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Amore e potere - Mauro Scardovelli

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<strong>Amore</strong> e <strong>potere</strong><br />

Secondo la tradizione cinese, l’uomo si colloca tra cielo<br />

e terra. Come dice Raimon Panikkar, è guidato da due<br />

forze contrapposte: amore e <strong>potere</strong>.<br />

L’amore spinge l’uomo verso la luce, superando la sua<br />

identificazione nel corpo, nei sensi, nella materia,<br />

nell’oscurità della mente individuale. L’amore lo<br />

stimola ad ampliare la sua visione e ad avventurarsi<br />

oltre i limiti angusti della separatività, dell’avidità e<br />

dell’egoismo, fino a sentirsi partecipe attivo della<br />

grande rete della vita. Lo induce ad allargare la<br />

propria empatia, fino ad includervi tutti gli esseri.<br />

Come fratelli o amici. Fino a sentire la loro sofferenza<br />

come la propria.<br />

La sua essenza è spirituale: “Fatti non foste per viver<br />

come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”,<br />

diceva il sommo poeta. Pur nascendo dalla terra,<br />

l’uomo aspira a raggiungere il cielo, sentendosi unito a<br />

tutto ciò che esiste.


L’amore è una forza attrattiva e unitiva. E’ la forza che<br />

favorisce la coesione e l’unità dove regna il caos e la<br />

dispersione. Unica fonte autentica di vitalità e<br />

creatività, promuove gioia, armonia e guarigione in<br />

ogni contesto in cui viene praticata.<br />

Ma l’uomo ospita anche un’altra forza, di segno<br />

opposto: il <strong>potere</strong>, inteso come <strong>potere</strong>-dominio.<br />

L’uomo medio è attratto dal <strong>potere</strong>, come le api dal<br />

miele. La sua incessante ricerca lo trattiene e lo tira<br />

verso le tenebre, verso i bassifondi della coscienza,<br />

tenendolo separato, in competizione con gli altri ed<br />

alienato da se stesso.<br />

L’amore unisce. Il <strong>potere</strong> divide.<br />

Un movimento spirituale, se si lascia contaminare dal<br />

<strong>potere</strong>, si perverte nel suo opposto: si trasforma in<br />

setta o in organizzazione gerarchica, in competizione<br />

con altre per la conquista del territorio. Dietro la


facciata esibita, si nascondono falsità e bassezza.<br />

Equanimità e trasparenza lasciano il posto a<br />

prevaricazione e segreto.<br />

Come l’amore produce gioia dell’essere, così il <strong>potere</strong><br />

produce male e sofferenza.<br />

“Mi sembra che questo sia vero per chi lo subisce, non<br />

certo per chi lo pratica!”<br />

A livello superficiale appare senz’altro così. Chi più ha,<br />

chi dispone di più mezzi, chi può dire agli altri che<br />

cosa fare, sembra in una posizione invidiabile. Chi è<br />

soggetto al <strong>potere</strong> altrui, invece, appare in una<br />

posizione sfavorevole, svantaggiata o perfino<br />

miserabile.<br />

Ma questa è esattamente la visione che il <strong>potere</strong>-<br />

dominio cerca di mantenere ed alimentare. A quale<br />

scopo? Allo scopo di essere oggetto di desiderio e<br />

quindi diffondersi sempre di più, in modo sottile e


indisturbato. Come un virus, che cerca di colonizzare<br />

ogni organismo a disposizione per proliferare. Ma<br />

anche come un topo, un gatto o un coccodrillo: il loro<br />

istinto li porta a fare tutto il possibile per ricoprire la<br />

terra della loro discendenza. I topi in questo sono<br />

certamente più bravi, avvantaggiati dalle piccole<br />

proporzioni e dalla loro straordinaria adattabilità ad<br />

ambienti differenti.<br />

Entro certi limiti, gli umani non sono affatto diversi dai<br />

loro antenati meno evoluti. E lo stanno dimostrando in<br />

modo esemplare in questi ultimi cent’anni, essendo la<br />

popolazione più che triplicata, a spese di tutte le altre<br />

specie, che pure vantavano un più antico diritto ad<br />

abitare su questa terra.<br />

Ma nell’uomo è emersa una nuova capacità, non<br />

presente nei predecessori neppure più prossimi: la<br />

capacità di parlare, raccontare, fare storia, cultura,<br />

scienza. Una capacità che ha impresso un moto<br />

esponenziale alla spinta evolutiva, non più limitata alle<br />

mutazioni genetiche o epigenetiche, sempre piuttosto


lente, ma affidato ad elementi assai più immateriali,<br />

quali sono le memorie, i pensieri, i sentimenti.<br />

Alcuni autori li chiamano sinteticamente “memi”, onde<br />

sottolinearne l’aspetto immateriale. Essi si tramettono<br />

di generazione in generazione, prolificano e si<br />

diffondono in modo analogo a qualunque altro<br />

organismo vivente quando si trova in ambiente<br />

favorevole. Entrano nella testa delle persone senza<br />

che esse ne abbiano il minimo sospetto. Come i<br />

membri di ogni specie, cercano di occupare tutto lo<br />

spazio possibile, in concorrenza tra loro, ma in netto<br />

vantaggio su tutti gli organismi che li ospitano.<br />

“Stai dicendo che la ricerca del <strong>potere</strong> è un meme<br />

molto diffuso?”<br />

Esattamente. Un po’ come i topi o, ancora meglio,<br />

certi batteri o virus che, essendo ancora più piccoli,<br />

sono sfuggiti all’osservazione fino a poco più di un


secolo fa. Non essendo visibili, i loro effetti venivano<br />

attribuiti ad altre cause, spesso assai fantasione e<br />

prive di ogni fondamento reale. In tal modo, i rimedi<br />

non potevano essere molto efficaci.<br />

Quando finalmente furono scoperti grazie al<br />

microscopio, si credette di aver compreso l’origine di<br />

quasi tutte le malattie e di potercene liberare<br />

combattendo direttamente questi intrusi. In parte<br />

avevamo ragione. In parte avevamo torto. C’erano<br />

ancora molte cose che non vedevamo, troppo piccole<br />

per essere oggetto di osservazione. Oggi, che<br />

disponiamo di mezzi infinitamente più potenti e<br />

sofisticati per osservare qualsiasi oggetto dotato di<br />

proprietà materiali, ci troviamo ancora in scacco di<br />

fronte ai “memi” che colonizzano la nostra mente<br />

individuale e collettiva.<br />

E, paradossalmente, uno degli ostacoli più grandi non<br />

consiste tanto nella loro immaterialità, ma nel fatto<br />

che si rendono percepibili chiaramente solo ad un<br />

osservatore che ha svolto uno specifico lavoro per


iconoscerli al proprio interno. Infatti, solo<br />

riconoscendoli e disidentificandosi da loro, ci si può<br />

sottrarre al loro dominio.<br />

“In che cosa consiste questo lavoro?”<br />

Un problema non può essere risolto con lo stesso tipo<br />

di pensiero che lo ha generato. Una mente occupata<br />

dai “memi” del <strong>potere</strong> non può riconoscere e risolvere<br />

i problemi che essi continuamente ricreano. L’unica<br />

possibilità è frequentare un nuovo tipo di pensiero che<br />

non trovi in essi il suo fondamento.<br />

“Dal momento che il pensiero è essenzialmente<br />

linguaggio, stai dicendo che occorre sviluppare un<br />

nuovo tipo di pensiero-linguaggio? Un linguaggio in<br />

grado di abituarci a ritagliare dallo sfondo le diverse<br />

forme che assume il <strong>potere</strong>, in modo da vederle<br />

chiaramente?”


Sì, distinguerle chiaramente nella vita quotidiana, nel<br />

nostro rapporto con gli altri e con noi stessi, invece di<br />

lasciarci ipnotizzare dalle loro ombre sfuggenti. Questa<br />

è la via da percorrere.<br />

Naturalmente non possiamo sostenere che i “memi”<br />

del <strong>potere</strong>-dominio siano sfuggiti all’analisi. Anzi, su di<br />

essi è stato detto e scritto quasi tutto e il contrario di<br />

tutto. Ma raramente queste analisi erano libere<br />

dall’influenza perversa dell’oggetto che analizzavano,<br />

per il semplice fatto che a guidarle era lo stesso tipo di<br />

pensiero-linguaggio che ne è intriso alla radice, e il cui<br />

uso inconsapevole non fa che rafforzarli.<br />

“Mi fai un esempio concreto?”<br />

Ogni volta che ricorriamo ad espressioni come “Io”,<br />

“Tu”, “Mio, “Tuo”, o utilizziamo il verbo “Essere”, se<br />

siamo inconsapevoli dei presupposti impliciti in queste


espressioni, noi stiamo fornendo alimento ai “memi”<br />

del <strong>potere</strong>. Indipendentemente dalle nostre intenzioni,<br />

che possono essere le più fraterne ed altruistiche, con<br />

il comportamento linguistico comune incrementiamo la<br />

nostra e l’altrui ipnosi, che ci fa credere oggetti<br />

separati gli uni dagli altri, e per questo stesso motivo,<br />

predisposti ad entrare in competizione, in conflitto, in<br />

una perpetua ed estenuante lotta per superare<br />

ostacoli e problemi.<br />

Questa è l’immagine che noi continuamente<br />

riproduciamo attraverso un utilizzo non consapevole<br />

del linguaggio.<br />

“Nello stesso modo in cui attraverso i nostri quotidiani<br />

acquisti, stiamo cooperando attivamente a depredare<br />

la terra e a distruggere ogni forma vivente!”<br />

Sì, credo che, sotto questo aspetto, ci sia molta<br />

coerenza nel tipo di società che abbiamo creato: da


soli o in gruppo, come dirigenti o dipendenti,<br />

parliamo, consumiamo ed agiamo, guidati dalla stessa<br />

cornice di presupposti. Chi vede solo incoerenza e<br />

frantumazione, cioè la maggior parte degli osservatori,<br />

non è focalizzato a cogliere i presupposti più profondi,<br />

impliciti nella radice del nostro pensiero.<br />

Semplicemente perché è istruito ed allenato a non<br />

vederli.<br />

Paradossalmente, sono spesso le persone più colte e<br />

sofisticate, gli intellettuali, i leader, quelli che soffrono<br />

di maggiore cecità selettiva. Essi per emergere, per<br />

farsi riconoscere come capibranco, più di altri hanno<br />

assiduamente praticato e approfondito proprio il tipo<br />

di pensiero-linguaggio, basato sul potre dominio, di<br />

cui stiamo discorrendo. Che credono di padroneggiare,<br />

mentre ne sono dominati a livello profondo, pagando<br />

un grave prezzo in termini di perdita di umiltà, di<br />

empatia e di contatto con ciò che è essenziale.<br />

Infatti, fatte salve le dovute eccezioni, sovente si<br />

esprimono in maniera innecessariamente complicata.


