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Riflessioni per un pedagogia dell'espressione - Mce

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<strong>Riflessioni</strong> <strong>per</strong> <strong>un</strong>a <strong>pedagogia</strong> dell’espressione<br />

prof. Gilberto Scaramuzzo<br />

Sono <strong>un</strong> ricercatore dell’Università degli Studi Roma Tre, lavoro al Dipartimento di<br />

Progettazione Educativa e Didattica che è diretto dal professor Benedetto Vertecchi. Sono anche<br />

<strong>un</strong> docente, <strong>per</strong>ché, come sicuramente sapete, i ricercatori possono avere incarichi di docenza.<br />

Insegno Filosofia dell’educazione nel corso di laurea triennale in Scienze dell’educazione e<br />

Pedagogia dell’espressione nel corso di laurea magistrale.<br />

Vi confesso che tengo molto a dare <strong>un</strong> contributo utile alla riflessione che anima questo<br />

convegno, dopo aver sentito parlare prima di me <strong>per</strong>sone che si dedicano con impegno, e passione<br />

palpabile, all’insegnamento.<br />

Prima di iniziare il mio intervento devo farvi, <strong>per</strong>ò, <strong>un</strong>a confessione: non ho mai<br />

partecipato a <strong>un</strong> convegno che avesse <strong>un</strong> titolo <strong>per</strong> me così significativo. Il titolo di questo<br />

convegno può, infatti, sintetizzare il senso della mia ricerca da circa venti anni a questa parte.<br />

Naturalmente accanto al sentimento positivo <strong>per</strong> questa co-incidenza – usando il termine nella sua<br />

accezione forte – non voglio nascondere <strong>un</strong> certo disagio: quello che deriva dal doverne parlare in<br />

pochi minuti, quando questa riflessione ha <strong>un</strong> posto così rilevante nella mia esistenza. Dopo<br />

questa premessa parto con le <strong>Riflessioni</strong> <strong>per</strong> <strong>un</strong>a Pedagogia dell’Espressione (chi volesse<br />

approfondire alc<strong>un</strong>i dei temi che presenterò può consultare il sito del Laboratorio del<br />

Dipartimento all’indirizzo: http://host.<strong>un</strong>iroma3.it/laboratori/mimesislab/).<br />

Inizierei la mia riflessione con <strong>un</strong>a domanda. Questa:<br />

prima di <strong>un</strong> qual<strong>un</strong>que intervento teso a condurre, a guidare, a emancipare qualc<strong>un</strong>o che<br />

non ha ancora guadagnato <strong>un</strong>a pienezza di autonomia e libertà nel contesto in cui si trova a vivere<br />

– che è quel che vuol dire etimologicamente <strong>pedagogia</strong> – esiste, <strong>per</strong> quel che attiene<br />

all’espressione, <strong>un</strong>a modalità naturale che preesiste e fonda l’azione pedagogica che <strong>un</strong> essere<br />

umano o<strong>per</strong>a su <strong>un</strong> altro essere umano? Ripeto la stessa domanda in altra forma:<br />

Esiste <strong>un</strong>a espressività naturale – potremmo dire antropologica – che sia possibile integrare<br />

(che vuol dire portare a pienezza) grazie a <strong>un</strong> intervento umano che abbia <strong>un</strong>a finalità pedagogica<br />

(tesa cioè a far crescere, a guidare verso l’emancipazione, a rendere pienamente libero <strong>un</strong> essere<br />

umano, e a farne <strong>un</strong> soggetto adulto di <strong>un</strong>a convivenza)?<br />

È facile Intendere quanto sia cruciale questa domanda <strong>per</strong> chi si preoccupa dell’uomo; <strong>per</strong><br />

chi si occupa primamente di rispettare l’umanità dell’uomo, prima e al di fuori di qualsiasi<br />

ideologia.<br />

Potremmo in sintesi chiederci, usando i termini del nostro convegno, in che rapporto sono<br />

tra loro gli agenti dell’espressione umana – cioè il corpo e la parola – prima che intervenga <strong>un</strong>a<br />

qual<strong>un</strong>que <strong>pedagogia</strong> e con essa <strong>un</strong>a cultura? Ancora – ma è sempre <strong>un</strong>o sviluppo della stessa<br />

domanda –: su che base antropologica, naturale, intrinsecamente umana può attecchire <strong>un</strong>a<br />

cultura?<br />

Se potessimo avvicinare quel luogo, dove la cultura si assimila, questa potrebbe essere<br />

ass<strong>un</strong>ta e metabolizzata, non soltanto giustapposta e appiccicata.


