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Antropologia Teologica - Daras

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Istituto Superiore di Scienze Religiose<br />

“B. Niccolò Stenone” – PISA<br />

Collegato con la Facoltà <strong>Teologica</strong> dell’Italia Centrale<br />

Anno Accademico 2011 – 2012<br />

<strong>Antropologia</strong> <strong>Teologica</strong><br />

PROGRAMMA DEL CORSO<br />

1. Il nome, l’interesse e il problema dell’<strong>Antropologia</strong> <strong>Teologica</strong><br />

2. Un tornante decisivo: il Concilio Vaticano II<br />

a. L‟antropologia teologica e il rinnovamento conciliare<br />

Prof. Leonardo Biancalani<br />

e-mail: leonardobiancalani0@gmail.com<br />

b. Il valore propulsivo della Gaudium et Spes per l‟antropologia teologica<br />

c. Oltre il concilio: questioni aperte per il futuro<br />

3. La genesi dell’antropologia nella cultura moderna<br />

a. Le ragioni dell‟assenza dell‟antropologia teologica<br />

b. Eredità cristiana e nascita dell‟antropologia<br />

4. L’estraneità della teologia dell’evoluzione dell’antropologia moderna<br />

a. La sistemazione di Ch. Wolff e la nascita della manualistica<br />

b. Teologia controversistica e dogmatica<br />

c. L‟assestamento apologetico e la teologia del duplice ordine: il Vaticano I<br />

5. Una vicenda esemplare: il De Gratia e l’evanescenza del soprannaturale<br />

a. Il De Gratia un trattato moderno<br />

b. La controversia sulla giustificazione<br />

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“B. Niccolò Stenone” – PISA<br />

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Anno Accademico 2011 – 2012<br />

c. Momento post-tridentino: la grazia come auxilium<br />

d. Recupero della Patristica Greca: la grazia come divinizzazione<br />

e. Teologia del XX secolo: la ristrutturazione del De Gratia<br />

f. Il superamento del De Gratia come trattato autonomo<br />

6. La nascita del De Deo Creante et elevante e la nozione di natura pura<br />

a. Filosofizzazione del tema della creazione<br />

b. La natura pura: Baio e la Controversia Post-Baiana<br />

c. L‟inesorabile influsso sullo schema apologetico<br />

d. Sgretolamento di un traguardo rassicurante<br />

7. Cristologia e antropologia: l’approdo contemporaneo<br />

a. La natura della modernità<br />

b. L‟antropologia della modernità<br />

c. L‟antropologia della postmodernità: l‟indebolimento della concezione<br />

dell‟uomo.<br />

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Riferimento Testuale<br />

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“B. Niccolò Stenone” – PISA<br />

Collegato con la Facoltà <strong>Teologica</strong> dell’Italia Centrale<br />

Anno Accademico 2011 – 2012<br />

PROGRAMMA DEL CORSO<br />

F. G. BRAMBILLA, <strong>Antropologia</strong> teologica, (Nuovo Corso di Teologia<br />

Sistematica, 12), Queriniana, Brescia 2005, 15-128.<br />

I. SANNA, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, (Biblioteca di<br />

Teologia Contemporanea, 116), Queriniana, Brescia 2004.<br />

Testi e studi consigliati<br />

J. ALFARO, Cristologia e antropologia, Cittadella, Assisi 1973.<br />

G. COLOMBO, Del soprannaturale, Glossa, Milano 1996.<br />

H. DE LUBAC, Il mistero del soprannaturale, Jaca Book, Milano 1978.<br />

H. DE LUBAC, Agostinismo e teologia moderna, Jaca Book, Milano 1978.<br />

FLICK M. – Z. ALSZEGHY, Il peccato originale, Queriniana 1987.<br />

R. GUARDINI, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1999.<br />

L. LADARIA, L’uomo alla luce di Cristo nel Vaticano II, in L. LADARIA – R.<br />

LATOURELLE, Vaticano II. Venticinque anni dopo (1962-1987), Cittadella Assisi<br />

1987, 939-951.<br />

W. PANNENBERG, Teologia e filosofia, (Biblioteca di Teologia Contemporanea,<br />

104) Queriniana, Brescia 2004.<br />

K. RAHNER, Rapporto tra natura e grazia, in ID., Saggi di antropologia<br />

soprannaturale, Paoline, Roma 1965, 43-47.<br />

H. U. VON BALTHASAR, Il concetto di natura nella teologia cattolica, in ID., La<br />

teologia di Karl Barth, Jaca Book, Milano 1985, 283-348.<br />

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Dispense del docente:<br />

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1. Il nome, l’interesse e il problema dell’<strong>Antropologia</strong> <strong>Teologica</strong><br />

Identità dell‟antropologia teologica cristiana<br />

Il termine identità riguarda il proprio, lo specifico e il distintivo di una realtà. Per<br />

l‟antropologia teologica cristiana il proprio può essere desunto dalla sua stessa<br />

etimologia, cioè il discorso sull‟uomo articolato in modo sistematico dalla riflessione<br />

teologica nell‟ambito della comunità cristiana. In una prima parte collocherò<br />

l‟antropologia teologica cristiana all‟interno delle altre discipline, che hanno per<br />

oggetto l‟uomo e ne specificheremo la funzione, per focalizzare la radice e l‟essenza<br />

del proprio e specifico della visione teologica cristiana dell‟uomo. In una seconda<br />

parte illustrerò le ripercussioni e le conseguenze di questo proprio e di questo<br />

specifico sulle dimensioni fondamentali dell‟esistenza umana, le cui identità e<br />

originalità saranno messe in risalto nel confronto con le prospettive in cui tali<br />

dimensioni vengono colte e valorizzate dall‟esperienza quotidiana, la scienza, la<br />

riflessione teologica e le religioni mondiali.<br />

PRIMA PARTE<br />

STORIA, RADICE E IDENTITA‟ DELL‟ANTROPOLOGIA TEOLOGICA<br />

CRISTIANA<br />

1. Brevi note storiche<br />

Il termine antropologia non è recente, era in uso già nell‟antichità greca classica;<br />

Filone ha pressappoco il significato di antropomorfismo. In epoca moderna appare<br />

per la prima volta in forma aggettivale nel titolo del libro di O. Casman, Psychologia<br />

antropologica sive animae humanae doctrina, uscito negli anni 1594-96, opera di<br />

carattere filosofico che intendeva prescindere pienamente dall‟aspetto teologico, anzi<br />

aveva un sapore antiteleologico. Nel corso dei secoli XIX e XX il termine acquista<br />

sempre più il senso di ricerca e riflessione riguardante l‟uomo secondo i diversi<br />

aspetti dello scibile: filosofico, scientifico, culturale (antropologia culturale). In<br />

campo teologico cristiano l‟espressione antropologia teologica è recente. Dal tempo<br />

dei Padri fino a metà novecento si era riflesso sull‟uomo, ma non si era fatta una<br />

considerazione ex professo e unitaria su di lui, per questo non apparve il termine<br />

antropologia. Il primo studioso che avvertì l‟insufficienza teologica dell‟esposizione<br />

frammentaria dei contenuti antropologici teologici e propose di superarla con la<br />

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costituzione di un‟unica trattazione da denominare antropologia teologica fu Karl<br />

Rahner; un‟esigenza accolta da alcuni teologi dopo il Concilio Vaticano II, il quale<br />

per parte sua aveva dato un significativo contributo alla riflessione antropologica, in<br />

particolare con la visione cristocentrica dell‟uomo e del mondo 1 ; di fatto però non<br />

sempre coerentemente mantenuta nei documenti promulgati. L‟impostazione del<br />

Concilio, osserva giustamente L. F. Ladaria, era ormai: “La via per la costituzione di<br />

un‟antropologia teologica completa e per il consolidamento della disciplina in una<br />

forma unitaria” 2 . I primi teologici manualisti che raccolsero quasi tutto il materiale<br />

antropologico teologico in un unico trattato intitolandolo Fondamenti di<br />

un’antropologia teologica, furono M. Flick e Z. Alszeghy. Con questa pubblicazione<br />

era ormai aperta la strada a una presentazione unitaria e sistematica dei contenuti<br />

antropologici teologici e anche all‟espressione intesa a esprimerla, antropologia<br />

teologica. Certo non tutte le pubblicazioni dispongono i suddetti materiali<br />

antropologici allo stesso modo. Tuttavia si può constatare una certa tendenza al<br />

consolidamento della disciplina concreta come un tutto, e della denominazione di<br />

essa antropologia teologica o antropologia cristiana, o antropologia teologica<br />

cristiana.<br />

2. L’antropologia teologica cristiana come disciplina nel contesto delle altre<br />

discipline antropologiche (problematica della sua interdisciplinarietà e<br />

transdisciplinarità)<br />

Ho mostrato che in campo teologico cristiano ormai si dà una trattazione<br />

sull‟uomo che è largamente denominata antropologia cristiana o antropologia<br />

teologica. In ordine all‟approfondimento della sua identità o relazionalità con le<br />

altre discipline antropologica consideriamola come impegno di riflessione sulla<br />

realtà umana portato da una motivazione di fede, prescindendo per ora dal fatto<br />

che tale motivazione è cristiana. Poiché l‟antropologia teologica è una riflessione<br />

sull‟uomo portata dalla fede, realtà e concetto che esporrò tra breve, per un verso<br />

si colloca nella serie delle diverse visioni e riflessioni sull‟uomo parimenti portate<br />

dalle fedi (per es. induismo, buddismo, islamismo, ebraismo); per l‟altro insieme a<br />

queste si distingue da altre modalità di approccio all‟uomo che non sono e non<br />

possono essere considerate fedi, per esempio: scienza, riflessione teologica).<br />

Approfondisco tale problematica che è in sostanza è quella dell‟interdisciplinarietà<br />

1 Cf. GS 22; GS 11.<br />

2 L.F. LADARIA, Introduzione all’antropologia teologica, Casale Monferrato 1992, 29.<br />

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delle discipline antropologiche, in cui spicca la molteplicità degli approcci alla<br />

realtà umana e nello stesso tempo la loro identità e diversità, relazionalità e<br />

complementarietà.<br />

2.1. L’antropologia teologica nel dialogo interdisciplinare<br />

In quanto fondata su una fede e non su una considerazione di immediata<br />

esperienza naturale, sull‟osservazione scientifica dei fenomeni e su una<br />

conclusione necessaria di razionalità, la riflessione teologica cristiana sull‟uomo si<br />

colloca nella linea delle visioni dell‟uomo proprie di comunità e tradizioni<br />

religiose e si distingue chiaramente da quelle che si fondano sull‟esperienza<br />

umana immediata, su verifiche scientifiche o su argomentazioni filosofiche. In<br />

questo contesto è importante tenere presente il significato che ha e che deve avere<br />

il termine fede. Si può dare un senso lato al termine fede, che A. Dulles descrive<br />

nei termini seguenti: “Ogni convinzione irriducibile a ciò che è evidente in virtù<br />

dell‟esperienza immediata o della deduzione che si basa su una libera e fiduciosa<br />

adesione che può essere definita fede in senso generico” 3 , antropologico. Una<br />

simile convinzione può riguardare oggetti ed eventi vari. E‟ fede in senso più<br />

proprio quando è in causa “una visione complessiva capace di offrire<br />

un‟interpretazione della visa nella sua totalità e una gerarchia di valori” 4 . La fede<br />

intensa in tal modo riguarda il senso, la visione globale della realtà e la gerarchia<br />

dei valori che vi si iscrivono. Aver fede significa affermare e testimoniare che la<br />

realtà intera e le singole cose quali sue parti hanno un significato. Intesa in tal<br />

modo, la fede è ciò che anima e permea tutte le religioni e le ideologie, o visioni<br />

laiche del mondo, e dà senso a quanto prospettano sull‟origine della vita<br />

dell‟uomo, lo snodarsi di questa nella storia, il suo tramonto nella morte e/o la<br />

speranza di una vittoria su quest‟ultima. Le varie antropologie teologiche quali<br />

momenti riflessi delle molteplici fedi religiose, pur nella diversità delle loro<br />

posizioni sui fenomeni richiamati (origine della vita, sofferenza, gioia, morte),<br />

allora hanno in comune questo tipo di approccio alla realtà umana. Ciò costituisce<br />

la base di un fruttuoso dialogo tra i contenuti antropologici che l‟antropologia<br />

teologica cristiana mette a tema e approfondisce, e quelli delle antropologie basate<br />

su altre visioni di fede. Proprio perché la visione dell‟uomo delle antropologie<br />

teologiche delle varie religioni (ma in definitiva, anche delle visioni del mondo<br />

3 DULLES A., Il fondamento delle cose sperate. Teologia della fede cristiana, Brescia 1997, 378.<br />

4 Id., 255.<br />

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ideologiche), si basa su una fede, si delinea con chiarezza la differenza delle loro<br />

prospettive da quelle dell‟esperienza umana immediata, della scienza e della<br />

riflessione razionale quali approcci della realtà dell‟uomo diversi da quello della<br />

fede ma con i quali le antropologie teologiche e quelle ideologiche devono entrare<br />

per arricchirsi dei dati che tali approcci sono in grado di fornire loro e, allo stesso<br />

tempo, per offrire a essi la visione globale che solo la fede può dare in modo<br />

originale e insostituibile. Merita sviluppare questo pensiero perché su di esso<br />

poggia l‟esigenza della interdisciplinarietà tra l‟esperienza immediata, la scienza,<br />

la filosofia e la riflessione teologica dell‟uomo nonché quella della<br />

transdisciplinarità di quest‟ultima rispetto alle precedenti. Illustriamo prima le<br />

prospettive dell‟esperienza immediata, della scienza e della riflessione razionale<br />

filosofica affinchè sul loro sfondo emerga più chiaramente quella delle fedi e<br />

quindi quella della fede cristiana. L‟esperienza umana empirica, o quotidianità, è<br />

una presa spontanea dell‟uomo e del mondo formulata in immagini e concetti cui<br />

è attribuito un valore veritativo che non è messo in discussione e abbandonato se<br />

non quando la ricerca scientifica con i suoi esperimenti ripetuti e confermati<br />

obbliga ad abbandonarlo. Finché la verità scientifica non sostituisce quella<br />

empirica immediata, anzi che dopo tale sostituzione, gli uomini continuano a dare<br />

valore a quest‟ultima. La conoscenza scientifica dell‟uomo (genetica, biologia,<br />

psicologia), inquadra la ricerca sull‟uomo e sul mondo in una diversa prospettiva<br />

di senso rispetto all‟esperienza immediata e fa valere i propri contenuti di<br />

conoscenza riguardo a essi. Sia la prospettiva di senso sia i diversi contenuti della<br />

conoscenza scientifica dell‟uomo e del mondo, supportati dagli esperimenti<br />

ripetuti e confermati, vertono sul particolare, settoriale, frammentario e quindi<br />

non sono in grado di fornire un orizzonte di senso e contenuti di conoscenza<br />

sull‟uomo e sul mondo di carattere globale. La conoscenza filosofica è più difficile<br />

da qualificare, anche perché non sempre vengono ben delineati e delimitati il suo<br />

campo di azione e il suo valore. Nel contesto culturale scientifico-tecnologico<br />

attuale è talmente squalificata, che non si vuole addirittura estromettere dal<br />

curriculum universitario e di studi la filosofia, considerata non scientifica.<br />

L‟istanza della ragione filosofica tende a essere risucchiata verso il basso da<br />

quella della scienza e dall‟alto da quella delle fedi, religiose o laiche (ideologie),<br />

le tolgono il terreno sotto i piedi e la considerano superflua, sostenendo che le<br />

risposte alle domande che essa pone di fatto sono loro a darle. E‟ il dramma<br />

attuale della ragione filosofica. E‟ da pensare che sia in grado di uscire da queste<br />

strette se individua bene o indica e delimita con chiarezza il campo della sua<br />

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competenza, dando ragione in tal modo della sua utilità e insopprimibilità. Qual è<br />

precisamente il campo d‟interesse e di azione della conoscenza filosofica o<br />

ragione filosofica? Quello della domanda del senso globale dell‟uomo e del<br />

mondo. L‟istanza filosofica presuppone l‟empiria e la scienza, ma si interroga sui<br />

i loro contenuti nell‟orizzonte della ragione sufficiente e del senso globale e<br />

ultimo. E‟ il sapere del limite, dell‟ulteriorità e della differenza assolute rispetto a<br />

ciò che costituisce il settore del sapere, oggettivabile e oggettivato delle scienze<br />

naturali e umane. Si tratta di una dimensione del dinamismo dello spirito umano<br />

che non può essere ignorata né misconosciuta nella sua originalità. La scienza non<br />

si pone, anzi non può né deve porsi la domanda del limite e del senso globale se<br />

non vuole oltrepassare il proprio ambito di competenza e non può essere più<br />

scienza fondata su conoscenze determinate e confermate da esperimenti e calcoli,<br />

passo falso che spesso gli scienziati compiono, invadendo un campo che non è il<br />

proprio. La fede religiosa o laica che sia, di per sé non è la domanda suddetta, ma<br />

è già la risposta a essa; è quel sì o quel no detto in libertà alle possibilità e<br />

suggestioni prospettate dalla domanda filosofica. Per questo le fedi religiose e<br />

laiche (ideologie nel senso di visioni del mondo), sono da vedere come le libere<br />

risposte concrete, tra l‟altro sempre culturalmente determinate, alla domanda che è<br />

la ragione filosofica, e in ciò e per ciò vanno viste adeguatamente distinte da<br />

questa. Visti in questa luce, i sistemi filosofici storici, che per secoli si sono<br />

presentati e sono passati per costruzioni della ragione filosofica, in realtà si<br />

rivelano come risposte ideologiche o di fede alla domanda razionale. Scrive<br />

giustamente A. Dulles: “Per coloro che vi aderiscono con convinzione, sistemi<br />

filosofici come il platonismo o ideologie come il comunismo marxista operano<br />

come fedi di tipo quasi religioso”, come fedi profane, areligiose. Il linguaggio<br />

spontaneo tradisce questa verità: fede marxista, fede liberale, fede laica. Quanto<br />

detto mi porta a concludere che la ragione filosofica se resta se stessa e opera nel<br />

suo campo di azione, quello della domanda che va oltre l‟empiria e la scienza del<br />

particolare e precede le opzioni che di fatto sono fedi, rimane una forma di<br />

conoscenza e di verità dell‟uomo che ha la sua validità, anzi necessità, e va<br />

articolata come quella dell‟empiria, della scienza del particolare e della fede. Se<br />

teniamo conto di queste differenze e allo stesso tempo di questi rapporti, dato che<br />

tutte queste forme di esperienza e conoscenza dell‟uomo e del mondo hanno sede<br />

nell‟uno e medesimo soggetto umano, si comprende l‟esigenza di stabilire e curare<br />

un rapporto interdisciplinare tra tutti questi approcci e tutte queste conoscenze e<br />

linguaggi riguardanti l‟uomo, al fine di ottenere una comprensione integrale, non<br />

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unidimensionale e mutila. Il rapporto che deve essere instaurato tra essi deve non<br />

essere di estraneità, autosufficienza e sufficienza, bensì di scambio, bisogno<br />

reciproco, umiltà e arricchimento vicendevole.<br />

2.2 La transdisciplinarità dell’antropologia teologica cristiana<br />

Non va trascurata la funzione originale e irrinunciabile, riconosciuta o meno, che<br />

spetta alle fedi e alle loro antropologie in questo rapporto. Ho rilevato che<br />

l‟esperienza empirica, in quanto non è già pervasa da una fede implicita, e la<br />

scienza offrono prospettive e dati antropologici che riguardano il particolare, il<br />

settoriale e il frammentario; la ragione filosofica da parte sua solleva la questione<br />

del senso globale dell‟uomo, che trova risposta in concreto solo nelle fedi. Le fedi<br />

considerate nel loro specifico contributo, forniscono la risposta alla domanda sul<br />

senso globale, all‟interno del quale si appaga la ragione filosofica e si collocano e<br />

illuminano le verità indicate dall‟esperienza immediata e dalla scienza. Questa è la<br />

funzione transdisciplinare delle fede e delle loro antropologie teologiche, il loro<br />

contributo risolutivo in senso bonaventuriano proprio e irrinunciabile a una<br />

sensata conoscenza e realizzazione dell‟umano a livello individuale e sociale,<br />

specialmente in un contesto culturale e frammentato quale è quello<br />

contemporaneo. Su questo contributo proprio delle fedi con le loro rispettive<br />

antropologie teologiche nel dialogo interdisciplinare si staglia il proprio e lo<br />

specifico della verità dell‟uomo e della fede cristiana che l‟antropologia teologica<br />

cristiana si propone di articolare in modo coerente, organico e sistematico. La fede<br />

cristiana pur se in quanto fede in prospettiva epistemologica si colloca sul piano<br />

delle altre fedi, sia religiose che laiche, vale a dire su quello che riguarda la<br />

risposta fattuale alla domanda del senso ultimo della vita umana e del mondo,<br />

tuttavia è una fede che ha una sua identità e specificità, come d‟altronde<br />

rispettivamente ognuna delle altre fedi. Grazie alla sua indicazione del senso<br />

dell‟uomo e del mondo rivelato da Dio per e nella missione del suo figlio fattosi in<br />

Gesù di Nazareth, vissuto nella storia, morto e risorto, posizione dottrinale che qui<br />

menzionano, ma più in là dovrò illustrare più diffusamente, nel concerto delle<br />

prospettive dell‟uomo e delle discipline antropologiche apporta un contributo<br />

proprio, specifico, irriducibile a quelli delle altre fedi, benchè aperto e disponibile<br />

in dialogo interdisciplinare a confrontarsi sia con quelli dell‟empiria, della scienza<br />

e della riflessione filosofica. Per questo posso qualificare l‟antropologia teologica<br />

cristiana nell‟ambito delle ricerche che riguardano l‟uomo come quella disciplina<br />

che, partendo dai dati della rivelazione fatta da e in Gesù Cristo e ponendosi<br />

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nell’alveo della tradizione di fede viva, del pensiero teologico e dell’insegnamento<br />

del Magistero della Chiesa, con riflessione coerente, organica e sistematica, si<br />

propone di indicare il senso globale e ultimo dell’uomo in dialogo con verità e<br />

prospettive antropologiche offerte dalle religioni mondiali e con quelle offerte<br />

dalle religioni mondiali e con quelle offerte dall’esperienza umana spontanea,<br />

dalla scienza e dalla domanda filosofica.<br />

Si tratta invero di un approccio alla realtà/verità dell‟uomo aperto agli altri, ma<br />

con una propria prospettiva e di conseguenza anche con una propria metodologia.<br />

Schema riassuntivo:<br />

funzione transdisciplinare delle fedi e delle loro antropologie teologiche.<br />

E‟ la funzione di dare un senso globale, all‟interno del quale si appaga la ragione<br />

filosofica e si collocano e illuminano le verità indicate dall‟esperienza immediata<br />

e dalla scienza.<br />

Fede Risposta<br />

Filosofia Domanda<br />

Pone la domanda che va oltre l‟empiria, perché solleva la questione del senso<br />

globale dell‟uomo.<br />

Empiria: riguarda l‟esperienza immediata e la scienza(si occupa del settoriale e<br />

del frammentario): rapporti interdisciplinari per una comprensione antropologica<br />

integrale.<br />

Funzione transdisciplinare: contributo risolutivo e irrinunciabile, a una sensata<br />

conoscenza e realizzazione dell‟umano a livello individuale e sociale, in un<br />

contesto culturale così frammentato qual è quello contemporaneo.<br />

Il Cristico radice, forma e meta dell’antropologia teologica cristiana:<br />

approfondimento del proprio e dello specifico per focalizzare il fondamento<br />

ultimo. Dimensione cristica = radice, forma e meta dell‟antropologia teologica<br />

cristiana.<br />

Cristo – Cristico<br />

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Titolo che la confessione di fede ha dato a un uomo: Gesù di Nazaret, diventando<br />

il suo secondo nome (cf. Mc 1,1; Mt 1,1; 2 Cor 13,13). Esso ci porta a cogliere il<br />

vero significato cristologico e antropologico del termine cristico = Gesù di<br />

Nazaret, dopo la sua vittoria sulla morte che la comunità cristiana annuncia al<br />

mondo, è sempre da questa proclamato Messia = l‟Unto ultimo definitivo inviato<br />

da Dio all‟umanità; anzi Figlio stesso di Dio fatto uomo (1 Cor 8,6; Rm 5,14; Col<br />

1,15-20, Eb 1,1-4; Gv 1,1-18; GS 11; 22).<br />

Egli dunque il Perno, il Mezzo, e il Fine della storia della salvezza, nonché il<br />

Senso dell‟intera esistenza umana, ma in quanto viene dal Padre e via al Padre =<br />

centro del cosmo e della storia, ma in qualità di centro nello Spirito porta al Padre<br />

come origine e meta del suo mistero e di quello dell‟uomo e del mondo. Il<br />

cristocentrismo non dunque come cristomonismo solo Cristo, ma esige e include il<br />

teocentrismo e patro-finalismo (cf. Ef 2,18).<br />

CRISTICO: l‟antropologia teologica cristiana riflettendo su questa visione<br />

neotestamentaria radicalmente cristocentrica, sente di dover agganciare la vita dei<br />

singoli, la storia di tutti gli uomini e le vicende del cosmo a questo Unto/Cristo di<br />

Dio e quindi riconoscere in essi un rapporto e una dimensione cristici, ossia una<br />

situazione di esistenza e una relazione cristiche; un esistenziale cristico (cf. K.<br />

Rahner), come fondamento, norma di essere e meta ultima dell‟intera esistenza.<br />

