, il numero di
transazioni dismesse e il volume di Cah Out complessivo, si riducono rispettivamente del
46% (42 nel 2009 vs 78 nel 2008) e del 35% (836 milioni di euro nel 2009 vs 1.289 del
2008); il trend negativo dell’anno spinge invece gli operatori ad investire mediamente di
più. La dimensione media dell’investimento passa infatti da 16,5 milioni di euro del 2008 a
19,9 milioni di euro del 2009. Il volume di Cash In complessivo pari a 361 milioni di euro
nel 2009 (rispetto ai 2.193 del 2008) mostra un multiplo di uscita implicito (cosiddetto
“cash multiple”) pari a 0,4x significativamente più basso rispetto all’1,7x del 2008 46 .
Tabella 1.8 - Evoluzione della performance “From Inception” (anni 2005 - 2009)
2005 2006 2007 2008 2009
IRR Lordo Aggregato 25,1% 28,5% 29,2% 18,9% -16,6%
Fonte: KPMG Corporate Finance
I risultati dell’indagine evidenziano come i rendimenti del mercato del capitale di rischio
(Tabella 1.8) siano caratterizzati da un costante trend di crescita fino al 2007 (29,2%), in
leggera flessione nel 2008 (18,9%), in netta caduta nel 2009 (-16,6%). È la prima volta, da
quando viene monitorato, che l‘IRR Lordo Aggregato presenta un valore negativo.
Il dettaglio per classe di IRR realizzato (Tabella 1.9) ribadisce i segnali positivi
sull’andamento del mercato fino al 2008. Nello specifico, l’incidenza (per numero) delle
operazioni con IRR negativo o inferiore al 10% scende dal 63,4% nel 2005 al 45,5% nel
2007; pressoché invariato, rispetto all’anno precedente, il dato del 2008 (47,4%) mentre
ancora una volta il 2009 si conferma un anno molto sfavorevole.
46 Il cash multiple è il capitale incassato in tutte le sue forme (quindi oltre al prezzo di cessione anche gli
eventuali dividendi – Cash In) rispetto a quello investito (Cash Out) ed è pari al rapporto tra Cash In
complessivo e Cash Out complessivo.
45

Tabella 1.9 - Performance “From Inception” - distribuzione per classi di rendimento
(anni 2005 - 2009)
2005 2006 2007 2008 2009
Num Incidenza
(%)
Num Incidenza
(%)
Num Incidenza
(%)
Num Incidenza
(%)
Num Incidenza
(%)
Negativo/Write Off 7 9,9% 13 14,8% 20 20,2% 21 26,9% 24 57,1%
0% - 10% 38 53,5% 34 38,6% 25 25,3% 16 20,5% 7 16,7%
10% - 20% 6 8,5% 9 10,2% 15 15,2% 8 10,3% 5 11,9%
20% - 30% 9 12,7% 8 9,1% 7 7,1% 7 9,0% 3 7,1%
30% - 40% 2 2,8% 4 4,5% 5 5,1% 9 11,5% 1 2,4%
40% - 50% 1 1,4% 4 4,5% 9 9,1% 5 6,4% 1 2,4%
50% - 100% 6 8,5% 7 8,0% 14 14,1% 7 9,0% - -
100% - 500% 2 2,8% 7 8,0% 4 4,0% 5 6,4% 1 2,4%
> 500% - - 2 2,3% - - - - - -
Totali 71 100% 88 100% 99 100% 78 100% 42 100%
Fonte: elaborazione propria su dati KPMG Corporate Finance
Il numero di operazioni infatti con IRR negativo (write off) hanno rappresentato nel 2009 il
57,1% del totale e quelle con IRR inferiore al 10%, il 16,7% per un totale pari al 73,8%.
Anche le transazioni con performance più elevate (con IRR maggiore del 30% e inferiore
al 50%) risultano in costante crescita fino al 2008, passando dal 4,2% nel 2005 al 17,9%
nel 2008. Lo stesso dato precipita al 4,8% nel 2009. Analogamente sempre fino al 2008, si
registra un incremento delle operazioni con rendimenti “outstanding” (con IRR superiore
al 50%), la cui incidenza è passata dal 11,3% nel 2005 al 18,2% nel 2006 e 2007, al 15,4%
del 2008. Il dato precipita al 2,4% nel 2009.
Nel 2009 gli operatori del panel hanno mostrato, a livello di exit, una predilezione per le
operazioni di expansion, in controtendenza rispetto a quanto registrato negli anni
precedenti, dove a primeggiare erano sempre state le operazioni MBO/MBI. Anche i dati
relativi alle performance per tipologia d’investimento (Tabella 1.10) confermano la
controtendenza del 2009 rispetto al quadriennio 2005 – 2008; se infatti le dismissioni
riconducibili ad originarie operazioni di MBO/MBI nel quadriennio hanno rappresentato
tradizionalmente le performance più elevate confermandosi sempre “top performer”,
seguite dai disinvestimenti di partecipazioni acquisite per sostenere lo sviluppo delle
aziende oggetto d’investimento (expansion), nel 2009, l’IRR delle operazioni MBO/MBI è
stato addirittura negativo e pari a -33,1%.
46

Tabella 1.10 - Performance “From Inception” - distribuzione per tipologia
d'investimento originario (anni 2005 - 2009)
2005 2006 2007 2008 2009
N
trans
IRR
N
trans
IRR
N
trans
IRR
N
trans
IRR
N
trans
IRR
Early Stage 6 -1,8% 8 13,8% 2 89,1% 11 -2,7% 8 34,8%
Expansion 19 13,9% 18 17,4% 34 21,3% 24 9,6% 17 13,6%
MBO/MBI 14 37,3% 27 44,9% 36 36,1% 31 21,2% 11 -33,1%
Replacement 7 15,2% 8 20,6% 14 14,6% 7 20,8% 1 Neg
Fonte: elaborazione propria su dati KPMG Corporate Finance
Attraverso l’analisi del “Since Inception” è possibile monitorare la performance di tutte le
partecipazioni dismesse dal 1986, che vengono cumulativamente incrementate anno per
anno. Si tratta dunque di un indicatore utile a fornire un quadro più omogeneo
dell’evoluzione della performance del mercato nel medio periodo, in quanto risente in
misura ridotta di eventuali ciclicità del settore rispetto all’analisi year by year (From
Inception). Infatti anche se in diminuzione rispetto al periodo 1986 - 2008, per effetto
dell’andamento negativo del mercato nel 2009 (Tabella 1.11), il dato relativo alle
performance delle partecipazioni disinvestite cumulativamente nell’arco temporale 1986 –
2009, conferma un rendimento sostanzialmente stabile e che si attesta intorno al 28%.
Tabella 1.11 - Evoluzione della performance “Since Inception” (anni 2005 - 2009)
1986 - 2005 1986 - 2006 1986 - 2007 1986 - 2008 1986 - 2009
IRR Lordo Aggregato 30,3% 30,0% 29,6% 29,2% 27,6%
Fonte: elaborazione propria su dati KPMG Corporate Finance
A differenza delle elaborazioni illustrate in precedenza, l’IRR Lordo Aggregato “By
Horizon”, come già evidenziato, considera tutti gli investimenti effettuati nell’orizzonte
temporale di riferimento (3, 5 e 10 anni), indipendentemente dal fatto che essi siano stati o
meno disinvestiti o risultino ancora in portafoglio (“Gross Pooled IRR on All
Investments”). Per quanto concerne le partecipazioni ancora in portafoglio, si precisa che la
valorizzazione a fine anno delle stesse, in linea con un approccio prudenziale, risulta in
larga parte dei casi effettuata al costo. E’ altresì opportuno segnalare che i dati desunti
dall’analisi “By Horizon”, a differenza dell’analisi “Since Inception” sono soggetti al
47

meccanismo della “media rolling”, applicato all’orizzonte temporale di riferimento. Per
tale motivo, le elaborazioni di seguito riportate, relative all’anno 2009, presentano la
seguente distribuzione temporale:
– 3 YR: IRR Lordo Aggregato analizzato nel periodo 2007 - 2009;
– 5 YR: IRR Lordo Aggregato analizzato nel periodo 2005 - 2009;
– 10 YR: IRR Lordo Aggregato analizzato nel periodo 2000 - 2009.
Anche l’evoluzione di tale indicatore di performance evidenzia il generale miglioramento
dei rendimenti fino al 2007, riflettendo chiaramente la leggera flessione dei rendimenti nel
2008 e l’incidenza delle performance negative realizzate nel 2009 (Tabella 1.12). Oltre ad
offrire un quadro puntuale dei rendimenti aggregati del portafoglio del private equity e
venture capital italiano, dall’analisi “By Horizon” emergono delle indicazioni utili a
meglio comprendere le modalità di valorizzazione delle società ancora “in pancia” agli
operatori.
Tabella 1.12 - Evoluzione della performance “By Horizon” (anni 2005 - 2009)
2005 2006 2007 2008 2009
3 anni 6,6% 23,6% 29,9% 5,1% -1,4%
5 anni 11,7% 22,5% 25,2% 28,8% 11,4%
10 anni 21,1% 22,0% 22,7% 19,6% 13,4%
Fonte: elaborazione propria su dati KPMG Corporate Finance
A questo proposito, i dati relativi alla composizione del portafoglio evidenziano, come
anticipato, una generale tendenza degli operatori del settore a valorizzare le partecipazioni
non ancora disinvestite al costo di acquisto (Tabella 1.13).
Tabella 1.13 - Valorizzazione delle partecipazioni in portafoglio (orizzonte temporale
10 anni)
2004 2005 2006 2007 2008 2009
Partecipazioni valutate al costo 70,1% 62,2% 54,4% 56,3% 54,1% 50,9%
Partecipazioni rivalutate 2,3% 21,8% 30,0% 27,3% 27,5% 26,6%
Partecipazioni svalutate 27,6% 16,0% 15,60% 16,3% 18,4% 22,4%
Numero partecipazioni ancora in
portafoglio 214 262 327 355 364 379
Fonte: elaborazione propria su dati KPMG Corporate Finance
48

In linea però con quanto prescritto dai principi internazionali, si evidenzia un incremento
del numero di partecipazioni valutate al fair value. In questo senso, infatti, prendendo
quale base di riferimento l’orizzonte temporale di 10 anni, le partecipazioni rivalutate
rispetto al costo di acquisto sono passate da poco più del 2,3% del 2004 al 26,6% del 2009.
1.4 L’IMPATTO ECONOMICO DEL PRIVATE EQUITY
La valutazione degli effetti prodotti sulle imprese partecipate dagli operatori di private
equity ha, nel corso degli anni, rappresentato uno dei principali ambiti di studio della
materia. L’obiettivo del presente paragrafo è, pertanto, quello di valutare l’impatto
economico generato dagli investimenti nel capitale di rischio, attraverso l’analisi di
differenti studi realizzati in America, Europa, Inghilterra e ovviamente in Italia. Attraverso
un’analisi ex post effettuata sulle imprese “venture backed”, gli studi hanno verificato se, e
in quale misura, tali realtà abbiano fatto segnare performance economico-finanziarie
superiori rispetto a quelle riconducibili a imprese simili, mai entrate in contatto con il
private equity. I risultati raggiunti dimostrano come l’investimento nel capitale di rischio
contribuisca sensibilmente allo sviluppo delle imprese, indipendente dalle caratteristiche
operative dei soggetti investitori e del tessuto produttivo sottostante.
Nell’ambito del sistema finanziario nel suo complesso, il private equity sta assumendo un
ruolo via via crescente, anche in virtù delle migliori performance fatte registrare rispetto ad
altre forme d’investimento considerate più tradizionali. Secondo recenti ricerche 47 , infatti,
il private equity genera rendimenti più elevati rispetto ai titoli quotati. La comparazione, in
termini di performance, tra gli investimenti nel capitale di rischio e quelli relativi alle altre
asset class, come rappresentato nel Grafico 1.18, è stata effettuata confrontando i
rendimenti registrati nel periodo di osservazione, questi ultimi calcolati replicando i flussi
in entrata e in uscita delle operazioni di private equity.
47 [EVCA, Thomson Reuters], 2009.
49

Grafico 1.18
15%
12%
9%
6%
3%
0%
-3%
-6%
-9%
Fonte: Thomson Reuters/EVCA
Comparazione dei rendimenti misurati in termini di IRR netto aggregato
"Since Inception" (anni 2002 - 2008)
2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008
European Private Equity Morgan Stanley Euro Equity
HSBC Small CompanyJP JP Morgan Euro Bonds
Sotto il profilo del processo d’investimento, l’obiettivo degli operatori è quello di
realizzare un’importante plusvalenza (capital gain) nel medio termine, attraverso la
cessione della partecipazione acquisita. Per plusvalenza s’intende l’incremento di valore
della partecipazione, maturato dal momento dell’assunzione della partecipazione a quello
della cessione e monetizzazione della stessa. In generale, il buon esito dell’intervento è
determinato dalla capacità dell’investitore di contribuire a creare valore all’interno
dell’impresa, generando, nella maggior parte dei casi, un beneficio per l’intero tessuto
economico ed imprenditoriale del paese. I gestori dei fondi di private equity dovranno,
pertanto, selezionare società ad alto potenziale di crescita, per poi creare le condizioni per
lo sviluppo. In quest’ottica, possono essere definiti come dei veri e propri “talent scout”
d’impresa.
A differenza delle tradizionali forme di finanziamento, la partecipazione nel capitale di
rischio di investitori istituzionali richiede uno stretto rapporto di collaborazione tra
l’imprenditore e l’investitore stesso, il quale condivide il rischio d’impresa ed è
cointeressato al successo della stessa. Oltre al capitale, l’investitore apporta competenze
professionali, strategiche, manageriali, finanziarie, di marketing, di organizzazione, oltre
ad offrire una rete di contatti utili in ambito nazionale e internazionale. Il rapporto
costruttivo tra imprenditore e investitori istituzionali è fondamentale per esaltare queste
competenze. Allo stesso tempo, l’apertura del capitale di un’impresa ad un socio
istituzionale determina, generalmente, una serie di cambiamenti importanti, specialmente
50

nel caso d’imprese a carattere familiare. Per raggiungere il suo obiettivo, infatti,
l’investitore eserciterà un’azione orientata a elevare la trasparenza e la qualità nella
comunicazione d’impresa, a professionalizzarne la gestione e l’organizzazione, a far
introdurre ed evolvere sistemi di pianificazione e controllo dei risultati aziendali. Tali
esigenze conducono le imprese verso un percorso di efficientamento sia dal punto di vista
gestionale che operativo, difficilmente attuabile senza il ricorso a un operatore finanziario
altamente professionale.
Analizzando la posizione assunta dal private equity all’interno del sistema finanziario,
l’investimento nel capitale di rischio può essere considerato sia come asset class ben
distinta dagli investimenti tradizionali, sia come anello di congiunzione tra il sistema
impresa e il mercato finanziario. Secondo il primo punto di vista, l’attività di private equity
è riconosciuta come un’asset class ormai consolidata. Classificata come investimento
alternativo, al pari dei fondi immobiliari e degli hedge fund, permette una diversificazione
del portafoglio, con una conseguente attenuazione del profilo di rischio, grazie soprattutto
alla bassa correlazione esistente con il mercato azionario. In Italia, l’interesse nei confronti
del private equity è in costante aumento, a partire dalle banche che, in un’ottica di
diversificazione delle proprie attività, operano in qualità di fornitori di capitale di debito, di
selezionatori di opportunità d’investimento e, sempre più spesso, di investitori diretti
attraverso divisioni specializzate. Con riferimento al secondo aspetto, il private equity
rappresenta un efficace strumento di accompagnamento delle imprese sui mercati
regolamentati. Data la caratteristica di temporaneità dell’investimento, infatti, una Borsa
efficiente rappresenta il principale canale di disinvestimento per l’investitore che, al tempo
stesso, si trasforma in fonte di nuove quotazioni e pertanto in alimentatore del sistema
finanziario. Osservando ad esempio i dati del mercato britannico, il Paese europeo in cui
l’attività di investimento in capitale di rischio è maggiormente sviluppata, si nota che oltre
il 50% delle società che si sono quotate sul listino principale (London Stock Exchange
Main) tra il 1995 e dicembre 2006 (pari a 385), è rappresentato da società partecipate da
operatori di private equity (199). Anche i dati relativi al listino dedicato alle imprese di
dimensioni più piccole, ma con elevato potenziale di sviluppo, confermano il ruolo
positivo del capitale di rischio: dalla sua nascita ad oggi, infatti, ben 183 IPO sull’AIM
51

sono state venture backed 48 . I dati italiani 49 confermano ulteriormente il ruolo propulsore
del private equity nello sviluppo del mercato di Borsa. Dal 2005 ad oggi sono state 69 le
società che si sono quotate in Italia, delle quali ben 29 (in media il 42%) sono venture
backed (Grafico 1.19).
Grafico 1.19
14
12
10
8
6
4
2
0
6
60%
Marzo 2005 –
Febbraio 2006
L’incidenza del Private Equity sul numero di IPO in Italia
(anni 2005 - 2009)
35%
7
Marzo 2006 –
Febbraio 2007
Fonte: Ernst & Young Financial-Business Advisors
12
41%
Marzo 2007 –
Febbraio 2008
40%
40%
2 2
Marzo 2008 –
Febbraio 2009
IPO in Italia % IPO Venture Backed
Marzo 2009 –
Febbraio 2010
Esiste pertanto una relazione biunivoca tra il livello di sviluppo del mercato del private
equity e il livello di efficienza del mercato azionario. La possibilità di liquidare
agevolmente gli investimenti attraverso la quotazione delle società target non fa che
incrementare il numero delle IPO, innescando un circolo virtuoso che porta a una crescita
dell’economia e a un’evoluzione del sistema economico e finanziario. Diventa evidente, in
questo contesto, l’importanza della politica economica nel sostenere lo sviluppo dei
mercati finanziari e soprattutto di quei segmenti o settori economici che non sono
direttamente appetibili per gli operatori di private equity. Del resto, nei sottoparagrafi
successivi, si vedrà come un incentivo a tale settore porti a un effetto indotto di notevole
portata sul sistema industriale.
48 [BVCA, London Stock Exchange], 2008.
49 [Ernst & Young Financial-Business Advisors], 2006, 2007, 2008, 2009, 2010.
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
52

1.4.1 L’impatto economico del private equity negli Stati Uniti
La valutazione degli effetti prodotti sulle imprese partecipate dagli operatori di private
equity ha, come detto, nel corso degli anni, rappresentato uno dei principali ambiti di
studio della materia. In particolare, sono state numerose le ricerche realizzate sia a livello
europeo che con riferimento al più maturo mercato statunitense e ad altre realtà extra
europee meno sviluppate. La materia è stata trattata sia da Università e Centri di Ricerca
specializzati, sia, e più diffusamente, nell’ambito delle attività di studio svolte da o per
conto delle associazioni di categoria 50 .
Partendo dall’analisi del sistema americano, di seguito si riportano le risultanze di uno
studio, commissionato nel 2001 e aggiornato nel 2004 e 2007 dalla NVCA 51 ,
l’Associazione americana del venture capital. Tale ricerca, si è focalizzata sull’impatto
economico degli investimenti di venture capital, che secondo l’accezione USA, includono
sia le operazioni di early stage che quelle di expansion. Tali operazioni hanno fatto
registrare un sensibile incremento nell’ultimo ventennio in termini di ammontare investito:
partendo da un valore pari a circa 2,8 miliardi di dollari nel 1990, nel 2009 sono stati
raggiunti i 17,7 miliardi 52 (in diminuzione del 37% rispetto al 2008). Il picco massimo è
stato raggiunto nel 2000, quando l’ammontare investito ha superato i 106 miliardi di
dollari.
Lo studio sugli effetti economici di tali operazioni ha avuto ad oggetto, nella sua ultima
versione, un campione di circa 23.500 imprese venture backed e si è focalizzato sull’analisi
delle relative dimensioni, del fatturato nazionale ed estero, della redditività, dell’impatto
fiscale, del numero di addetti e delle spese sostenute per la ricerca e sviluppo (R&S). La
prima evidenza che emerge dallo studio originario (2001), si riferisce a una forte
50 L’AIFI (ASSOCIAZIONE ITALIANA DEL PRIVATE EQUITY E VENTURE CAPITAL) per l’Italia
(www.aifi.it), l’AFIC (FRENCH PRIVATE EQUITY ASSOCIATION) per la Francia (www.afic.asso.fr),
l’ASCRI (SPANISH VENTURE CAPITAL ASSOCIATION) per la Spagna (www.ascri.org), la BVCA
(BRITISH PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL ASSOCIATION) per il Regno Unito
(www.bvca.co.uk), NVCA (NATIONAL VENTURE CAPITAL ASSOCIATION), per gli USA
(www.nvca.org), EVCA (EUROPEAN PRIVATE EQUITY & VENTURE CAPITAL ASSOCIATION), per
l’Europa (www.evca.eu), etc. Nel presente lavoro, ci si concentrerà su questa seconda tipologia di studi, per
motivi riconducibili a un taglio più divulgativo dei risultati raggiunti, nonché di più facile confrontabilità tra
gli stessi.
51 [DRI-WEFA, NVCA], 2001, aggiornata in [GLOBAL INSIGHT, NVCA], 2007.
52 [NVCA], 2010.
53

correlazione esistente tra il venture capital, le cui operazioni sono concentrate
principalmente in California, Massachussets, New York, Texas e Colorado, e l’incremento
del PIL pro capite registrato dai singoli Stati. Alle stesse conclusioni si può giungere
analizzando il numero dei brevetti registrati, di gran lunga superiore rispetto a quanto
emerge dall’analisi degli Stati in cui il venture capital non è diffuso. Tale evidenza trova
una giustificazione nell’ormai indiscussa capacità del venture capital americano di favorire
la nascita di cluster tecnologici, caratterizzati dalla presenza di forti sinergie tra mondo
della ricerca e della finanza innovativa. Sempre con riferimento agli effetti economici, si è
poi dimostrato che le imprese venture backed hanno impiegato nel 2006 oltre 10 milioni di
addetti e fatturato circa 2.300 miliardi di dollari (Tabella 1.14) che rappresentano
rispettivamente il 9,1% dell’occupazione totale degli Stati Uniti e l’8,6% delle vendite
totali del Paese.
Tabella 1.14 - L’impatto economico del venture capital negli Stati Uniti
Fonte: GLOBAL INSIGHT, NVCA
2000 2003 2006
Occupati (mln) 8,7 9,4 10,4
Ricavi (mld $) 1.500 1.700 2.300
Considerando l’intervallo temporale dal 2003 al 2006, le imprese partecipate da investitori
istituzionali hanno creato oltre un milione di nuovi posti di lavoro, con un tasso medio
annuo del 3,6% rispetto a una crescita della forza lavoro nazionale dell’1,4%. Allo stesso
modo, il tasso medio annuo del fatturato si è attestato intorno all’11,8% rispetto a una
crescita del fatturato delle imprese statunitensi del 6,5% (Grafico 1.20).
54

Grafico 1.20
CAGR (%)
16%
14%
12%
10%
L'impatto econcomico del private equity negli Stati Uniti - Incremento
medio annuo di alcuni indicatori (2003 - 2006)
8%
6%
4%
2%
0%
Fonte: GLOBAL INSIGHT, NVCA
11,8%
6,5%
3,6%
Sales Employment
Venture backed US Companies
Lo studio rileva poi che l’impatto positivo del venture capital nella creazione di posti di
lavoro, non è limitato ad un preciso settore come per esempio quello dell’ITC, ma ha
interessato anche altri comparti come “Business Products and Services”, “Biotechnology”
e “Medical Devices” (Grafico 1.21). Lo stesso discorso vale per la crescita del fatturato
(Grafico 1.22). La ricerca mostra infatti come le venture backed abbiano sopraperformato
il tasso di crescita media dei fatturati della totalità delle imprese in qualsiasi settore
esaminato.
Grafico 1.21
CAGR (%)
16%
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
1,4%
L'impatto econcomico del private equity negli Stati Uniti - Tassi di
crescita della forza lavoro (2003 - 2006)
13,4%
2,7%
Business Products and
Services
Fonte: GLOBAL INSIGHT, NVCA
9,2%
4,3%
8,9%
0,8%
Biotechnology Medical Devices
Venture backed US Employment
55

Anche in relazione al fatturato, la ricerca mostra come le venture backed abbiano
sopraperformato il tasso di crescita media dei fatturati della totalità delle imprese.
Considerando sempre il periodo 2003 – 2006, il fatturato medio delle imprese venture
backed è cresciuto dell’11,8% rispetto a una crescita del 6,5% delle imprese americane
(Grafico 1.22).
Grafico 1.22
CAGR (%)
25%
20%
15%
10%
5%
0%
Fonte: GLOBAL INSIGHT, NVCA
L'impatto econcomico del private equity negli Stati Uniti - Tassi di
crescita del fatturato (2003 - 2006)
23,9%
10,1%
19,1%
9,4%
16,2%
6,0%
Networking and Equipment Biotechnology Financial Services
Venture backed US Employment
Nella ricerca originaria (2001), attraverso una ponderazione effettuata sulle dimensioni
delle imprese messe a confronto, si è infine riscontrato che le società venture backed hanno
fornito un contributo all’economia americana superiore rispetto a quanto fatto registrare
dalle cosiddette public companies (Grafico 1.23). In particolare la ricerca ha evidenziato
che le società venture backed, per ogni 1.000 $ investiti nel periodo 1980 – 2000, hanno
generato maggiore fatturato per 634 $ contro i 391 delle public companies; pagato
maggiori imposte per 14 $ contro i 5 delle public companies; incrementato le esportazioni
di 138 $ contro i 72 delle public companies; incrementato l’investimento in R&S di 44 $
contro i 15 delle public companies.
56

Grafico 1.23
700
600
500
400
300
200
100
Fonte: DRI-WEFA, NVCA
0
L'impatto econcomico del private equity negli Stati Uniti - Variazione ($) di
alcuni indicatori ogni 1.000 $ d'investimento
Ricavi Tasse Export R&S
Venture backed All public Companies
1.4.2 L’impatto economico del private equity in Europa
I risultati raggiunti dalle analisi svolte sul mercato americano sono sostanzialmente in linea
con quanto emerso a livello europeo, inteso come mercato dell’intero continente, il cui
contributo giunge grazie agli studi realizzati dall’EVCA, l’Associazione europea del
private equity e venture capital. Con riferimento all’Europa, gli investimenti realizzati nel
2009 si sono attestati attorno ai 23,4 miliardi di euro distribuiti in circa 4.500 imprese 53 . Le
operazioni di buy out hanno rappresentato circa il 55% del totale investito, contro il 10%
registrato dagli investimenti di early stage.
Il primo tentativo di misurazione dell’impatto economico delle operazioni di private equity
in Europa si riferisce a uno studio svolto in collaborazione con Coopers&Lybrand 54 avente
come orizzonte temporale di riferimento gli anni 1991-1995 e come oggetto d’indagine un
campione costituito da 500 imprese venture backed localizzate in 12 paesi europei. Le
società oggetto del campione sono state successivamente confrontate con 500 imprese best
performer a livello europeo, al fine di comparare i rispettivi indici in termini di creazione
di posti di lavoro, di volumi di investimenti e di esportazioni.
53 Il dato europeo è in linea con quello italiano. Si registra infatti, come in Italia, una netta riduzione
dell’ammontare investito nel 2009. Si pensi che nel 2006 i miliardi investiti erano 72,2, nel 2007 72,9, nel
2008 54, [EVCA], 2009.
54 [EVCA, COOPERS&LYBRAND CORPORATE FINANCE], 1996.
57

La ricerca ha messo nuovamente in luce l’importante ruolo del private equity quale
strumento di crescita e sviluppo delle imprese, dimostrando che (Grafico 1.24):
– mediamente il fatturato delle società venture backed è aumentato del 35% annuo,
contro il 14% riferito alla media delle top 500 europee;
– gli investimenti sono cresciuti del 27% annuo contro il 11% delle top 500
europee;
– gli occupati sono cresciuti mediamente del 15%, rispetto al 2% del benchmark.
Grafico 1.24
40%
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
L'impatto econcomico del private equity in Europa - Incremento medio
annuo di alcuni indicatori (anni 1991- 1995)
35%
14%
25%
17%
Fatturato Reddito ante
imposte
27%
11%
Fonte: EVCA, Coopers&Lybrand Corporate Finance
14% 13%
Investimenti fissi Debito a lungo
termine
Venture backed Top 500 europee
15%
2%
36%
15%
Occupazione Capitalizzazione
Lo stesso studio, attraverso una serie d’interviste, illustra i giudizi espressi dagli
imprenditori in merito all’efficacia dell’intervento dell’investitore istituzionale. Le
considerazioni sono state poi classificate secondo la tipologia d’investimento realizzata.
Come si può vedere (Grafico 1.25), solo circa il 20% degli intervistati (in media) ritiene
che l’impresa si sarebbe sviluppata allo stesso modo, contro il 45% che ha dichiarato che
addirittura l’impresa, senza l’intervento dell’operatore, non esisterebbe più.
58

Grafico 1.25
100%
80%
60%
40%
20%
0%
L'impatto econcomico del private equity in Europa -
Impatto percepito (anni 1991 - 1995)
Early Stage Expansion MBO/MBI
Fonte: EVCA, Coopers&Lybrand Corporate Finance
Si sarebbe sviluppata allo stesso modo
Si sarebbe sviluppata più lentamente
Non esisterebbe più
Il secondo studio, pubblicato nel 2001 da EVCA e PricewatherhouseCoopers 55 , ha invece
focalizzato l’attenzione sulle operazioni di buy out. Tale ricerca, realizzata dal CMBOR 56
su un campione di 300 imprese presenti in 15 paesi europei, ha come orizzonte temporale il
periodo 1992-1997 ed ha condotto ai seguenti risultati:
– il 66% delle società facenti parte del campione ha sovraperformato rispetto alle
imprese concorrenti nel periodo in esame;
– durante il primo anno post buy out, le società hanno fatto registrare un incremento
medio dell’EBIT pari al 52%. Negli anni successivi il valore subisce un
decremento, attestandosi nel terzo anno attorno al 7%;
– gli investimenti in attività di formazione, marketing e R&S sono cresciuti
rispettivamente nel 54%, nel 59% e nel 66% dei casi;
– più del 60% delle imprese ha fatto registrare, successivamente al buy out,
sensibili incrementi occupazionali. In particolare, le società target hanno fatto
registrare un incremento medio del numero di occupati pari al 46,9%, associato a
un incremento generale delle retribuzioni;
– successivamente all’operazione di buy out, il 69,6% delle imprese ha
incrementato la gamma dei prodotti offerti, il 62,5% ha diversificato la propria
55 [EVCA, PRICEWATHERHOUSECOOPERS], 2001.
56 Centre for Management Buy-Out Research - The Centre for Private Equity Research.
59

attività verso nuovi mercati, il 53,7% ha investito in nuovi siti produttivi, il 52%
ha sviluppato i siti esistenti;
– l’84% delle società oggetto d’indagine non esisterebbe più o si sarebbe sviluppata
più lentamente qualora non si fosse concretizzata l’operazione di buy out.
Il Grafico 1.26, mostra l’evoluzione di alcune aree di spesa, confrontando quanto emerso
nell’anno di realizzazione dell’operazione e in quello immediatamente successivo. Il dato
percentuale si riferisce al rapporto tra la tipologia di spesa e il fatturato conseguito
nell’anno di riferimento.
Grafico 1.26
5%
4%
3%
2%
1%
0%
L'impatto econcomico del private equity in Europa - Incremento medio
annuo di alcune voci di spesa (anni 1992- 1997)
Fonte: EVCA, PricewatherhouseCoopers
Formazione Marketing R&S
Anno del buy out Anno successivo al buy out
Il Grafico 1.27 mostra invece i giudizi espressi dal campione, in merito all’efficacia
dell’operazione di buy out. I dati sono sostanzialmente in linea con quanto emerso dalla
ricerca del 1996.
60

Grafico 1.27
L'impatto econcomico del private equity in Europa -
Impatto percepito dalle imprese interessate da operazioni di buy
out (anni 1992 - 1997)
14% 2%
Fonte: EVCA, PricewatherhouseCoopers
84%
Non esisterebbe più o si sarebbe sviluppata più lentamente
Si sarebbe sviluppata allo stesso modo
Si sarebbe sviluppata più velocemente
L’EVCA ha poi successivamente effettuato una ricerca focalizzata sulle sole operazioni di
expansion e early stage. A tal fine, lo studio 57 , che risale al 2002, ha analizzato un
campione di 364 imprese (119 interessate da operazioni di expansion e 245 da operazioni
di early stage), relative ad operazioni compiute tra il 1995 e il 2001. Il questionario
utilizzato ha ricalcato quello utilizzato nella precedente ricerca (EVCA,
PRICEWATHERHOUSECOOPERS, 2001), seppur leggermente modificato al fine di
recepire le caratteristiche proprie delle operazioni di expansion e early stage. I risultati
emersi hanno dimostrato che:
– circa la metà delle imprese ha registrato una crescita dell’EBIT superiore rispetto
alle imprese concorrenti;
– le società start up hanno investito principalmente in R&S, quadruplicando gli
stanziamenti nel 50% dei casi;
– le società che hanno usufruito di capitali per lo sviluppo (expansion) hanno
attribuito una maggiore rilevanza alle spese di marketing, triplicate nel 50% dei
casi;
– circa il 70% delle venture backed ritiene che le spese in R&S, i costi relativi al
57 [EVCA], 2002.
personale e gli investimenti, effettuati negli anni successivi all’operazione, siano
incrementati grazie all’interveto del venture capitalist;
61

– il 50% del campione ha ravvisato un sensibile incremento delle esportazioni,
variazione ritenuta impossibile nel caso di mancata realizzazione dell’operazione;
– nelle start up già operative sui mercati esteri prima dell’operazione la quota di
fatturato relativa alle esportazioni ha subito un incremento pari al 78%. Tale
valore si riduce nel caso di società oggetto di expansion, facendo registrare un
incremento pari al 38%;
– circa il 90% delle società oggetto d’indagine ha visto aumentare il numero degli
occupati in seguito all’investimento dell’operatore di venture capital. In totale
sono stati creati 16.143 nuovi posti di lavoro, pari ad un valore medio di circa 46
assunzioni per società. Il dato assume maggiore valore se si considera che, prima
dell’investimento, il 72% delle start up annovera meno di 6 risorse all’interno
della propria struttura.
Inoltre la ricerca ha evidenziato che:
– circa il 95% delle imprese oggetto d’indagine non esisterebbe più o si sarebbe
sviluppata più lentamente qualora l’investimento non fosse stato effettuato
(Grafico 1.28);
– più in particolare, circa il 72% delle imprese seed e start up non sarebbero mai
Grafico 1.28
Fonte: EVCA
nate senza il ricorso al capitale di rischio.
L'impatto econcomico del private equity in Europa -
Impatto percepito dalle imprese venture backed
(anni 1995 - 2001)
5% 1%
95%
Non esisterebbe più o si sarebbe sviluppata più lentamente
Si sarebbe sviluppata allo stesso modo
Si sarebbe sviluppata più velocemente
62

Un’ulteriore ricerca 58 è stata svolta a livello europeo da EVCA e CEFS 59 , con l’obiettivo di
valutare l’impatto delle operazioni di private equity a livello occupazionale 60 .
I principali risultati della ricerca si possono così sintetizzare:
– 420.000 nuovi posti di lavoro creati dalle operazioni di buy out tra il 2000 e il
2004;
– 630.000 nuovi posti di lavoro creati dalle aziende venture backed tra il 2000 e il
2004.
Complessivamente quindi, tra il 2000 e il 2004, il private equity e il venture capital hanno
creato circa 1 milione di posti di lavoro con una crescita media annua del 5,4% 61 . Si tratta
di un tasso di crescita pari a otto volte il tasso di crescita annuo dell'occupazione totale
nell'UE-25 (0,7% 62 ) tra il 2000 e il 2004. La ricerca ha altresì evidenziato che le società
interessate da operazioni di private equity e venture capital hanno impiegato circa 6
milioni di persone in Europa nel 2004 (ovvero il 3% del totale delle persone
economicamente attive in Europa, pari a circa 200 milioni). In particolare (Grafico 1.29) le
imprese interessate da operazioni di buy out hanno assorbito l’83% delle persone occupate
(circa 5 milioni di posti di lavoro), mentre le venture backed il 17% (circa 1 milione di
posti di lavoro). Il risultato è facilmente intuibile: sono le imprese più grandi, interessate
principalmente da operazioni di buy out, a creare la maggior parte di posti di lavoro. Le
venture backed europee, che hanno usufruito dei finanziamenti degli investitori
istituzionali, pur essendo più piccole e in grado di generare minore occupazione in valori
assoluti, sono caratterizzate però da tassi di crescita occupazionali più elevati.
58 [EVCA], 2005.
59 Center for Entrepreneurial and Financial Studies
60 La ricerca ha analizzato un campione di 201 aziende (99 buy out e 102 venture backed) di Francia,
Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia e Regno Unito.
61 CAGR.
62 [EUROPEAN COMMISSION], 2005.
63

Grafico 1.29
Europa - Impatto occupazionale del buy
out (anni 2000 - 2004)
5.000.000
4.000.000
3.000.000
2.000.000
1.000.000
Fonte: EVCA
-
Buy Out
2000 2004
1.200.000
1.000.000
800.000
600.000
400.000
200.000
1.4.3 L’impatto economico del private equity nel Regno Unito
-
Europa - Impatto occupazionale del
venture capital (anni 2000 - 2004)
Venture Capital
2000 2004
La più recente analisi condotta in Inghilterra sull’impatto economico del private equity si
riferisce allo studio pubblicato dalla BVCA 63 nel 2008. La ricerca, che rappresenta un
aggiornamento di studi già svolti negli anni precedenti, ha preso in considerazione le
operazioni di private equity realizzate nel Regno Unito nei cinque anni precedenti il 2007,
focalizzandosi su un campione di 1.013 imprese venture backed. Si elencano di seguito le
principali conclusioni dello studio:
– il volume delle vendite delle società oggetto del campione è cresciuto a un tasso
annuale dell’8%, tasso maggiore rispetto a quanto rilevato per le società quotate
sul FTSE 100 64 (6%) e sul FTSE Mid-250 (5%);
– il volume degli investimenti è cresciuto dell’11%, contro una media nazionale
pari al 3%;
– le esportazioni sono aumentate mediamente del 10%, contro una media nazionale
del 4%;
– le spese di R&S sono cresciute del 14% contro l’1% della media nazionale;
– il 69% delle società facenti parte del campione ha dichiarato di aver introdotto sul
mercato nuovi prodotti e servizi (negli ultimi due anni);
63 [BVCA], 2008.
64 Indice delle prime 100 società, per capitalizzazione, quotate sul London Stock Exchange.
64