Ebbene se osserviamo <strong>un</strong> bambino piccino esprimersi, in qual<strong>un</strong>que luogo del mondo egli<br />

sia nato, notiamo immediatamente <strong>un</strong>a stretta relazione tra il corpo e la parola.<br />

Penso sia bene a questo p<strong>un</strong>to soffermarci <strong>un</strong> momento, al fine di slargare la nostra<br />

riflessione. La parola non è il singolare di parole, la parola non è il nome di qualcosa, la parola è il<br />

logos, il senso, il significato, ma anche molto di più.<br />

Il bambino fin da piccino si relaziona mediante il corpo alla parola, cioè al senso delle cose.<br />

Il bambino in quanto cucciolo dell’anthropo è naturalmente orientato verso il senso, e questo<br />

orientamento – che è <strong>un</strong>a vera e propria tensione – si manifesta attraverso quello che potremmo<br />

chiamare <strong>un</strong> impregnamento corporeo. Il bambino continuamente modella, crea, fa il suo corpo in<br />

analogia con il senso, con il logos, con la parola. Il cucciolo dell’anthropo è naturalmente <strong>un</strong>a<br />

continua poiesi corporea.<br />

Il bambino, se lo osserviamo bene, prima che intervenga in maniera coercitiva<br />

<strong>un</strong>’educazione in <strong>un</strong>a qualsiasi cultura, si fa, con il corpo e con la voce, a immagine e somiglianza<br />

di quel che <strong>per</strong> <strong>un</strong>a qualche ragione si trova a esprimere. Credo sia capitato a tutti di osservare<br />

come il cucciolo dell’anthropo si intenda immediatamente con <strong>un</strong> altro cucciolo dell’anthropo; e<br />

come i due siano in grado di intessere <strong>un</strong> complicato dialogo che può arrivare a <strong>un</strong>a creazione<br />

sinergica, anche allorquando i due cuccioli in questione abbiano genitori che non riuscirebbero a<br />

com<strong>un</strong>icare tra loro <strong>per</strong>ché non condividono né cultura né lingua. Vi sarà capitato di vedere,<br />

magari su <strong>un</strong>a spiaggia, due bambini piccini di due culture diverse, i cui genitori non sono in grado<br />

di intendersi <strong>per</strong>ché non capiscono l’<strong>un</strong>o la lingua dell’altro. Quei bambini, mentre i genitori non<br />

riescono a scambiarsi che qualche sorriso, hanno già col-laborato: hanno costruito <strong>un</strong> castello e si<br />

son capiti benissimo.<br />

Principio di questa capacità di intendersi è quel crearsi, con il corpo e con la voce, in<br />

analogia con quel che si vuole esprimete, capacità a cui si faceva cenno poco sopra.<br />

Pensate ancora al gioco che i bambini fanno naturalmente senza che ness<strong>un</strong>o glielo abbia<br />

mai insegnato. Quel gioco che abbiamo fatto anche noi tante volte e in tante forme. Quel gioco in<br />

cui facevamo come se si fosse la mamma, la maestra… ma anche il leone, il vento, o, ancora, <strong>un</strong>a<br />

creatura fantastica, o, addirittura, fantasticata.<br />

Questa capacità di farsi a immagine e somiglianza di <strong>un</strong>a qual<strong>un</strong>que realtà o, anche, di <strong>un</strong>a<br />

qual<strong>un</strong>que fantasticheria, l’hanno studiata a fondo <strong>per</strong> primi i Greci antichi, che le hanno dato<br />

anche <strong>un</strong> nome. Essi hanno, fin da subito, messo questa capacità in relazione con l’educazione,<br />

che loro chiamavano paideia. Un termine, quest’ultimo, assai più ricco del nostro educazione.<br />