Per una corretta teologia o antropologia teologica cristiana non bisogna mai<br />

dissociare il termine Gesù dal termine Cristo.<br />

3. Il disegno di elezione (predestinazione) del Padre in Cristo indicazione<br />

cristiana del senso ultimo dell‟uomo e del mondo<br />

Disegno di salvezza<br />

Elezione Metastorica Storica<br />

Dio Padre Mysterion<br />

opera sempre nascosto nei secoli<br />

in, per e in vista<br />

Unico Mediatore di Gesù Cristo svelato per Gesù Cristo<br />

(Rm 8,28-30; Ef 1, 3-11) Figlio di Dio nello Spirito Santo<br />

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e figlio dell‟uomo/ nello Spirito<br />

Disegno di salvezza ideato dal Dio eterno, già predestinato presso di lui e rivelato<br />

da lui a persone prescelte e da queste fatto conoscere a un numero ristretto di eletti<br />

e predestinati che vivono in questo mondo di peccato e di tenebre condannato alla<br />

distruzione perché attendano con perseveranza il suo giorno di manifestazione e<br />

realizzazione. Prospettiva cristica dal disegno di elezione divino, qualificante per<br />

il Nuovo Testamento, ma che andò gradualmente offuscandosi nel corso della<br />

storia della teologia cristiana, e quindi e soprattutto nella religiosità popolare, sino<br />

a scomparire del tutto. K. Barth ha avuto il merito di aver riportato la fontalità e<br />

dimensioni cristiche dell‟elezione e predestinazione divine nella riflessione<br />

teologica. Gesù Cristo è il prototipo e il riassunto di ogni atto di elezione che Dio<br />

ha per soggetto e l‟uomo per oggetto. La predestinazione esige di essere<br />

interpretando partendo dalla cristologia, poiché Gesù Cristo è la sostanza di questa<br />

dottrina. Alla domanda profondamente e universalmente umana del cosa, del chi<br />

in ultima istanza sta sotto e dietro a quanto avviene nel nostro mondo<br />

l‟antropologia cristiana risponde: che Dio il mistero profondo, trascendente; Dio<br />

Padre che nella sua eternità metastorica, ma allo stesso contemporanea ai vari<br />

momenti storici, nello Spirito opera sempre in, per e in vista di Gesù Cristo, Figlio<br />

di Dio e figlio dell‟uomo.<br />

4. La fede cristiana e le altre religioni all‟interno del discorso interdisciplinare<br />

L‟antropologia cristiana si colloca in chiaro rapporto di distanza dalla visioni<br />

antropologiche indù e buddista e in chiaro rapporto di vicinanza pur se diversa, da<br />

quella ebraica e islamica. Benchè riceva da quella ebraica l‟idea di creazione per<br />

quanto riguarda il mondo e di immagine di Dio per quanto riguarda il mondo e di<br />

immagine di Dio per quanto riguarda l‟essere umano sia maschile che femminile<br />

nonché l‟umanità come famiglia di uomini chiamata a camminare davanti a Dio<br />

nel contesto del mondo creato, rilegge alla luce di Gesù Cristo i dati<br />

veterotestamentari perché vede in lui, pur se apparso tra gli uomini in un<br />

determinato momento e contesto storico, il perno, il fondamento e la meta che Dio<br />

Padre ha posto nella sua azione creatrice e provvidente. Egli è la fontale e vera<br />

immagine di Dio invisibile e la vera immagine dell‟uomo; l‟uomo originario, così<br />

com‟era stato creato da Dio prima del peccato. Questa visione neotestamentaria è<br />

la base dell‟interpretazione cristica che l‟antropologia teologica cristiana dà<br />

dell‟uomo e del mondo che vivono nel tempo nonché il fondamento dell‟identità<br />

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del suo approccio ad essi e della sua originalità rispetto a quello dell‟esperienza<br />

umana immediata, della scienza, della riflessione razionale e delle diverse fedi.<br />

Rispetto a queste ultime la prospettiva cristiana si distingue tra le altre cose perché<br />

lega l‟uomo non soltanto a un Dio personale, come l‟ebraismo e l‟islamismo, ma<br />

con un‟intimità unica ed eccezionale. Ogni uomo chiamata a vivere la vocazione e<br />

l‟intimità di rapporto di figlio nel Figlio, è qualificato come essere cristico. Gesù<br />

Cristo infatti, fratello di tutti e futuro di tutti nell‟unico Dio creatore, dona<br />

all‟umanità intera da lui chiamata all‟esistenza una comunione di vita divina<br />

intima ed eminente. L‟islam si colloca sostanzialmente nella scia del pensiero<br />

religioso ebraico e cristiano, pur se ha espressioni caratteristiche proprie. Cieli e<br />

terra sono creazione di Allah, sono sotto la sua provvidenza. Tutte le creature<br />

lodano Dio; l‟uomo è creato in modo particolare; sulla terra egli è posto come<br />

vicario di Dio, con la vocazione di abitare del giardino donatogli da Dio, ma<br />

nell‟obbedienza e sottomissione al suo Creatore, il Misericordioso e impositore<br />

della sua volontà. Nella sua creazione ha disposto le creature per la vita dell‟uomo<br />

e ha lasciato in essa segni della sua presenza per coloro che ragionano, di modo<br />

che lo riconoscano e lo lodino, a lui si sottomettano e vivano secondo i suoi<br />

precetti. L‟ebraismo biblico e postbiblico dà invece solida consistenza al mondo, e<br />

all‟uomo in quanto realtà esistenti. Pur se li rapporta con tutto il proprio essere a<br />

Dio creatore, e alla sua Parola e al suo Spirito (cf. Gn 1,1ss.; Sal 33,6; Is 59,21),<br />

non li dissolve in lui, ma ne afferma e ammira con godimento l‟esistenza, in<br />

particolare quella dell‟uomo (cf. Sal 8), visto nel suo essere integrale e come<br />

famiglia umana immagine di Dio (cf. Gn 1,26-27), chiamata a onorare il Creatore<br />

in seno al mondo, consegnato da lui alla sue mani, perché lo custodisca e lo ordini<br />

alla sua lode (cf. Gn 1,28-30; Sir 17,1 ss.). Abbiamo una valorizzazione positiva,<br />

spontanea, convinta della realtà dell‟uomo e del mondo nel suo esistere, esserci,<br />

consistere. Il buddismo come per l‟induismo l‟esistenza del mondo che cade sotto<br />

i sensi e la sfera della coscienza individuale sono illusione e fonte del desiderio e<br />

dolore. Compito dell‟uomo è di vederci chiaro (vidya), di cogliere la pura<br />

esperienza di molteplice, di creare uno spazio di coscienza svuotato di ogni<br />

determinazione ove il desiderio viene soppresso per prepararsi, attraverso diverse<br />

reincarnazioni alla grande e definitiva estinzione del fenomenico, dell‟apparenza e<br />

dell‟io: il Nirvana. Nell‟induismo l‟intera esistenza è caduta dall‟uomo al<br />

molteplice e temporale. Ciò comporta ignoranza, illusione, sofferenza, alienazione<br />

dell‟esistenza. L‟essere vero dell‟uomo non è nel mondo e nel mondo, ma tramite<br />

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diverse reincarnazioni dovrà ritornare definitivamente nell‟indistinto Brahman<br />

originario.<br />

5. La caduta del peccato, la nuova creazione e la visione della fede cristiana<br />

La visione teologica cristiana<br />

La caduta del peccato non misconosce il problema del male e per questo dialoga con i<br />

diversi campi di conoscenza umana. Per comprenderne il senso profondo deve<br />

ricorrere alla chiave interpretativa che le è stata donata per rivelazione: il mistero di<br />

Gesù Cristo e la dimensione cristica dell‟uomo e della sua storia. Gesù ha rivelato la<br />

sua umanità vera nel vivere il rapporto con Dio Padre in modo unico e in derivazione<br />

di ciò nel vivere un profondo rapporto di fratellanza con gli uomini, facendosi tutto<br />

per loro servo. Per contrasto egli dice e indica agli uomini che sono cattivi e che<br />

l‟alienazione dell‟esistenza umana: non nel non osservare i comandamenti della<br />

Legge e nel non vivere secondo le esigenze dell‟Alleanza ebraica, ma nel non<br />

accettare e vivere la relazione di uomini in Dio e in lui stesso, Gesù per questo ha<br />

sofferto, è stato vittima del male, ha portato su di sé l‟alienazione del mondo; ma<br />

mostra che il vero male non sta nel dolore, ma nell‟egoismo che infligge sofferenza e<br />

morte. Il cristico fa leggere all‟antropologia cristiana per contrasto l‟adamitico come<br />

realtà peccaminosa che segna universalmente gli individui e la famiglia umani,<br />

peccato originale e peccato del mondo, nonché l‟alienazione in cui si trova la<br />

creazione stessa. La nuova creazione è fondata sull‟evento Gesù Cristo Risorto quale<br />

evento del futuro già realizzato e promessa di compimento all‟uomo e al mondo.<br />

Come hanno affermato i grandi teologi del nostro secolo, il futuro dell‟uomo nella<br />

prospettiva cristiana va letto in Gesù Cristo nato, crocifisso e risorto perché lui è il<br />

nucleo e il vertice della storia della salvezza di Dio con gli uomini e quindi<br />

costituisce il criterio di interpretazione del futuro dell‟uomo, e della sua storia, come<br />

futuro di Dio, è già realizzato in Cristo risorto. La venuta definitiva di Cristo, e con<br />

essa la salvezza sperata debbono ancora compiersi.<br />

L’uomo nel progetto di Dio<br />

Il titolo vuole indicare una scelta di campo per accostarsi a quel mistero dell‟uomo<br />

già accennato precedentemente. L‟uomo è costituito da una realtà pluridimensionale,<br />

da diversi elementi che ne formano la struttura ontologica, che non è possibile<br />

conoscere con il solo apporto delle sole scienze umane. Nessuna scienza umana o<br />

filosofia può affermare e provare che l‟uomo è di origine divina o immagine di Dio in<br />

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Cristo, che è un essere esistente perché eletto in Cristo prima della costituzione del<br />

mondo. E‟ solamente la rivelazione cristiana a svelarci questo mistero: il senso della<br />

vita dell‟uomo nella sua pienezza. Mi fonderò quindi su di essa per disegnare un<br />

abbozzo di immagine di uomo in cui risplenda in piena luce la sua eccelsa dignità e il<br />

senso della sua esistenza. L‟ambito del piano divino rivelato ci permette di scoprire<br />

due fattori fondamentali per il nostro studio.<br />

1) La radice dell‟identità, del valore e dell‟eccelsa dignità dell‟uomo, nella<br />

dipendenza radicale e ontologica da Dio in Cristo;<br />

2) il proprio dell‟uomo: il suo essere persona, radice della sua assoluta<br />

trascendenza nei confronti di tutti gli esseri del mondo creato, l‟aspetto<br />

razionale è talmente essenziale e fondamentale nella struttura ontologica<br />

dell‟uomo, da costituirne la specificità per eccellenza, l‟essere personale<br />

strutturalmente aperto, protesi verso l‟altro e in primo luogo verso l‟Altro<br />

trascendente.<br />

Inoltre il piano divino costituisce una valida base di partenza e un sicuro<br />

riferimento per contrapporre una visione di uomo degna del suo essere immagine<br />

di Dio a quella dissacrante risultante dalle diverse tendenze culturali dei nostri<br />

tempi.<br />

Alcune tendenze culturali dei nostri tempi<br />

Oggi più che mai è urgente fare chiarezza sulla domanda chi è l‟uomo. L‟urgenza<br />

proviene dalla perdita di senso e di valore dell‟uomo, causate dalla rivoluzione<br />

culturale degli ultimi anni. Le immagini di uomo che ne emergono sono di un<br />

essere totalmente in balìa del rapido dei nuovi climi culturali. In particolare modo<br />

questi ultimi anni presentano un determinatore comune: un rapidissimo<br />

cambiamento e capovolgimento che rivela una devastante instabilità. Evidenzio<br />

alcuni passaggi fondamentali.<br />

1. L’individualismo greco<br />

La visione greca che ha dominato la cultura dell‟occidente cristiano, ha dato<br />

origine all‟immagine di uomo individuo, di essere autocentrato, di ente provvisto<br />

di una propria natura. La filosofia greca non conoscendo il concetto di persona<br />

prende come centro dell‟antropologia l‟uomo come individuo. Su di essa ha<br />

dominato il primato dell‟idea di natura e la qualità dell‟immutabilità,<br />

dell‟universale e dell‟intemporale come elementi distintivi dell‟essere più<br />

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autentico e reale. L‟origine dell‟uomo è di carattere cosmico. L‟uomo infatti è<br />

visto come microcosmo abbreviazione di tutta la natura. L‟idea di uomo è si<br />

onticamente rilevante, ma non la sua realizzazione di singola persona concreta.<br />

L‟uomo è invece visto come la degradazione dell‟unità originaria, un essere<br />

temporale che accidentalmente manifesta l‟universale identico a se stesso, non<br />

come un essere che ha un valore unico e irripetibile. L‟uomo greco è assorbito<br />

dalla città, dalla famiglia, sottoposto a un destino cieco, senza nome superiore agli<br />

stessi dei; è una particella insignificante dell‟universo, un frammento assorbito nel<br />

tutto cosmico, nel quale perde la sua identità. L‟autocoscienza umana, dunque non<br />

serve per captare se stessa nella propria singolarità, ma per integrarsi<br />

nell‟universalità, da questa universalità immanente di ciò che è mondano,<br />

Epicureo, stoicismo, sia l‟universalità trascendente di ciò che è divino, Platone,<br />

platonismo. Persino per Aristotele, che non ha la visione della realtà come<br />

decadimento, la molteplicità degli individui non fa che ripetere l‟originalità della<br />

specie. La filosofia greca ha inoltre la visione particolarmente dualistica<br />

dell‟uomo come essenzialmente anima o spirito. L‟uomo greco si è contrassegnato<br />

dalla presenza del divino che trascende il tempo, quindi immortale, capace di<br />

spiritualizzare anche la materia(corpo), ma questa tuttavia la figura nei confronti<br />

dell‟essere come una sua negazione, come principio di limitazione della realtà, che<br />

è spirito. In tale visione non c‟è spazio per il valore dell‟alterità. Di conseguenza<br />

ne viene fuori un‟antropologia che scalza alla base il significativo positivo della<br />

comunicazione, di ogni comunicazione. Il rapporto uomo-Dio si riduce a<br />

un‟immersione e a un perdersi impersonale nell‟infinito. La comunicazione perciò<br />

oltre a essere ostacolo rappresenta anche un decadimento, una mondanizzazione,<br />

un allontanamento dall‟ideale, che è raggiungibile anche soltanto nella<br />

contemplazione, nella fuga del mondo, nell‟apàtheia: nell‟indifferenza, nel<br />

superamento delle passioni, dei legami con le persone e le cose.<br />

2. I miti dell’uomo moderno e loro crisi<br />

Il contesto culturale del nostro tempo è contrassegnato dalle categorie di crisi e di<br />

trapasso culturale. E‟ una continua messa in discussione più o meno globale<br />

dell‟assetto sociale esistente e la percezione di essere immersi in un processo di<br />

trasformazione. Tale processo interpella direttamente l‟uomo, sottoponendolo a un<br />

continuo giudizio di revisione e trasformazione. Presento una rapida rassegna<br />

delle tendenze culturali che più hanno determinato i rapidi e repentini<br />

rovesciamenti della concezione della società e dell‟uomo.<br />

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2.1. Le ideologie del progresso, del cambio e l‟uomo artefice<br />

Espressione chiave: l‟uomo artefice, che nasce e tramonta in un clima culturale del<br />

progresso e del cambio. Tali ideologie sono state considerate sul principio forti e<br />

vincenti, in quanto era diffusa la convinzione che il progresso potesse essere<br />

illimitato e dare attuazione a un cambio talmente profondo da trasformare<br />

interamente l‟apparato politico e strutturale della società.<br />

Quest‟immagine viene costruita con la concorrenza di 3 fattori:<br />

1) Le trasformazioni economiche e lo sviluppo prorompente delle tecnologie<br />

Tutto questo ha contribuito a creare nell‟uomo una nuova coscienza di sé, una<br />

fiducia illimitata nelle proprie capacità di modificare il reale attraverso l‟azione<br />

individuale e collettiva. L‟uomo moderno, rispetto alle età precedenti, è centrato<br />

su se stesso, si pone come centro di tutto, attorno al quale vuol che ruoti tutto il<br />

resto. Una così sfacciata autoesaltazione mette in ombra, anzi gli fa ignorare tutto,<br />

la sua stessa dimensione creaturale.<br />

2) La centralità assoluta data alla razionalità, proveniente dal substrato<br />

culturale greco, che ha portato l’uomo moderno a concepirsi costruttore<br />

del suo destino<br />

Il concetto che più esprime questo centramento su se stesso è quello dell‟uomo<br />

artefice, cioè di costruttore, e non di esecutore e fruitore, di un mondo o di un<br />

ordine già determinato. In questa visione spariscono o sono messi del tutto in<br />

ombra il senso del limite, dell‟errore, della colpa, dell‟oggettualità delle cose,<br />

delle strutture, delle leggi, di ciò che è istituito.<br />

3) La fiducia illimitata nell’ideologia del progresso e del cambio<br />

Il primo impegno dell‟uomo artefice è stato di dare attuazione alle ideologie del<br />

progresso e del cambio. Con ciò ha inteso manifestare una fiducia illimitata nella<br />

potenza della scienza, della tecnologia, della produzione economica, lasciata al<br />

gioco libero del mercato. L‟ideologia del cambio esprime la convinzione di poter<br />

determinare il cambiamento del sistema strutturale, economico-politico. Le<br />

ideologie del progresso e del cambio rappresentano il binario sul quale l‟uomo<br />

degli anni ‟60 si è incamminato, e ha fatto camminare i suoi sogni e velleità. In<br />

questa decade si assiste al boom economico che dà l‟illusione di poter realizzare<br />

quella che E. Fromm ha chiamato la Grande Promessa dell‟umanesimo<br />

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illuminista, preconizzatrice di una felicità alla portata di tutti. L‟idea del progresso<br />

cullava l‟idea della crescita economica illimitata, in tale prospettiva l‟uomo ideale<br />

è incarnato dal manager. La crisi economica invece ha portato alla constatazione<br />

del divario tra istruzione e possibilità del lavoro. Così con la contestazione<br />

giovanile e studentesca del ‟68 è stato dato vigore all‟ideologia del cambio<br />

politico e strutturale. Si fa strada la cultura della collettivizzazione o<br />

socializzazione dei mezzi di produzione e della ricerca scientifico-tecnologica,<br />

poiché solo così è possibile la realizzazione per tutti della Grande Promessa.<br />

2.2. La crisi dei miti delle ideologie del progresso e del cambio<br />

La delusione arrivata dalla caduta dei miti ha causato la crisi sanzionando il<br />

tramonto dell‟uomo artefice, il cui posto è stato preso interamente dalla potenza<br />

dei meccanismi sociali. La crisi delle due ideologie, del progresso e del cambio, è<br />

stata totalmente profonda da intaccare le radici stesse del modo di pensare e di<br />

prospettare le cose, mettendo in discussione e intaccando le tante sicurezze che<br />

costituivano il patrimonio della tradizione. Si è giunti a mettere in discussione<br />

perfino l‟immagine dell‟uomo moderno, cioè il modo in cui l‟uomo pensa, vede se<br />

stesso e prospetta la sua esistenza nel mondo e nella storia. Sono stati gli<br />

avvenimenti degli anni ‟70 a scardinare queste ideologie cosiddette forti, e che<br />

hanno fatto cultura negli ultimi trenta anni. La crisi che ne è scaturita ha investito<br />

tutti i settori della società. Si è infranto in seguito alla limitazione energetica a<br />

causa della riduzione dell‟estrazione del petrolio, il sogno della possibilità<br />

illimitata e quindi dello sviluppo. La società opulenta è entrata in crisi, allora non<br />

soltanto i facili sogni consumistici sono stati drasticamente ridimensionati, ma al<br />

loro posto sono subentrate le parole d‟ordine: austerità e sacrifici. E‟ entrata in<br />

crisi anche l‟ideologia del cambio. Gli avvenimenti degli anni ‟60-70, cioè i vari<br />

tentativi di cambiamento politico e strutturale, quali la contestazione giovanile, la<br />

fine dei miti storici marxisti, il movimento delle donne, hanno ingenerato un forte<br />

sospetto circa la possibilità di una rivoluzione che inducesse al cambiamento<br />

politico e strutturale totale. Il tramonto dei sogni consumistici e del cambio<br />

politico strutturale ha lasciato il posto alla sfiducia e al crollo di ogni speranza.<br />

Quel che domina è la momentaneità autorizzata, senza quadro e senza progetto,<br />

ossessionata dalla ricerca spasmodica di sensazioni e di emozioni slacciate e mai<br />

del tutto soddisfacenti: quando non ci si perde nei sentimenti allucinanti della<br />

droga.<br />

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2.2. L‟uomo spogliato della soggettività<br />

La caduta dei miti, delle ideologie del progresso illimitato e del cambio politicostrutturale<br />

ha talmente raffreddato l‟entusiasmo dell‟impegno suscitato dalla totale<br />

fiducia riposta in essi, da far morire, secondo gli strutturali francesi, il mito<br />

dell‟uomo artefice. Tutto ciò sembra emergere oltre che dall‟esperienza quotidiana<br />

anche dai vari settori della cultura: arte, letteratura, cinema. Il mondo della cultura<br />

fornisce una visione dominata dalla scomparsa del soggetto umano e della libertà<br />

umana, da sempre considerati i veri centri attivi e creativi di senso. Lo<br />

strutturalismo esprime un movimento più diffuso nel pensiero contemporaneo, che<br />

vede l‟uomo mortificato negli svariati modi e nei più disparati sistemi sociali.<br />

Avviene che l‟esaltazione dell‟uomo di ieri tramite le ideologie del progresso e del<br />

cambio, cede il posto alla visione di una storia senza soggetto, dominata dalla<br />

crescente potenza di meccanismi sociali che giungono a minacciare di morte<br />

l‟esistenza soggettiva. Lo strutturalismo assurto da metodo e forma di ricerca<br />

scientifica e ideologica, sembra oltre che confermare anche ratificare<br />

concettualmente la situazione di marginalità e manipolazione dell‟uomo all‟intero<br />

apparato onnipotente di un tardo capitalismo.<br />

3. La tendenza alla cultura della morte<br />

Con l‟espressione tendenza alla cultura della morte bisogna stare attenti a non essere<br />

tratti in inganno. Poiché il soggetto non è tanto la morte in se stessa quanto la<br />

desoggettivizzazione dell‟uomo e il clima di totale sfiducia verso le strutture della<br />

società civile ed economica. E di fronte alla situazione di un tale smarrimento,<br />

diverse sono le reazioni, individuali e collettive, come pure le strategie proposte per<br />

uscire dal tunnel della crisi. Schematicamente si può affermare che la ricerca di senso<br />

si può raggiungere mediante la tendenza alla cultura della morte. Le crisi di ideologie<br />

ha raggiunto un grado di profondità tale da ingenerare una tale sfiducia e disimpegno<br />

che danno forma a un impalpabile ma diffuso fantasma della morte, che sembra<br />

investire le forme di un vero e proprio progetto di vita, di una cultura che ha le<br />

proprie ideologie, propri quadri di riferimento, riti, linguaggi, modelli di<br />

comportamento e proprie tecniche operative. Né possono essere considerate<br />

produzioni storiche a livello soggettivo le mortali assolutizzazioni della droga e del<br />

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terrorismo: o più comunemente il disinteresse qualunquistico per tutto ciò che è<br />

sociale o il rifiuto di un impegno attivo a cominciare dal lavoro. Ciò che spicca in<br />

questo intreccio di contraddizioni è la netta sensazione di essere in balia<br />

dell‟impotenza, che porta alla conclusione che non ci sia più nulla da fare; per cui se<br />

non si vuol far morire del tutto la speranza di un mondo diverso, se vogliamo<br />

raggiungere l‟obiettivo del cambio rivoluzionario, tanto sognato e che le mediazioni<br />

storiche promettono invano, non c‟è altro rimedio che la distruzione totale<br />

dell‟esistente, cioè la distruzione violenta dello Stato, del diritto, della democrazia<br />

parlamentare. Questa tendenza, per il fatto che è disposta, pur di raggiungere<br />

l‟obiettivo del cambio, a qualsiasi tipo di rivoluzione, fare piazza pulita di tutto,<br />

prende il nome di cultura della morte. Lo esprime il fatto che considera la potenza<br />

militare ed economica la vera e unica forza che può garantire ordine e sicurezza; anzi<br />

giunge fino a forme di tracotanza imperialistica o fino a rigurgiti di intolleranza del<br />

diverso; fino alla durezza e insensibilità di fronte alla morte altrui per fame,<br />

solitudine, angoscia, disperazione, fino al disinteresse per la distruzione degli<br />

ecosistemi.<br />

4. La nuova ricerca antropologica<br />

Alla tendenza della cultura di morte si contrappone una serie di tendenze con lo<br />

scopo di ricercare vie nuove e diverse di comprendere l‟uomo e la sua vicenda.<br />