O si occupano di aspetti sempre più specifici e<br />

marginali, che attirano l’attenzione perché di moda.<br />

Mostrando così di non avere a cuore il problema<br />

centrale, quello della sofferenza umana. E quindi<br />

rinunciando a svolgere la loro funzione in modo<br />

socialmente utile.<br />

“Quale funzione?”<br />

Una funzione irrinunciabile nel cammino verso una<br />

democrazia sostanziale: aiutare chi li ascolta, li legge<br />

o li segue, - e non ha tempo e mezzi per studiare e<br />

informarsi a sufficienza -, a sviluppare consapevolezza<br />

sulle questioni essenziali, per consentire scelte che<br />

possano favorire il bene comune, anziché la divisione<br />

e il <strong>potere</strong> delle lobby.<br />

La preoccupazione fondamentale di intellettuali e<br />

leader non sembra quella di farsi capire e far capire,<br />

ma di farsi apprezzare da chi può fornire loro i privilegi


che massimamente desiderano: visibilità,<br />

riconoscimento, pubblicità.<br />

“E’ più facile che un cammello passi in una cruna di un<br />

ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli”.<br />

Che cosa intendeva Gesù con questa frase?<br />

“Il fatto che accumulare denaro corrompe lo spirito!”<br />

Solo il denaro? Un uomo della sua intelligenza poteva<br />

affermare una simile banalità? La storia, nel periodo<br />

del capitalismo antico, ove si diventava schiavi per<br />

debiti, non aveva già mostrato il vero volto del<br />

denaro? A dove conduce quando gli uomini se ne<br />

fanno servi?<br />

No, Gesù ha detto una cosa assai meno scontata:<br />

qualsiasi forma che utilizziamo per prevalere sugli altri<br />

o su noi stessi, è una fonte di peccato, cioè di<br />

sofferenza. Non solo il denaro, quindi, ma anche<br />

l’intelligenza, la forza, la bellezza, la conoscenza, la


cultura, il successo o il riconoscimento in un certo<br />

campo. Tutte cose che appaiono desiderabili o<br />

addirittura virtuose. L’intelligenza non è forse un<br />

bene? E la forza o la bellezza? Il problema non è nelle<br />

cose in sé, ma nel modo in cui ci relazioniamo ad esse<br />

e le utilizziamo.<br />

Questo è il punto: ogni volta che ne traiamo un<br />

vantaggio competitivo, o che ce ne serviamo per<br />

gonfiare il nostro Ego, stiamo creando un fossato tra<br />

noi e gli altri. E peggio ancora, un fossato tra noi e la<br />

nostra anima. Non importa se copriamo questo<br />

atteggiamento con ogni sorta di giustificazioni e di<br />

propaganda, in modo da occultare agli altri la sua<br />

natura prevaricatoria. Essa tale rimane, ed è il<br />

marchio di fabbrica del <strong>potere</strong>-dominio.<br />

“Ricco” per Gesù è sinonimo di uomo di <strong>potere</strong>, che il<br />

<strong>potere</strong> pratica sugli altri, qualsiasi ne sia la fonte.<br />

Ricco non è solo chi possiede mezzi, proprietà e<br />

denaro, escludendo gli altri e tenendo tutto per sé. Ma<br />

anche lo scienziato, l’artista, lo specialista,


l’intellettuale, l’accademico affermato, che non coltiva<br />

l’impegno a rimanere umile. L’impegno a non farsi<br />

servire, ma ad essere servitore, rendendo gli altri<br />

partecipi del suo sapere o della sua arte. Per<br />

condividerne utilità o bellezza. Con leggerezza e<br />

generosità. Attento a stimolare curiosità e amore per<br />

la conoscenza, e mai sensi di inferiorità o<br />

inadeguatezza. Umile non per posizione moralistica,<br />

ma perché radicato nella realtà, ben consapevole del<br />

debito di gratitudine per chi lo ha preceduto nel suo<br />

cammino. E della pochezza della sua impresa rispetto<br />

alla vastità dell’ignoranza che permane in lui.<br />

Ignoranza che lo accomuna a tutti gli altri esseri<br />

umani.<br />

“E ritornando al linguaggio…”<br />

Il liguaggio è una tecnica. La tecnica, ogni tecnica,<br />

dalla più semplice alla più complessa, distingue l’uomo


dagli animali, e gli offre la possibilità di accelerare il<br />

processo evolutivo. Il linguaggio ha permesso la<br />

creazione della cultura, la trasmissione del sapere, la<br />

crescita esponenziale delle conoscenze. E’ quindi una<br />

tecnica straordinaria, specie-specifica dell’uomo.<br />

Ma non contiene in sé alcuna garanzia di un utilizzo<br />

guidato dall’amore anziché dal <strong>potere</strong>. Anzi, le<br />

tecniche nascono quasi sempre per accrescere il<br />

proprio <strong>potere</strong>: sulla natura, sugli animali, e quindi,<br />

facilmente, sugli altri. Le tecniche di comunicazione, la<br />

retorica, le tecniche di persuasione, sono spesso state<br />

al servizio delle èlite che avevano interesse a<br />

mantenere ed estendere il loro dominio.<br />

La storia dell’umanità, resa possibile dal linguaggio, è<br />

fatta dai vincitori, dai popoli più aggressivi, non da<br />

quelli più pacifici e armoniosi, che sono stati via via<br />

sopraffatti e fisicamente eliminati.<br />

Gli israeliti erano un popolo tremendamente bellicoso.<br />

Abramo, Mosé, Giosué, erano in primo luogo dei<br />

condottieri. Le loro strategie sono state studiate dai


militari di tutti i tempi, e spesso replicate. E attraverso<br />

il linguaggio, hanno fatto credere a se stessi e a molti<br />

altri che le loro gesta crudeli, i loro genocidi, erano<br />

voluti o ispirati da Dio, dal Verbo, loro guida<br />

trascendente a cui erano tenuti ad obbedire. Dio<br />

stesso è il loro consulente militare: fornisce loro<br />

indicazioni preziose su come far cadere le mura di<br />

Gerico, e su altre storiche conquiste, tutte finite con<br />

l’uccisione di ogni uomo, donna, bambino, animale,<br />

senza alcuna pietà. Al nobile scopo finale, come<br />

popolo eletto, di riconquistare la terra di Canan, o<br />

Palestina, sulla quale avrebbero dovuto dominare per<br />

portare il regno di Dio sulla terra.<br />

E’ abbastanza straordinario che un libro grondante di<br />

sangue come la Bibbia sia ancora oggi ritenuto la<br />

massima fonte di elevazione spirituale. Il presidente<br />

americano, George Bush, da molti ritenuto l’uomo più<br />

pericoloso del mondo, pare che lo legga ogni giorno<br />

per trarne ispirazione. E i risultati sono sotto gli occhi<br />

di tutti. Come lo sono l’incontro-scontro delle tre


eligioni abramiche presso le mura di Gerusalemme,<br />

nel loro eterno conflitto, ciascuna guidata dalle più<br />

sante ragioni. Davvero commovente, a partire dalle<br />

crociate, l’impegno che vi profondono!<br />

“Mi fai qualche esempio specifico di come il linguaggio<br />

in sé, per come è costruito, può favorire il <strong>potere</strong><br />

anziché l’amore?”<br />

Essenza del linguaggio è operare distinzioni, isolare<br />

determinati oggetti dallo sfondo indifferenziato, e<br />

identificarne delle figure socialmente riconoscibili, alle<br />

quali attribuire un nome: un suono nella lingua<br />

parlata, o un segno nella lingua scritta.<br />

Inizialmente l’operazione non è mai neutra, ma<br />

guidata da finalità utilitaristiche, per soddisfare<br />

determinati bisogni o desideri, più o meno immediati e<br />

visibili. Come minimo, va incontro ad un bisogno di<br />

economia nella comunicazione. Con il tempo, però,


l’operazione finisce per produrre effetti inconsapevoli<br />

e controintuitivi.<br />

“Quali?”<br />

Il pensiero-linguaggio, attraverso il suo crescente<br />

utilizzo, con il tempo è venuto a determinare<br />

praticamente tutto ciò che siamo in grado di vedere e<br />

percepire: le figure prescelte e socialmente<br />

riconoscibili. Gli oggetti di cui si può parlare, le forme<br />

di relazioni che si possono individuare e descrivere.<br />

Tutto il resto, quello che non rientra in queste figure,<br />

di oggetti e di relazioni fra oggetti, rimane nello<br />

sfondo indifferenziato, al di fuori della nostra<br />

consapevolezza.<br />

“Quindi è corretto dire che il linguaggio crea la nostra<br />

realtà?”


Sì, la realtà socialmente condivisa, di cui siamo<br />

consapevoli, e di cui possiamo parlare. Tutto il resto<br />

non è che sparisca o che non ci influenzi più, ma<br />

finisce direttamente nell’inconscio. Ogni tipo di<br />

società, per sopravvivere nella sua identità e<br />

specificità, cancella porzioni più o meno vaste<br />

dell’esperienza totale che facciamo a contatto con il<br />

mondo. E questa cancellazione o rimozione alimenta<br />

l’inconscio individuale e collettivo. E se dall’esperienza<br />

totale vengono rimosse parti essenziali e vitali, questo<br />

si traduce in una grave amputazione psichica, che<br />

come un’ombra maligna, rende molto difficile il<br />

contatto con l’autenticità dell’essere e la gioia che<br />

naturalmente consegue.<br />

“Puoi approfondire questo concetto?”<br />

Felicità è sinonimo di pienezza dell’esperienza. La gioia<br />

dell’essere può essere sperimentata solo se siamo


totalmente immersi nel qui ed ora, con quello che c’è<br />

adesso, così come è. Con tutti i nostri sensi ben<br />

aperti.<br />

Ma noi non siamo quasi mai in contatto con la realtà<br />

dell’adesso, che è in primo luogo la realtà del nostro<br />

corpo e delle nostre sensazioni, in relazione a ciò che<br />

c’è e che accade nel momento presente. Grazie<br />

all’educazione ricevuta, noi non viviamo più nel nostro<br />

corpo, ma percepiamo il mondo filtrato dai nostri<br />

pensieri: dialogo interno, immagini, convinzioni,<br />

pregiudizi, emozioni. Cioè dall’attività incessante della<br />

nostra mente. Non della mente profonda, radicata<br />

nella corporeità, ma della mente condizionata.<br />

Condizionata da che cosa? Dall’utilizzo continuo e<br />

inconsapevole delle categorie linguistiche, socialmente<br />

condivise, alle quali siamo stati educati. Esse agiscono<br />

come filtri selettivi ai quali non possiamo rinunciare,<br />

perché sono loro che ci permettono di sentirci parte di<br />

una comunità, formarci un’identità, comunicare la<br />

nostra esperienza. Che però, ripeto, è un’esperienza


linguisticamente orientata e amputata rispetto<br />

all’esperienza totale.<br />

“Un’esperienza ideologizzata, quindi?”<br />

Come dice Panikkar, le idee suonano la musica sulla<br />

quale i governi e i popoli danzano. E le idee sono<br />

espressioni linguistiche.<br />

“Ma nello stesso contesto culturale, specie nella<br />

società moderna, fondata sulla comunicazione, le idee<br />

presenti sono molte e in concorrenza tra loro. Non si<br />

può certo dire che siamo tutti ideologizzati allo stesso<br />

modo!”<br />

Questo è incontestabile per tutte le idee che hanno a<br />

che fare con i contenuti. Esiste un pluralismo<br />

ideologico in materia religiosa, politica, economica,<br />

filosofica. C’è chi crede in Dio, chi non ci crede. C’è chi


è cattolico, mussulmano, agnostico o ateo. C’è chi è<br />

liberista e chi è contrario al liberismo o al libero<br />

mercato.<br />

Qui però non stiamo parlando di contenuti, ma di<br />

forme o strutture. Quando utilizziamo il linguaggio,<br />

cioè ogni volta che pensiamo, parliamo o<br />

comunichiamo, non ci limitiamo a trasmettere<br />

contenuti, ma un modo di percepire il mondo che ci<br />

accomuna: quello attuato attraverso categorie<br />

linguistiche.<br />

Nella filosofia occidentale, non solo identifichiamo il<br />

pensiero con il linguaggio, ma siamo abituati a credere<br />

che la consapevolezza coincida con il pensiero. Cogito,<br />

ergo sum, diceva Cartesio. E’ grazie al pensiero che so<br />

di esistere.<br />

Secondo le filosofie orientali, in particolare nel<br />

buddismo Zen, il pensiero non solo non esaurisce la<br />

consapevolezza, ma costituisce il principale ostacolo<br />

ad una consapevolezza profonda della realtà. Solo una<br />

mente capace di farsi silenziosa è in grado di essere


presente nel qui ed ora, cioè presente all’unica realtà<br />

vera.<br />

“Ma nella vita di oggi è indispensabile pensare,<br />

progettare. Non si può fare quasi nulla senza aver ben<br />

sviluppato queste capacità!”<br />

Certamente saper utilizzare il pensiero è una risorsa<br />

essenziale: se devi scrivere una lettera, stilare una<br />

diagnosi o argomentare una linea di difesa. Ma è<br />

soltanto un mezzo, come lo è un computer. Un mezzo<br />

utile per certe cose e non per altre.<br />

Il problema fondamentale che oggi ci troviamo ad<br />

affrontare, dal quale derivano tutti gli altri, può essere<br />

riassunto in questi termini: non siano in grado di far<br />

tacere la mente, non siamo in grado di spegnere il<br />

computer mentale. Quindi ne siamo condizionati e<br />

limitati. Non nelle questioni materiali, negli affari,<br />

nella tecnologia, nei quali siamo diventati bravissimi.


Ma nel settore dal quale maggiormente dipende la<br />

nostra propensione alla felicità o all’infelicità: quello<br />

della relazione con noi stessi e con gli altri.<br />

Un noto economista, Jeremy Rifkin, sostiene che, date<br />

le attuali condizioni di conflitto e crescita, la nostra<br />

stessa sopravvivenza può essere salvaguardato solo<br />

ad una condizione: che riusciamo in tempo a<br />

sviluppare sufficiente empatia. Empatia non solo per le<br />

persone vicine, ma anche quelle più lontane e per tutti<br />

gli esseri, animali e piante. L’empatia, secondo il<br />

buddismo, apre la porta alla compassione, ovvero al<br />

desiderio di impegnarsi a sciogliere le cause della<br />

sofferenza altrui come la propria.<br />

Empatia, compassione, amore, sono qualità<br />

dell’essere, qualità del cuore, non della mente. Il<br />

cuore si apre davvero solo quando la mente tace. Non<br />

si tratta infatti di ragionare, in termini kantiani, su ciò<br />

che è bene o male fare. Si tratta di imparare o<br />

reimparare a sentire. Sono i sentimenti e le passioni<br />

che guidano le nostre azioni. Più di cent’anni fa, Freud


ha definitivamente scoperchiato la scatola nera della<br />

nostra mente, e a differenza di Aristotele, non ha<br />

trovato ai posti di comando la ragione e la volontà,<br />

come ancora oggi la Chiesa Cattolica continua a<br />

sostenere. Ed ha portato alla luce un meccanismo di<br />

autoimbroglio degno, questo sì, di un’intelligenza<br />

sofisticata come quella umana: la razionalizzazione.<br />

Che della ragione è solo la maschera.<br />

“In che senso?”<br />

Nel senso che in molti casi è solo copertura di impulsi,<br />

passioni o sentimenti, che si vogliono tenere nascosti,<br />

perché ritenuti poco desiderabili o disdicevoli. E per<br />

garantirsi il risultato, essa utilizza i più efficaci metodi<br />

della retorica, la tanto vituperata arte della<br />

persuasione, scoperta dai sofisti, che di essa fecero<br />

una professione, ma praticata in realtà da ogni degno<br />

appartenente alla nostra specie, almeno a livello


dilettantesco.<br />

Insomma, dopo Freud, avremmo dovuto imparare a<br />

dffidare di chi, con passione, ci vuol convincere di<br />

qualcosa per il nostro bene.<br />

“Perché?”<br />

Perché di un bene certamente si tratta. Non del<br />

nostro, però. Ma del suo. Anche se, a ben guardare,<br />

come vedremo, neppure questo è vero.<br />

“Mi fai un esempio?”<br />

Un maestro, duro e severo, crea un clima di tensione<br />

e paura negli allievi. Perché? Perché vincano la<br />

pigrizia, dice lui. Affinché si impegnino davvero e si<br />

preparino alle difficoltà della vita. Uno scopo nobile,<br />

quindi. Peccato che sia falso. La severità non serve a


questo, ma a scaricare la rabbia sadica del maestro<br />

all’esterno. In tal modo può evitare di accumularla e di<br />

scaricarla tutta su di sé.<br />

Un marito che risparmia alla sua giovane o inesperta<br />

sposa ogni problema con il mondo, facendo tutto al<br />

suo posto, afferma di essere spinto dal più tenero<br />

amore. In realtà le sta impedendo di crescere e di<br />

diventare indipendente, per paura di non averla più a<br />

sua totale disposizione.<br />

“Ma quindi la ragione non esiste?”<br />

La ragione inizia a funzionare pienamente ad un certo<br />

livello di evoluzione interiore. Livello che dovrebbe<br />

coincidere con la maturità adulta, se vivessimo in una<br />

società equilibrata e armoniosa. Dato che viviamo in<br />

un contesto di esasperato individualismo, la maturità<br />

adulta media non garantisce l’uscita dall’egocentrismo,<br />

tipicamente infantile. E’ necessario quindi un


passaggio evolutivo ulteriore, che possiamo definire<br />

come livello di spiritualità, in cui siamo in grado di<br />

trascendere la stretta identificazione con la personalità<br />

individuale.<br />

Infatti, finché a dominare la personalità è l’Ego, la<br />

razionalizzazione prende assai spesso il posto della<br />

ragione, almeno nelle questioni importanti, quelle che<br />

ci stanno davvero a cuore. Ovviamente, nella stessa<br />

persona, in tempi e contesti diversi, il livello evolutivo<br />

di funzionamento cambia. In certi casi quindi usa la<br />

ragione, in altri la razionalizzazione. E non<br />

casualmente siamo scarsamente allenati a percepire la<br />

distinzione tra queste due differenti funzioni. Nel<br />

momento che sviluppassimo questa capacità, l’Ego<br />

individuale e collettivo riceverebbe una brutta batosta!<br />

Dato che le èlite si collocano quasi sempre a livello di<br />

Ego, e non di spiritualità, anche quando rivestono il<br />

ruolo di autorità spirituali, non c’è da stupirsi che<br />

siano scarsamente interessate a riforme<br />

nell’educazione che aiutino i “sudditi” a smascherare il


loro perverso gioco di <strong>potere</strong>.<br />

L’educazione che riceviamo a scuola è, nel migliore dei<br />

casi, un’educazione che cerca di promuovere il<br />

pensiero e la ragione: le materie al primo posto sono<br />

quelle che sviluppano l’intelligenza linguistica e<br />

matematica. Ma oggi sappiamo, in modo<br />

incontrovertibile, che se non cresce<br />

contemporaneamente una conoscenza di sé e del<br />

proprio mondo emotivo, tutto quello che possiamo<br />

ottenere non è uno sviluppo della ragione che ci guidi<br />

nelle scelte importanti, ma della razionalizzazione:<br />

cioè della capacità di usare il linguaggio per coprire<br />

una falsità.<br />

Capacità straordinariamente utile per diventare<br />

affaristi, arrivisti, mafiosi, interessati solo al proprio<br />

tornaconto. Oppure, dall’altro versante, per sviluppare<br />

una personalità succube, dipendente, depressa,<br />

destinata a crearsi nella vita ogni sorta di problemi e<br />

difficoltà. In una parola, una personalità nevrotica.