Ebbene il termine che i Greci hanno dato alla capacità umana di rendersi simile con il gesto e/o<br />

con la voce a qualc<strong>un</strong>o o a qualcosa, è <strong>un</strong> nome tra i più importanti del pensiero occidentale, è <strong>un</strong><br />

nome nobilissimo, questo nome come tutti sapete è: mimesis. Una traduzione, foriera di gravi<br />

fraintendimenti, è quella più invalsa di risolvere mimesis con imitazione.<br />

Troviamo la definizione di mimesis nella Repubblica di Platone (III libro, 393c ss.) ed è<br />

proprio quella che vi ho appena dato. Platone definisce il verbo mimeisthai come rendersi simile<br />

nella voce e/o nel gesto a qualc<strong>un</strong>o (e, più avanti, a qualcosa).<br />

La mimesis, presentissima nel gioco dei bambini, viene sostanzialmente bandita nell’azione<br />

educativa che caratterizza molte istituzioni educative nell’Occidente del mondo.


Il bambino fa il gioco del come se, che è come dire che fa la mimesis, senza che ness<strong>un</strong><br />

adulto glielo abbia insegnato. Ness<strong>un</strong>o, infatti, dice al bambino: “Ora diventa la mamma, o la<br />

maestra, o il vento, o…” ma il bambino lo fa, noi l’abbiamo fatto. Tutti noi siamo diventati <strong>un</strong><br />

leopardo, <strong>un</strong>a fata, <strong>un</strong> cowboy… ciasc<strong>un</strong>o quel che di volta in volta gli ha fatto piacere di essere.<br />

Perché, d<strong>un</strong>que, il bambino fa questo gioco?<br />

Di ragioni se ne possono individuare tante, <strong>un</strong>a delle più radicali l’ha intuita Aristotele.<br />

Nella Poetica (48b) afferma che l’anthropo attraverso la mimesis acquisisce le conoscenze<br />

principali, e che mentre la fa trae piacere. Il bambino, d<strong>un</strong>que, secondando Aristotele, fa questo<br />

gioco piacevole <strong>per</strong> acquisire conoscenze, ma <strong>per</strong> conoscere profondamente, non <strong>per</strong> conoscere<br />

su<strong>per</strong>ficialmente. Lui diventa la mamma così capisce. Capisce la mamma che lo sgrida o la mamma<br />

che lo consola, ma capisce non con la ragione, capisce integralmente. Lui si fa (le cose, le <strong>per</strong>sone,<br />

i <strong>per</strong>sonaggi…) <strong>per</strong> conoscerle, e <strong>per</strong>ciò fa il vento, così come il treno, così come qual<strong>un</strong>que altra<br />

cose, e si diverte: il bambino si diverte tantissimo quando fa la mimesis. E così conosce, ma a suo<br />

modo e con la totalità del suo essere, conosce diventando. Potremmo dire, sintentizzando, che il<br />

conoscere avviene in <strong>un</strong> dinamismo che è nella misura in cui si diventa. Conosco l’altro nella misura<br />

in cui riesco ad essere l’altro. Nella misura in cui <strong>per</strong>ché non mi è data la pienezza del conoscere.<br />

Ma mi è data quella tensione “in” qualcosa; tensione che, a volte, ci sorprendiamo nel richiederla,<br />

anche da adulti, all’altro: “Ma mettiti nei miei panni!”, “Diventa me in questa determinata<br />

situazione!”, “Se non ti immedesimi – altra parola che viene da mimesis – non mi puoi capire”. “Se<br />

ti immedesimi… – ovvero nella misura in cui diventi me, ti fai a immagine e somiglianza mia, in<br />

quella determinata situazione – potrai comprendermi. Potrai intendermi…”. Bella questa parola –<br />

in-tendere –, cioè tendere-in.<br />

Noi, purtroppo, a volte, credendo oramai di conoscerle le parole non vediamo più come<br />

esse son fatte. È bello questo ripensare all’in-tendersi <strong>per</strong>ché ci consente facilmente di<br />

comprendere che quando due <strong>per</strong>sone smettono questa tensione – verso <strong>un</strong> in che non si risolve<br />

mai, verso <strong>un</strong>’interiorità sempre più lontana (<strong>per</strong>ché man mano che ci si avvicina si sposta così<br />

come accade <strong>per</strong> l’orizzonte) – termina tra di loro l’in-tendersi, e, infatti, quelle due <strong>per</strong>sone non<br />

si intenderanno più se cessano la tensione verso l’in dell’altro. App<strong>un</strong>to <strong>per</strong>ché così hanno smesso<br />

di in-tendersi. E così <strong>un</strong>a relazione di coppia finisce, <strong>un</strong>’amicizia finisce, <strong>un</strong> incontro finisce, <strong>per</strong>ché<br />

non c’è più questa tensione profonda verso <strong>un</strong> qualcosa che va ancora colto, che non è mai<br />

attingibile nella pienezza, e allora non ci intendiamo più, proprio <strong>per</strong>ché più non tendiamo-in.<br />