Tuttavia queste spinte culturali, più che concezioni definite, risultano tentativi<br />

frammentari. Tra di essi interessano la tendenza della cultura radicale, la tendenza<br />

nichilista e quella dell‟autorealizzazione.<br />

4.1. L‟uomo secondo la cultura radicale<br />

Soppiantata l‟ideologia dello sviluppo e del cambio, si percorrono altre vie nel<br />

tentativo di realizzare una nuova immagine di uomo. Una di queste tendenze prende<br />

il nome di tendenza radicale, in quanto vede nella soddisfazione dei bisogni radicali<br />

la chiave per una interpretazione della realtà dell‟uomo. Qui uomo è ridotto ai suoi<br />

bisogni, alle pulsioni, ai suoi desideri. La loro piena e suprema espansione è la<br />

suprema legge di azione. Tale tendenza appare un contenitore e un assemblaggio di<br />

rivoli culturali, fatti confluire in un unico movimento, presentato come naturalismo<br />

libertario, fondamentalmente edonistico.<br />

4.1.1. Un primo affluente è individuabile nel deterrente freudiano, inteso però in<br />

una versione volgarizzata, che si caratterizza per l‟accentuazione del piacere<br />

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e del sesso. Sappiamo che Freud usa come chiave di lettura per qualsiasi<br />

indagine sull‟uomo, non più i dati della coscienza e neppure i<br />

comportamenti osservabili, ma l‟osservatorio dell‟inconscio. Il criterio che<br />

sceglie, per valutare il processo di maturità dell‟uomo, è il grado di capacità<br />

di amare e lavorare, e la capacità dell‟Io di controllare e regolare a proprio<br />

vantaggio gli impulsi degli istinti (l‟Es) e quelli derivanti dal mondo<br />

interiorizzato delle figure parentali, dell‟ambiente e della cultura (il Super<br />

ego). Invece in tale versione volgarizzata l‟accento viene posto sul ruolo<br />

emancipativo, liberatorio degli impulsi del piacere (l‟Eros) e del sesso.<br />

4.1.2. La cultura radicale accoglie e si sposa anche con il marxismo liberatorio di<br />

Marcuse. Il marxismo marcusiano può essere considerato la sorgente<br />

ispiratrice della contestazione giovanile del ‟68 contro i valori della società<br />

borghese. Tuttavia il marcusianismo è una forma di marxismo piuttosto<br />

orientato in senso soggettivistico, focalizzato sui temi della liberazione del<br />

soggetto dal potere alienante del sistema. Secondo il fondatore, il disagio<br />

della civiltà deriva dalla repressione sistematica degli istinti (Freud) e dei<br />

loro moti spontanei; una repressione che è motivata dal bisogno della<br />

produttività individuale e sociale: infatti ciò che conta per il sistema è il<br />

principio della prestazione, cui tutto deve essere subordinato. Ciò comporta<br />

necessariamente il sacrificio del principio del piacere al principio della<br />

prestazione del lavoro: non il lavoro per l‟uomo, ma l‟uomo per il lavoro.<br />

Marcuse vedrebbe nell‟avanzamento tecnologico e dell‟automazione una<br />

vera opportunità di emancipazione dalla necessità del lavoro. Esso<br />

permetterebbe all‟uomo di dispiegarsi nella linea dell‟eros liberato, nel<br />

pieno e fruitivo rapporto con la natura, nella libertà sessuale, nella fantasia<br />

creatrice, nella spontaneità del gioco. Purtroppo l‟avanzamento tecnologico<br />

e l‟automazione sono asserviti soltanto alla logica della produzione; allora<br />

più che emancipare l‟uomo è stata usata per disumanizzarlo, legarlo<br />

aggressivamente libidinosamente alla merce da produrre, possedere,<br />

consumare. Di conseguenza secondo Marcuse, non sarà più la classe<br />

operaia, ormai totalmente coinvolta e invischiata nella logica della<br />

produzione a operare il cambiamento strutturale e la liberazione<br />

dell‟asservimento dell‟uomo al processo produttivo: lo potrebbero essere<br />

invece i giovani, gli emarginati, le donne, le popolazioni al terzo mondo,<br />

perché liberi da tale logica di asservimento; potrebbero essere loro gli<br />

artefici di un vero cambiamento del modo di vivere. Nel suo Saggio sulla<br />

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liberazione propone una rivoluzione liberatrice a partire dal libero<br />

espandersi biologico, che avrebbe creato un modo nuovo di sentire e vedere<br />

le cose centrato sull‟immaginazione creativa e artistica, adeguatamente<br />

sostenuta dalla scienza.<br />

4.1.3. La cultura radicale accoglie e ridà vigore a un‟altra tendenza: il nuovo<br />

radicalismo. Constatata la irrealizzabilità del marxismo libertario di<br />

Marcuse, la cultura radicale ha cercato di orientare l‟interesse su un<br />

versante del tutto individualista. La matrice cui s‟ispira è l‟individualismo<br />

empiristico borghese di Stuart Mill di Bentham, e il liberalismo del secolo<br />

scorso, la cui caratteristica consiste nel dare priorità all‟esperienza, allo<br />

psicologismo deterministico, all‟esaltazione della libertà e all‟iniziativa<br />

individuale, all‟utilitarismo etico, all‟economicismo alla vita sociale e<br />

politica, al garantismo statale. Il nuovo radicalismo è andato ben oltre<br />

questa visione. Si fonda sulla non esistenza di alcuna norma oggettiva della<br />

natura, con lo scopo di focalizzarsi in modo quasi esclusivo ai bisogni, così<br />

come si manifestano nella immediatezza dell‟esperienza soggettiva. Il<br />

risultato consiste non soltanto di negare all‟individuo qualsiasi capacità di<br />

dominare i bisogni, ma soprattutto nella sua atomizzazione nella<br />

molteplicità dei suoi bisogni. La regola suprema non è più l‟utile, il dovere,<br />

il sacrificio, l‟astinenza, la disciplina razionale, ma la soddisfazione totale<br />

di tutti i bisogni, l‟utilitarismo edonistico. Il neoradicalismo attribuisce la<br />

dignità e la capacità liberante non più alla razionalità immanente nella<br />

storia, né alla lotta di classe, né all‟idea di rivoluzione, ma alla corporeità<br />

empirica, all‟espressione immediata dei bisogni, al libero sviluppo dei<br />

desideri e alle aspirazioni soggettive senza restrizioni. In mezzo allo<br />

smarrimento e all‟insignificanza della vita dell‟uomo contemporaneo, nella<br />

crisi di senso, il bisogno rimane come unico riferimento, diventa legge per<br />

se stesso, perciò sarà la sua soddisfazione, il piacere ad assolvere la<br />

funzione positiva di orientamento e di senso.<br />

4.1.4. La centralità assoluta del bisogno e la sua libera espansione senza alcun<br />

freno, l‟abolizione di un filo razionale che unisca gli eventi storici predicate<br />

dal nuovo radicalismo si ricollegano allo strutturalismo francese.<br />

L‟immagine di uomo che presenta è di uomo frammentato, o meglio come<br />

si ama dire: uomo dis-organico. Gli strutturalisti per esprimere il loro<br />

pensiero sulla condizione umana ricorrono all‟immagine del rizoma che è<br />

una pianta senza radice e senza fusto. Un fusto che vive come radice, e una<br />

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radice che vive come fusto, con diramazioni clandestine sotterranee,<br />

impensate e imprevedibili. In procedere senza norma, senza un codificato<br />

sistema di valori. In quanto non radice, il rizoma indica il rifiuto di ogni<br />

fondazione razionale e tradizionale, il rifiuto di ogni riduzione all‟unità.<br />

L‟uomo è dunque ridotto alla sola corporeità e all‟insieme dei suoi impulsi<br />

in continua e libera espansione: con niente sopra di lui e senza alcuna<br />

radice. Si è di fronte a un uomo svuotato totalmente dalla sua interiorità,<br />

frammentato, anzi spezzato nella sua unità interiore. Esistere senza radice e<br />

senza fusto (dis-organico appunto) non riguarda soltanto l‟uomo in quanto<br />

individuo, ma è la parola d‟ordine che tocca anche il livello sociale e<br />

politico. Pertanto la rivoluzione che si predica non nasce da un accordo o da<br />

un dettato politico, ma è considerata come produzione spontanea; lo scopo<br />

della lotta è la molecolarizzazione, cioè lo sforzo e l‟impegno di realizzare<br />

la moltiplicazione delle forze per dare la possibilità a tutti di partecipare a<br />

diversi livelli, di appartenere a diverse forme di aggregazione politica.<br />

Essendo ognuno senza radici, la deterritorializzazione può portare alla<br />

rivoluzione dappertutto e risorgere ovunque, come il rizoma.<br />

4.2. Visione nichilista dell‟uomo<br />

La visione dis-organica dell‟uomo sfocia in un movimento culturale che si<br />

presenta come pensiero negativo e come nichilismo. Ciò sta a dire che non si<br />

danno valori; per cui l‟uomo è convinto che la sua esistenza come ogni cosa,<br />

ha il niente, come sua porzione di eredità. Diverse sono le ascendenze<br />

culturali che concorrono a formare l‟immagine nichilista dell‟uomo.<br />

4.2.1. Un primo supporto lo ha trovato nel movimento culturale che va sotto il<br />

nome di dialettica negativa della Scuola di Francoforte. Questo movimento<br />

benchè abbia avuto gli inizi negli anni ‟30, tuttavia ha dato i suoi frutti negli<br />

anni ‟60, fino ad apparire come supporto alla contestazione studentesca del<br />

‟67-‟68. Esso può essere considerato come fonte ispiratrice di tale<br />

contestazione, in quanto predica la negazione e il ripudio dell‟esistente<br />

come istituzionale, come autoritario. Tale negazione mira a dare sostegno ai<br />

progetti emancipativi dell‟assoggettamento alle pressioni autoritarie; mira<br />

cioè a dar corpo all‟immaginazione alternativa e al pensiero divergente,<br />

tendente ad accentuare più la diversità che l‟unità, più la non-identità che la<br />

conciliazione.<br />

4.2.2. Una seconda ascendenza la esercita l‟esistenzialismo negativo sartriano e<br />

heideggeriano. In un primo momento, la fonte di riferimento è la Nausea di<br />

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Sartre. Con essa descrive ciò che l‟io prova di fronte a un mondo schifoso<br />

come un vomito che si riproduce caoticamente. E‟ la matrice heideggeriana,<br />

con l‟analisi esistenziale dell‟uomo gettato nel mondo e nel tempo, a<br />

esercitare più attrazione su questo movimento culturale. Pertanto la visione<br />

di uomo che ne consegue è quella di un essere che esiste come e in quanto<br />

rifiutato e gettato nel nulla dell‟Essere (con la E maiuscola). Il nulla fa<br />

pensare a una esistenza umana senza aggancio, senza fondamento, senza<br />

legame alcuno con l‟Essere. L‟unica consistenza su cui poggia l‟esistenza<br />

umana è la fatticità dinamica, cioè il poter-essere che non rinvia a nessuna<br />

origine, anzi costringe a superare tutte le eventualità. Constatato che le<br />

possibilità sono interminabili, l‟uomo matura la consapevolezza che il suo<br />

esistere è un essere per la morte; la quale appare come il momento più alto e<br />

più significativo dell‟esistenza umana, in quanto si presenta come momento<br />

salvante, che spezza e mette fine all‟infinita spirale del poter essere.<br />

4.2.3. L‟ascendenza di Heidegger fa breccia nei cultori dell‟uomo nichilista in<br />

quanto in lui si riscontrano la riproposta di una lettura di F. Nietzsche<br />

diversa da quella anarchica e da quella nazista. Egli mette l‟accento sulla<br />

chiara coscienza della negatività e dell‟amor fati. I seguaci più entusiasti di<br />

questa visione, più che gli intellettuali, sono i giovani studenti, che vedono<br />

in Nietzsche un nuovo profeta. Il messaggio che ha reso affascinante il<br />

nuovo profeta e gli ha procurato ammirazione e seguito è la solenne<br />

proclamazione della morte di Dio; il cui senso però più come negazione di<br />

Dio e quindi come ateismo, appare come affermazione della fine di ogni<br />

certezza assoluta o di verità e valori eterni, immutabili. Tale affermazione<br />

diventa fonte d‟ispirazione per la demolizione della cultura borghese,<br />

l‟azzeramento della tradizione, la giustificazione dell‟abbattimento di ogni<br />

sicurezza del vivere, per avviare un‟opera di ri-creazione dei valori.<br />

4.3. L‟uomo tecnologico<br />

L‟esperienza dell‟inconcludenza, del pressapochismo e dell‟inefficienza<br />

spontaneista delle proposte precedenti spinge a fare marcia indietro, cioè a<br />

ricucire con il mondo della civiltà tecnocratica e a calcare altre strade nella<br />

ricerca di un futuro per l‟uomo. La linea lungo la quale esso muove non è<br />

più quella del rifiuto, ma del riaffidamento alle possibilità umanistiche della<br />

scienza e della tecnologia. Riprende forza l‟ipotesi dell‟uomo tecnologico.<br />

L‟uomo e l‟intero circuito della sua esistenza sono modellati sul computer e<br />

sul loro sistema di funzionamento.<br />

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4.3.1. Anzitutto ciò che ha richiesto un rinnovato rapporto con la tecnologia. E‟<br />

l‟informatica con la sua capacità di analisi, di elaborazione e trasmissione di<br />

dati informativi, a esercitare un‟influenza preminente e determinare sul<br />

futuro dell‟uomo. La tecnologia assurge quasi a ideologia di fondo di una<br />

scienza vista come rete di modelli. La esemplarità più significativa è<br />

rappresentata dal computer, dalla rete degli elaborati elettronici, che<br />

mostrano la forza della tecnologia e la sua egemonia nella stessa ricerca<br />

scientifica avanzata. La ricerca scientifica e tecnologica porta a un‟ipotesi<br />

antropologica globale e a un progetto di uomo totalizzante. La visione<br />

scientifico-tecnologica fa vedere l‟uomo nell‟ottica e nel valore di parola.<br />

Non soltanto il singolo, ma la società intera possono essere compresi, nella<br />

dinamica con l‟ambiente, unicamente e semplicemente attraverso l‟analisi<br />

dei loro linguaggi e dei loro sistemi di informazione e di comunicazione.<br />

Tramite il controllo e l‟uso regolato delle informazioni è prospettato un<br />

futuro in cui nulla è lasciato al caso, alla fantasia e all‟umore, ma tutto sia<br />

precisamente determinato e previsto dal computer, in modo da evitare errori<br />

e sprechi in campo economico, il disordine in campo sociale e, soprattutto,<br />

quell‟enorme cumulo di sofferenze che fino a oggi hanno imposto<br />

all‟umanità l‟irrazionalismo, il fanatismo, l‟imprevidenza, il mancato<br />

ricorso agli strumenti offerto dal progresso scientifico e tecnico per la<br />

soluzione dei problemi sociali umani. Questa visione realizza un‟immagine<br />

di uomo determinato in tutto dalla tecnologia e priva di alcuni aspetti<br />

fondamentali che caratterizzano l‟attività umana: la capacità di creare,<br />

l‟assenza del carattere morale. Si può dire che l‟uomo tecnologico o<br />

computerizzato è ridotto a una ruota in un immenso ingranaggio, regolato<br />

da un‟ élite, magari anonima, nelle cui mani sono messe le sorti del mondo<br />

e dell‟umanità. L‟uomo tecnologico e privo di anima e svuotato dalla sua<br />

spiritualità: è fabbricato da altri, agisce come gli altri, è programmato e fa<br />

ciò che gli altri hanno stabilito.<br />

4.4. L‟uomo autorealizzato<br />

Lo smacco provocato dalle tendenze culturali precedenti ha risvegliato un<br />

forte bisogno di ridare all‟uomo quella soggettività che gli era stata tolta. E‟<br />

emersa così la coscienza di dover salvare l‟io a tutti i costi.<br />

Conseguentemente insieme a una più accurata attenzione al proprio corpo<br />

sono stati promossi la sanità mentale e psichica, e lo sviluppo delle relazioni<br />

interpersonali. In questo contesto ha preso forma l‟immagine di uomo che<br />

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prende coscienza delle proprie risorse interiori, che si attiva, in modo<br />

creativo e intelligente, allo sviluppo della propria e altrui autorealizzazione.<br />

A questo scopo si orientano le varie scuole di psicologia di tendenza<br />

umanistica.<br />

4.4.1. La prima a incontrarsi è la scuola denominata psicologia umanistica, di cui<br />

interesse è la centralità della persona e la sua autorealizzazione. Ciò spiega<br />

la scelta di privilegiare, come campo di osservazione e di indagine, la<br />

persona sana, soprattutto nelle sue manifestazioni di spontaneità, interiorità,<br />

creatività, libertà. L‟attenzione è estesa a tutta la persona così come essa<br />

appare e si manifesta, come totalità unica e differenziata, donata di<br />

attitudini irripetibili: cioè capace di consapevolezza, di libera scelta, di<br />

responsabilità; provvista di attenzioni e aperta ai valori; tesa a un divenire<br />

che ha come meta la realizzazione di sé. L‟autorealizzazione della persona<br />

appare premessa fondamentale ed essenziale anche per la costruzione di una<br />

società rinnovata.<br />

4.4.2. Verso gli anni ‟70 prende coscienza in Germania, un‟altra forma di<br />

attenzione alla sanità psichica della persona che va sotto il nome di<br />

psicoterapia gestaltica e transazionale. L‟ottica in cui considera l‟uomo è<br />

quella della filosofia esistenziale, cioè come un organismo completo che<br />

funziona come un tutto. La terapia della Gestalt opera soprattutto attraverso<br />

l‟esercitazione e i giochi di gruppo che sostengono i processi di autostima e<br />

autosostegno del paziente: egli impara così a riprendere fiducia in se stesso<br />

e a ricomporre le scissioni che si sono prodotte e a richiudere i buchi della<br />

sua personalità, riappropriandosi delle parti di sé che aveva considerate<br />

nocive e inaccettabili e misconosciute. Lo scopo della terapia è di far<br />

prendere coscienza della persona delle possibilità di poter vivere<br />

autonomamente, di poter compiere scelte autocoscientemente,<br />

spontaneamente e in modo flessibile, secondo le esigenze della vita e non<br />

secondo il copione che le è stato introiettato nei primi anni di vita, da quella<br />

che Berne chiama programmazione parentale.<br />

4.4.3. Si ricollega alla corrente umanistica anche la psicoterapia relazionale, che<br />

ha come interesse l‟analisi della comunicazione e la terapia della famiglia.<br />

Gli appartenenti a questa corrente considerano la famiglia come sistema<br />

aperto, cioè in continuo scambio di materiale, energia e informazione con il<br />

proprio ambiente. Un ruolo essenziale è attribuito alla comunicazione<br />

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verbale e non verbale o all‟interazionismo simbolico dei ruoli nelle<br />

dinamiche familiari.<br />

4.4.4. Il filone umanistico soprattutto americano, nonostante il grande contributo<br />

dato al recupero della soggettività della persona umana, tuttavia non può<br />

essere considerato esente da rischi e da interrogativi. Così non si può non<br />

segnalare ciò che ha portato l‟esaltazione dell‟autorealizzazione della<br />

persona, ha finito cioè di farne un culto, di dare forma a una specie di<br />

religione dell‟io. Questo filone non è esente da un certo pragmatismo di<br />

fondo che per raggiungere una certa efficacia e benessere individuale e<br />

sociale, rischia di vanificare le lunghe e non sempre facili vie della ricerca<br />

scientifica. Inoltre nonostante il forte interesse per il valore della persona,<br />

sembra rimanere imprigionato nell‟ambito del naturalismo; lo fa pensare il<br />

fatto che l‟interesse sia rivolto e circoscritto quasi al solo ambito della<br />

psiche e nell‟arco del tempo; a dissipare questa ombra non sembra<br />

sufficiente il costante invito che rivolge a dominare se stessi e a impegnarsi<br />

nel sociale. Infine alcuni non esitano a far notare che l‟immagine dell‟uomo<br />

autorealizzato acquista i contorni di un‟ipostasi scientifica del medio<br />

borghese americano: anzi, qualcuno vede nell‟esaltazione dell‟uomo<br />

realizzato la razionalizzazione di quell‟idolatria dell‟uomo moderno, che è<br />

il culto di sé.<br />

II. Il fine ultimo chiave di lettura del mistero dell’uomo<br />

1. Natura e funzione del fine ultimo<br />

La panoramica sopra riportata della situazione culturale contemporanea conferma<br />

che la conoscenza e la comprensione dell‟uomo non è possibile raggiungerle<br />

rimanendo nell‟ambito delle scienze naturali senza una grave riduzione connotata<br />

da frammentarietà e dis-organicità. Essa ci ha disegnato un immagine di uomo in<br />

cui è cancellato ogni segno di quell‟eccelsa dignità che gli nasce dall‟essere<br />

immagine di Dio, secondo il salmo 8, che definisce l‟uomo poco inferiore a Dio 5 .<br />

Per correggere e completare una tale visione antropologica depauperante,<br />

scegliamo la prospettiva dall‟alto considerato come qualcosa che sovrasta, che è al<br />

di sopra dell‟uomo, ma come origine, come fonte della sua esistenza. Tale<br />

prospettiva si identifica con il progetto di Dio. E quest‟ultimo può essere indagato<br />

5 Cf. Sal. 8,6.<br />

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e scoperto soltanto dalla scienza tecnologica, la quale ha il compito di elaborare la<br />

sua risposta attingendo direttamente dalla rivelazione biblica e dalla fede cristiana<br />

professata dalla chiesa. Per organizzare in modo intrinsecamente ordinato le<br />

riflessioni teologiche sul mio argomento ricorro alla natura e alla funzione del fine<br />

ultimo, secondo l‟autorevole insegnamento di san Tommaso d‟Aquino, in quanto<br />

questo, per sua natura, riveste un ruolo fondamentale ed essenziale per la<br />

comprensione dell‟essere creato e quindi dell‟uomo. Premetto i passaggi<br />

fondamentali della mia trattazione:<br />

1. S. Tommaso afferma che il fine pur essendo ultimo nell‟esecuzione, è il primo<br />

nell‟intenzione 6 .<br />

2. In quanto causa prima dell‟essere inoltre il fine è anche la ragione o causa di<br />

tutti gli elementi che ne formano la struttura costitutiva.<br />

3. Il fine costituisce anche la meta definitiva e il dinamismo intrinseco che ve lo<br />

determina; san Tommaso sostiene che il fine è lo scopo per cui una cosa esiste 7<br />

e il criterio per le scelte e decisioni nell‟ordine operativo 8 . Partendo dal<br />

principio secondo il quale il fine è il primo nell‟intenzione e ultimo<br />

nell‟esecuzione, possiamo affermare che l‟esistenza umana risulta anzitutto<br />

come attuazione e storicizzazione di esso; e non solo: poiché il fine ne è anche<br />

lo scopo, allora la fonte del vero senso dell‟esistenza umana scaturisce dalla<br />

piena conformità e radicale adesione dell‟uomo al suo fine ultimo. Secondo san<br />

Tommaso infatti ogni cosa si dice perfetta in quanto raggiunge il proprio fine 9 ;<br />

ancora il fine di ogni cosa è la sua perfezione e il suo bene 10 , la perfezione<br />

ultima di ciascuna cosa sta nel congiungersi con il suo principio 11 , cioè al suo<br />

fine ultimo che per sua natura costituisce la beatitudine e perfezione ultima 12 .<br />

Allora l‟uomo se vuole essere pienamente se stesso e conseguire la beatitudine<br />

definitiva, deve determinarsi necessariamente verso il suo fine ultimo.<br />

Viceversa finirà per svuotarsi, perdendo il senso della sua esistenza, che in tal<br />

caso non fa storia, non riempiendo di significato il tempo che l‟ha accolta.<br />

6 S. TOMMASO, Summa <strong>Teologica</strong>, I_II 1,1.1.<br />

7 Id. I-II 33,4.<br />

8 Id. I-II 90,2.<br />

9 Id. I, 12,1.<br />

10 Id. I, 22,3.<br />

11 Id. I-II, 3,6.<br />

12 Id. I, 82,1.<br />

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2. Il fine ultimo dell’uomo<br />

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Il problema dell’antropologia teologica<br />

M. Buber osservava acutamente che la problematica antropologica si ripropone<br />

sempre come problematica decisiva in quelle epoche in cui l‟uomo perde la sua<br />

ambientazione acquisita, la sua posizione sicura nel mondo: la perdita di certezze<br />

in grado di favorire un ritrovarsi tranquillo nell‟universo lo costringe a riproporre<br />

la domanda su se stesso, sulla sua essenza, sul senso della sua vita. E‟ il caso del<br />

nostro tempo. Sotto la spinta delle scienze umane assistiamo al cadere in brandelli<br />

di consolidate problematiche circa la persona: l‟originarietà e l‟autonomia della<br />

persona è messa in questione dalla sociologia e dalla psicanalisi che colgono come<br />

realtà derivata e seconda quando non addirittura come realtà alienata, come<br />

espressione storica lungi dall‟essere incamminata a pienezza e autenticità. Del<br />

resto la cultura contemporanea come sopra ricordavo è costantemente segnata<br />

dalla volontà di risolvere l‟universale, l‟essenza dell‟uomo, nel particolare e nel<br />

concreto dell‟individuo: la fine dell‟umanesimo, la morte dell‟uomo di cui parla<br />

Foucault sono la figura della rilevanza epistemologica e ontologica della finitezza<br />

umana. L‟uomo ha smesso di essere il valore supremo. La crisi di identità, il senso<br />

di oscura insicurezza è il frutto di un pensiero concentrato sulla precaria e<br />

minacciata realtà dell‟individuale. In questo contesto, lo sforzo per decifrare le<br />

condizioni della vita e della storia si sposa a un‟impressionante tensione verso il<br />

futuro: tolta via l‟essenza, come figura dell‟immutabilità della persona, il futuro<br />

del progresso e di liberazione mette a tal punto in questione l‟uomo da generare<br />

anche paura e timore, oltre che per orgoglio per il domani. Stretto fra un presente<br />

attraversato da laceranti contraddizioni e un futuro suscettibile di nuove negative<br />

possibilità, l‟uomo appare sfida a se stesso. La questione antropologica è diventata<br />

cruciale e ineludibile. In una splendida pagina de Le Confessioni Agostino riflette<br />

sulle domande che l‟uomo rivolge alla terra, agli astri, al mondo intero: “Le mie<br />

domande erano la mia contemplazione; le loro risposte la loro bellezza. Allora mi<br />

rivolsi a me stesso. Mi chiesi: “Tu chi sei?”; e risposi: “Un uomo”. Per Agostino<br />

la comprensione dell‟uomo sorge dalla consapevolezza della sua originalità e<br />