“Che cosa intendi per nevrotica?”<br />

Una personalità incapace di dirigere se stessa senza<br />

boicottarsi, in quanto preda di conflitti pervasivi tra<br />

subpersonalità. Ogni parte cerca di prendere il<br />

sopravvento sulle altre. Manca una leadership in grado<br />

di fornire una visione del bene comune. Visione che<br />

consenta alle diverse fazioni di rinunciare parzialmente<br />

alle loro pretese, in favore di un’azione diretta al<br />

benessere generale.<br />

“Stai descrivendo la situazione italiana, come la vede<br />

Eugenio Scalfari, nel famoso editoriale: ‘Lo specchio si<br />

è rotto’.”<br />

Sì, anche se non penso sia una prerogativa solo<br />

italiana, ma planetaria.<br />

“Hai detto che la capacità di mentire accomuna


affaristi e persone succubi. Mi sembra piuttosto<br />

ingiusto: i primi ne traggono vantaggio, i secondi ne<br />

pagano le conseguenze!”<br />

E’ vero. Di solito siamo abituati a operare questa<br />

distinzione. E’ il linguaggio stesso che ci porta a farlo:<br />

ci sono molte parole che possiamo usare sia per<br />

indicare un profittatore, sia per indicare una persona<br />

vittima. Tendiamo quindi a distinguere due categorie:<br />

gli sfruttatori e gli sfruttati. E tendiamo a tenerle ben<br />

separata tra loro. Da una parte i buoni, dall’altra i<br />

cattivi.<br />

La rivoluzione comunista si è basata su questa<br />

distinzione-separazione. Una delle ragioni del suo<br />

fallimento, è stata proprio quella di non vedere il<br />

fenomeno dello sfruttamento più in profondità, come<br />

ricerca del <strong>potere</strong>, forza psichica inerente alla natura<br />

umana. Insieme all’altra, la ricerca dell’amore.<br />

Come gli studi di Reich hanno dimostrato, non solo i


icchi erano autoritari e sfruttatori, ma anche i poveri,<br />

nei limiti delle loro possibilità. Non solo capi e<br />

imprenditori erano autoritari, ma anche padri operai o<br />

contadini nei confronti di mogli e figli. La famiglia,<br />

ritenuta dalla Chiesa cattolica la cellula sana della<br />

collettività, appena si tolgono i veli dell’ipocrisia,<br />

ancora oggi rivela al suo interno, in scala minore, le<br />

stesse lotte di <strong>potere</strong> che troviamo nella società. La<br />

famiglia, primo luogo di educazione, è sempre stata la<br />

cinghia di trasmissione dell’autoritarismo e della<br />

prevaricazione. Che in tal modo assorbiamo da piccoli,<br />

e ci portiamo dentro tutta la vita. Avendo così davanti<br />

due possibilità poco desiderabili: diventare a nostra<br />

volta sfruttatori di altri, o sfruttatori di noi stessi.<br />

“Ma i nevrotici sono dei malati, gli sfruttatori sono dei<br />

disonesti!”<br />

E’ così che di solito pensiamo, in base alle categorie


linguistiche dominanti e alle loro comuni associazioni.<br />

E’ in questo modo che sin da bambini impariamo a<br />

conoscere la realtà: attraverso distinzioni che<br />

traggono differenti figure dallo sfondo, e le tengono<br />

ben separate.<br />

Appena ci occupiamo di comunicazione, ci viene<br />

giustamente insegnato che un’informazione è la<br />

notizia di una differenza che fa la differenza.<br />

Persecutori e vittime non sono la stessa cosa. C’è tra<br />

loro una differenza che fa una sostanziale differenza.<br />

Quello che non ci viene insegnato, perché non fa parte<br />

della nostra cultura dualistica, è che dominatori e<br />

dominati condividono qualcosa che li accomuna. C’è in<br />

loro un fattore che li connette e li tiene insieme.<br />

“Quale fattore?”<br />

La violenza, la prepotenza. Il nevrotico non è meno<br />

prepotente di un profittatore di professione. Spesso lo


è assai di più. Ciò che fa la differenza è solo il contesto<br />

in cui la utilizza: un contesto interno, intimo o<br />

famigliare, anziché pubblico. Se guardiamo in<br />

profondità, in un nevrotico non scopriamo meno<br />

violenza, disonestà e prepotenza che in un malavitoso.<br />

E a sua volta, se guardiamo in profondità, dentro un<br />

malavitoso scopriamo non meno sofferenza e dolore<br />

che in un nevrotico. Anzi, spesso, assai di più.<br />

Dostoievski, che ha passato dieci anni della sua vita in<br />

mezzo a carcerati, delinquenti e persone disperate,<br />

afferma che non ne ha conosciuta una che, al di sotto<br />

della scorza esterna, non nascondesse intatto un<br />

nucleo d’oro di purezza.<br />

Contemplare, osservare in profondità, senza giudizio,<br />

senza scopo, è la via per diventare consapevoli dei<br />

livelli di realtà più profonda, la realtà dell’inter-essere,<br />

del tutto è uno. E’ la via del cuore, che ci fa sentire<br />

parte integrante della stessa rete della vita, fratelli tra<br />

noi, e con gli altri esseri. E’ propria delle antiche<br />

tradizioni sapienziali, delle filosofie non duali, che da


millenni sostengono una visione del mondo<br />

completamente diversa da quella ottenuta attraverso<br />

la concezione dualistica, che trova fondamento nella<br />

pratica analitica e mentale di separare l’osservatore<br />

dall’oggetto osservato, ponendo fine alla risonanza e<br />

all’immedesimazione empatica.<br />

“Sono due concezioni incompatibili e in conflitto?<br />

Se le guardiamo dal punto di vista duale, quello a cui<br />

siamo allenati nella nostra cultura, esse appaino<br />

senz’altro incompatibili, o quantomeno<br />

incommensurabili. E’ la visione che consente alle<br />

persone religiose di mantenere la loro fede pur<br />

comportandosi, in media, in modo altrettanto poco<br />

amorevole di quelle che non professano alcuna fede.<br />

Se osserviamo le due concezioni dal punto di vista non<br />

duale, esse sono parte della stessa realtà, distinte,<br />

non separate.


La biologia ha da insegnarci qualcosa in proposito. Il<br />

nostro cervello destro funziona in modo olistico, quello<br />

sinistro in modo analitico, duale. Se una persona<br />

perde l’uso dell’emisfero destro, vede il mondo tutto<br />

interconnesso, senza confini. Ma ha qualche difficoltà<br />

ad orientarsi ed agire.<br />

La natura ci ha dotato di due emisferi come di due<br />

differenti occhi per vedere in profondità. E la visione<br />

binoculare diventa possibile solo se teniamo aperti<br />

entrambi gli occhi e creiamo al nostro interno<br />

un’immagine che integra le due differenti fonti di<br />

informazione.<br />

Spiritualità non è ascendere al cielo abbandonando la<br />

terra, ma continuare a stare sulla terra facendosi<br />

ispirare dal cielo.<br />

Come dice Lino Lepore, filosofo buddista e mio caro<br />

amico, in gran parte la storia della filosofia occidentale<br />

è la storia della follia umana. Ovvero la storia delle<br />

razionalizzazioni con le quali i filosofi hanno cercato di<br />

mascherare e abbellire il loro carattere, parlando del


mondo e dei massimi sistemi anziché di se stessi.<br />

Talvolta riuscendoci così bene da influenzare buona<br />

parte dell’umanità.<br />

L’educazione di cui oggi abbiamo più bisogno, per<br />

sviluppare una personalità sana, integra, onesta, è<br />

un’educazione dei sentimenti, un’educazione che non<br />

casualmente, ripeto, nella scuola di oggi non si trova<br />

neppure all’ultimo posto. E un’educazione dei<br />

sentimenti è facilitata in contesti nei quali si pratica il<br />

silenzio, l’ascolto, la presenza mentale nel qui ed ora,<br />

la calma, l’osservazione senza scopo o<br />

contemplazione. Ed è resa impossibile dove dominano<br />

le parole, le chiacchiere, il rumore, la fretta, l’eccesso<br />

di programmazione e impegni. Tutte cose che coprono<br />

la paura di amare e la ricerca del <strong>potere</strong>.<br />

“Cioè nella scuola di oggi!”<br />

“… soprattutto nel parlamento!”<br />

“… nei luoghi di lavoro…”