Appena pensiamo di conoscere l’altro è finito l’in-tendersi, è cessato, è morto. Pirandello diceva:<br />

conoscere è morire. La vitalità della relazione è solo nell’in-tendersi, nella tensione verso <strong>un</strong> in che<br />

non si risolve, che non si può ontologicamente risolvere.<br />

Il bambino, che cresce nella nostra cultura, fino ai sei anni gioca tranquillamente al gioco<br />

del “come se”, cioè – come abbiamo accennato – fa la mimesis. E la fa <strong>per</strong> apprendere (dopo il<br />

monito di Pirandello è meglio non usare conoscere). Dopo, evidentemente, il bambino deve<br />

ancora continuare ad apprendere (<strong>per</strong>ché se no non si capisce a cosa serva la scuola), <strong>per</strong>ò deve<br />

apprendere in <strong>un</strong> altro modo, cioè non più diventando l’altro da sé – vi esorto a considerare<br />

quanto questo sia <strong>un</strong> fatto che segna tutto il mondo Occidentale e, probabilmente, questo stesso<br />

fatto può aiutarci a leggere in profondità la crisi che ora sembra essere gi<strong>un</strong>ta a <strong>un</strong> nodo tragico,<br />

ma che ha, a mio parere, le sue radici in tempi assai lontani –.<br />

Il bambino, fino ai sei anni di età, <strong>per</strong> in-tendere l’altro si faceva a immagine e somiglianza<br />

dell’altro, ma frequentando la scuola primaria deve imparare ad apprendere con <strong>un</strong>’altra<br />

modalità: arrivano, infatti, banchi, seggiole, e il corpo va in <strong>un</strong> angolino dell’offerta formativa.<br />

Deve imparare ad apprendere in <strong>un</strong> altro modo rispetto a quello che usava naturalmente, deve


imparare ad apprendere distaccandosi e ponendosi di fronte a quel che va appreso, e <strong>per</strong> questo<br />

apprendimento si farà appello alla capacità razionale.<br />

L’uomo è <strong>un</strong> animale razionale, è <strong>un</strong>a definizione antica, su cui si è costruita tutta la cultura<br />

dell’Occidente. Nello stesso <strong>per</strong>iodo in cui fu coniata quella definizione, lo stesso autore affermava<br />

che: l’uomo è <strong>un</strong> animale mimesico <strong>per</strong> eccellenza – Aristotele, Poetica, 48b, a cui si accennava<br />

anche poco fa –. Giova, <strong>per</strong>ò, notare che la razionalità dice dell’uomo in assoluto contrasto con gli<br />

altri enti: tanto che se <strong>un</strong> altro ente – prosegue Aristotele – fosse razionale quegli sarebbe <strong>un</strong><br />

uomo; mentre assai diverso è definire l’uomo attraverso la mimesis. La mimesis, infatti, dice sì<br />

dell’umanità dell’uomo, ma la dice in altro modo: l’uomo è tra tutti gli animali quello che ha più<br />

intensa la capacità mimesica.<br />

Quindi l’uomo è <strong>un</strong> animale razionale in contrasto con tutti gli altri che non lo sono. Invece<br />

la capacità mimesica non è <strong>un</strong> esclusivo possesso umano, <strong>per</strong>ò nell’uomo questa si manifesta con<br />

<strong>un</strong>’intensità eccezionale, tale da consentirgli – conclude Aristotele – di fare poesia, di fare arte,<br />

<strong>per</strong>ché la mimesis nell’uomo può spingersi fino a questo vertice.<br />

Adesso <strong>un</strong>’osservazione che è più <strong>per</strong>tinente alla vostra riflessione. Noi la prima lingua la<br />

impariamo con <strong>un</strong>a modalità mimesica; la seconda, se utilizziamo gli strumenti che solitamente si<br />

usano <strong>per</strong> la didattica, la impariamo con <strong>un</strong>a modalità razionale.<br />