– circa il 50% ha dichiarato che il volume d’investimenti effettuati nel periodo
successivo all’operazione sarebbe risultato inferiore senza il supporto del private
equity;
– il contributo fiscale delle società venture backed è stato pari a 140 miliardi di
sterline;
– durante i 5 anni precedenti e fino al 2007, le società venture backed hanno fatto
registrare un incremento medio annuo del numero di occupati pari all’8%, contro
lo 0,4% delle imprese quotate sul listino FTSE 100 e il 3% di quelle quotate sul
listino FTSE Mid-250;
– le società venture backed impiegano circa 3 milioni di persone, ovvero circa il
21% della forza lavoro assunta nelle imprese private;
– il 91% delle imprese ha dichiarato che non sarebbero esistite o sarebbero
cresciute molto più lentamente senza il ricorso al private equity.
Il Grafico 1.30 pone a confronto i tassi medi di crescita annuale del fatturato e
dell’occupazione, registrati dalle imprese venture backed e dalle imprese quotate sul listino
FTSE 100 e FTSE Mid-250, così come emersi dalla ricerca.
Grafico 1.30
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Fonte: BVCA
L'impatto econcomico del private equity in Inghilterra -
Crescita annua del fatturato e dell'occupazione (2007)
8,0%
0,4%
3,0%
8,0%
6,0%
5,0%
Average annual increase in employment Average annual increase in sales revenue
Private equity backed FTSE 100 FTSE Mid-250
65

Lo studio svolto dalla BVCA ha previsto inoltre un focus sulle sole operazioni di buy out,
permettendo di analizzare l’impatto di una tipologia d’investimento sempre più diffusa in
Europa. Di seguito si riportano le principali caratteristiche emerse:
– il 75% del campione ha sottolineato l’efficacia dell’operazione di buy out,
soprattutto in merito alla possibilità di innalzare il livello di efficienza
manageriale; il 68% ritiene che le operazioni di buy out aiutino a diminuire gli
ostacoli all’innovazione che, prima di tali operazioni, impedivano lo sviluppo
dell’impresa;
– la crescita del fatturato è in linea con il dato generale (buy out e venture capital):
8% contro il 6% delle imprese quotate sul FTSE 100 e il 5% di quelle quotate su
FTSE Mid-250;
– gli investimenti sono cresciuti ad un tasso medio dell’11%, mentre la spesa di
R&S sale al 17%;
– anche il dato sull’occupazione è il linea con quello generale, ovvero crescita
media dell’8% annuo contro lo 0,4% delle imprese quotate sul FTSE 100 e il 3%
di quelle quotate sul FTSE Mid-250.
1.4.4 L’impatto economico del private equity in Cina
Prima di passare ad analizzare le ricerche svolte relativamente al mercato italiano, sembra
interessante riportare anche i risultati relativi a uno studio relativo al mercato cinese che ha
registrato negli ultimi anni tassi di sviluppo crescenti 65 .
La ricerca 66 , la prima ad essere realizzata in Cina, nasce dalla collaborazione tra
l'European Union Chamber of Commerce in China e la Bain & Company, con l’obiettivo
di valutare l’impatto del private equity sull’economia cinese in questo particolare momento
65 Il mercato cinese inizialmente contraddistinto da operazioni di venture capital, prevalentemente compiute
nelle più avanzate aree urbane e, principalmente, aventi ad oggetto società attive nei settori ad alta tecnologia
(IT, telecomunicazioni, internet ecc.) recentemente si è decisamente orientato verso operazioni di private
equity con un crescente numero di fondi di private equity attivi sul territorio cinese. L’aumento considerevole
delle operazioni di private equity realizzate in Cina negli ultimi anni può essere ricollegato ai seguenti fattori:
l’enorme crescita economica cinese; il crescente peso, aumentato in maniera esponenziale con il passare del
tempo, del ruolo della Cina nella produzione, distribuzione e consumo mondiale di beni e servizi; la
globalizzazione della produzione e distribuzione dei prodotti e servizi; il crescente interesse mostrato dalle
multinazionali nei confronti della Cina e del suo mercato; l’apertura graduale e controllata di alcuni settori di
attività produttive o di servizi cinesi, in precedenza ristretti (se non addirittura proibiti) agli investitori esteri.
66 [EUROPEAN UNION CHAMBER OF COMMERCE IN CHINA, BAIN & COMPANY ], 2009.
66

caratterizzato da forte sviluppo. Coprendo un orizzonte temporale che va dal 2002 al 2008,
l'indagine prende in considerazione un campione altamente rappresentativo d’imprese,
ovvero oltre il 50% di tutte quelle che sono state oggetto d’investimento da parte di
operatori di private equity tra il 2002 e il 2006 67 . La ricerca mette a confronto le
performance delle società private equity backed con quelle di 2.424 aziende pubbliche
cinesi quotate presso borse nazionali ed estere, come Shanghai, Shenzhen, Hong Kong,
borse europee ed americane. Infine, i risultati di questo primo confronto sono stati
completati con i dati emersi da 17 interviste a dirigenti di imprese venture backed.
In estrema sintesi, dall’indagine emerge che:
– le imprese venture backed creano più posti di lavoro e pagano in media salari e
stipendi più elevati. Nel periodo di riferimento, infatti, l’occupazione totale delle
imprese finanziate da operatori di private equity è cresciuta del 16% contro l’8%
delle società quotate in borsa; inoltre, il tasso di crescita dei salari e degli stipendi
lordi delle imprese venture backed supera di 7 b.p. quello delle imprese quotate;
– le venture backed spendono per le attività di R&S, più del doppio di quanto fanno
le società quotate (1,8% vs 0,7% 68 ) e il loro fatturato e il loro utili crescono a tassi
più elevati (rispettivamente 27% vs 24%, 39% vs 25%); secondo la ricerca,
questo dato dimostra che le venture backed si caratterizzano per una maggiore
efficienza, dovuta proprio al coinvolgimento del socio istituzionale. Come è noto
infatti, esso non si limita alla mera fornitura di capitale di rischio ma supporta
l’imprese nelle decisioni di investimento, finanziamento, crescita, oltre ad
ampliarne la rete di contatti e collaborazioni;
– visto che le loro performance sono superiori rispetto alle altre imprese, le venture
backed pagano più imposte (in media 10 b.p. in più).
Il Grafico 1.31 riassume quanto detto ponendo a confronto i tassi crescita dei principali
indicatori economici e sociali analizzati nella ricerca, registrati dalle imprese venture
backed e dalle imprese quotate.
67 Si sono escluse le operazioni concluse dopo il 2006, al fine di ricomprendere nell’indagine le performance
post-investimento per un periodo pari ad almeno due anni.
68 Percentuale calcolata sul fatturato.
67

Grafico 1.31
Growth rate (%)
40%
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
L'impatto econcomico del private equity in Cina - Incremento medio
annuo di alcuni indicatori (2002 - 2008)
39%
8%
16%
Number of fulltime
employees
27% 27%
24%
20%
25%
18%
28%
Gross salary paid Revenue Profit Tax payment
Listed PE backed
Fonte: European Union Chamber of Commerce in China, Bain & Company
1.4.5 L’impatto economico del private equity in Italia
Infine, con rifermento alla realtà italiana, il primo studio riguardante l’impatto economico
delle operazioni di private equity ha avuto ad oggetto le sole operazioni di buy out ed è
stato pubblicato da AIFI nel 2001 con la collaborazione dell’INSEAD e dell’Università
Carlo Cattaneo di Castellanza – LIUC 69 . La ricerca ha confermato la tesi relativa al
notevole miglioramento delle performance operative delle società oggetto di operazioni di
buy out. L’intervallo temporale oggetto d’indagine, compreso tra il 1988 e il primo
semestre del 2000, ha permesso l’individuazione di più di 400 operazioni, corrispondenti a
203 diverse imprese, delle quali 101 hanno costituito il campione statistico oggetto di
analisi.
In particolare lo studio ha raggiunto i seguenti risultati:
– la quasi totalità delle operazioni di buy out (93%) realizzate in Italia nel periodo
69 [AIFI], 2001.
analizzato da parte degli investitori istituzionali nel capitale di rischio ha
coinvolto il management nel processo di acquisizione e ha utilizzato lo strumento
della leva finanziaria configurandosi, pertanto, come Management Leverage Buy
Out (MLBO);
68

– la principale motivazione della cessione agli investitori istituzionali è da
ricondurre alla necessità di risoluzione di problematiche collegate al ricambio
generazionale (57%); lo strumento del buy out si integra pertanto perfettamente
nel contesto economico italiano, caratterizzato dalla forte presenza di piccole e
medie imprese, spesso a conduzione familiare;
– la motivazione all’acquisto da parte dell’investitore istituzionale risiede, nella
maggioranza dei casi (72%), nella constatazione di un potenziale di crescita non
sfruttato da parte del management dell’azienda target;
– l’analisi dell’impatto economico sulle aziende oggetto di buy out dimostra che
queste, nel periodo successivo all’operazione, riescono ad accelerare il loro
processo di sviluppo e, al tempo stesso, a migliorare i principali indicatori di
performance, superiori tra l’altro a quelli fatti registrare dalla media delle piccole
medie imprese italiane. In particolare, il tasso di crescita medio annuo del
fatturato è passato dal 7,6%, relativo al periodo precedente l’operazione,
all’11,7% del post buy out; il tasso di crescita dell’EBIT, dal 4,8% al 22,7% e il
tasso di crescita degli occupati, dall’1% al 1,6%. Tali dati risultano nettamente
superiori al campione Mediobanca, utilizzato come benchmark di riferimento
(Grafico 1.32);
– in termini di impatto delle operazioni di buy out e del relativo ingresso
dell’investitore istituzionale nella compagine azionaria sull’organizzazione
interna aziendale, la maggior parte dei cambiamenti venutisi a realizzare nelle
imprese target tendono a una maggiore managerializzazione e trasparenza. In
particolare, tra gli eventi chiave realizzatisi nel post buy out, nella maggior parte
dei casi è stata segnalata l’adozione di nuovi sistemi di reporting (54% dei casi
analizzati), seguita, in termini di frequenza riscontrata, dal più generale
riorentamento strategico delle attività (50%) e dal ricorso a piani di
incentivazione dei dipendenti, realizzati per lo più attraverso la distribuzione di
stock options (46%);
– per quanto riguarda il successo dell’operazione dal punto di vista dell’investitore,
comunque orientato alla creazione di valore nel medio lungo termine, il 56%
degli intervistati ha dichiarato (Grafico 1.33) che l’esito dell’operazione è stato al
di sopra delle aspettative, il 22% ha dichiarato che l’operazione è andata come
69

previsto, mentre solo il restante 22% non è rimasto soddisfatto degli esiti del buy
out.
Grafico 1.32
Tasso di crescita medio annuo (%)
24%
21%
18%
15%
12%
9%
6%
3%
0%
-3%
L'impatto econcomico del buy out in Italia - Tasso di crescita medio
annuo di alcuni indicatori (1988 - 2000)
3,8%
Fonte: AIFI, INSEAD, LIUC
Grafico 1.33
Fonte: AIFI, INSEAD, LIUC
11,7%
7,6%
2,0%
22,7%
4,8%
1,6%
Fatturato Reddito operativo -1,5% Dipendenti
Campione Mediobanca Post buy out Pre buy out
L'impatto econcomico del buy out in Italia -
Giudizio espresso dalle imprese rispetto alle aspettative
(anni 1988 - 2000)
14%
22%
8%
26%
30%
Molto al di sopra Al di sopra Come previsto
Al di sotto Molto al di sotto
La più recente ricerca riguardante il mercato italiano è stata realizzata sempre da AIFI con
la collaborazione di PriceWaterhouseCoopers 70 . Lo studio ha analizzato la performance
delle aziende oggetto d’investimento durante il periodo di permanenza all’interno del
portafoglio dell’operatore di private equity e venture capital. In particolare, la ricerca
70 [AIFI, PWC], 2008b.
1,0%
70

ealizzata su un campione di 143 società italiane (83 venture capital e 60 buy out) che sono
state oggetto di disinvestimento da parte di operatori di private equity tra il 2002 e il 2006,
si è focalizzata anch’essa sull’analisi di valori aziendali significativi quali fatturato,
redditività operativa e occupazione, riscontrando dati assolutamente positivi anche in
relazione ai valori rilevati sulle medio - grandi imprese italiane nello stesso periodo 71 .
Lo studio ha rilevato l’impatto positivo del private equity e venture capital sull’economia
italiana in quanto le aziende partecipate dagli investitori istituzionali hanno conseguito
performance superiori in merito ai principali indicatori macroeconomici e tassi di crescita
maggiori rispetto a quelli delle medio - grandi aziende italiane utilizzate come benchmark
(Grafico 1.34 – 1.35). Più in particolare:
– la crescita dei ricavi delle aziende partecipate dagli operatori di private equity
(13,1% per i buy out e 21,2% per i venture capital) è stata significativamente più
alta della crescita del Prodotto Interno Lordo (CAGR pari a 0,9% nel periodo
2000-2006);
– la crescita del tasso di occupazione nelle aziende detenute da operatori di private
equity (5,9% per i buy out e 10,7% per i venture capital) è stata superiore alla
crescita occupazionale italiana (1,4%);
– le aziende partecipate dagli operatori di private equity e venture capital
presentano, nel periodo 1999-2006 (periodo di possesso del campione), tassi di
crescita in termini di ricavi, EBITDA e numero di dipendenti superiori a quelli di
altre aziende italiane di dimensioni similari. Nel dettaglio:
la crescita dei ricavi per le aziende oggetto di buy out (13,1%) è circa 2,5
volte più alta di quella delle medio-grandi imprese incluse nel benchmark
(5,3%); i ricavi delle aziende oggetto di operazioni di venture capital
crescono ad un CAGR del 21,2%, rispetto al 5,7% del benchmark;
l’ EBITDA delle aziende oggetto di buy out cresce ad un CAGR del 17,8%,
rispetto al 4,7% del benchmark; la crescita dell’ EBITDA per le aziende
partecipate da operatori di venture capital è del 15,9%, ovvero dell’11% più
alta di quella delle medio - grandi imprese incluse nel benchmark (4,9%);
71 Il benchmark di riferimento è costituito dalle imprese analizzate dalla ricerca “Dati cumulativi di 2015
società italiane” svolta dall’Ufficio Studi di Mediobanca.
71

Grafico 1.34
CAGR (%)
21%
18%
15%
12%
9%
6%
3%
0%
il numero di dipendenti nelle aziende oggetto di investimento da parte di
operatori di buy out cresce ad un CAGR medio di 5,9%. Il benchmark,
invece, presenta una diminuzione media dello 0,5%; il numero di dipendenti
nelle aziende oggetto di investimenti da parte di operatori di venture capital
cresce ad un CAGR medio del 10,7%. Il benchmark presenta invece in
media una diminuzione dello 0,6%.
Fonte: elaborazione propria si dati AIFI, PriceWaterhouseCoopers
Grafico 1.35
CAGR (%)
11%
9%
7%
5%
3%
1%
-1%
L'impatto econcomico del private equity in Italia - Tassi di crescita
annui (1999 - 2006)
+7,8%
5,3%
13,1%
+15,5%
5,7%
21,2%
+13,1%
Fonte: elaborazione propria si dati AIFI, PriceWaterhouseCoopers
4,7%
17,8%
+11,0%
Ricavi EBITDA
4,9%
15,9%
Benchmark Buy Out Buy Out Benchmark Venture Capital Venture Capital
L'impatto econcomico del private equity in Italia - Crescita annua
dell'occupazione (1999 - 2006)
+6,4%
-0,5%
5,9%
+11,3%
-0,6%
10,7%
Benchmark Buy Out Buy Out Benchmark Venture Capital Venture Capital
PIL +0,9%
Occupazione
nazionale +1,4%
72

I risultati rilevati confermano, quindi, l’importanza del contributo fornito dagli operatori di
private equity e venture capital alle aziende, sia in termini di crescita economica che di
impatto occupazionale.
Le conclusioni cui giungono le ricerche svolte in ambito accademico sono in linea con
quanto rilevato dagli studi analizzati finora. Solo pochi autori sollevano dubbi circa il reale
impatto delle operazioni di private equity in termini di crescita economica e occupazionale.
La maggior parte degli studi internazionali si è concentrata sulle operazioni di buy out. Si
riporta di seguito un breve esame della letteratura sviluppata a riguardo.
Per le operazioni public to private relative al mercato statunitense negli anni ’80, Kaplan 72
dimostra che il rapporto margine operativo/vendite post buy out, cresce tra il 10 e il 20% e
il rapporto cash flow/vendite cresce addirittura di circa il 40%. Anche Smith 73 arriva a
risultati simili. Lichtenberg e Siegel 74 dimostrano che le operazioni di buy out determinano
un incremento della produttività di tutti i fattori.
Dopo gli anni ’80 gli studi empirici sul private equity si sono focalizzati sulle operazioni di
buy out in Europa. In accordo con le ricerche svolte per il mercato statunitense, la maggior
parte di questi studi arriva alla conclusione che i buy out determinano un miglioramento
della produttività. Ricordiamo tra gli altri Harris, Siegel e Wright 75 per il Regno Unito,
Boucly, Sraer e Thesmar per la Francia 76 , Bergstrom, Grubb e Jonsson per la Svezia 77 .
Cumming, Siegel e Wright 78 riassumono le evidenze empiriche delle ricerche sviluppate
fino a quel momento e concludono affermando che “is a general consensus across
different methodologies, measures, and time periods regarding a key stylized fact: LBOs
[leveraged buyouts] and especially MBOs [management buyouts] enhance performance
and have a salient effect on work practices.”.
72 [KAPLAN S.], 1989.
73 [SMITH A.], 1990.
74 [LICHTENBERG F., DONALD S.], 1990.
75 [HARRIS R., et al], 2005.
76 [BOUCLY Q., et al], 2008. Il reddito operativo dopo il buy out cresce di circa il 6%. Le imprese buyoutbacked
registrano inoltre una forte crescita delle vendite e dell’occupazione.
77 [BERGSTRÖM C., et al], 2007.
78 [CUMMING D., et al], 2007.
73

In controtendenza, rispetto a quanto visto finora, sono i risultati della ricerca di Guo 79 che
analizza 94 buy out relativi al periodo 1990 – 2006 rilevando invece solo modesti
incrementi nei margini operativi e nei flussi di cassa. Anche Acharya e Kehoe 80 e Weir,
Jones e Wright 81 rilevano modesti miglioramenti nei margini operativi per le operazioni
del segmento public o private avvenute in Inghilterra all’incirca nello stesso periodo.
La questione se il private equity determina una creazione o una riduzione dell'occupazione
ha suscitato un più acceso dibattito. I critici delle operazioni di buy out spesso sostengono
infatti che queste operazioni sono fatte a scapito dei lavoratori in quanto per migliorare i
margini e la produttività delle aziende, vengono decisi tagli a posti di lavoro e salari. La
ricerca di Kaplan (1989) dimostra ad esempio che l’occupazione post buy out aumenta, ma
in misura ridotta rispetto alle imprese del benchmark. Lichtenberg e Siegel (1990)
ottengono risultati simili 82 . Davis, Lerner e Miranda 83 analizzano un ampio campione di
buy out statunitensi avvenuti tra il 1980 e 2005 e rilevano che l‘occupazione delle imprese
del campione aumenta ma in misura inferiore rispetto alle non buy out backed operative
negli stessi settori. Inoltre, dimostrano che una piccola crescita dell’occupazione nelle
imprese del campione si verifica già prima che si concluda l’operazione. Al di fuori degli
Stati Uniti, Amess e Wright 84 analizzano le operazioni di buy out avvenute in Inghilterra
tra il 1999 e 2004 e arrivano alla conclusione che per queste imprese l’occupazione cresce
ma a tassi simili rispetto alle altre imprese, invece i salari aumentano più lentamente.
L'unica eccezione agli studi relativi ai mercati di Stati Uniti e Regno Unito è quello svolto
per la Francia da Boucly, Sraer e Thesmar (2008), che dimostrano che le imprese
interessate da operazioni di leveraged buyout sono caratterizzate da tassi di occupazione e
crescita salariale maggiore rispetto a quanto riscontrato per altre aziende simili.
Nel complesso, quindi, possiamo concludere che per quanto concerne la crescita
occupazionale, la letteratura accademica a riguardo è più orientata a ritenere che i tassi
79 [GUO S., et al], 2007.
80 [ACHARYA V., CONOR K.], 2008.
81 [WEIR C., et al], 2007.
82 Rispetto alla media del settore, i livelli occupazionali tendono a diminuire dopo il buy out, ma ad un ritmo
inferiore di quanto non diminuissero prima del buy out. Dopo l’operazione però, la produttività dei
dipendenti aumenta.
83 [DAVIS S., et al], 2008.
84 [AMESS K., MIKE W.], 2007.
74

crescono ma a un ritmo inferiore, o al massimo uguale, rispetto a quanto avviene nelle altre
imprese. In ogni caso le evidenze empiriche non sono coerenti con chi pensa che queste
operazioni comportino addirittura una distruzione di posti di lavoro, ma allo stesso tempo
non sono coerenti con la posizione diametralmente opposta di chi pensa che le operazioni
di buyout determinano una forte crescita occupazionale.
Come visto, la maggior parte degli studi esistenti si focalizza sul mercato statunitense. Tale
evidenza appare naturale, considerando che il mercato del venture capital e private equity
ha avuto origine negli Stati Uniti alla metà del secolo scorso e che si è sviluppato in
Europa solo molto più tardi e in Italia addirittura solo a partire dalla metà degli anni
Ottanta. Al di fuori dell’AIFI, individualmente o con il contributo di altri Enti o Istituzioni,
non sono stati quindi svolti studi accademici relativamente al mercato italiano. La mia
analisi intende contribuire ad alimentare la ricerca sull’attività di private equity in Italia,
nei confronti della quale la letteratura non offre un’ampia copertura, data la relativa
giovinezza del fenomeno nel nostro Paese.
1.4.6 L’impatto economico del private equity sulla singola impresa
Come accennato, il private equity oltre ad aver assunto un ruolo di fondamentale
importanza all’interno dei sistemi economici e finanziari, rappresenta uno strumento in
grado di accelerare e favorire la crescita della singola impresa partecipata con delle
conseguenti ricadute positive sull’intera economia del Paese. Quando si parla di impatto
economico di private equity non possiamo infatti tralasciare gli effetti prodotti dalla
partecipazione sulla singola impresa. Non limitandosi alla sola fornitura del capitale di
rischio, l’investitore istituzionale supporta l’impresa anche nelle decisioni strategiche, di
investimento, finanziamento, crescita esterna, sviluppo di contatti e collaborazioni. Il socio
istituzionale possiede una profonda esperienza basata su una moltitudine di realtà
imprenditoriali diverse e, pertanto, gode di una fortissima esperienza che mette a
disposizione dell’impresa target. L’investitore istituzionale ha, ad esempio, anche
esperienza in tema di accompagnamento alla quotazione, esperienza che può essere molto
utile all’impresa che decide di percorrere questa strada data la delicatezza del processo in
termini di timing e procedure. La quotazione rappresenta una delle modalità di dismissione
prescelte dai fondi per monetizzare il proprio investimento e, in tale ottica, i fondi di
75

private equity contribuiscono, come visto 85 , ad incrementare il numero di società quotate
sul listino.
1.4.6.1 Private equity e ricambio generazionale
Altre evidenze empiriche rendono possibile attribuire all’attività di private equity
contributi molteplici e di diversa natura, che permettono all’azienda partecipata di crescere
sia quantitativamente che qualitativamente, con ricadute benefiche sull’intero sistema. Dal
punto di vista quantitativo, come visto, si tratta principalmente di una crescita di tipo
dimensionale che favorisce la creazione di valore della singola impresa partecipata e di
riflesso dell’economia nazionale, e che si riflette in un incremento di alcuni parametri
economico finanziari, come il numero di occupati e il fatturato. Ma non è solo in termini di
performance economiche reddituali che si misurano i cambiamenti apportati alle aziende
entrate in contatto con gli investitori in capitale di rischio. Questi ultimi, infatti,
contribuiscono a far crescere le imprese partecipate dal punto di visto qualitativo, oltre ad
apportare contributi di carattere più generale come ad esempio il sostegno ai processi di
ricambio generazionale. In Italia si stima che siano a controllo familiare il 64,1% delle
imprese industriali (il 48,9% delle imprese di servizi) 86 ma la percentuale sale se si
considera la sola fascia dimensionale 0-10 addetti. Si stima infatti che, in questo caso, la
percentuale delle imprese a controllo familiare salga al 90%. Si comprende, quindi, quanto
sia importante supportare l’impresa nella delicata fase del ricambio generazionale, perché
il mancato successo di questo processo può determinare la perdita di numerosi posti di
lavoro. In questi casi, l’intervento dell’operatore di private equity è determinante poiché
non solo consente alla aziende la sopravvivenza e di continuare la propria attività, ma
permette anche il miglioramento della performance economica finanziaria e della
competitività. In Italia, i dati disponibili 87 sottolineano infatti, come tra il 2004 e il 2009,
siano da ricondurre al canale “Family & Private”, fatto cioè da aziende familiari che hanno
optato per il sostegno da parte del private equity, in media circa il 62% delle operazioni
realizzate (Grafico 1.36). Ecco dunque che, sulla base di quanto sopra, il private equity si
85 Si rimanda ai dati relativi al mercato inglese e italiano riportati nel paragrafo 1.4 e nel Grafico 1.19.
86 Di queste poco più della metà è in mano al fondatore (34,1 % del totale), mentre gran parte delle rimanenti
sono gestite da un erede. La nomina di un manager assunto all’esterno o selezionato all’interno dell’azienda è
residuale, [BANCA D’ITALIA], 2009.
87 [Private Equity Monitor PEM ® ], 2004, 2005, 2006, 2007, 2008, 2009.
76

candida come protagonista di un’altra importante trasformazione dell’impresa, da familiare
a manageriale o, quanto meno, a traghettarla da una generazione a quella successiva.
Grafico1.36
100%
80%
60%
40%
20%
0%
58% 55%
Deal origination in Italia (anni 2004 - 2009)
68% 68% 64%
57%
2004 2005 2006 2007 2008 2009
Family & Private Local Parent
Foregin Parent Secondary Buy out
Public to Private and Other
Fonte elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
1.4.6.2 Private equity e internazionalizzazione
Come detto, la crescita delle aziende passa anche attraverso uno sviluppo qualitativo delle
stesse. Estremamente significativo risulta, da questo punto di vista, il supporto
all’internazionalizzazione che l’investitore istituzionale può offrire attraverso i contatti con
il mondo imprenditoriale e finanziario, agevolando così l’individuazione di partner esteri
per acquisizioni o joint venture internazionali e partecipando finanziariamente a tali
operazioni. A tale proposito, alcune ricerche condotte a livello Europeo e in precedenza già
citate (EVCA – Coopers & Lybrand, 1996 e EVCA, 2002), hanno analizzato l’impatto che
l’investimento nel capitale di rischio provoca sul grado di internazionalizzazione delle
imprese, misurato attraverso la propensione all’export. In particolare la prima ricerca
(EVCA – Coopers & Lybrand, 1996) ha evidenziato come le stesse hanno aumentato le
esportazioni di un tasso pari al 30%. Il secondo studio (EVCA, 2002), ha evidenziato come
le 364 imprese venture backed componenti il campione, hanno registrato mediamente un
incremento del 58% delle esportazioni, variazione giudicata non possibile nel caso di
mancata realizzazione dell’operazione. Le stesse evidenze emergono per il mercato
inglese. In base all’ultima ricerca infatti (BVCA, 2008), si rileva che le esportazioni delle
77

imprese venture backed sono aumentate, nel periodo di analisi, mediamente del 10%
contro una media nazionale del 4% 88 . In Italia, l’ultima ricerca realizzata in questo filone, è
ad opera del Private Equity Monitor in collaborazione con la LIUC 89 . La ricerca si basa su
un campione di 65 operazioni realizzate (e disinvestite) in Italia nell’arco temporale 2000 –
2008. Dalla ricerca emerge che:
– in un holding period pari mediamente a 3 anni, il volume dei ricavi totali
realizzati dal campione delle società analizzate è risultato in crescita del 37%
passando da 8 mld € a 10,9 mld €;
– l’incidenza della quota di export, nel medesimo periodo, passa dal 30% (2,4 mld
€) al 35% (3,8 mld €) registrando un incremento del 5% (contro l’1,5% della
media italiana). In termini assoluti l’incremento risulta pari al 60% (1,4 mld €)
rispetto all’anno d’investimento;
– considerando l’intero incremento dei volumi di ricavo (2,9 mld €), l’incidenza
dell’aumento del fatturato export (1,4 mld €) su quello totale risulta pari al 48%.
In altre parole, la metà della crescita del fatturato totale del campione nei tre anni
di permanenza dell’investitore si deve all’accelerazione del processo
d’internazionalizzazione;
– circa le modalità alternative alle semplici politiche di penetrazione commerciale,
le creazioni di joint venture sembrano essere la strada preferita dalle società
partecipate (14%), seguite da operazioni di acquisizione (5%). Scarsi gli
investimenti produttivi diretti all’estero (3%).
1.4.6.3 Private equity e innovazione
Un contributo del tutto particolare alla trasformazione e alla crescita dei sistemi economici
è poi rappresentato dal legame che esiste tra capitale di rischio e innovazione tecnologica.
Al fine di incrementare la competitività e lo sviluppo economico e sociale dei sistemi
produttivi, è divenuto infatti prioritario supportare la ricerca applicata e i processi di
trasferimento tecnologico verso le imprese. In tale ambito, il private equity e ancor più il
venture capital inteso in senso stretto, intervengono contribuendo al rilancio di un sistema
in termini di innovazione e di individuazione di nuove applicazioni derivanti dalla ricerca
88 Cfr. Paragrafo 1.4.3
89 [PEM®, LIUC], 2009.
78

stessa. Gli operatori di venture capital, infatti, rappresentano delle figure indispensabili per
sostenere la nascita e la crescita di imprese high tech e l’intervento con capitale di rischio
può rappresentare un’occasione per ridurre il gap sia qualitativo che quantitativo del
finanziamento alla ricerca, offrendo un’opportuna soluzione per le politiche di sviluppo, in
particolare per quelle della ricerca e innovazione tecnologica. L’investimento da parte di
operatori di venture capital, oltre a fornire una fonte di finanziamento più adatta rispetto
alle forme tradizionali rappresentate dal credito bancario, offre vantaggi di tipo relazionale;
è dimostrato infatti che le imprese venture backed sono più attive in termini di alleanze
strategiche e commerciali con altre imprese tecnologiche e con le Università.
L’Italia, a differenza delle principali realtà europee e internazionali, si caratterizza
soprattutto per una diffusa imprenditorialità nei settori tradizionali e nel commercio,
mostrando scarsa vitalità nei comparti ad alta tecnologia. Con il venir meno di queste
realtà, anche il mercato del venture capital sembra far più fatica ad affermarsi e, al
confronto con altre nazioni, mostra una certa debolezza. I dati del 2009 90 (Grafico 1.37),
sembrano mostrare segnali di vivacità, alla luce dell’incremento, in termini di incidenza, di
operazioni realizzate a favore di aziende definite “high tech” (26% del numero totale di
operazioni, contro il 24% del 2008). Da segnalare anche il significativo incremento delle
risorse investite in aziende high tech (549 milioni di Euro contro i 242 milioni dell’anno
precedente) e il conseguente aumento del peso percentuale rispetto all’ammontare
complessivamente investito (21% nel 2009 contro il 4% del 2008). Nel dettaglio, i
sottocomparti in cui si evidenzia il maggior numero di operazioni sono il segmento del
medicale, dei computer, delle biotecnologie e degli altri servizi che, in termini di numero,
rappresentano il 58% degli investimenti in imprese high tech effettuate nel corso del 2009.
È significativo precisare che il 58% delle operazioni high tech rilevate ha interessato
imprese in fase di avvio, caratterizzate da un taglio medio di investimento notevolmente
inferiore rispetto agli altri segmenti del mercato. In ogni caso, a parte il 2009, i dati degli
investimenti negli ultimi anni, non sembrano dare ancora risposte univoche circa i possibili
sviluppi futuri del ruolo del private equity nel sostegno ai processi di innovazione e
sviluppo tecnologico.
90 [AIFI], 2009.
79

Grafico 1.37
Fonte: AIFI
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
22%
Evoluzione del peso percentuale degli
investimenti in imprese high tech (anni 2005 - 2009)
10%
28%
7%
30%
24%
4% 4%
26%
2005 2006 2007 2008 2009
Numero Ammontare
Anche la letteratura accademica ha rilevato una correlazione positiva tra gli investimenti di
private equity e l'innovazione. Tuttavia, alcuni studi hanno riscontrato alcune divergenze
su questa relazione e più in particolare:
– alcune ricerche accademiche hanno dimostrato che gli investimenti in capitale di
rischio determinano un aumento significativo delle richieste di brevetto,
stimolano l'innovazione e favoriscono la creazione di nuove imprese 91 . Ad
esempio, la ricerca di Kortum e Lerner 92 dimostra che un dollaro di venture
capital è fino a 10 volte più efficace, nello sviluppo dei brevetti, rispetto a un
dollaro proveniente da altre fonti di finanziamento;
– altri autori 93 sostengono invece che la correlazione positiva tra investimenti di
private equity e innovazione è determinata dal fatto che gli investitori istituzionali
allocano i capitali in imprese mediamente più innovative; questo significa che
non è l’ingresso dell’investitore a determinare un aumento della capacità
innovativa delle imprese, ma che le imprese oggetto di “attenzione” da parte degli
investitori istituzionali hanno già, mediamente, una maggiore propensione
all’innovazione.
91 [MOLLICA M., ZINGALES L.], 2007; [POPOV A., ROOSENBOOM P.], 2008.
92 [KORTUM S., LERNER J.], 2000.
93 [ENGEL D., KEILBACH M.], 2007.
21%
80

A questo proposito, una recente ricerca italiana 94 ha analizzato 153 imprese venture-backed
e non, nel periodo 1995 – 2004, al fine di verificare due ipotesi sul ruolo del capitale di
rischio nello sviluppo dell’innovazione all'interno delle imprese. La prima domanda cui gli
autori hanno cercato di trovare una risposta è stata: l'innovazione è già presente nelle
imprese quando i venture capitalist decidono di investire? E inoltre: gli investitori in
capitale di rischio, dopo aver investito, sostengono l'innovazione o semplicemente la
sfruttano? I risultati della ricerca confermano che gli investitori vanno alla ricerca di
aziende con elevate prospettive di crescita e forte innovazione già in atto, ma non solo.
Una volta entrati nella compagine azionaria, l'impegno del venture capitalist è focalizzato
sullo sfruttamento delle innovazioni già esistenti, piuttosto che sullo sviluppo di nuovi
progetti innovativi.
1.4.6.4 Private equity e corporate governance
Un’ulteriore forma di contributo qualitativo dell’operatore di private equity si riflette in un
miglioramento complessivo della governance delle imprese. È convinzione comune,
infatti, che gli investitori creano valore guidando le partecipate alla crescita attraverso una
partecipazione attiva alla vita aziendale. L’investitore istituzionale diventa socio a tutti gli
effetti della società target e, in virtù di questo status, apporta ad essa non solo risorse
finanziarie ma una serie di competenze professionali. Il tutto con l’obiettivo di accrescere il
valore dell’azienda, in vista della vendita della partecipazione detenuta e della
realizzazione di un capital gain. Il tasso di sviluppo che contraddistingue le venture
backed, rispetto ad altre aziende, è sicuramente influenzato anche dalla continua attività di
supervisione e monitoraggio che gli investitori effettuano nelle aziende apportando una
serie di regole di governo (la cosiddetta corporate governance) che hanno l’obiettivo
fondamentale di regolare la vita sociale tra impresa e azionisti e di fornire all’investitore le
informazioni e gli strumenti “societari” per contribuire allo sviluppo dell’impresa stessa. In
questo modo l’impresa si troverà anche meglio strutturata per fornire al mercato e alle
banche un flusso informativo di migliore qualità che si può tradurre in costi di
finanziamento più contenuti che favoriscono l’implementazione delle scelte strategiche
94 [CASELLI S., et. al.], 2008.
81

aziendali. Inoltre, l’adozione di regole di corporate governance e di modelli formalizzati di
comunicazione interna consente di:
– regolare il rapporto tra management e azionisti, orientando i primi verso un
processo di creazione di valore;
– agevolare la condivisione delle scelte strategiche aziendali;
– rendere l’impresa sempre più indipendente rispetto ai “singoli individui”,
aumentandone, tra l’altro, l’attrattività nei confronti del mercato dei capitali (nel
caso ad esempio di aziende familiari, si attenuano gli eventuali condizionamenti
che provengono dalla sfera degli interessi personali e familiari) 95 .
In aggiunta, la presenza dell’investitore nel capitale dell’impresa ne migliora l’immagine
nei confronti del mercato, aumentandone l’affidabilità percepita ed influenza positivamente
i processi di attribuzione di rating sul merito di credito, riducendo implicitamente il costo
dell’eventuale ricorso all’indebitamento. L’adozione di regole di corporate governance
rappresenta uno dei presupposti per il pieno successo dell’operazione di investimento, non
soltanto per l’operatore di private equity ma anche per l’impresa/imprenditore. Se infatti la
crescita di valore è prevalentemente legata a fattori di business, la corretta adozione delle
regole di corporate governance può rappresentare un “acceleratore” di tale crescita nonché
un elemento di riduzione del rischio d’impresa. Questo avviene non soltanto per il
rafforzamento della struttura finanziaria, laddove l’intervento venga realizzato mediante
aumento di capitale, ma anche grazie al dialogo che si riesce ad instaurare tra due culture
(imprenditoriale e finanziaria) diverse tra loro ma complementari.
95 [AIFI (a cura di COMMISSIONE CORPORATE GOVERNANCE)], 2005.
82