“… anche in famiglia…”<br />

Certamente. Una mente oberata dal proliferare di<br />

pensieri e immagini, affollata da desideri e scopi, è<br />

come una scimmietta impazzita: non fa che saltare da<br />

un ramo all’altro, incapace di soffermarsi e gustare un<br />

frutto. Il proliferare di pensieri, tensioni e<br />

preoccupazioni, impedisce il contatto con la realtà, con<br />

i propri sentimenti e con quelli degli altri. Impedisce il<br />

vero ascolto e quindi la comprensione di ciò che sta<br />

davvero accadendo.<br />

Paradossalmente, nella civiltà della comunicazione,<br />

sono aumentati in modo esponenziale le<br />

comunicazioni superficiali, innecessarie o irrilevanti, e<br />

sono drasticamente diminuite le comunicazioni<br />

essenziali e profonde: quelle che riguardano il nostro<br />

vero sentire.<br />

Più comunichiamo in questo modo, più creiamo un<br />

fossato profondo tra noi e gli altri, tra noi e la nostra


anima.<br />

Lo slogan “Life is now”, che compare nella pubblicità<br />

di una nota compagnia telefonica, è un capolavoro di<br />

astuzia ed intelligenza manipolativa. Degna delle<br />

migliori tradizioni religiose autoritarie. Viene affermata<br />

una cosa profondamente vera, non troppo facile da<br />

comprendere nella sua vera essenza, allo scopo di<br />

diffondere sempre più un comportamento – l’inflazione<br />

pervasiva di comunicazione inutile – che produce un<br />

risultato esattamente opposto a quello implicitamente<br />

dichiarato e suggerito.<br />

Chattare per ore al giorno al telefonino ci allontana sin<br />

da bambini dalla realtà dell’adesso, così come la<br />

sottomissione sin da piccoli ad indiscusse autorità<br />

religiose, spegnendo lo spirito critico, e spesso anche<br />

collaborando a inibire o pervertire la naturale spinta<br />

sessuale e la naturale capacità di amare, ha da<br />

sempre ostacolato lo sviluppo di una spiritualità<br />

autentica.<br />

Propaganda religiosa e pubblicità utilizzano lo


stessomeccanismo di persuasione: separazione dei<br />

mezzi dal fine; far leva su un fine altamente<br />

desiderabile.<br />

Mortificare il corpo e i sensi, bruciare sul rogo gli<br />

eretici, perseguitare o uccidere gli infedeli, o<br />

quantomeno sottometterli, opporsi finché è possibile al<br />

progresso della scienza e del libero pensiero, - non<br />

solo in nome della fede, ma talvolta anche in nome<br />

della “ragione”, ovviamente la loro -, sono solo alcuni<br />

dei mezzi storicamente utilizzati dalle religioni<br />

autoritarie per mantenere e diffondere il loro <strong>potere</strong>. Il<br />

fine era quello di insegnare agli uomini la via<br />

dell’amore.<br />

Oggi i sacerdoti della nuova religione dei consumi,<br />

dimostrano di essere all’altezza dei predecessori,<br />

avendone bene imparato la lezione.<br />

“Un’educazione dei sentimenti, quindi diventa<br />

impraticabile se si vive di corsa, in un clima frenetico,


ove la nostra attenzione si sposta continuamente da<br />

una cosa all’altra!”<br />

Certamente. Fretta, iperattivismo e superficialità, sono<br />

facce della stessa medaglia: tante cose inutili al posto<br />

di poche cose essenziali. Aria pulita, acqua e cibo<br />

sano, bellezza dell’ambiente naturale, grandi spazi<br />

incontaminati ove poter gustare in silenzio la<br />

grandiosità delle montagne, il profumo dei fiori, il<br />

fresco delle foreste, l’incessante danza della vita<br />

animale, sono beni essenziali per la nostra salute<br />

psichica, oltre che fisica. Beni che stanno rapidamente<br />

scomparendo.<br />

Ricordo un documentario girato da un piccolo aereo<br />

che sorvolava il territorio africano: era sconvolgente il<br />

confronto tra la bellezza delle poche riserve e parchi,<br />

ancora ricchi di piante ed animali, e la bruttezza e il<br />

degrado prodotto dalle attività umane che li<br />

assediavano tutto all’intorno, con il suolo devastato<br />

dalla progressiva desertificazione. Processo destinato


ad aggravarsi, anche a causa della continua crescita<br />

della popolazione.<br />

L’Africa, all’inizio del secolo, era autosufficiente dal<br />

punto di vista alimentare. La sua popolazione era<br />

meno di un quarto di quella attuale. C’era posto per<br />

tutti: uomini, piante, animali. Era un continente<br />

meraviglioso, da sogno. Oggi le sue foreste stanno<br />

rapidamente scomparendo, tagliate per vendere il<br />

legname, o bruciate per far posto a nuove coltivazioni.<br />

Molte delle quali non producono cibo per gli africani,<br />

ma per i polli, i maiali e i bovini allevati nei paesi ricchi<br />

o in crescita economica, dove il consumo di carni e<br />

latticini continua ad aumentare.<br />

Se si sviluppasse più empatia, più capacità di provare<br />

compassione, non solo per gli esseri umani che<br />

rischiano di morire di fame, ma per tutti gli esseri<br />

viventi destinati ad essere totalmente annientati e<br />

distrutti, senza uno spazio di sopravvivenza che non<br />

sia una prigione o la gabbia di uno zoo, saremmo colti<br />

tutti quanti da un tale livello di sofferenza che ci


farebbe urlare dal dolore. Grideremmo: basta! Basta<br />

con questa infamia! Smettiamola di crescere,<br />

moltiplicarci, occupare ogni metro quadrato di spazio<br />

con abitazioni, edifici, strade, industrie, miniere,<br />

allevamenti, e di esserne pure orgogliosi! Lasciamo<br />

che la terra possa riprendere a respirare! Smettiamo<br />

di soffocarla con la nostra vorace presenza! Non siamo<br />

cavvallette, non siamo formiche. Smettiamola di<br />

comportiamoci da animali infestanti, come topi o<br />

scarafaggi. Smettiamo di essere il cancro della terra.<br />

Abbiamo un cervello e un’intelligenza più grande di<br />

quella necessaria a guardare a venti centimetri dal<br />

nostro naso. E soprattutto abbiamo un cuore e<br />

un’intelligenza emotiva assai maggiore di quella di un<br />

rettile o di un cercopiteco.<br />

“Un’intelligenza che però va sviluppata!”<br />

Sì, attraverso un nuovo tipo di educazione, che veda


in questo obiettivo una priorità assoluta. Ne va della<br />

nostra salute mentale, come singoli e come<br />

collettività, e infine della nostra stessa sopravvivenza.<br />

“Hai detto che il cuore si fa spazioso quando la mente<br />

tace. Nella vita frenetica di oggi, far tacere la mente è<br />

un’impresa quasi impossibile!”<br />

Per molte persone questo è assolutamente vero. Sono<br />

troppo prese dal vortice. Quando si fermano, stanno in<br />

silenzio, portano attenzione al respiro e alle sensazioni<br />

del corpo, l’unica cosa che ottengono è un crescente<br />

malessere. Per riprendersi, corrono a mangiare, bere<br />

un caffè o fumare. Un cervello che gira troppo<br />

velocemente, non può essere fermato in un attimo.<br />

Occorre calma, pazienza e perseveranza. Cioè proprio<br />

le qualità che, come le piante, gli animali selvatici e<br />

l’aria pulita, sono oggi più a rischio di estinzione.<br />

C’è chi ha portato la meditazione buddista nei carceri


e nelle scuole, ottenendo risultati spesso straordinari.<br />

L’impresa non è impossibile, ma molto difficile.<br />

C’è chi ha introdotto delle tecniche che facilitano il<br />

rilassamento passando attraverso lo scarico<br />

dell’energia in eccesso, e in tal modo favorendo la<br />

naturale propensione alla quiete e allo stato<br />

meditativo. C’è chi preferisce proporre una via ispirata<br />

al tantra, che non impone lunghe sedute di<br />

meditazione, ma brevi momenti durante la giornata di<br />

presenza mentale. Le vie possibili sono tante, quanto<br />

grande è la creatività umana.<br />

“Quale via propone la PNL umanistica?”<br />

Essenza della PNL è il modellamento di ciò che<br />

funziona meglio, di ciò che è efficace. Ma la domanda<br />

è: funziona meglio per chi? Il problema fondamentale<br />

è questo. Non c’è una via adatta a tutti, perché ogni<br />

persona è diversa e impara in modo differente.


Se andiamo a vedere come sono nate varie tecniche e<br />

vie, di solito scopriamo un maestro o un un gruppo di<br />

maestri che le ha ideate e perfezionate. Un maestro<br />

può insegnare una tecnica solo se ne ha tratto<br />

profondo beneficio. In tal modo può essere congruo ed<br />

efficace. Ma se ha funzionato per lui, anche in modo<br />

eccellente, non significa che produrrà risultati per tutti<br />

gli allievi, ma solo per quelli che hanno una<br />

predisposizione, tipologia o stile di apprendimento,<br />

simili a quelli del maestro. Tutti gli altri incontreranno<br />

difficoltà più o meno grandi. Il rischio è che esse<br />

vengano interpretate come resistenze: pigrizia,<br />

incapacità, incostanza.<br />

Quello che accade nelle scuole di meditazione accade<br />

in tutte le scuole del mondo: alcuni riescono di più<br />

perché si trovano nel contesto adatto alla loro<br />

tipologia.<br />

Ignorare questo fatto significa violare uno dei diritti<br />

fondamentali dell’uomo: il principio di eguaglianza.<br />

Esso non richiede di trattare tutti allo stesso modo,


come talvolta banalmente si pensa. Ma di trattare in<br />

modo uguale le situazioni uguali e in modo diverso le<br />

situazioni diverse. Le differenze vanno rispettate, non<br />

ignorate! Differenti tipologie umane richiedono<br />

rispetto per la loro natura, e modi adeguati per<br />

sintonizzarsi con esse.<br />

Il paradigma dualistico, e il relativo pensiero-<br />

linguaggio, nel quale siamo immersi, rischia sempre di<br />

favorire la pratica del pensiero dicotomico:<br />

l’uguaglianza è una cosa, la differenza è un’altra.<br />

Non casualmente, altre culture, come quella cinese o<br />

indiana antica, fondate su una visione non duale,<br />

hanno creato altri tipi di pensiero-linguaggio, in cui la<br />

stessa parola significa contemporaneamente una cosa<br />

e il suo opposto. Ad esempio, la parola crisi, in cinese,<br />

vuol dire rischio, pericolo e, nello stesso tempo,<br />

opportunità.<br />

Per noi un problema è un problema e una risorsa una<br />

risorsa. Due sono le parole, due i concetti, due le<br />

categorie. Certo, anche noi possiamo capire che un


problema, guardato da un angolatura diversa, può<br />

diventare una risorsa. Ma per il tipo di linguaggio che<br />

usiamo, e la forma mentis che ne deriva, la<br />

ristrutturazione, il passaggio da una configurazione di<br />

significati ad un’altra, non avviene in modo<br />

automatico. Occorre ogni volta uno sforzo, un atto di<br />

volontà. Appena ci lasciamo andare, tutto torna come<br />

prima.<br />

E’ come percorrere una strada in salita: la gravità tira<br />

verso il basso. Così da noi il pensiero-linguaggio, come<br />

forza di gravità mentale, crea un campo nel quale i<br />

concetti tendono a polarizzarsi, separarsi, contrapporsi<br />

tra loro.<br />

Guarda caso, a fondamento di tutto l’edificio della<br />

conoscenza sviluppata in occidente, stanno i principi<br />

aristotelici di identità e di non contraddizione. Sulla<br />

validità dei quali, in teoria e nella vita di tutti i giorni,<br />

abbiamo imparato a non nutrire alcun dubbio. Principi<br />

che però ci portano sovente ad esclamare affermazioni<br />

piuttosto curiose, del tipo: la vita è paradossale!


Che significa questa affermazione? Di solito chi la<br />

pronuncia intende dire che la vita contraddice ogni<br />

logica previsione. Quindi la vita è strana, perché,<br />

come i bambini, i terremoti o le malattie, si permette<br />

di non confermarsi ai nostri schemi. Chi non ignora la<br />

storia della filosofia, sa per quanti secoli molti filosofi,<br />

a partire da Parmenide, hanno sostenuto la<br />

coincidenza tra pensiero e realtà. E quindi la<br />

possibilità di conoscere la realtà attraverso il<br />

ragionamento, bypassando l’esperienza, che,<br />

basandosi sulla percezione, è sempre illusoria. Fino ad<br />

arrivare al capolavoro dell’affermazione hegheliana: se<br />

i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per<br />

i fatti.<br />

La preferenza accordata alla teoria sui fatti è<br />

rispecchiata nella società dalla posizione di privilegio<br />

accordata a non pochi intellettuali, che pontificano su<br />

situazioni che nel concreto ignorano. Perché conoscere<br />

il concreto significa scendere dal piedestallo, perdere i<br />

privilegi, e mischiarsi nella banalità del quotidiano, in


mezzo alla gente più comune e triviale, con le sue<br />

imperfezioni, la sua miseria, la puzza del suo sudore.<br />

Come fecero Dostoevski o madre Teresa, e tanti altri<br />

meno famosi di loro.<br />

“Questo non ha a che fare con il patriarcato e il<br />

maschilismo?”<br />

Vi è strettamente connesso. Le donne, almeno quando<br />

allevano bambini, non possono permettersi troppi voli<br />

lontani dalla realtà, che nell’immediato è fatta, in<br />

entrata, di poppate e di pappe, e, in uscita, da<br />

vocalizzi, pianti e produzioni biologiche di differente<br />

consistenza e odore, che un’amica psicoanalista ha<br />

elegantemente definito: aspetti primitivi del sé. I<br />

bambini, più piccoli sono, più obbligano chi se ne cura,<br />

ad una continua presenza ed attenzione nel qui ed<br />

ora.<br />

Al di là delle battute, è caratteristica del femminile


essere più in contatto con la terra e con il<br />

sensorialmente basato, e un privilegio maschile<br />

potersene più facilmente distaccare. Con il rischio di<br />

allontanarsene troppo e coltivare un tipo di pensiero<br />

che con la materialità e la concretezza dei sensi ha<br />

perso ogni rapporto. E con esso ha perso anche ogni<br />

pratica funzione, se non quella di autoriprodursi e<br />

garantire ai suoi maestri o adepti una qualche forma<br />

di privilegio. Come, ad esempio, essere esentati dai<br />

compiti più umili e faticosi, o essere pagati<br />

profumatamente per un uso inconsistente e pressoché<br />

inutile del linguaggio, che in compenso richiede per<br />

ottenerlo un lungo apprendistato.<br />

In ogni tempo e luogo, quando la ricerca spirituale è<br />

diventata appannaggio del maschile, essa è stata<br />

regolarmente accompagnata dalla svalutazione dei<br />

sensi e del corpo, e dalla comparsa delle formalità,<br />

delle teologie e cosmogonie complicate e inacessibili,<br />

del dogmatismo e della gerarchia. Nella quale le<br />

donne, o erano escluse, o occupavano l’ultimo


gradino. Per motivi profondi ed esoterici, che solo la<br />

superiore razionalità maschile poteva comprendere<br />

appieno.<br />

Ma riprendiamo il filo del discorso.<br />

“Eravamo partiti dal chiederci quale via propone la<br />

PNL umanistica per favorire l’apertura del cuore.”<br />

“E avevamo visto che il concetto di “via” monodica è<br />

contraria allo spirito pluralista e antidogmatico della<br />

PNL.”<br />

Un allievo chiese ad Osho: “Maestro, nel mondo ci<br />

sono più di trecento religioni. Non sono troppe?”<br />

E il maestro rispose: “Al contrario. Credo che siano<br />

troppo poche. Siamo sei miliardi di esseri umani!”<br />

Ogni persona una via: una via spirituale specifica, un<br />

percorso terapeutico, una modalità di insegnamento,<br />

adatti al suo stile di apprendimento, preferenza o<br />

tipologia. Questo è l’approccio polifonico, la “meta-


via”, che propone la PNL, per valorizzare le differenze<br />

individuali, anziché penalizzarle. Trattandole come<br />

risorse anziché come problemi.<br />

Per questo incoraggiamo le persone a frequentare<br />

contesti di apprendimento diversi dai nostri, luoghi<br />

dove si fanno pratiche differenti, si usa un differente<br />

linguaggio e metodologia. Ad approfondire argomenti<br />

e frequentare discipline diverse dalla PNL e dalla<br />

psicologia, come l’economia, la politica, la filosofia, la<br />

storia, la biologia. A frequentare e praticare la musica,<br />

l’arte, la danza, l’attività fisica, il contatto con la<br />

natura. A risvegliare la loro naturale curiosità ed<br />

interesse in settori e campi diversi, ad esplorare nuovi<br />

territori, non per colonizzarli e trarne profitto, ma per<br />

ritornare a essere neofiti, principianti, ancora capaci di<br />

stupirsi e meravigliarsi. Recuperando la voglia che i<br />

bambini hanno di apprendere, finché rimangono<br />

abbastanza piccoli ed innocenti, non troppo<br />

contaminati dalla cultura competitiva e predatoria in<br />

cui viviamo.