Grazie all’analisi sin qui condotta è facile intuire il <strong>per</strong>ché dell’efficacia di alc<strong>un</strong>e<br />

metodologie didattiche che sfruttano vie non razionali <strong>per</strong> sostenere l’apprendimento: queste<br />

sono efficaci nella misura in cui avvicinano l’apprendimento mimesisico – cioè quel farsi simile che<br />

consente integralmente, veramente, di assimilare –. Queste metodologie, infatti, utilizzano quella<br />

dynamis naturale, e lo fanno in tante forme. Per esempio utilizzano il corpo, il movimento, e<br />

questo è già provocare l’accensione di quell’energia che dice dell’uomo in maniera eccellente,<br />

meravigliosamente bella.<br />

Se si legge la Repubblica di Platone in maniera su<strong>per</strong>ficiale, si legge in essa sia la sco<strong>per</strong>ta<br />

della mimesis sia la sua condanna. Ma, attraverso <strong>un</strong>o studio <strong>un</strong> poco più approfondito della<br />

pagina, non è difficile rilevare il tentativo o<strong>per</strong>ato da Platone <strong>per</strong> invogliare a realizzare la mimesis<br />

con <strong>un</strong>a intensità direzionata. Cioè, se io sono su<strong>per</strong>ficiale nella mimesis corro dei rischi, poiché<br />

sono <strong>un</strong> animale eccezionalmente mimesico – preferisco usare mimesico anziché mimico <strong>per</strong>ché<br />

questo secondo termine ci fa correre il rischio di fraintendere –. L’essere <strong>un</strong> animale<br />

eccezionalmente mimesico <strong>per</strong>mane nell’uomo anche se la mimesis non viene educata o,<br />

addirittura, radicalmente combattuta, <strong>per</strong>ché questo essere è inscritto nella sua fibra ontologica.<br />

Per cui si può diventare adulti educati e ritrovarsi a essere mimesicamente inferiori a <strong>un</strong><br />

bambino. Ma questo non sembra preoccuparci, mentre ci preoccu<strong>per</strong>emmo di essere inferiori<br />

razionalmente a <strong>un</strong> bambino: questo è il segno di <strong>un</strong>a cultura. Se io dicessi a chi<strong>un</strong>que di voi: “Tu<br />

razionalmente sei inferire a <strong>un</strong> bambino!” questa suonerebbe come <strong>un</strong>’offesa, ma se dicessi: ”Tu<br />

mimesicamente sei inferiore a <strong>un</strong> bambino!” questa affermazione non offenderebbe ness<strong>un</strong>o. Ma<br />

questo è il portato di <strong>un</strong>a cultura, non è <strong>un</strong> fatto scontato <strong>per</strong> <strong>un</strong> adulto: <strong>un</strong> danzatore è più<br />

bravo, <strong>un</strong> mimo è più bravo mimesicamente di <strong>un</strong> bambino.<br />

Da <strong>un</strong>o studio più attento ci si accorge come l’analisi condotta da Platone abbia dei tratti di<br />

<strong>un</strong>a modernità che stupisce: possiamo, infatti, rinvenire nelle sue pagine <strong>un</strong>a chiara intuizione dei<br />

neuroni specchio, recentemente sco<strong>per</strong>ti dai ricercatori dell’Università di Parma. Questi studi<br />

recenti sottolineano anch’essi come il movimento sia il luogo della comprensione. Essi ci


confortano nel rivendicare non <strong>un</strong> po’ più di spazio <strong>per</strong> la corporeità nella formazione umana, ma<br />

bensì a riconoscere nel corpo e nel suo movimento – sia realizzato spazialmente sia simulato<br />

interiormente – la radice dell’in-tendimento del senso e del significato delle cose; proprio quel<br />

movimento profondo che tanto interessa a noi, quello che arriva a essere sentimento. Se si legge<br />

attentamente la Repubblica si trova già in essa <strong>un</strong>a chiave <strong>per</strong> realizzare <strong>un</strong>a mimesis umanante.<br />