2. OBIETTIVI, LIMITI E METODOLOGIA D’INDAGINE
2.1 OBIETTIVI E LIMITI DELLA RICERCA
Nel precedente capitolo si è visto come l’attività di private equity viene dai più considerata
un motore per lo sviluppo economico. Così, complice anche la crescita del mercato del
capitale di rischio degli ultimi anni, sul tema si è sviluppato un crescente interesse da parte
della comunità scientifica. Si è anche visto, però, come la maggior parte degli studi
esistenti si sia focalizzata sul mercato statunitense, più maturo rispetto a quello europeo e
soprattutto italiano. La presente analisi intende contribuire ad alimentare la ricerca
sull’impatto economico del private equity in Italia, nei confronti del quale la letteratura non
offre un’ampia copertura, dato il recente sviluppo del fenomeno nel nostro Paese.
In quest’ottica, il lavoro si pone l’obiettivo di analizzare le performance delle aziende
italiane che sono state oggetto di investimento negli anni 2004 e 2005 durante il periodo di
permanenza all’interno del portafoglio degli investitori (holding period: 4 anni).
Le research questions alle quali l’analisi si propone di rispondere sono le seguenti:
− Qual è l’impatto del private equity sulla performance delle imprese italiane?
− Le imprese così partecipate migliorano la loro redditività, efficienza, solidità?
− Le imprese private equity backed sovraperformano rispetto alle imprese che non
sono mai entrate in contatto con l’investitore istituzionale?
A differenza degli studi svolti finora e analizzati nel precedente capitolo, la performance
delle imprese partecipate da operatori di private equity sarà valutata non solo in termini di
fatturato, EBITDA e occupazione, ma anche in relazione ai trend dei principali indicatori
di redditività (ROI, ROE, ROS), solidità e solvibilità (indici di struttura, di liquidità, di
indebitamento, etc.). L’obiettivo è quindi quello di valutare l’andamento delle imprese
partecipate a 360 gradi. Come detto, molti ritengono che l’apporto degli investitori
istituzionali abbia una ricaduta positiva sull’intera compagine sociale. I servizi forniti
dall’investitore andrebbero, come sappiamo, oltre il mero apporto di capitale e
riguarderebbero, tra gli altri, la consulenza strategica e finanziaria, la gestione/selezione del
83

management, i contatti professionali/industriali. Se tutto questo è vero (e avviene), una
gestione dell’impresa “influenzata” dalla presenza dell’investitore istituzionale dovrebbe
portare a risultati superiori. La scelta di entrare nel dettaglio e di procedere ad analizzare
anche i principali indici di bilancio è stata dettata dalla volontà di rilevare, laddove
possibile, l’ambito specifico in cui si riscontrano effettivi miglioramenti. Ad esempio,
prima si è detto che l’apporto di capitale di rischio da parte di un investitore istituzionale
migliora lo standing creditizio delle imprese partecipate. Ci si deve allora attendere una
riduzione del costo del capitale preso a prestito? Si è anche affermato che l’investitore
istituzionale fornisce al management consulenza finanziaria. Ci si deve attendere allora un
miglioramento della solvibilità e solidità delle imprese partecipate? L’analisi dei principali
indicatori di bilancio consentirà di rilevare anche i singoli effetti.
Avendo scelto di utilizzare quale metodologia d’indagine l’analisi per indici non si
possono non tacere le numerose critiche che gli vengono mosse ovvero il fatto di basarsi su
dati, quali sono quelli scaturenti dai bilanci, scarsamente affidabili e dunque non idonei a
fornire informazioni di una qualche utilità per i destinatari. Si ricorda inoltre che l’obiettivo
dell’investitore istituzionale è quello di realizzare, a seguito della dismissione della
partecipazione, elevati capital gain. Per capital gain s’intende l’incremento di valore della
partecipazione, maturato dal momento dell’assunzione della partecipazione a quello della
cessione e monetizzazione della stessa. In generale, il buon esito dell’intervento è
determinato quindi dalla capacità dell’investitore di contribuire a creare valore all’interno
dell’impresa. In estrema sintesi (e semplificando notevolmente i termini del problema) si
ricorda che un’impresa crea valore nel momento in cui il rendimento effettivo del capitale
investito nell’attività risulta superiore al costo medio ponderato acquisito per il
finanziamento della stessa attività (capitale sia di rischio che di credito). La creazione di
valore dipende dunque da numerosi fattori tra cui:
− la redditività del capitale investito;
− il costo del capitale di credito;
− il rischio d’impresa, che influisce sul costo del capitale di rischio e che è legato a
innumerevoli fattori, endogeni ed esogeni;
− il rapporto tra capitale di credito e capitale di rischio.
84

Ci si chiede allora se tali fattori sono desumibili, in tutto o almeno in parte, dalle
informazioni contenute nei Bilanci che si analizzeranno. La risposta è, in verità, solo
parzialmente affermativa. Sono infatti sicuramente desumibili dal bilancio il rapporto tra il
capitale di rischio ed il capitale di credito e, approssimativamente, il costo del capitale di
credito e la redditività del capitale investito. Sicuramente non è desumibile dal bilancio, se
non indirettamente e in misura parziale, il premio per il rischio d’impresa che, come detto
poc’anzi, dipende da molteplici fattori anche non di carattere economico – finanziario. Di
fronte a un simile quadro, viene allora spontaneo chiedersi come mai si è scelto di
utilizzare quale strumento d’indagine l’analisi del bilancio tramite indici. In realtà la
motivazione è molto semplice: diagnosticare in tempi ragionevolmente contenuti lo stato di
salute delle imprese target. In altri termini, l’analisi di bilancio rappresenta l’unico
strumento che consente a soggetti con informazioni limitate ai soli bilanci d’esercizio, e
che non hanno modo di effettuare accessi diretti alle imprese, di poter effettuare un check-
up sullo stato di salute delle imprese, verificandone il grado di redditività, solidità e
solvibilità 96 .
Si è appena ricordato che la principale finalità dell’analisi di bilancio per indici è quella di
diagnosticare lo “stato di salute” di un’impresa. Ma questo obiettivo sarà perseguibile solo
attraverso una comparazione dei risultati ottenuti nel tempo e nello spazio 97 . Da questo
punto di vista, anche nel presente lavoro, si procederà in due modi differenti. Innanzitutto
si confronteranno i dati di performance delle imprese partecipate con la media dei risultati
ottenuti dalle stesse imprese negli anni precedenti l’acquisizione della partecipazione, per
verificarne l’eventuale miglioramento in seguito, appunto, all’intervento dell’investitore
(comparazione nel tempo). In seguito, si procederà a confrontare i dati con gli indicatori di
performance relativi a un campione di imprese italiane “non private equity backed”
(comparazione nello spazio). Si vedrà in seguito che il benchmark selezionato è
96 La mia quindi nasce come una tipica analisi esterna, dove ricordiamo che per analisi esterne si intendono
tutte quelle effettuate mediante la tecnica degli indici di bilancio da parte di operatori che sono in possesso
della sola informativa esterna aziendale.
97 La comparazione nel tempo consiste nel mettere a confronto gli indicatori di un’impresa con gli stessi
indicatori riferiti agli esercizi precedenti. La finalità della comparazione nel tempo è piuttosto evidente: essa
consiste infatti nello studio dell’evoluzione dello stato di salute dell’impresa nel tempo. In pratica si tratta di
verificare se gli indicatori più recenti presentino un miglioramento ovvero un peggioramento rispetto alla
situazione pregressa dell’impresa. La comparazione nello spazio riguarda la comparazione della performance
dell’impresa con quella d’imprese concorrenti o comunque appartenenti allo stesso settore al fine di
formulare un giudizio relativo sullo stato di salute dell’impresa. Si tratta, in altre parole, di stabilire se la
performance dell’impresa risulta “migliore” o “peggiore” rispetto ai suoi principali competitori.
85

appresentato dai dati rilevati nell’indagine “Le medie imprese industriali italiane” svolta
dall’Ufficio Studi di Mediobanca, in collaborazione con il Centro Studi di Unioncamere.
2.2 METODOLOGIA D’INDAGINE
Lo studio, come detto, si pone l’obiettivo di analizzare le performance delle aziende
italiane che sono state oggetto di investimento da parte di operatori di private equity negli
anni 2004 e 2005 e la cui partecipazione non sia stata ancora dismessa al termine del
quarto anno successivo all’anno d’investimento. La scelta di far riferimento ad un
orizzonte di valutazione di 4 anni intende mediare tra due esigenze differenti. La prima è
quella di far riferimento ad un orizzonte di valutazione che sia abbastanza lungo e tale da
rendere visibili “gli effetti della partecipazione” sulla performance delle imprese 98 . La
seconda è quella di evitare di prendere in considerazione un orizzonte di valutazione
troppo lungo, che costringerebbe a eliminare dal campione di riferimento le imprese la cui
partecipazione sia stata venduta in anticipo rispetto a quello che è generalmente il periodo
medio di detenzione ovvero 3 – 6 anni. Il campione d’imprese sarà costruito includendo
tutte le operazioni realizzate su fasi del ciclo di vita delle aziende successive a quella
iniziale ed escludendo pertanto le operazioni volte a finanziare la fase di start up 99 . La
fonte scelta per individuare le imprese oggetto d’investimento è il Rapporto “Private equity
Monitor - PEM ®” che fornisce, con cadenza annuale, una serie d’informazioni
(caratteristiche dei deal, degli operatori coinvolti e delle aziende target) riguardanti la
maggior parte delle operazioni d’investimento avvenute nel corso dell’anno di riferimento.
Più precisamente, con riferimento agli anni 2004 e 2005 100 , il rapporto prende in
considerazione soltanto i nuovi investimenti realizzati da investitori istituzionali, in tutte le
fasi successive a quelle di avvio di impresa, risultando esclusi dalla rilevazione:
− gli investimenti effettuati da società di investimento di matrice pubblica o para-
pubblica (agenzie pubbliche, finanziarie regionali, …);
98
Si ritiene che tre esercizi rappresentano un arco temporale minimo congruo per poter comprendere la
dinamica evolutiva aziendale.
99
Per le imprese di nuova costituzione non sarebbero disponibili i dati pregressi, relativi al periodo
precedente l’ingresso dell’investitore. Verrebbe meno perciò la possibilità di un confronto con il benchmark
(stesso campione d’imprese, anni precedenti l’ingresso dell’operatore). L’obiettivo del lavoro è invece
proprio quello di valutare l’eventuale migliore performance a seguito dell’acquisizione della partecipazione.
100 ®
[PEM ], 2004, 2005.
86

− gli investimenti di seed e start up, cioè finalizzati alla nascita di nuove attività
imprenditoriali;
− i reinvestimenti in società già partecipate dall’operatore indicato.
Per ogni operazione, le informazioni fornite dal rapporto sono, tra le altre:
− il nome dell’impresa target, cioè l’impresa oggetto di investimento;
− il principale investitore istituzionale o lead investor, che rappresenta l’operatore
che ha investito la quota maggiore di capitale o che ha promosso il sindacato di
investitori coinvolti nel deal;
− l’ammontare di equity investito e la quota di capitale direttamente o
indirettamente acquisita;
− gli eventuali coinvestitori, ovvero tutti gli altri investitori di matrice finanziaria
istituzionale che sono stati coinvolti nell’operazione, con separata indicazione
dell’ammontare di equity da questi investito e la relativa quota acquisita, laddove
disponibile;
− la tipologia dell’operazione, distinguendo tra le categorie di expansion,
replacement, buy out e turnaround;
− l’origine del deal, ossia la ragione in base alla quale è stata realizzata
l’operazione;
− la localizzazione geografica, con riferimento alla regione in cui l’impresa target
ha la sua sede;
− il settore industriale;
− la descrizione di dettaglio dell’attività svolta;
− il numero dei dipendenti;
− il fatturato, per il quale è calcolato anche il tasso di crescita annuo composto
(Compounded Annual Growth Rate, CAGR) per i tre esercizi precedenti al deal.
Relativamente agli anni 2004 e 2005, il PEM ® individua 144 investimenti (55 nel 2004 e
89 nel 2005) le cui caratteristiche sono (Tabella 2.1):
− Sotto il profilo della distribuzione per tipologia d’investimento, a conferma del
trend che si è andato delineando negli anni, il mercato nel 2004 e 2005 si è
orientato verso operazioni di buy out (70%), seguite dalle operazioni di expansion
(22%). Hanno avuto invece un ruolo marginale le operazioni turnaround e
87

eplacement che hanno rappresentato rispettivamente solo il 5% e il 3% del
totale.
− In merito alla percentuale di quota acquisita nella società target si sono verificate
acquisizioni di maggioranza, nel 58% dei casi; l’acquisto di quote inferiori al
50% è avvenuto per il 36% dei casi.
− In termini di deal origination, la cessione di quote da parte di soggetti privati o
membri della famiglia proprietaria (Family & Private) hanno inciso per il 56%
dei casi, seguite dalle operazioni di secondary buy out (imprese già partecipate da
operatori di private equity che vengono cedute ad un altro operatore di private
equity) che sono state pari al 18%. I Local Parent, invece, cioè le vendita di rami
d’azienda o divisioni da parte di gruppi industriali italiani, hanno toccato quota
14%; le cessioni da parte di gruppi multinazionali stranieri (Foreign Parent)
infine, hanno inciso per il 6%. Il rimanente 5% del campione risulta riconducibile
a operazioni di Public to Private o a motivazioni di diversa natura.
− Dal punto di vista della distribuzione per area geografica, è il Nord ad attirare la
maggior parte degli investimenti (80%). Più nel dettaglio è la Lombardia a tenere
il primato con il 35% delle operazioni, seguita dal Veneto con il 15% e
dall’Emilia Romagna con il 10%. Del tutto marginale è l’attività d’investimento
posta in essere nel Sud Italia (5%).
− Circa i settori d’intervento, da segnalare l’interesse nei confronti dei comparti
tradizionali a scapito dei settori tecnologici e dei media che rappresentano
soltanto l’11% del campione. È importante sottolineare l’attenzione verso il
comparto alimentare con una percentuale del 15% (4% nel 2004, 21% nel 2005),
dei beni di consumo (25%) e dei prodotti per l’industria (28%). Marginali gli altri
settori. Raggruppando i diversi campi d’attività in tre grandi aggregati
“Produzione”, “Commercio” e “Servizi”, si evince che oltre la metà delle imprese
(60%) opera nell’industria, il 23% nel terziario e solo il restante 17% nel
commercio.
− In termini di analisi delle caratteristiche dimensionali, facendo riferimento al
fatturato, emerge come le imprese oggetto d’investimento negli anni 2004 e 2005
siano per lo più società i cui ricavi si mantengono al di sotto dei 50 milioni di
euro (49% del campione). Più precisamente, la grossa fetta di questa quota (36%)
88

è rappresentata dalle imprese con fatturato compreso tra 10 e 50 milioni di euro,
mentre le micro imprese con fatturato inferiore a 2 milioni di euro e quelle con
fatturato compreso tra 2 e 10 milioni di euro rappresentano rispettivamente l’1%
e l’11% del campione. Buona (29%) è anche l’incidenza delle imprese afferenti
alla classe dimensionale “50 – 250” mentre solo il 13% del campione ha investito
in imprese di grandi dimensioni con ricavi superiori a 250 milioni di euro. In
sostanza, negli anni 2004 e 2005, gli investitori sembrano aver prediletto un
taglio medio-piccolo (10 – 250), rispetto alle imprese di dimensioni molto piccole
(250).
− Con riguardo alla forza lavoro, anche l’analisi per classi di dipendenti mostra
come gli investimenti si siano concentrati nel segmento medio-piccolo (20 – 250
addetti) con un’incidenza del 44%. Sale, rispetto a quanto visto per il fatturato,
l’incidenza delle grandi imprese con un numero di dipendenti superiore alle 250
unità (35%). È da rilevare, secondo la mia opinione, tanto per i ricavi quanto per
la forza lavoro, l’alta percentuale d’imprese di cui non sono disponibili i dati
(10% per il fatturato, 17% per i dipendenti) che induce a pensare, proprio per la
difficoltà di reperirne le informazioni, che si tratti d’imprese di piccolissime
dimensioni. Se così è, la percentuale di micro imprese passerebbe all’11% per
quanto riguarda il fatturato e al 21% per quanto concerne i dipendenti.
Tabella 2.1 – Caratteristiche degli investimenti realizzati negli anni 2004 e 2005
Tipologia d'investimento
2004 2005 Totale
Incidenza % sul
totale
Expansion 15 17 32 22%
Replacement 1 3 4 3%
Buy out 39 62 101 70%
Turnaround 0 7 7 5%
Totali 55 89 144 100%
89

Percentuale di quota acquisita
2004 2005 Totale
Incidenza % sul
totale
< 50% 22 30 52 36%
>= 50% 30 54 84 58%
n.d. 3 5 8 6%
Totali 55 89 144 100%
Deal Origination
2004 2005 Totale
Incidenza % sul
totale
Secondary B-O 11 15 26 18%
Local Parent 8 12 20 14%
Family & Private 32 49 81 56%
Public to Private 3 0 3 2%
Foreign Parent 1 8 9 6%
Other 0 5 5 3%
Totali 55 89 144 100%
Distribuzione per area geogafica
2004 2005 Totale
Incidenza % sul
totale
Nord 43 72 115 80%
Centro 8 14 22 15%
Sud e Isole 4 3 7 5%
Totali 55 89 144 100%
Distribuzione per settori di attività
2004 2005 Totale
Incidenza % sul
totale
Consumer goods 14 22 36 25%
Food and beverage 2 19 21 15%
Health care and social services 2 4 6 4%
ICT 5 2 7 5%
Industrial products 14 27 41 28%
Leisure 0 1 1 1%
Media and communication 6 2 8 6%
Other professional and social
services
6 4 10 7%
Pharmaceutical and
biopharmaceutical industry
1 0 1 1%
90

Retail and wholesale trade 3 5 8 6%
Transportation 1 1 2 1%
Utilities 0 1 1 1%
Construction 1 0 1 1%
Financials services 0 1 1 1%
Totali 55 89 144 100%
Distribuzione per macrosettori di attività
2004 2005 Totale
Incidenza % sul
totale
Produzione 29 58 87 60%
Commercio 7 17 24 17%
Servizi 19 14 33 23%
Totali 55 89 144 100%
Distribuzione per classe di fatturato (ultimo bilancio disponibile pre
acquisizione) - € mln
2004 2005 Totale
Incidenza % sul
totale
0 – 2 0 2 2 1%
2 – 10 2 14 16 11%
10 – 50 23 29 52 36%
50 – 250 18 24 42 29%
> 250 6 12 18 13%
n.d. 6 8 14 10%
Totali 55 89 144 100%
Distribuzione per classe di dipendenti (ultimo bilancio disponibile pre
acquisizione)
2004 2005 Totale
Incidenza % sul
totale
0 – 19 0 6 6 4%
20 – 49 4 15 19 13%
50 – 99 9 10 19 13%
100 – 250 8 17 25 17%
> 250 22 29 51 35%
n.d. 12 12 24 17%
Totali 55 89 144 100%
Fonte: elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
91

Partendo da questi dati, la ricerca è stata condotta su un campione di società formato
selezionando dall’universo dei 144 investimenti avvenuti negli anni 2004 e 2005,
unicamente quelle imprese:
− di cui sono disponibili i dettagli anagrafici e i dati economico finanziari relativi a
tutto il periodo di valutazione;
− che sono operative (e non holding);
− la cui partecipazione non sia stata ancora dismessa al termine del quarto anno
successivo all’anno d’investimento 101 .
Al termine del processo di selezione, il campione è risultato composto da 53 imprese che
presentano le caratteristiche di seguito descritte.
Sotto il profilo della distribuzione per tipologia d’investimento (Grafico 2.1), si conferma
la prevalenza delle operazioni di buy out (68%), seguite dalle operazioni di expansion
(38%). Solo un’impresa del campione è stata oggetto di replacement; nessuna operazione
di turnaround è presente nel campione.
Grafico 2.1
Il campione oggetto di analisi - Distribuzione per tipologia
d'investimento
68%
0%
30%
Expansion Replacement Buy out Turnaround
Fonte: elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
101 Non sono state escluse dal campione quelle aziende la cui partecipazione, anche se venduta prima del
termine del quadriennio di valutazione, è stata ceduta ad un altro operatore di private equity.
2%
92

In merito alla percentuale di quota acquisita nella società target si sono verificate
acquisizioni di maggioranza, nel 53% dei casi, invece, l’acquisto di quote inferiori al 50%
incide per il 42% dei casi (Grafico 2.2).
Grafico 2.2
Il campione oggetto di analisi - Distribuzione per percentuale di
quota acquisita
53%
Fonte: elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
6%
< 50% >= 50% n.d.
In termini di deal origination (Grafico 2.3), le cessioni di quote da parte di soggetti privati
o membri della famiglia proprietaria (Family & Private) forma il 60% del campione,
seguite da operazioni di secondary buy out che sono state pari al 21%. I Local Parent,
invece, incidono per l’11% e i Foreign Parent per il 4%. Il rimanente 4% del campione
risulta riconducibile a operazioni di Public to Private o a motivazioni di diversa natura.
Grafico 2.3
42%
Il campione oggetto di analisi - Distribuzione per deal origination
60%
2%
4% 2%
21%
11%
Secondary B-O Local Parent Family & Private
Public to Private Foreign Parent Other
Fonte: elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
93

Da un punto di vista della distribuzione per area geografica (Grafico 2.4), il 72% delle
aziende target che compongono il campione si trova al Nord, il 21% al Centro e l’8% al
Sud Italia.
Grafico 2.4
Il campione oggetto di analisi - Distribuzione per area geografica
21%
8%
Nord Centro Sud e Isole
Fonte: elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
È sempre la Lombardia a tenere il primato con il 34% delle operazioni, seguita dal Veneto
con l’11% e dall’Emilia Romagna e Piemonte con il 9%.
Grafico 2.5 – Il campione oggetto di analisi – Distribuzione per Regione (Numero
operazioni)
Fonte: elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
5
1
18
5
6
4
3
1
3
2
1
1
1
2
72%
94

In termini settoriali (Grafico 2.6) il campione è per lo più costituito da società operanti in
settori tradizionali (i comparti dei beni di consumo e dei prodotti e servizi industriali
rappresentano il 56% del totale). Incidono più o meno con lo stesso peso il comparto
alimentare (8%), l’ICT (9%), Media e Comunicazione (8%) e le imprese operanti nella
vendita al dettaglio e all’ingrosso (9%). Marginali, o del tutto non rappresentati, gli altri
settori. Procedendo all’aggregazione per macro settori (Grafico 2.7), si evince la netta
prevalenza dell’industria rispetto al comparto del Commercio e dei Servizi.
Grafico 2.6
40%
35%
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
Il campione oggetto di analisi - Distribuzione per settori di attività
26%
Consumer
goods
8%
Food and
beverage
4%
Health care and
social services
Fonte: elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
Grafico 2.7
8%
ICT
30%
Industrial
products
9%
Media and
communication
6%
Other
professional
and social
services
Il campione oggetto di analisi - Distribuzione per
macro settori di attività
13%
26%
Produzione Commercio Servizi
Fonte: elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
Passando ad analizzare la distribuzione del campione per classi di dipendenti (Grafico 2.8),
si evidenzia che il 55% delle società oggetto di analisi è classificabile come Piccola-Media
Impresa, in quanto per tali entità il numero di dipendenti, al momento dell’acquisizione, è
risultato inferiore alle 250 unità. Sotto il profilo del volume d’affari, il 51% delle aziende
60%
9%
Retail and
wholesale trade
95

facenti parte del campione presenta un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro. Alta (28%)
è anche l’incidenza delle imprese afferenti alla classe dimensionale “50 – 250”. Infine il
13% del campione è rappresentato da imprese di grandi dimensioni con ricavi superiori a
250 milioni di euro. Non sono rappresentate nel campione le micro imprese con fatturato
inferiore a 2 milioni di euro e dipendenti inferiori alle 10 unità.
Grafico 2.8
Il campione oggetto di analisi -
Distribuzione per classe di fatturato (€ mln)
28%
13%
8%
0%
13%
0 - 2 2 - 10 10 - 50
50 - 250 > 250 n.d.
38%
40%
Fonte: elaborazione propria su dati Private Equity Monitor
Il campione oggetto di analisi -
Distribuzione per classe di dipendenti
0%
6%
15%
23%
0 - 19 20 - 49 20 - 99
100 - 250 > 250 n.d.
Si ritiene il campione significativo, in quanto le sue caratteristiche riflettono in larghissima
parte quelle individuate per il totale dei 144 investimenti (Tabella 2.2) realizzati negli anni
2004 e 2005 (le assonanze più significative sono state evidenziate in verde). Inoltre la sua
composizione rispecchia anche le principali caratteristiche del mercato italiano del private
equity nel suo complesso. A questo proposito si precisa che, se qualche differenza c’è, è da
attribuire al fatto che i dati riferibili al mercato nazionale 102 , non sono del tutto
paragonabili in quanto prendono in considerazione anche le operazioni di venture capital
puro che, come precisato, sono invece escluse dalla presente analisi.
102 Come valore rappresentativo del mercato nazionale, si è ritenuto più significativo riportare un valore
medio che “limasse” le eventuali tendenze di un particolare anno. È stata perciò calcolata la media semplice
dei valori rilevati nel quinquennio 2005 – 2009. Il dettaglio dei dati nazionali, suddivisi per anno, è riportato
nel Cap. 1, Paragrafo 3.2.
17%
96

Tabella 2.2 – Composizione del campione di analisi
Numero
Tipologia d'investimento
Totale investimenti
Campione
2004 e 2005
Incidenza
% sul
totale
Numero
Incidenza
% sul
totale
Media nazionale
(2005 - 2009)
Numero
Incidenza
% sul
totale
Expansion 16 30% 32 22% 122 53%
Replacement 1 2% 4 3% 18 8%
Buy out 36 68% 101 70% 92 40%
Turnaround 0 0% 7 5% n.d. n.d.
Totali 53 100% 144 100% 232 100%
Percentuale di quota acquisita
Totale investimenti 2004
Campione
e 2005
Numero
Incidenza %
sul totale
Numero
Incidenza %
sul totale
< 50% 22 42% 52 36%
>= 50% 28 53% 84 58%
n.d. 3 6% 8 6%
Totali 53 100% 144 100%
Numero
Deal Origination
Campione
Incidenza %
sul totale
Totale investimenti
2004 e 2005
Numero
Incidenza %
sul totale
Secondary B-O 11 21% 26 18%
Local Parent 6 11% 20 14%
Family & Private 32 60% 81 56%
Public to Private 1 2% 3 2%
Foreign Parent 2 4% 9 6%
Other 1 2% 5 3%
Totali 53 100% 144 100%
97

Numero
Distribuzione per area geogafica
Totale investimenti
Campione
2004 e 2005
Incidenza
% sul totale Numero
Incidenza
% sul totale Numero
Media nazionale (2005
- 2009)
Incidenza
% sul totale
Nord 38 72% 115 80% n.d. 70%
Centro 11 21% 22 15% n.d. 18%
Sud e Isole 4 8% 7 5% n.d. 4%
Estero 0 0% 0 0% n.d. 8%
Totali 53 100% 144 100% n.d. 100%
Distribuzione per settori di attività
Totale investimenti
Campione
2004 e 2005
Numero
Incidenza
% sul
totale
Numero
Incidenza
% sul
totale
Consumer goods 14 26% 36 25%
Food and beverage 4 8% 21 15%
Health care and social
services
2 4% 6 4%
ICT 4 8% 7 5%
Industrial products 16 30% 41 28%
Leisure 0 0% 1 1%
Media and
communication
5 9% 8 6%
Other professional and
social services
Pharmaceutical and
3 6% 10 7%
biopharmaceutical
industry
0 0% 1 1%
Retail and wholesale
trade
5 9% 8
6%
Transportation 0 0% 2 1%
Utilities 0 0% 1 1%
Construction 0 0% 1 1%
Financials services 0 0% 1 1%
Totali 53 100% 144 100%
98

Distribuzione per macro settori di attività
Totale investimenti
Campione
2004 e 2005
Numero
Incidenza %
sul totale
Numero
Incidenza %
sul totale
Produzione 32 60% 87 60%
Commercio 7 13% 24 17%
Servizi 14 26% 33 23%
Totali 53 100% 144 100%
Distribuzione per classe di fatturato - € mln
Numero
Campione
Incidenza
% sul
totale
Totale investimenti
2004 e 2005
Numero
Incidenza
% sul
totale
Media nazionale
(2005 - 2009)
Numero
Incidenza
% sul
totale
0 - 2 0 0% 2 1% n.d. 31%
2 - 10 7 13% 16 11% n.d. 14%
10 - 50 20 38% 52 36% n.d. 30%
50 - 250 15 28% 42 29% n.d. 17%
> 250 7 13% 18 13% n.d. 8%
n.d. 4 8% 14 10% n.a. n.a.
Totali 53 100% 144 100% 0 100%
Distribuzione per classe di dipendenti
Numero
Campione
Incidenza
% sul
totale
Totale investimenti
2004 e 2005
Numero
Incidenza
% sul
totale
Media nazionale
(2005 - 2009)
Numero
Incidenza
% sul
totale
0 - 19 0 0% 6 4% n.d. 31%
20 - 49 8 15% 19 13% n.d. 14%
50 - 99 9 17% 19 13% n.d. 14%
100 - 250 12 23% 25 17% n.d. 17%
> 250 21 40% 51 35% n.d. 24%
n.d. 3 6% 24 17% n.a. n.a.
Totali 53 100% 144 100% 0 100%
Fonte: elaborazione propria su dati Private equity Monitor
99

I dati di dettaglio del campione analizzato sono riportati nell’Allegato I.
Per studiare l’impatto economico-finanziario generato dagli operatori di private equity
sulle aziende target, si valuteranno di seguito le variazioni intervenute in alcuni parametri,
nel periodo di riferimento, calcolati sulla base di dati consolidati, dove disponibili, o sui
bilanci della società controllante (operativa), nei casi in cui non sia disponibile un bilancio
consolidato.
Si riportano di seguito gli indicatori di performance che indagheremo ricordandone
brevemente il loro significato:
− Ricavi delle vendite;
− Numero dipendenti;
− Margine Operativo Lordo (EBITDA, Earning Before Interest, Taxes, Depreciation
and Amortization): si ottiene sottraendo i costi del personale al “Valore
Aggiunto” 103 ; è una misura della gestione caratteristica dell’azienda prima delle
politiche di ammortamento e al lordo del costo del debito.
Per indagare la redditività delle imprese oggetto d’investimento, saranno considerati i
seguenti indicatori:
− ROE (Reddito Netto/Mezzi propri): esprime quanta redditività netta (reddito
generato dalla gestione caratteristica, dalla gestione finanziaria, dalla gestione
patrimoniale e dalle scelte di ordine fiscale) è stata prodotta dall’impresa mediante
l’utilizzo dei mezzi propri: il ROE, quindi, indica il grado di redditività del capitale
proprio;
− ROI (Reddito operativo/Capitale investito 104 ): esprime la redditività dei capitali
investiti nell’impresa. Il ROI sintetizza l’efficienza con la quale si è utilizzato il
capitale impiegato nell’attività tipica dell’impresa, indipendentemente da come la
stessa è stata finanziata. Il reddito operativo, quale numeratore del rapporto, è
infatti il risultato derivante dal contrapporsi di ricavi e costi legati alla gestione
caratteristica dell’impresa; esso viene perciò influenzato solo dalle politiche
103 Valore della produzione – costi esterni (costi per acquisti di materie prime, sussidiarie, di consumo e
merci, costi per servizi, costi per godimento di beni di terzi).
104 Somma del capitale di rischio e del capitale di credito.
100

intraprese per l’approvvigionamento dei fattori produttivi, la trasformazione degli
stessi, la commercializzazione dei prodotti finiti e la gestione delle scorte;
− ROS (Reddito operativo/Vendite): esprime la redditività delle vendite, ovvero
quanto reddito è prodotto per ogni euro venduto;
− Indice di produttività del capitale investito (Vendite/Capitale Investito): esprime la
capacità del capitale investito di produrre ricavi;
− Tasso di finanziamento (Oneri Finanziari/ Debiti Finanziari): esprime il costo
medio del capitale di credito; quando il ROI è maggiore del tasso di finanziamento
all’azienda conviene, in caso di aumento delle dimensioni, fare riscorso al capitale
di credito invece che al capitale di rischio (effetto leverage).
Al fine di analizzarne la solidità e solvibilità saranno esaminati:
− Indice di indebitamento/Indice di dipendenza finanziaria ((Passività correnti +
Passività consolidate)/Totale Passivo): esprime il peso percentuale del capitale di
credito, sul capitale di finanziamento 105 ;
− Indice di indebitamento a breve termine (Passività correnti/Totale Passivo):
chiarisce il peso dei debiti esigibili nell’arco di un breve periodo sul totale delle
passività;
− Indice di indebitamento finanziario (Debiti finanziari/Mezzi propri): esprime il
grado d’indebitamento finanziario dell’impresa;
− Quoziente secondario di struttura (Passivo permanente/Attivo Fisso): come è noto,
una tra le più essenziali leggi dell’analisi di bilancio afferma che, per esserci
equilibrio patrimoniale e finanziario, un’impresa deve avere una simmetrica
relazione tra gli investimenti durevoli e le fonti di finanziamento stabili. In altre
parole è necessario che l’attivo fisso sia correlato alla parte permanente del Passivo,
ovvero Mezzi Propri e Passività Consolidate. Il quoziente secondario di struttura
rappresenta, quindi, un indicatore di solidità perché esprime in che misura i Mezzi
Propri e le Passività Consolidate finanziano le immobilizzazioni aziendali;
− Indice di disponibilità (Attivo circolante/Passività correnti): è un indicatore di
solvibilità in quanto esprime quanta porzione dei debiti a breve (entro un anno) è
105 È un indice di composizione delle fonti. Gli indici di composizione delle fonti mettono in evidenza la
composizione del capitale finanziario attraverso il peso percentuale, riferito al capitale stesso, delle varie
categorie di fonti.
101

possibile pagare con tutto ciò che si può monetizzare nel breve periodo; quanto più
alto è il rapporto, tanto più non si intravedono rischiosità d’insolvenza a breve;
− Quoziente di tesoreria ((Liquidità immediata + Liquidità differita)/Passività
Correnti): rappresenta la capacità dell’azienda di far fronte, con la liquidità
totalmente disponibile, all’estinzione delle passività correnti.
Per ognuna delle variabili indicate espresse in valore assoluto (Ricavi, Margine operativo,
etc.) sarà calcolato, così come è stato fatto nella maggior parte degli studi analizzati, il
tasso annuo di crescita composto (CAGR) intercorso tra il primo e il quarto anno
successivo all’acquisizione 106 . Per le grandezze invece già espresse in termini relativi (tutti
gli indici), sarà calcolato il valore medio assunto dall’indicatore nel periodo di permanenza
all’interno del portafoglio dell’investitore. Una volta determinati i tassi di crescita, per tutte
le variabili e per tutte le imprese, al fine di ottenere un dato aggregato riferibile a tutto il
campione di società partecipate, si procederà al calcolo dei valori medi 107 .
Tutti i dati economico – finanziari sono stati acquisiti direttamente dai bilanci ufficiali
delle società, pubblicati nella Banca Dati AIDA – Analisi informatizzata aziende
italiane 108 .
Come anticipato nel paragrafo precedente, al fine di dare maggiore significatività ai
risultati ottenuti, sarà necessario confrontare gli stessi con un benchmark di riferimento. Si
è anche detto che saranno presi in considerazione due termini di confronto differenti. Il
primo è rappresentato dalle stesse aziende che compongono il campione, di cui si
analizzeranno i dati di performance relativi al quadriennio precedente l’acquisizione della
partecipazione, al fine di verificare in che misura e in quale ambito l’intervento
dell’investitore istituzionale ha determinato variazioni nelle grandezze monitorate
(comparazione nel tempo). Il secondo termine di raffronto sarà rappresentato da imprese
106
Per intenderci quindi tra il 2004 e il 2007 per gli investimenti avvenuti nel 2004; tra il 2005 e il 2008 per
gli investimenti avvenuti nel 2005.
107
Non variando la numerosità del campione (53 imprese), né gli anni di osservazione (4), il valore medio
calcolato per ogni indicatore, sarà determinato procedendo al calcolo della media aritmetica.
108
La Banca Dati AIDA, prodotta dalla Bureau Van Dijk Electronic Publishing, contiene i dati e i bilanci di
oltre 200.000 società operanti in Italia. AIDA consente di accedere, oltre ad una scheda anagrafica aziendale
(in cui sono indicate le attività svolte, gli azionisti, le partecipazioni, il consiglio di amministrazione, i
sindaci, le operazioni di M&A, etc.), anche ai dati di bilancio (serie storiche), al CE, allo SP e ai bilanci
riclassificati.
102

che non sono mai entrate in contatto con un operatore di private equity (comparazione
nello spazio) e più in particolare si farà riferimento a quanto emerso dall’indagine “Le
medie imprese industriali italiane” svolta dall’Ufficio Studi di Mediobanca, in
collaborazione con il Centro Studi di Unioncamere. Più nel dettaglio, si tratta della nona
edizione dell’indagine annuale sulle medie imprese industriali italiane che riporta le
statistiche economico-finanziarie derivate dalla rielaborazione dei dati desunti dai bilanci
del periodo 1998-2007. Naturalmente, al fine di preservare l’omogeneità dei dati e quindi
dei confronti, le modalità di calcolo dei tassi di crescita e degli indicatori del secondo
benchmark saranno le medesime.
2.3 IL CONTESTO ECONOMICO DI RIFERIMENTO
Al fine di meglio inquadrare il fenomeno in oggetto nel contesto economico di riferimento,
si riportano, di seguito, alcuni indicatori di sintesi relativi all’andamento delle principali
variabili macroeconomiche nel periodo di osservazione. Considerando che si analizzerà la
performance delle imprese tanto nei quattro anni successivi all’investimento, quanto nei
quattro anni precedenti, sembra utile considerare l’andamento dei principali indicatori
macroeconomici a partire dal 2000 e fino al 2008.
Per quanto concerne il PIL, nel periodo 2000-2008 109 il suo tasso annuo di crescita ha
avuto un trend tendenzialmente oscillante. Il picco si è registrato nel 2000 (+3,1%) e nel
2006, quando il valore ha raggiunto il 2,7%, dopo un periodo, a parte il 2003, di
fluttuazione contenuta. A partire da tale anno, il PIL ha fatto registrare una caduta,
raggiungendo quota 0% nel 2007 e addirittura valori negativi nel 2008.
109 [ISTAT], vari anni.
103

Grafico 2.9
4,0%
3,0%
2,0%
1,0%
0,0%
-1,0%
-2,0%
-3,0%
-4,0%
3,1%
Prodotto Interno Lordo - Variazioni congiunturali percentuali
(anni 2000 - 2008)
0,7%
0,9%
0,1%
1,1%
1,2%
2,7%
0,0%
00 IV 01 IV 02 IV 03 IV 04 IV 05 IV 06 IV 07 IV 08 IV
Fonte: ISTAT, Conti economici trimestrali, vari anni
In merito all’inflazione, il suo andamento nel periodo considerato mostra una fluttuazione
media dello 0,2%. Il tasso di inflazione, che a partire dal 2000 è oscillato intorno al valore
del 2,5%, ha subito, nel 2004, una leggera flessione, che lo ha portato ad attestarsi negli
anni successivi intorno al 2%. Solo nell’ultimo anno del periodo di analisi, il tasso ha
subito una decisa crescita, toccando, al 31 dicembre 2008 quota 3,3%, il valore più alto
registrato negli ultimi anni.
Grafico 2.10
4,0%
3,5%
3,0%
2,5%
2,0%
1,5%
1,0%
2,5%
2,7%
Andamento dell'inflazione in Italia
(anni 2000 - 2008)
2,5%
2,7%
2,2%
1,9%
2,1%
1,8%
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008
Fonte: ISTAT, La dinamica dei prezzi al consumo, vari anni
-3,3%
3,3%
104