“E non c’è il rischio di dispersione?”<br />

Il rischio è parte integrante dell’esperienza del vivere.<br />

Il chiudersi dentro i cancelli di un’unica prospettiva,<br />

invece, offre una sola certezza: quella di alimentare i<br />

propri pregiudizi e diventare più intolleranti alle idee di<br />

altre persone. Ed è difficile sostenere, anche se è stato<br />

fatto infinite volte, che sia un buon metodo per<br />

imparare ad amare il prossimo e ad avvicinarsi a Dio.<br />

Il pluralismo oggi è un dato di fatto, non una scelta.<br />

Viviamo a contatto quotidiano con persone e prodotti<br />

provenienti da altre culture, lingue, storie, religioni.<br />

Anche volendo, non possiamo isolarci, pena la nostra<br />

estinzione. Non possiamo dire a cinesi, ucraini, russi,<br />

congolesi, ma anche a francesi, inglesi, tedeschi,<br />

americani: statevene a casa vostra, tenetevi le vostre<br />

merci e i vostri prodotti. Se non altro perché loro<br />

farebbero la stessa cosa con noi, e noi, che non siamo


autosufficienti, come non lo è più alcun paese,<br />

potremmo ancora prendere il sole quando c’è, ma<br />

moriremmo di fame, di freddo o di miseria.<br />

La sfida di oggi è passare dall’incontro casuale e<br />

caotico tra differenti ritmi, trame e melodie di<br />

comportamenti e manufatti umani, a qualcosa che<br />

assomigli ad una musica polifonica o ad un arazzo,<br />

dotato di un qualche senso, non ad un accozzaglia di<br />

rumori o a un deposito di immondizia. Per questo<br />

occorre sviluppare nuove capacità di modulazione e<br />

integrazione. Nuove capacità di comporre le differenze<br />

in un progetto unitario. Nuove capacità di dar forma al<br />

caotico e all’informale. Che, non casualmente, sono le<br />

caratteristiche del processo vitale o neghentropico.<br />

“Rispettare”, etimologicamente, significa guardare due<br />

volte, guardare e comprendere in profondità.<br />

Rispettare davvero la vita, slogan oggi di moda,<br />

significa comprendere in primo luogo di che cosa si sta<br />

parlando. Ma parlando utilizziamo il linguaggio, e il<br />

linguaggio che noi crediamo di adoperare, in gran


parte è lui ad utilizzare noi per riprodurre l’implicita<br />

filosofia e storia di cui è figlio, e della quale è fedele<br />

portatore.<br />

Appena parliamo di vita, la nostra mente, formata dal<br />

linguaggio, estrapola dallo sfondo la categorie degli<br />

oggetti ritenuti chiaramente viventi: in primo luogo gli<br />

uomini, e poi, bontà nostra, anche gli animali e le<br />

piante. Ma subito dopo è educata, storicamente, ad<br />

operare un’altra fondamentale distinzione, tra forme di<br />

vita più e meno complesse ed elevate, tra forme<br />

superiori e inferiori, creando così una gerarchia al cui<br />

vertice sta solo l’essere umano, ben separato da tutti<br />

gli altri perché l’unico dotato di anima e sensibilità.<br />

Lungi da me sostenere che gli appartenenti alla specie<br />

homo sapiens siano faziosi. Non disponiamo di<br />

sufficienti prove scientifiche per affermarlo, ma solo di<br />

qualche debole indizio, per nulla probante, come il<br />

fatto di ritenerci, in gran numero, fatti ad immagine e<br />

somiglianza di Dio. Probabilmente anche i babbuini e i<br />

cercopitechi, se potessero ragionare linguisticamente,


arriverebbero ad affermare una tesi equivalente alla<br />

nostra, con l’unica differenza che al vertice<br />

metterebbero se stessi. In compenso, noi possiamo<br />

vantare una coerenza davvero ammirevole, dal<br />

momento che, tutti d’accordo, consideriamo<br />

egocentrici solo i nostri bambini, per risparmiare a noi<br />

stessi l’umiliazione di scoprirci ben poco diversi da<br />

loro.<br />

“Non capisco bene dove vuoi arrivare!”<br />

Ad una meta molto semplice, e nello stesso tempo<br />

ambita: a trovare un rimedio al senso di indegnità e di<br />

colpa, che è così diffuso e pervasivo, da esserci<br />

sembrato parte intrinseca della nostra più profonda<br />

natura, visto che crediamo di averlo ereditato, insieme<br />

agli altri geni, dai nostri primissimi progenitori. Essi sì<br />

che si macchiarono di una colpa molto grave,<br />

disubbedendo a Dio, al Verbo. Il Verbo che aveva


creato il cielo e la terra, la luce e le tenebre, dando<br />

loro un nome, e che ci aveva fatto a sua immagine e<br />

somiglianza.<br />

Forse oggi siamo in grado di rileggere la nostra storia<br />

in un altro modo: ogni volta che ci allontaniamo da un<br />

uso tradizionale del linguaggio, e cerchiamo di<br />

sviluppare le nostre potenzialità, diventando davvero<br />

umani e comportandoci a nostra volta da creatori,<br />

siamo presi dal panico e dal senso di colpa. Il<br />

linguaggio, che ci ricrea continuamente a sua<br />

immagine e somiglianza, non è disposto impunemente<br />

a lasciarci diventare quello che in realtà siamo<br />

destinati ad essere, perché essendo a sua volta una<br />

nostra creazione, non è frutto di solo amore, ma<br />

anche di <strong>potere</strong>. Come il Dio del vecchio testamento.<br />

“<strong>Amore</strong> e <strong>potere</strong>, le due forze da cui siamo spinti, si<br />

ritrovano all’origine del linguaggio!”


Come di ogni altra nostra tecnica, che, da creatura<br />

nostra, diventa a sua volta creatore dei suoi creatori -<br />

noi stessi -, imponendoci un processo inconsapevole di<br />

riproduzione, da cui abbiamo difficoltà a liberarci. Noi<br />

abbiamo scoperto l’elettricità, inventato il motore a<br />

scoppio, la stampa, la televisione. Che dovrebbero<br />

essere al nostro servizio, e renderci la vita più facile.<br />

Se guardiamo in profondità, siamo diventati noi i<br />

servitori delle automobili, dei telefonini e dei<br />

computer, dei quali non possiamo più fare a meno.<br />

Come non possiamo più fare a meno del linguaggio,<br />

essendo penetrato nella nostra neurologia e nel nostro<br />

funzionamento mentale.<br />

Ecco perché è così difficile far tacere la mente.<br />

Significa sottrarsi ad un dominio ormai molto<br />

consolidato, quello delle parole attraverso le quali,<br />

nominandola, creiamo la nostra realtà.<br />

Smettendo di usarle, ci inoltriamo oltre le colonne<br />

d’Ercole e siamo presi dal panico. Allora corriamo a<br />

bere, mangiare, fumare, riempirci di impegni. Pagando


così il nostro tributo di soggezione ad un tiranno<br />

interiore, che abbiamo per troppo tempo assecondato,<br />

credendolo il nostro miglior alleato: il <strong>potere</strong>.<br />

“Vediamo se ho capito il tuo discorso. Ogni volta che<br />

uso una parola, ritaglio una figura da uno sfondo<br />

indifferenziato - un tavolo, un ascensore, o anche un<br />

sorriso o uno starnuto -, e lo percepisco come se fosse<br />

un oggetto o un processo, distinto e separato, dotato<br />

di una sua identità e permanenza”.<br />

Esattamente.<br />

“Quindi, in un certo senso, sono io a creare la realtà<br />

che percepisco fuori di me, come se fosse oggettiva.<br />

Anzi, come hai detto poco fa, nella maggioranza dei<br />

casi, mi limito a riprodurla nel modo in cui il<br />

linguaggio, inconsapevolmente, mi spinge a fare”.


Sì, continua.<br />

“Poi hai aggiunto che, quando davvero mi comporto in<br />

modo creativo, e scombino le carte già date, vengo<br />

assalito dalla paura, perché il linguaggio, come ogni<br />

tecnica, non si presta facilmente ad essere ricreato, ed<br />

oppone resistenza. Un po’ come se temesse di perdere<br />

il suo dominio su di me. Quindi, funziona come una<br />

sorta di organismo vivente. I genitori mettono al<br />

mondo dei figli con lo scopo inconscio di prolungare se<br />

stessi. Ma questi cominciano ben presto a fare di testa<br />

loro e influenzano potentemente la vita dei genitori. Le<br />

tecniche, create dall’uomo per servirlo, gli<br />

assomigliano al punto che cominciano ad utilizzare<br />

l’uomo come loro servitore.<br />

Fin qui credo di aver capito. Mi sfugge ancora il<br />

discorso sul senso di colpa e sul modo di liberarsene.”<br />

Ho parlato a ruota libera, e ho lasciato la mia mente


libera, appunto, di scombinare le carte. Ad uno scopo:<br />

seminare ad ampie mani il dubbio su ogni nostra<br />

certezza che non derivi da esperienze basate sui sensi<br />

e sul corpo, ma su esperienze di seconda mano<br />

mediate dal linguaggio. Il linguaggio, se non abbiamo<br />

consapevolezza del suo <strong>potere</strong>, diventa una trappola<br />

micidiale. Attraverso il linguaggio, dato il suo <strong>potere</strong><br />

creativo della realtà, ci si può convincere di qualsiasi<br />

cosa. Il linguaggio propaganda non è solo quello dei<br />

nazisti, dei fascisti o dei comunisti di Stalin, ma anche<br />

quello che molte persone riproducono all’interno della<br />

loro mente, asservendosi completamente al suo<br />

<strong>potere</strong>.<br />

Ricordiamo la sua origine: il linguaggio, come ogni<br />

tecnica, non nasce neutra. Essa porta in sé le<br />

caratteristiche profonde dei suoi creatori, che, essendo<br />

umani, vi immettono sempre una quota di <strong>potere</strong>,<br />

oltre che di amore.<br />

La rivoluzione non consiste allora nell’inventare<br />

sempre nuove tecniche più efficaci, cosa che siamo


avissimi a fare, ma se possibile, nel liberare quelle<br />

già esistenti del virus del <strong>potere</strong> che è penetrato in<br />

loro.<br />

“Ad esempio, inserendo nelle tecniche, come si fa in<br />

PNL, una sorta di clausola ecologica?”<br />

A partire dal linguaggio, che è la matrice di tutte le<br />

tecniche umane. Quando, attraverso il linguaggio,<br />

diamo forma ad una realtà come il senso di colpa,<br />

senza rendercene conto creiamo un oggetto<br />

altrettanto pericoloso della dinamite per costruire<br />

mine antiuomo. Il proliferare di simili ordigni,<br />

difficilmente potrà contribuire a promuovere un<br />

rapporto più armonioso e pacifico tra le persone.<br />

L’etica autoritaria, che si fonda sulla separatività, sul<br />

<strong>potere</strong>-dominio e lo sfruttamento dell’uomo da parte<br />

dell’uomo, attraverso il linguaggio-propaganda, si è<br />

sempre servita di ordigni simili al senso di colpa, noti


a tutti con i nomi di “rispettabilità”, “peccato”,<br />

“giudizio”, “offesa a Dio”, “bene nazionale”, ecc.<br />

“In che modo il senso di colpa è un’invenzione<br />

autoritaria, e non invece un concetto che ci aiuta a<br />

tenere a bada i nostri più bassi istinti?”<br />

La dinamite può essere utilizzata anche per scavare<br />

un tunnel in una montagna. In certi casi può apparire<br />

una buona cosa. Ma bisogna essere degli irresponsabili<br />

a metterla in circolazione senza le dovute precauzioni.<br />

Il senso di colpa è un’invenzione autoritaria perché<br />

serve a deflagare dentro una mente, non una, ma<br />

infinite volte, rendendo debole e succube la persona.<br />

Serve a farla sentire indegna, cattiva, incapace,<br />

pronta a sottomettersi ad una superiore autorità. Di<br />

più, pronta ad acclamarla e ringraziarla come proprio<br />

salvatore.<br />

L’autorità irrazionale connota come negativi


determinati impulsi, come quello sessuale o quello di<br />

esplorare e di pensare con la propria testa. Poi<br />

promette punizioni in questo o nell’altro mondo (più<br />

efficaci, questi ultimi, data la loro inverificabilità). Se<br />

la persona crede all’autorità, il gioco è fatto. Anche se<br />

non verrà concretamente punito, si punirà da solo al<br />

proprio interno, avendo interiorizzato l’autorità come<br />

giudice.<br />

Instillare il senso di colpa è un’operazione reazionaria<br />

ed oppressiva, non compatibile con un’educazione<br />

minimamente sana. E tantomeno con una pratica<br />

politica rivoluzionaria o una via di elevazione<br />

spirituale, nobili scopi, proprio per i quali ne è stato<br />

fatto il più ampio uso.<br />

Dopo Max Weber, abbiamo imparato ad operare<br />

nell’etica una distinzione, questa sì, davvero<br />

importante: tra etica dell’intenzione ed etica della<br />

responsabilità.<br />

La prima serve spesso a coprire i peggiori misfatti: io<br />

ho agito così per il suo bene, lui è morto, pazienza!


Sono moralmente a posto.<br />

La seconda guarda ai risultati delle nostre azioni. Se<br />

sono dannose, chiede di rimediare. Non a sentirsi in<br />

colpa, che non serve a nessuno, ma a riparare il<br />

danno, impegnandosi a non produrlo più.<br />

Il senso di colpa, invece, è un radicale nevrotico che,<br />

lungi dal migliorarci, ci mantiene deboli ed in conflitto<br />

con noi stessi, pronti a ricadere nell’errore infinite<br />

volte. Macerandoci al nostro interno, ma rimanendo<br />

del tutto insensibili al destino concreto dell’eventuale<br />

vittima. La quale, oltre al danno subito, dovrà magari<br />

sorbirsi il nostro cattivo umore. Il senso di colpa non<br />

serve a purificare la propria anima, ma a sottomettersi<br />

al <strong>potere</strong> altrui e ad odiare se stessi.<br />

“Come faccio a sapere se una cosa, una persona, una<br />

tecnica, ha <strong>potere</strong> su di me?”<br />

A questa domanda c’è una risposta molto semplice:


una cosa ha <strong>potere</strong> su di te quando non ne puoi fare a<br />

meno. Prova a liberarti dal senso di colpa. Non ci<br />

riesci. Il senso di colpa ha <strong>potere</strong> su di te, perché<br />

l’autorità che te lo ha installato, ti è entrata dentro. Ti<br />

domina dall’interno, esercitando la forma di controllo<br />

più efficace e sicura che esista. Tu credi di essere<br />

libero, perché credi, sentendoti in colpa, di pensare<br />

con la tua testa. In realtà stai pensando con la testa di<br />

chi questo <strong>potere</strong> ha esercitato su di te.<br />

Appena provi a indagare questo meccanismo, ti senti<br />

più in colpa di prima, perché perdi la tua innocenza: ti<br />

stai ribellando. E la ribellione, nella cultura dell’etica<br />

autoritaria, che hai fatto tua, è la peggiore delle colpe.<br />

“Ma anche i miei cattivi impulsi hanno <strong>potere</strong> su di<br />

me!”<br />

Nel momento che accetti la definizione di “cattivi<br />

impulsi”, che ti viene fornita non dalla natura, ma


dall’autorità irrazionale, - politica, religiosa o filosofica,<br />

non importa -, essi diventano tali per il semplice fatto<br />

che tu inizi a combatterli. Dando inizio ad una danza<br />

distruttiva, ad una lotta senza fine. Più cerchi di<br />

controllarli, più essi si ribelleranno, trasformandosi in<br />

demoni capaci di riempire le tue notti dei peggiori<br />

incubi.<br />

Così è tipicamente per l’impulso sessuale. Una volta<br />

definito pericoloso e soggetto a repressione, esso si<br />

distacca dall’amore e dallo spirito, e si perverte in<br />

materialità bruta, tingendosi di futilità o sporcandosi di<br />

aggressività e prevaricazione. E’ facile dopo giudicarlo<br />

cattivo.<br />

La regola è semplice: ciò a cui non sei in grado di<br />

rinunciare, diventa un bisogno e ha <strong>potere</strong> su di te. Se<br />

non sai rinunciare agli alcolici e al fumo, bottiglie e<br />

sigarette hanno <strong>potere</strong> su di te. Se non sai rinunciare<br />

ad ingollarti di cibo, il cibo ha <strong>potere</strong> su di te. Non sei<br />

tu a scegliere. Sono loro che decidono della tua vita.<br />

Se non sei in grado di rinunciare alla persona che dici


di amare, e lasciarla libera di amarti o no, tu sei<br />

soggetto al suo <strong>potere</strong>. Per questo inizi ad odiarla, nel<br />

momento stesso che dici di amarla di più.<br />

<strong>Amore</strong> e dipendenza sono inconciliabili.<br />

Se non sai rinunciare ai tuoi sogni, essi ti<br />

domineranno trasformandosi nei tuoi peggiori tiranni.<br />

“Ma rinunciare non significa arrendersi e abbandonare<br />

ogni aspirazione? Quindi vivere nell’apatia, nella<br />

rassegnazione?”<br />

Non ho detto che occorre “rinunciare”, ma “saper<br />

rinunciare”, saper fare a meno. Desidero una casa più<br />

bella, ma posso essere felice anche se non riesco ad<br />

averla. Voglio diventare un ottimo pianista, ma<br />

immagino di poter essere felice anche se non lo<br />

divento. Mi fa piacere laurearmi, ma sono soddisfatto<br />

di me anche prima. Sono contento di essere in salute,<br />

ma una malattia non mi fa perdere il buon umore.