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diversità delle cose e questa consapevolezza porta a Dio. L‟inquietudine del cuore<br />

è il segno di questo bisogno di infinito e per questo non ha pace che in Dio. L.<br />

Feuerbach riprenderà la questione posta da Agostino: indicherà nella coscienza la<br />

ragione di questa radicale diversità tra l‟uomo e le cose e riconoscerà nell‟apertura<br />

infinita della coscienza umana il punto di partenza della religione; tuttavia<br />

osserverà che la coscienza non può essere coscienza di sé, autocoscienza, fino a<br />

concludere che la coscienza che l‟uomo ha di Dio è la conoscenza che l‟uomo ha<br />

di sé. Dio è l‟intimo rivelato, l‟essenza dell‟uomo espressa; la religione è la<br />

solenne rivelazione dei tesori celati dell‟uomo, la pubblica professione dei suoi<br />

segreti d‟amore. Per Feuerbach si tratta del fatto che nella religione non vi è nulla<br />

di diverso da ciò che risiede nella coscienza umana. La religione è solo l‟infanzia<br />

dell‟umanità. L‟uomo in particolar modo l‟uomo religioso, è a se stesso la misura<br />

di tutte le cose e di tutte le realtà. Questa diversità di prospettive dice bene che, a<br />

scanso di equivoci, è indispensabile chiarire l‟oggetto del lavoro e il senso della<br />

ricerca. La problematica antropologica è il crocevia, il banco di prova del pensare<br />

odierno. La ricostruzione che ho fatto indica nell‟autoaffermazione della persona,<br />

nella libertà intesa come punto di coagulo di un‟intenzionalità e di una volontà<br />

pensate in sé, indipendentemente da Dio, il cuore dell‟epoca moderna. I limiti<br />

della declinazione di questa autoaffermazione, così come si è data nella modernità,<br />

ci sono sembrati insiti nella sua impostazione individualistica; progettata secondo<br />

i criteri del soggetto razionale e borghese, non sa rendere ragione in profondità<br />

all‟altro. Di qui la denuncia dei fallimenti della modernità. Da qui il tentativo di<br />

un suo superamento che recuperi l‟alterità o nella forma della comunicazione o<br />

nella forma di una sua legittimazione comunque. Nella sua proposta più alta il<br />

post-moderno va ricondotto all‟accoglienza delle diversità, di tutte, anche se<br />

incompatibili tra di loro. La sfida che ne viene è quella di pensare<br />

l‟autoaffermazione dell‟uomo nell‟originaria unità di individuo e di alterità: in<br />

qualche misura l‟umanità si rispecchia in tutti i volti e in tutte le esperienze<br />

storiche. Da qui il bisogno di una fondazione che li contenga entrambi e l‟urgenza<br />

di un modello sociale che a entrambi renda ragione. Questa sfida interpella<br />

innanzitutto la chiesa, che è il soggetto storico in cui la fede si esprime e si<br />

riconosce. Vivere il kerygma oggi, in questa precisa cultura, significa ritrovare la<br />

profondità e l‟originalità di una vita in cui individualità e socialità si<br />

coappartengono in modo indissolubile. Se la sfida della modernità interpella la<br />

chiesa, chiama anche in causa la teologia. Il suo servizio di elaborazione organica<br />

e critica della fede comprende un riferimento strutturale al dato culturale. La<br />

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teologia rimane se stessa solo se ha il coraggio di estraniarsi dalla cultura, solo se<br />

ha il coraggio di determinarsi criticamente per via storica. In una maniera del tutto<br />

particolare interpella anche l‟antropologia teologica, poiché la problematica<br />

antropologica risulterà dal mettere in rapporto l‟autocomprensione storica della<br />

persona con l‟umanità singolare di Gesù, centro e criterio di ogni discorso di fede<br />

sull‟uomo. Non vi è dubbio che vi sia qui la realtà di un fatica e il bisogno di un<br />

recupero: il costituirsi della teologia manualistica e il suo isolarsi dai processi<br />

storici e culturali ha coinciso, con quel periodo in cui il discorso filosofico<br />

sull‟uomo e l‟antropologia culturale andavano costituendosi. Per offrire una<br />

traccia al riguardo, svilupperò una serie di osservazioni a partire dai trattati<br />

tradizionali di antropologia fino alle scelte odierne.<br />

2. Un tornante decisivo: il Concilio Vaticano II<br />

a. L‟antropologia teologica e il rinnovamento conciliare<br />

Il problema teologico dell‟antropologia odierna è stato già affrontato<br />

nell‟introduzione a questo lavoro; per questo nel presente capitolo richiamerò<br />

soltanto l‟evoluzione storica di alcune tematiche di antropologia teologica. Non<br />

ritornerò su quanto ho già detto. Il punto di partenza di questa evoluzione è<br />

fondamentalmente la manualistica post-tridentina: si tratta di una manualistica<br />

decadente, ispirata al suarezianesimo, che porrà l‟accento sulla libertà umana<br />

come libertà che sta di fronte a Dio, facienti quod est in se, Deus non denegat<br />

gratiam, più che all‟interno dell‟azione salvifica. Questa teologia è il risultato di<br />

vari fattori. Vi contribuirà di sicuro l‟imporsi dell‟interpretazione statica e<br />

giuridica che A. De Vega darà della nozione tridentina di iustitia inhaerens: ne<br />

verrà un primato della grazia creata, un‟accentuazione cioè di una realtà<br />

considerata in sé, avulsa dal vivo e fecondo rendersi presente di Dio all‟anima. Vi<br />

contribuirà pure un‟eccessiva distinzione tra ordine naturale e ordine<br />

soprannaturale fino a convalidare quel doppio fine, naturale e soprannaturale, che<br />

H. De Lubac descriverà come rottura di un‟interrotta tradizione e come l‟origine<br />

della nozione di natura pura. Ne risulterà una visione antropologica ottimista e<br />

positiva che indicherà nella dispositio negativa il compito dell‟uomo in ordine alla<br />

salvezza: il suo compito sarà semplicemente quello di non porre ostacoli, di non<br />

commettere peccati. L‟esperienza cristiana si ridurrà così a una sorta di moralità a<br />

cui da fuori si aggiungerà il soprannaturale mentre la fede sarà giustapposta, in<br />

modo estrinseco alla ragione e alle sue forze. L‟isolamento delle correnti culturali<br />

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del proprio tempo sarà un ulteriore limite di questa teologia che in effetti, dopo un<br />

periodo iniziale di dialogo con la cultura e il sostegno all‟impegno missionario, si<br />

chiuderà in una ripetizione difensiva delle proprie tesi: l‟isolamento sarà il<br />

pedaggio pagato all‟immunizzazione dai dibattiti e dagli errori del tempo. Questo<br />

monopolio della manualistica sarà spezzato dal rinnovamento patristico e biblico:<br />

il risalire al di là della scolastica condurrà a un rinnovamento dei contenuti che<br />

esigerà ben presto anche un rinnovamento del metodo: esigerà cioè una positiva<br />

inclusione della ragione nell‟atto con cui una persona si rivolge a Dio, atto che ha<br />

nella fede e nell‟intelligenza della fede la sua espressione più alta. In questo modo<br />

il rinnovamento della teologia della grazia non si ridurrà a una semplice ripresa<br />

dei contenuti precedenti ma sarà costretto a misurarsi con il problema critico<br />

dell‟epoca moderna, cioè con l‟opposizione che questa stabilisce tra ragione e<br />

fede, fra teoria e prassi. A partire da questo ritrovato orizzonte, la teologia<br />

riconquisterà e il suo vero oggetto, il Dio di Gesù, e il suo significato vitale, la<br />

capacità di interpretare e orientare la vita. Il cristocentrismo ne sarà il frutto più<br />

alto. Questa visione sarà all‟origine di frutti preziosi per la teologia odierna.<br />

Il rinnovamento della teologia della grazia<br />

Come ho detto in precedenza il rinnovamento della teologia della grazia si fonda<br />

nel ritorno, al di là della scolastica, alla teologia dei padri. Per la verità il loro<br />

influsso non si era mai perso del tutto. Gli autori di spiritualità, come P. De<br />

Bèrulle e gli oratoriani, rifiutavano i sistemi della scolastica e coltivavano una<br />

concezione vitale ed esistenziale della grazia che valorizzava la incarnazione e si<br />

nutriva del pensiero patristico: L. Thomassin, un oratoriano presenta la missione<br />

del Verbo come una missione che si conclude con l‟invio dello Spirito attorno alla<br />

cui azione santificatrice si costituisce la chiesa suo corpo. Non si può indicare D.<br />

Petavio (+ 1652) come fautore del moderno rinnovamento della teologia della<br />

grazia. Con lui inizia un movimento di teologia positiva che conformemente al<br />

pensiero dei padri greci riproporrà l‟inabitazione dello Spirito nell‟anima del<br />

giusto anche se L. Lessio, Cornelio e Lapide e L. Thomassin ne prolungheranno il<br />

pensiero, la sua influenza sulla teologia sarà minima. In realtà dobbiamo arrivare<br />

alla metà del secolo scorso per trovare un vero rinnovamento della teologia della<br />

grazia. Tra i precursori indicherei J. H. Newman, J.A. Mohler e A. Rosmini ma a<br />

mio pare il vero rinnovatore della teologia della grazia è M. J. Scheeben. Oltre ai<br />

suoi studi di storia del dogma, J.H. Newman cercherà di dare consistenza alle sue<br />

tesi su una via media tra il protestantesimo e il cattolicesimo: legando strettamente<br />

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il sola fide al sacramento del battesimo, vedrà il giusto come colui che è rigenerato<br />

per una vita nuova che, se è frutto della fede, non si riconosce però nella fede<br />

fiduciale ma piuttosto nella fede fruttuosa. Il battesimo è il sacramento visibile di<br />

quella rigenerazione che ha nella fede la sua dinamica interiore. J.A. Mohler<br />

almeno nella sua fase romantica, insisterà fortemente sull‟opera dello Spirito che<br />

ci costituisce nell‟unità dell‟amore di Dio. La grazia è per lui, la presenza e<br />

l‟opera di quello Spirito che suscita l‟unità e che inserisce in una vivente comunità<br />

capace di valorizzare insieme la ricchezza della tradizione e l‟originalità di<br />

qualcuno. A. Rosmini indicherà la grazia come una potenza e un principio di<br />

azione che è partecipazione della carità stessa di Dio; si spingerà addirittura a<br />

presentare questa azione come deiforme e triniforme: per operazione deiforme io<br />

intendo una operazione che non solo ha per principio Iddio, ma che essa stessa e il<br />

suo termine è Iddio. Dell‟operazione della grazia Iddio è il principio e anco il fine,<br />

è la causa e anco l‟effetto per così dire. Rosmini legherà profondamente questa<br />

azione divina tanto all‟opera dello Spirito quanto alla ristorazione e al<br />

compimento della vita umana. E‟ dunque l‟impressione dello Spirito Santo nelle<br />

anime un cotale affetto d‟amore, una cotal gioia della verità che si diffonde<br />

nell‟anima; pel quale affetto l‟anima contempla et imbeve, e s‟inebria nella luce<br />

della verità; e questo amoroso sentimento egli stesso è pieno di verità e sazia ed<br />

empisce il bisogno dell‟anima intelligente: per questo è che lo Spirito divino dà<br />

chiarezza nelle anime al Verbo divino. Il vero rinnovatore della teologia della<br />

grazia è M.J. Scheeben. Buon conoscitore della patristica greca e teologo dalla<br />

non comune forza speculativa, Scheeben metterà al centro del suo pensiero le<br />

missioni del Verbo e dello Spirito così da poter indicare il loro frutto in una<br />

conformazione ontologica dell‟anima alla vita delle persone divine, in una sorta di<br />

sigillo d‟amore tra il Padre e il Figlio, rende l‟anima partecipe della sua eterna<br />

processione. Scheeben va ben oltre la tradizionale lettura della grazia: alle<br />

categorie scolastiche di causa ed effetto, sostituisce la comunicazione della natura<br />

divina e dell‟immagine soprannaturale del Padre. Tramite lo Spirito, ci è<br />

comunicata l‟immagine consostanziale del Padre, cioè il Figlio; veniamo così<br />

introdotti a una somiglianza con il padre, alla grandezza e alla dignità dei figli.<br />

Qui il linguaggio scolastico di grazia creata e increata ritorna al suo significato più<br />

vero: il rinnovamento della persona è il frutto della presenza in noi del Dio vivo.<br />

A partire da qui inizia il rinnovamento della teologia della grazia.<br />

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Il recupero della dimensione trinitaria<br />

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H. Schauf, G. Philips e J. Martìn-Palma hanno tracciato la storia di questo<br />

recupero ricercando le influenze della teologia patristica negli autori del settecento<br />

e dell‟ottocento: ne è venuta una mappa di teologi sensibili ai temi più cari alla<br />

tradizione che è, di sicura più ampia di quanto si sia soliti concedere. Il risultato<br />

più significativo di questo pensiero si avrà comunque con la Divinum Illud (1897)<br />

di Leone XIII quando il magistero senza pronunciarsi sulle questioni discusse,<br />

indicherà nell‟inabitazione il senso ultimo dell‟opera di rigenerazione e<br />

santificazione che lo Spirito compie nell‟anima. A prescindere da come lo si<br />

giustifica, il legame tra grazia e vita trinitaria è da pensare come un legame ormai<br />

recuperato. Il nostro secolo darà a questi temi un‟impostazione metafisica più<br />

rigorosa. Distinguendo accuratamente la grazia della presenza di immensità, M. de<br />

la Taille e K. Rahner la presenteranno come una partecipazione finita alle<br />

processioni di conoscenza e d‟amore della vita divina, come una presenza-dono di<br />

Dio all‟anima dove Dio diventa la causa quasi-formale della sua divinizzazione,<br />

come la relazione immediata del giusto con le persone divine così che il giusto<br />

diventa il termine estrinseco delle processioni trinitarie di intelligenza e di amore.<br />

Questo linguaggio duramente scolastico non deve scoraggiare: il suo senso è di<br />

richiamare il mistero di salvezza, la viva presenza del Dio di grazia. Si può dire<br />

che la presenza intima e reale delle persone divine opera una connaturalizzazione<br />

e una assimilazione della nostra vita a Dio: Egli diventa la vita della nostra vita,<br />

l‟energia della nostra anima. Attorno a questa presenza trasformante nasce una<br />

certa intuizione di quel Dio che gustiamo e sperimentiamo: lo avvertiamo come il<br />

centro gioioso e irraggiante della nostra anima nello stesso tempo che la sua<br />

trascendente presenza ci rimane misteriosa. Queste tesi troveranno conferma nella<br />

Mystici Corporis (1943) di Pio XII. Dopo aver ricordato che l‟inabitazione non ci<br />

sottrae alla nostra condizione creaturale, l‟enciclica la dichiara dello stesso genere<br />

della visione beatifica, dalla quale si differenzia solo per la nostra condizione<br />

storica di viatori, e la presenta come opera delle persone divine presenti in modo<br />

imperscrutabile negli esseri dotati di intelletto, da questi sono gustate mediante la<br />

conoscenza e l‟amore in un modo del tutto intimo che trascende ogni natura<br />

creata.<br />

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Il recupero della dimensione ecclesiologica<br />

La reazione all‟individualismo, in cui era spesso finita la trattazione della grazia,<br />

porterà la teologia a recuperare l‟orizzonte universale del disegno di salvezza e a<br />

valorizzare il carattere comunitario della chiesa come segno e realtà di questo<br />

disegno medesimo. La storia di questo passaggio da una ecclesiologia giuridica,<br />

posta sotto il segno dell‟autorità, a una ecclesiologia di comunione è da<br />

considerare ormai un dato acquisito. Il superamento di una lettura solo<br />

istituzionale e giuridica della chiesa e il recupero della sua dimensione salvifica<br />

avverrà a opera dei teologi della scuola romana, che leggendo la chiesa in base a<br />

una analogia con l‟incarnazione, la descriveranno come una unità misterica dove<br />

l‟elemento divino e l‟elemento umano si rapportano fra loro come il sacramento<br />

nel quale il Cristo esprime e manifesta la sua vita. Per una non debole analogia,<br />

insegnerà Lumen Gentium 8, essa(la chiesa) è paragonabile al mistero del Verbo<br />

incarnato. Infatti come la natura assunta serve al Verbo divino come vivo organo<br />

di salvezza indissolubilmente unito a lui; in modo non dissimile l‟organismo<br />

sociale della chiesa serve allo Spirito vivificante di Cristo come mezzo per far<br />

crescere il corpo. La teologia del corpo mistico, E. Mersch, in particolare ne<br />

ricaverà la convinzione che l‟umanità di Cristo è stata divinizzata come essere<br />

sociale, come principio della divinizzazione di tutti gli uomini; di conseguenza<br />

presenterà la grazia come essere uno, come essere unione, come principio di<br />

comunione di vita nella finalità di Cristo. Il recupero di questa dimensione<br />

comunitaria non si ferma alla sola chiesa ma si allarga a tutta l‟umanità. La chiesa<br />

infatti è sacramento cioè segno e strumento dell‟intima unione con Dio e<br />

dell‟unità di tutto il genere umano. Si tratta di mettere a tema il modo in cui lo<br />

Spirito porta a compimento nel mondo il mistero di Cristo; andrà meditato a fondo<br />

il fatto che lo Spirito, disceso tra noi nella Pentecoste, non ascende al cielo come<br />

Gesù ma rimane presente come mediatore perenne della comunione dell‟umanità<br />

con il Dio di Gesù.<br />

Il recupero della dimensione ecumenica<br />

Non vi è dubbio che esista oggi tra cattolicesimo e riforma, un nuovo clima, un<br />

nuovo stile di rapporti. Nell‟ambito della grazia questo liberarsi da una mentalità<br />

polemica e apologetica è particolarmente apprezzabile; la tematica in cui la<br />

trasformazione dei rapporti è più avvertibile è la giustificazione.<br />

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La giustificazione<br />

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Al punto di partenza sta la teologia di K. Barth e la sua recezione nella teologia<br />

cattolica. Reagendo ai tratti ottimisti della teologia illuminista, K. Barth<br />

inquadrerà la giustificazione nel contesto della riconciliazione, nel contesto cioè<br />

dell‟opera terrena e pasquale di Cristo, servo e Signore: è l‟obbedienza del Figlio<br />

a illuminare l‟orgoglio dell‟uomo e il suo peccato, è la sua kènosis e la sua morte a<br />

svelare il giudizio di Dio. L‟atto della giustificazione in quanto contesto, è l‟atto<br />

con cui Dio pone davanti a sé l‟uomo peccatore e prendendolo sul serio nella sua<br />

contraddizione di creatura peccatrice lo salva misericordiosamente. Non è un<br />

semplice nascondere il peccato, non è un comodo come se di stampo nominalista;<br />

è una realtà ed è la realtà su cui poggia la fede della Chiesa. La trasformazione<br />

della giustificazione va pensata realisticamente: la giustizia di Cristo è ormai la<br />

nostra giustizia, non più iustitia aliena ma nostra, mea giustizia. K. Barth non<br />

lascia dubbi al riguardo: spinge l‟affermazione della riconciliazione al punto da<br />

esigere una vera e propria trasformazione, una vera e propria creazione nuova<br />

della personalità del giustificato. Ovviamente non tutti sono del suo parere; R.<br />

Bultmann ad esempio mette sotto accusa la radicale discontinuità che K. Barth<br />

pone tra l‟uomo vecchio e l‟uomo nuovo: l’uomo vecchio sarebbe annientato<br />

completamente e al suo posto, senza continuità di sorta, ne sussisterebbe uno<br />

nuovo, mentre ciò che la fede propone è che il peccatore è giustificato. Il punto su<br />

cui R. Bultmann porta l‟attenzione è reale; vi è in K. Barth un oggettivismo<br />

salvifico, non interessato alle questioni dell‟appropriazione personale della fede: il<br />

timore di scadimenti nel soggettivismo pietista lo porterà a paragonare ogni<br />

discorso sulla fides qua, non senza disprezzo a un gracidar di rane. Nel suo senso<br />

migliore R. Bultmann pone il problema del recupero del soggetto credente e nella<br />

fede giustificato. La teologia cattolica, particolarmente attenta ai temi della<br />

giustizia inerente, presterà molta attenzione a queste tematiche. Il lavoro<br />

fondamentale al riguardo rimane quello di H. Kung, anche se vuol essere una<br />

riflessione sull‟evangelo di Cristo a servizio dell‟unità della Chiesa, e non un<br />

lavoro pro o contro Barth. Kung ritiene di poter camminare verso la pienezza della<br />

verità cattolica proprio attraverso il conforto di Barth. La maggior parte delle<br />

recensioni, anche quelle critiche, diedero atto a Kung di aver presentato<br />

correttamente la dottrina cattolica sulla giustificazione e d‟altra parte Barth stesso<br />

riconosceva che Kung lo aveva interpretato con esattezza. Una volta riconosciuto<br />

questo, singoli rilievi rimangono nell‟ambito delle legittime discussioni<br />

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teologiche; si dovrebbe di conseguenza concludere che la giustificazione non è più<br />

un problema confessionale, per lo meno non nei termini che rimproveravamo al<br />

mondo protestante una giustizia solo imputata e a quello cattolico un mancato<br />

rispetto della sovranità e decisività dell‟agire di Dio. Il tema della giustificazione<br />

si apre così a prospettive nuove. Da una parte vi è la possibilità a partire da essa,<br />

di ripensare a fondo il dato antropologico come dato in cui l‟uomo non solo non<br />

può e non deve affidarsi a se stesso, confidando in una qualche forma di<br />

autosoterìa, ma deve positivamente fondarsi sull‟opera di Cristo. Si dovrebbe così<br />

legare in modo più accurato giustificazione e personalità: andando oltre la visione<br />

tradizionale dell‟uomo immagine di Dio, si tratterebbe di fare della giustificazione<br />

la chiave di volta di una nuova comprensione della persona, il fondamento di una<br />

nuova consapevolezza personale. Dall‟altra la giustificazione è tornata ad avere<br />

rilevanza ecumenica: il delinearsi di un ampio consenso sui temi che hanno<br />

rappresentato la chiave di rottura del XVI secolo, non può essere risolto con il<br />

richiamo al superamento dei condizionamenti storici ma esige la presa di<br />

coscienza di un cammino della comunità confessante. Il passato non va cancellato,<br />

ma la memoria di ciò che è avvenuto, letta in un quadro di riconciliazione, di<br />

fiducia concessa e ricevuta, diventa fondamentale per crescere realmente<br />

nell‟unità. La connessione della giustificazione con il centro del vangelo, su cui<br />

tutti i documenti concordano, ricorda che la giustificazione appartiene al mistero<br />

di Cristo e della Trinità: dipende da loro e si fonda in loro. Ma proprio questo non<br />

dovrebbe invitare a considerare la giustificazione non solo in sé e per sé ma anche<br />

come criterio di autenticità per la vita e la prassi della chiesa? Sta qui<br />

probabilmente il nuovo nodo ecumenico.<br />

Una nuova visione del soprannaturale<br />

Il punto di partenza è la discussione che De Lubac e con lui la thèologie nouvelle,<br />

apre con le posizioni manualistiche uscite dalle controversie baiano-gianseniste.<br />

H. De Lubac mette sotto accusa l‟estrinsecità della grazia: una visione della grazia<br />

come pura gratuità è dichiarata insufficiente perché qualificando unicamente<br />

l‟eterogeneità della grazia rispetto alla natura, finisce per rendere il dono di Dio un<br />

fatto contingente e secondario, un elemento antropologico aggiuntivo e superfluo.<br />

Il senso del suo pensiero è quello di dare forma compiuta alle esigenze insite nella<br />

rinascita della teologia della grazia: pur ribadendo la prospettiva antipelagiana, si<br />

deve però pensare la grazia a partire dal disegno di Dio, a partire dall‟economia<br />

della salvezza e non partire dall‟uomo. La ritrovata decisività di Cristo esige di<br />

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ripensare la persona non attorno a una astratta natura ma attorno all‟azione<br />

creatrice e salvifica di Cristo; la stessa grazia non va pensata in ordine alla natura<br />

come gratuità ma in ordine a Cristo. H. De Lubac, per il quale l‟uomo è paradosso<br />

e mistero, sottolineerà nei suoi lavori il carattere di risposta a Dio, proprio di una<br />

natura che è innanzitutto capacità di accoglierlo come dono. K. Rahner pur<br />

riconoscendo la legittimità teorica della nozione di natura pura, costruirà il suo<br />

pensiero attorno alla predisposizione incondizionata dell‟uomo al Dio di grazia, la<br />

cui azione di benevolenza è comunque al di là delle esigenze umane. Ne ricaverà<br />

la tesi dell‟esistenziale soprannaturale da intendere come un a priori<br />

trascendentale dell‟attuale ordine storico: è il fondamento ineludibile di ogni<br />

esistenza umana. H. U. von Balthasar recupererà alla fede cattolica il<br />

cristocentrismo di Barth: la nozione teologica di natura è per lui sono un concetto<br />

formale, pur nella espressione della realtà, necessario per pensare logicamente la<br />

creaturalità ma continuamente ad oltrepassare per ritrovare il senso vero e finale<br />

stabilito da Dio per l‟uomo. La teologia ha ormai superato una visione del<br />

soprannaturale in termini di pura gratuità, in termini solo negativi di pura nonesigibilità;<br />

se evitiamo inoltre di pensare la comunicazione che Dio fa di se stesso<br />

sulla misura del dinamismo dello spirito umano, illimitato ma pur sempre<br />

intramondano, dobbiamo ricomprendere la grazia di Dio attorno ai suoi stessi gesti<br />

attorno a Gesù Cristo stesso. Sarà la comprensione dell‟evento Gesù come<br />

benevolenza di un Dio trascendente, che tale rimane anche a proprio nel suo farsi<br />

prossimo, a sollecitarci a pensare la persona come apertura originaria e<br />

incondizionata a un evento nel quale consiste il mio essere dato a me stesso.<br />