Quale variabile in grado di rappresentare l’andamento dei tassi d’interesse privi di rischio,
si è considerato il tasso di rendimento lordo dei BOT annuali. Anche questo indicatore
mostra un andamento oscillante. Dopo aver superato il 5% nel corso del 2001, a seguito
dell’11 settembre e della conseguente crisi finanziaria dei mercati, si è registrata una
continua caduta fino a quando non si è toccato il minimo storico del 2% nel 2003. Nei due
anni successivi il tasso non ha subito variazioni di sorta ed è rimasto ancorato al valore del
2%. Solo nel corso del 2006 è ricominciato a salire fino alla metà del 2008, quando ha
subito un’ulteriore caduta.
Grafico 2.11
Tasso (%)
6%
5%
4%
3%
2%
1%
0%
14/01/00
Andamento storico rendimento lordo BOT annuali
14/01/01
14/01/02
14/01/03
14/01/04
Fonte: BANCA D’ITALIA, Rendimento lordo all’emissione dei BOT annuali, calcolato in regime di
capitalizzazione semplice, vari anni
L’occupazione media nazionale invece, nell’orizzonte temporale compreso tra il 2000 e il
2008, è cresciuta ad un tasso annuo medio composto dell’1,2% 110 . Confrontando i dati
occupazionali con quelli relativi al Prodotto Interno Lordo, si evince come le variazioni
intervenute in quest’ultimo indicatore producano effetti sull’occupazione con 1 - 2 anni di
ritardo. Così ad esempio gli effetti sull’occupazione, a fronte della caduta del PIL degli
14/01/05
14/01/06
14/01/07
14/01/08
anni 2001, 2003 e 2007, sono visibili sull’occupazione solo nei 2 anni successivi.
110 [ISTAT], 2010.
105

Grafico 2.12
3,0%
2,5%
2,0%
1,5%
1,0%
0,5%
0,0%
1,9%
2,0%
Occupati totali - Variazioni percentuali
(anni 2000 - 2008)
1,7%
1,5%
0,4%
0,6%
2,0%
1,2%
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008
Fonte: ISTAT, Conti economici nazionali
0,3%
106

3. LA PERFORMANCE DELLE IMPRESE PRIVATE
EQUITY BACKED – LA COMPARAZIONE NEL TEMPO
3.1 I RISULTATI DELL’ANALISI DI BILANCIO DELLE IMPRESE DEL
CAMPIONE
L’analisi di bilancio è uno strumento per la comprensione della gestione nei suoi due
principali profili:
− gli aspetti economici, riguardanti la capacità dei ricavi di remunerare stabilmente
i fattori produttivi impiegati nella produzione;
− gli aspetti finanziari della gestione, riguardanti la capacità di tenere in equilibrio,
nel breve termine come nel medio-lungo termine, le entrate monetarie e le uscite
monetarie.
La presente analisi inizierà da questo secondo punto, dopo aver descritto le variazioni
registrate in alcuni indicatori di performance (ricavi, occupazione ed EBITDA), tanto nel
periodo di permanenza all’interno del portafoglio dell’investitore quanto nel quadriennio
precedente. Si precisa inoltre che, per completezza d’informazione, tutte le variabili
selezionate ai fini della presente ricerca saranno analizzate anche in relazione alle classi in
cui abbiamo suddiviso il campione. Per una maggiore comprensione dei dati di seguito
riportati si ricorda però che alcuni segmenti sono formati da un numero di imprese esiguo e
non idoneo a esprimere un giudizio generale. Così, a titolo di esempio, si ricorda che, in
merito alla distribuzione per tipologia d’investimento, il campione è formato da una sola
impresa oggetto di Replacement; si riporteranno quindi anche le variazioni intervenute
negli indicatori di performance di questo segmento di analisi, sottolineando però che esse
non possono essere assunte per trarre conclusioni in merito alle dinamiche intervenute, o
che potrebbero intervenire, nelle imprese soggette a tale tipologia di operazione. Nella
Tabella 3.1 si riportano le classi in cui è stato possibile suddividere il campione e il peso
percentuale di ciascuna classe sul totale imprese.
107

Tabella 3.1 – Composizione del campione analizzato - peso percentuale della
numerosità di ciascuna classe sul totale imprese
Tipologia
d'investimento
Percentuale di
quota
acquisita
Expansion 30% < 50% 42% Secondary
B-O
Replacement 2%
>=
50%
53% Local
Parent
Buy out 68% n.d. 5%
Family &
Private
Public to
Private
Foreign
Parent
Deal Origination Area geogafica
Macro settore di
attività
Classe di
fatturato - €
mln
Classe di
dipendenti
21% Nord 72% Produzione 61% 2 - 10 13% 20 - 49 15%
11% Centro 21% Commercio 13% 10 - 50 38% 50 - 99 17%
60%
Other 2%
Sud e
Isole
7% Servizi 26%
50 -
250
28% 100 - 250 23%
2% > 250 13% > 250 40%
4% n.d. 8% n.d. 5%
Totale 100% Totale 100% Totale 100% Totale 100% Totale 100% Totale 100% Totale 100%
Fonte: elaborazione propria su dati PEM
Tutti i risultati di dettaglio relativi sia al campione generale che alle singole classi in cui è
stato suddiviso sono riportati nell’Allegato II.
Sempre per una migliore comprensione dei risultati della ricerca, si precisa infine che la
definizione di piccola e media impresa adottata dall’Unione Europea con
Raccomandazione 2003/361 della Commissione 111 è la seguente:
− media impresa: organico inferiore a 250 persone e fatturato inferiore a 50 milioni
di euro;
− piccola impresa: organico inferiore a 50 persone e fatturato inferiore a 10 milioni
di euro.
Va da sé che per grande impresa si può intendere un’impresa con organico superiore a 250
unità e fatturato maggiore di 50 milioni di euro. Avendo suddiviso il campione di analisi
nelle seguenti classi per quanto concerne il fatturato:
− 2 - 10 mln € (piccola impresa);
− 10 – 50 mln € (media impresa);
− 50 – 250 mln € (grande impresa);
− > 250 mln € (grande impresa);
i risultati che attribuiremo al segmento “Grande impresa” saranno frutto dell’aggregazione
di quanto rilevato nelle classi “50 – 250” e “> 250” 112 .
111 Testo integrale dell'atto 2003/361/CE, Gazzetta ufficiale L 124 del 20.05.2003.
108

Lo stesso discorso vale per i dipendenti. Avendo suddiviso il campione di analisi nelle
seguenti classi:
− 20 – 49 (piccola impresa);
− 50 – 99 (media impresa);
− 100 – 250 (media impresa);
− > 250 (grande impresa)
i risultati che attribuiremo al segmento “Media impresa” saranno frutto dell’aggregazione
di quanto rilevato nelle classi “50 – 99” e “100 - 250” 113 .
3.1.1 L’analisi del fatturato, occupazione ed EBITDA
Iniziando dal fatturato, si precisa che la misurazione è stata effettuata sulla base degli
ammontari inclusi nella voce A1 “Ricavi delle vendite e delle prestazioni”, dei Conti
Economici aziendali.
Per le imprese oggetto di analisi si evidenzia un incremento medio annuo dei ricavi del 9%.
Tale tasso di crescita è di circa 2,3% superiore a quello fatto registrare dalle stesse imprese
nel periodo precedente l’acquisizione (6,7%). La crescita dei ricavi delle aziende
partecipate dagli operatori di private equity è stata inoltre significativamente più alta della
crescita del Prodotto Interno Lordo (praticamente nulla se non addirittura negativa).
Grafico 3.1
CAGR (%)
Ricavi delle vendite - Tasso di
crescita annuo composto
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
6,7%
9,0%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
CAGR (%)
15%
12%
9%
6%
3%
0%
Ricavi delle vendite - Distribuzione per settore di
appartenenza
14,4%
4,7%
8,8%
0,9%
9,5% 9,3%
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
112
Media ponderata calcolata assumendo come pesi le frequenze 15 (numerosità del collettivo “50 – 250”) e
7 (numerosità del collettivo “> 250”).
113
Media ponderata calcolata assumendo come pesi le frequenze 9 (numerosità del collettivo “50 – 99”) e 12
(numerosità del collettivo “100 - 250”).
109

La performance migliore si è riscontrata nelle imprese soggette ad operazioni di Expansion
(12,8%), e in quelle appartenenti ai segmenti “Familiy & Private” (10,1%) e “Secondary
buy out” (9,8%); buono anche il risultato raggiunto nelle imprese del Sud (12,2%), nelle
piccole imprese (CAGR pari rispettivamente a 13,9% se si guarda al fatturato e al 16% se
si guarda ai dipendenti) e nelle grandi imprese (10,9% se si guarda ai dipendenti, 7,8% se
si guarda al fatturato). La performance migliore in termini relativi, ovvero in termini di
incremento dell’indicatore rispetto al periodo precedente, si è registrata ancora una volta
nelle imprese oggetto di operazioni di Expansion (+6,8%) e nelle imprese appartenenti ai
cluster “Local Parent” (+4,2%) e “Secondary buy out” (+4,4%); le imprese del Nord,
rispetto a quelle del Sud, incrementano il loro CAGR del 3,1%; le piccole imprese
registrano una variazione positiva pari rispettivamente +8,1% (fatturato) e +8,7%
(dipendenti), mentre per le grandi imprese si rileva un +4,6% se si guarda al fatturato e
+5,7% se si guarda ai dipendenti.
Grafico 3.2
CAGR (%)
CAGR (%)
25%
20%
15%
10%
5%
0%
15%
13%
10%
8%
5%
3%
0%
Ricavi delle vendite - Distribuzione per
tipologia d'investimento
6,5% 7,0%
6,0%
12,8%
22,8%
20,4%
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
Ricavi delle vendite - Distribuzione per quota
acquisita
7,9%
9,9%
5,7%
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
8,3%
CAGR (%)
25%
20%
Ricavi delle vendite - Distribuzione per deal
origination
21,1%
15%
10%
5%
0%
2,3%
-1,9%
10,1%
7,6%
9,8%
5,4%
10,0%
5,7%
-9,3%
-5% Local Family & Secondary Public to Foreign
-10%
Parent Private B-O Private Parent
CAGR (%)
15%
13%
10%
8%
5%
3%
0%
Pre acquisizione Post acquisizione
Ricavi delle vendite - Distribuzione per area
geografica
6,4%
9,6%
5,5%
5,6%
11,2%
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
22,8%
20,4%
Other
12,2%
110

CAGR (%)
18%
16%
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Ricavi delle vendite - Distribuzione per classe di
fatturato (mln €)
5,8%
13,9%
10,5%
8,3%
4,5%
2,7%
4,0%
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
12,8%
CAGR (%)
18%
16%
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Ricavi delle vendite - Distribuzione per classe
di dipendenti
7,3%
16,0%
15,1%
7,9%
4,2%
1,6%
5,2%
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Per quanto riguarda il secondo indicatore di performance preso in considerazione, ovvero
il livello di occupazione, la misurazione è stata effettuata sulla base del numero di
dipendenti, in organico alla fine di ciascun anno compreso nel periodo di analisi.
Il numero di persone impiegate nelle aziende oggetto di operazioni di private equity è
aumentato, nel periodo di permanenza all’interno del portafoglio dell’investitore, in media
del 6,4% annuo. Nel quadriennio precedente l’intervento dell’investitore istituzionale, il
campione ha registrato un incremento dello stesso indicatore pari al 2,5% annuo. Il dato
risulta inoltre essere superiore alla crescita occupazionale italiana 114 .
Grafico 3.3
CAGR (%)
7%
6%
5%
4%
3%
2%
1%
0%
N. dipendenti - Tasso di
crescita annuo composto
2,5%
6,4%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
114 Si veda il paragrafo 2.3.
CAGR (%)
9%
7%
5%
3%
1%
-1%
-3%
N. Dipendenti - Distribuzione per settore di
appartenenza
-0,9%
8,0%
7,5%
6,9%
8,2%
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
10,9%
1,8%
111

Interessante è anche in questo caso l’analisi dei valori assunti nelle singole classi in cui si è
suddiviso il campione generale. In linea generale è possibile affermare che a livello di
occupazione, le performance migliori si sono registrate nelle stesse imprese che hanno
fatto registrare un incremento del volume d’affari. Si procederà quindi, così come fatto per
l’analisi del fatturato, all’indicazione di quelli che sono stati i risultati migliori in assoluto
(i cluster che hanno ottenuto i maggiori tassi di crescita annui) e relativi (paragonati ai
risultati rilevati nel periodo precedente l’intervento dell’operatore). Cominciando dal primo
punto, il risultato migliore in termini di crescita occupazionale si riscontra nelle imprese
appartenenti alla classi: “Expansion” (9,8%), “quota acquisita maggiore di 50%” (7,1%),
“Familiy & Private” (7,4%) e “Secondary buy out” (7,9%), “Sud” (9,9%), “Produzione”
(8%), nelle piccole imprese (CAGR pari rispettivamente a 11,5% se guardiamo al fatturato
e 13,3,5% se guardiamo all’organico), nelle grandi imprese (6,7% - fatturato, 8,5% -
dipendenti). Invece le performance migliori in termini relativi, ovvero in termini di
incremento dell’indicatore rispetto al periodo precedente, si sono riscontrate nelle imprese
oggetto di operazioni di Buy out (+5,1%) e nelle imprese appartenenti alla classe
“Secondary buy out” (+11,3%); le imprese del Nord incrementano il loro CAGR del 5,2%;
le piccole imprese (dipendenti) registrano una variazione positiva pari a 8,6%, mentre le
grandi imprese un +4,6% se si guarda al fatturato e +4,5% se si guarda ai dipendenti. Da
segnalare l’incremento dell’occupazione nelle imprese operanti nell’industria che passano
da una crescita dell’organico negativa a un CAGR dell’8%. In tutti gli altri settori,
commercio e industria, l’intervento dell’investitore istituzionale porta ad una riduzione del
tasso di occupazione.
Grafico 3.4
CAGR (%)
30%
25%
20%
15%
10%
5%
0%
-5%
N. dipendenti - Distribuzione per
tipologia d'investimento
-0,9%
4,2%
8,3%
9,8%
19,3%
30,3%
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
CAGR (%)
32%
25%
18%
11%
4%
N. dipendenti - Distribuzione per deal origination
7,4%
5,8%
-3%
Local Family &
-10% Parent
-8,1% -1,7%
Private
-3,4%
7,9%
Secondary
B-O
n.a.
Public to
Private
3,5%
1,6%
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
19,3%
30,3%
Other
112

CAGR (%)
CAGR (%)
8%
6%
4%
2%
0%
15%
12%
9%
6%
3%
0%
-3%
N. dipendenti - Distribuzione per quota
acquisita
1,3%
5,4%
3,3%
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
7,1%
N. dipendenti - Distribuzione per classe di
fatturato (mln €)
9,0%
11,5%
-0,5%
4,0%
5,9%
5,3%
-2,7%
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
CAGR (%)
7,8%
13%
10%
7%
4%
1%
-3%
N. dipendenti - Distribuzione per area geografica
CAGR (%)
15%
12%
9%
6%
3%
0%
-3%
1,9%
7,2%
-0,1%
2,5%
13,0%
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
N. dipendenti - Distribuzione per classe di
dipendenti
4,8%
13,3%
4,1%
3,5%
0,1%
-1,9%
4,0%
9,9%
8,5%
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Per comprendere meglio il significato economico-aziendale del Margine Operativo Lordo
(EBITDA), lo si può osservare sia partendo dal Valore Aggiunto che dall’Utile Operativo.
Nel primo caso l’EBITDA esprime la parte del Valore Aggiunto che residua dopo la
remunerazione del costo del personale. Esso quindi è la parte del Valore Aggiunto a
disposizione per la remunerazione del capitale tecnico e del capitale di finanziamento, sia
esso proprio o di credito. Nelle imprese dove il personale costituisce una componente
rilevante di costo, l’EBITDA rappresenta un risultato parziale particolarmente significativo
per l’interpretazione delle condizioni di equilibrio economico. Esso esprime infatti il
reddito che residua dopo aver coperto la quota più rilevante dei costi di esercizio. Nel
secondo caso il Margine Operativo Lordo scaturisce dalla somma dell’utile operativo, degli
ammortamenti e degli accantonamenti. Gli ammortamenti e gli accantonamenti
rappresentano, come è noto, costi cosiddetti non monetari, in quanto ad essi non
corrisponde un’effettiva uscita monetaria. Da questo punto di vista l’EBITDA costituisce
un risultato di tipo finanziario, essendo espressione dell’autofinanziamento operativo della
gestione. Gli ammortamenti e gli accantonamenti, inoltre, possono essere definiti anche
113

costi di tipo discrezionale. Essi infatti possono essere influenzati, entro i limiti imposti in
tal senso dalla normativa civilistica in materia, da politiche di bilancio a volte giustificate
da esigenze anche di tipo fiscale. L’EBITDA quindi, da questo punto di vista, rappresenta
un risultato economico più oggettivo dell’utile operativo e quindi maggiormente
utilizzabile per condurre, come nel caso della presente analisi, confronti sia di tipo spaziale
che temporale. In conclusione quindi, i significati economico-aziendali attribuibili
all’EBITDA a seconda del punto di osservazione prescelto, ovviamente tra loro
complementari, sono i seguenti:
− è la parte del Valore Aggiunto che residua dopo aver remunerato il capitale
umano a disposizione per remunerare il capitale tecnico e finanziario;
− è il margine ante costi non monetari (ammortamenti e accantonamenti) atto ad
esprime l’autofinanziamento generato dalla gestione operativa;
− è il margine ante costi discrezionali (ammortamenti e accantonamenti) atto ad
esprimere un risultato economico maggiormente oggettivo dell’Utile Operativo.
Complessivamente, le aziende oggetto di investimenti da parte di operatori di private
equity hanno conseguito una crescita significativa del Margine Operativo Lordo. Il CAGR
infatti è risultato pari al 9,15%, a fronte del 6,05% evidenziato dal campione delle stesse
imprese nel periodo precedente l’intervento dell’investitore, con riguardo ovviamente al
medesimo parametro.
Grafico 3.5
CAGR (%)
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
EBITDA - Tasso di crescita
annuo composto
6,0%
9,1%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
CAGR (%)
15%
12%
9%
6%
3%
0%
EBITDA - Distribuzione per settore di appartenenza
4,2%
8,6%
3,1%
11,6%
13,4%
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
8,9%
114

L’analisi per classi di osservazione mostra un andamento dell’indicatore che rispecchia
grosso modo quello del fatturato. La performance migliore, infatti, si è registrata nelle
imprese oggetto di operazioni di Expansion (11,3%), e in quelle appartenenti ai segmenti
“Family & Private” (11,8%), e Foreign Parent” (17,1%); buono anche il risultato raggiunto
nelle imprese del Nord (11,4%) e del Sud (9,5%), nelle grandi imprese (7,9% se si guarda
al fatturato, 9,9% se si guarda ai dipendenti). La performance migliore in termini relativi,
ovvero in termini di incremento dell’indicatore rispetto al periodo precedente, si è rilevata
ancora una volta nelle imprese oggetto di operazioni di Expansion (+4,4%) e nelle imprese
appartenenti ai cluster “Local Parent” (+7,7%) e Foreign Parent” (+19,6%); le imprese del
Nord, incrementano il loro CAGR del 6,7%, mentre per quelle del Centro si rileva una
riduzione nella crescita dell’indicatore (il CAGR passa da 10,3% a 1,9%). Infine sono le
imprese operanti nella distribuzione ad ottenere la performance migliore sia in termini
assoluti che relativi. Il tasso di crescita annuo dell’EBITDA nel periodo di permanenza
all’interno del portafoglio dell’investitore ha raggiunto quota 11,6%, con un incremento
dell’8,5% rispetto al periodo precedente.
Grafico 3.6
CAGR (%)
CAGR (%)
25%
20%
15%
10%
5%
0%
15%
13%
10%
8%
5%
3%
0%
EBITDA - Distribuzione per tipologia
d'investimento
5,8%
7,7%
6,9%
11,3%
n.a.
22,2%
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
EBITDA - Distribuzione per quota acquisita
12,5%
6,4% 5,8%
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
6,7%
CAGR (%)
25%
20%
15%
10%
5%
0%
1,8%
-5,6%
-5% Local
-10%
Parent
CAGR (%)
15%
13%
10%
8%
5%
3%
0%
EBITDA - Distribuzione per deal origination
11,8%
8,3%
Family &
Private
9,2%
2,7%
Secondary
B-O
n.a.
Public to
Private
-2,4%
17,1%
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
EBITDA - Distribuzione per area geografica
4,7%
11,4%
10,3%
1,9%
6,6%
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
n.a.
22,2%
Other
9,5%
115

CAGR (%)
15%
12%
9%
6%
3%
0%
EBITDA - Distribuzione per classe di fatturato
(mln €)
12,3%
7,1%
0,2%
10,0%
5,5%
3,5%
9,7%
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
14,5%
EBITDA - Distribuzione per classe di
dipendenti
7,0%
11,5%
11,7%
9,5%
Possiamo concludere questa prima parte dell’analisi affermando che:
CAGR (%)
15%
12%
9%
6%
3%
0%
2,0%
4,7%
9,9%
7,7%
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
– l’analisi dell’impatto economico sulle aziende oggetto di private equity dimostra
che queste, nel periodo successivo all’operazione, riescono ad accelerare il loro
processo di sviluppo e, al tempo stesso, a migliorare i principali indicatori di
performance, che risultano superiori a quelli rilevati nel periodo precedente
all’acquisizione. In particolare, il tasso di crescita medio annuo del fatturato è
passato dal 6,7%, relativo al periodo precedente l’operazione, al 9% del post
acquisizione; il tasso di crescita dell’EBITDA, dal 6% al 9,2% e il tasso di
crescita degli occupati, dal 2,5% al 6,4%;
– circa il 70% delle imprese del campione ha sovraperformato rispetto al periodo
precedente in termini di crescita dei Ricavi e Dipendenti;
– circa il 77% delle imprese del campione ha realizzato tassi di crescita
dell’EBITDA superiori rispetto al periodo precedente.
3.1.2 L’analisi della solidità
L’analisi della solidità patrimoniale mira a comprendere se la configurazione del
patrimonio aziendale conferisce all’impresa la capacità di tenere in equilibrio entrate e
uscite monetarie nel medio-lungo termine. Si tratta quindi di andare ad analizzare gli
equilibri finanziari della gestione. Con l’analisi della solidità patrimoniale si studierà in
particolare la possibilità per le imprese target di mantenere l’equilibrio finanziario, con
riferimento a un tempo non breve ovvero di superare disequilibri economici e finanziari di
breve periodo, grazie a un assetto patrimoniale che consente loro di assorbire gli effetti
116

negativi di tale disequilibri senza compromettere la continuità della gestione. Tale capacità
dipenderà essenzialmente da due ordini di condizioni:
− la correlazione tra gli impieghi a medio-lungo termine e le fonti a medio-lungo
termine;
− la struttura dei finanziamenti.
La prima condizione concerne le modalità con le quali le imprese target finanziano le
immobilizzazioni, caratterizzate da un lungo tempo di ritorno in forma liquida e quindi
maggiormente rilevanti per il mantenimento tendenziale dell’equilibrio finanziario. La
seconda condizione attiene alla tipologia delle fonti di finanziamento che si analizzeranno
in merito al loro impatto sul rischio aziendale e sull’autonomia rispetto a finanziatori
esterni 115 . Al fine quindi di indagare la solidità delle imprese del campione, si prenderanno
in considerazione tutti gli indicatori che denotano le caratteristiche della struttura
patrimoniale. In questo senso sarà utile eseguire due tipologie di analisi sullo Stato
Patrimoniale: un’analisi verticale per constatare il grado di rigidità del passivo e un’analisi
orizzontale per verificare che le attività siano state finanziate con le giuste risorse 116 . Tra
gli indicatori prescelti, si inizierà con un’analisi di tipo orizzontale analizzando il quoziente
secondario di struttura, per poi passare all’analisi verticale (indice di autonomia
finanziaria, indice di indebitamento a breve e quoziente di indebitamento finanziario).
3.1.2.1 La correlazione tra gli impieghi e le fonti: il quoziente secondario di struttura
Una tra le più essenziali leggi dell’analisi di bilancio afferma che tra gli impieghi e le fonti
devono esistere correlazioni logiche. Alla base di ciò si poggia un principio fondamentale:
il tempo di scadenza delle fonti deve essere sincronizzato con il tempo di recupero degli
impieghi, il che significa che l’attivo fisso e l’attivo circolante dovrebbero essere finanziati
rispettivamente con il passivo permanente e il passivo corrente. Ricordiamo brevemente
che:
115 Le scelte relative alla struttura dei finanziamenti hanno effetti diretti sul rischio aziendale, in particolare
sul rischio d’insolvenza e sull’autonomia dell’azienda dai finanziatori e possono rendere l’impresa molto più
vulnerabile ai fenomeni negativi che la gestione e l’ambiente possono riservare.
116 L’adeguatezza della durata dei debiti, in relazione alla liquidabilità delle attività, è uno dei presupposti
della solvibilità dell’impresa ed è proprio questo il valore della solidità aziendale, se s’intende questa qualità
come capacità di equilibrio nel tempo. Il capitale proprio e i debiti consolidati devono più che coprire le
immobilizzazioni e, di conseguenza, l’attivo circolante sarà in grado di rimborsare tutti gli impegni finanziari
di breve periodo.
117

− il finanziamento dell’attivo fisso con i soli mezzi propri determina una liquidità
da ammortamento, non genera problemi d’insolvenza ed assicura
automaticamente il rinnovo dell’attivo fisso stesso (la solidità patrimoniale è
quindi massima);
− il finanziamento dell’attivo fisso con le passività consolidate non genera rischi
d’insolvenza ma non determina liquidità da ammortamento e per il rinnovo rende
necessario un rifinanziamento (la solidità patrimoniale è soddisfacente);
− il finanziamento dell’attivo fisso con le passività correnti determina una
illiquidità da finanziamento che espone ad un costante rischio d’insolvenza ed
inoltre, per il rinnovo, rende necessario un rifinanziamento (la solidità
patrimoniale è da ritenersi insoddisfacente).
Sotto quindi il profilo della solidità, l’ipotesi preferibile è la prima, mentre l’ipotesi
peggiore è la terza. La prima ipotesi tuttavia non si riscontra quasi mai nella realtà;
generalmente è combinata con la seconda. Per questo motivo si è scelto di analizzare solo
il quoziente secondario di struttura e di trascurare invece l’analisi del quoziente primario
che rileva la parte delle immobilizzazioni finanziata con i mezzi propri. Il quoziente
secondario di struttura è dato dal rapporto tra il Passivo Permanente (Mezzi Propri e
Passivo Consolidato) e l’Attivo Fisso ed indica in che percentuale i mezzi propri e i debiti
consolidati finanziano le immobilizzazioni aziendali. Attraverso di esso è allora possibile
constatare la reale coerenza tra fonti e impieghi avendo sempre sotto controllo una
relazione orizzontale delle voci di bilancio. Il quoziente secondario di struttura può
assumere un valore maggiore o minore di uno. In quest’ultimo caso le immobilizzazioni
non sono finanziate interamente con il passivo permanente, ma anche tramite passività
correnti il che denota una solidità insoddisfacente (maggiore rischio d’insolvenza). Le
immobilizzazioni sono infatti destinate a ritornare in forma liquida gradualmente, tramite i
ricavi della produzione, in un tempo superiore all’esercizio. Se il loro finanziamento
avviene con passività aventi un tempo di estinzione breve, inferiore all’esercizio, l’azienda
si troverebbe nell’impossibilità di far fronte alle proprie obbligazioni. La continuità
aziendale, in tali circostanze, dipenderebbe dalla possibilità di rinnovare completamente le
passività correnti. Un quoziente secondario maggiore di uno consente di proteggere
l’azienda contro i fenomeni di illiquidità dell’attivo circolante che possono verificarsi
118

iguardo ai crediti e alle rimanenze. Nel caso in cui infatti una parte dei crediti fosse di
difficile realizzo ovvero una parte delle rimanenze invendibile o non utilizzabile, un
quoziente secondario maggiore di uno consente di spostare avanti nel tempo i fenomeni
d’insolvenza legati, all’impossibilità di assolvere alle passività in scadenza. Pur
condividendo la tesi che sostiene l’impossibilità di un’individuazione rigida di valori soglia
che discrimino tra situazioni di equilibrio e situazioni di disequilibrio, si ritiene che la
situazione di solidità sia da considerarsi buona se il quoziente secondario di struttura è
sensibilmente superiore ad uno (1,2/1,3).
L’analisi dei bilanci del campione rileva un ottimo livello dell’indice di struttura. Nel
periodo di permanenza all’interno del portafoglio dell’investitore il quoziente si è attestato
in media intorno a 1,41, in leggera flessione rispetto al periodo pre acquisizione (1,48).
Grafico 3.7
Q. secondario di struttura
2,0
1,8
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
Quoziente secondario di
struttura
1,48 1,41
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Q. secondario di struttura
Quoziente secondario di struttura - Distribuzione per
settore di appartenenza
2,03
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
1,31
1,52
1,09
0,99
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
Il dato medio viene rispettato più o meno in tutti i segmenti analizzati. Un grado di
copertura delle immobilizzazioni inadeguato (quoziente secondario di struttura inferiore
all’unità) si riscontra nel segmento “Public to Private” dove l’indice passa da 0,98 a 0,53.
Migliora invece, grazie all’intervento dell’investitore, la struttura patrimoniale delle
imprese del Sud. Partite da una situazione in cui l’indice non raggiungeva quota 0,6,
l’operatore di private equity è riuscito a farlo risalire fino a fargli superare l’unità. Dopo
l’intervento dell’investitore, non si ravvisano particolari differenze tra i segmenti “Buy
Out” e “Expansion”, il cui indice è pari rispettivamente a 1,41 e 1,45. Una maggiore
1,38
119

solidità sembrano avere le imprese partecipate per più del 50% (1,50 rispetto a 1,29) e
quelle appartenenti al segmento Local Parent. Guardando invece al fatturato e ai
dipendenti, l’indicatore è mediamente più elevato nelle piccole e medie imprese rispetto
alle grandi.
Grafico 3.8
Q. secondario di struttura
Q. secondario di struttura
Q. secondario di struttura
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
Quoziente secondario di struttura -
Distribuzione per tipologia
d'investimento
1,62
1,41
1,14
1,45
1,84
0,91
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
Quoziente secondario di struttura -
Distribuzione per quota acquisita
1,32
1,29
1,60
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
1,50
Quoziente secondario di struttura -
Distribuzione per classe di fatturato (mln €)
1,52
1,32
1,51
1,61
1,37
1,14
1,54
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Q. secondario di struttura
1,38
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
Quoziente secondario di struttura - Distribuzione
per deal origination
1,87
1,60
Local
Parent
Q. secondario di struttura
Q. secondario di struttura
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
1,38
1,41
Family &
Private
1,75
1,21
Secondary
B-O
0,98
0,53
Public to
Private
1,21
1,93
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
Quoziente secondario di struttura -
Distribuzione per area geografica
1,50
1,42
1,73
1,53
0,59
1,84
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
Quoziente secondario di struttura -
Distribuzione per classe di dipendenti
1,42
1,59
1,75
1,63
1,37
1,41
1,50
0,91
Other
1,02
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Dopo l’intervento dell’operatore non si riscontrano quindi particolari situazioni di tensione
finanziaria in tutti i segmenti analizzati. Ed è forse da apprezzare anche il fatto che tale
1,22
120

indicatore, nel periodo di permanenza, subisca in quasi tutti i casi una flessione,
intervenuta in una situazione (di partenza) in cui i quozienti di struttura presentavano valori
più che soddisfacenti. Se il valore dell’indice supera un certo limite, infatti, significa che le
fonti sono rigide a fronte di fabbisogni che sono al contrario sostanzialmente elastici.
Le conseguenza negative di tale situazione possono essere:
− maggior costo dell’indebitamento, in quanto il debito a medio-lungo, a differenza
dei debiti commerciali, è produttivo d’interessi;
− minori possibilità di estinguere il finanziamento (consolidato) una volta rimosso
il fabbisogno che lo aveva generato;
− inefficienza finanziaria collegata al finanziamento di impieghi improduttivi
(crediti e scorte) piuttosto che al loro contenimento.
3.1.3 L’autonomia finanziaria
Il secondo profilo di analisi della solidità patrimoniale riguarda la struttura dei
finanziamenti. Una tale analisi, attiene alla tipologia delle fonti di finanziamento,
analizzate con riguardo al loro impatto sul rischio aziendale e sull’autonomia finanziaria.
La solidità patrimoniale è infatti tanto più elevata quanto più la struttura dei finanziamenti
è composta da fonti che non accrescono il rischio finanziario dell’impresa e che non
generano una dipendenza dell’azienda da terzi nelle scelte di gestione. Ai fini dell’analisi
dell’autonomia finanziaria, si distinguono in generale le seguenti due categorie di fonti del
capitale:
− fonti interne, relative ai mezzi propri;
− fonti esterne, relative ai debiti.
I mezzi propri non accrescono il rischio d’insolvenza dell’azienda né la sua dipendenza
finanziaria, poiché non hanno il vincolo di rimborso e rappresentano gli apporti degli
azionisti, che hanno interessi per lo più convergenti con quelli dell’azienda. I debiti, al
contrario, accrescono il rischio d’insolvenza e la dipendenza finanziaria dell’azienda,
poiché devono essere obbligatoriamente rimborsati a determinate scadenze e rappresentano
“capitale di terzi” (banche, fornitori, etc.), portatori d’interessi in gran parte diversi da
quelli dell’azienda. L’analisi dell’autonomia finanziaria delle imprese target, può essere
condotta attraverso il calcolo di due tipologie di quozienti:
121

− gli indici di composizione del passivo, ottenuti rapportando ciascuna categoria di
fonte al totale delle fonti 117 ;
− il rapporto mezzi di terzi/mezzi propri.
3.1.3.1 L’indice di indebitamento (indice di dipendenza finanziaria) e l’indice
d’indebitamento a breve
Una prima idea del grado d’indebitamento della gestione viene ottenuta con la
determinazione del peso percentuale del capitale di credito sul capitale di finanziamento.
Questo indice viene denominato indice d’indebitamento o meglio indice di dipendenza
finanziaria, per intendere che quanto più questo indicatore assume valori elevati, tanto più
l’impresa dipenderà da capitali di debito e presenterà una minore autonomia finanziaria da
fonti esterne. Per interpretare il valore che assume l’indice in relazione a una singola
impresa, bisogna comprendere se il grado di indebitamento è funzionale o se, al contrario,
è antifunzionale alla gestione aziendale. Se il capitale di rischio risulta essere troppo basso,
l’impresa si viene a trovare in una situazione di dipendenza finanziaria che, oltre certi
limiti, può diventare insostenibile a causa degli oneri finanziari che ne conseguono.
Le imprese del campione presentano, nel periodo di permanenza all’interno del portafoglio
dell’investitore, un indice di indebitamento complessivo piuttosto elevato e pari al 72,9%,
in crescita dell’1,9% rispetto al periodo precedente l’entrata nella compagine azionaria
dell’investitore istituzionale.
117 Per la verità tra gli indici di composizione del passivo si analizzerà solo l’indice di indebitamento (o di
dipendenza finanziaria) e l’indice di indebitamento a breve. Tale scelta è stata dettata dalla volontà di non
appesantire l’analisi con l’introduzione di indicatori che sono strettamente correlati a quelli selezionati. Per
spiegare meglio quanto detto, si ricorda brevemente il significato degli altri indici di composizione del
passivo non contemplati nella presente analisi: indice di autonomia finanziaria (Mezzi Propri/Totale Passivo)
non rappresenta nient’altro che il complemento a 1 dell’indice di indebitamento; indice di indebitamento a
medio lungo termine (Passività consolidate/Totale Passivo) non rappresenta nient’altro che il complemento,
all’indice di indebitamento, dell’indice di indebitamento a breve; quoziente d’indebitamento ((Passività
consolidate + Passività correnti)/Mezzi Propri) anche se espresso in termini diversi fornisce la stessa
informazione dell’indice d’indebitamento; quoziente di consolidamento del Passivo (Passività
consolidate/Passività correnti) anche se espresso in termini diversi fornisce la stessa informazione degli indici
d’indebitamento a breve e medio – lungo termine.
122