Questo chiave ci è ri-velata nel famoso Mito della caverna che apre il VII libro: educare è far girare<br />

con tutta l’anima!<br />

L’anima si compone di <strong>un</strong>a parte loghistikon, quella che ha il logos, e di <strong>un</strong>a parte<br />

aloghiston, quella priva di logos. Se non si girano assieme, la parte loghistikon e la parte nonrazionale,<br />

non si esce veramente dalla caverna.<br />

Soffermiamoci <strong>un</strong> momento a osservare quanto sia bella la metafora che ci propone<br />

Platone: così come vedere quel che c’è dalla parte opposta a quella cui siamo rivolti non lo si può<br />

fare girando soltanto gli occhi, ma si deve, necessariamente, girare anche il corpo – il corpo<br />

rappresenta l’aloghiston dell’anima – così anche <strong>per</strong> l’anima: affinché si esca dalla non-educazione<br />

e ci sia paideia – cioè <strong>un</strong> vedere che fa crescere – è necessario che sia la parte loghistikon sia la<br />

parte aloghiston si voltino verso l’oggetto. La parte razionale non deve privarsi di emozioni e<br />

sentimenti. La parte non-razionale non deve muoversi cieca: era questa la grande paura di<br />

Platone.<br />

Ma questa è la condizione in cui ci ritroviamo oggi a vivere: a noi animali mimesici, non<br />

educati mimesicamente, inferiori mimesicamente a <strong>un</strong> bambino, ci ritroviamo a essere eterodiretti<br />

da chi sa far leva sulla nostra natura mimesica, senza che noi veramente ce ne possiamo<br />

accorgere.<br />

Perché noi, in <strong>un</strong>a qualche misura, diventiamo quel che colpisce i nostri sensi. Perciò ci<br />

esortava Platone a circondarci del bello, <strong>per</strong>ché se <strong>un</strong>a <strong>per</strong>sona è circondata da cose brutte finisce<br />

<strong>per</strong> nutrirsene senza averne coscienza.<br />

Per esempio quei programmi televisivi pomeridiani dove si offrono all’assimilazione degli<br />

spettatori sentimenti fasulli. Quei programmi in cui non è indicato nei titoli che quelli che<br />

partecipano al programma sono attori; e in cui si vogliono far passar <strong>per</strong> vere cose che vere non<br />

sono. Offrono in pasto agli spettatori schiuma: gonfiano di nulla, fanno credere di aver preso<br />

dentro dei sentimenti, ma dato che quei sentimenti non son veri ci si ritrova intossicati e<br />

narcotizzati. E così viviamo, in <strong>un</strong> mondo pieno di rumore in cui non riusciamo più a sentirci.<br />

Allora come rifondare <strong>un</strong>a <strong>pedagogia</strong> che non disprezzi la mimesis: questo può essere il<br />

senso del nostro riflettere.<br />

Da <strong>un</strong> lato incitare indiscriminatamente alla mimesis avvia al relativismo, alla società<br />

liquida. Dall’altro <strong>per</strong>ò la razionalità da sola non basta. Si tratta di far andare insieme razionale e<br />

non-razionale, ma questo andare insieme è molto difficile <strong>per</strong> noi che siamo cresciuti in <strong>un</strong> mondo<br />

che valorizza oltre modo la razionalità e ci lascia ignoranti del modo della mimesis.<br />

Una cosa che sicuramente può aiutarci è il rapportarci con il bello, il rapportarci con le<br />

o<strong>per</strong>e dell’arte. Quei luoghi dove più alto si è espresso l’incontro tra il logos e l’alogos, cioè tra il<br />

senso e l’altro-dal-senso. Perché, in fondo, quello che riesce a fare l’arte è proprio di dire<br />

l’ineffabile.


Credo che abbiamo davanti a noi <strong>un</strong>a sfida ardua, che va accolta <strong>per</strong>ché la s<strong>per</strong>anza di<br />

buono che ci si prospetta è grande.<br />

Intensificare il nostro modo di vivere la parola è, a mio parere, intensificare l’umanità<br />

dell’uomo. È lavorare <strong>per</strong> <strong>un</strong>a convivenza che può radicarsi più profondamente nella misteriosa<br />

bellezza della natura umana.<br />

E noi abbiamo oggi questa grande possibilità, <strong>per</strong>ché quando arrivano uomini di altre<br />

culture siamo costretti ad andare prima delle culture: a intensificare cosa vuol dire essere umani.<br />