Questo risultato coerentemente declinato, comporterà l‟abbandono di una<br />

divisione fra i trattati De gratia e De Deo creatore: l‟antropologia teologica andrà<br />

costruita totalmente e unitariamente a partire dalla grazia di Cristo.<br />

b. Il valore propulsivo della Gaudium et spes per l’antropologia teologica<br />

Sullo sfondo della teologia precedente, il concilio recupera una visione biblica e<br />

patristica: si muove quindi nel quadro del progetto divino rivelato in Gesù. Questa<br />

prospettiva esige di completarsi in una adeguata antropologia. Al nostro tema il<br />

concilio dedica espressamente il capitolo primo La dignità della persona umana<br />

della prima parte della Gaudium et spes; la storia complessa dello Schema XIII,<br />

poi confluito nella Gaudium et spes, mostra bene la fatica attraverso cui il<br />

rapporto chiesa-mondo è stato visto come un nodo irrinunciabile della missione<br />

pastorale della chiesa e mette in guardia da semplificazioni eccessive.<br />

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L’uomo immagine di Dio<br />

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La Gaudium et spes intende aiutare l‟uomo di oggi a decifrare se stesso a cogliere<br />

e affrontare i profondi mutamenti della nostra epoca: questa prospettiva storica,<br />

facilmente documentabile in Gaudium et spes nn. 4-10, sembra però lasciare ben<br />

presto a un discorso diverso di stampo più filosofico. Vediamo tre tematiche che<br />

sintetizzano quanto affermo.<br />

1) La prima nn. 12-18, intende presentare l‟uomo come centro e vertice<br />

dell‟universo. Il concilio riconduce questo intento alla nozione di immagine di<br />

Dio che intende come relazione personale e dinamica con il Dio creatore e<br />

salvatore. La nozione porta in sé l‟eco della fedeltà all‟uomo del Dio di Gesù:<br />

di conseguenza intende saldare l‟orizzonte soprannaturale con il quadro storico<br />

e mostrare che la consistenza dell‟uomo sta nel rapporto con Dio e non con le<br />

cose. Questo intento del tutto condivisibile è perseguito con un metodo<br />

criticabile: a un primo elementare rimando alla storia della salvezza, segue una<br />

ampia messe di spunti filosofici. Il rimando storico-salvifico è alla creazione<br />

genesiaca, sganciata da un rapporto preciso con l‟alleanza e con il Cristo<br />

(n.12); richiama inoltre la realtà disgregante del peccato e la viva forza della<br />

redenzione (n. 13). Il dato filosofico invece, sviluppa invece la nozione di<br />

immagine attorno ai temi dell‟unità di anima e corpo (n. 14), dell‟intelligenza<br />

(n.15), della coscienza morale (n. 16), della libertà (n. 17), della morte (n. 18);<br />

vi si coglie l‟intento di far spazio alle tematiche moderne pur su un impianto<br />

sostanzialmente tradizionale. Ne esce una immagine ideale di uomo,<br />

indifferentemente applicabile a ogni tempo e a ogni luogo.<br />

2) La seconda tematica riguarda l‟ateismo (nn. 19-21) visto non più come<br />

posizione ideologica ma come fatto sociale e culturale multiforme. Spostando<br />

consapevolmente il proprio interesse sull‟antropologia, il concilio riconosce il<br />

carattere umanistico di molte correnti atee, impegnate per l‟uomo e la sua<br />

liberazione, e di conseguenza chiede ai cristiani, più che una risposta<br />

intellettuale, un impegno dialogante e comune nella costruzione della società;<br />

solo così apparirà, fuori di ogni dubbio, che la fedeltà a Dio è insieme fedeltà e<br />

impegno per la persona. E‟ chiara la novità di questo atteggiamento;<br />

riconoscendo l‟ateismo come una dimensione della coscienza e della cultura<br />

contemporanea, il concilio non chiede ai credenti di ribadire le prove<br />

metafisiche dell‟esistenza di Dio ma di testimoniare la vitalità umanistica della<br />

fede. Così facendo il concilio pratica una feconda distinzione tra il piano<br />

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storico e il piano ideale: riconosce il carattere umanistico di alcune correnti<br />

atee ma mantiene con forza il carattere religioso aperto a Dio e capace poi di<br />

coerente testimonianza sociale della sua antropologia. L‟inserimento di una<br />

antropologia religiosa in una società laica rimane qui insufficientemente<br />

precisato; dal pari il riconoscimento conciliare risulterà tardivo: non terrà in<br />

effetti alcun conto di quell‟ateismo di massa, consumistico e scettico, che le<br />

disillusioni del progresso cominciavano a lasciar trasparire e che il crollo delle<br />

ideologie accentuerà poi al massimo grado.<br />

3) La terza è concentrata in Gaudium et spes 22, un testo fondamentale che<br />

presenta Cristo e l‟uomo come un unico mistero. Gesù infatti, svela<br />

pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. Il senso<br />

di questo discorso è che l‟assoluta e insuperabile vocazione di Dio, che si ha in<br />

Gesù di Nazaret, rappresenta anche l‟assoluta e insuperabile rivelazione<br />

all‟uomo: Gesù è l’uomo perfetto, la vera immagine di Dio. Questa prospettiva<br />

esige una coerente lettura della creazione e della redenzione: attraverso esse la<br />

nostra vita è trasformata e incamminata verso la pienezza escatologica. Il<br />

mistero pasquale e la sua realizzazione per la forza dello Spirito sono così<br />

strettamente legate alla realizzazione della vocazione e del destino ultimo della<br />

persona; la grazia cristiana non può mancare di attenzione storica, non può<br />

dimenticare che Dio agisce invisibilmente in ogni cuore per rifarlo sul<br />

fondamento della Pasqua con un dono offerto non solo ai cristiani ma a tutti gli<br />

uomini di buona volontà. Questo legame del Dio di Gesù Cristo con ogni uomo<br />

fonda la singolare apertura della missione della chiesa: deve riconoscere,<br />

accogliere e promuovere l‟opera di salvezza che Dio compie nello stesso tempo<br />

in cui l‟annuncia, la testimonia e la vive. Una conferma di questa prospettiva<br />

viene da Lumen gentium: come popolo messianico, la chiesa è testimone della<br />

storia della salvezza verso tutta l‟umanità e per questo mandata a essa. Il Dio<br />

del vangelo e della grazia non è separabile dal Dio della storia e del mondo; per<br />

questo credere equivale a essere inviato nel mondo come pellegrino del<br />

vangelo della grazia. Prospettive simili si potrebbero ricavare dal capitolo II di<br />

Lumen gentium o dal I di Apostolicam actuositatem. Basti qui richiamare un<br />

testo stupendo di Lumen gentium 9: “Questo popolo messianico ha per capo<br />

Cristo “che è stato dato a morte per i nostri peccati ed è risuscitato per la nostra<br />

giustificazione” (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al<br />

di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Questo popolo ha per<br />

condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio nel cuore dei quali dimora lo<br />

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Spirito Santo come nel suo tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare<br />

come lo stesso Cristo ci ha amati (cf. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il<br />

regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere<br />

ulteriormente dilatato finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento<br />

quando comparirà Cristo, vita nostra (cf. Col 3,4) e “anche le stesse creature<br />

saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa<br />

libertà dei figli di Dio” (Rm 8,21)”. Questa consapevolezza dei rapporti fra<br />

storia della salvezza e storia mondana, tra testimoni dell‟evento salvifico e<br />

operatori culturali scientifici trova una prima espressione nella significativa<br />

categoria di segni dei tempi: per quanto generica e bisognosa di chiarimenti,<br />

questa categoria indica un problema e una intenzione, quella di una chiesa che<br />

vuole mantenersi aperta a tutta l‟ampiezza del disegno di Dio discernendo ogni<br />

cosa alla luce del vangelo. Acquistano così rilievo i nn. 40-45 della Gaudium et<br />

spes che delineano alcuni tratti della corrispondenza tra chiesa e società: senza<br />

perdere il suo fondamento Cristo, per immedesimarsi in progetti terreni, la<br />

chiesa deve incarnare la salvezza nella storia del mondo richiamando le<br />

persone all‟integralità della loro vocazione. Nasce così tanto un dialogo sincero<br />

con tutti gli uomini quanto una coraggiosa testimonianza della propria fede e<br />

dei suoi valori antropologici.<br />

L’antropologia di Giovanni Paolo II<br />

Giovanni Paolo II è testimone di una totale fiducia nella forza insopprimibile del<br />

vangelo e di una trasformabilità cristiana della storia. Il suo magistero<br />

programmaticamente concentrato attorno alla proclamazione di Cristo, Redemptor<br />

hominis, sembra volto a coniugare la capacità di mostrare il vero volto di Dio,<br />

Dives in misericordia, e il rinnovamento della storia umana. Così facendo<br />

ribadisce quel legame fra il mistero di Cristo e l‟uomo che già il concilio aveva<br />

indicato. “Gesù è la nostra via alla casa del Padre, ed è anche la via a ciascun<br />

uomo. Su questa via che conduce da Cristo all‟uomo, su questa via sulla quale<br />

Cristo si unisce a ogni uomo, la chiesa non può essere fermata da nessuno”. 13 Qui<br />

l‟avvenimento salvifico di Gesù non è tanto posto a confronto con i sistemi<br />

filosofici e politici, con le ideologie e le concezioni del mondo, ma piuttosto con<br />

gli uomini concreti e la loro storia per interrogarla, purificarla, giudicarla,<br />

stimolarla. “Non si tratta qui soltanto di dare una risposta astratta alla domanda:<br />

13 Cf. RH 13.<br />

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chi è l‟uomo; ma si tratta di tutto il dinamismo della vita e della civiltà”. 14 Questa<br />

riconduzione di ogni cosa a Cristo, questa concreta attenzione alla condizione<br />

umana, rende la chiesa autentica compagna dell‟uomo mentre questi diventa “La<br />

prima e fondamentale via della chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che<br />

immutabilmente passa attraverso il mistero dell‟incarnazione e della<br />

redenzione”. 15 Termina qui una fede saccente che sa tutto, termina una visione<br />

moralistica che giudica tutto e inizia una fede storica, in dialogo con la<br />

comprensione che l‟uomo ha di sé. La concreta lettura che il papa fa<br />

dell‟ambiguità dell‟uomo contemporaneo, della disumanità del vivere odierno,<br />

dell‟insufficienza del progresso e della problematicità dei diritti civili, della libertà<br />

e della coscienza, del lavoro e della mondialità è forse meno importante del<br />

metodo qui indicato. L‟antropologia cristiana non è precostituita, deducibile come<br />

verità immutabile da proclamare contro tutto e contro tutti; deve invece accogliere<br />

la realtà concreta all‟uomo, studiarla e approfondirla, per aprirla a Cristo e al suo<br />

vangelo. Nasce qui un umanesimo evangelico che assume l‟etica come il decisivo<br />

orizzonte di una umanità solidale, come la responsabilità di una vita volta a<br />

saldare l‟autentico quadro di valori, aperto alla verità, con libera coscienza<br />

individuale e la solidarietà universale cosmica. Si tratta di un umanesimo<br />

evangelico che il papa fonda, più che sulla scienza etica, sulla dignità di un uomo<br />

sempre avvolto dal mistero di Cristo e della sua grazia, sull‟originarietà di ogni<br />

persona vista come valore assoluto e rimando insuperabile per ogni sforzo teso a<br />

dare un volto umano alla storia e alla vita. Questa dignità, questa autenticità<br />

umana per Giovanni Paolo II, il contenuto stesso della fede. L‟intero della vita e<br />

della storia va visto come l‟orizzonte ermeneutico entro cui vivere la fede: da qui<br />

l‟esigenza di una migliore conoscenza della società e della cultura e la necessità di<br />

una radicale fedeltà nella fede, a quel centro, il Cristo, che qualifica<br />

ultimativamente ogni cosa.<br />

c. Oltre il concilio: questioni aperte per il futuro<br />

La fedeltà della signoria messianica del crocifisso-risorto e l‟attenzione alla<br />

problematica culturale sono le coordinate fondamentali dell‟attuale clima<br />

teologico. Si tratta di vivere un vissuto di fede che è sempre più sentito come ricco<br />

di attenzione alla forza escatologica dello Spirito e di sensibilità per un cammino<br />

14 Cf. RH 16.<br />

15 Cf. RH 14.<br />

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storico, condiviso con tutti ma vissuto nella fedeltà alla luce della Parola. Il<br />

risultato di questa sensibilità è il sorgere di alcune problematiche nuove che, se<br />

non hanno ancora trovato una chiara e convincente elaborazione metodologica e<br />

contenutistica, si segnalano però per la particolar sintonia con la nostra cultura e<br />

per la capacità di delineare il volto della fede di domani.<br />

La dimensione politica della fede<br />

La lezione di J.B. Metz sul carattere pubblico della fede, colta come rivoluzionaria<br />

che la memoria della croce ha in sé, così come gli studi di H.U. von Balthasar e J.<br />

Moltmann ed E. Jungel sulla croce come dinamica trinitaria ed escatologica<br />

dell‟amore che salva, cioè come regno, sono da ritenersi in un certo modo<br />

acquisiti. La rilevanza antropologica di questo tema sta nel considerare l‟amore<br />

trinitario e salvifico del crocifisso come l‟ambito in cui la persona struttura la sua<br />

libertà. Nella sua unicità di evento, la croce fonda una vita radicalmente nuova e<br />

spalanca un futuro diverso dalla storia dolorosa dell‟umanità. La croce diventa<br />

così la possibilità per una contestazione del reale là dove esso pretende di avere<br />

senso compiuto: saldando il divieto biblico dell‟idolatria con la critica ideologica<br />

della società, la teologia politica della croce orienta la libertà e la responsabilità<br />

umana verso una sincera conformità all‟amore del Signore. In questo modo la<br />

croce evidenzia l‟effettiva storicità della salvezza: ancorando l‟antropologia alla<br />

pasqua, vede quest‟ultima come la sorgente inesausta da cui la fede attinge la<br />

novità pasquale per incarnarla nel concreto tessuto delle relazioni umane. A<br />

partire da questa ritrovata identità, plasmata dai gesti di Dio, l‟antropologia<br />

teologica ha il compito di vivere una storia segnata dallo scontro e dal potere degli<br />

uomini ma risolta dall‟agire di Dio. L‟amore escatologico del crocifisso si fa<br />

carico dell‟universale e reale divenir-persona di tutti: il crocifisso, il Dio solidale<br />

con tutti gli oppressi e addirittura con i morti, è la suprema possibilità di vita<br />

dell‟uomo. I temi della pace e della giustizia, della liberazione e della solidarietà,<br />

diventano così temi fondamentali per quell‟uomo nuovo che nell‟obbedienza della<br />

fede, non solo rinuncia alla propria responsabilità ma anzi l‟orienta a mete e<br />

progetti sempre più grandi.<br />

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La teologia femminista: dalla differenza di genere alla reciprocità nella differenza<br />

Il femminismo è tutto sommato un fatto recente: il risultato di una collettiva presa<br />

di coscienza delle donne circa l‟ingiustizia della loro condizione ed è il<br />

fondamento di un movimento per la sua emancipazione. Il suo punto di partenza è<br />

la critica a una collocazione della donna in un ruolo domestico e al suo interno in<br />

un ruolo materno: la donna è casalinga nel senso che grava su di lei<br />

l‟organizzazione e l‟esecuzione dei lavori domestici. La donna è madre nel senso<br />

che deve salvaguardare l‟equilibrio affettivo della famiglia, svolgendo un ruolo<br />

affettivo e sessuale, di sostegno psicologico e di disponibilità sessuale. Questa<br />

critica mette in questione l‟organizzazione dei ruoli sociali all‟interno della società<br />

industriale e borghese ma, da essi, risale a una più generale critica alla società<br />

come patriarcale e maschilista: la donna, espropriata dei suoi significati autentici,<br />

avrebbe sempre avuto un ruolo inferiore e una funzione compensativa. Nasce da<br />

qui non solo una critica alla tradizione ma più propriamente un bisogno di<br />

ripensare la storia e l‟esperienza umana dal punto di vista della donna. In questo<br />

quadro matura vuoi una critica dell‟uguaglianza come concezione che, non<br />

distinguendo consapevolmente tra uomo e donna, finisce apparentemente per non<br />

fare differenza ma in realtà per privilegiare modalità e comportamenti maschili,<br />

vuoi un‟insistenza sulla differenza di genere come punto di vista proprio della<br />

donna. In un modo un po‟ semplificatore si potrebbe dire che, mentre il sesso<br />

femminile è un dato biologico, il genere femminile è un aspetto dell‟identità<br />

sociale della donna, un aspetto non sempre evidente e non sempre identico<br />

dappertutto. In questo senso il dibattito si attesterà non tanto sui rapporti tra natura<br />

e cultura quanto sulla capacità della cultura maschilista di qualificare privato e<br />

pubblico, ruoli e valori. Il superamento di questa visione, segnata da forti limiti<br />

contrapposti porterà a valorizzare la relazione tra uomo e donna: al di là della<br />

differenza, si tratta di ritrovare la persona-donna con le sue esigenze di relazione e<br />

di reciprocità. La reciprocità nella differenza intende mettere a tema sia<br />

l‟abbandono di un pensiero totalizzante di un pensiero dell‟uguaglianza, sia lo<br />

stupore di fronte all‟altro, la scoperta dell‟essere con per farne la base di una<br />

reciprocità, di un essere per, di una storia comune. Sta qui la base di nuove<br />

possibilità. Queste logiche investono anche la comunità cristiana: l‟investono per<br />

la capacità che la fede ha di plasmare la coscienza di se stessi e le aspettative di<br />

entrambi i sessi; l‟investono per il messaggio liberatore, il regno, che il vangelo<br />

porta in sé; l‟investono tanto per la sua responsabilità verso il passato quanto per<br />

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la sua capacità di futuro. I frutti di questo lavoro, sicuramente importante per il<br />

futuro, sono per ora ancora interlocutori. M. Daly ha affrontato il problema della<br />

raffigurazione maschile di Dio padre: dopo averne mostrato l‟insufficienza biblica<br />

e teorica, vi ha collegato tanto la legittimazione sociale di un ordinamento<br />

maschilista quanto il legame tra peccato e donna, codificato nel racconto<br />

primordiale di Eva. E. Schussler Fiorenza ha presentato una ricostruzione delle<br />

origini cristiane attorno al movimento di Gesù, presentato come movimento di<br />

uguali: la prima comunità cristiana vedrebbe confrontarsi schemi ministeriali e<br />

schemi patriarcali fino alla vittoria dei secondi, evidente in un canone biblico che<br />

cassa come apocrifo ed eretico ogni cenno sull‟uguale discepolanza tra uomo e<br />

donna. M. Letty Russell ha raccolto in un saggio i problemi derivanti<br />

dall‟interpretazione femminista delle Scritture: a partire dal fatto che le condizioni<br />

sociali e il pensiero dei testi biblici sono quelle di una cultura patriarcale, mentre<br />

alcune distinguono tra questa forma inaccettabile e un contenuto riutilizzabile in<br />

una prospettiva diversa, altre chiedono una più precisa ermeneutica femminista.<br />

La Bibbia è come un pellegrino nella storia: passando attraverso i secoli ha dato<br />

origine a una comprensione della donna e si è illuminata delle loro prospettive.<br />

Ricostruirle e valorizzarle sarebbe il compito di una depatriarcalizzazione delle<br />

tradizioni bibliche in buona parte da fare. Senza entrare nel merito di questi<br />

dibattiti, mi sembra importante coglierne il punto centrale nella strategia che si<br />

propongono: si tratta di sapere se questo cammino mira a integrarsi nella fede<br />

della chiesa riplasmandola o a ripresentarsi in alternativa a essa.<br />

La tematica ecologica e l’ethos cristiano<br />

Il tema ecologico fa parte della riscoperta del rapporto che lega l‟uomo al mondo<br />

sia sotto il profilo della ricerca su di sé sia sotto quello della responsabilità. Dopo<br />

Barth e Bultmann la teologia sta oggi procedendo alla riscoperta del mondo. Vi<br />

contribuisce sia una linea filosofica che ha presentato l‟uomo come essere nel<br />

mondo, sia la progressiva centralità delle scienze nella cultura occidentale, sia la<br />

coscienza dei limiti propri del progresso scientifico. L‟ecologia si colloca in<br />

questo contesto. Il suo punto di partenza è la consapevolezza della profonda<br />

connessione dei viventi: costituiscono un unico sistema vitale. Mentre però la fede<br />

cristiana risale da questa unità al disegno di Dio, il mondo ecologista si limita a<br />

constatare la presenza di questo ecosistema globale e a ricavarne il valore<br />

incondizionato della natura. Da qui sia la polemica con l‟organizzazione<br />

tecnologico-industriale di una produzione che non teme di saccheggiare e<br />

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degradare le risorse naturali sia quella più sottile, con quelle matrici filosofiche<br />

che attraverso la centralità del soggetto intelligente hanno ridotto il mondo a<br />

oggetto disponibile attraverso la nozione di fine hanno giustificato il dominio<br />

dell‟uomo sul mondo. Questa mentalità non priva di tracce fondamentaliste e<br />

panvitaliste, non manca di interpellare la fede cristiana. La forma di domanda più<br />

alta comporta l‟invito a formulare una teologia attenta a queste prospettive. In<br />

genere la teologia ha espresso una visione basata su un umanesimo creazionista<br />

che evita di esaltare l‟uomo indipendentemente dal suo rapporto con il mondo, ma<br />

evita pure di parificarvelo sulla base della sola biologia. Più complessa la<br />

posizione di J. Moltmann che pone un tale rapporto tra lo Spirito creatore, che<br />

permea e vivifica tutto ciò che esiste, e il mondo, da giungere tanto ad<br />

abbandonare la nozione di causa quanto a formulare la trascendenza di Dio sul<br />

mondo all‟interno di una profonda relazione con esso. Di conseguenza propone di<br />

parlare di partecipazione e relazione, di integrazione e reciprocità: si tratta di<br />

illustrare quella comunione vitale e cosmica tra Dio e le sue creature che avrebbe<br />

il suo modello, ovviamente analogico, nella comunione di unità e di differenze<br />

propria delle persone trinitarie. E‟ facile immaginare la somma di interrogativi<br />

metodologici e teologici che suscita una simile visione. L‟impegno per ricavarne<br />

tutte le conseguenze etiche e per comporre la verità insita nella domanda<br />

ecologica con la tradizionale visione dell‟uomo immagine di Dio è il compito<br />

della teologia di domani. Una fede che custodisce ed esibisce quel senso di realtà<br />

creaturale che porta in sé come promessa non può sottrarsi all‟incontro con questi<br />

temi. Nell‟attenzione a ogni autentica ricerca, sarà compito della teologia<br />

comporre il senso ultimo dell‟intenzione creatrice di Dio con l‟odierna coscienza<br />

della vita e della realtà. Sarà lo spazio di una rinnovata teologia della creazione.<br />

3. La genesi dell’antropologia nella cultura moderna<br />

L‟interrogativo sull‟uomo è ormai cruciale: si impone non tanto come problematica<br />

regionale del sapere umano ma come l‟ambito globale del suo significato e del suo<br />

valore; capace di determinare l‟atteggiamento di fondo di fronte all‟esistente,<br />

l‟antropologia è ormai la sintesi culturale del nostro tempo. Per interpretarla occorre<br />

però arrischiare un‟interpretazione dell‟epoca moderna e delle mete che questa si<br />

propone: qui mi rifaccio a quella di H. Blumenberg. L‟autore critica la lettura<br />

dell‟epoca moderna alla luce della categoria di secolarizzazione là dove questa, oltre<br />

a descrivere un passaggio dalla centralità di Dio a quella dell‟uomo, è usata in senso<br />

esplicativo: nel passaggio della discrezione alla spiegazione si introduce un dato<br />

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aggiuntivo che per un verso inquadra l‟epoca moderna in categorie cristiane ponendo<br />

così una continuità logica, anche se con altri mezzi, tra cristianesimo ed epoca<br />

moderna e per un altro non di rado, si spinge fino a vedere questo processo, questa<br />

perdita e di influenza come provvidenziale, come purificatore del cristianesimo. H.<br />