Grafico 3.9
Indice di indebitamento (%)
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Indice di indebitamento
71,0%
72,9%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Indice di indebitamento (%)
100%
80%
60%
40%
20%
0%
Indice di indebitamento - Distribuzione per settore di
appartenenza
68,4%
71,2%
81,9%
76,6%
71,2% 74,8%
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
I dati riferibili alla segmentazione del campione per tipologia d’investimento e deal
origination rispecchiano il dato medio ad eccezione del segmento “Public to Private” che
presenta un valore molto al di sopra della media e pari all’89%. Sempre in linea con il
trend generale, l’indice d’indebitamento cresce nel periodo post acquisizione in quasi tutti i
segmenti di analisi ad eccezione del segmento “Expansion” (l’indicatore si riduce del
4,3%) e “Public to Private” (-2%).
Grafico 3.10
Indice di indebitamento (%)
100%
Indice di indebitamento - Distribuzione
per tipologia d'investimento
80%
60%
40%
20%
0%
73,0%
68,7%
76,7%
72,4%
77,8%
75,2%
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Indice di indebitamento (%)
Indice di indebitamento - Distribuzione per deal
origination
100%
80%
75,3% 72,2%
72,2% 70,4%
89,0%
75,5% 88,0%
70,9%
65,7%
77,8%
75,2%
60%
51,2%
40%
20%
0%
Local
Parent
Family &
Private
Secondary
B-O
Public to
Private
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
Se volgiamo lo sguardo alle classi di analisi “percentuale di quota acquisita” e “area
geografica”, si può evincere come il grado d’indebitamento complessivo si riduce per le
imprese partecipate per una percentuale inferiore al 50% (-2,6%) e nelle imprese del Sud (-
13%). L’operatore istituzionale riesce quindi a riequilibrare in parte il grado di autonomia
Other
123

finanziaria delle imprese meridionali arrivate nelle loro mani con quote d’indebitamento
allarmanti e pari circa al 90%.
Grafico 3.11
Indice di indebitamento (%)
100%
80%
60%
40%
20%
0%
Indice di indebitamento - Distribuzione per
quota acquisita
76,5%
73,9% 72,2%
67,5%
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Indice di indebitamento (%)
100%
80%
60%
40%
20%
0%
Indice di indebitamento - Distribuzione per
area geografica
88,0%
70,9% 72,4% 73,7%
63,8%
75,0%
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
La distribuzione per classe di fatturato e dipendenti mostra un segnale di forte variazione
solo per le imprese di piccole dimensioni (fatturato), il cui grado d’indebitamento cresce
del 9,2%. Per le altre classi l’indicatore non subisce variazioni di rilievo tanto in aumento
quanto in diminuzione dopo l’intervento dell’investitore istituzionale.
Grafico 3.12
Indice di indebitamento (%)
100%
80%
60%
40%
20%
0%
Indice di indebitamento - Distribuzione per
classe di fatturato (mln €)
68,0%
58,8%
72,7%
71,2%
79,4%
76,8%
73,9%
69,7%
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Indice di indebitamento (%)
100%
80%
60%
40%
20%
0%
Indice di indebitamento - Distribuzione per
classe di dipendenti
69,3%
74,0% 76,1%
70,0%
70,7%
75,5%
63,7%
68,7%
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Se le imprese del campione presentano un grado d’indebitamento piuttosto elevato che non
diminuisce ma anzi aumenta dopo l’intervento dell’investitore, la situazione non migliora
se si prende in considerazione la sua composizione dal punto di vista della durata. Come è
noto l’indice di indebitamento a breve serve per chiarire il peso dei debiti esigibili nell’arco
124

di un breve periodo sul totale delle passività. Più pesano i debiti a breve sul totale, più
l’impresa dovrà preoccuparsi nel trovare sufficienti risorse liquide o liquidabili per la
copertura di ogni debito. Da questo punto di vista le imprese target presentano una quota
maggiore di debiti a breve rispetto ai debiti a lungo, valori che si riequilibrano solo in parte
dopo l’intervento dell’operatore.
Grafico 3.13
Indice di indeb. a breve (%)
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Indice di indebitamento a breve
55,0%
-7,7%
47,3%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
3.1.3.2 Il quoziente d’indebitamento finanziario
Indice di indeb. a lungo (%)
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
Indice di indebitamento a lungo
+9,5%
16,0%
25,5%
Pre acquisizione Post acquisizione
Il rapporto tra mezzi di terzi e mezzi propri acquisisce contenuti informativi notevolmente
diversi in funzione dell’inserimento al numeratore:
− di tutti i debiti, sia finanziari che commerciali;
− dei soli debiti finanziari.
Ai fini dell’analisi della solidità patrimoniale delle imprese del campione si esprime una
netta preferenza per la seconda ipotesi ovvero per il calcolo del quoziente d’indebitamento
finanziario. Un elevato ammontare di debiti finanziari comporta infatti un incremento del
rischio d’insolvenza e una diminuzione del potere contrattuale dell’azienda nei confronti
dei suoi finanziatori. I debiti commerciali, al contrario, non creano problemi di stabilità ma
anzi, entro certi limiti, denotano forza commerciale. La possibilità di spuntare infatti
lunghe dilazioni nei confronti dei fornitori, denota un elevato potere contrattuale
dell’azienda oggetto di analisi che le consente di ridurre in maniera automatica il
fabbisogno generato dalla gestione e di mantenere condizioni di piena autonomia
125

finanziaria. Un incremento dell’indebitamento commerciale, se collegato al maggior
volume d’affari e non a debiti scaduti, non comporta infatti un incremento del rischio
d’insolvenza in quanto collegato a una maggiore generazione potenziale di liquidità e a un
maggior volume dell’attivo circolante. Quanto detto è confermato dal fatto che molte
aziende di grandi dimensioni sono caratterizzate da un elevato livello d’indebitamento
commerciale proprio in quanto hanno un fortissimo potere contrattuale nei confronti dei
fornitori.
L’indice di riferimento per l’analisi della solidità delle imprese del campione (sotto il
profilo dell’autonomia finanziaria e del rischio d’insolvenza) appare quindi il quoziente
d’indebitamento finanziario, dato dal rapporto tra Debiti Finanziari e Mezzi Propri.
L’indice esprime quante unità monetarie di capitali di credito sono affluite all’azienda per
ogni unità monetaria di capitale di rischio. In altre parole esprime il contributo dei
finanziamenti esterni, rispetto a quello del capitale di rischio, alla copertura degli impieghi.
Gli studi di finanza aziendale si sono a lungo interrogati se vi fosse un valore ottimale del
quoziente d’indebitamento finanziario per singole tipologie di aziende. La maggior parte
della dottrina ritiene che ciò sia impossibile. È tuttavia possibile condurre alcune
osservazioni. Un quoziente di indebitamento molto basso (nullo o poco superiore allo zero)
costituisce senz’altro la situazione migliore sotto il profilo della solidità patrimoniale, ma
non necessariamente sotto quello della redditività degli azionisti. All’aumentare del
quoziente d’indebitamento finanziario, non è detto che il rischio finanziario d’impresa e la
dipendenza finanziaria aumentino in maniera proporzionale in quanto è del tutto naturale
per un’azienda ricorrere a finanziamenti con capitale di credito. Entro certi limiti, quindi,
l’aumento dell’indebitamento finanziario non provoca una diminuzione della solidità
patrimoniale in quanto viene considerato dagli analisti fisiologico. Superati tali limiti, al
contrario, un aumento dell’indebitamento comporta l’aumento del rischio d’insolvenza e
della dipendenza finanziaria in quanto i finanziatori esterni possono di fatto influenzare le
scelte aziendali. In questi casi, aumentando il rischio d’impresa, i finanziatori esterni, ma
anche gli azionisti, reagiranno richiedendo remunerazioni più elevate. L’aumento
dell’indebitamento finanziario, in tali casi, penalizza non solo la solidità, ma anche la
redditività. Negli Stati Uniti molti analisti ritengono fisiologico un livello di indebitamento
finanziario pari a uno. In tale situazione, il finanziamento degli impieghi aziendali, al netto
126

della copertura automatica derivante dai debiti commerciali, viene effettuato per metà dagli
azionisti e per metà dai finanziatori esterni. In Italia il livello medio d’indebitamento delle
imprese è stato a lungo molto elevato al punto da condurre gli analisti a ritenere fisiologici
livelli di indebitamento di 1,5/1,8. Le cause di un indebitamento così elevato sono da
ricercarsi:
− nel sistema fiscale, che genera una forte convenienza all’indebitamento tassando
gli utili d’impresa in misura molto più elevata degli interessi sul capitale di
credito;
− nella presenza di molte piccole imprese familiari, dove la limitatezza del
patrimonio familiare costituisce un limite alla capitalizzazione delle imprese.
Le imprese del campione presentano un valore medio elevato che supera di gran lunga
l’unità (1,75) ma che si mantiene al di sotto del valore soglia massimo (1,8) individuato,
considerato dagli analisti fisiologico. Il valore è cresciuto con l’entrata nella compagine
azionaria dell’investitore istituzionale di 0,41. Il dato ha subito molto probabilmente
l’influenza del forte peso percentuale, sul totale, delle operazioni di buy out (70%) per le
quali, è noto, si ricorre molto spesso all’utilizzo della leva finanziaria. Infatti per le imprese
soggette a queste operazioni si rileva un indice pari a 1,87 in crescita di 0,6 circa rispetto al
periodo precedente. Fatto è, quindi, che l’analisi per segmenti rileva un quoziente elevato e
in crescita in quasi tutte le classi oggetto di osservazione. La suddivisione per settore di
attività mostra in particolare un quoziente molto elevato per le imprese operanti nel
commercio, in aumento di 0,32 rispetto alla situazione precedente l’intervento
dell’investitore.
Grafico 3.14
Indice di indeb. finanziario
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
Indice di indebitamento
finanziario
1,34
1,75
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Indice di indeb. finanziario
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
Indice di indebitamento finanziario - Distribuzione per
settore di appartenenza
1,39
1,70
1,64
1,96
1,07
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
1,76
127

Le situazioni più critiche, con valori che superano nettamente il valore medio, sono
riconducibili inoltre alle imprese del segmento “Public to Private” con un indicatore pari a
3,5, in aumento rispetto al periodo precedente l’acquisizione (2,66), al segmento
Secondary Buy Out (2,35, +1,19), le imprese acquisite con quota di maggioranza (1,92,
+0,67 rispetto al quadriennio pre acquisizione) e le imprese del centro (2,12, +1,44).
Inverso invece il processo per le imprese del Sud che hanno visto ridotto in media il loro
indice di un punto passando da 2,6 circa a 1,5. Per quanto concerne la classe dimensionale,
la situazione più critica dal punto di vista dell’indebitamento finanziario è da attribuirsi alle
medie imprese con fatturato compreso tra 50 e 250 mln € e numero di dipendenti compresi
tra 100 e 250 dove l’indicatore presenta un valore medio nel periodo post acquisizione,
pari rispettivamente 2,42 e 2,05, in aumento in entrambi i casi rispetto al quadriennio
precedente di 0,55 e 0,95.
Grafico 3.15
Indice di indeb. finanziario
Indice di indeb. finanziario
3,0
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
Indice di indebitamento finanziario -
Distribuzione per tipologia
d'investimento
1,28
1,87
1,55
1,42
0,78
2,50
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
Indice di indebitamento finanziario -
Distribuzione per quota acquisita
1,49
1,51
1,25
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
1,92
Indice di indeb. finanziario
3,5
3,0
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
Indice di indebitamento finanziario - Distribuzione
per deal origination
1,40
1,35
Local
Parent
Indice di indeb. finanziario
3,0
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
1,60
1,37
Family &
Private
1,16
2,35
Secondary
B-O
2,66
3,50
Public to
Private
1,45
0,85
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
Indice di indebitamento finanziario -
Distribuzione per area geografica
1,37
1,67
0,68
2,12
2,59
0,78
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
2,50
Other
1,50
128

Indice di indeb. finanziario
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
Indice di indebitamento finanziario -
Distribuzione per classe di fatturato (mln €)
0,67
1,38
1,31
1,80
1,87
2,42
1,33
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
1,05
Indice di indeb. finanziario
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
Indice di indebitamento finanziario -
Distribuzione per classe di dipendenti
1,26
1,32
1,02
1,49
1,10
2,05
1,74
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Volendo trarre delle conclusioni circa la solidità delle imprese del campione dopo
l’intervento dell’operatore di private equity possiamo dire che in media:
− esiste un’ottima correlazione tra impieghi e fonti dimostrata da un quoziente
secondario di struttura pari a 1,41, in leggera diminuzione rispetto al periodo
precedente; tale circostanza può essere considerata positiva perché quozienti di
struttura troppo elevati rischiano di far incorrere le imprese nella situazione
opposta rispetto al rischio di solidità ovvero in una situazione in cui le fonti di
finanziamento sono troppo consolidate rispetto a impieghi sostanzialmente
elastici. Questa riduzione, con valori che dopo l’intervento dell’investitore
ritornano a essere più equilibrati, si riscontra soprattutto nelle imprese operanti
nei servizi (il quoziente passa da 2,03 decisamente elevato a 1,38) e nelle imprese
del Sud le quali, partite da una situazione decisamente critica con un quoziente
secondario di struttura pari a 0,6, sono riuscite a riportarlo al di sopra dell’unità;
− esiste un livello d’indebitamento complessivo piuttosto elevato (72,9%) in
crescita rispetto al periodo precedente (+1,9%), di cui quasi la metà rappresentato
da debiti a breve (che si riducono dopo l’intervento dell’investitore). Questo
incremento è probabilmente dovuto in buona parte al considerevole aumento dei
debiti finanziari. L’analisi infatti del quoziente di indebitamento finanziario ci
mostra un valore medio che supera di gran lunga l’unità (1,75), in aumento con
l’entrata nella compagine azionaria dell’investitore istituzionale di 0,41. Si è
anche spiegato come questo dato ha subito molto probabilmente l’influenza del
forte peso percentuale, sul totale, delle operazioni di buy out (70%), per le quali,
come sappiamo, si ricorre molto spesso all’utilizzo della leva finanziaria.
1,86
129

L’indicatore cresce, in ogni caso, in quasi tutti i segmenti analizzati dopo
l’intervento dell’operatore, anche se si rilevano delle situazione in cui tale
intervento riesce a riequilibrare la situazione finanziaria delle imprese (si pensi
ancora una volta alle imprese del Sud, il cui indice passa da 2,6 a 1,5).
3.1.4 L’analisi della liquidità
Il concetto di liquidità aziendale, così come quello di solidità, attiene agli equilibri
finanziari della gestione. L’analisi della liquidità considera tuttavia gli equilibri finanziari
con riferimento al breve periodo. Oggetto di indagine dell’analisi di solidità è infatti la
capacità tendenziale dell’azienda di mantenersi in equilibrio finanziario nel medio-lungo
termine; oggetto di indagine dell’analisi della liquidità è invece la capacità dell’azienda di
adempire agli impegni finanziari di breve periodo. Una tale capacità è anche detta
solvibilità. In altre parole, l’analisi della liquidità mira a verificare che l’azienda sia in
grado, tramite la liquidità esistente e le entrate attese per il breve periodo, di fronteggiare le
uscite attese per il breve periodo. Anche l’analisi della liquidità può essere svolta attraverso
quozienti che analizzano la correlazione tra impieghi a breve e fonti a breve. Questa
correlazione si fonda sul seguente principio: l’attivo circolante dovrebbe essere finanziato
prevalentemente con il passivo corrente.
3.1.4.1 L’indice di disponibilità e il quoziente di tesoreria
Per indagare la solvibilità delle imprese del campione di riferimento si è scelto l’indice di
disponibilità e il quoziente di tesoreria. In particolare il primo, rapportando i componenti
dell’attivo circolante e le passività correnti, rappresenta, in percentuale, quanta porzione di
debiti a breve (entro un anno) è possibile pagare con tutto ciò che si può monetizzare nel
breve periodo. Attraverso un’analisi orizzontale tra l’attivo circolante e il passivo corrente
dello Stato Patrimoniale, il rapporto indica l’adeguata o meno copertura per i debiti di
breve periodo. Si ricorda che, nel caso in cui l’indice fosse particolarmente alto, nonostante
l’apprezzabilità in un’ottica di solvibilità, molto probabilmente l’impresa non riesce a
ottenere dalla propria gestione caratteristica una sufficiente produttività, investendo troppe
risorse in poste finanziarie piuttosto che in fattori produttivi. Questo è il rovescio della
130

medaglia di avere un’impresa fortemente liquida e con un attivo circolante molto più
grande rispetto ai debiti correnti.
Le imprese del campione presentano in media un valore dell’indicatore adeguato e pari a
1,3 in leggera flessione rispetto al quadriennio precedente l’entrata nella compagine
azionaria dell’investitore istituzionale (1,35). Si preferisce non soffermarsi a lungo sulla
trattazione di questo indicatore in quanto, nella sostanza, assume lo stesso significato del
quoziente secondario di struttura. Non si intravedono comunque per le imprese oggetto di
analisi particolari criticità in termini di liquidità.
Grafico 3.16
Indice di disponibilità
2,0
1,8
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Indice di disponibilità
1,35 1,30
Pre acquisizione Post acquisizione
Ci si soffermerà invece, con un maggior grado di dettaglio, sulla trattazione del quoziente
di tesoreria. Infatti, una criticità frequentemente mossa all’utilizzo del quoziente di
disponibilità, riguarda la presenza del magazzino al numeratore del rapporto, in ragione
della sua non diretta attinenza con i problemi della liquidità. Il magazzino infatti
rappresenta un impiego non numerario non sempre destinato a convertirsi in breve tempo
in impiego numerario. Le materie, ad esempio, prima di convertirsi in liquidità devono
attraversare tre stadi successivi:
− lo stadio della lavorazione, cioè della trasformazione in prodotti finiti;
− lo stadio della commercializzazione, cioè della vendita dei prodotti finiti;
131

− lo stadio della liquidazione, cioè dell’incasso dei crediti relativi alla dilazione del
ricavo di vendita dei prodotti finiti.
Considerazioni analoghe, con le dovute varianti, valgono per i prodotti in corso di
lavorazione e per i prodotti finiti presenti nel magazzino. Dunque il magazzino rappresenta
un impiego che ha un’attinenza soltanto indiretta e mediata con la liquidità a breve. Da qui
consegue la discussa rilevanza dell’indice di disponibilità per l’analisi della liquidità. Si
preferisce quindi esaminare nel dettaglio un altro indicatore, il cosiddetto quoziente di
tesoreria, che mette a fuoco solo l’equilibrio (o il non equilibrio) fra gli impieghi liquidi,
intesi in senso stretto, consistenti nella liquidità immediata e nella liquidità differita con
esclusione delle rimanenze in quanto maggiormente lontane dallo stadio liquido. Il
quoziente di tesoreria rappresenta la capacità dell’azienda di far fronte, con la liquidità
totalmente disponibile, all’estinzione delle passività correnti. Esprime, in altri termini, il
grado di dipendenza dal magazzino dell’equilibrio finanziario di breve termine. Quando il
quoziente di tesoreria è superiore a uno, l’equilibrio finanziario di breve non dipende dalla
capacità del magazzino di tornare in forma liquida nell’arco dell’esercizio successivo; se
minore di uno l’equilibrio finanziario di breve dipende, in misura più o meno ampia, dalla
capacità del magazzino di trasformarsi in liquidità.
L’analisi delle imprese del campione mostra un quoziente di tesoreria pari a 0,99 quindi in
pratica pari all’unità. Questo significa che nessuna quota delle passività correnti
contribuisce al finanziamento delle rimanenze e può essere estinta solo grazie al ritorno in
forma liquida di una determinata parte delle rimanenze stesse. La situazione è pressoché
rimasta invariata con l’intervento dell’investitore istituzionale. Infatti nel periodo pre
acquisizione il valore medio ascrivibile a tutto il campione e a tutto il periodo era poco più
alto (1,15). La segmentazione del campione per settore di attività mostra invece un valore
sensibilmente inferiore all’unità (0,60) per le imprese operanti nel commercio, valore che
mediamente non subisce variazioni dopo l’intervento dell’operatore.
132

Grafico 3.17
Quoziente di tesoreria
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
Quoziente di tesoreria
1,15
0,99
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Quoziente di tesoreria
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
Quoziente di tesoreria - Distribuzione per settore di
appartenenza
1,18
1,02
0,61
0,60
1,35
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
L’analisi per segmenti rileva quozienti di tesoreria più adeguati (maggiore dell’unità) nei
segmenti “Buy out” (1,05), “Quota acquisita maggiore di 50%” (1,02), “Local Parent”
(1,08), le piccole imprese rispetto alle medie e grandi imprese. In quasi tutti i casi sopra
menzionati si riscontra però una riduzione del valore dell’indicatore dopo l’intervento
dell’investitore. L’intervento dell’operatore infine si è dimostrato ancora una volta
indispensabile per le imprese del Sud, che nel quadriennio di partecipazione rilevano in
media un quoziente pari a 0,79, in crescita di 0,28 rispetto al periodo precedente.
Grafico 3.18
Quoziente di tesoreria
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
Quoziente di tesoreria - Distribuzione
per tipologia d'investimento
1,29
1,05
0,87
0,89
0,41
0,25
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
Quoziente di tesoreria
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
Quoziente di tesoreria - Distribuzione per deal
origination
1,10 1,08
Local
Parent
1,20
0,97
Family &
Private
1,18
0,89
Secondary
B-O
0,93 0,75
Public to
Private
0,74
1,93
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
1,10
0,41
0,25
Other
133

Quoziente di tesoreria
Quoziente di tesoreria
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
Quoziente di tesoreria - Distribuzione per quota
acquisita
0,86
0,87
1,35
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
Quoziente di tesoreria - Distribuzione per
classe di fatturato (mln €)
1,24
1,02
1,22
1,05
1,11
0,87
1,07
0,87
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
0,96
Concludendo, si può affermare che in media:
Quoziente di tesoreria
Quoziente di tesoreria
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
Quoziente di tesoreria - Distribuzione per
area geografica
1,21 1,16
1,05
0,86 0,79
0,51
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
Quoziente di tesoreria - Distribuzione per
classe di dipendenti
1,26
1,14
1,31
1,13 1,12
0,93
1,03
0,88
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
− esiste una buona correlazione tra impieghi e fonti a breve termine, dimostrata da
un indice di disponibilità pari a 1,30;
− l’equilibrio finanziario di breve termine non dipende dalla capacità del magazzino
di trasformarsi in liquidità (quoziente di tesoreria pari a 0,99);
− entrambe queste situazioni favorevoli non derivano dall’intervento dell’operatore:
le imprese target arrivano nelle mani dell’investitore già con un buon equilibrio
finanziario di breve periodo;
− l’intervento dell’operatore non apporta quindi, dal punto di vista della solvibilità,
sostanziali cambiamenti nelle imprese target. Il quoziente di tesoreria infatti
subisce variazioni di entità ridotta in quasi tutti i segmenti analizzati. Fanno
eccezione le imprese del Sud. Giunte nelle mani dell’operatore con un valore del
quoziente di lunga inferiore all’unità (0,51), nel corso del quadriennio di
detenzione della partecipazione, esso riesce a raggiungere in media quota 0,8.
134

3.1.5 L’analisi della redditività
Per redditività della gestione si deve intendere l’attitudine del capitale a produrre redditi.
Gli indici di redditività mettono a confronto una determinata configurazione di reddito con
il capitale che ha prodotto il reddito stesso. Per una corretta costruzione di questi indicatori
è quindi necessario che numeratore e denominatore siano coerenti. In altre parole, il
reddito al numeratore deve essere quello ottenuto attraverso l’utilizzo del capitale
impiegato al denominatore; il capitale indicato al denominatore deve essere quello al
servizio della gestione che ha prodotto il reddito indicato al numeratore. Si inizia la
trattazione con l’analisi della redditività del capitale di rischio.
3.1.5.1 Il ROE (Return on Equity)
Il ROE esprime quanta redditività netta è stata prodotta dall’impresa mediante l’utilizzo dei
mezzi propri. Esprime quindi il grado di soddisfacimento dei portatori del capitale di
rischio, cioè il potere di attrazione da parte della gestione nei riguardi di tale capitale.
Questo indice è accusato spesso di falsare il giudizio di merito sulla gestione poiché
considera nel conteggio elementi eccezionali quali sono quelli collegati all’area
straordinaria della gestione. Per evitare questi inquinamenti si consiglia generalmente di
procedere al calcolo del ROE normalizzato, ottenuto scartando i componenti straordinari di
reddito (ed il carico fiscale ad essi relativo). Dovendo procedere all’analisi congiunta di 53
Bilanci si è ritenuto tuttavia opportuno esemplificare e procedere all’analisi del ROE
integrale, dato dal rapporto, come detto, tra utile netto e mezzi propri. Prima di procedere
all’illustrazione dei risultati rilevati per le imprese del campione, si ricorda inoltre che non
esiste un livello ottimale, ma che esso deve essere:
− superiore agli altri investimenti alternativi (tenuto conto dei relativi coefficienti di
rischio);
− non inferiore ai rendimenti attesi dagli investitori.
L’analisi dei bilanci del campione mostra, nel periodo di permanenza all’interno del
portafoglio dell’investitore, un livello di redditività sul capitale proprio adeguata e pari al
10,6% in crescita di quasi 3 punti percentuali rispetto al periodo precedente. La
135

performance migliore è attribuibile alle imprese operanti nel commercio, dove la
redditività del capitale di rischio raggiunge quota 16,4%, valore raddoppiato rispetto al
periodo precedente l’intervento dell’investitore. La performance peggiore è da imputare
invece alle imprese del terziario con un valore dell’8% anche se in leggera crescita rispetto
alla situazione precedente.
Grafico 3.19
ROE (%)
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Return on Equity
7,8%
10,6%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
ROE (%)
18%
15%
12%
9%
6%
3%
0%
Return on Equity - Distribuzione per settore di
appartenenza
10,8%
8,1% 8,1%
16,4%
6,7%
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
Continuando nell’analisi per segmenti e volendo riportare solo i dati più significativi è
possibile rilevare che:
− il ROE è quasi raddoppiato nelle operazioni di “Expansion” (le operazioni di Buy
Out hanno fatto registrare solo un +1,4%, anche se presentano un tasso di
redditività maggiore) e nel segmento “Local Parent”;
− la redditività maggiore scomposta per “deal origination” è da attribuirsi al
“Secondary buy Out” col 12,6%;
− le imprese del Nord e del Sud incrementano il loro ROE rispettivamente del 3,6%
e del 4,2% (le imprese del Sud raggiungono così un valore molto buono e pari al
14,6%)
− le piccole e grandi imprese realizzano un:
+ 4% nella classe 2 - 10 mln € di fatturato;
+ 4,8% nel segmento “20 – 49” per i dipendenti;
+ 10,7% nella classe di fatturato “>250” mln € e +7,5% nella classe di
dipendenti “>250”.
8,0%
136

Grafico 3.20
ROS (%)
ROE (%)
ROE (%)
25%
20%
15%
10%
5%
0%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
18%
15%
12%
9%
6%
3%
0%
Return on Equity - Distribuzione per
tipologia d'investimento
7,8%
9,3%
7,0%
13,3%
16,1%
n.a.
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
Return on Equity - Distribuzione per quota
acquisita
10,4%
11,8%
5,8%
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
9,7%
Return on Equity - Distribuzione per classe di
fatturato (mln €)
8,0%
12,0%
9,9% 9,0% 8,5%
5,6%
ROE (%)
5,2%
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
3.1.5.2 Il ROI (Return on Investment)
25%
20%
15%
10%
5%
0%
-5%
15,9%
Return on Equity - Distribuzione per deal origination
10,7%
12,6%
9,6%
9,3%
7,7%
5,7%
ROS (%)
Local
Parent
15%
12%
ROE (%)
9%
6%
3%
0%
18%
15%
12%
9%
6%
3%
0%
Family &
Private
Secondary
B-O
21,5%
2,4%
Public to
Private
-2,3%
8,4%
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
Return on Equity - Distribuzione per area
geografica
7,1%
10,7%
8,9%
8,8%
10,4%
16,1%
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
Return on Equity - Distribuzione per classe
di dipendenti
8,6%
13,4%
13,7%
8,7%
7,5% 6,8%
5,3%
n.a.
Other
14,6%
12,8%
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
La determinazione del ROE serve per misurare la capacità di attrazione del capitale di
rischio in quanto misura la convenienza da parte degli operatori economici ad investire
mezzi monetari, a titolo di capitale di rischio, nella gestione aziendale. Spesso nell’analisi
della gestione si rende necessaria un’altra conoscenza: quella della capacità d’attrazione
del capitale in generale, sia esso di rischio oppure di credito. Si vuole vedere cioè quanto
rende il capitale investito nella gestione. Per effettuare tale calcolo si deve confrontare
137

l’importo del capitale investito nella gestione con un reddito prodotto da tale investimento.
Da una parte dunque il capitale investito quale somma del capitale di rischio e del capitale
di credito, dall’altra il reddito operativo come risultato economico dell’area che esprime
l’investimento cioè dell’area caratteristica. L’indice che ne deriva prende il nome di tasso
di redditività del capitale investito o ROI. L’indice ROI è sicuramente uno tra i quozienti
più importanti ed esprime quanto rende in percentuale il capitale investito nell’area
caratteristica della gestione da tutti i finanziatori (di rischio e di credito). Come per il ROE,
quindi, potrebbe essere un elemento importante anche per i soci, al fine di valutare la
convenienza nell’investire nell’impresa ed è considerato soddisfacente quando remunera:
− l’impiego del capitale in investimenti privi di rischio;
− il premio per il rischio;
− il prelievo fiscale, in quanto il ROI, a differenza del ROE, considera l’utile al
lordo delle imposte.
Per le imprese del campione si rileva un ROI del 13,2% giudicabile come un valore più che
discreto, anche in considerazione dei tassi di rendimento degli investimenti privi di rischio
che hanno caratterizzato il periodo in esame (si veda il paragrafo 2.3). Inoltre il ROI, dopo
l’intervento dell’operatore, è cresciuto del 2,1%. A differenza del ROE la performance
migliore si riscontra per le imprese di produzione (14,5%) il cui valore tra l’altro risulta in
crescita dopo l’intervento dell’operatore (+4,2%). Le imprese operanti nel commercio,
invece, ottengono mediamente un ROI del 12,3% in crescita anche in questo caso del
4,2%. Peggiora invece la situazione, dopo l’intervento dell’operatore, per le imprese attive
nel terziario che riducono la loro redditività del 4,6%.
Grafico 3.21
ROI (%)
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Return on Investment
11,2%
13,2%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
ROI (%)
Return on Investment - Distribuzione per settore di
appartenenza
15%
12% 10,2%
14,5%
12,3%
15,5%
10,9%
9%
8,1%
6%
3%
0%
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
138

Passando alla segmentazione del campione e alla relativa analisi dei dati si sottolineano i
buoni risultati raggiunti:
− nelle operazioni di sviluppo dove il ROI si attesta intorno al 15% con incremento
del 3,1%;
− nelle imprese target partecipate con quote di minoranza dove il ROI supera il
valore medio e raggiunge quota 14,6% (+1,9% rispetto al periodo pre
acquisizione);
− nelle imprese del Nord e del Centro, dove il ROI, in crescita in entrambi i casi
rispetto al periodo precedente, raggiunge rispettivamente il valore di 13,1% e
14%;
− nelle imprese di piccole dimensioni (14,8%);
− nella classe con forza lavoro compresa tra 20 e 49 addetti (17,6%; +7,2%).
Grafico 3.22
ROI (%)
ROI (%)
Return on Investment - Distribuzione per
tipologia d'investimento
20%
15%
10%
5%
0%
15%
12%
9%
6%
3%
0%
12,6%
10,5%
15,2%
12,1%
18,8%
3,8%
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
Return on Investment - Distribuzione per
quota acquisita
12,7%
14,6%
9,9%
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
12,2%
ROI (%)
20%
15%
10%
5%
0%
-5%
ROI (%)
Return on Investment - Distribuzione per deal
origination
14,4%
13,7%
12,6%
10,7%
8,6%
7,8%
Local
Parent
15%
12%
9%
6%
3%
0%
Family &
Private
Secondary
B-O
-0,1%
3,6%
Public to
Private
3,5%
15,4%
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
18,8%
Return on Investment - Distribuzione per area
geografica
10,5%
13,1%
12,2%
14,0%
14,1%
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
3,8%
Other
12,4%
139

ROI (%)
21%
18%
15%
12%
9%
6%
3%
0%
Return on Investment - Distribuzione per classe
di fatturato (mln €)
8,8%
14,8%
14,2% 13,5%
9,2%
8,1%
9,0%
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
16,5%
ROI (%)
21%
18%
15%
12%
9%
6%
3%
0%
Return on Investment - Distribuzione per
classe di dipendenti
17,6%
16,8%
14,4%
13,2%
10,3% 10,3% 9,7% 10,3%
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Come detto, la formula del ROI è data dal rapporto tra Utile Operativo e Capitale Investito.
Si ricorda che moltiplicando numeratore e denominatore per l’importo delle vendite
ottenute nell’esercizio, la formula suddetta si trasforma nella seguente: ROI = Utile
Operativo/Vendite * Vendite/Capitale investito. La prima frazione della formula esprime
l’indice di redditività delle vendite (ROS), la seconda frazione esprime invece l’indice di
produttività del capitale investito. La scomposizione del ROI in queste due formule
consente di comprendere quale parte di esso è dovuta all’influenza dell’indice di redditività
delle vendite e quale parte, invece, è dovuta all’influenza dell’indice di produttività del
capitale investito. Si analizzano di seguito entrambi gli indicatori in relazione al campione
d’imprese target.
3.1.5.3 Il ROS (Return on Sales)
Come anticipato, rapportando il reddito operativo (differenza tra il valore della produzione
e i costi della produzione) ai ricavi, si ottiene questo importante indicatore di redditività,
denominato redditività delle vendite, che indica quanto reddito è prodotto per ogni 100
euro di fatturato. Alla composizione di questo valore intervengono diverse variabili: da una
parte il fatturato determinato dalla politica delle vendite, dall’altra la gestione dei costi, il
controllo degli oneri e degli ammortamenti.
Le imprese target presentano, in media, un valore del ROS discreto e pari all’8,1%, in
crescita di circa due punti percentuali rispetto alla media del quadriennio precedente
l’intervento dell’operatore istituzionale.
140

Grafico 3.23
ROS (%)
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Return on Sales
6,0%
8,1%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
ROS (%)
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Return on Sales - Distribuzione per settore di
appartenenza
6,5%
8,2%
2,5%
6,1%
6,9%
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
Le performance migliori, a valle dell’intervento dell’operatore di private equity, si
registrano:
− nelle imprese di produzione e di servizi (ROS pari rispettivamente a 8,2% e 9%);
− nelle imprese operanti nel commercio: anche se il ROS si mantiene sotto la
media, cresce del 3,6% rispetto al periodo precedente l’intervento dell’operatore;
− nelle operazioni di Buy Out con un ROS che supera il valore medio e si attesta a
8,4%, in crescita dell’1,3% rispetto al periodo precedente;
− nelle imprese controllate dall’investitore con quota di maggioranza, dove il ROS
è pari a 8,7% (+2,8% rispetto al periodo precedente);
− nel segmento “Secondary Buy Out” dove il ROS supera il 10%;
− nelle piccole imprese dove l’indice supera il valore medio.
Ancora molto modesto, nonostante l’intervento dell’operatore, il valore dell’indice nelle
imprese del Sud che si attesta sul 5,5% anche se in crescita rispetto al periodo precedente
(+1%).
9,0%
141

Grafico 3.24
ROS (%)
ROS (%)
ROS (%)
10%
8%
6%
4%
2%
0%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Return on Sales - Distribuzione per
tipologia d'investimento
6,1%
8,4%
5,6%
7,7%
7,9%
5,6%
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
Return on Sales - Distribuzione per quota
acquisita
7,2%
6,1% 5,9%
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
8,7%
Return on Sales - Distribuzione per classe di
fatturato (mln €)
10,5%
8,8%
6,8% 7,0% 6,8%
3,6%
5,1%
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
ROS (%)
10,1%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Return on Sales - Distribuzione per deal origination
8,0%
6,8%
6,5%
5,2%
4,4%
12%
10%
3.1.5.4 L’indice di produttività del capitale investito
ROS (%)
Local
Parent
8%
6%
4%
2%
0%
ROS (%)
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Family &
Private
10,4%
Secondary
B-O
1,6%
3,7%
Public to
Private
1,8%
11,2%
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
Return on Sales - Distribuzione per area
geografica
5,5%
8,2%
8,2%
8,8%
4,5%
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
Return on Sales - Distribuzione per classe
di dipendenti
7,4%
10,3%
6,0%
9,8%
7,9%
Other
5,5%
8,6%
6,5%
5,2% 4,9%
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
L’indice di produttività del capitale investito esprime la capacità del capitale investito di
produrre ricavi. L’introduzione di questa terza variabile permette di comprendere più
profondamente il significato del ROI. Permette cioè di comprendere quale parte di esso è
5,6%
142

iconducibile all’influenza dell’indice di redditività delle vendite e quale parte invece è
dovuta all’influenza dell’indice di produttività del capitale investito.
L’analisi dei bilanci del campione evidenzia che dopo l’intervento dell’investitore le
aziende presentano in media una maggiore redditività delle vendite. Di contro però
perdono in produttività, riescono cioè con il capitale che hanno a disposizione a produrre
un volume di fatturato minore.
Grafico 3.25
Produttività del CI
2,1
1,8
1,5
1,2
0,9
0,6
0,3
0,0
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Indice di produttività del capitale
investito
1,86
1,63
Pre acquisizione Post acquisizione
Si è visto che il ROI è funzione dell’utile operativo e del capitale investito; dipende dunque
dal valore dei ricavi e dei costi relativi all’area caratteristica della gestione, nonché dal
valore degli impieghi da essa effettuati. Pertanto risente soprattutto della politica
industriale attuata dall’azienda, nella quale convergono tra le altre, la politica della
produzione, la politica del personale, la politica delle vendite, etc. Il ROE invece è
funzione dell’utile d’esercizio e del capitale di rischio; dipende dunque dall’utile operativo
ma anche dal valore dei ricavi e dei costi relativi alle aree complementari a quella
caratteristica, nonché dal valore dei mezzi propri immessi nella gestione. Pertanto risente,
oltreché della politica industriale, della politica finanziaria attuata dall’azienda, in quanto
la sua formazione è influenzata dalla struttura delle fonti di finanziamento. Nonostante ciò,
si ricorda che esiste una relazione tra ROI e ROE. Più precisamente, il ROE dipende dalla
redditività dell’area caratteristica, dall’onerosità del capitale di credito, dalla struttura
143

finanziaria ovvero in altre parole dal ROI, dal tasso medio dei finanziamenti e dal
quoziente d’indebitamento. Il ROE in particolare aumenta con l’aumentare del ROI,
diminuisce con l’aumentare del tasso medio dei finanziamenti, varia a seconda del diverso
rapporto tra il capitale di rischio e capitale di credito. Quando il ROI è maggiore del tasso
di finanziamento all’azienda conviene, in caso di aumento delle dimensioni, fare riscorso al
capitale di credito invece che al capitale di rischio. Più in particolare il ROE sale al di
sopra del ROI con l’aumentare dell’indebitamento, se il ROI è maggiore del tasso dei
finanziamenti (effetto moltiplicatore); il ROE scende al di sotto del ROI con l’aumentare
dell’indebitamento, se il ROI è minore del tasso dei finanziamenti (effetto riduttore). Il
suddetto effetto prende, in linguaggio anglosassone, la denominazione di effetto di
leverage ovvero l’effetto, trasferito dal ROI al ROE, in relazione all’altezza
dell’indebitamento. Si vedrà allora cosa è successo al tasso dei finanziamenti delle imprese
del campione.
3.1.5.5 Il Costo dell’indebitamento
Il costo dell’indebitamento, calcolato come rapporto tra gli oneri finanziari e debiti
finanziari, è pari in media al 7%, in diminuzione rispetto al periodo precedente del 2,3%. Il
tasso rispecchia il valore medio in tutte le classi analizzate e come il trend generale si
riduce dopo l’intervento dell’operatore.
Grafico 3.26
Tasso di finanziamento (%)
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Tasso di finanziamento
9,3%
7,0%
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Tasso di finanziamento (%)
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Tasso di finanziamento - Distribuzione per settore di
appartenenza
11,5%
8,8%
6,2%
8,0%
9,2%
Produzione Commercio Servizi
Pre acquisizione Post acquisizione
8,2%
144