Diventa più facile riuscire ad avvicinare quel luogo in noi dove le culture possono essere<br />

assimilate. E’ bella questa parola, ma questa sua bellezza dipende dall’uso che ne facciamo, deriva<br />

anch’essa da mimesis: si assimila facendosi simili. E assimilare vuol dire far diventare veramente la<br />

realtà assimilata parte di me, poterla veramente digerire, e non riceverla quale agente tossico.<br />

Allora, ecco davanti a noi delinearsi la sfida bella: la possibilità di slargare e intensificare il<br />

senso dell’umano. Infatti, devo necessariamente approfondirlo questo senso se devo arrivare lì<br />

dove le culture si costruiscono, in quel luogo che svela <strong>per</strong>ché l’uomo nasca <strong>per</strong> avere <strong>un</strong>a cultura,<br />

ov<strong>un</strong>que egli nasca.<br />

Io son nato in Italia e ho imparato la lingua italiana, se fossi nato in Francia avrei imparato<br />

la lingua francese. Perché? Perché sono <strong>un</strong> essere umano. Io imparo <strong>un</strong>a lingua <strong>per</strong>ché ho la<br />

parola, cioè ho – come abbiamo visto – la capacità di orientarmi verso il senso, e questa capacità<br />

di orientarmi verso il senso primamente è movimento, è proprio mimesis, è capacità di diventare<br />

l’altro. Voi capite bene che se io inibisco questa capacità, inibisco la potenzialità relazionale<br />

umana.<br />

Mi trovo in accordo con molte delle osservazioni fatte da chi mi ha preceduto: si tratta <strong>per</strong><br />

noi di attivare il processo contrario: intensificare la relazione. Ma il culmine della relazione è<br />

proprio la mimesis. Quel movimento attraverso il quale io mi faccio a immagine e somiglianza, <strong>per</strong><br />

come posso, di qualcosa o di qualc<strong>un</strong>o. Se si inibisce questo movimento, dopo hai voglia a parlar di<br />

empatia. Se dai sei anni età si ostacola, anziché intensificare, la capacità che l’anthropo ha di<br />

diventare l’altro da sé, come si può pensare di educare all’empatia? Aveva ragione la collega<br />

quando prima affermava che la didattica si può far tutta con il corpo. Basta togliere i banchi:<br />

<strong>per</strong>ché mai, <strong>per</strong> esempio, il ciclo dell’acqua bisogna farlo studiare ai bambini tenendoli incastrati<br />

tra <strong>un</strong>a seggiola e <strong>un</strong> banco? Pensate forse che il bambino abbia difficoltà a diventare nuvola,<br />

acqua, vapore…? Attenzione, <strong>per</strong>ò, a non dire come vanno fatti (la nuvola, l’acqua, il vapore…),<br />

<strong>per</strong>ché, purtroppo, ci sono anche insegnanti che non vedono l’ora di dire: “questo si fa così!”<br />

Ciasc<strong>un</strong>o ha dentro di sé il modo <strong>per</strong> far vivere in sé qual<strong>un</strong>que altro, noi abbiamo dentro di noi il<br />

sentimento della vita e l’essere umano è questo soprattutto: è <strong>un</strong> sentimento originale della vita.<br />

Questo sentimento originale della vita si esprime attraverso il corpo prima di trovare altre<br />

modalità: prima di diventare parole, prima di diventare musica, prima di diventare pittura, esso è<br />

movimento corporeo.<br />

Già Dante l’aveva colto nel Convivio (tr. IV, par. X): «Poi chi pinge figura, [se non può esser<br />

lei non la può porre]. Onde nullo dipintore potrebbe porre alc<strong>un</strong>a figura, se intenzionalmente non<br />

si facesse prima tale quale la figura esser dee».<br />

Anche <strong>per</strong> dipingere bisogna diventare l’altro che voglio dipingere, se no non dipingo<br />

niente. Si tratta, d<strong>un</strong>que, di ripensare insieme <strong>un</strong>’azione educativa che non fermi la nostra


capacità di diventare l’altro, <strong>per</strong> non ritrovarci poi nella difficile condizione in cui ci ritroviamo noi<br />

oggi: quella di doverla recu<strong>per</strong>are da adulti se vogliamo diventare più umani.

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