Sono contento se una persona è gentile con me, ma<br />

non pretendo che lo sia.<br />

“Quindi non si tratta di non avere desideri o di<br />

reprimerli!”<br />

Certo che no. Sogni e desideri, finché rimangono<br />

preferenze, sono il sale della vita: sono possibilità che,<br />

lasciandoci liberi, ci spingono a muoverci, ad agire, a<br />

goderci le cose. L’attaccamento ai desideri, invece, li<br />

trasforma in bisogni e in doveri. Poiché pretendono di<br />

essere soddisfatti, i bisogni ci dominano e ci rendono<br />

schiavi.<br />

Come dei buchi neri, risucchiano la nostra attenzione<br />

e la nostra energia. Il resto non ci interessa, neppure<br />

più lo vediamo. Siamo presi da un amore passionale e<br />

usciamo con un amico. Lui potrebbe aver perso un<br />

occhio e avere un palo piantato nella schiena, e non ce<br />

ne accorgeremmo neppure. Non c’è spazio nella


nostra testa che per la persona oggetto del nostro<br />

amore. Che amore ovviamente non è, ma solo<br />

possessione.<br />

Questa è la natura della dipendenza.<br />

E si può dipendere da tutto, non solo dall’alcol o dalla<br />

droga. Si può dipendere dalla carriera, dal denaro, dal<br />

successo, dal riconoscimento, dall’amore di un’altra<br />

persona, appunto.<br />

Ricordo una cliente che si tormentava per essere stata<br />

abbandonata dall’uomo con cui stava. L’aveva lasciata<br />

per andare con un’altra donna. Le chiesi se amava<br />

ancora quell’uomo, e lei mi rispose, un po’ risentita:<br />

“Certo, lo amo tremendamente, non ho altri pensieri<br />

che per lui”.<br />

Brevemente, le dissi di immaginare questa scena: lui,<br />

dopo aver trascorso una notte travolgente di passione<br />

con la nuova compagna, al mattino presto esce di<br />

casa colmo di felicità, ma lievemente assonnato. E,<br />

attraversando la strada, non vede sopraggiungere il


camion della spazzatura. Ci finisce sotto e rimane<br />

spiaccicato sull’asfalto.<br />

Nel viso della donna compare un sorriso, molto lieve e<br />

trattenuto, per la verità. In confronto quello della<br />

Gioconda sarebbe apparso una volgare sghignazzata.<br />

Glielo feci comunque notare, e, fingendomi stupito<br />

della sua reazione, le chiesi spiegazioni. E lei se ne<br />

uscì con una frase del tipo: “Ecco ciò che si<br />

meriterebbe quel bastardo!”<br />

Il linguaggio, all’interno di una cultura duale, lo<br />

abbiamo visto, tende a focalizzarsi sulle differenze, e a<br />

polarizzarle. Il campo semantico della rinuncia,<br />

richiama comunemente parole come: perdita, resa,<br />

rassegnazione, debolezza, sofferenza. Qualcosa di<br />

negativo, da evitare nei limiti del possibile. Come una<br />

malattia, o una disgrazia.<br />

In questo modo, attraverso una categorizzazione<br />

linguistica socialmente condivisa, veniamo a perdere<br />

una fetta importante di realtà e di significati, che si<br />

collocano in tutt’altra direzione: la rinuncia come forza


d’animo e apertura a nuove infinite possibilità. La<br />

rinuncia come liberazione dalla tirannia dei bisogni!<br />

“Quindi come risorsa!”<br />

Quelli che consideriamo problemi, lo sono dal nostro<br />

punto di vista. Ma la realtà è molto più vasta di ciò<br />

che riesce a vedere il nostro occhio condizionato dal<br />

pensiero-linguaggio e dalla cultura di appartenenza.<br />

“Mi sembra difficile convincere un povero della fortuna<br />

che ha nel rinunciare ad una vita comoda e<br />

confortevole! O ad un innamorato a dover rinunciare<br />

alla donna che ama!”<br />

Il problema non sta nella rinuncia, ma nella libertà o<br />

nella costrizione. E’ diverso vivere nella povertà o<br />

nella frugalità perché lo si è scelto, come fece S.<br />

Francesco, o perché a tale situazione si è condannati


da circostanze avverse. Nel secondo caso, non si<br />

tratta di rinuncia, ma di impossibilità, impedimento,<br />

frustrazione, tutte cose che non favoriscono la felicità.<br />

Questo è facile da capire.<br />

Meno facile è comprendere che lo stesso vale per la<br />

ricchezza o il successo. L’attaccamento al desiderio di<br />

avere successo si trasforma spesso in bisogno e<br />

coazione, che porta la persona a lavorare ed<br />

impegnarsi sempre di più, in una corsa senza fine.<br />

D’altra parte, chi si accontenta della sua situazione<br />

economica non florida, rinunciando alla pretesa che le<br />

cose dovrebbero essere diverse, può vivere una vita<br />

assolutamente piena e serena.<br />

“Finché si parla di soldi o di successo, sono d’accordo.<br />

Ma quando si tratta della salute?”<br />

Il discorso non cambia. Paradossalmente, per godere<br />

di buona salute psichica, occorre saper rinunciare ad


avere una perfetta salute fisica. Altrimenti ogni<br />

sintomo, acciacco o malattia, diventa occasione per<br />

sviluppare cattivo umore, infelicità, depressione.<br />

E per godere di una buona salute fisica, occorre lasciar<br />

andare la pretesa di essere sempre soddisfatti e<br />

contenti. In caso contrario, ogni emozione negativa<br />

diventa oggetto di osservazione preoccupata e<br />

ansiosa, trasformandosi da fenomeno innocuo e<br />

passeggero, in sequestro emozionale che può<br />

prolungarsi nel tempo e danneggiare il corpo.<br />

“Ma se arriva una malattia seria o incurabile?”<br />

Mia madre era ricoverata in ospedale a Milano per una<br />

delicata operazione, nella speranza di rimediare ad un<br />

intervento compiuto a Genova da un ortopedico di<br />

rara incompetenza. Nella sua stanza c’erano altre due<br />

donne: una ragazza giovane, ed una signora di una<br />

certa età.


Quando andavo a trovarla, mia madre, nonostante il<br />

disagio e la sofferenza fisica, era contenta di vedermi<br />

e appariva tranquilla e di buon umore. Anche la<br />

signora del letto accanto era molto gentile, sorridente,<br />

ed emanava un senso di serenità.<br />

La ragazza più giovane, invece, era sempre chiusa e<br />

ingrugnita. Non rispondeva al saluto e sembrava<br />

infastidita dalla presenza di ogni altro essere umano.<br />

Tutti i giorni, parenti, amici e il fidanzato, venivano a<br />

farle visita, pieni di premure. Ma il suo umore non<br />

cambiava minimamente: anzi, ogni volta trovava<br />

nuove occasioni per lamentarsi e criticare qualcuno.<br />

Mi feci l’idea che stesse soffrendo per una grave<br />

malattia, e che reagisse alla sofferenza in questo<br />

modo distruttivo. Mentre l’altra donna, più anziana,<br />

probabilmente aveva un lieve disturbo e presto<br />

sarebbe tornata a casa. Per questo poteva essere<br />

sorridente nei miei confronti, e così gentile e<br />

premurosa nei confronti di mia madre.<br />

Ben presto venni a sapere che la verità era il


contrario. La ragazza giovane non aveva nulla di<br />

grave, e stava per lasciare l’ospedale perfettamente<br />

guarita. La signora più anziana, invece, era ammalata<br />

di tumore e aveva davanti solo pochi mesi di vita.<br />

Inoltre, era stata abbandonata dal marito, ed era sola<br />

al mondo. Nessuno veniva mai a trovarla.<br />

Nonostante questo, irradiava un senso di serenità e<br />

benevolenza, che era contagioso. Mia madre fu molto<br />

aiutata dalla sua presenza.<br />

Candy Pert racconta di un uomo giovane paralizzato a<br />

letto, senza più l’udito, a causa di un gravissimo<br />

incidente. Per respirare aveva bisogno del polmone<br />

artificiale. Egli trovava conforto nel guardare gli alberi<br />

fuori dalla finestra dell’ospedale. Un giorno perse<br />

anche la vista, e fu preso da un terribile<br />

scoraggiamento. Poi si ricordò che anni prima aveva<br />

praticato meditazione. Iniziò a concentrare la sua<br />

attenzione sul respiro, con dedizione e amore. Dopo<br />

qualche ora, il suo umore si risollevò. E con il tempo,<br />

lentamente, il suo corpo cominciò a guarire.


Roberto Ghiozzi, musicoterapeuta che si è formato<br />

nella nostra scuola, accompagnando i malati terminali<br />

di AIDS negli ultimi mesi di vita, ha assistito più volte<br />

ad una loro rinascita spirituale. Rinascita resa possibile<br />

dalla sua presenza amorevole ed empatica, e dalla<br />

musica cantata, composta o suonata apposta per loro.<br />

Vari pazienti lo hanno salutato, prima di lasciare<br />

questo mondo, dicendo che i tempi trascorsi insieme<br />

erano stati i più belli della loro vita.<br />

Non rimandiamo, non aspettiamo gli ultimi giorni della<br />

nostra esistenza per scoprire questa profonda verità:<br />

la felicità non dipende dalle circostanze materiali, ma<br />

dall’apertura del cuore.<br />

“E’ questo il significato profondo della rinuncia alle<br />

pretese e all’attaccamento ai desideri?”<br />

Nel discorso della montagna, Gesù è stato molto<br />

esplicito: beati gli ultimi e beati i poveri, perché loro


sarà il regno dei cieli.<br />

Poveri di che cosa? Poveri di bisogni, e quindi, di<br />

pretese, lamentele, accuse. Capaci di essere contenti<br />

nel qui ed ora, con il cuore aperto a ricevere le grazie<br />

del creato, che sono presenti ovunque, in una foglia,<br />

in un insetto, in un raggio di sole, nel sorriso di un<br />

anziano che sta per morire.<br />

Ogni desiderio a cui ci attacchiamo, diventa un<br />

bisogno, che ci limita e ci toglie libertà. Il bisogno di<br />

riconoscimento ci spinge a cercarlo nelle altre<br />

persone, dalle quali finiamo per dipendere. Il bisogno<br />

di eccellere ci spinge a competere, in una gara<br />

continua con noi stessi e con gli altri.<br />

Non credo che Maslow abbia avuto una buona idea<br />

quando, nella sua famosa gerarchia, a messo sotto la<br />

stessa etichetta di “bisogni” quelli di sopravvivenza,<br />

quelli di relazione e quelli di realizzazione. Da adulto,<br />

ad esempio, non ho mai “bisogno” di accettazione, ma<br />

solo desiderio, perché dall’accettazione non dipendo<br />

come dal cibo.


Chiamandoli bisogni, si legittima una forma di ipnosi<br />

fin troppo comune, che ci autorizza a sentirci male e a<br />

lamentarci se non riceviamo l’affetto, il<br />

riconoscimento, l’attenzione che desideriamo. O ad<br />

essere insoddisfatti se non raggiungiamo nella vita i<br />

risultati che ci proponevamo.<br />

E’ vero che Maslow fa una distinzione fondamentale<br />

tra bisogni carenziali e bisogni accrescitivi. I primi<br />

sono i bisogni infantili ancora presenti in un adulto,<br />

come il bisogno di attenzione, e hanno quindi<br />

carattere nevrotico. I secondi, invece, sono quelli che<br />

ci spingono a migliorarci e a realizzare le nostre<br />

potenzialità. Ma questa distinzione, venendo dopo,<br />

non toglie il rischio di aver messo nella stessa scatola<br />

oggetti così diversi.<br />

I bisogni carenziali sono fonte di paura e coazione.<br />

Quelli accrescitivi sono fonte di crescita, libertà e<br />

gioia. Perché allora chiamarli bisogni? E non piuttosto<br />

aspirazioni, tendenze, forze evolutive, spinte interiori,<br />

motivazioni, passioni?


Da adulti dovremmo essere molto cauti a parlare dei<br />

nostri bisogni, come se si trattasse di esigenze reali. I<br />

bisogni non sono esigenze da soddisfare, ma di cui<br />

liberarsi appena possibile. Più siamo ricchi di intensi<br />

bisogni, più siamo separati dal mondo e dagli altri. E<br />

più siamo poveri a livello spirituale: tesi, arrabbiati o<br />

insoddisfatti.<br />

Su questa linea, tensione e insoddisfazione nel<br />

presente sono considerati la legittima molla del<br />

miglioramento individuale e del progresso collettivo.<br />

Mentre non sono che l’anticamera dell’inferno emotivo<br />

e relazionale. Quante famiglie si sfasciano perché uno<br />

dei partner dedica al lavoro troppa attenzione ed<br />

energia? E perché lo fa?<br />

“Di solito dice di farlo per mantenere la famiglia, per<br />

garantire un buon tenore di vita, per assicurare un<br />

futuro ai figli”.