Tale riduzione risulta essere di particolare rilievo nelle imprese soggette a operazioni di
“Expansion” (-2,3%), nelle imprese partecipate da una quota di minoranza (-3%), nelle
operazioni di “Secondary Buy Out” (-3,5%), nelle imprese del Sud (-5,1%), nelle piccole
imprese con fatturato inferiore a 10 mln € (-8,1%) e con meno di 50 dipendenti (-7,3%).
Grafico 3.27
Tasso di finanziamento (%)
Tasso di finanziamento (%)
Tasso di finanziamento (%)
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
Tasso di finanziamento - Distribuzione
per tipologia d'investimento
9,4%
7,3%
8,9% 8,6%
6,2%
6,9%
Buy out Expansion Replacement
Pre acquisizione Post acquisizione
Tasso di finanziamento - Distribuzione per
quota acquisita
10,3%
7,3%
8,7%
50%
Pre acquisizione Post acquisizione
6,7%
Tasso di finanziamento - Distribuzione per classe
di fatturato (mln €)
14%
13,3%
12%
11,2%
10%
8%
8,7%
7,0% 7,3% 7,1%
8,9%
6%
5,2%
4%
2%
0%
Tasso di finanziamento (%)
2 - 10 10 - 50 50 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
Tasso di finanziamento - Distribuzione per deal
12%
10%
11,3%
8,7% 8,8%
origination
10,3%
9,5%
8,6%
8%
6,7% 6,8% 6,6%
6,9%
6%
5,3% 5,6%
4%
2%
0%
Tasso di finanziamento (%)
Local
Parent
Family &
Private
Secondary
B-O
Public to
Private
Foreign
Parent
Pre acquisizione Post acquisizione
Other
Tasso di finanziamento - Distribuzione per
area geografica
12%
10,2%
11,5%
10% 8,8%
8,3%
8%
6%
6,6%
6,4%
4%
2%
0%
Tasso di finanziamento (%)
Nord Centro Sud
Pre acquisizione Post acquisizione
Tasso di finanziamento - Distribuzione per
classe di dipendenti
14%
13,2%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
5,9%
9,1%
6,1%
8,7%
7,9% 7,2% 7,7%
20 - 49 50 - 99 100 - 250 > 250
Pre acquisizione Post acquisizione
145

Il dato medio generale rileva un ROI che si mantiene al di sopra del tasso di finanziamento:
alle aziende del campione converrà pertanto, in caso di aumento delle dimensioni, fare
riscorso al capitale di credito invece che al capitale di rischio al fine di aumentare la
redditività del capitale proprio. Tale circorstanza si conferma, tranne in rarissimi casi, in
tutti i segmenti analizzati.
Per concludere, in merito alla redditività delle imprese del campione dopo l’intervento
dell’operatore di private equity, si può affermare che in media:
− esiste un livello di redditività sul capitale proprio adeguato e pari al 10,4% in
crescita, di quasi 3 punti percentuali, rispetto al periodo precedente;
− la redditività della gestione caratteristica è più che discreta (ROI pari al 13,2%),
anche in considerazione dei tassi di rendimento degli investimenti privi di rischio
che hanno caratterizzato il periodo in esame. Inoltre il ROI, dopo l’intervento
dell’operatore, migliora mediamente del 2,1%;
− la scomposizione del ROI evidenzia che la sua crescita, nel periodo di
permanenza all’interno del portafoglio dell’investitore, è da attribuirsi alla
maggiore redditività delle vendite. Di contro invece le aziende del campione
perdono in produttività, riescono cioè, con il capitale che hanno a disposizione a
produrre un volume di fatturato minore;
− nel periodo precedente l’intervento dell’operatore le imprese riuscivano ad
ottenere capitale di credito pagando in media il tasso del 9,3%. Nel periodo
successivo, il costo del capitale di credito scende al 7%;
− essendo tale tasso, in quasi tutti i segmenti analizzati, inferiore al ROI, le imprese
in esame potrebbero migliorare la redditività del capitale di rischio attraverso
l’aumento del capitale di credito;
− l’intervento dell’operatore apporta quindi, dal punto di vista della redditività,
discreti miglioramenti nelle imprese partecipate. Gli indici di redditività
analizzati crescono in quasi tutti i segmenti analizzati.
146

4. LA PERFORMANCE DELLE IMPRESE PRIVATE
EQUITY BACKED– LA COMPARAZIONE NELLO SPAZIO
4.1 LA COMPARAZIONE NELLO SPAZIO
La finalità della comparazione nello spazio è quella di formulare un giudizio relativo sullo
stato di salute dell’impresa. Il giudizio relativo riguarda la comparazione della
performance di un’impresa con quella di imprese concorrenti o comunque appartenenti
allo stesso settore. Si tratta in altre parole di stabilire se la performance dell’impresa risulta
migliore o peggiore rispetto ai suoi principali competitori. Il giudizio relativo sulla
performance integra e rafforza quello assoluto; ad esempio, se un’impresa risulta molto
indebitata in senso assoluto ma è meno indebitata rispetto alla media delle altre imprese
operanti nello stesso settore, è ovvio che il giudizio sulla performance debba essere rivisto
in senso positivo. Tale comparazione, viene generalmente effettuata confrontando gli indici
dell’impresa da analizzare con:
− gli indici delle principali imprese concorrenti;
− gli indici riferiti alla media del settore di appartenenza.
Il problema però di entrambe le tipologie di comparazione è che per poter utilizzare
proficuamente questi indici di settore è necessaria un’accurata verifica delle loro modalità
di calcolo; in altre parole l’analista dovrà verificare che gli indici di settore siano stati
calcolati utilizzando la stessa metodologia che egli sta utilizzando per la sua analisi. È
ovvio che, nel caso contrario, il confronto perderebbe notevolmente di significatività e
rischierebbe di compromettere i risultati dell’analisi.
4.2 IL CAMPIONE DI CONFRONTO
Per arricchire il giudizio sulla performance delle imprese partecipate da operatori di
private equity, si è deciso quindi di non limitare l’analisi alla sola comparazione nel tempo
ma di proseguire con il confronto nello spazio. Il benchmark di riferimento scelto al fine
di comparare i dati emersi dalla ricerca con l’andamento delle performance di aziende non
147

private equity backed è costituito, come anticipato, dalle imprese analizzate dalla ricerca
“Le medie imprese industriali italiane” svolta dall’Ufficio Studi di Mediobanca, in
collaborazione con il Centro Studi di Unioncamere 118 . Più nel dettaglio, si tratta della nona
edizione dell’indagine annuale sulle medie imprese industriali italiane che riporta le
statistiche economico-finanziarie derivate dalla rielaborazione dei dati desunti dai bilanci
del periodo 1998-2007. L’indagine copre l’universo delle medie imprese industriali
italiane, considerando tali le società di capitale la cui forza lavoro non supera le 499 unità e
il cui volume di vendite non supera i 290 milioni di euro. Nell’indagine sono state censite
inoltre le imprese operanti nel solo comparto manifatturiero (classe C della codifica Ateco
2007) con esclusione delle attività C.19 (fabbricazione di coke e prodotti derivanti dalla
raffinazione del petrolio) 119 .
La scelta del benchmark si è orientata verso questo tipo di indagine per una serie di
ragioni di seguito riportate.
Nonostante il campione di imprese partecipate sia formato da aziende operanti anche nel
commercio e nel terziario, non esiste in Italia un’indagine che contempli i Bilanci di
imprese appartenenti a tutti i settori; inoltre, anche se presente, essa non potrebbe mai
rispettare il peso con cui i diversi settori sono rappresentati nel campione 120 analizzato; si
ritiene inoltre che la comparabilità sia comunque preservata in quanto oltre la metà (60%)
delle imprese afferenti al campione di analisi opera nell’industria.
La comparabilità è preservata anche se si guarda alla composizione dal punto di vista
dimensionale. Il 79% delle imprese del campione presenta, al momento dell’acquisizione,
un numero di dipendenti inferiore a 499 e circa l’85% ricavi inferiori a 290 mln di euro.
La comparabilità è preservata anche se si guarda alla composizione dal punto di vista
geografico. Si ricorda infatti che il 72% delle aziende target che compongono il campione
analizzato si trova al Nord, il 21% al Centro e l’8% al Sud Italia. Nel rapporto
118 [MEDIOBANCA, UNIONCAMERE], 2010.
119 Sulla base degli anzidetti criteri, sono state selezionate 3.453 società per il 1998, 3.598 per il 1999, 3.963
per il 2000, 4.093 per il 2001, 4.088 per il 2002, 4.055 per il 2003, 4.137 per il 2004, 4.196 per il 2005, 4.453
per il 2006 e 4.625 società per il 2007.
120 Industria 60%, Commercio 13%, Servizi 26%.
148

Unioncamere – Mediobanca, il 78% delle imprese è del Nord, il 16% del Centro e il 6%
del Sud; inoltre le Regioni più rappresentate nel rapporto sono la Lombardia (31%), il
Veneto (19%) e l’Emilia Romagna (14%), proprio come per le imprese target (il campione
d’imprese private equity backed è infatti formato da imprese della Lombardia per il 34%,
del Veneto per l’11% e dell’Emilia Romagna per il 9%).
La comparabilità è preservata anche se si guarda all’orizzonte di valutazione. Si ricorda
che per le imprese del campione l’orizzonte di valutazione di tutti gli indicatori di
performance è stato il periodo di permanenza all’interno del portafoglio dell’investitore
ovvero il quadriennio 2004 – 2007 per le imprese acquisite nel 2004 e il 2005 – 2008 per
quelle acquisite nel 2005. L’indagine Unioncamere – Mediobanca contempla invece i dati
economico-finanziari dei Bilanci del periodo 1998-2007. Non è presente quindi l’anno
2008 che invece è stato considerato nella presente analisi. Al fine quindi d’isolare eventuali
effetti di natura congiunturale, gli indicatori di performance delle imprese del campione
sono stati rielaborati in modo da riprodurre le caratteristiche temporali dell’indagine sulle
medie imprese italiane. In particolare dal calcolo degli indicatori di performance è stato
eliminato l’anno 2004 per le imprese acquisite nel 2004 e l’anno 2008 per le imprese
acquisite nel 2005, giungendo quindi a considerare per tutte le imprese, a prescindere
dall’anno in cui sono state acquisite, l’orizzonte di valutazione 2005 – 2007 121 , lo stesso
orizzonte che si andrà ad analizzare per il benchmark. Si precisa inoltre che questi
aggiustamenti hanno prodotto un’influenza limitata sui risultati come si evince dalla
Tabella 4.1 di seguito riportata.
121 Nel triennio 2005 – 2007, tutte le imprese del campione erano presenti nel portafoglio dell’investitore
istituzionale.
149

Tabella 4.1 – Variazioni intervenute negli indicatori di performance a seguito della
variazione dell’orizzonte di valutazione
Anni 2005 - Anni 2004 –
2007 2008 (*)
Variazioni
assolute
Ricavi (CAGR) 10% 9,0% 1,0%
EBITDA (CAGR) 9,9% 9,1% 0,8%
Dipendenti (CAGR) 6,8% 6,4% 0,5%
Quoziente secondario di struttura 1,38 1,41 -0,04
Indice di indebitamento 72,8% 72,9% -0,1%
Indice di indebitamento a breve 0,47 0,47 0,00
Indice di indebitamento finanziario 1,76 1,75 0,01
Indice di Disponibilità 1,27 1,30 -0,03
Quoziente di Tesoreria 0,97 0,99 -0,01
ROE 11,3% 10,6% 0,7%
ROI 12,9% 13,2% -0,3%
ROS 8,3% 8,1% 0,2%
Indice di produttività del capitale investito 1,70 1,63 0,07
Tasso di finanziamento 6,6% 7,0% -0,3%
Fonte: elaborazione propria su dati AIDA
(*) 2004 - 2007 per le imprese acquisite nel 2004; 2005 – 2008 per le imprese acquisite nel 2005
La comparabilità è preservata anche se si guarda alla metodologia di calcolo degli
indicatori di performance. Si ricorda, infatti, che la comparazione nello spazio è
significativa solo se gli indici del benchmark sono calcolati utilizzando la stessa
metodologia utilizzata per il calcolo degli indicatori da confrontare. A questo proposito
quindi non si prenderanno, quale termine di confronto, gli indici così come risultano dal
rapporto Unioncamere – Mediobanca ma si ricalcoleranno utilizzando la stessa
metodologia che abbiamo utilizzato per il campione di analisi partendo dai dati aggregati
di Stato Patrimoniale (Tabella 4.2) e Conto Economico (Tabella 4.4) forniti nel rapporto.
150

Tabella 4.2 – Stato patrimoniale aggregato delle medie imprese in serie storica 2005-
2007 - Valori assoluti (migliaia di Euro)
ITALIA 2005 2006 2007
NUMERO DI IMPRESE 4.196 4.453 4.625
ATTIVITA
CASSA E BANCHE 8.173.857 8.709.994 9.272.875
TITOLI A REDDITO FISSO 1.219.914 1.262.046 1.273.482
DISPONIBILITA' 9.393.771 9.972.040 10.546.357
RIMANENZE ................................(A) 29.327.244 33.323.205 36.063.570
CLIENTI 48.874.621 53.726.694 56.171.662
FONDO SVALUTAZIONE RIMANENZE .............(B) -225.907 -270.838 -292.784
FONDO SVALUTAZIONE CREDITI -1.072.844 -1.077.813 -1.147.717
CIRCOLANTE 76.903.114 85.701.248 90.794.731
ALTRE ATTIVITA' CORRENTI 8.340.875 9.287.876 9.915.255
ATTIVO CORRENTE ..........................(C) 94.637.760 104.961.164 111.256.343
IMMOBILIZZAZIONI MATERIALI LORDE 73.947.566 78.312.879 81.831.158
FONDI DI AMMORTAMENTO -45.881.689 -48.824.577 -51.237.850
IMMOBILIZZAZIONI MATERIALI NETTE 28.065.877 29.488.302 30.593.308
PARTECIPAZIONI NETTE 5.710.894 6.180.749 6.234.443
ALTRE ATTIVITA' A M/L TERMINE 2.059.517 2.144.181 2.153.191
IMMOBILIZZAZIONI IMMATERIALI 4.130.100 4.680.935 5.203.019
ATTIVO IMMOBILIZZATO NETTO ...............(D) 39.966.388 42.494.167 44.183.961
TOTALE ...............................(C + D) 134.604.148 147.455.331 155.440.304
PASSIVITA'
DEBITI FINANZIARI A BREVE V/TERZI 23.894.233 26.718.759 29.367.442
DEBITI FINANZ. A BREVE V/CONSOCIATE 839.876 916.809 707.826
DEBITI FINANZIARI A BREVE TERMINE 24.734.109 27.635.568 30.075.268
FORNITORI E CONSOCIATE 34.013.489 38.420.034 40.357.956
ALTRE PASSIVITA' CORRENTI 12.586.708 13.912.610 14.713.344
PASSIVO CORRENTE .........................(E) 71.334.306 79.968.212 85.146.568
PRESTITI OBBLIGAZIONARI 1.471.976 1.707.948 1.611.305
DEBITI FINANZIARI V/BANCHE A M/L TERMINE 11.658.931 13.075.836 14.436.866
DEBITI FIN. V/CONSOCIATE A M/L TERMINE 590.401 714.310 946.012
ALTRI DEBITI FINANZIARI 1.172.205 1.194.142 1.171.441
DEBITI FINANZIARI A M/L TERMINE 14.893.513 16.692.236 18.165.624
FONDI DEL PERSONALE 5.771.779 6.105.249 5.756.970
FONDO OSCILLAZIONE CAMBI 5.157 0 0
FONDI DIVERSI 2.274.121 2.534.266 2.423.593
TOTALE PASSIVO A M/L TERMINE .............(F) 22.944.570 25.331.751 26.346.187
CAPITALE SOCIALE 13.052.333 13.916.103 14.047.876
RISERVE 24.862.695 25.422.955 26.313.484
RISULTATO D'ESERCIZIO 2.410.244 2.816.310 3.586.189
INTERESSI DI TERZI 0 0 0
CAPITALE NETTO ...........................(G) 40.325.272 42.155.368 43.947.549
TOTALE ...........................(E + F + G) 134.604.148 147.455.331 155.440.304
Fonte: Unioncamere - Mediobanca
151

Tabella 4.3 – Stato Patrimoniale aggregato delle medie imprese riclassificato secondo
il criterio “finanziario”- Valori assoluti (migliaia di Euro)
2005
Impieghi Fonti
Attivo Fisso 39.966.388 Mezzi propri 40.325.272
Attivo Circolante 94.637.760 Passività consolidate 22.944.570
Passività correnti 71.334.306
134.604.148 134.604.148
2006
Impieghi Fonti
Attivo Fisso 42.494.167 Mezzi propri 42.155.368
Attivo Circolante 104.961.164 Passività consolidate 25.331.751
Passività correnti 79.968.212
147.455.331 147.455.331
2007
Impieghi Fonti
Attivo Fisso 44.183.961 Mezzi propri 43.947.549
Attivo Circolante 111.256.343 Passività consolidate 26.346.187
Passività correnti 85.146.568
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere - Mediobanca
155.440.304 155.440.304
152

Tabella 4.4 – Conto economico aggregato delle medie imprese in serie storica 2005-
2007 - Valori assoluti (migliaia di Euro)
ITALIA 2005 2006 2007
NUMERO DI IMPRESE 4.196 4.453 4.625
FATTURATO NETTO 137.984.354 153.292.641 166.250.795
FATTURATO NETTO/AZIENDA 32.885 34.425 35.946
VARIAZIONE DELLE RIMANENZE 1.158.261 3.276.016 3.252.679
COSTI CAPITALIZZATI 1.298.100 1.599.868 1.797.495
ACQUISTI -77.883.899 -89.527.116 -97.450.584
SERVIZI -33.499.225 -36.963.496 -39.476.306
RICAVI DIVERSI OPERATIVI 2.110.535 2.257.556 2.352.726
VALORE AGGIUNTO 31.201.011 33.969.894 36.762.751
COSTO DEL LAVORO -19.462.344 -20.881.256 -22.217.681
MARGINE OPERATIVO LORDO 11.738.667 13.088.638 14.545.070
MARGINE OPERATIVO LORDO/AZIENDA 2.798 2.939 3.145
AMMORTAMENTI TECNICI ORDINARI
AMMORTAMENTI IMMOBILIZZAZIONI
-4.115.257 -4.121.674 -4.157.308
IMMATERIALI -925.540 -956.671 -1.004.183
MARGINE OPERATIVO NETTO 6.697.870 8.010.293 9.383.579
ONERI FINANZIARI SU OBBLIGAZIONI -89.425 -84.079 -99.420
ALTRI ONERI FINANZIARI -1.956.696 -2.383.504 -3.121.339
PROVENTI FINANZIARI 982.687 945.907 996.360
RISULTATO CORRENTE PRIMA DELLE
5.634.436 6.488.617 7.159.180
IMPOSTE
AMMORTAMENTI ANTICIPATI E
DELL'AVVIAMENTO -170.589 -191.066 -220.138
ONERI FINANZIARI CAPITALIZZATI
MINUS.SU REALIZZI E PERDITE SU
0 0 0
PARTECIPAZIONI -83.760 -74.494 -48.930
PLUSVALENZE SU REALIZZI 508.951 610.252 570.709
RIVALUTAZIONI E SVALUTAZIONI -124.448 19.668 -550
PROVENTI E ONERI DIVERSI STRAORDINARI 85.786 44.769 168.978
MOVIMENTI DELLE RISERVE -153.857 -212.774 -152.724
RISULTATO D'ESERCIZIO PRIMA DELLE
5.696.519 6.684.972 7.476.525
IMPOSTE
IMPOSTE SUL REDDITO -3.253.390 -3.834.237 -3.854.390
RISULTATO D'ESERCIZIO 2.443.129 2.850.735 3.622.135
NUMERO DIPENDENTI 521.518 544.640 562.289
NUMERO DIPENDENTI/AZIENDA 124 122 122
Fonte: Unioncamere - Mediobanca
In base quindi ai dati aggregati di Stato Patrimoniale e Conto Economico sopra riportati, si
sono monitorati gli stessi indicatori di performance analizzati per il campione di imprese ,
ovvero:
− Ricavi delle vendite (Fatturato netto);
153

− Numero dipendenti;
− Margine Operativo Lordo;
− ROE: calcolato come rapporto tra “Risultato d’esercizio” (Conto Economico -
Tabella 4.4) e “Mezzi propri” (Stato Patrimoniale Riclassificato - Tabella 4.3);
− ROI: calcolato come rapporto tra “Margine operativo Lordo” (Conto Economico -
Tabella 4.4) e Capitale Investito (somma delle voci “Debiti Finanziari a breve
termine”, “Debiti Finanziari a m/l termine”, “Capitale Netto” dello Stato
Patrimoniale - Tabella 4.2);
− ROS: calcolato come rapporto tra “Margine operativo Lordo” e “Fatturato netto”
(Conto Economico - Tabella 4.4);
− Indice di produttività del capitale investito: calcolato come rapporto tra “Fatturato
netto” (Conto Economico - Tabella 4.4) e Capitale Investito (somma delle voci
“Debiti Finanziari a breve termine”, “Debiti Finanziari a m/l termine”, “Capitale
Netto” dello Stato Patrimoniale - Tabella 4.2);
− Tasso di finanziamento: calcolato come rapporto tra la somma delle voci “Oneri
Finanziari su Obbligazioni” e “Altri Oneri Finanziari” (Conto Economico - Tabella
4.4) e la somma delle voci “Debiti Finanziari a breve termine” e “Debiti Finanziari
a m/l termine” (Stato Patrimoniale – Tabella 4.2);
− Indice di indebitamento/Indice di dipendenza finanziaria: calcolato come rapporto
tra la somma delle voci “Passività correnti” e “Passività consolidate” e il “Totale
Passivo” (Stato Patrimoniale riclassificato - Tabella 4.3);
− Indice di indebitamento a breve termine: calcolato come rapporto tra “Passività
correnti” e “Totale Passivo” (Stato Patrimoniale riclassificato - Tabella 4.3);
− Indice di indebitamento finanziario: calcolato come rapporto tra la somma delle
voci “Debiti Finanziari a breve termine”, “Debiti Finanziari a m/l termine” e
“Capitale netto” (Stato Patrimoniale - Tabella 4.2);
− Quoziente secondario di struttura: calcolato come rapporto tra la somma delle voci
“Mezzi Propri” e “Passività consolidate” e l’“Attivo Fisso” (Stato Patrimoniale
riclassificato - Tabella 4.3);
− Indice di disponibilità: calcolato come rapporto tra “Attivo circolante” e “Passività
correnti” (Stato Patrimoniale riclassificato - Tabella 4.3);
154

− Quoziente di tesoreria: calcolato come rapporto tra la differenza tra le voci “Attivo
circolante” (Stato Patrimoniale riclassificato - Tabella 4.3) e “Rimanenze” (Conto
Economico, Tabella 4.4) e le “Passività correnti” (Stato Patrimoniale riclassificato -
Tabella 4.3).
In particolare, per le prime tre variabili indicate, così come fatto per il campione d’imprese
target, sarà calcolato il tasso annuo di crescita composto (CAGR) intercorso tra il 2005 e il
2007. Si precisa che, trattandosi di dati aggregati che afferiscono a un numero di imprese
che varia di anno in anno, il tasso di crescita è stato calcolato non sul dato aggregato ma
sul valore medio unitario ovvero la variazione intervenuta nelle grandezze “Fatturato
netto/azienda”, “Margine Operativo Lordo/azienda”, “Numero Dipendenti/azienda”
riportate nello schema di Conto Economico, Tabella 4.4. Per le grandezze invece già
espresse in termini relativi (tutti gli indici) sarà calcolato ancora una volta il valore medio
assunto dai vari indicatori nel triennio di valutazione. Si precisa che, a differenza di quanto
fatto per il campione, composto per tutti gli anni di valutazione dallo stesso numero
d’aziende (53), nel caso delle medie imprese italiane la numerosità del campione, come già
ricordato, varia negli anni (4.196 per il 2005, 4.453 per il 2006 e 4.625 società per il 2007).
Non si è potuto quindi procedere al semplice calcolo della media aritmetica ma si è dovuto
optare per la media ponderata. Il valore medio sarà allora uguale alla media ponderata dei
valori assunti dagli indicatori nei diversi anni di valutazione (2005, 2006, 2007),
assumendo come pesi le frequenze 4.196, 4.453 e 4.625 (numerosità delle aziende).
Si riportano di seguito i risultati ottenuti (Tabella 4.5) rimandando ai paragrafi successivi
l’analisi di dettaglio.
155

Tabella 4.5 – Indicatori di performance - Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 – 2007
Indicatori di performance - Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) - Anni 2005 - 2007
2005 2006 2007 Media
Ricavi (CAGR) 4,6% n.a.
EBITDA (CAGR) 6,0% n.a.
Dipendenti (CAGR) -1,1% n.a.
Quoziente secondario di struttura 1,58 1,59 1,59 1,59
Indice di indebitamento 70,0% 71,4% 71,7% 71,1%
Indice di indebitamento a breve 0,53 0,54 0,55 0,54
Indice di indebitamento finanziario 0,98 1,05 1,10 1,04
Indice di Disponibilità 1,33 1,31 1,31 1,32
Quoziente di Tesoreria 0,92 0,90 0,88 0,90
ROE 6,1% 6,8% 8,2% 7,0%
ROI 14,7% 15,1% 15,8% 15,2%
ROS 8,5% 8,5% 8,7% 8,6%
Indice di produttività del capitale investito 1,73 1,77 1,80 1,77
Tasso di finanziamento 5,2% 5,6% 6,7% 5,8%
Indicatori di performance - Imprese private equity backed –
Anni 2005 - 2007
2005 2006 2007 Media
Ricavi (CAGR) 10,0% n.a.
EBITDA (CAGR) 9,9% n.a.
Dipendenti (CAGR) 6,8% n.a.
Quoziente secondario di struttura 1,53 1,29 1,31 1,38
Indice di indebitamento 70,8% 73,9% 73,6% 72,8%
Indice di indebitamento a breve 0,50 0,48 0,45 0,47
Indice di indebitamento finanziario 1,57 1,82 1,89 1,76
Indice di Disponibilità 1,31 1,24 1,25 1,27
Quoziente di Tesoreria 1,05 0,92 0,95 0,97
ROE 10,4% 11,0% 12,6% 11,3%
ROI 13,1% 12,8% 12,8% 12,9%
ROS 7,5% 8,0% 9,5% 8,3%
Indice di produttività del capitale investito 1,74 1,75 1,61 1,70
Tasso di finanziamento 5,8% 6,0% 8,0% 6,6%
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
156

4.3 L’ANALISI DEL FATTURATO, OCCUPAZIONE ED EBITDA
Per quanto riguarda il fatturato si evidenzia, per le imprese target, un incremento medio
annuo di circa il 10,0% . Tale tasso di crescita è di circa 2,2 volte superiore a quello
relativo al campione di riferimento delle medie imprese italiane, pari al 4,6%.
Grafico 4.1 – Ricavi delle vendite – Tasso di crescita annuo composto - Medie
imprese industriali italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity
backed - Anni 2005 - 2007
CAGR (%)
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
4,6%
10,0%
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
Complessivamente, nel periodo 2005 – 2007, le aziende oggetto di investimenti di private
equity hanno realizzato una buona crescita del Margine Operativo Lordo quantificabile nel
9,9% annuo, a fronte di un tasso del 6%, rilevato dal campione delle medie imprese, con
riguardo al medesimo parametro.
157

Grafico 4.2 – EBITDA – Tasso di crescita annuo composto - Medie imprese
industriali italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed -
Anni 2005 - 2007
CAGR (%)
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
6,0%
9,9%
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
Il numero di persone impiegate nelle aziende oggetto di operazioni di private equity è
aumentato, nel periodo analizzato, in media del 6,8% annuo. Nel medesimo orizzonte
temporale, il campione oggetto di confronto costituito dalle medie imprese italiane, ha fatto
registrate un incremento dello stesso indicatore negativo e pari al -1,1% annuo.
Grafico 4.3 – Occupazione – Tasso di crescita annuo composto - Medie imprese
industriali italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed -
Anni 2005 - 2007
CAGR (%)
8%
6%
4%
2%
0%
-2%
-1,1%
6,8%
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
Il contributo all’occupazione ed alla crescita economica derivante da operazioni di private
equity è quindi superiore a quello offerto dalle imprese italiane industriali di media
dimensione. In generale, le aziende oggetto di investimenti nel capitale di rischio incluse
nel campione considerato, hanno incrementato il numero di dipendenti con una velocità
158

maggiore di altre aziende italiane di dimensioni similari. Si ricorda inoltre che nel periodo
considerato, il numero di persone impiegate in Italia da aziende finanziate da private equity
è cresciuto del 6,8% all’anno, contro una media nazionale di crescita dell’occupazione
dell’1,1% 122 . Un’analisi comparativa tra l’andamento dell’occupazione nazionale, delle
medie imprese industriali ed il CAGR riferito al numero dei dipendenti nelle operazioni di
private equity è riportata nel grafico sottostante.
Grafico 4.4
CAGR (%)
Andamento dell’occupazione in Italia vs
crescita del personale in PE e medie imprese
(Anni 2005 - 2007)
8%
6%
4%
2%
0%
6,8%
1,1%
2005 2006 2007
-2%
Private equity backed
Crescita occupazionale in Italia
Medie imprese industriali italiane
-1,1%
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA, ISTAT
La crescita è coerente anche nella generazione dei ricavi e del Margine Operativo Lordo.
Le società incluse nel campione hanno incrementato i ricavi, nel periodo analizzato, in
media del 10%. Un confronto tra il Prodotto Interno Lordo italiano 123 , il CAGR dei ricavi
registrato nelle operazioni di private equity e nelle medie imprese italiane, è fornita nel
grafico sottostante.
122
Gli occupati totali in Italia erano 24.395.800 nel 2005, 24.874.100 nel 2006, 25.183.500 nel 2007, ISTAT,
2010.
123
Il PIL italiano, alla fine del IV trimestre 2005 era pari a 312.941 mln €, del 2006 a 321.518 mln €, del
2007 a 321.541 mln €. Il tasso di crescita annuo composto del PIL è stato quindi nel triennio 2005 – 2007,
pari allo 0,9%, ISTAT, Conti economici trimestrali, vari anni.
159

Grafico 4.5
CAGR (%)
PIL italiano vs tasso medio crescita ricavi PE
e medie imprese (Anni 2005 - 2007)
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
2005 2006 2007
Private equity backed
PIL
Medie imprese industriali italiane
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA, ISTAT
10,0%
In conclusione, le aziende partecipate da investitori istituzionali sono cresciute con una
velocità maggiore delle altre aziende, evidenziando performance dei principali indicatori
aziendali superiori a quelle del mercato.
4.4 LA COMPARAZIONE NELLO SPAZIO: LA SOLIDITA’ E LA LIQUIDITA’
Le imprese del campione presentano un quoziente secondario di struttura inferiore rispetto
a quanto riscontrato per le medie imprese industriali italiane nello stesso periodo di
osservazione (Grafico 4.6). In particolare, l’indice si presenta inferiore durante tutto il
periodo di analisi anche se, come già ampiamente descritto nel capitolo precedente, i suoi
valori sono comunque da considerarsi buoni in quanto sensibilmente superiori all’unità.
Nonostante quindi il quoziente presenti in media un valore inferiore, il grado di copertura
delle immobilizzazioni risulta anche per le imprese partecipate da operatori di private
equity assolutamente adeguato. Ed è forse anzi da sottolineare che non presenti, a
differenza delle medie imprese del benchmark, valori eccessivamente elevati indicativi di
4,6%
0,9%
una struttura delle fonti troppo rigida rispetto all’elasticità degli impieghi.
160

Grafico 4.6 – Quoziente secondario di struttura – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
Quoziente secondario di struttura
1,8
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
1,58 1,59 1,59 1,59
1,53
1,29
1,31
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
Il secondo profilo di analisi della solidità patrimoniale riguarda la struttura dei
finanziamenti. La solidità patrimoniale è infatti tanto più elevata quanto più la struttura dei
finanziamenti è composta da fonti che non generano una dipendenza dell’azienda da terzi
nelle scelte di gestione. Per confrontare la struttura dei finanziamenti delle imprese del
campione con il benchmark, ci si avvarrà, anche in questo caso, di tre indicatori già
ampiamente descritti nel capitolo precedente:
− l’indice di indebitamento (indice di dipendenza finanziaria);
− l’indice d’indebitamento a breve;
− il rapporto mezzi di terzi/mezzi propri.
Sotto il profilo della dipendenza finanziaria, si ricorda che le imprese del campione
presentano, nel periodo di osservazione, un indice di indebitamento complessivo piuttosto
elevato che supera però di poco quanto riscontrato per le medie imprese italiane (Grafico
4.7).
1,38
161

Grafico 4.7 – Indice di indebitamento – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
Indice di indebitamento (%)
100%
80%
60%
40%
20%
0%
70,0% 70,8% 71,4% 73,9% 71,7% 73,6% 71,1% 72,8%
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
La situazione migliora se si prende in considerazione la sua composizione dal punto di
vista della durata. Le imprese target presentano una quota inferiore di debiti a breve
rispetto a quanto riscontrato per il benchmark.
Grafico 4.8 – Indice di indebitamento a breve – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
Indice di indebitamento a breve
0,6
0,5
0,4
0,3
0,2
0,1
0,0
0,53 0,54 0,55 0,54
0,50
0,48
0,45
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
Da ultimo, per quanto concerne il quoziente d’indebitamento finanziario, si ricorda che le
imprese del campione si caratterizzano per un valore medio elevato che supera di molto
l’unità (1,76, nel triennio 2005 - 2007). Come era quindi lecito attendersi, tale valore
risulta superiore a quanto riscontrato per le imprese mai entrate in contatto con l’investitore
0,47
162

istituzionale. Il livello d’indebitamento finanziario delle medie imprese calcolato sulla base
dei bilanci aggregati redatti da Unioncamere e Mediobanca, è pari solo a 1,05.
Grafico 4.9 – Indice di indebitamento finanziario – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
Indice di indebitamento finanziario
2,0
1,8
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
0,98
1,57
1,82
1,89
1,05 1,10 1,05
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
In conclusione, dal confronto delle imprese target rispetto alle imprese che non sono mai
entrate in contatto con l’investitore istituzionale, è possibile affermare che:
− esiste un’ottima correlazione tra impieghi e fonti comprovata da un quoziente
secondario di struttura pari a 1,38. Anche se inferiore rispetto a quanto riscontrato
per le imprese non private equity backed, tale circostanza non va letta in modo
negativo ma deve anzi essere considerata positiva perché indica che le fonti di
finanziamento non sono troppo rigide rispetto agli impieghi;
− esiste un livello d’indebitamento complessivo piuttosto elevato (72,9%) che
supera però di pochissimo (1,7%) il livello d’indebitamento delle medie imprese
italiane. Le imprese del campione presentano inoltre una quota di debiti a breve
inferiore rispetto alla media del benchmark. Meno rassicuranti, dal punto di vista
della solidità patrimoniale, sono invece i risultati dell’analisi del quoziente di
indebitamento finanziario che rilevano un valore medio che supera di gran lunga
il livello riscontrato per le medie imprese. Come già anticipato nel precedente
capitolo questo livello d’indebitamento finanziario è però piuttosto insito in tale
tipologia di operazioni ed in particolare nelle operazioni di buy out, per le quali,
si ricorre molto spesso all’utilizzo della leva finanziaria.
1,76
163

Passando all’analisi della liquidità, le imprese del campione presentano in media un valore
dell’indice di disponibilità adeguato che non si distanzia molto da quanto emerso
dall’analisi dello Stato Patrimoniale aggregato delle medie imprese italiane.
Grafico 4.10 – Indice di disponibilità – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
Indice di disponibilità
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
1,33 1,31 1,31 1,31
1,31
1,24 1,25 1,27
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
Lo stesso discorso vale per il quoziente di tesoreria. Le imprese private equity backed
presentano in media un valore di poco superiore a quanto riscontrato per le aziende che
non sono mai entrate in contatto con l’investitore istituzionale (Grafico 4.11), il che
significa che presentano una minore dipendenza rispetto alla capacità del magazzino di
ritornare in forma liquida per l’estinzione delle passività correnti.
Grafico 4.11 – Quoziente di tesoreria – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
Quoziente di tesoreria
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
1,05
0,92 0,90 0,92
0,88
0,95
0,90
0,97
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
164

È possibile quindi concludere affermando che non si riscontrano differenze sostanziali, dal
punto di vista della solvibilità, tra imprese partecipate da investitori istituzionali e imprese
che invece non ne sono mai entrate in contatto. Per entrambi i campioni d’imprese, infatti,
esiste una buona correlazione tra impieghi e fonti a breve termine e un equilibrio
finanziario di breve termine che non dipende dalla capacità del magazzino di trasformarsi
in liquidità. L’intervento dell’investitore istituzionale, come si è già avuto modo di
osservare nel precedente capitolo, non migliora, né peggiora la solvibilità delle imprese
partecipate che presentano quindi indicatori di liquidità sostanzialmente identici a quelli
presentati da imprese mai entrati in contatto con tale tipologia d’investitori.
4.5 LA COMPARAZIONE NELLO SPAZIO: LA REDDITIVITA’
Il primo profilo di analisi per quanto concerne la redditività è il ROE. L’analisi dei dati del
campione mostra, nel periodo di permanenza all’interno del portafoglio dell’investitore
(triennio 2005 – 2007) un livello di redditività del capitale proprio adeguato e pari al
11,3%. Tale valore è maggiore rispetto a quanto riscontrato per le medie imprese italiane di
oltre 4 punti percentuali, in tutti gli anni di osservazione.
Grafico 4.12 – ROE – Medie imprese industriali italiane (Unioncamere -
Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
ROE (%)
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
6,1%
10,4%
6,8%
11,0%
8,2%
12,6%
7,1%
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
11,3%
165

Un’analisi comparativa tra il rendimento (lordo) dei BOT annuali, la redditività del
capitale di rischio delle medie imprese industriali ed il ROE riferito alle imprese del
campione è riportata nel grafico sottostante.
Grafico 4.13
Tasso di rendimento BOT annuali vs ROE PE
e medie imprese (Anni 2005 - 2007)
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
10,4%
6,1%
2,2%
11,0%
6,8%
3,3%
2005 2006 2007
12,6%
8,2%
4,1%
Private equity backed (ROE)
BOT (Tassi di rendimento lordo)
Medie imprese industriali italiane (ROE)
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA, Banca d’Italia
La situazione invece si ribalta se si guarda alla redditività del capitale investito. L’indice
ROI, che per le imprese del campione si è attestato, nel triennio di osservazione, intorno al
13%, è inferiore a quanto riscontrato per le medie imprese industriali italiane di circa 2
punti percentuali.
Grafico 4.14 – ROI – Medie imprese industriali italiane (Unioncamere - Mediobanca)
vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
ROI (%)
20%
18%
16%
14%
12%
10%
8%
6%
4%
2%
0%
14,7%
15,1%
15,8%
15,2%
13,1% 12,8% 12,8% 12,9%
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
166