Blumenberg contesta ogni forma di continuità secolarizzata del mondo cristiano<br />

nell‟epoca moderna, dell‟escatologia nel progresso, della decisione assoluta della<br />

creazione divina nella decisione da avallare, ma comunque sorgente dal nulla, dello<br />

stato. La legittimità dell’epoca moderna è per lui una categoria storica e ne riconduce<br />

la sostanza dell‟autoaffermazione dell‟uomo: questi riprende in mano lo spazio della<br />

sua libertà dopo la delusione patita ad opera dei dibattiti teologici su una vita decisa<br />

in base ai decreti eterni, propri di un volontarismo teologico, su una predestinazione<br />

ante o post previsa merita. In questo contesto l‟autoaffermazione dell‟uomo<br />

comprende direttamente la radicalità della ragione, il suo autonomo esercizio, più<br />

delle linee concrete di indirizzo o le scelte antiteologiche; comprende l‟affermazione<br />

del progresso visto come autogiustificazione del presente in base a un futuro opera<br />

dell‟uomo più che i suoi risultati complessivi; comprende la responsabilità umana<br />

verso un mondo non più pensato nella stabilità di ordine provvidenziale: questo<br />

permetterà di pensare lo sviluppo scientifico e tecnico non tanto sulla base dei bisogni<br />

umani, sulla base di una carenza ma piuttosto, sulla base della libertà di un uomo che<br />

sta prendendo il suo posto nel mondo. In questa direzione la sfida che l‟epoca<br />

moderna pone alla fede non è innanzitutto quella di una sottrazione di spazi quanto<br />

quella della sua funzione di lievito culturale: si tratta di sapere non già quale potere<br />

rimane alla chiesa ma quale capacità di vitalità e di integrazione culturale essa saprà<br />

esprimere di fronte a questo nuovo diverso mondo, di fronte a una concezione che<br />

senza negare Dio, mette l‟uomo al centro dei suoi interessi. E‟ questo il problema che<br />

l‟epoca moderna pone alla fede. Anche se l‟epoca moderna ha direttamente al centro<br />

la radicale autoaffermazione dell‟uomo e non direttamente i suoi risultati, questi sono<br />

ovviamente indifferenti: vivono di essa. Seguendo un uso abbastanza comune,<br />

designerò il termine modernità con l‟insieme di strutture sociali che si svilupparono<br />

dopo l‟epoca confessionale e che divennero decisivi con l‟illuminismo e<br />

l‟industrializzazione. La modernità lega all‟affermazione della soggettività umana,<br />

pensata come indipendente da Dio e dal mondo, si salda cioè all‟emancipazione<br />

umana e alla razionalizzazione di tutti gli aspetti della vita. Si tratta di un processo<br />

interdipendente, dove gli aspetti economici si intrecciano con quelli sociali, culturali<br />

e politici. Mantenerli nel loro intreccio è la lezione più grande di M. Weber. Ed è<br />

proprio a lui che dobbiamo la presentazione della modernità attorno a quattro basilari<br />

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pilastri: 1) la funzione della scienza, 2) l‟organizzazione capitalistica del processo<br />

economico; 3) la forma moderna dello stato; 4) l‟ethos razionale della vita. La nuova<br />

autocomprensione delle scienze nasce dal considerare il mondo non alla luce di un<br />

fine che gli sarebbe inerente ma in base al riconoscimento sperimentale delle cause<br />

degli effetti prodotti: questo rende il mondo disponibile al dominio umano e<br />

attribuisce alla scienza un‟autonomia incondizionata. In questa razionalità scientificomatematica<br />

è decisivo il fatto che lungi dall‟essere solo un criterio di regolazione<br />

empirica del mondo, esso proietta le sue coordinare sul futuro fino a delineare quel<br />

senso della vita che dal futuro si attende. In questa linea la scienza esorbita da una<br />

pura comprensione dell‟empiria per farsi carico del problema del senso; là dove viene<br />

legato alle cose, influisce a determinare un‟esteriorizzazione del senso del vivere,<br />

posto nel possesso e nel godimento delle cose più che nell‟uomo. Il rischio di un<br />

impoverimento, di uno svuotamento del senso della vita si fa grande là dove l‟attività<br />

scientifica si separa sempre più da una finalità umana e rincorre una logica di<br />

efficienza che trova i suoi significati in se stessa, indipendentemente dalla persona.<br />

L‟organizzazione capitalistica del processo economico mira a perseguire il vantaggio<br />

individuale nella convinzione che questo favorirà realisticamente il bene della<br />

collettività. La gestione razionale di risorse che ormai si sanno limitate e non sempre<br />

rinnovabili, la riorganizzazione del processo lavorativo attorno all‟automazione e<br />

all‟informatica, il legame della produzione con un consumo indotto in modo<br />

pubblicitario, la dimensione mondiale dell‟economia e il suo intreccio con la politica,<br />

fanno di questo aspetto un punto cruciale per il futuro del mondo. In particolare si<br />

trova a dover rispondere all‟ampia esigenza di giustizia e di liberazione che anima<br />

ricerche e lotte del nostro tempo; il crollo dei regimi comunisti e il debito<br />

internazionale dei paesi poveri, il contrasto nord-sud e il mancato trasferimento di<br />

tecnologia ai paesi poveri nel quadro di una ridistribuzione internazionale del lavoro,<br />

l‟impegno finanziario nella produzione bellica e il progressivo scomparire di ogni<br />

progettazione di un nuovo ordine mondiale hanno reso centrale questo tema. Nella<br />

questione della povertà e della fame, del lavoro e dei diritti umani si tratta di sapere<br />

che tipo di uomo e di umanità costruiremo per il futuro: gli interessi dell‟economia<br />

infatti non collimano necessariamente con quelli dell‟uomo. La forma moderna della<br />

stato pensa il potere politico sulla base dell‟uguaglianza e della libertà dell‟uomo: di<br />

conseguenza il potere sull‟uomo non è né dono di Dio né fatto di natura ma è il<br />

risultato di un contratto sociale. Questo contratto che comporta una certa<br />

autodelimitazione della libertà, si fonda sul riconoscimento della dignità<br />

incondizionata di ogni individuo: ne consegue che il volto preciso dello stato<br />

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dipenderà dal modo di pensare la dignità dell‟individuo, i suoi diritti e i suoi doveri, e<br />

dalla capacità di favorirne la maturità. Troppo spesso l‟organizzazione dello stato,<br />

anche là dove è funzionale, non offre alcune risposta all‟interrogativo personale sul<br />

senso della propria vita, lasciando così lo spazio a un individuo privo di radici; troppo<br />

spesso al pari, la razionalità interna di uno stato, fondato su una costituzione e su<br />

un‟amministrazione affidabile, si accompagna a un‟irrazionalità nella conduzione dei<br />

rapporti internazionali fondati su ben altri criteri. Infine la modernità si lega a un<br />

ethos razionale, a una progressiva egemonia del soggetto razionale: questo processo<br />

inizia con la coscienza cartesiana che come autocertezza, fonda l‟uomo in se stesso e<br />

gli permette di guadagnare da se stesso ogni verità, si sviluppa attraverso il<br />

razionalismo illuminista che esalta la ragione autonoma contro ogni forma di<br />

dipendenza autoritaria e tradizionale, giunge al suo vertice nell‟idealismo hegeliano<br />

che esalta lo Spirito assoluto fino a concepire ogni realtà e ogni soggetto finito come<br />

un momento del suo processo di manifestazione e di sviluppo. Per questa via la<br />

soggettività, che riconosce valore all‟oggetto solo mediatamente, solo in quanto<br />

portato alla presenza della ragione e affermato in essa, concluderà alla nullificazione<br />

dell‟oggetto e del reale, resi puro concetto, puro fenomeno totalmente disponibile alla<br />

ragione, puro prodotto linguistico. Lo strutturalismo ne sarà forse la più alta<br />

espressione: la ricerca analitica sul fenomeno culturale è svolta in vista<br />

dell‟identificazione delle strutture preterintenzionali che permettano di calcolare le<br />

molte variazioni possibili, variazioni sempre interne al sistema dato. Il tentativo di<br />

collegare tutti questi aspetti ha fatto ricorso alla categoria di progresso: questa si<br />

fonda sulla perfettibilità illimitata dell‟uomo, sulla progressività di una storia che è<br />

sempre passaggio dal vecchio al nuovo, dal peggio al meglio, e sulla felicità come<br />

istanza etica che legittima questo cambiamento. Ne viene una canonizzazione del<br />

cambiamento, foriera di non poche delusioni, come anche chi mantiene l‟obiettivo di<br />

un globale rilancio del progetto di modernità, come J. Habermas ha dovuto<br />

ammettere. In particolare l‟enfasi sul progresso ha dovuto fare i conti con la<br />

consapevolezza dei limiti delle risorse e quindi con la consapevolezza che il<br />

progresso stesso ha dei limiti ed è quindi impossibilitato a rispondere a ogni esigenza:<br />

l‟obbligo di fare delle scelte non aveva mancato di spingere a delineare scenari<br />

catastrofici e comunque, a interrogarsi sul futuro e sulla fine di futuro per l‟umanità.<br />

Soprattutto il progresso ha dovuto fare i conti con la contestazione ecologica e la sua<br />

critica alla distruzione dell‟ambiente: al centro del dibattito è venuto qui la<br />

soggiacente visione di un antropocentrismo predatorio, inconsapevole dei suoi legami<br />

con quel mondo di cui pure necessita. Il risultato è che l‟autoaffermazione dell‟uomo,<br />

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quale si è data nel contesto della modernità, è entrata in una fase di crisi e di<br />

ripensamento; la coscienza del tasso di irrazionalità e di violenza che accompagnano<br />

una razionalità strumentale impone una nuova ripresa dell‟autoaffermazione<br />

dell‟uomo.<br />

a. Le ragioni dell’assenza dell’antropologia teologica<br />

Ho già richiamato nell‟introduzione, il senso corretto di epoca moderna seguendo H.<br />

Blumenberg, se ho già indicato la novità non già nella secolarizzazione, ma<br />

nell‟affermazione dell‟autonomia umana. In effetti il progressivo articolarsi di<br />

elementi economici, sociali e culturali genera una riorganizzazione del mondo<br />

interiore della persona e prospetta uno stile di vita completamente nuovo. I<br />

rivolgimenti sociali, le scoperte scientifiche, la rinascita culturale indotta dalla<br />

riscoperta del mondo classico non ampliano soltanto l‟orizzonte e la mentalità<br />

dell‟uomo del rinascimento, ma rappresentano lo sfondo su cui prende consistenza un<br />

uomo cosciente della propria autonomia e della propria forza fino all‟orgoglio e alla<br />

vanità. Anche l‟esperienza cristiana ne è investita. Si prende sempre più coscienza<br />

dell‟importanza della critica razionale e scientifica e la sia applica anche nei confronti<br />

della parola di Dio; ci si muove verso una interiorizzazione di tipo etico della<br />

religione nella linea di uno spirito religioso universale; si formula il valore della<br />

persona e della libertà come valore assoluto che non teme di assumere anche forme<br />

proprie di un radicale anti-istituzionalismo statale ed ecclesiale; si avverte il bisogno<br />

di ridefinire i rapporti tra stato e chiesa in un contesto politico ormai profondamente<br />

mutato. In questa trasformazione il problema fondamentale dell‟esperienza cristiana,<br />

la salvezza, torna ad essere decisivo: il dibattito attorno alla salvezza diventa la<br />

chiave polemica, attraverso cui la fede percepisce il mutato clima culturale e vi fa<br />

fronte. Si tratta di sapere cosa è la salvezza e come vi si arriva e di conseguenza la<br />

posizione della persona umana. Ricostruirò perciò il clima culturale dell‟epoca prima<br />

di entrare nel merito dei suoi problemi.<br />

Un complesso clima culturale<br />

E‟ difficile sintetizzare questo periodo: sul piano culturale prende sempre più risalto<br />

la separazione fra teologia e filosofia e più in generale tra teologia e scienze umane<br />

mentre all‟interno del sapere teologico il clima è dominato dalla polemica<br />

confessionale fra cattolici e protestanti. Si tratta di un periodo complesso non ancora<br />

del tutto illuminato. Vi intuiamo comunque un distacco, una progressiva<br />

divaricazione di orizzonte tra pensiero umanistico e riflessione teologica. Già<br />

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l‟umanesimo del „400, pur in un quadro religioso, aveva lasciato in secondo piano i<br />

temi antropologici tradizionali del male e del peccato, della visione beatifica e della<br />

gloriosa venuta di Cristo per concentrarsi sull‟importanza della libertà umana e sul<br />

ruolo dell‟uomo nel cosmo; questa linea, che continuerà nel „500, mantiene al centro<br />

del suo interesse l‟uomo e la sua ragione, le risorse e le opere della persona. Con<br />

l‟umanesimo l‟uomo scopre se stesso e il suo mondo: si avverte come contrassegnato<br />

da uno spirito di libertà e di autonomia razionale che lo portano a voler essere<br />

soggetto, signore della propria storia. La riflessione teologica per contro, accantonata<br />

la sintesi tomista e venuto meno l‟apporto più vero della grande teologia francescana,<br />

si muoverà lungo una molteplicità di direttrici che il termine unitario di nominalismo<br />

non mostra adeguatamente. Seguendo H.A. Oberman è possibile indicare i caratteri<br />

principali di questa teologia nella sovranità e trascendenza di Dio, nell‟autonomia e<br />

libertà etica dell‟uomo, nello scetticismo circa la verità e nell‟inizio di un processo di<br />

secolarizzazione. Il punto che più ci interessa è certo l‟affermazione forte della<br />

volontà trascendente di Dio unita però, si pensi a Scoto, a una visione positiva del<br />

reale, voluto da Dio, e a una affermazione altrettanto forte della libertà umana. La<br />

composizione di queste due dinamiche, non del tutto integrate nemmeno in Scoto,<br />

lasciava intuire il profilarsi inevitabile di una crisi religiosa. Non si tratta di sostenere<br />

che la riforma è frutto dell‟individualismo e del razionalismo dell‟epoca moderna né<br />

per contro, che essa è la rivolta dell‟agostinismo cristiano contro lo spirito moderno e<br />

laico come da parti opposte e con qualche ragione, si è di fatto sostenuto, si tratta di<br />

cogliere una diversità di accenti e di impostazione tra il pensiero moderno e la<br />

riflessione cristiana; questa diversità non tollerava un semplice aggiustamento ma<br />

esigeva un ripensamento profondo dell‟esperienza cristiana. Questo ripensamento che<br />

coinciderà con la riforma protestante, investirà tutta la chiesa ma sarà portato avanti<br />

con sensibilità diverse dal mondo cattolico e da quello riformato. La posta in palio in<br />

questa polemica è qualcosa di ben più grande della polemica stessa: è lo sforzo anche<br />

polemico e traumatico, compiuto da una chiesa per ritrovare la propria identità<br />

cristiana dentro una precisa situazione. Prima però di affrontare il nodo della riforma,<br />

mi sembra importante chiarire ulteriormente i vari filoni di quella situazione culturale<br />

entro cui si collocano, sia pure con accenti e sensibilità diverse, tanto i riformatori<br />

quanto la chiesa di Roma.<br />

La scolastica occamista<br />

Per quanto il nominalismo non domini incontrastato e al suo fianco continuo tanto il<br />

tomismo che lo scotismo, la sua importanza rimane grandissima. Se lo si valuta in<br />

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riferimento alla teologia della grande scolastica medioevale, non si può non<br />

condividere il parere di W. Dettloff che la preponderanza data al De potentia Dei<br />

absoluta trascini con sé un gusto e un eccesso di speculazione che configurano un<br />

impoverimento dell‟immagine di Dio e uno svuotamento del tema della carità; quel<br />

tema che la scuola scotista identificava addirittura con essa, perde la sua collocazione<br />

centrale: passa dalla capacità di sintetizzare l‟esperienza cristiana attorno ai rapporti<br />

personali tra le persone divine e la libertà umana alla realtà di un atto che Dio compie<br />

a proprio piacimento, senza vincolarsi in alcun modo, senza tener alcun conto della<br />

fede e della vita della persona. La grazia è totalmente indipendente dalla libertà.<br />

All‟inizio della via moderna dobbiamo probabilmente porre il francescano P.<br />

Aureoli: sarà lui a rompere con il sistema scotista reimpostando il tema della<br />

predestinazione attorno alla previsione dei meriti e leggendo l‟habitus come una<br />

predisposizione negativa che esprime quella perfezione morale umana che,<br />

adempiendo quanto è ordinato, permette a Dio di agire portando a compimento in noi<br />

la sua opera. I principali teologi di questa corrente sono però Guglielmo di Ockham<br />

(+ 1349) e Gabriel Biel (+ 1495). Il primo poco nutrito di documentazione biblica, ci<br />

offre soprattutto una speculazione filosofica attorno ai temi del possibile, attorno ai<br />

temi del De potentia Dei absoluta. Né ricaverà una radicale contingenza dell‟ordine<br />

di salvezza di fatto esistente nella chiesa; da questa contingenza dipende il fatto che<br />

né la colpa né la grazia interpretano fino in fondo l‟essenza della libertà umana che<br />

nella sua verità, sta sotto l‟influsso di quella De potentia Dei absoluta che separa<br />

radicalmente la creatura dal creatore. Il risultato sarà l‟inaugurazione di una<br />

autonomia umana e di una bontà della natura a cui sopraggiunge solo da fuori la<br />

grazia. L‟estrinsecità della grazia rispetto alle dinamiche della libertà dice la presenza<br />

di uno spirito pelagiano; solo la radicale contingenza della realtà creaturale con la<br />

basilare inadeguatezza del merito umano rispetto alla visione beatifica, permette a<br />

Ockham di sfuggire alle conseguenze più pesanti del suo pensiero ma, certo troviamo<br />

qui un oscurarsi della distinzione e dei rapporti tra ordine naturale e ordine<br />

soprannaturale. La radicale contingenza dell‟economia salvifica porta a concludere<br />

che, se niente di ciò che è creato può obbligare Dio, allora nessuna forma<br />

soprannaturale. Insomma la formalità della salvezza sta nella sola volontà di Dio;<br />

l‟estraneità a essa della natura umana permette di pensarla in forme ottimiste e<br />

indipendenti che sono l‟inizio di una diversa visione della vita. Ritroviamo le stesse<br />

tesi in Gabriele Biel. In pratica abbiamo qui un volontarismo divino che è diventato<br />

ormai, estrinsecismo e arbitrio: l‟intento di salvaguardare la libertà di Dio nel suo<br />

agire misericordioso ha finito per fare di lui un Dio lontano e arbitrario e della grazia<br />

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una realtà priva di significato. In questo senso già in Biel, la giustizia di Dio è iustitia<br />

aliena liberamente attribuita da Dio quando lo vuole. Attraverso J. Nathin, discepolo<br />

di Biel a Tubingen, si giunge a Lutero, discepolo di Nathin a Erfurt. Si apre così il<br />

problema dell‟eventuale nominalismo di Lutero. La tesi contrastante, positiva per i<br />

cattolici H. Denifle e H. Grisar e negativa per i protestanti K. Holl e E. Seeberg, ha<br />

finito per generare quasi due interpretazioni confessionali. In realtà entrambe le tesi<br />

dipendono da pregiudizi storici: i protestanti vedevano il nominalismo come una sorta<br />

di pelagianesimo mentre i cattolici lo vedevano come una degradazione della grande<br />

tradizione scolastica medioevale. Se invece che a delle singole tesi nominaliste,<br />

badiamo al problema di fondo da questa corrente, allora possiamo arrischiare l‟ipotesi<br />

che tutti gli autori, da Lutero a Trento, abbiano dovuto misurarsi con la divaricazione<br />

posta o recepita dal nominalismo tra Dio e l‟uomo: Lutero vi risponderà con<br />

l‟appassionata affermazione del ruolo di Dio, soli Deo gloria, mentre Trento ribadirà<br />

il legame tra gloria di Dio e l‟uomo realmente giustificato. Di fronte a questa ipotesi<br />

non si può fare a meno di chiedersi se le divergenze della teoria della grazia erano tali<br />

da giustificare la drammatica conseguenza che ne è venuta, cioè la rottura della<br />

comunione ecclesiastica. La convinzione di molti che il dibattito teologico sulla<br />

grazia non giustificava la rottura che ne è venuta non può purtroppo cambiare la<br />

storia.<br />

La tradizione agostiniana<br />

La nostra epoca non conosce anche il permanere di una forte tradizione agostiniana.<br />

Per un verso è il frutto di un ritorno allo studio di Agostino, non privo di senso<br />

polemico verso le categorie scolastiche, per un altro verso è il risultato di un<br />

atteggiamento che si mescolerà al nominalismo sviluppato in antitesi con<br />

l‟occamismo, lungo una linea di pessimismo: l‟uomo dominato dalla concupiscenza,<br />

appare segnato da una morbida qualitas, da una positiva inclinazione al male che non<br />

potrà mai essere del tutto rimossa in questa vita. In questa linea gli agostiniani non<br />

mancano di insistere su alcune tesi agostiniane che altri troppo facilmente<br />

dimenticavano: il peccato originale e la predestinazione per pura grazia, la falsità<br />

delle virtù dei pagani e la forza della concupiscenza erano tra queste. In particolare<br />

sarà Gregorio di Rimini a sviluppare il pensiero di un ordine che fino a lui, era<br />

rimasto bloccato dall‟obbligo, fissato nel capitolo generale del 1287, di insegnare la<br />

dottrina di Egidio Romano. Ne verrà una visione aperta a influenze varie, anche<br />

bibliche e platoniche, ma che in ogni caso legano profondamente la grazia al peccato.<br />

Girolamo Seripando darà a queste idee la sua forma più compiuta; per lui la persona è<br />

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una creatura inevitabilmente imperfetta: anche quando è battezzata, permangono in<br />

lei tracce della concupiscenza di modo che la santità si manifesta nelle sue opere<br />

come frutto della grazia non è mai perfetta e ha bisogno di venir completata. Questa<br />

prospettiva gli permette di insistere su una lettura esistenziale della grazia, intesa<br />

come partecipazione alla giustizia di Cristo in forza del dono: la vita di grazia del<br />

cristiano risulta così nello stesso tempo, e reale e insufficiente. Sta qui la necessità di<br />

una doppia giustizia: solo la giustizia ultima conferita da Cristo, completerà la nostra<br />

giustizia e la renderà perfetta e veramente salvifica. Probabilmente più che al<br />

nominalismo, il pensiero di Seripando era qui debitore delle tesi scotiste della<br />

acceptatio; in un‟epoca in cui il nominalismo aveva svilito l‟habitus della grazia, la<br />

sua affermazione che solo il definitivo incontro con Dio giustifica verrà sentita come<br />

pericolosa, come un allinearsi a forme di insignificanza della grazia creata.<br />

La cultura umanista: Erasmo da Rotterdam<br />

L‟ultima importante corrente che richiamo è l‟umanesimo; lo intendo qui non solo<br />

come una prospettiva intellettuale con i suoi specifici contenuti ma anche come una<br />

nuova filosofia della vita, una nuova concezione dell‟uomo che sintomaticamente,<br />

rivolge il proprio interesse verso l‟antichità. In forza di tutto questo l‟uomo del<br />

rinascimento vuole essere un principio attivo, un soggetto in grado di determinare ciò<br />

che lo circonda. Naturalmente a interessarci qui è l‟aspetto religioso dell‟umanesimo,<br />

è la sua volontà di tentare una sintesi fra ispirazione evangelica, secondo la quale<br />

l‟uomo riceve da Dio la sua salvezza, e visione umanistica attenta all‟uomo e ai suoi<br />

valori. A questa sintesi si dedicarono uomini come Lorenzo Valla, Giovanni<br />

Reuchlin, Tommaso Moro: la punta di diamante di questo movimento fu Erasmo da<br />

Rotterdam. In Erasmo lo sforzo di vivere secondo ragione, in opposizione a ogni<br />

forma di barbarie che abbruttisce e distrugge l‟uomo, si sposerà a una religiosità<br />

universale che afferma sia che ogni verità viene da Dio sia che la rivelazione cristiana<br />

ne è il culmine. Da questa impostazione viene una valorizzazione dei compiti civili<br />

della religione che deve promuovere e valorizzare l‟autonomia della ragione e la<br />

dignità della persona libera: nasce così una religiosità attenta alla volontà e all‟azione<br />

morale dell‟uomo, guidate dalla presenza interiore di Dio, e nasce così una lettura<br />

dell‟esperienza cristiana ed ecclesiale che, ripiegata sull‟inclinazione religiosa<br />

dell‟uomo stesso, si fa disinteressata o addirittura critica verso gli aspetti istituzionali<br />

o autoritativi della chiesa stessa. Si è spesso sottolineata l‟ambiguità di questo<br />

umanesimo cristiano, presentandolo come un compromesso vago e impoverente fra<br />

esaltazione dell‟uomo e servizio di Dio, fra evangelo di rivelazione ed etica<br />

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universalistica e tollerante: vi è certo del vero in tutto questo. Ugualmente non si può<br />

fare a meno di notare che il fallimento dell‟umanesimo cristiano ha lasciato un vuoto<br />

e ha rimandato fino ai nostri giorni il problema di un dialogo e di una sintesi difficile.<br />