Si tratta di una ragione o di una razionalizzazione?<br />

Non è difficile da capire. Dietro questi comportanti c’è<br />

regolarmente un bisogno: di mostrare il proprio<br />

valore. Mostrarlo a chi? Anzitutto a se stessi: io valgo<br />

perché ho successo.<br />

E’ sensata questa risposta? Nella logica del bisogno è<br />

certamente sensata, e così appare a chi la fornisce<br />

finché nel bisogno si identifica, e quindi non riesce a<br />

vederne la natura tirannica. Crede quindi di agire<br />

liberamente per il suo bene, e invece agisce per conto<br />

di un “meme”, entrato nella sua mente, che lo<br />

domina.<br />

“Un meme del <strong>potere</strong>?”<br />

Sì, un vassallo del <strong>potere</strong>, che fa il gioco del suo<br />

padrone: l’Ego. Per capire la natura dell’Ego occorre<br />

capire la natura del <strong>potere</strong>, che per definizione non<br />

può sopravvivere se non attraverso la pratica


dell’inganno e dell’autoinganno.<br />

“Un <strong>potere</strong> contro di sé!”<br />

Contro di sé e contro gli altri, in una logica non duale,<br />

non fa differenza. Il <strong>potere</strong> è contro, l’Ego è contro.<br />

Contro che cosa? Contro l’altra forza: l’amore. L’amore<br />

ci vuole connessi, in contatto, uniti tra noi, in armonia<br />

con l’ambiente. L’Ego ci vuole separati, in<br />

competizione, in lotta.<br />

“L’Ego quindi produce continua sofferenza?”<br />

Eckhart Tolle la chiama corpo di dolore. Più Ego<br />

abbiamo, più il nostro corpo di dolore è denso. E nello<br />

stesso tempo la nostra consapevolezza è oscurata<br />

dalla sua propaganda, che ci spinge ad agire non<br />

verso la luce della liberazione, ma verso le tenebre<br />

della progressiva schiavitù.


“La sofferenza, l’insoddisfazione cronica, la paura sono<br />

quindi sintomi di Ego? Anche se ci rendono deboli e<br />

inabili? Non si tratta piuttosto di un problema o un<br />

disturbo?”<br />

L’Ego è il problema! E’ la radice di tutti gli altri<br />

problemi e di tutta la sofferenza innecessaria.<br />

Separandoci dal qui ed ora, dal tempo e dallo spazio<br />

presente, l’Ego ci sconnette dai sensi e dal corpo, e ci<br />

consegna all’illusione del pensiero condizionato dal<br />

passato e dal futuro. Pensiero che, come abbiamo<br />

visto, si nutrono di categorie liguistiche, alle quali<br />

attribuisce statuto di realtà. Mentre della realtà offre<br />

solo un’immagine impoverita e distorta, utile come<br />

mappa in alcune circostanze, ma del tutto fuorviante<br />

se confusa con il territorio.<br />

Quando del linguaggio non sappiamo più fare a meno,<br />

dal linguaggio siamo dominati. Il linguaggio da utile


strumento, diventa bisogno, esigenza da soddisfare,<br />

coazione a cui obbedire. Un linguaggio non più ispirato<br />

dall’amore, ma intriso di “memi” del <strong>potere</strong>, dei quali<br />

si fa portatore.<br />

La domanda diventa allora: se non possiamo liberarci<br />

del linguaggio, possiamo utilizzarlo come mezzo di<br />

liberazione anziché di oppressione?<br />

La risposta è senz’altro positiva: possiamo imparare a<br />

farlo. In tal modo, da ostacolo, diventa il nostro più<br />

prezioso alleato.<br />

Questa è la sfida attuale in PNL umanistica, per la<br />

quale stiamo mettendo a punto il metamodello 2.<br />

Mentre il metamodello 1 ha il compito di liberarci dalle<br />

illusioni personali più grossolane - causa effetto,<br />

lettura della mente ecc. -, il metamodello 2 ha uno<br />

scopo più generale: confrontare e svelare le illusioni<br />

collettive - in primo luogo l’illusione di separatività -,<br />

assorbite e riprodotte dal pensiero individuale. Che di<br />

individuale e personale ha normalmente assai poco.


Per generare la nevrosi di un uomo moderno, non<br />

bastano le influenze famigliari e scolastiche. Occorre<br />

un forte contributo dei modelli di pensiero dominanti<br />

nella società. Contributo che, di solito, non bisogna far<br />

nulla per ottenere, avendo carattere equanime ed<br />

eguaitario: nessuno ne viene privato. Una certezza,<br />

almeno questa, sulla quale possiamo fare pieno<br />

affidamento.<br />

“Come funziona il metamodello 2?”<br />

In modo simile al metamodello 1, attraverso<br />

confrontazioni e domande. La differenza consiste nella<br />

filosofia che sta dietro alle domande, una filosofia non<br />

duale al posto di quella duale, nella quale siamo<br />

cresciuti ed linguisticamente educati.<br />

“Mi fai un esempio concreto?”


Una persona dice: soffro molto per la violenza che c’è<br />

nella mia famiglia. Se utilizziamo il metamodello 1,<br />

cominceremo a porre domande per avere informazioni<br />

più specifiche. Violenza è una nominalizzazione.<br />

Recuperiamo il verbo: usare violenza, essere violenti.<br />

Recuperiamo il soggetto e il complemento. Chi è<br />

violento con chi? Che cosa intendi per violento? In<br />

quali circostanze si manifesta il comportamento<br />

violento? Quando è iniziato? Quando si è aggravato?<br />

Chi lo pratica di più? Chi lo subisce? Che cosa<br />

impedisce alle vittime di andarsene e sottrarsi alla<br />

violenza dei prevaricatori? In che modo la violenza in<br />

famiglia ti fa soffrire? In che modo specificamente<br />

soffri? In che modo reagisci tu alla violenza? Quali<br />

sono i rimedi che hai provato fino ad oggi per ridurre<br />

la violenza? ecc.<br />

Attraverso l’uso del metamodello, arricchiamo la<br />

nostra rappresentazione della realtà. Mentre all’inizio<br />

ne avevamo solo una vaga idea, via via l’idea prende


forma: saremmo in grado di girare un film con<br />

personaggi e attori che riproducono abbastanza<br />

fedelmente quello che accade in quella famiglia. Ma il<br />

metamodello non si limita a questo: alla fine esso ci<br />

conduce a scoprire le convinzioni disfunzionali, i<br />

presupposti che rendono possibile il perpetuarsi di<br />

quella situazione, mantenendo il cliente passivo e<br />

impotente.<br />

“Scopo del metamodello è quindi il recupero delle<br />

capacità e risorse personali?”<br />

Sì. In due parole, aiuta la persona ad uscire dalla<br />

posizione di impotenza e di recuperare il <strong>potere</strong> di<br />

compiere libere scelte.<br />

“Quindi ha la funzione di ampliare la consapevolezza?<br />

Certamente, consapevolezza dei dati di realtà, delle


proprie convinzioni e decisioni disfunzionali, nonché<br />

dei presupposti impliciti che attraversano tutta la<br />

propria mappa. Lo scopo è quello di ottenere i gradi di<br />

libertà di cui dispone un individuo sano all’interno<br />

della nostra cultura.<br />

“Che però, come dicevamo, è oppressiva nei suoi<br />

fondamenti!”<br />

E quindi una persona sana non è ancora una persona<br />

risvegliata alla realtà profonda. Scopo del<br />

metamodello 2 non è guarire una persona per<br />

renderla adatta ad avere successo all’interno della<br />

società malata di cui facciamo parte, consentendole di<br />

condurre una vita da cosiddetti sani. No, il suo scopo è<br />

di farle aprire gli occhi sulla vera natura della<br />

sofferenza, a partire dalla propria. E sui modi in cui<br />

inconsciamente tutti contribuiamo ad accrescerla,<br />

spargendo i suoi semi nella vita quotidiana, a partire


dal rapporto con il nostro corpo, con noi stessi e con i<br />

nostri famigliari.<br />

La sofferenza personale, quindi, da ostacolo diventa lo<br />

strumento più importante della propria liberazione.<br />

“Una ristrutturazione piuttosto radicale!”<br />

Il metamodello 2 si occupa della radice profonda dei<br />

problemi. Se guardiamo in superficie, vediamo un<br />

continuo brulicare di problemi diversi: il lavoro, la<br />

casa, la famiglia, la scuola, i figli, il denaro, la<br />

realzione con gli altri, le malattie ecc. Risolto un<br />

problema, se ne affacciano altri due, in un’escalation<br />

geometrica. Più ci diamo da fare per risolverli, più ci<br />

copriamo di impegni che ci tolgono il tempo per<br />

respirare.<br />

“E quale è la radice profonda delle difficoltà che<br />

incontriamo?”


Il progressivo distacco, la separazione dalla realtà.<br />

“Questo ha un nome: si chiama psicosi!”<br />

Nome che noi, per generosità, riserviamo ai malati di<br />

mente conclamati. Comprensibilmente, abbiamo una<br />

certa resistenza a riconoscere la nostra comune radice<br />

psicotica.<br />

D’altra parte, finché è socialmente condivisa, finché<br />

riusciamo ad essere produttivi e a far finta di amare,<br />

perché preoccuparcene? L’importante non è essere<br />

“normali”? Cioè essere come tutti gli altri?<br />

La PNL, nata in un contesto di grande fermento e<br />

innovazione culturale, la California degli annni<br />

settanta, - la nuova ipnosi di Milton Erickson, la mente<br />

non confinata nel corpo di Gregory Bateson, la<br />

pragmatica della comunicazione umana di Watzlawick,<br />

i seminari all’Easalen Institute, il rapporto tra nuova


fisica e spiritualità di Fritjof Capra, la meditazione, i<br />

lama e i monaci in esilio dal Tibet -, salvo eccezioni,<br />

ha perso lo spirito rivoluzionario del suo esordio. Si è<br />

adattata, direi molto bene, ed è diventata uno<br />

strumento del business. Il metamodello 1 è spesso<br />

utilizzato come strumento competitivo per avere più<br />

successo, per prevalere, per definire obiettivi che di<br />

ecologico hanno solo il nome. I titoli di practitioner e<br />

master si prendono ormai in pochi giorni, basta essere<br />

disposti a pagare tanti soldi.<br />

Il metamodello 2 si pone lo scopo di riaccendere lo<br />

spirito rivoluzionario della prima PNL. Almeno lo spirito<br />

che ho percepito io, quando ho cominciato a<br />

frequentarla. “Non sono interessato alla terapia per<br />

adattare le persone ad una società malata, ma a<br />

promuovere la sua trasformazione”, questo aveva<br />

detto Grinder, uno dei suoi fondatori.<br />

Ma il demone del <strong>potere</strong> non ha risparmiato la PNL,<br />

come dimostra la sua storia. Perché avrebbe dovuto<br />

farlo, visto che non ha risparmiato nessuno dei grandi


movimenti rivoluzionari, - cristianesimo, illuminismo,<br />

marxismo, psicoanalisi in testa -, per citare solo quelli<br />

che maggiormante ci hanno influenzato? Avendolo<br />

sottovalutato, credendo di possedere la chiave per<br />

controllarlo, peccando di orgoglio, ne sono stati<br />

regolarmente contaminati.<br />

“Ritornando alla sofferenza, mi ha colpito quando hai<br />

detto che da ostacolo essa diventa lo strumento più<br />

potente della nostra liberazione. Che significa? che<br />

dobbiamo essere contenti quando ci ammaliamo,<br />

quando abbiamo un incidente, quando le cose ci<br />

vanno storte?”<br />

Come sai, la PNL è diventata famosa per la rapidità<br />

con cui riusciva a risolvere certi problemi, come le<br />

fobie o gli effetti attuali di traumi del passato. Un<br />

cambio di sottomodalità, un ancoraggio, una<br />

dissociazione V/K, ed ecco il miracolo: la fobia è


sparita. Un cambio di storia, e la persona è libera<br />

dall’emozione negativa. Fine della sofferenza. Pronti a<br />

ripartire con una nuova carica vitale.<br />

Ma per andare dove, con chi, a che scopo? per<br />

soddisfare quali valori, quale identità, quale missione?<br />

E’ stato Robert Dilts ha porsi per primo queste<br />

domande. Ma indovinate un po’? Grinder lo ha<br />

sconfessato pubblicamente, dicendo che quella di Dilts<br />

non è più PNL perché si occupa di contenuti. La PNL<br />

vera, la sua e solo la sua, è fatta unicamente di forma<br />

e struttura. Con valori e ideali non vuol sporcarsi le<br />

mani. L’attuale compagna di Grinder, che fa aula con<br />

lui, è una manager, a quanto pare di notevole<br />

successo, che dichiara di essere stata in gioventù miss<br />

america o qualcosa del genere. E racconta storie e<br />

metafore quasi sempre intrise di messaggi su come<br />

ottenere successo.<br />

Nel seminario a cui ho recentemente assistito, di<br />

fronte ad una platea di centinaia di persone, molte<br />

delle quali master o trainer, Grinder ha aperto le


danze in modo da marcare nettamente il territorio: la<br />

PNL sono io! Vediamo se voi ci avete capito qualcosa!<br />

Tutti sotto esame.<br />

Se questa è la rivoluzione promessa, mi richiama<br />

molto quella leninista, senza neppure lo scrupolo o il<br />

buon gusto di mascherarla dietro qualche ideale. Ma<br />

forse è meglio così. I giochi si fanno più chiari. Il<br />

mondo si divide in due: quelli che comandano e quelli<br />

che obbediscono. Torniamo alla realtà, usciamo dalle<br />

psicosi idealiste.<br />

“Sei quindi contrario alla rapida risoluzione di un<br />

sintomo?”<br />

Sono favorevolissimo, purché il sintomo sia visto come<br />

tale, e non come una seccatura di cui liberarsi per<br />

continuare a comportarsi in modo egocentrico e<br />

irrispettoso. Se la cornice generale nella quale si opera<br />

è quella di una gara per chi ha più successo, una sfida


continua per arrivare prima, non possiamo permetterci<br />

di ascoltare i messaggi dei sintomi. Che talvolta o<br />

spesso, non sempre, sono messaggi dell’anima.<br />

Messaggi che contengono indicazioni preziose sui<br />

cambiamenti importanti da attuare per rendere la<br />

nostra vita più ricca e piena. In senso relazionale,<br />

emotivo e spirituale, non materiale.<br />

Altre volte i sintomi sono solo disturbi, incidenti, come<br />

una casa che si allaga o un albero che viene colpito da<br />

un fulmine. Una tegola che ti cade addosso non<br />

contiene un messaggio per te. Puoi crederlo, se vuoi,<br />

ma allora, oltre al bernoccolo, in testa hai un<br />

problema ben più serio. Il fatto di condividerlo con<br />

altre persone non ne cambia la natura.<br />

In entrambi i casi, - che i sintomi siano messaggi o<br />

siano frutto di incidenti -, se vogliamo seguire la via<br />

dell’amore, anziché quella del <strong>potere</strong>, c’è un<br />

atteggiamento di fondo che è opportuno imparare ad<br />

adottare nei loro confronti: la loro piena accettazione,<br />

così come sono, nel momento presente.