Non si riscontrano invece grosse di differenze per quanto concerne la redditività delle
vendite e l’indice di rotazione del Capitale investito. Entrambi infatti, per le imprese
private equity backed risultano essere, coerentemente con l’andamento del ROI, di poco
inferiori rispetto a quanto rilevato per il benchmark.
Grafico 4.15 – ROS – Medie imprese industriali italiane (Unioncamere -
Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
ROS (%)
10%
8%
6%
4%
2%
0%
9,5%
8,5%
7,5%
8,5%
8,0%
8,7% 8,6%
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
Grafico 4.16 – Indice di produttività del capitale investito – Medie imprese
industriali italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed -
Anni 2005 - 2007
Indice di produttività del capitale investito
2,0
1,8
1,6
1,4
1,2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
0,0
1,73 1,74 1,77 1,75 1,80 1,77
1,61
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
Da monitorare infine, come già fatto nell’analisi di comparazione nel tempo, l’andamento
del tasso dei finanziamenti. Le imprese target presentano un costo dell’indebitamento
(6,6%) di poco superiore rispetto a quanto riscontrato per le medie imprese industriali
8,3%
1,70
167

(5,8%). Tale andamento rispecchia probabilmente la loro maggiore rischiosità dovuta
presumibilmente alla maggiore incidenza dei debiti finanziari rispetto al capitale proprio.
Grafico 4.17 – Tasso di finanziamento – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
Tasso di finanziamento (%)
10%
8%
6%
4%
2%
0%
5,2%
5,8%
5,6%
6,0%
6,7%
8,0%
5,8%
2005 2006 2007 Media
Benchmark - imprese "Unioncamere"
Imprese private equity backed
Fonte: elaborazione propria su dati Unioncamere – Mediobanca, AIDA
In merito quindi alla redditività delle imprese target rispetto a quante non sono mai entrate
in contatto con l’investitore istituzionale, si può concludere affermando che:
− la redditività del capitale proprio è adeguata e maggiore, di circa 4 punti
percentuali, rispetto alle medie imprese italiane;
− la redditività della gestione caratteristica è discreta (ROI pari al 12,9%), ma
inferiore rispetto a quanto rilevato per le imprese del benchmark di circa 2 punti
percentuali;
− la scomposizione del ROI evidenzia che tale valore, inferiore rispetto a quanto
riscontrato per le medie imprese industriali, è da attribuirsi tanto alla minore
redditività delle vendite quanto alla minore produttività del capitale investito;
− le imprese del campione ottengono capitale di credito pagando un tasso di poco
superiore alle imprese del benchmark;
− l’intervento dell’operatore non apporta quindi grossi stravolgimenti nella
redditività nelle imprese target; tali imprese presentano indicatori di redditività
che non si discostano molto da quanto è possibile riscontrare per le imprese che
non sono mai entrate in contatto con l’investitore istituzionale.
6,6%
168

CONCLUSIONI
Il lavoro ha inteso esaminare le performance conseguite dalle imprese italiane partecipate
da operatori di private equity. L’analisi si è sviluppata su un campione di 53 imprese che
sono state oggetto di operazioni d’investimento negli anni 2004 e 2005, con esclusione
delle operazione volte a finanziare le fasi di avvio di nuove imprese. La composizione del
campione in termini di tipologia d’investimento, area geografica, settore di attività e classe
dimensionale delle aziende target, ha rispettato le caratteristiche riscontrate per il mercato
italiano del private equity nel suo complesso.
Gli aspetti fondamentali indagati riguardano:
– “lo stato di salute” delle imprese target, nel periodo di permanenza all’interno del
portafoglio dell’investitore, analizzato dal punto di vista della crescita, redditività,
solidità e liquidità;
– le variazioni intervenute negli indicatori di performance rispetto al periodo
precedente l’intervento, nella compagine azionaria dell’impresa, dell’investitore
istituzionale;
– le differenze, in termini di crescita, redditività, solidità e liquidità, riscontrate tra
il campione di imprese partecipate e un campione d’imprese mai entrate in
contatto con l’investitore istituzionale (Medie imprese industriali italiane –
Indagine Unioncamere e Mediobanca, 2009).
Per quanto riguarda la crescita, gli indicatori analizzati sono stati i tassi di crescita annui
composti (CAGR) intervenuti nell’holding period, nelle grandezze Ricavi, EBITDA e
dipendenti. In particolare, l’analisi ha mostrato che le imprese private equity backed
riescono ad accelerare il loro processo di sviluppo e, al tempo stesso, a migliorare i
principali indicatori di performance, che risultano essere superiori a quelli fatti registrare
dalle stesse imprese nel periodo precedente l’acquisizione. In particolare, il tasso di
crescita medio annuo del fatturato passa dal 6,7%, relativo al periodo precedente
l’operazione, al 9% del post acquisizione; il tasso di crescita dell’EBITDA passa dal 6% al
9,2% e il tasso di crescita degli occupati dal 2,5% al 6,4%; circa il 70% delle imprese
target sovraperforma rispetto al periodo precedente in termini di crescita dei Ricavi e
169

Dipendenti e circa l’80% realizza tassi di crescita dell’EBITDA superiori rispetto al
periodo precedente. Performance superiori sono inoltre riscontrabili anche nel confronto
con le imprese che non sono mai entrate in contatto con investitori istituzionali e con
l’andamento delle principali variabili macroeconomiche e, più in particolare, l’analisi ha
rilevato un incremento medio annuo dei ricavi del 10% delle imprese target contro il 4,6%
del benchmark e lo 0,9% del PIL; una crescita dell’EBITDA del 9,9% a fronte di un tasso
del 6%, evidenziato dal campione delle medie imprese; un CAGR del 6,8% di crescita
dell’occupazione contro il -1,1% delle medie imprese e l’1,1% di media nazionale. La
segmentazione del campione in classi di osservazione ha consentito di rilevare inoltre che
un impulso maggiore alla crescita è riscontrabile nelle imprese oggetto di operazione di
expansion rispetto ai buy out, nelle piccole e grandi imprese rispetto alle medie, nelle
imprese del Nord e del Sud rispetto a quelle del Centro, nelle imprese attive nell’industria e
nel commercio rispetto alle imprese attive nel terziario per le quali, invece, si rileva
addirittura una controtendenza.
La solidità è stata monitorata attraverso il calcolo dei valori medi registrati dalle imprese
target nell’holding period, del quoziente secondario di struttura, indice di indebitamento,
indice d’indebitamento a breve e indice di indebitamento finanziario. I risultati ottenuti
dall’analisi suggeriscono che esiste un’ottima correlazione tra impieghi e fonti dimostrata
da un quoziente secondario di struttura pari a 1,41. Il dato è in leggera diminuzione rispetto
al periodo precedente (circostanza non necessariamente negativa: quozienti di struttura
troppo elevati rischiano di far incorrere le imprese nella situazione opposta rispetto al
rischio di solidità ovvero in una situazione in cui le fonti di finanziamento sono troppo
consolidate rispetto a impieghi sostanzialmente elastici); esiste un livello d’indebitamento
complessivo piuttosto elevato (72,9%) in leggera crescita rispetto al periodo precedente
(+1,9%), incremento probabilmente dovuto all’aumento dei debiti finanziari. L’analisi
infatti del quoziente di indebitamento finanziario mostra un valore medio che supera di
gran lunga l’unità (1,75), in aumento con l’entrata nella compagine azionaria
dell’investitore istituzionale di 0,4. Tale dato ha subito molto probabilmente l’influenza del
forte peso percentuale, sul totale, delle operazioni di buy out (68%) per le quali si ricorre
molto spesso all’utilizzo della leva finanziaria (il livello d’indebitamento finanziario passa
infatti per queste imprese, a seguito dell’intervento dell’operatore, da una media di 1,3 a
170

1,9 circa). I risultati evidenziati dal confronto temporale sono confermati anche dal
confronto nello spazio (imprese che non sono mai entrate in contatto con l’investitore
istituzionale): il quoziente secondario di struttura è inferiore rispetto a quanto riscontrato
per le imprese del benchmark e il livello d’indebitamento (72,9%) supera di pochissimo
(1,7%) il livello d’indebitamento delle medie imprese italiane. Meno rassicurante, dal
punto di vista della solidità patrimoniale, è invece il dato relativo al quoziente di
indebitamento finanziario che supera di gran lunga il livello riscontrato per le medie
imprese. Dall’analisi per segmenti emerge come l’intervento dell’operatore apporti
sensibili miglioramenti nelle imprese del meridione, per le quali si evidenzia un
miglioramento della correlazione tra fonti e impieghi a medio lungo termine e
un’apprezzabile riduzione dell’indice d’indebitamento complessivo e finanziario.
Relativamente all’analisi della liquidità, l’indagine si è focalizzata sul monitoraggio di due
indicatori principali: l’indice di disponibilità e il quoziente di tesoreria. I risultati emersi
indicano che, nell’holding period, le imprese target mantengono una buona correlazione
tra impieghi e fonti a breve termine, dimostrata da un indice di disponibilità pari a 1,30;
l’equilibrio finanziario di breve termine, inoltre, non dipende dalla capacità del magazzino
di trasformarsi in liquidità (quoziente di tesoreria pari a 0,99). Entrambe queste situazioni
favorevoli non derivano dall’intervento dell’operatore: le imprese target arrivano nelle
mani dell’investitore già con un buon equilibrio finanziario di breve periodo e gli indicatori
monitorati subiscono, dopo l’intervento dell’operatore, variazioni di entità ridotta in quasi
tutti i segmenti analizzati. Questa circostanza è confermata anche dal confronto con le
medie imprese italiane. Non si riscontrano infatti differenze sostanziali, dal punto di vista
della solvibilità, tra le imprese partecipate da investitori istituzionali e imprese che invece
non ne sono mai entrate in contatto (gli indicatori di liquidità sono sostanzialmente identici
in entrambi i campioni messi a confronto).
Infine, per quanto riguarda la redditività, l’analisi condotta attraverso il monitoraggio delle
variazioni intervenute negli indici ROE, ROI, ROS e nell’Indice di Produttività del
Capitale Investito suggerisce che le imprese target raggiungono un livello di redditività sul
capitale proprio adeguato (10,4%) in crescita, di quasi 3 punti percentuali, rispetto al
periodo precedente; il ROE inoltre è di circa 4 punti percentuali superiore a quello
171

iscontrato per le imprese del benchmark. La redditività della gestione caratteristica è più
che discreta (ROI pari al 13,2%), anche in considerazione dei tassi di rendimento degli
investimenti privi di rischio che hanno caratterizzato il periodo in esame. Il ROI, dopo
l’intervento dell’operatore, migliora del 2,1% ma, nonostante la crescita, è inferiore
rispetto a quanto rilevato per le medie imprese industriali italiane. La sua scomposizione
inoltre evidenzia che, nell’holding period, la sua crescita, rispetto al periodo precedente, è
da attribuirsi alla maggiore redditività delle vendite. Di contro invece, dopo l’intervento
dell’operatore, le aziende del campione perdono in produttività, riescono cioè, con il
capitale che hanno a disposizione, a produrre un volume di fatturato minore. L’analisi per
classi di osservazione evidenzia, infine, una maggiore crescita degli indici di redditività nel
segmento expansion, rispetto al buy out, nelle imprese del Nord e nelle imprese di piccole
e grandi dimensioni rispetto alle medie. In ogni caso, l’intervento dell’operatore non
determina grossi stravolgimenti nella redditività delle imprese target; i valori assunti da
quasi tutti gli indicatori, infatti, non si discostano molto nè da quelli calcolati nel periodo
precedente l’ingresso dell’investitore nella compagine azionaria, nè da quelli riscontrati per
le imprese che non sono mai entrate in contatto con l’investitore istituzionale.
172

ALLEGATO I – Dati di dettaglio – Campione analizzato
N Target
company
1 Allison
2 Angelo
Randazzo
3 Avip
4 Bbi Electric
5 Beltrame
Lead
Investor/
Advisor
Paladin
Capital
Partners
MCC-
Sofipa SGR
Advent
Internationa
l
Kairos
Partners
SGR
Palladio
Finanziaria
Acquired
stake (%)
Investment
stage
Deal
origination
Geographical
area (by
Region)
100% Buy out Local Parent Veneto
13% Expansion
80% Buy out
n.d. Expansion
10% Expansion
Family &
Private
Family &
Private
Family &
Private
Family &
Private
Sicilia
Piemonte
Lombardia
Veneto
Sector 1°
level
Consumer
goods
Retail and
wholesale
trade
Media
and
communic
ation
Industrial
products
Industrial
products
Sector (SIC code)
Measuring,
analyzing and
controlling
instruments;
photographic,
medical and optical
goods; watches and
clocks
manufacturing
Miscellaneous retail
Communications
Electronic and other
electrical equipment
and components,
except computer
equipment
Fabricated metal
products, except
machinery and
transportation
equipment
Detailed activity
description
Production and
distribution of
luxury eyewear
Optical components
and
photography/cinema
tographic materials
retail
Outdoc advertising
group
Production of
busbar trunking
systems
Manufacture of both
merchant bars for
general industrial
use and of special
sections for the
shipbuilding and
earth moving
sectors
N.
dipendenti
Fatturato
€ mln
Anno
investimento
n.d. 67 2004
740 140 2004
250 n.d. 2004
40 4,8 2005
2000 846 2004

N Target
company
6 Bianchi
Vending
7 Blumen
8 Buffetti
9
Byte
Software
House
10 Cesare
Fiorucci
11 Co.Import
Lead
Investor/
Advisor
ABN Amro
Capital
Arca
Impresa
Gestioni
SGR
Palladio
Finanziaria
MCC
Sofipa SGR
Vestar
Capital
Partners
Net Partners
Ventures
Acquired
stake (%)
Investment
stage
60% Buy out
98% Buy out
Deal
origination
Secondary
B-O
Secondary
B-O
Geographical
area (by
Region)
Lombardia
Emilia
Romagna
49% Buy out Local Parent Lazio
Sector 1°
level
Industrial
products
Consumer
goods
Retail and
wholesale
trade
72% Buy out Local Parent Piemonte ICT ICT
75% Buy out
20% Expansion
12 Coin PAI 63% Buy out
13 Comdata
Industria e
Finanza
SGR
20% Expansion
Family &
Private
Family &
Private
Family &
Private
Family &
Private
Lazio
Liguria
Veneto
Food and
beverage
Retail and
wholesale
trade
Retail and
wholesale
trade
Piemonte ICT ICT
Sector (SIC code)
Industrial and
commercial
machinery and
computer
equipment
Food and kindred
products
Miscellaneous retail
Food and kindred
products
Miscellaneous retail
Detailed activity
description
Production of
automatic vending
machines
N.
dipendenti
Fatturato
€ mln
Anno
investimento
500 53 2005
Production of seeds 43 14,3 2005
Distribution of
office products
Human resources
management
solutions
Production of
gastronomic
delicacies like
hams, salamis and
cheese
Retail chain of
house accessories
194 126,7 2005
482 51 2005
1200 359,6 2005
64 14 2004
Miscellaneous retail Department stores 6023 1072,9 2005
Business process
outsourcing
276 46 2004
174

N Target
company
14 De Fonseca
15 Delta Med
16 Edizioni
Master
17 Eltra
18 Emmegi
Detergents
19 EMU Group
20 Eulip
21 Euphon
Lead
Investor/
Advisor
Efibanca
Palladio
Finanziaria
SGR
Natexis-
Cape SGR
MPS
Venture
SGR
Natexis-
Cape SGR
Industria e
Finanza
SGR
L Capital
Managemen
t
MPS
Venture
SGR
BS Private
Equity SGR
Acquired
stake (%)
Investment
stage
82% Buy out
73% Buy out
12% Expansion
28% Expansion
68% Buy out
75% Buy out
100% Buy out
41% Buy out
Deal
origination
Secondary
B-O
Family &
Private
Family &
Private
Family &
Private
Secondary
B-O
Family &
Private
Family &
Private
Public to
Private
Geographical
area (by
Region)
Piemonte
Lombardia
Calabria
Veneto
Lombardia
Umbria
Emilia
Romagna
Piemonte
Sector 1°
level
Consumer
goods
Health
care and
social
services
Media
and
communic
ation
Industrial
products
Consumer
goods
Consumer
goods
Food and
beverage
Media
and
communic
ation
Sector (SIC code)
Miscellaneous
manufacturing
industries
Detailed activity
description
Wholesale of
footwear and
miscellaneous
leather goods
N.
dipendenti
Fatturato
€ mln
Anno
investimento
80 41 2004
Health services Medical services 30 9 2004
Printing, publishing,
media and allied
industries
Electronic and other
electrical equipment
and components,
except computer
equipment
Chemicals and
allied products
manufacturing
Furniture and
fixtures
manufacturing
Food and kindred
products
Communications
Publishing firm n.d. 26,1 2004
Production of
incremental and
absolute encoder
Manufacture of
household toiletry
and detergents
Production and
selling of garden
furniture
Production of
special oils
Audiovisual
solutions, congress
services and
equipments and
communications
services
53 8,3 2005
149 50,2 2005
185 30,6 2005
48 25,6 2005
600 106,7 2004
175

N Target
company
22 Frame
23
Galileo Tp
Process
Equipment
24 Garioni
Naval
25 Ghibli
26 Giochi
Preziosi
27 Gruppo
Arcte
28 Gruppo
Simpak
Lead
Investor/
Advisor
Interbanca
Gestione
Investimenti
SGR
Absolute
Ventures
SCA
Arca
Impresa
Gestioni
Riello
Investimenti
Acquired
stake (%)
Investment
stage
38% Expansion
77% Buy out
51% Expansion
58% Buy out
3i 40% Buy out
Alto
Partners
90% Buy out
3i 25% Expansion
Deal
origination
Family &
Private
Secondary
B-O
Family &
Private
Family &
Private
Family &
Private
Family &
Private
Family &
Private
Geographical
area (by
Region)
Campania
Toscana
Lombardia
Lombardia
Lombardia
Emilia
Romagna
Lombardia
Sector 1°
level
Media
and
communic
ation
Industrial
products
Industrial
products
Industrial
products
Consumer
goods
Consumer
goods
Industrial
products
Sector (SIC code)
Miscellaneous
services
Miscellaneous
manufacturing
industries
Miscellaneous
manufacturing
industries
Miscellaneous
manufacturing
industries
Miscellaneous
manufacturing
industries
Apparel and other
finished products
made from fabrics
and similar
materials
Miscellaneous
manufacturing
industries
Detailed activity
description
Television
productions
Production of
components for air
conditioning and
refrigeration
systems
Industrial boilers
and heating systems
for both terrestrial
and naval
application
Production of
cleaning equipment
Production and
distribution of toys
Manufacture and
distribution of
underwear and
beachwear products
Production of
machines for the
processing and
packaging of dairy
products
N.
dipendenti
Fatturato
€ mln
Anno
investimento
50 15,5 2005
23 9 2005
60 11,7 2005
140 24,7 2005
812 590 2005
205 52 2005
700 140 2004
176

N Target
company
29 Icos
Impianti
30
Industrie
Confezioni
Tessili
31 Luxy
32
Manuli
Rubber
Industries
Divisione
Auto
Lead
Investor/
Advisor
Natexis-
Cape SGR
Nord Est
Investment
Partners
Natexis-
Cape SGR
Italian
Lifestyle
Partners
Acquired
stake (%)
Investment
stage
40% Buy out
31% Expansion
80% Buy out
33 Marazzi Permira 28% Expansion
Deal
origination
Family &
Private
Family &
Private
Secondary
B-O
Geographical
area (by
Region)
Friuli
Veneto
Veneto
100% Buy out Local Parent Lombardia
Family &
Private
Emilia
Romagna
Sector 1°
level
Industrial
products
Consumer
goods
Consumer
goods
Industrial
products
Consumer
goods
Sector (SIC code)
Miscellaneous
manufacturing
industrie
Apparel and other
finished products
made from fabrics
and similar
materials
Furniture and
fixtures
manufacturing
Rubber and
miscellaneous
plastic products
manufacturing
Stone, clay, glass
and concrete
products
manufacturin
Detailed activity
description
Products and
systems for
hospital, industrial
and laboratory
sterilization and
industrial cooking
systems
Manufacture of high
quality trousers
Manufacture of
office seating
Design,
manufacture and
distribution of fluid
conveying
reinforced rubber
and metals
components and
systems for
automotive
applications
Production of
ceramic tiles
N.
dipendenti
Fatturato
€ mln
Anno
investimento
50 12,5 2004
300 40 2004
33 9,2 2005
2000 180 2004
4000 750 2004
177

N Target
company
34 Mazzoni LB
35
36
Meca Lead
Recycling
Media Lario
International
Lead
Investor/
Advisor
Arca
Impresa
Gestioni
SGR
Interbanca
Gestione
Investimenti
SGR
TL Com
Capital
Partners
Acquired
stake (%)
Investment
stage
Deal
origination
Geographical
area (by
Region)
32% Buy out Local Parent Lombardia
40% Expansion
n.d. Expansion
Family &
Private
Family &
Private
Calabria
Lombardia
Sector 1°
level
Industrial
products
Industrial
products
Industrial
products
37 Netikos MyQube 100% Buy out Local Parent Lazio ICT ICT
38 Pantex Sud
Argos
Soditic
Italia
40% Buy out
Family &
Private
Abruzzo
Industrial
products
Sector (SIC code)
Industrial and
commercial
machinery and
computer
equipment
Fabricated metal
products, except
machinery and
transportation
equipment
Measuring,
analyzing and
controlling
instruments;
photographic,
medical and optical
goods; watches and
clocks
manufacturing
Miscellaneous
manufacturing
industrie
Detailed activity
description
Design and
fabrication of plants
for the production
of soap and
glycerine
Production of
secondary lead
Manufacture of
reflective optical
components for
mechanical systems
Web and Internet
mobility systems
Manufacture of
thermobonding
technology
associated with the
lamination and
perforation of
composite materials
N.
dipendenti
Fatturato
€ mln
Anno
investimento
100 24,8 2005
31 9,7 2005
n.d. n.d. 2004
230 21 2004
73 27 2004
178

N Target
company
39 Poltrona
Frau
40 Redecam
Group
41 Sicurglobal
42 Sirti
43 Sisal
44 Sogespa
45 Spumador
Lead
Investor/
Advisor
Acquired
stake (%)
Investment
stage
Charme 100% Buy out
Henderson
Private
Capital
BS Private
Equity SGR
Clessidra
Capital
Partners
Clessidra
SGR
Natexis-
Cape SGR
Lehman
Brothers
40% Buy out
87% Buy out
35% Buy out
60% Buy out
49% Expansion
64% Buy out
Deal
origination
Foreign
Parent
Family &
Private
Family &
Private
Secondary
B-O
Secondary
B-O
Family &
Private
Family &
Private
Geographical
area (by
Region)
Lombardia
Lombardia
Lombardia
Lombardia
Lombardia
Toscana
Lombardia
Sector 1°
level
Consumer
goods
Industrial
products
Other
profession
al and
social
services
Media
and
communic
ation
Other
profession
al and
social
services
Health
care and
social
services
Food and
beverage
Sector (SIC code)
Furniture and
fixtures
manufacturing
Miscellaneous
manufacturing
industrie
Miscellaneous
services
Communications
Services -
Miscellaneous
amusement and
recreation
Health services
Food and kindred
products
Detailed activity
description
Manufacture of
design and luxury
furniture
Production and
servicing of
industrial filters for
the cement and
other industries
Security and
surveillance
services provider
Engineering and
realization of
telecommunication
networks and
systems
Management of
gaming and betting
Management of
complex health
structures
Production of
mineral water and
soft drinks
N.
dipendenti
Fatturato
€ mln
Anno
investimento
500 120 2005
60 n.d. 2004
2100 100 2004
5268 658 2004
500 348 2005
132 5,6 2005
338 106,2 2005
179

N Target
company
46 Stefano
Ricci
Lead
Investor/
Advisor
Nord Est
Merchant
Ergon
47 Stroili Oro Capital
Partners
48 Teamsystem Bain
Capital
49 Teckal
50 Tecnowind
51 Timken
52 Trudi
MCC
Sofipa SGR
Private
Equity
Partners
SGR
Overseas
Capital
Advisors
Paladin
Capital
Acquired
stake (%)
Investment
stage
30% Expansion
Deal
origination
Family &
Private
Geographical
area (by
Region)
Toscana
30% Replacement Other Friuli
80% Buy out
79% Buy out
n.d. Buy out
100% Buy out
100% Buy out
Secondary
B-O
Family &
Private
Family &
Private
Foreign
Parent
Secondary
B-O
Sector 1°
level
Consumer
goods
Retail and
wholesale
trade
Marche ICT ICT
Emilia
Romagna
Marche
Lombardia
Friuli
Other
profession
al and
social
services
Consumer
goods
Industrial
products
Consumer
goods
Sector (SIC code)
Apparel and other
finished products
made from fabrics
and similar
materials
Jewellery
manufacture and
sale
Business services
Miscellaneous
manufacturing
industries
Miscellaneous
manufacturing
industries
Apparel and other
finished products
made from fabrics
and similar
materials
Detailed activity
description
Production of ties,
shirts, clothes and
accessories for men
Franchise chain of
fine jewellery stores
Software
engeneering
Facilities
management
Manufacture of
cooker hoods and
glass ceramic hobs
Production of
precision bearings
and motion control
components
Production and
distribution of high
quality plush
animals
N.
dipendenti
Fatturato
€ mln
Anno
investimento
42 n.d. 2004
323 39,4 2005
450 51 2004
90 28,1 2005
239 69,5 2005
148 27,6 2005
102 21,9 2005
180

N Target
company
53 Vending
System
Lead
Investor/
Advisor
MCC
Sofipa SGR
Acquired
stake (%)
Investment
stage
70% Buy out
Deal
origination
Secondary
B-O
Geographical
area (by
Region)
Toscana
Sector 1°
level
Food and
beverage
Sector (SIC code)
Food and kindred
products
Detailed activity
description
Distribution of food
products to the food
service sector and in
the door-to-door-
distribution sector
N.
dipendenti
Fatturato
€ mln
Anno
investimento
114 19 2005
Fonte: Private Equity Monitor - (*) I valori relativi alle voci “Dipendenti” e “Fatturato” si riferiscono all’ultimo bilancio d’esercizio disponibile precedente l’anno di
acquisizione. Quindi il 2003 per gli investimenti avvenuti nel 2004 e 2004 per gli investimenti del 2005
181

ALLEGATO II – Indicatori di performance – Dati di dettaglio per classi di
osservazione
Campione
Totale imprese
Buy Out
Numerosità Indice di performance
53
(100%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 6,7% 9,0% 2,3%
EBITDA (CAGR %) 6,0% 9,1% 3,1%
Dipendenti (CAGR %) 2,5% 6,4% 3,9%
Quoziente secondario di struttura 1,48 1,41 -0,07
Indice di indebitamento (%) 71,0% 72,9% 1,9%
Indice di indebitamento a breve
(%)
55,0% 47,3% -7,7%
Indice di indebitamento
finanziario
1,34 1,75 0,41
Indice di Disponibilità 1,35 1,30 -0,05
Quoziente di Tesoreria 1,15 0,99 -0,16
ROE (%) 7,8% 9,0% 1,2%
ROI (%) 11,2% 13,2% 2,1%
ROS (%) 6,0% 8,1% 2,1%
Indice di produttività del capitale
investito
1,86 1,63 -0,23
Tasso di finanziamento (%) 9,3% 7,0% -2,3%
Campione - Distribuzione per tipologia d'investimento
Numerosità Indice di performance
36
(68%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 6,5% 7,0% 0,5%
EBITDA (CAGR %) 5,8% 7,7% 1,9%
Dipendenti (CAGR %) -0,9% 4,2% 5,1%
Quoziente secondario di struttura 1,62 1,41 -0,21
Indice di indebitamento (%) 68,7% 73,0% 4,3%
Indice di indebitamento a breve
(%)
52,6% 46,0% -6,6%
Indice di indebitamento
finanziario
1,28 1,87 0,59
Indice di Disponibilità 1,43 1,33 -0,09
Quoziente di Tesoreria 1,29 1,05 -0,24
ROE (%) 7,8% 9,3% 1,5%
ROI (%) 10,5% 12,6% 2,2%
ROS (%) 6,1% 8,4% 2,2%
Indice di produttività del capitale
investito
1,71 1,51 -0,20
Tasso di finanziamento (%) 9,4% 7,3% -2,1%
∆
∆

Expansion
< 50%
Campione - Distribuzione per tipologia d'investimento
Numerosità Indice di performance
16
(30%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 6,0% 12,8% 6,8%
EBITDA (CAGR %) 6,9% 11,3% 4,4%
Dipendenti (CAGR %) 8,3% 9,8% 1,5%
Quoziente secondario di struttura 1,14 1,45 0,31
Indice di indebitamento (%) 76,7% 72,4% -4,3%
Indice di indebitamento a breve
(%)
59,9% 51,1% -8,8%
Indice di indebitamento
finanziario
1,55 1,42 -0,13
Indice di Disponibilità 1,20 1,25 0,05
Quoziente di Tesoreria 0,87 0,89 0,02
ROE (%) 7,0% 13,3% 6,3%
ROI (%) 12,1% 15,2% 3,1%
ROS (%) 5,6% 7,7% 2,1%
Indice di produttività del capitale
investito
2,17 1,97 -0,20
Tasso di finanziamento (%) 8,9% 6,2% -2,7%
Campione - Distribuzione per quota acquisita
Numerosità Indice di performance
22
(42%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 7,9% 9,9% 2,0%
EBITDA (CAGR %) 6,4% 12,5% 6,2%
Dipendenti (CAGR %) 1,3% 5,4% 4,1%
Quoziente secondario di struttura 1,32 1,29 -0,02
Indice di indebitamento (%) 76,5% 73,9% -2,6%
Indice di indebitamento a breve
(%)
61,2% 52,4% -8,9%
Indice di indebitamento
finanziario
1,49 1,51 0,02
Indice di Disponibilità 1,23 1,24 0,01
Quoziente di Tesoreria 0,86 0,87 0,02
ROE (%) 10,4% 11,8% 1,4%
ROI (%) 12,7% 14,6% 1,9%
ROS (%) 6,1% 7,2% 1,1%
Indice di produttività del capitale
investito
2,09 2,03 -0,06
Tasso di finanziamento (%) 10,3% 7,3% -3,0%
∆
∆
183

50%
Local Parent
Campione - Distribuzione per quota acquisita
Numerosità Indice di performance
31
(58%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 5,7% 8,3% 2,7%
EBITDA (CAGR %) 5,8% 6,7% 0,9%
Dipendenti (CAGR %) 3,3% 7,1% 3,8%
Quoziente secondario di struttura 1,60 1,50 -0,10
Indice di indebitamento (%) 67,5% 72,2% 4,7%
Indice di indebitamento a breve
(%)
50,6% 43,8% -6,8%
Indice di indebitamento
finanziario
1,25 1,92 0,67
Indice di Disponibilità 1,45 1,34 -0,10
Quoziente di Tesoreria 1,35 1,07 -0,28
ROE (%) 5,8% 9,7% 3,9%
ROI (%) 9,9% 12,2% 2,3%
ROS (%) 5,9% 8,7% 2,8%
Indice di produttività del capitale
investito
1,67 1,40 -0,27
Tasso di finanziamento (%) 8,7% 6,7% -1,9%
Campione - Distribuzione per deal origination
Numerosità Indice di performance
6
(11%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) -1,9% 2,3% 4,2%
EBITDA (CAGR %) -5,6% 1,8% 7,4%
Dipendenti (CAGR %) -8,1% -1,7% 6,4%
Quoziente secondario di struttura 1,60 1,87 0,27
Indice di indebitamento (%) 72,2% 75,3% 3,1%
Indice di indebitamento a breve
(%)
59,1% 55,2% -3,9%
Indice di indebitamento
finanziario
1,40 1,35 -0,05
Indice di Disponibilità 1,41 1,41 0,00
Quoziente di Tesoreria 1,10 1,08 -0,02
ROE (%) 5,7% 9,6% 3,9%
ROI (%) 7,8% 8,6% 0,8%
ROS (%) 4,4% 5,2% 0,8%
Indice di produttività del capitale
investito
1,77 1,66 -0,11
Tasso di finanziamento (%) 11,3% 8,7% -2,6%
∆
∆
184

Family & Private
Secondary B-O
Campione - Distribuzione per deal origination
Numerosità Indice di performance
32
(60%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 7,6% 10,1% 2,5%
EBITDA (CAGR %) 8,3% 11,8% 3,5%
Dipendenti (CAGR %) 5,8% 7,4% 1,6%
Quoziente secondario di struttura 1,38 1,41 0,03
Indice di indebitamento (%) 70,4% 72,2% 1,8%
Indice di indebitamento a breve
(%)
54,3% 48,4% -5,9%
Indice di indebitamento
finanziario
1,37 1,60 0,23
Indice di Disponibilità 1,30 1,30 0,00
Quoziente di Tesoreria 1,20 0,97 -0,23
ROE (%) 7,7% 10,7% 3,0%
ROI (%) 12,6% 14,4% 1,8%
ROS (%) 6,5% 8,0% 1,4%
Indice di produttività del capitale
investito
1,93 1,81 -0,12
Tasso di finanziamento (%) 8,8% 6,7% -2,1%
Campione - Distribuzione per deal origination
Numerosità Indice di performance
11
(21%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 5,4% 9,8% 4,4%
EBITDA (CAGR %) 9,2% 2,7% -6,5%
Dipendenti (CAGR %) -3,4% 7,9% 11,3%
Quoziente secondario di struttura 1,75 1,21 -0,54
Indice di indebitamento (%) 70,9% 75,5% 4,6%
Indice di indebitamento a breve
(%)
51,9% 40,3% -11,6%
Indice di indebitamento
finanziario
1,16 2,35 1,19
Indice di Disponibilità 1,54 1,19 -0,35
Quoziente di Tesoreria 1,18 0,89 -0,29
ROE (%) 9,3% 12,6% 3,3%
ROI (%) 10,7% 13,7% 3,0%
ROS (%) 6,8% 10,4% 3,6%
Indice di produttività del capitale
investito
1,57 1,32 -0,25
Tasso di finanziamento (%) 10,3% 6,8% -3,5%
∆
∆
185

Nord
Centro
Campione - Distribuzione per area geografica
Numerosità Indice di performance
38
(72%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 6,4% 9,6% 3,1%
EBITDA (CAGR %) 4,7% 11,4% 6,7%
Dipendenti (CAGR %) 1,9% 7,2% 5,2%
Quoziente secondario di struttura 1,50 1,42 -0,08
Indice di indebitamento (%) 70,9% 72,4% 1,5%
Indice di indebitamento a breve
(%)
53,7% 47,4% -6,3%
Indice di indebitamento
finanziario
1,37 1,67 0,30
Indice di Disponibilità 1,41 1,38 -0,02
Quoziente di Tesoreria 1,21 1,05 -0,17
ROE (%) 7,1% 10,7% 3,6%
ROI (%) 10,5% 13,1% 2,6%
ROS (%) 5,5% 8,2% 2,7%
Indice di produttività del capitale
investito
1,90 1,60 -0,30
Tasso di finanziamento (%) 8,8% 6,6% -2,2%
Campione - Distribuzione per area geografica
Numerosità Indice di performance
11
(21%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 5,5% 5,6% 0,1%
EBITDA (CAGR %) 10,3% 1,9% -8,4%
Dipendenti (CAGR %) -0,1% 2,5% 2,7%
Quoziente secondario di struttura 1,73 1,53 -0,19
Indice di indebitamento (%) 63,8% 73,7% 9,8%
Indice di indebitamento a breve
(%)
53,2% 44,5% -8,7%
Indice di indebitamento
finanziario
0,68 2,12 1,44
Indice di Disponibilità 1,41 1,11 -0,30
Quoziente di Tesoreria 1,16 0,86 -0,30
ROE (%) 8,9% 8,8% -0,1%
ROI (%) 12,2% 14,0% 1,7%
ROS (%) 8,2% 8,8% 0,6%
Indice di produttività del capitale
investito
1,50 1,59 0,10
Tasso di finanziamento (%) 10,2% 8,3% -1,9%
∆
∆
186

Sud
Piccole imprese
(Fatturato < 10 mln €)
Campione - Distribuzione per area geografica
Numerosità Indice di performance
4
(8%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 11,2% 12,2% 0,9%
EBITDA (CAGR %) 6,6% 9,5% 2,9%
Dipendenti (CAGR %) 13,0% 9,9% -3,2%
Quoziente secondario di struttura 0,59 1,02 0,43
Indice di indebitamento (%) 88,0% 75,0% -13,0%
Indice di indebitamento a breve
(%)
72,5% 55,1% -17,4%
Indice di indebitamento
finanziario
2,59 1,50 -1,09
Indice di Disponibilità 0,73 1,05 0,32
Quoziente di Tesoreria 0,51 0,79 0,28
ROE (%) 10,4% 14,6% 4,2%
ROI (%) 14,1% 12,4% -1,7%
ROS (%) 4,5% 5,5% 1,0%
Indice di produttività del capitale
investito
3,13 2,25 -0,88
Tasso di finanziamento (%) 11,5% 6,4% -5,1%
Campione - Distribuzione per classe dimensionale (Fatturato)
Numerosità Indice di performance
10
(19%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 5,8% 13,9% 8,1%
EBITDA (CAGR %) 12,3% 7,1% -5,2%
Dipendenti (CAGR %) 9,0% 11,5% 2,5%
Quoziente secondario di struttura 1,52 1,32 -0,20
Indice di indebitamento (%) 58,8% 68,0% 9,2%
Indice di indebitamento a breve
(%)
47,8% 42,8% -4,9%
Indice di indebitamento
finanziario
0,67 1,38 0,71
Indice di Disponibilità 1,54 1,34 -0,20
Quoziente di Tesoreria 1,24 1,02 -0,22
ROE (%) 8,0% 12,0% 4,0%
ROI (%) 8,8% 14,8% 5,9%
ROS (%) 8,8% 10,5% 1,7%
Indice di produttività del capitale
investito
1,00 1,40 0,40
Tasso di finanziamento (%) 13,3% 5,2% -8,1%
∆
∆
187

Media impresa
(Fatturato < 50 mln € e > 10 mln €)
Grande impresa
(Fatturato > 50 mln €)
Campione - Distribuzione per classe dimensionale (Fatturato)
Numerosità Indice di performance
23
(43%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 10,5% 8,3% -2,2%
EBITDA (CAGR %) 0,2% 10,0% 9,8%
Dipendenti (CAGR %) -0,5% 4,0% 4,5%
Quoziente secondario di struttura 1,51 1,61 0,10
Indice di indebitamento (%) 71,2% 72,7% 1,5%
Indice di indebitamento a breve
(%)
57,7% 50,1% -7,6%
Indice di indebitamento
finanziario
1,31 1,80 0,49
Indice di Disponibilità 1,23 1,34 0,11
Quoziente di Tesoreria 1,22 1,05 -0,17
ROE (%) 9,9% 9,0% -0,9%
ROI (%) 14,2% 13,5% -0,7%
ROS (%) 6,8% 7,0% 0,3%
Indice di produttività del capitale
investito
2,10 1,92 -0,17
Tasso di finanziamento (%) 8,7% 7,0% -1,8%
Campione - Distribuzione per classe dimensionale (Fatturato)
Numerosità Indice di performance
20
(38%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 3,2% 7,8% 4,6%
EBITDA (CAGR %) 7,2% 7,9% 0,7%
Dipendenti (CAGR %) 2,1% 6,7% 4,6%
Quoziente secondario di struttura 1,43 1,24 -0,20
Indice di indebitamento (%) 75,6% 75,5% -0,1%
Indice di indebitamento a breve
(%)
55,5% 46,4% -9,1%
Indice di indebitamento
finanziario
1,65 1,87 0,22
Indice di Disponibilità 1,39 1,24 -0,15
Quoziente di Tesoreria 1,02 0,91 -0,11
ROE (%) 5,4% 11,4% 6,0%
ROI (%) 8,4% 12,1% 3,7%
ROS (%) 4,2% 8,1% 3,9%
Indice di produttività del capitale
investito
2,01 1,49 -0,51
Tasso di finanziamento (%) 8,8% 7,8% -1,0%
∆
∆
188

