CANTA NAPOLI - Egea Distribution
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50 Mondomix.com<br />
La World Music che non sapevamo di avere in casa<br />
Catch A Fire<br />
Bob Marley & The Wailers<br />
di Eddy Cilìa<br />
Sui perché della fama globale di Bob Marley ci si interroga<br />
da quando nulla sembrava potesse fermarlo. Questione<br />
certo di canzoni di poesia e innodia straordinarie e di una<br />
presenza scenica rimarchevole, ma soprattutto una faccenda<br />
di carisma. Predicatore sul palco con parole semplici che<br />
tutti potevano comprendere, eppure di una profondità tale<br />
da prestarsi a letture metaforiche. Portatore di una visione<br />
spirituale condivisibile come afflato anche da chi è lontano<br />
dalla fede rasta. Esempio insuperato del levarsi in piedi di<br />
quella parte di pianeta demograficamente dominatrice ed<br />
economicamente e culturalmente prevaricata che domanda<br />
che la sua dignità venga infine riconosciuta. Ecco perché,<br />
in Africa come in Asia o nell’America Latina, Robert Nesta<br />
Marley è un simbolo di riscatto prima ancora che un divo<br />
del pop. Nella nostra parte di mondo alla sua sopravvivenza<br />
hanno contribuito invece il fascino romantico dell’artista<br />
che muore giovane e la trasversalità dell’impatto. A cavallo<br />
fra Settanta e Ottanta Marley era l’unico che metteva tutti<br />
d’accordo: veniva ballato in discoteca ed era amato dai<br />
punk che disprezzavano la dance ed erano stati catturati<br />
dal reggae via Clash, era colonna sonora di feste come di<br />
cortei, interiorizzato da ciascuno come tesoro personale,<br />
eppure capace di riempire gli stadi. Andarono in centomila<br />
ad ascoltarlo a San Siro nell’estate 1980, il suo concerto più<br />
affollato e uno degli ultimi, e chi non c’era non potrà mai<br />
capire appieno l’impatto che ebbe in quegli anni. Nondimeno<br />
l’universalità del messaggio ha trasceso i decenni e chi si<br />
accosta oggi alla sua musica ne può certamente restare<br />
emozionato come chi ne fu stregato in diretta.<br />
Anche avendo l’età giusta, pochi possono però raccontare<br />
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1) che a fare scoprire loro Marley fu Catch A Fire e, 2), che<br />
accadde proprio nell’anno in cui veniva pubblicato, il 1973.<br />
Il disco in realtà non vendeva che quattordicimila copie in<br />
Gran Bretagna nei primi dodici mesi nei negozi e molte<br />
meno nei restanti paesi europei. Se il patron della Island<br />
Chris Blackwell non avesse avuto una fede assoluta in un<br />
artista che conosceva da ben prima del giorno in cui si era<br />
presentato nel suo ufficio londinese, la storia della popular<br />
music come oggi la conosciamo sarebbe incredibilmente<br />
diversa. Ma Blackwell perseverava. Se Catch A Fire sul<br />
momento vendeva pochino era perché costituiva una<br />
novità che richiedeva tempo per essere metabolizzata.<br />
Se non poteva in compenso che divenire in prospettiva la<br />
pietra d’angolo della leggenda marleyana è perché in esso<br />
gli elementi costitutivi di codesta già ci sono tutti. Ci sono<br />
le canzoni. C’è il suono.<br />
Saggia decisione in ogni caso, quella di Mister Island, di<br />
mettere le mani nel missaggio. Sapeva bene, e Marley<br />
evidentemente concordava, che le platee euro-americane<br />
non erano avezze alle ruvide sonorità giamaicane e che,<br />
dovendo già fare digerire loro la battuta in levare, sarebbe<br />
stato opportuno levigarle, insaporendo nel contempo la<br />
pietanza con le familiari spezie del rock. Se era un piccolo<br />
colpo di genio la pensata di introdurre il cupo paesaggio<br />
di desolazione urbana di Concrete Jungle con un preludio<br />
di gusto psichedelico, che per qualche secondo cela<br />
all’ascoltatore l’incedere reggae, rappresentavano intuizioni<br />
non meno brillanti il sistemare piuttosto avanti le tastiere,<br />
evidenziandone il piglio rhythm’n’blues, e la sovraincisione<br />
di assoli di chitarra nella stessa title-track, nella ninna<br />
nanna Rock It Baby, nella sinuosa e sessualmente<br />
esplicita Stir It Up. Scrematura del repertorio dei cinque<br />
anni precedenti con poco di nuovo in assoluto, l’album<br />
è un’ininterrotta sfilata di classici e il ritratto più accurato<br />
immaginabile, in nove canzoni e trentasei minuti, di quei<br />
Wailers: qui maliziosi e là moralisti; qui evocanti la tragedia<br />
della schiavitù sciorinando gospel su sincopi radenti il funk<br />
(Slave Driver) e là censori su una scansione dondolante<br />
delle drogate lordure di Londra (Kinky Reggae). Quando<br />
non Impressions caraibici (Stop That Train) con l’astuzia<br />
di rubare una linea di basso a Isaac Hayes e un verso ai<br />
Beatles (No More Trouble).<br />
Cuba<br />
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