“Quindi non dobbiamo far nulla per liberarcene?”<br />

Non dobbiamo fa nulla per combattere con loro.<br />

Facendo così, entriamo in una fisiologia di allarme e<br />

difesa, idonea a scatenare una pronta reazione di<br />

attacco o fuga, funzionale a salvarci dai predatori, ma<br />

del tutto inadatta a rinforzare il nostro sistema<br />

immunitario fisico e mentale. La nostra intelligenza, la<br />

nostra creatività viene a ridursi a quella di un rettile, -<br />

senza disporre dei suoi denti e del suo veleno -,<br />

proprio quando abbiamo bisogno di migliorare le<br />

nostre prestazioni.<br />

Accecati dalla rabbia e dal rancore, molte volte<br />

perdiamo di vista l’ovvio, il banale: il bisogno di<br />

riposo, di staccare dalla routine, di allontanarci da<br />

situazioni tossiche, di frequentare nuovi ambienti, di<br />

cambiare abitudini alimentari, di fare attività fisica, di<br />

stare in mezzo alla natura, di curare le nostre


elazioni.<br />

Combattere i sintomi serve ad una sola cosa: a<br />

rinforzarli. Prova a combattere con il mal di testa, con<br />

l’insonnia o il mal di pancia. O con la tua rabbia o la<br />

tua paura. O con le tue ossessioni. Prova a maledire il<br />

destino, Dio, la sorte, i tuoi genitori, per un incidente<br />

che ti è capitato!<br />

“Ma accettare sintomi e disturbi in concreto che<br />

significa?”<br />

Significa assumere con essi un atteggiamento<br />

contemplativo o meditativo: vederli, riconoscerli così<br />

come sono adesso, senza pretese che non ci siano nel<br />

qui ed ora. Rimanendo disidentificati: io non sono il<br />

mio mal di testa, io non sono i problemi del mio<br />

lavoro, della mia carriera, della mia famiglia.<br />

Rimanendo tranquilli. Con il cuore aperto,<br />

compassionevole.


L’occhio della rabbia vede solo la superficie dei<br />

fenomeni, ingrandendoli e isolandoli dagli altri. La<br />

rabbia vuole una soluzione immediata, che spesso non<br />

può esistere o non può essere raggiunta in questo<br />

modo.<br />

L’occhio della compassione vede i fenomeni in<br />

profondità. Nella loro impermanenza e connessione<br />

con gli altri fenomeni. Nella loro corretta proporzione<br />

di spazio e di tempo.<br />

La consapevolezza che ne deriva è di per sé risanante:<br />

riduce il dolore, contiene la sofferenza della perdita,<br />

cura il bruciore della ferita. Ci fa sentire più connessi,<br />

meno isolati, più partecipi al dolore degli altri che<br />

riconosciamo simile al nostro.<br />

Già solo avviare questo processo apre la via della<br />

soluzione o della guarigione. Il sistema immunitario si<br />

rinforza, la mente diventa più lucida, l’intelligenza più<br />

acuta. Le scelte che ne derivano vanno nella giusta<br />

direzione.


Applicare le tecniche di PNL in tale cornice è assai più<br />

produttivo ed ecologico, perché diventano mezzi abili<br />

che favoriscono l’evoluzione spirituale della persona, e<br />

non solo stratagemmi per liberarla rapidamente da<br />

sintomi che il suo Ego considera un ostacolo.<br />

“Stai dicendo che il problema non sono gli<br />

inconvenienti, i sintomi, gli incidenti, ma il modo in cui<br />

li osserviamo. Se li osserviamo dal nostro Ego,<br />

suscitano in noi rabbia o irritazione. Non vediamo l’ora<br />

di liberarcene come da una spina in un piede. Se li<br />

osserviamo con gli occhi del cuore, o dell’anima, non<br />

destabilizzano più il nostro umore. Ma suscitano la<br />

nostra compassione. Compassione per una gamba che<br />

fa male, o per il piccolo io ferito. Non li neghiamo, non<br />

li trascuriamo, ma ci prendiamo cura di loro con<br />

atteggiamento amorevole.”<br />

E in questo modo, stiamo lavorando nello stesso


tempo per curare la nostra ferita, evolvere<br />

spiritualmente e aiutare gli altri a fare altrettanto.<br />

La via è la meta. Se la motivazione che ci spinge ad<br />

occuparci di un disturbo è egocentrica, anche la<br />

soluzione lo sarà. Al massimo da quel disturbo<br />

riusciremo a liberarci. Ma solo da quello, e non si sa<br />

per quanto.<br />

Se invece l’intento profondo è di curare la nostra<br />

anima, allora da subito il sintomo perde la sua<br />

posizione di centralità nella nostra attenzione. Lo<br />

spazio di consapevolezza si allarga, la nostra<br />

intelligenza si fa più ampia e spaziosa, in grado di<br />

operare con intento di bene. Che per definizione non<br />

può essere solo il nostro, ma è sempre uno scopo che<br />

ci accomuna alle persone vicine e agli altri esseri.<br />

Quando lavoriamo sulla sofferenza in questo modo, la<br />

sofferenza perde la sua valenza esclusivamente<br />

individuale e personale, ed acquista una valenza assai<br />

più grande: non solo la “mia” sofferenza, la “mia”<br />

perdita, il “mio” problema, ma il “nostro” problema, il


problema che “ci accomuna”.<br />

Un problema personale diventa allora l’occasione per<br />

lavorare su un problema universale. Non ci porta a<br />

lamentarci, a pretendere da altri la soluzione, ad<br />

accusarli se non fanno abbastanza. Non ci conduce a<br />

rimproverarci o a svalutarci. Non ci stimola ad isolarci<br />

e a rinchiuderci, ma ad aprirci di più. Ad essere più<br />

risonanti ed empatici con la sofferenza nel mondo.<br />

Che non è solo nostra, ma di tutti gli esseri.<br />

Questa è l’essenza della compassione: ascoltare le<br />

grida al proprio interno, e nel contempo ascoltare le<br />

grida del mondo.<br />

La pratica della compassione ricongiunge i fili che si<br />

sono spezzati, ricompone le trame dell’arazzo, rimette<br />

in ordine le note e i temi della sinfonia della vita a cui<br />

apparteniamo.<br />

Questo significa onorare la vita nella sua complessità<br />

ed armonia, cominciando ad onorare noi stessi<br />

dell’attenzione, dell’ascolto e dell’empatia profonda di


cui abbiamo bisogno per recuperare integrità, pace e<br />

salute.<br />

Non possiamo chiedere ad altri di compiere il lavoro<br />

che compete a noi. Anche il miglior terapeuta o il<br />

maestro più illuminato non può far nulla se noi,<br />

abbarbicati al nostro Ego, non siamo disposti ad aprire<br />

gli occhi, le orecchie e il cuore.<br />

Questo però non deve diventare un alibi per i<br />

professionisti dell’aiuto, che devono fare pienamente<br />

la loro parte.<br />

“Quale, specificamente”<br />

In primo luogo liberarsi dai demoni del <strong>potere</strong> che, nel<br />

cammino evolutivo, assumono forme via via più<br />

nascoste e sottili. Accomunate dall’orgoglio e dalla<br />

persistenza dell’Ego.<br />

Anche l’ego, stenterete a crederlo, va a scuola di<br />

psicoterapia, counseling, formazione. Ed è un allievo


modello: prende appunti, annota ogni cosa con la<br />

massima diligenza. Apprende il metamodello, lo slight<br />

of mouth e le altre tecniche. E poi studia un piano per<br />

mettere le competenze acquisite al suo servizio. Ad<br />

esempio cercando di diventare il migliore, il più<br />

creativo, colui che ha più successo.<br />

E il povero io-governo, con tutti gli impegni che ha a<br />

tenere insieme la compagine dei suoi ministri, abbocca<br />

molto facilmente.<br />

Finché l’Ego, come terapeuti o come clienti, rimane il<br />

nostro più fedele consulente, non facciamo passi<br />

decisivi nella direzione del risveglio. Paradossalmente<br />

occorre diffidare del successo, quando ci riempie di<br />

troppa soddisfazione. Di chi è questa soddisfazione?<br />

Dell’Ego o dell’anima?<br />

“Vediamo se ho intuito bene. Si tratta di una tipica<br />

domanda del metamodello 2?”<br />

Hai ascoltato con il cuore, sei arrivato al nocciolo della


questione. Il tuo ascolto ti rende più facile capire, e<br />

rende a me più facile insegnare. Non solo il tuo, ma<br />

quello di tutti voi.<br />

In questo momento svolgiamo ruoli differenti, ma<br />

l’intento ci accomuna: apprendere, sviluppare<br />

consapevolezza. Più siamo uniti nell’intento, più la<br />

nostra intelligenza si fa intelligenza di gruppo, la<br />

nostra mente si fa mente di gruppo, più potente di<br />

quella individuale.<br />

Stiamo creando uno spazio di comunicazione<br />

profonda, senza barriere. Tutti ne traiamo<br />

giovamento.<br />

Non il nostro Ego, però, che, statene certi, guarda a<br />

questo fenomeno con giusta preoccupazione. La sua<br />

politica, come organismo che abita all’interno della<br />

nostra mente, è di tutt’altra natura. Non vuole che<br />

creiamo più unione tra noi, più intimità, ma più<br />

separazione, più distanza, più diffidenza. Solo lì può<br />

proliferare e diffondersi.


“Perché fa così?”<br />

E’ nella sua natura, come nella natura di un virus c’è<br />

la spinta a introdursi in una cellula, ad occuparla per<br />

succhiare la sua energia, altrimenti non può<br />

sopravvivere.<br />

I virus, sapete, fanno cose strane, e sono molto<br />

creativi. Ce n’è uno che, quando infetta un topo,<br />

stimola i suoi neuroni a farlo muovere<br />

eccessivamente, anche in presenza di un gatto. Un<br />

comportamento suicida, direte voi, perché il topo, una<br />

volta nelle fauci del gatto, è destinato a morire. Il topo<br />

muore, certo, ma non il virus, il quale si trasferisce nel<br />

sangue del gatto, che è l’unico ambiente adatto alla<br />

sua riproduzione.<br />

Una strategia di notevole intelligenza.<br />

Se un virus, che è più piccolo di una cellula, può<br />

manifestare un comportamento così opportunista,


figuriamoci l’Ego, che è frutto collettivo di miliardi di<br />

menti umane per un milione di anni. La sua<br />

immaterialità rende solo più sicura la sua<br />

sopravvivenza, attraverso la trasferibilità e adattabilità<br />

agli ambienti umani più diversi.<br />

“E tornando alle domande del metamodello 2?”<br />

Tu mi parli di un problema che ti fa soffrire: la<br />

violenza nella tua famiglia. Anche senza saperne<br />

molto, posso chiederti: la sofferenza che dici di<br />

provare, è espressione della tua anima o del tuo Ego?<br />

“Come faccio a distinguere? Io ho difficoltà!”<br />

E’ facile operare tale distinzione. Sono due tipi di<br />

sofferenza completamente diversi. Non puoi<br />

confondere un ippopotamo con un cercopiteco, a<br />

meno che tu non abbia frequentato un lungo


apprendistato per sviluppare cecità selettiva e grave<br />

agnosia nei confronti degli animali.<br />

Purtroppo, però, tu hai ragione. Hai difficoltà a<br />

distinguere tra loro due cose così semplici, perché<br />

quel corso tu lo hai frequentato, a tempo pieno, a<br />

partire dalla tua infanzia. Un corso non diretto a<br />

sviluppare agnosia per gli animali, ma per gli stati<br />

d’animo fondamentali.<br />

Tu non sei alessitimico. Tu sei normale. Sai<br />

distinguere la rabbia dalla tristezza, e la tristezza dalla<br />

paura. Però non sai riconoscere quale è la loro fonte:<br />

l’Ego o l’anima.<br />

Su questo sei perfettamente adattato alla nostra<br />

cultura: condividi il presupposto fondamentale della<br />

nostro modo di percepire il mondo. Più diventi grande,<br />

più vai avanti a studiare, più diventi confuso rispetto a<br />

tale elementare differenza che fa la differenza. Finisci<br />

così per ignorarla, svalutarla o ridicolizzarla.<br />

In fondo, credi che sia una cosa troppo banale per


meritare la tua attenzione. Se studi psicologia, vieni<br />

solo confermato in questa convinzione. I problemi<br />

reali sono ben più complessi: inconscio patogeno,<br />

impulsi, complesso di Edipo, ansia da castrazione,<br />

pulsione di morte…<br />

Però è una differenza alla quale da bambino, come<br />

qualunque animale, eri particolarmente sensibile.<br />

Diversa era la tua reazione se tua madre ti<br />

rimproverava mossa dal suo Ego o ispirata dalla sua<br />

anima.<br />

La rabbia di un’anima compassionevole non ferisce<br />

nessuno. Anzi è un mezzo molto potente per<br />

risvegliare le coscienze.<br />

La gentilezza che proviene dall’Ego, invece, ci lega<br />

come un guinzaglio al collo. Anche se proviene da<br />

nostra madre. Anzi, a maggiror ragione se viene da<br />

nostra madre o da nostro padre.<br />

In sintesi, le domande del metamodello 2 sono mezzi<br />

abili che aiutano la persona a recuperare


consapevolezza rispetto a questa fondamentale<br />

distinzione: tra pensieri, convinzioni, emozioni, stati<br />

interni, comportamenti, atteggiamenti, parole, che<br />

provengono dall’Ego, da una parte; e pensieri,<br />

convinzioni, emozioni, stati interni, comportamenti,<br />

atteggiamenti, parole, che provengono dall’anima,<br />

dall’altra.<br />

“Quindi il metamodello 2 si collega strettamente al<br />

tema degli inquinanti e delle qualità dell’essere, delle<br />

barriere e dei facilitatori?”<br />

Esattamente. E’ una tecnica linguistica per rendere<br />

operativa, nella vita di tutti i giorni, questa preziosa<br />

conoscenza. Conoscenza che, con i dovuti<br />

aggiornamenti, proviene dalle antiche tradizioni<br />

sapienziali non duali, ed in primo luogo, per la mia<br />

personale esperienza, dalla filosofia Buddista.<br />

Essa favorisce l’allineamento interno tra i livelli logici,


in modo che siano la mission e la nostra vera identità<br />

a guidare la nostra vita, al posto dell’Ego e delle<br />

subpersonalità.

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