Piccole imprese
(Dipendenti < 50)
Medie impresa
(Dipendenti < 250 e > 50)
Campione - Distribuzione per classe dimensionale (Dipendenti)
Numerosità Indice di performance
11
(21%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 7,3% 16,0% 8,7%
EBITDA (CAGR %) 7,0% 11,5% 4,4%
Dipendenti (CAGR %) 4,8% 13,3% 8,6%
Quoziente secondario di struttura 1,42 1,59 0,17
Indice di indebitamento (%) 63,7% 70,0% 6,3%
Indice di indebitamento a breve
(%)
53,0% 50,2% -2,8%
Indice di indebitamento
finanziario
1,26 1,32 0,06
Indice di Disponibilità 1,32 1,47 0,15
Quoziente di Tesoreria 1,26 1,14 -0,12
ROE (%) 8,6% 13,4% 4,8%
ROI (%) 10,3% 17,6% 7,2%
ROS (%) 7,4% 10,3% 2,9%
Indice di produttività del capitale
investito
1,40 1,70 0,30
Tasso di finanziamento (%) 13,2% 5,9% -7,3%
Campione - Distribuzione per classe dimensionale (Dipendenti)
Numerosità Indice di performance
24
(45%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 7,8% 3,7% -4,1%
EBITDA (CAGR %) 4,5% 7,1% 2,5%
Dipendenti (CAGR %) -0,1% 1,4% 1,5%
Quoziente secondario di struttura 1,50 1,48 -0,02
Indice di indebitamento (%) 70,2% 72,2% 2,0%
Indice di indebitamento a breve
(%)
55,8% 46,8% -8,9%
Indice di indebitamento
finanziario
1,07 1,86 0,79
Indice di Disponibilità 1,31 1,29 -0,02
Quoziente di Tesoreria 1,19 1,00 -0,18
ROE (%) 9,6% 7,4% -2,1%
ROI (%) 12,5% 11,3% -1,2%
ROS (%) 6,3% 6,7% 0,4%
Indice di produttività del capitale
investito
1,96 1,69 -0,28
Tasso di finanziamento (%) 8,3% 6,9% -1,5%
∆
∆
189

Grandi imprese
(Dipendenti > 250)
Produzione
Campione - Distribuzione per classe dimensionale (Dipendenti)
Numerosità Indice di performance
18
(34%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 5,2% 10,9% 5,7%
EBITDA (CAGR %) 7,7% 9,9% 2,2%
Dipendenti (CAGR %) 4,0% 8,5% 4,5%
Quoziente secondario di struttura 1,50 1,22 -0,28
Indice di indebitamento (%) 76,1% 75,5% -0,6%
Indice di indebitamento a breve
(%)
55,3% 46,3% -8,9%
Indice di indebitamento
finanziario
1,74 1,86 0,13
Indice di Disponibilità 1,41 1,21 -0,20
Quoziente di Tesoreria 1,03 0,88 -0,15
ROE (%) 5,3% 12,8% 7,5%
ROI (%) 10,3% 13,2% 2,9%
ROS (%) 4,9% 8,6% 3,8%
Indice di produttività del capitale
investito
2,11 1,53 -0,59
Tasso di finanziamento (%) 8,7% 7,7% -0,9%
Campione - Distribuzione per settore di appartenenza
Numerosità Indice di performance
32
(60%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 4,7% 8,8% 4,1%
EBITDA (CAGR %) 4,2% 8,6% 4,4%
Dipendenti (CAGR %) -0,9% 8,0% 8,9%
Quoziente secondario di struttura 1,31 1,52 0,21
Indice di indebitamento (%) 68,4% 71,2% 2,8%
Indice di indebitamento a breve
(%)
53,3% 47,6% -5,7%
Indice di indebitamento
finanziario
1,39 1,70 0,31
Indice di Disponibilità 1,35 1,42 0,07
Quoziente di Tesoreria 1,18 1,02 -0,15
ROE (%) 8,1% 10,8% 2,8%
ROI (%) 10,2% 14,5% 4,2%
ROS (%) 6,5% 8,2% 1,7%
Indice di produttività del capitale
investito
1,57 1,77 0,20
Tasso di finanziamento (%) 8,8% 6,2% -2,6%
∆
∆
190

Commercio
Servizi
Campione - Distribuzione per settore di appartenenza
Numerosità Indice di performance
7
(13%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 0,9% 9,5% 8,5%
EBITDA (CAGR %) 3,1% 11,6% 8,5%
Dipendenti (CAGR %) 7,5% 6,9% -0,6%
Quoziente secondario di struttura 1,09 0,99 -0,10
Indice di indebitamento (%) 81,9% 76,6% -5,3%
Indice di indebitamento a breve
(%)
64,4% 47,4% -17,0%
Indice di indebitamento
finanziario
1,64 1,96 0,32
Indice di Disponibilità 1,06 0,99 -0,07
Quoziente di Tesoreria 0,61 0,60 -0,01
ROE (%) 8,1% 16,4% 8,3%
ROI (%) 8,1% 12,3% 4,2%
ROS (%) 2,5% 6,1% 3,6%
Indice di produttività del capitale
investito
3,21 2,01 -1,20
Tasso di finanziamento (%) 11,5% 8,0% -3,5%
Campione - Distribuzione per settore di appartenenza
Numerosità Indice di performance
14
(26%)
Pre
acquisizione
Post
acquisizione
Ricavi (CAGR %) 14,4% 9,3% -5,1%
EBITDA (CAGR %) 13,4% 8,9% -4,4%
Dipendenti (CAGR %) 8,2% 1,8% -6,4%
Quoziente secondario di struttura 2,03 1,38 -0,65
Indice di indebitamento (%) 71,2% 74,8% 3,6%
Indice di indebitamento a breve
(%)
54,2% 46,8% -7,4%
Indice di indebitamento
finanziario
1,07 1,76 0,69
Indice di Disponibilità 1,50 1,18 -0,32
Quoziente di Tesoreria 1,35 1,10 -0,25
ROE (%) 6,7% 8,0% 1,3%
ROI (%) 15,5% 10,9% -4,6%
ROS (%) 6,9% 9,0% 2,1%
Indice di produttività del capitale
investito
2,24 1,22 -1,02
Tasso di finanziamento (%) 9,2% 8,2% -1,0%
∆
∆
191

Indice dei grafici e delle tabelle
Grafico 1.1 Distribuzione del numero di operatori nel mercato italiano (anni
2006 - 2009)
Grafico 1.2 Distribuzione degli investimenti (€ mln) per tipologia di
operatori (anni 2005 - 2010)
Grafico 1.3 Ammontare investito (€ mln) e numero operazioni (anni 2005 -
2009)
Grafico 1.4 Portafoglio degli operatori (€ mln) e numero società (anni 2005
- 2009)
Grafico 1.5 Distribuzione degli investimenti (€ mln) per tipologia di
operazioni (anni 2005 - 2009)
Grafico 1.6 Distribuzione del numero degli investimenti per tipologia di
operazione (anni 2005 - 2009)
pag. 28
pag. 30
pag. 31
pag. 31
pag. 32
pag. 32
Grafico 1.7 Ammontare investito medio (€ mln) (anni 2005 - 2009) pag. 34
Grafico 1.8 Evoluzione dell’ammontare investito (€ mln) per dimensione
dell’operazione (anni 2005 - 2009)
Grafico 1.9 Distribuzione % del numero di investimenti per dipendenti delle
aziende target (valore medio - anni 2005 - 2009)
Grafico 1.10 Distribuzione % del numero di investimenti per fatturato delle
aziende target (valore medio - anni 2005 - 2009)
Grafico 1.11 Distribuzione geografica del numero di investimenti e
dell'ammontare investito (valore medio - anni 2005 - 2009)
pag. 34
pag. 35
pag. 36
pag. 37
Grafico 1.12 Evoluzione dei capitali raccolti (anni 2005 - 2009) pag. 38
Grafico 1.13 Provenienza dei capitali raccolti ( € mln) (anni 2006 - 2009) pag. 39
Grafico 1.14 Evoluzione dell’origine geografica dei capitali raccolti sul
mercato (anni 2005 - 2009)
Grafico 1.15 Evoluzione dell’origine dei capitali raccolti sul mercato per
tipologia di fonte (valore medio - anni 2005 - 2009)
pag. 40
pag. 41
Grafico 1.16 Evoluzione dell’attività di disinvestimento (anni 2005 - 2009) pag. 41
Grafico 1.17 Evoluzione della distribuzione % del numero di disinvestimenti
per tipologia (anni 2005 - 2009)
Grafico 1.18 Comparazione dei rendimenti misurati in termini di IRR netto
aggregato "Since Inception" (anni 2002 - 2008)
pag. 42
pag. 50
192

Grafico 1.19 L’incidenza del Private Equity sul numero di IPO in Italia (anni
2005 - 2009)
Grafico 1.20 L'impatto economico del private equity negli Stati Uniti –
Incremento medio annuo di alcuni indicatori (2003 - 2006)
Grafico 1.21 L'impatto economico del private equity negli Stati Uniti - Tassi
di crescita della forza lavoro (2003 - 2006)
Grafico 1.22 L'impatto economico del private equity negli Stati Uniti - Tassi
di crescita del fatturato (2003 - 2006)
Grafico 1.23 L'impatto economico del private equity negli Stati Uniti –
Variazione ($) di alcuni indicatori ogni 1.000 $ d'investimento
Grafico 1.24 L'impatto economico del private equity in Europa - Incremento
medio annuo di alcuni indicatori (anni 1991- 1995)
Grafico 1.25 L'impatto economico del private equity in Europa - Impatto
percepito (anni 1991 - 1995)
Grafico 1.26 L'impatto economico del private equity in Europa - Incremento
medio annuo di alcune voci di spesa (anni 1992- 1997)
Grafico 1.27 L'impatto economico del private equity in Europa - Impatto
percepito dalle imprese interessate da operazioni di buy out
(anni 1992 - 1997)
Grafico 1.28 L'impatto economico del private equity in Europa - Impatto
percepito dalle imprese venture backed (anni 1995 - 2001)
Grafico 1.29 Europa - Impatto occupazionale del buy out e del venture
capital (anni 2000 - 2004)
Grafico 1.30 L'impatto economico del private equity nel Regno Unito -
Crescita annua del fatturato e dell'occupazione (2007)
Grafico 1.31 L'impatto economico del private equity in Cina - Incremento
medio annuo di alcuni indicatori (2002 - 2008)
Grafico 1.32 L'impatto economico del buy out in Italia - Tasso di crescita
medio annuo di alcuni indicatori (1988 - 2000)
Grafico 1.33 L'impatto economico del buy out in Italia - Giudizio espresso
dalle imprese rispetto alle aspettative (anni 1988 - 2000)
Grafico 1.34 L'impatto economico del private equity in Italia - Tassi di
crescita annui (1999 - 2006)
Grafico 1.35 L'impatto economico del private equity in Italia - Crescita annua
dell'occupazione (1999 - 2006)
pag. 52
pag. 55
pag. 55
pag. 56
pag. 57
pag. 58
pag. 59
pag. 60
pag. 61
pag. 62
pag. 64
pag. 65
pag. 68
pag. 70
pag. 70
pag. 72
pag. 72
Grafico 1.36 Deal origination in Italia (anni 2004 - 2009) pag. 77
Grafico 1.37 Evoluzione del peso percentuale degli investimenti in imprese
high tech (anni 2005 - 2009)
pag. 80
193

Grafico 2.1 Il campione oggetto di analisi – distribuzione per tipologia
d’investimento
Grafico 2.2 Il campione oggetto di analisi – distribuzione per percentuale di
quota acquisita
Grafico 2.3 Il campione oggetto di analisi – distribuzione per deal
origination
Grafico 2.4 Il campione oggetto di analisi – distribuzione per area
geografica
Grafico 2.5 Il campione oggetto di analisi – distribuzione per Regione
(Numero operazioni)
Grafico 2.6 Il campione oggetto di analisi – distribuzione per settori di
attività
Grafico 2.7 Il campione oggetto di analisi – distribuzione per macro settori
di attività
Grafico 2.8 Il campione oggetto di analisi – distribuzione per classe di
fatturato e dipendenti
Grafico 2.9 Prodotto Interno Lordo – variazioni percentuali congiunturali
(anni 2000 – 2008)
pag. 92
pag. 93
pag. 93
pag. 94
pag. 94
pag. 95
pag. 95
pag. 96
pag. 104
Grafico 2.10 Andamento dell’inflazione in Italia (anni 2000 – 2008) pag. 104
Grafico 2.11 Andamento storico rendimento BOT annuali (anni 2000 – 2008) pag. 105
Grafico 2.12 Occupati totali – variazioni percentuali (anni 2000 – 2008) pag. 106
Grafico 3.1 Ricavi delle vendite – Tasso di crescita annuo
composto/distribuzione per settore di appartenenza
Grafico 3.2 Ricavi delle vendite – distribuzione per tipologia
d’investimento/deal origination/quota acquisita/area
geografica/classe di fatturato (€ mln)/classe di dipendenti
Grafico 3.3 N. dipendenti – Tasso di crescita annuo composto/distribuzione
per settore di appartenenza
Grafico 3.4 N. dipendenti – distribuzione per tipologia d’investimento/deal
origination/quota acquisita/area geografica/classe di fatturato (€
mln)/classe di dipendenti
Grafico 3.5 EBITDA – Tasso di crescita annuo composto/distribuzione per
settore di appartenenza
Grafico 3.6 EBITDA – distribuzione per tipologia d’investimento/deal
origination/quota acquisita/area geografica/classe di fatturato (€
mln)/classe di dipendenti
pag. 109
pag. 110
pag. 111
pag. 112
pag. 114
pag. 115
194

Grafico 3.7 Quoziente secondario di struttura/distribuzione per settore di
appartenenza
pag. 119
Grafico 3.8 Quoziente secondario di struttura – distribuzione per tipologia pag. 120
d’investimento/deal origination/quota acquisita/area
geografica/classe di fatturato (€ mln)/classe di dipendenti
Grafico 3.9 Indice d’indebitamento/distribuzione per settore di appartenenza pag. 123
Grafico 3.10 Indice d’indebitamento – distribuzione per tipologia
d’investimento/deal origination
Grafico 3.11 Indice d’indebitamento – distribuzione per quota acquisita/area
geografica
Grafico 3.12 Indice d’indebitamento – distribuzione per classe di fatturato (€
mln)/classe di dipendenti
pag. 123
pag. 124
pag. 124
Grafico 3.13 Indice d’indebitamento a breve/lungo pag. 125
Grafico 3.14 Indice d’indebitamento finanziario/distribuzione per settore di
appartenenza
pag. 127
Grafico 3.15 Indice d’indebitamento finanziario – distribuzione per tipologia pag. 128
d’investimento/deal origination/quota acquisita/area
geografica/classe di fatturato (€ mln)/classe di dipendenti
Grafico 3.16 Indice di disponibilità pag. 131
Grafico 3.17 Quoziente di tesoreria/distribuzione per settore di appartenenza pag. 133
Grafico 3.18 Quoziente di tesoreria – distribuzione per tipologia
pag. 133
d’investimento/deal origination/quota acquisita/area
geografica/classe di fatturato (€ mln)/classe di dipendenti
Grafico 3.19 Return on Equity/distribuzione per settore di appartenenza pag. 136
Grafico 3.20 Return on Equity – distribuzione per tipologia
pag. 137
d’investimento/deal origination/quota acquisita/area
geografica/classe di fatturato (€ mln)/classe di dipendenti
Grafico 3.21 Return on Investment/distribuzione per settore di appartenenza pag. 138
Grafico 3.22 Return on Investment – distribuzione per tipologia
pag. 139
d’investimento/deal origination/quota acquisita/area
geografica/classe di fatturato (€ mln)/classe di dipendenti
Grafico 3.23 Return on Sales/distribuzione per settore di appartenenza pag. 141
Grafico 3.24 Return on Sales – distribuzione per tipologia
d’investimento/deal origination/quota acquisita/area
geografica/classe di fatturato (€ mln)/classe di dipendenti
pag. 142
195

Grafico 3.25 Indice di produttività del capitale investito pag. 143
Grafico 3.26 Tasso di finanziamento/distribuzione per settore di appartenenza pag. 144
Grafico 3.27 Tasso di finanziamento – distribuzione per tipologia
d’investimento/deal origination/quota acquisita/area
geografica/classe di fatturato (€ mln)/classe di dipendenti
Grafico 4.1 Ricavi delle vendite – Tasso di crescita annuo composto -
Medie imprese industriali italiane (Unioncamere - Mediobanca)
vs Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
Grafico 4.2 EBITDA – Tasso di crescita annuo composto - Medie imprese
industriali italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese
private equity backed - Anni 2005 - 2007
Grafico 4.3 Occupazione – Tasso di crescita annuo composto - Medie
imprese industriali italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs
Imprese private equity backed - Anni 2005 - 2007
Grafico 4.4 Andamento dell’occupazione in Italia vs crescita del personale
in PE e medie imprese (Anni 2005 – 2007)
Grafico 4.5 PIL italiano vs tasso medio crescita ricavi in PE e medie
imprese (Anni 2005 – 2007)
Grafico 4.6 Quoziente secondario di struttura – Medie imprese industriali
italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity
backed - Anni 2005 - 2007
Grafico 4.7 Indice di indebitamento – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed
- Anni 2005 - 2007
Grafico 4.8 Indice di indebitamento a breve – Medie imprese industriali
italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity
backed - Anni 2005 - 2007
Grafico 4.9 Indice di indebitamento finanziario – Medie imprese industriali
italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity
backed - Anni 2005 - 2007
Grafico 4.10 Indice di disponibilità – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed
- Anni 2005 - 2007
Grafico 4.11 Quoziente di tesoreria – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed
- Anni 2005 - 2007
Grafico 4.12 ROE – Medie imprese industriali italiane (Unioncamere -
Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 -
2007
Grafico 4.13 Tasso di rendimento BOT annuali vs ROE PE e medie imprese
(Anni 2005 – 2007)
pag. 145
pag. 157
pag. 158
pag. 158
pag. 159
pag. 160
pag. 161
pag. 162
pag. 162
pag. 163
pag. 164
pag. 164
pag. 165
pag. 166
196

Grafico 4.14 ROI – Medie imprese industriali italiane (Unioncamere -
Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 -
2007
Grafico 4.15 ROS – Medie imprese industriali italiane (Unioncamere -
Mediobanca) vs Imprese private equity backed - Anni 2005 -
2007
Grafico 4.16 Indice di produttività del capitale investito – Medie imprese
industriali italiane (Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese
private equity backed - Anni 2005 - 2007
Grafico 4.17 Tasso di finanziamento – Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed
- Anni 2005 - 2007
Tabella 1.1 Distribuzione degli investimenti (€ mln) per tipologia di
operatori (anni 2005 - 2009)
Tabella 1.2 Distribuzione % del numero di investimenti per dipendenti delle
aziende target (anni 2005 - 2009)
Tabella 1.3 Distribuzione % del numero di investimenti per fatturato delle
aziende target (anni 2005 - 2009)
Tabella 1.4 Distribuzione geografica del numero di investimenti (anni 2005
– 2009)
Tabella 1.5 Distribuzione geografica dell’ammontare investito (anni 2005 –
2009)
Tabella 1.6 Evoluzione dell’origine dei capitali raccolti sul mercato per
tipologia di fonte (anni 2005 - 2009)
pag. 166
pag. 167
pag. 167
pag. 168
pag. 29
pag. 35
pag. 36
pag. 37
pag. 37
pag. 40
Tabella 1.7 Evoluzione del campione “From Inception” (anni 2005 - 2009) pag. 44
Tabella 1.8 Evoluzione della performance “From Inception” (anni 2005 -
2009)
Tabella 1.9 Evoluzione della performance “From Inception” (anni 2005 -
2009)
Tabella 1.10 Performance “From Inception” - distribuzione per tipologia
d'investimento originario (anni 2005 - 2009)
Tabella 1.11 Evoluzione della performance “Since Inception” (anni 2005 -
2009)
pag. 45
pag. 46
pag. 47
pag. 47
Tabella 1.12 Evoluzione della performance “By Horizon” (anni 2005 - 2009) pag. 48
Tabella 1.13 Valorizzazione delle partecipazioni in portafoglio (orizzonte
temporale 10 anni)
pag. 48
197

Tabella 1.14 L’impatto economico del venture capital negli Stati Uniti pag. 54
Tabella 2.1 Caratteristiche degli investimenti realizzati negli anni 2004 e
2005
pag. 89
Tabella 2.2 Composizione del campione di analisi pag. 97
Tabella 3.1 Composizione del campione analizzato – peso percentuale della
numerosità di ciascuna classe sul totale imprese
Tabella 4.1 Variazioni intervenute negli indicatori di performance a seguito
della variazione dell’orizzonte di valutazione
Tabella 4.2 Stato patrimoniale aggregato delle medie imprese in serie
storica 2005-2007 - Valori assoluti (migliaia di Euro)
Tabella 4.3 Stato Patrimoniale aggregato delle medie imprese riclassificato
secondo il criterio “finanziario”- Valori assoluti (migliaia di
Euro)
Tabella 4.4 Conto economico aggregato delle medie imprese in serie storica
2005-2007 - Valori assoluti (migliaia di Euro)
Tabella 4.5 Indicatori di performance - Medie imprese industriali italiane
(Unioncamere - Mediobanca) vs Imprese private equity backed
- Anni 2005 - 2007
pag. 108
pag. 150
pag. 151
pag. 152
pag. 153
pag. 156
198

BIBLIOGRAFIA
AA.VV. (2003), “La gestione finanziaria dell’impresa”, Guerini e Associati, Milano;
ACHARYA V., CONOR K. (2008), Corporate Governance and Value Creation Evidence
from Private Equity, s.e., s.l.;
ACHLEITNER A., KLOECKNER O. (2005), Employment Contribution of Private Equity
and Venture Capital in Europe, Working Paper Series, s.e., s.l.;
AIFI (2010), Il mercato Italiano del Private Equity e Venture Capital nel 2009, Convegno
Annuale, Milano;
AIFI (2007), Alcune domande e risposte sul come e perché investire in fondi di Private
Equity, s.ed., Milano;
AIFI (2007), Yearbook 2007, Bancaria editrice, Milano;
AIFI (a cura di COMMISSIONE CORPORATE GOVERNANCE) (2005), Private equity
e Corporate Governance, L’Impresa. Rivista Italiana di management, Supplemento al n° 6
Settembre-Ottobre 2005;
AIFI (2004), Il private equity come motore di sviluppo, Quaderni sull’investimento nel
capitale di rischio, Egea, Milano;
AIFI, delibera del Consiglio Direttivo del 22 luglio 2004;
AIFI (2001), L’impatto economico delle operazioni di buy out, Collana Capitale di rischio
e impresa, Quaderno n. 11, Milano;
AIFI (1999), Capitali per lo sviluppo, Il Sole 24 Ore Libri, Milano;
AIFI, ERNST & YOUNG FINANCIAL-BUSINESS ADVISORS (2010), The Venture-
Backed Ipo Market, AIFI Yearbook, Bancaria Editrice, s.l.;
AIFI, ERNST & YOUNG FINANCIAL-BUSINESS ADVISORS (2009), The Venture-
Backed Ipo Market, AIFI Yearbook, Bancaria Editrice, s.l.;
AIFI, ERNST & YOUNG FINANCIAL-BUSINESS ADVISORS (2008), The Venture-
Backed Ipo Market, AIFI Yearbook, Bancaria Editrice, s.l.;
AIFI, ERNST & YOUNG FINANCIAL-BUSINESS ADVISORS (2007), The Venture-
Backed Ipo Market, AIFI Yearbook, s.l.;
AIFI, ERNST & YOUNG FINANCIAL-BUSINESS ADVISORS (2006), The Venture-
Backed Ipo Market, AIFI Yearbook, Bancaria Editrice, s.l.;
199

AIFI, PRICEWATERHOUSECOOPERS (2010), Il mercato italiano del Private Equity e
Venture Capital nel 2009, s.ed., s.l.;
AIFI, PRICEWATERHOUSECOOPERS (2009), Il mercato italiano del Private Equity e
Venture Capital nel 2008, s.ed., s.l.;
AIFI, PRICEWATERHOUSECOOPERS (2008a), Il mercato italiano del Private Equity e
Venture Capital nel 2007, s.ed., s.l.;
AIFI, PRICEWATERHOUSECOOPERS (2008b), The economic impact of Private Equity
and Venture Capital in Italy, s.ed., s.l.;
AIFI, PRICEWATERHOUSECOOPERS (2007), Il mercato italiano del Private Equity e
Venture Capital nel 2006, s.ed., s.l.;
AIFI, PRICEWATERHOUSECOOPERS (2006), Il mercato italiano del Private Equity e
Venture Capital nel 2005, s.ed., s.l.;
AIFI, PRICEWATERHOUSECOOPERS (2006), The economic impact of Private Equity
and Venture Capital in Italy, s.ed., s.l.;
AMESS K., MIKE W. (2007), Barbarians at the Gate? Leveraged Buyouts, Private Equity
and Jobs, s.ed., s.l.;
ASCRI (2007), Economic and Social Impact of Venture Capital & Private Equity in Spain,
s.ed., s.l.;
IBAN, ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI INVESTITORI INFORMALI IN RETE
(2010), Il mercato italiano del capitale di rischio informale, s.e., s.l.;
BANCA D’ITALIA (2009), Indagine sulle imprese industriali e dei servizi, Supplementi
al Bollettino Statistico, n. 38.
BANCA D’ITALIA (2007), Considerazioni finali, Assemblea Ordinaria dei Partecipanti,
Roma, 31 maggio 2007;
BANCA D’ITALIA (vari anni), Rendimento lordo all’emissione dei BOT annuali,
calcolato in regime di capitalizzazione semplice, 2000, 2001, 2002, 2003, 2004, 2005,
2006, 2007, 2008;
BASEGGIO L. (a cura di) (2004), Finanza di impresa al bivio, Franco Angeli, Milano;
BERGSTRÖM C., et al (2007), The Operating Impact of Buy-outs in Sweden: A Study of
Value Creation, Journal of Private Equity, 11, p. 22–39;
BERLANDA, P. (1993), I fondi chiusi. Aspetti istituzionali e operativi, IMI, Roma.
200

BOUCLY Q., et al (2008), Do Leveraged Buyouts Appropriate Worker Rents? Evidence
from French Data, Working Paper, HEC Paris (Groupe HEC);
BRACCHI, G., GERVASONI, A. (2006), Venti anni di private equity, EGEA, Milano;
BRAELEY R., et al (2002), Principi di finanza aziendale, McGraw-Hill, Milano;
BUTTIGNON F., et al (2004), Family Business Investor Buyouts: The Italian Case,
Working Paper, Università di Padova, Padova;
BVCA (2008), The Economic Impact of Private Equity in UK, s.ed., s.l.;
BVCA (2007), The Economic Impact of Private Equity in UK, s.ed., s.l.;
BVCA, IE CONSULTING (2006), The Economic Impact of Private Equity in UK, s.ed.,
s.l.;
BVCA, LONDON STOCK EXCHANGE (2008), The London Markets and Private
Equity-backed IPOs, s.ed., s.l.;
CARAMIELLO C., DI LAZZARO F., FIORI G. (2003), Indici di Bilancio, Strumenti per
l’analisi della gestione aziendale, Seconda edizione, Giuffrè Editore, Milano;
CASELLI S., et al (2008), Are Venture Capitalists a Catalyst for Innovation?, European
Financial Management, Vol. 15, N. 11, p. 92 – 111;
CENTRO STUDI UNIONCAMERE (2009), Rapporto Unioncamere 2009 - L’economia
reale dal punto di osservazione delle Camere di commercio, s.ed., s.l;
CORNELIUS P., et al (2007), Big is Better: Growth and Market Structure in Global
Buyouts, Journal of Applied Corporate Finance, Vol. 19, N. 3, p. 109-116;
CUMMING D., et al (2007), Private Equity, Leveraged Buyouts and Governance, Journal
of Corporate Finance, 13, p. 439–60.
DAVIS S., et al (2008), Private Equity and Employment, U.S. Census Bureau Center for
Economic Studies Paper CES-WP-08-07;
DEL GIUDICE R., GERVASONI A. (2002), Finanziarsi con il venture capital, Etas Libri,
Milano;
DEL GIUDICE R., BETTONICA C. (2006), Caratteristiche del mercato italiano del
private equity e venture capital, Quaderni AIFI sull’investimento nel capitale di rischio, n.
9, EGEA, Milano; DESSY A., VENDER J. (1996), Capitale di rischio e sviluppo
dell'impresa, Egea, Milano;
DEL POZZO A. (2000), Venture capital e creazione di valore nella piccola e media
impresa, s.e., Torino;
201

DESSY A. (1999), Il fabbisogno e l’equilibrio finanziario dell’impresa, in GRVASONI A.
(a cura di), Finanziare l’impresa, cit.;
DESSY A., VENDER J. (1996), Capitale di rischio e sviluppo dell’impresa, Egea, Milano;
DI GIORGIO G., (2001), Il mercato italiano del capitale di rischio: quale sviluppo per il
venture capital in Italia?, Rivista Minerva Bancaria, Milano;
DRI-WEFA, NVCA (2001), Measuring the Importance of Venture Capital and Its Benefits
to the U.S. Economy, USA, s.e.;
ENGEL D., (2002), The Impact of Venture Capital on Firm Growth: An Empirical
Investigation, ZEW Discussion Paper No. 02-02;
ENGEL D., KEILBACH M. (2007): Firm Level Implications of Early Stage Venture
Capital Investment - An Empirical Investigation, Journal of Empirical Finance 14, p. 150-
167.
ENGEL D., KEILBACH M. (2002), Firm Level Implications of Early Stage Venture
Capital Investment: An Empirical Investigation, ZEW Discussion Paper No. 02-82;
ERNST & YOUNG (2007), How Do Private Equity Investors Create Value? A Study of
2006 Exits in the US and Western Europe, s.ed., s.l.;
EVCA (2009), Annual Survey of Pan-European Private Equity & Venture Capital Activity,
s.e., s.l.;
EVCA (2005), Employment contribution of Private Equity and Venture Capital in Europe,
s.e., s.l.;
EVCA (2005), Private Equity and Generational Change: The contribution of Private
Equity to the succession of Family Business in Europe, s.ed., s.l.;
EVCA (2002), Survey of the Economic and Social Impact of Venture Capital in Europe,
Research Paper, s.ed., s.l.;
EVCA, COOPERS&LYBRAND CORPORATE FINANCE (1996), The economic impact
of Venture capital in Europe, pubblicazione interna, Zaventem;
EVCA, PRICEWATHERHOUSECOOPERS (2001), Survey of the economic and social
impact of Management Buyouts and Buyins in Europe, pubblicazione interna, Zaventem;
EVCA, THOMSON REUTERS (2009), Performance Benchmarks 2008: European
Private Equity, s.ed., s.l.;
EUROPEAN COMMISSION (2005), Eurostat yearbook, s.e., Luxembourg;
202

EUROPEAN UNION CHAMBER OF COMMERCE IN CHINA, BAIN & COMPANY
(2009), The Social and Economic Impact of Private Equity in China s.ed., s.l.;
FERRARA L. (2006), Finanza e Private Equity, ISTUD, Il Sole 24 Ore edizioni, Milano;
GERVASONI A. (1999), Finanziare l’impresa, Il Sole 24 Ore Libri, Milano;
GERVASONI A. (2000), I fondi mobiliari chiusi, Il Sole 24 Ore, Milano;
GERVASONI A., BECHI A. (2007), I fondi chiusi di private equity nell’esperienza
italiana, Il Mulino, Bologna;
GERVASONI A., SATTIN F. (2000), Private Equity e Venture Capital, Guerini e
Associati, Milano;
GLOBAL INSIGHT, NVCA (2004), Venture Impact 2004 - Venture Capital Benefits to
the U.S. Economy, s.e., s.l.;
GLOBAL INSIGHT, NVCA (2007), The Economic Importance of Venture Capital-
Backed Companies to the U.S. Economy, s.e., s.l.;
GUATRI L., BINI M. (2007), La valutazione delle aziende, Egea, Milano;
GUO S., et al (2007), Do Buyouts (Still) Create Value?, s.ed., s.l.;
HARRIS R., et al (2005), Assessing the Impact of Management Buyouts on Economic
Efficiency: Plantlevel Evidence from the United Kingdom, The Review of Economics and
Statistics, 87, p. 148–53;
HELLMANN T., PURI M. (1999), The Interaction between Product Market and
Financing Strategy: The Role of Venture Capital, Sauder School of Business Working
Paper;
HELLMANN T., PURI M. (2000), Venture Capital and the Professionalization of Start-up
Firms: Empirical Evidence, AFA 2001 New Orleans, Sauder School of Business Working
Paper;
IBAN, ASSOCIAZIONE ITALIANA DEGLI INVESTITORI INFORMALI IN RETE
(2010), Il mercato italiano del capitale di rischio informale, s.ed., Milano;
ISTAT (2010), Conti economici nazionali - Anni 1997-2008, Contabilità nazionale,
Annuario 2010, Roma;
ISTAT (vari anni), La dinamica dei prezzi a consumo, Approfondimenti, dicembre 2000,
2001, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008, Roma;
ISTAT (vari anni), Conti economici trimestrali, 2000, 2001, 2002, 2003, 2004, 2005, 2006,
2007, 2008, Roma;
203

KAPLAN S. (1989), The Effects of Management Buyouts on Operating Performance and
Value, Journal of Financial Economics, 24, p. 217–54.
KORTUM S., LERNER J. (2000), Assessing the Contribution of Venture Capital to
Innovation, RAND Journal of Economics, Vol. 31, No. 4;
KPMG CORPORATE FINANCE (2004), Le metodologie di valutazione della
performance nell’attività di private equity e venture capital, AIFI, Quaderni
sull’investimento in Capitale di Rischio, n. 2, Egea, Milano;
KPMG CORPORATE FINANCE, AIFI (2007), 2006: a successful year!, Italian Private
Equity and Venture Capital market: 2006 performances, s.ed., s.l.;
KPMG CORPORATE FINANCE, AIFI (2007), Italy: a place to invest in! 1986-2006: 20
years of AIFI, Private Equity successful deals and excellent performances, s.ed., s.l.;
LERNER J. (2000), Venture Capital and Private Equity, a Casebook, John Wiley & Sons,
2000;
LICHTENBERG F., DONALD S. (1990), The Effects of Leveraged Buyouts on
Productivity and Related Aspects of Firm Behavior, Journal of Financial Economics, 27, p.
165–194.
LIUC, INSEAD (2001), L’impatto economico dei Management Leveraged Buy-Out, s.ed.,
s.l.;
LUTZ E., ACHLEITNER A. (2009), Angels or Demons? Evidence on the Impact of
Private Equity Firms on Employment, Zeitschrift für Betriebswirtschaft (ZfB),
Forthcoming
MOLLICA M., ZINGALES L. (2007), The Impact of Venture Capital on Innovation and
the Creation of New Businesses, working paper, University of Chicago Booth School of
Business, s.e.;
NVCA (2010), National Venture Capital Association Yearbook, USA, 2010;
MONTRONE A. (2005), Il Sistema delle analisi di Bilancio per la valutazione
dell’impresa, Franco Angeli, Milano;
PALEA V. (2007), La valutazione del rischio d’impresa. Logica e metodologia dell’analisi
finanziaria, Giappichelli, Torino;
PEVERARO S. (2007), Private equity e aziende familiari, Egea, Milano;
POPOV A., ROOSENBOOM P. (2008), Does Private Equity Investment Spur Innovation?
Evidence from Europe, Working Paper Series, European Central Bank;
204

PRIVATE EQUITY MONITOR (PEM®) (2009), Il rapporto PEM 2009, s.ed., s.l.;
PRIVATE EQUITY MONITOR (PEM®) (2008), Il rapporto PEM 2008, s.ed., s.l.;
PRIVATE EQUITY MONITOR (PEM®) (2007), Il rapporto PEM 2007, s.ed., s.l.;
PRIVATE EQUITY MONITOR (PEM®) (2006), Il rapporto PEM 2006, s.ed., s.l.;
PRIVATE EQUITY MONITOR (PEM®) (2005), Il rapporto PEM 2005, s.ed., s.l.;
PRIVATE EQUITY MONITOR (PEM®), LIUC (2009), L’impatto del private equity
sull’internazionalizzazione delle imprese, s.ed., s.l.;
RUSSO P. (2000), Le determinanti del valore dell’impresa, EGEA, Milano;
SATTIN F. (1999), L’attività di investimento istituzionale nel capitale di rischio, in
GERVASONI A. (a cura di), Impresa e mercato finanziario, Guerini e Associati, Milano;
SATTIN F. (2004), Le operazioni di private equity e di management buy out come
strumento a supporto del processo di ricambio generazionale e alla creazione di
imprenditorialità diffusa, in GERVASONI A. (a cura di), Impresa e mercato finanziario,
Guerini e Associati, Milano;
SATTIN F., PANCAMO M. (2005), Employee Buy Out, i dipendenti partecipano
all'azionariato dell'impresa, Amministrazione e Finanza, IPSOA, n. 15/16, s.l.;
SMITH A. (1990), Capital Ownership Structure and Performance: The Case of
Management Buyouts, Journal of Financial Economics, 27, p. 143–64;
SOSTERO U., FERRARESE P. (2000), Analisi di Bilancio, Giuffrè, Milano;
STRÖMBERG P. (2009), The Economic and Social Impact of Private Equity in Europe:
Summary of Research Findings, Working Paper Series, s.e., s.l;
U.E. (1998), Il capitale di rischio: un fattore chiave nella creazione di posti di lavoro
nell’Unione Europea, Sec. n. 552;
UNIONCAMERE, MEDIOBANCA, Le medie imprese industriali italiane (1998 – 2007),
marzo 2010, s.e., Milano;
WEIR C., et al (2007), Public to Private Transactions, Private Equity and Performance in
the UK: An Empirical Analysis of the Impact of Going Private, s.e., s.l;
205