Dal suo tracollo emergerà tanto il progetto di una apologetica filosofica, che genererà<br />

il razionalismo cartesiano, quanto la rigidità di un rifiuto della cultura e di un<br />

isolamento da essa. Ora mentre la provocazione cartesiana si situerà al livello<br />

filosofico e passerà praticamente senza scosse da parte di una teologia che ha<br />

consumato il suo divorzio con la filosofia, l‟isolamento dalla cultura troverà eco in<br />

una lettura di Agostino che esalterà i temi del peccato e la radicalità della grazia. Si<br />

arriverà così a un‟autentica lotta attorno ad Agostino, che rappresenterà un momento<br />

di ripensamento e di scelte per la coscienza cristiana. Presente nel mondo cattolico,<br />

questo dibattito con la provocazione luterana, si collocherà al cuore stesso della<br />

sapienza cristiana, della sua visione della vita.<br />

b. Eredità cristiana e nascita dell’antropologia<br />

Lo sfondo culturale tratteggiato sopra, gira attorno al primato di Dio e alla libertà<br />

dell‟uomo, due facce dell‟unitaria esperienza cristiana di salvezza, due facce che<br />

devono essere assunte e precisate entro un nuovo contesto culturale; si tratta di<br />

riformulare il messaggio evangelico circa Dio salvatore e circa la vita di fede entro<br />

quel mondo nuovo che stava nascendo. La ricostruzione che ho offerto ha mostrato<br />

l‟imporsi di una divaricazione fra primato di Dio e libertà dell‟uomo, avvertiti sempre<br />

più come valori indipendenti. Il problema è cruciale; al di sotto dei dati culturali è<br />

l‟essenza stessa del cristianesimo a doversi definire di fronte alle provocazioni di una<br />

nuova società.<br />

Dall’Habitus di grazia alla giustificazione<br />

Il tema del dibattito si raccoglierà attorno alla questione della giustificazione con un<br />

significativo spostamento della precedente centralità dell‟habitus. Questo<br />

spostamento va messo a tema e ha la sua radice nell‟incapacità di mantenere<br />

quell‟ampiezza di funzioni che la scolastica medievale attribuiva all‟habitus: posto<br />

all‟interno del processo di giustificazione, il suo carattere relazionale gli permetteva<br />

tanto di salvaguardare la priorità dell‟agire divino, forma trasformans, quanto di<br />

valorizzare il senso della libertà umana che lo accoglie. In questo senso Tommaso lo<br />

definiva come dispositio ultima, cioè come atto che predispone la libertà ad<br />

accogliere l‟azione divina. Là dove il primato di Dio e la libertà umana non si<br />

integrano in profondità, là dove l‟habitus è ricondotto, come a partire da P. Aureoli, a<br />

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una dinamica perfettiva umana, là dove l‟habitus non solo non è più in grado di<br />

svolgere i compiti che la grande scolastica gli assegnava ma diventa addirittura il<br />

veicolo di una forma strisciante di pelagianesimo. L‟affermazione dell‟irrinunciabile<br />

primato di Dio nel salvare si sposta così dal tema dell‟habitus a quello della<br />

giustificazione: essa o gratia prima diventa l‟ambito in cui mettere a tema, più che<br />

l‟inizio cronologico, la struttura formale della grazia stessa e quindi del significato di<br />

salvezza. La scelta della giustificazione è la significativa scelta di campo di un<br />

dibattito attorno alla persona umana: respingendo ogni compromesso con la<br />

scolastica nominalista, con la cultura umanistica e più in genere, con lo spirito dei<br />

tempi moderni colto come orgogliosa presunzione umana, la riforma apre il dibattito<br />

sulla fedeltà al vangelo, sulla salvezza radicata nella giustizia di Dio come suo unico<br />

fondamento e sua unica sostanza. L‟attacco a un atteggiamento ripiegato sull‟uomo è<br />

qui preciso e importante; è un peccato che la riforma abbia spinto lo smascheramento<br />

di questo homo incurvatus fino a sostenere un certo annullamento della libertà<br />

umana. Anche se, di per sé, il valore dell‟aggettivo solus, sola gratia, sola fide, sola<br />

scriptura, solus Deus, indica un primato di Dio a cui nulla dovrebbe essere aggiunto,<br />

di fatto la sua declinazione è stata diffidente e critica verso ogni forma di<br />

valorizzazione della libertà umana. Una radice di questa prospettiva va ricercata<br />

nell‟influenza che la mistica ha avuto sul pensiero di Lutero. La mistica di cui<br />

parliamo è la mistica renano-fiamminga che descrive la vita di grazia attorno<br />

all‟assoluto primato di un Dio che libera gli uomini da se stessi, ponendoli in una<br />

condizione di ricettività descritta come esperienza dell‟attrazione divina, del vincolo<br />

di amore, del perfezionamento della nostra somiglianza con Cristo e della deliziosa<br />

unione con l‟essenza divina, e attorno a una concezione della creatura come nullità.<br />

Ne viene una sottolineatura dinamica ed esistenziale dove alla pienezza divina<br />

corrisponde il nulla della creatura; il termine unio essentialis, spesso presente in<br />

Ruusbroec ma non sconosciuto agli altri autori, non rimanda alla nozione aristotelica<br />

di essenza ma alla volontà di sottolineare che l‟iniziativa parte esclusivamente da<br />

Dio. Sarà importante ricordare il carattere cristocentrico di questo pensiero: è in Gesù<br />

uomo e Dio che si ha il vertice della comunione: a partire da lui e in forza di lui, le<br />

persone divine abitano nell‟anima e diventano con essa una cosa sola. Il problema<br />

rimane chiaro: non si tratta semplicemente di un confronto culturale ma più<br />

propriamente della verità della salvezza annunciata dal vangelo. Non è corretto per i<br />

cattolici, accusare il protestantesimo di essere un semplice episodio del soggettivismo<br />

moderno né per i protestanti, vedere il cattolicesimo come una forma di<br />

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antropocentrismo travestito da ecclesiocentrismo. Per gli uni e per gli altri il<br />

problema in gioco è la salvezza cristiana in un quadro che la ridiscute a fondo.<br />

L’esperienza di Lutero: inquadratura storica<br />

Senza entrare in una ampia disamina del protestantesimo, posso semplicemente<br />

osservare che la ricostruzione cattolica della vicenda di Lutero è oggi dominata dalla<br />

tesi di J. Lortz: per lui Lutero, nel suo dibattersi contro una prestazione inadeguata<br />

del cristianesimo, avrebbe riscoperto ereticamente il patrimonio centrale del<br />

cattolicesimo stesso. Questa tesi ha il merito di abbandonare le precedenti<br />

inquadrature faziose e di chiarire definitivamente che la personalità di Lutero è una<br />

personalità religiosa: la sua vita è dominata da un senso vivissimo della grandezza di<br />

Dio e della coscienza della sua maestà, intesa come alterità terribile rispetto<br />

all‟uomo. Il rapporto con Dio o la ricerca di un Dio misericordioso e benigno è al<br />

centro della personalità di Lutero: a partire da qui giunge alla scoperta fondamentale,<br />

ma paolina e tradizionale, che la giustizia di Dio è una giustizia che non condanna ma<br />

salva. Questa certezza di un Dio favorevole si concentrerà attorno alla croce e sarà<br />

all‟origine di una visione personalistica ed esperienziale della vita di grazia. Al centro<br />

dell‟attuale interesse storico sta il Lutero giovane, il Lutero cattolico; sta cioè quel<br />

periodo di travaglio che lo vedrà affermare esigenze ideali che approderanno prima<br />

alla contestazione della chiesa e poi alla riforma. Poiché in genere si indica nel 1521,<br />

dopo la fallita discussione di Lipsia e la pubblicazione del De captivitate babylonica,<br />

la data in cui la frattura è ormai diventata insanabile, l‟attenzione su Lutero cattolico<br />

ha portato al centro l‟insegnamento precedente: si è valorizzato molto, in ordine alla<br />

comprensione della formazione del pensiero di Lutero, il suo commento alla Lettera<br />

ai Romani. Come ho già ricordato il suo problema sta tutto nella fondazione della<br />

giustizia del credente non già sulle opere dell‟uomo ma sulla iustitia Dei in un quadro<br />

di assoluto cristocentrismo: si tratta di un dato tradizionale, affatto confessionale, che<br />

tuttavia Lutero piegherà alla prospettiva protestante dell‟assoluta trascendenza di Dio<br />

e della storica condizione di peccato dell‟uomo. Ne verrà una lettura della giustizia<br />

salvifica come iustitia aliena extra nos habitans, del tutto diversa della tradizione<br />

cattolica che lega indisgiungibilmente l‟azione di Dio e l‟organismo ecclesialesacramentario.<br />

In questo modo Lutero maggiora Agostino leggendo il peccato<br />

ereditario come talmente insito nella persona da essere una sorta di peccato<br />

personale: la concupiscenza è a tal punto dominante in noi da motivare<br />

l‟asservimento della libertà. Il nocciolo della prospettiva luterana appare così la<br />

volontà di sradicare ogni forma di giustizia umana: la distinzione tra giustificazione e<br />

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santificazione permette di disporre di un concetto di giustificazione totalmente<br />

separato dai doni divini; là poi dove questa giustificazione è chiarita con la tesi del<br />

sola fide, ogni realtà che anteceda o accompagni l‟azione giustificante di Dio, come i<br />

sacramenti, la chiesa e il ministero ordinato, è vista come una pretesa farisaica di<br />

autogiustificazione che ricade sotto l‟anatema con cui Paolo colpisce chiunque<br />

predichi un altro evangelo. L‟agire salvifico di Dio è reale in Gesù ma estraneo a noi:<br />

solo là dove non produce nessuna qualità creata è accolto come vangelo di grazia e<br />

non come il principio di un processo di autogiustificazione. L‟habitus di<br />

conseguenza, è ripudiato come una assurdità, come l‟espressione di una autonomia<br />

umana alternativa al Cristo che giustifica.<br />

Il pensiero di Lutero: tesi teologiche<br />

L‟importanza della giustificazione invita a raccogliere attorno a essa tutto il pensiero<br />

di Lutero: per lui, infatti, la giustificazione sola fide è la punta aggressiva del suo<br />

cristocentrismo, del fatto che solo nel Cristo siamo salvi. Non si tratta di una verità<br />

fra le altre ma della prospettiva assoluta in forza della quale giudicare ogni altra<br />

proposizione di fede: si tratta dell‟articulus stantis et cadentis ecclesiae. La<br />

giustificazione sovverte completamente il mondo dell‟uomo smascherandolo nel suo<br />

peccato o nella sua apparente religiosità che altro non sono che esaltazione di sé,<br />

volontà di autogiustificazione e di potenza. L‟abbandonare ogni orgoglio, il<br />

riconoscere il proprio peccato e la propria perdizione, sono dinamiche irrinunciabili<br />

del sincero rivolgersi a Dio: l‟accusa di sé si fonda sulla radicale corruzione della<br />

persona, si pensi al famoso paragone del giumento cavalcato da due cavalieri, Dio o il<br />

diavolo, nel senso che il libero arbitrio è dominato e asservito totalmente alla<br />

concupiscenza. La centralità della giustificazione facilita la presentazione di un<br />

pensiero tumultuoso e poco sistematico: lo raccoglieremo attorno a tre tesi.<br />

1) E‟ quella della iustitia Dei, della giustizia di Dio manifestata in Cristo. La tesi<br />

ha il valore di ricordare che la salvezza è fondata sulle promesse di Dio<br />

realizzate in Cristo, rivelazione della giustizia che salva, ma persegue insieme<br />

il valore di sradicare ogni pretesa di autogiustificazione. Non solo l‟uomo non<br />

deve credere in se stesso ma neppure pretendere di raggiungere Dio con la sua<br />

religiosità: al contrario è raggiunto da Dio con il vangelo. Nel vangelo della<br />

giustizia divina, Dio non è una realtà sfuggente verso la quale far risalire le<br />

nostre preghiere o le nostre opere ma si mostra come la potenza affidabile che<br />

si china verso di noi con la sua volontà di salvezza; al centro di tutto questo sta<br />

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la croce, che assume in Lutero un rilievo tale da far considerare tutto il suo<br />

pensiero come una theologia crucis. Con la croce viene al centro un fatto che,<br />

nella sua lontananza da ogni forma di evidenza razionale o di logicità di<br />

azione, afferma l‟irriducibilità del mistero di Dio a ogni forma di sapienza<br />

umana. La volontà di sconfiggere ogni forma di umana autogiustizia porta a<br />

rifiutare come sottolie adesione dell‟uomo a se stesso ogni intenzione di<br />

conoscere, raggiungere e quasi impadronirsi del mistero di Dio: la croce<br />

capovolge completamente la nostra intelligenza del reale e l‟obbliga alla resa<br />

dato che l‟agire di Dio nel Cristo rivela una sapienza che è stoltezza e scandalo<br />

per noi. Solo accettando un Deus absconditus, un Dio che non è là dove noi lo<br />

cercheremmo, solo accettando un Dio che agisce sub contraria specie<br />

nascondendo la sua forza sotto la debolezza, la sua fedeltà sotto la lontananza,<br />

la sua presenza sotto l‟assenza, solo accettando di non sapere e di non contare<br />

nulla si può entrare in comunione con il vangelo della salvezza. Non si tratta di<br />

voler credere ma di farsi raggiungere dalla forza rivelatrice di quel Dio che,<br />

mentre dona la sua verità, illumina la nostra mente sfuggendo alla nostra<br />

pretesa di dominarlo. Solo là dove l‟uomo accetta di essere ricacciato nel suo<br />

nulla. Dio è riconosciuto nella sua vera grandezza e nella sua vera potenza. In<br />

questo senso la iustitia Dei smaschera totalmente la volontà concupiscente<br />

dell‟uomo, compresa quella che agisce là dove l‟uomo religioso sembra cercare<br />

Dio quanto invece cerca se stesso. Non si può che ammirare questo potente<br />

cristocentrismo: nel crocifisso la volontà divina di grazia sta di fronte all‟uomo<br />

come unica sorgente di salvezza. Ci si può chiedere se questo cristocentrismo<br />

sia consapevolmente e compiutamente trinitario o se, nella sua accentuazione<br />

del valore giudicante della Parola, non abbia finito per lasciare troppo sullo<br />

sfondo l‟opera dello Spirito Santo. Certo ogni cristocentrismo è almeno<br />

implicitamente trinitario e Lutero non manca di sottolineare l‟opera dello<br />

Spirito: è la potenza dello Spirito, infatti a far entrare la Parola nel cuore del<br />

giusto e a farlo operare in lui; tuttavia la sua insistenza è più sulla Parola che<br />

giudica che non sullo Spirito che rinnova il cuore. Ne viene un certo squilibrio<br />

di proporzioni; anche se la concezione salvifica della iustitia Dei, non solo<br />

forense, impedisce eccessive divaricazioni, va riconosciuto che Lutero insiste<br />

più sulla remissione dei peccati che sui rapporti nuovi che il Salvatore<br />

stabilisce con il credente.<br />

2) Direttamente collegata alla iustitia Dei, riguarda il sola fide; solo la fede, intesa<br />

come atteggiamento attraverso il quale ci apriamo all‟agire di Dio, può essere<br />

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veramente salvifica. Il sola fide esclude che la fede sia opera dell‟uomo,<br />

eventualmente interiorizzata, ricchi della quale possiamo presentarci davanti a<br />

Gesù Signore; invita invece a comprenderla come svuotamento di noi stessi nel<br />

quale soltanto lasciamo spazio al misterioso agire di Dio. La fede è la realtà di<br />

una vita radicalmente dominata da quel Dio di Gesù che, nella sua assoluta<br />

trascendenza, rimane extra nos: dove c‟è fede, c‟è solo Cristo e il suo agire<br />

senza spazio alcuno per le pretese umane. La fede perciò è il dono della<br />

presenza e dell‟agire di Dio che in nessun modo inizia con l‟uomo o viene da<br />

lui: credere equivale a uscire da sé per vivere della vita di Dio. In questa<br />

visione si comprende facilmente come la giustificazione sola fide equivalga a<br />

un duro e negativo giudizio circa ogni tipo di opere. Per Lutero le opere sono la<br />

pretesa di derubare Dio nella sua unicamente sua capacità salvifica; si spinge<br />

tanto avanti nel demolire questa pretesa da scrivere che fede e opere<br />

contrastano fra loro più ancora dell‟acqua e del fuoco. Da tutto questo non<br />

scaturisce affatto una visione lassista. La fine di un‟etica fondata sulla persona<br />

e sulla sua libertà porta piuttosto a sostituirvi un‟etica nuova fondata su ciò che<br />

Dio compie in noi: nasce così un‟antropologia cristiana dove non siamo noi a<br />

nascere delle nostre opere ma sono le nostre opere a nascere da una vita resa<br />

nuova nel Signore. Per questo la giustificazione per sola fede equivale a dire<br />

che, salvati da Dio, viviamo ormai sono in lui. Questo tema del sola fide va<br />

capito bene; il suo reale interlocutore è la concezione scolastica che legava la<br />

giustificazione a una fides charitate formata, cioè una fede animata dall‟amore.<br />

Il contrasto è a parer mio, solo apparente dato che giocano qui due diverse<br />

concezioni della fede. Per la scolastica medioevale la fede va intesa come<br />

adesione dell‟intelligenza all‟autorità di Dio che si rivela; ne viene che questo<br />

atto non è giustificante che là dove è arricchito da quella carità che è forma<br />

omnium virtutum, che permette cioè all‟uomo di rivolgersi a Dio come al suo<br />

tutto, al suo più vero e più autentico riferimento: va da sé che questa fides<br />

charitate fondata non è opera dell‟uomo ma della grazia divina. Lutero invece<br />

formulerà la sua tesi della sola fide in polemica con la scolastica nominalista:<br />

lungi dal fermarsi alla sola de potentia Dei ordinata, la fede in Gesù crocifisso<br />

radica realmente e salvificamente nell‟amore di Dio. Ogni altra possibilità va<br />

esclusa; in particolare va esclusa quella charitas che Lutero interpreta come<br />

un‟opera aggiuntiva di amore del prossimo, in forza della quale si possa<br />

meritoriamente presentarsi al cospetto di Dio. La coscienza di questi differenti<br />

orizzonti linguistici porterà P. Althaus a parlare di una sola fide nunquam sola,<br />

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una formula felice volta a indicare tanto la necessità della vita buona quanto la<br />

sua comprensione al seguito della giustificazione e non a suo fondamento.<br />

3) La terza tesi di Lutero riguarda la vita nuova, una vita che nasce dalla<br />

giustificazione colta come iustitia aliena extra nos habitans. Distinguendo fra<br />

gratia, che è il favore e il perdono con cui Dio rivela se stesso, e donum, che è<br />

la santificazione o l‟intima radice di opere buone che si oppongono alla<br />

concupiscenza e alla corruzione, Lutero ricorda che il dono emana dalla grazia<br />

e vive della sua capacità di abbracciare, con la promessa di una liberazione dal<br />

peccato, tutta la vita alla persona. La giustificazione è allora una iustitia coepta<br />

che deve venir contemplata da Cristo, è però giustizia vera: sarebbe stolto<br />

badare alle opere esteriori del peccato e non alla giustizia interiore che ci<br />

abilita a compiere opere buone e ci assimila all‟albero buono che produce frutti<br />

buoni. Questa intima presenza di Cristo, questa comunione di vita e di amore<br />

con lui non si appoggia su noi stessi ma sul Cristo e sulle sue promesse,<br />

conformemente alla parola che iustus ex fide vivit; questo confidare in Cristo e<br />

nella sua grazia non è altro che l‟esperienza certa della fede, che di fronte allo<br />

schiamazzo delle opere, e come il gemito 16 , è come il segno che lo Spirito è<br />

presente e operante in noi. In questa interpretazione di Iserloh 17 , non condivisa<br />

da tutti i cattolici, Lutero va ben oltre una semplice giustizia imputata o<br />

estrinseca: il suo pensiero si porrebbe su un piano storico ed esistenziale e il<br />

suo rifiuto dell‟habitus dipenderebbe una volta di più, dal degrado di questa<br />

tematica nella scolastica nominalista. L‟insegnamento di questa interpretazione<br />

mi sembra prezioso: da una parte inviterebbe i cattolici a vigilare sul ruolo che<br />

attribuiscono alle opere per non farle indebitamente rientrare nella grazia<br />

giustificante mentre dall‟altra solleciterebbe i protestanti a non fare del sola<br />

fide un principio isolato dalla vita, cioè dalle opere. La stessa presentazione del<br />

giustificato come simul iustus et peccator andrebbe letta in questo senso e<br />

porterebbe l‟attenzione verso un cammino di vita dove compaiono, al tempo<br />

stesso, lo Spirito e la carne; il giustificato di una iustitia coepta, di una giustizia<br />

reale ma iniziale, vivrebbe come servo e come libero, come figlio di Dio e<br />

come peccatore, in forza di quella salvifica presenza di Cristo nella sua<br />

esistenza fragile e debole. La presenza di Cristo non può in alcun modo<br />

tramutarsi in una qualità umana ma deve rimanere la ragione e lo stimolo del<br />

16 Cf. Rm 8,26.<br />

17 Cf. ISERLOH E., Gratia e Donum. Giustificazione e santificazione secondo lo scritto di Lutero contro il teologo<br />

lovaniense Latomus(1521), in Id. Lutero e la Riforma, 129-153.<br />

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suo cammino di fede. Si può quindi dire che il pensiero di Lutero ha le sue<br />

radici nella cristologia, colta come il tutto e il definitivo della salvezza: essa è<br />

riproposta nei termini di un evangelismo e di una Scriptura sola per poter così<br />

squarciare il pensiero e il linguaggio di una scolastica occamista e per poter<br />

ritrovare la forza di una rivelazione nella quale si rivela la gloria di Dio. La mia<br />

lettura ritiene che la ricostruzione del dibattito provocato dalla riforma<br />

dovrebbe riconoscere che non vi sarebbero stati, per ciò che riguarda la grazia<br />

e la giustificazione, motivi sufficienti per rompere la comunione. Solo<br />

l‟assommarsi di altre ragioni, non tutte teologiche, unitamente alla passionalità<br />

del dibattito finirono per portare a quel drammatico risultato.<br />

Da Lutero al protestantesimo<br />

Al di là dello sviluppo storico della riforma mi interessa richiamare qui la<br />

differenza tra luteranesimo e protestantesimo: il pensiero di Lutero infatti è solo<br />

l‟inizio di un processo avallato dall‟opera di altri riformatori. Tra essi avranno<br />

particolare rilievo Melantone e Calvino; saranno loro a dare espressione dottrinale<br />

e teologica compiuta a ciò che Lutero, uomo passionale, aveva espresso per lo più<br />

in termini vivaci e polemici. Con Melantone in particolare si ha una trasposizione<br />

del pensiero cristologico e credente di Lutero in una teologia della storia: con lui<br />

l‟evento Cristo, che è e rimane il tutto, viene compreso in un quadro giuridico e<br />

sostitutivo che attribuisce al Cristo il compito di adempiere le esigenze della legge<br />

al nostro posto. In forza di questo Cristo acquisisce la salvezza per tutti e una volta<br />

per tutte. L‟unione viva e quasi mistica fra Cristo e i credenti, propria di Lutero, è<br />

qui stemperata in una lettura imputata e forense della giustificazione, che non<br />

rende fino in fondo la realtà di questa viva presenza del Signore nella quale è<br />

posta ogni nostra speranza. Calvino invece ci offrirà una teologia meno unilaterale<br />

e più completa: invece di insistere sulla giustificazione per fede o sul carattere<br />

secondo della santificazione, egli parte dall‟assoluta centralità di Cristo, la<br />

partecipazione al quale si ha lo Spirito lo riproduce in noi stabilendo quel regno al<br />

quale dobbiamo obbedienza e testimonianza. La sua teologia è quindi una<br />

cristologia che lo Spirito lega saldamente all‟antropologia. A questo nocciolo<br />

fondamentale, Calvino connetterà le sue tesi circa la predestinazione, la<br />

giustificazione-santificazione, la rigenerazione battesimale, la vita cristiana: la<br />

concordanza di temi e di linguaggio con Lutero non deve far dimenticare che la<br />

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sua prospettiva non considera centrale la giustificazione ma la comunione con<br />

Cristo realizzata dallo Spirito. Le singole tesi non sono che una esplicitazione<br />

dell‟unica realtà salvifica che è il Cristo, atto divino rivolto verso di noi: esistere<br />

in Cristo è il frutto dello Spirito ed esige una radicale condizione di ascolto e di<br />

obbedienza a quella Parola nella quale siamo rigenerati e giustificati. Totalmente<br />

relativi al Cristo, non si potranno distinguere in noi fede e opere più di quanto non<br />

si possano distinguere nel sole luce e calore: ciò che veramente importa è<br />

riconoscere la signoria divina sulla nostra vita per vivere a fondo il cambiamento<br />

che essa vi ha introdotto. Il protestantesimo in ogni caso, non è fatto solo di<br />

dottrine teologiche: è un complesso di intreccio di realtà politico-militari e<br />

confessionali che si conclude con l‟affermazione della riforma protestante in<br />

buona parte della Germania. Dall‟editto di Worms del 1521 alla pace religiosa di<br />

Augsbourg del 1555 assistiamo al progressivo imporsi di una volontà di<br />

autonomia, di un particolarismo nazionale che si sottrae all‟impero. Con questa<br />

volontà la riforma farà tutt‟uno. Anche per questo non andrà prestato troppo<br />

valore alla Confessio Augustana, che è il testo di compromesso fra cattolici e<br />

protestanti: se la sua significatività sotto il profilo ecumenico è grande, la sua<br />

influenza storica è stata scarsa e riconducibile a una patente di cittadinanza per la<br />

riforma.<br />

Il momento polemico del dibattito: il concilio di Trento<br />

L‟atteggiamento cattolico è irriducibile a un puro atteggiamento reattivo: più che<br />

di controriforma si dovrebbe parlare di riforma cattolica 18 per poter cogliere a<br />

fondo la dinamica di un movimento che abbraccia la devotio moderna, l‟impegno<br />

dei gesuiti, i tentativi di riforma della certosa di Colonia, la confessione delle<br />

colpe della curia romana del 1523 e lo stesso concilio di Trento. Il concilio di<br />

Trento rappresenta indubbiamente il momento più alto della formulazione<br />

cattolica; occorre tuttavia fare attenzione a non ritenere che Trento abbia definito<br />

la concezione cattolica della giustificazione: men che meno ha insegnato<br />

ufficialmente la tesi dell‟habitus. L‟intento dei padri era quello di delineare il<br />

senso di una indiscussa tradizione e, su quella base, mostrare i punti su cui i<br />

protestanti si erano allontanati dal comune sentire; di fronte però a una tradizione<br />

che sulla grazia conosceva solo i concili di Cartagine e di Oranges, i padri<br />

18 Cf. JEDIN H., Riforma cattolica o controriforma? Tentativo di chiarimento dei concetti con riflessioni sul concilio di<br />

Trento, Brescia 1967.<br />

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decidono di assumersi l‟onere della presentazione della dottrina cattolica, senza<br />

escludere per questa nessuna legittima corrente teologica. In particolare il Decreto<br />

rifiuterà di prendere posizione tra i tomisti e scotisti. Per questo nel capitolo VII<br />

ad esempio presenta la grazia vuoi tomisticamente parlando di gratia et dona vuoi<br />

scotisticamente identificandola con la caritas Dei che ipsi inhaeret, in coloro cioè<br />

che sono giustificati. Ne verrà un testo volto a porre autorevolmente fine a una<br />

controversia, senza per questo ritenere che ogni sua parte sia definita ma senza<br />

nemmeno escluderlo, stante la centralità dell‟argomento. Dire che il testo ha solo<br />

un carattere pastorale mi pare poco: esprime il pensiero ufficiale e normativo della<br />

comunione cattolica su questo problema. E‟ quanto insegna chiaramente il<br />

proemio del decreto: Denz 1520. Altra questione è quella di sapere se a Trento, i<br />

padri ebbero o meno una sufficiente conoscenza delle posizioni protestanti. A<br />

livello ufficiale, una commissione a questo scopo fu costituita solo troppo tardi nel<br />

dicembre 1546, per avere qualche reale influenza sul dibattito; non vi è dubbio<br />

però che alcuni padri avevano una certa conoscenza del pensiero protestante e<br />

avevano addirittura provato a formulare una presentazione della teologia cattolica<br />

in contrapposizione a quella protestante. Dopo un lungo itinerario il nostro testo,<br />

Decretum iustificatione fu approvato il 13 gennaio 1547: Denz 1520-1583 e<br />

consta di un prologo, 16 capitoli e 33 canoni. Il dato formalmente nuovo del testo<br />

è rappresentato dall‟introduzione dei capita mai presenti nei concili precedenti: la<br />

loro funzione è quella indicata prima di una illustrazione autorevole della fede<br />

della chiesa. Va comunque osservato che l‟influenza del tridentino sulla teologia<br />

non fu gran che. La ragione va attribuita alla decisione di Pio IV che nella stessa<br />

bolla Benedictus Deus (1564) che promulgava i decreti del concilio, vietava ogni<br />

commento agli stessi fino a quando non fosse uscita la storia ufficiale del concilio.<br />

Presumibilmente il suo intento era quello di stroncare le polemiche<br />

sull‟interpretazione del decreto che in effetti avevano già cominciato a circolare;<br />

di fatto il risultato fu disastroso perché consacrò l‟influenza della teologia dei<br />

commenti che nel frattempo erano usciti. La ufficiale Istoria del Concilio di<br />

Trento (1567), opera di P.S. Pallavicino, giunse troppo tardi per cambiare<br />

convinzioni radicate. In questo modo finì per imporsi una interpretazione del<br />

tridentino che rispecchiava le posizioni di una minoranza conciliare. Qui mi<br />

propongo di presentare gli insegnamenti principali del decreto.<br />

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La tesi della giustizia inerente<br />

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Il nodo centrale del decreto, e delle discussioni conciliari è il dibattito attorno al<br />

modo di intendere la giustificazione. La discussione fu aperta nel modo migliore<br />

con il voto di Seripando: con esso il generale degli agostiniani poneva la questione<br />

della giustificazione presentando una posizione originale diversa da quella<br />

sostenuta da alcuni teologi controversisti e che andava sotto il nome di duplice<br />

giustizia. Per Seripando occorreva mettere al centro della giustificazione una<br />

iustitia operum in cui il credente, che partecipa alla giustizia di Cristo e cioè una<br />

grazia, anche se ancora insufficiente e bisognosa di completamento. Ben presto<br />

però i padri abbandonarono la linea indicata da Seripando per accogliere la tesi<br />

della iustitia inhaerens che stabilisce tra il Cristo e i credenti una unità di tipo<br />

ontico in forza della quale siamo perdonati e salvati. E‟ un significativo<br />

spostamento di accento che abbandona il piano esistenziale, non ritenendolo del<br />

tutto preciso e chiaro di fronte alla tesi protestante di una giustizia imputata; in<br />

questo modo l‟accento non cade sul vissuto e sull‟agire personale conseguente alla<br />

grazia ma sulla grazia santificante in se stessa per sottolineare che ha già un<br />

carattere salvifica e non ha bisogno di una ulteriore grazia divina per stabilirci<br />

nella piena comunione con il Signore. Il carattere escatologico della grazia e la sua<br />

dimensione esistenziale di speranza lasciano il posto a una visione obiettiva.<br />

L‟intento del concilio era tanto quello di richiamare il dato tradizionale che non<br />

conosce altra forza salvifica se non la iustitia Christi quanto quello chiaramente<br />

antiprotestante, di ribadire l‟inseparabilità fra iustitia Christi e iustitia inhaerens:<br />

per il peccatore il valore salvifico della prima è percepibile solo attraverso la<br />

seconda. Da qui la centralità dell‟affermazione con cui i padri insegnano che unica<br />

formalis causa est iustitia Dei non qua ipse iustus est sed qua nos iustos facit 19 ;<br />

con questa dizione i padri rifiutano ogni forma di duplice giustizia e ogni teoria<br />

che fermi la giustificazione alla sola giustizia di Cristo per affermare una reale<br />

rinnovazione della persona. La comprensione di questa tesi ha bisogno di coglierla<br />

in tutta la sua ampiezza. A questo provvede il capitolo VII del decreto: l‟elenco<br />

inconsueto ma apparentato alla teologia medievale dell‟habitus, cioè una visione<br />

relazionale e dinamica della grazia. Se l‟inhaerere richiama un‟adesione profonda<br />

che si distacca da una semplice imputazione, le cause collegano questa grazia<br />

santificante a tutta l‟economia di salvezza. In effetti il capitolo VII non dovrebbe<br />

19 Denz 1529.<br />

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lasciar alcun dubbio sull‟intento teocentrico e trinitario del concilio: la gloria di<br />

Dio e la misericordia del Padre si esprimono nella riconciliazione universale<br />

operata da Cristo e nel dono rinnovante dello Spirito. Alla luce di queste<br />

prospettive la giustificazione è descritta come un processo unitario e vitale che<br />

salda in modo organico l‟opera di Dio e i sacramenti della chiesa che la servono, il<br />

rinnovamento della persona operato da Cristo e dallo Spirito con le virtù infuse<br />

della fede, della speranza e della carità. Ne viene una nozione complessa che<br />

stacca la comprensione della giustificazione vuoi dalla concezione di una semplice<br />

imputazione vuoi dalla teologia nominalista che aveva fatto dell‟habitus una<br />

perfezione intrinseca alla persona e indipendente, se non per l‟origine da Dio. Il<br />

concilio in realtà risale alla grande scolastica: risale al pensiero di Tommaso e<br />

attraverso di lui, recupera in parte una sintonia con Agostino: ciò su cui insiste non<br />

è tanto una giustizia inerente che sia il contrario, ontologico, di una giustizia<br />

imputata quanto piuttosto un rapporto vitale e salvifico tra Dio e la creatura. In<br />

questo senso la comprensione della grazia giustificante da una parte suppone che<br />

il Dio di Gesù sia un Dio misericordioso e benevolo e dall‟altra rifiuta un<br />

annullamento, quasi manicheo, della persona per ribadire che l‟uomo vive di fede<br />

è partecipe della giustizia divina fino a esserne profondamente rinnovato fino a<br />

divenire giusto. I commentatori conciliari stanti le particolari vicende, già<br />

richiamate, circa l‟esegesi del decreto, non intenderanno correttamente il testo<br />

conciliare: a partire da A. De Vega, irrigidiranno il decreto in una concezione<br />

statica e ontologica della grazia santificante fino a indulgere sempre di più a un<br />

certo antropocentrismo. Spiace inoltre che il concilio non abbia prestato più<br />

attenzione alle tesi di Seripando; non perché la sua iustitia operum non prestasse il<br />

fianco a perplessità perché il contesto in cui si collocava era ricco di valori. In<br />

particolare la sua visione ribadiva tanto il carattere escatologico della<br />

giustificazione quanto il valore ecclesiologico dell‟unità con Cristo, presentata da<br />

lui come adesione vitale di un membro al suo capo. Queste preziose sottolineature<br />

mancheranno nel testo tridentino a maggior ragione nella teologia seguente, o<br />

sono solo parzialmente presenti.<br />

Il rapporto fra la giustizia inerente e Cristo: la fede e il merito<br />

La giustizia inerente del concilio tridentino non è per nulla assimilabile a<br />

un‟autogiustizia legata alle forze e alle opere della persona: ha al centro la<br />

giustizia di Cristo. La serietà e la portata di questa affermazione va misurata con<br />

due temi, la fede e il merito, che sono spesso rimproverati dalla carica protestante<br />

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come portatori di una forte smentita alla dichiarata intenzione di costruire la<br />

giustificazione sulla giustizia di Cristo. Per quanto riguarda la fede, il tridentino si<br />

avvale della visione tradizionale che la presenta come stabile fondamento del<br />

cammino interiore verso Dio; non dimentica, però nemmeno la concezione<br />

medioevale che attribuisce alla fede un carattere noetico, vedendola come<br />

partecipazione alla conoscenza di Dio. Queste diverse concezioni vengono<br />

pienamente incorporate nell‟evento della giustificazione secondo modalità<br />

complesse che la vedono tanto come fondamento della giustificazione quanto<br />

come frutto della stessa. Trento quindi ricorda che la fede è inizio, fondamento e<br />

radice di ogni giustificazione 20 , che è causa strumentale della giustificazione 21<br />

dato che il battesimo ne è il sacramento; il concilio poi offre una concreta<br />

presentazione del cammino di fede richiamando che come virtù 22 , è frutto della<br />

giustificazione e che, unita alla speranza e alla carità, ci unisce al Cristo e ci rende<br />

membra vive del suo corpo. Questa visione lega certo la giustificazione alla vita<br />

della chiesa, vista come suo frutto; poiché però la risolve nella viva adesione al<br />

Signore Gesù, non mi pare si possa in alcun modo sostenere che, qui la chiesa sia<br />

subentrata al decisivo rapporto con Cristo. Lungi dal promuovere una<br />

istituzionalizzazione ecclesiale-sacramentaria, al servizio di una pretesa<br />

autosalvifica della persona, i padri intendono qui descrivere un processo unitario e<br />

dinamico dove la fides ex auditu, la fede suscitata dall‟annuncio, è collegata a un<br />

processo di conversione concluso dal battesimo che dona le virtù teologali e<br />

approfondisce il legame con Cristo. Se il capitolo VII è preoccupato di legare la<br />

fede alle opere buone perché la comunione con Cristo non sia mortua et otiosa, il<br />

capitolo VII offre una splendida descrizione che integra l‟aspetto esistenziale,<br />

fides Deum sibi propter Christum propitium fore, con altre caratteristiche fino a<br />

offrire un‟autentica antropologia spirituale. Una presentazione a parte merita la<br />

convinzione protestante che l‟abbandono fiducioso all‟amore di Dio debba<br />

comprendere l‟incrollabile certezza di essere giustificati. Il dibattito conciliare<br />

nonostante l‟intervento possibilista dei conventuali Costacciaro e Delfino, rifiutò<br />

questa certezza e nel capitolo IX offre frasi di notevole durezza contro la inane<br />

fiducia degli eretici. 23 Se però andiamo al di là delle parole, dobbiamo dire che<br />

l‟intento del concilio è quello di mostrare pure qui il singolare intreccio tra azione<br />

20 Denz 1532.<br />

21 Denz 1529.<br />

22 Denz 1531.<br />

23 Denz 1533.<br />

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di Dio e vita umana; quello che su questo sfondo, intende escludere è ciò che<br />

anche i riformatori escludono e cioè l‟orgoglio e la sopravvalutazione di se stessi<br />

come radice di autoinganno. L‟intento del concilio non è certo quello di negare la<br />

forza dell‟agire salvifico di Dio ma piuttosto, quello di mostrare l‟inadeguatezza<br />

della vita di fede del credente rispetto alla sua radice teologale: questa<br />

inadeguatezza non dubita della misericordia di Dio o dei meriti di Cristo ma della<br />

propria infirmitatem et indispositionem. E‟ questo a legittimare la possibilità del<br />

dubbio. Qui vi è una incomprensione della posizione protestante; in Lutero infatti<br />

la Heilsgewissheit è un‟espressione dell‟agire divino e non una dinamica<br />

psicologica del credente: la fede comprende l‟assoluta certezza che Dio ci<br />

giustifica, non certo la convinzione personale che noi risponderemo positivamente<br />

alla sua grazia. Dobbiamo a Seripando il XVI capitolo sul merito 24 . Qui risulta<br />

chiarissimo come il concilio sia lontano da ogni giustizia che non scaturisca<br />

direttamente da Cristo: è lui, come vite che influisce sui tralci, il fondamento della<br />

nostra dignità etica. Il nostro promereri è legato a un‟azione divina che eorum<br />

opera semper antecedit, comitatur et subsequitur. Anche se il significato del<br />

promereri non è del tutto chiaro, il senso globale dell‟insegnamento conciliare è<br />

evidente; al di là della distinzione tra merito de condigno e de congruo, è chiaro<br />

che per il concilio la grazia giustificante comporta una rinnovazione della persona<br />

e del suo agire che lo rende capace di tendere verso la vita eterna. La citazione di<br />

Gv 4,14 dove l‟acqua viva, donata e accolta, diventa sorgente che zampilla per la<br />

vita eterna è di sicuro illuminante. La comunione di Dio e del giustificato è una<br />

comunione dinamica che rispetta l‟assoluto primato di Dio ma lo declina come<br />

continuamente in grado di comunicarsi ai giustificati per accompagnarli e<br />

sostenerli con la sua grazia. Solo in forza di questa grazia sono graditi a Dio. Il<br />

merito perciò non è una forma di giustizia fondata sulle opere ma è il frutto della<br />

giustificazione: la giustizia di Cristo, l‟unica veramente salvifica, entra in stretta<br />

connessione con la nostra vita fino a fare delle nostre opere buone il risultato<br />

dell‟influenza di Cristo sulla nostra libertà. Attraverso questi due temi, la fede e il<br />

merito, si fa strada una lettura più esistenziale e più storica della grazia:<br />

riconoscendo la nostra pochezza e la nostra indegnità di peccatori, afferma la<br />

realtà di un Dio che si china su di noi per salvarci. Qui la giustizia inerente mostra<br />

meglio come a ispirarla altro non siano che il primato di Dio e l‟affermazione del<br />

realismo salvifico della persona.<br />

24 Denz 1545-1549.<br />

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Il rapporto fra la giustizia inerente e la libertà<br />

Il dichiarato intento antipelagiano del concilio dovrebbe bastare a garantire che il<br />

concilio non intende esaltare indebitamente lo spazio della libertà umana fino a<br />

vederla come autonoma volontà di salvezza. L‟importanza del tema merita<br />

comunque qualche precisazione. Il punto di partenza va indicato, ancora una volta,<br />

nella giustizia inerente vista come criterio di strutturazione del concreto soggetto<br />

storico raggiunto dalla grazia di Dio. La grazia inerente configura una vita<br />

soprannaturalizzata, una totalità personale strutturata e dinamica che si incammina<br />

verso la creatura nuova, cioè verso la realtà di una persona che è posta sotto<br />

l‟obbedienza di Dio. Su questo sfondo prendono corpo le affermazioni conciliari:<br />

il libero arbitrio è attenuato e inclinato ma non estinto 25 ; la libertà si esercita<br />

nell‟assentire e nel cooperare a quella grazia che è preveniente e coadiuvante 26 ; la<br />

grazia ricevuta con la giustificazione cresce cooperante fide bonis operibus 27 . A<br />

interessarci sono in particolare il capitolo X che richiama una crescita della grazia<br />

giustificante e il capitolo V che ricorda invece come ci si prepari alla<br />

giustificazione: in questi capitoli si tratta di chiarire il senso di una libertà che, pur<br />

non essendo salvifica, non è però estinta, non è annullata nel contesto della<br />

giustificazione. Certo non si tratta di affermare una qualche possibilità di giustizia<br />

umana alternativa a quella rivelata nel vangelo; si tratta di cogliere quell‟unità<br />

vitale che permette di vedere la giustizia di Cristo come il principio e il criterio a<br />

partire dal quale ripensare il senso della libertà umana. I padri escludono una pura<br />

passività ma cosa intendono con esattezza quando parlano di una dispositio in<br />

forza della quale convertire se ad suam ipsorum iustificationem, eidem gratiae<br />

libere assentire et cooperare sia pure sullo sfondo di una grazia preveniente e<br />

concomitante? Probabilmente bisogna rifarsi al pensiero di Tommaso che parlava<br />

di una dispositio ultima alla giustificazione; il senso del suo discorso era volto a<br />

superare l‟ambigua nozione di una dispositio negativa, facienti quod in se est,<br />

Deus non denegat gratiam, per avvicinare in profondità le dinamiche umane di<br />

preparazione all‟opera della grazia. Questa tesi sostenuta da O. H. Pesch, avrebbe<br />

il vantaggio di riprendere qui la sostanza dell‟insegnamento di Oranges<br />

sull‟initium fidei. In questo modo tutta la dinamica della giustificazione sarebbe<br />

sotto l‟influsso della grazia: l‟intero processo della giustificazione, dal suo inizio<br />

25 Denz 1521.<br />

26 Denz 1525.<br />

27 Denz 1535.<br />

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alla sua completezza, sarebbe frutto dello Spirito che suscita in noi la capacità di<br />

corrispondere, per grazia e per fede, alla sua azione in noi. Proprio perché ciò<br />

interessa ai padri è cogliere il rinnovamento interiore provocato dalla grazia, essi<br />

lo colgono come un vero movimento di tutta la persona sotto la spinta<br />

dell‟obbedienza a Dio. Sono così portati a ribadire una stretta connessione fra<br />

giustificazione-remissione dei peccati da una parte e santificazione-rinnovamento<br />

della vita personale dall‟altra 28 ; il fatto che questa unità sposti l‟attenzione<br />

dell‟atto divino di giustificazione, cioè della rivelazione di Dio come Dio di<br />

misericordia, allo stato di grazia non deve portare a concludere che i padri<br />

dimenticano il valore fondativo della giustificazione: lo mostra bene il richiamo<br />

delle diverse cause da quell‟efficiente a quella meritoria e finale 29 . Più<br />

semplicemente si dovrà prendere atto che il loro intento è quello di perseguire la<br />

valorizzazione della nuova creatura come mutamento reale prodotto dalla grazia di<br />

Cristo.<br />

Bilancio del concilio<br />

La nostra conclusione sul testo conciliare è del tutto positiva. Impegnato a<br />

riflettere sul tema decisivo della salvezza in un‟epoca che tendeva a divaricare<br />

primato di Dio e libertà umana, il concilio intende ribadire la loro profonda e<br />

vitale unità nell‟unico processo della giustificazione. Non si tratta di una semplice<br />

giustapposizione ma dell‟unità economica-salvifica: Dio rimane Dio proprio nel<br />

salvare l‟uomo peccatore. Per sviluppare questo compito, il concilio si richiamerà<br />

alla precedente visione della grande scolastica medievale e tramite essa, al<br />

patrimonio di fede della tradizione della chiesa. Contro la visione protestante della<br />

grazia extra nos, il concilio affermerà una unità reale fra giustizia di Cristo e<br />

giustizia inerente riconducendo la seconda alla prima e cogliendo, al tempo stesso,<br />

la cristologia come capace di fondare un‟antropologia soprannaturale. Nel far<br />

questo non ha certo dimenticato il canone 22 del concilio di Oranges: nemo habet<br />

de suo nisi mendacium et peccatum; al contrario, la coscienza del peccato umano<br />

ha portato il concilio a vedere la salvezza solo come risultato del rinnovamento<br />

posto in atto dalla grazia. Lo sfondo di questo pensiero è l‟unità di creazione e<br />

redenzione: solo questa unità rende fino in fondo ragione della concezione<br />

tridentina della giustificazione. Questa unità, infatti, non permette di separare il<br />

28 Denz 1528.<br />

29 Denz 1529.<br />

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primato di Dio nell‟opera salvifica dal suo compito creatore; al contrario il<br />

primato salvifico di Dio diventa il criterio che configura la realtà storica di un<br />

uomo, creato per la comunione con Dio, come il fondamento disponibile per quel<br />

dono di grazia che va al di là delle sue forze e dei suoi peccati. Non mi sembra che<br />

questa posizione, sinceramente religiosa, possa essere confusa con la tesi<br />

dominante nella teologia post-conciliare che identifica nella grazia creata e<br />

abituale il centro dell‟esperienza della salvezza; proprio perché il centro è la<br />

comunione con Dio, il cuore della salvezza è qui la presenza delle persone divine:<br />

è la loro presenza a salvare. La giustizia inerente è così l‟espressione di un<br />

realismo salvifico che, sulla scorta dell‟unità di creazione e redenzione, proclama<br />

l‟efficacia dell‟azione divina. Anche in questa visione permane, come è ovvio, una<br />

certa tensione tra l‟agire di Dio e la sua accoglienza da parte umana ma questa<br />

tensione tra grazia e creaturalità/peccaminosità umana non è mai spinta fino a<br />

parlare di una iustitia aliena: l‟uomo salvato dall‟amore di Dio è l‟uomo voluto e<br />

creato a sua immagine da questo stesso amore. In questo senso il tridentino<br />

rifiuterà le posizioni protestanti come estranee alla tradizione cristiana. Il dono<br />

divino di grazia va compreso sullo sfondo di una solidarietà di Dio con noi che,<br />

nei suoi fondamenti, non viene meno nemmeno nei confronti dell‟uomo peccatore.<br />

Su questo punto basilare il concilio ha compreso correttamente il pensiero<br />

protestante e vi ha correttamente risposto. Un discorso diverso si deve fare per la<br />

fede fiduciale: qui i padri sono sembrati incapaci di comprendere la visione<br />

protestante. La ragione va indicata in un quadro teologico che sottolineava il<br />

carattere noetico della fede distinguendola fermamente dalle altre virtù teologali.<br />

La certezza della salvezza non è presunzione vuota o stolta iattanza: è piuttosto<br />

quella ferma speranza nella grazia di Dio, che tutti devono avere 30 . La legittimità<br />

del dubbio sulla propria salvezza, di cui parla il concilio 31 , è relativa alle nostre<br />

forze e non alla grazia di Dio. Qui la divaricazione dei linguaggi e dei riferimenti<br />

culturali ha bisogno di mediazione per non diventare, troppo alla svelta, necessaria<br />

contrapposizione.<br />

Il momento teologico del dibattito: la teologia post-tridentina<br />

Non si tratta, se non in senso lato, di una prosecuzione del dibattito<br />

antiprotestante; la pace di Vestfalia, in realtà aveva sanzionato la divisione<br />

30 Denz 1541.<br />

31 Denz 1534.<br />

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dell‟Europa centrale attutendo lo scontro confessionale. Al di là della stagione<br />

controversista, pesa sull‟interlocutore una squalifica e un disinteresse: il<br />

protestantesimo, cioè, è presente più come errore da condannare che come<br />

credibile partner teologico. Un dato va segnalato ed è lo scarso influsso che le tesi<br />

conciliari avranno sulla seguente teologia della grazia: per i motivi già ricordati,<br />

finirà per imporsi una lettura abituale e accidentale della grazia creata, quale è<br />

presente nelle opere di A. De Vega. L‟affermarsi di questa visione, indebitamente<br />

fatta risalire al tridentino, porterà a una lettura della salvezza dove la stessa<br />

presenza di Dio, la stessa inabitazione, è esigita in forza della grazia creata. Il dato<br />

di fondo di questo periodo post-conciliare è lo scontro fra questa nascente<br />

mentalità che concepisce la grazia in modo oggettivato e gli ultimi testimoni<br />

dell‟agostinismo. A. Ganoczy cerca di collegare più fortemente questi dibattiti al<br />

patrimonio tridentino leggendoli come modi diversi di intendere la libertà<br />

chiamata a cooperare all‟opera della grazia: i gesuiti l‟intenderebbero in una<br />

chiave apostolica mentre gli altri la riprenderebbero in una linea più attenta a<br />

ribadire il valore dell‟amore di Dio. La lontananza quasi estraneità, di questi<br />

dibattiti dall‟attuale coscienza di fede mi spinge a offrire un rapido cenno,<br />

rimandando ad altri testi per il loro approfondimento.<br />

Il molinismo e la controversia De Auxiliis<br />

Questa controversia inizia con una pubblica discussione sulla libertà di Cristo,<br />

tenuta a Valladolid nel 1582, ma si radicalizza quasi subito come scontro a<br />

proposito del modo di intendere i rapporti fra grazia e libertà. Il problema<br />

pienamente legittimo, ha la sua origine in due diverse maniere di intendere la<br />

libertà: per i teologi di Valladolid la libertà è intesa scolasticamente come<br />

possibilità di scelta e, perciò sta a fianco della grazia come indipendentemente da<br />

essa; per i teologi di Salamanca è invece da intendersi agostinianamente come<br />

capacità di bene, e perciò ha una stretta dipendenza dalla presenza o dall‟assenza<br />

di grazia. Questa differente ispirazione confluirà nei contrapposti sistemi teologici<br />

di D. Banez e di L. Molina- L. Lessio. L‟impostazione metafisica porterà a D.<br />

Banez a collocare la libertà entro l‟assoluto primato di Dio correlandola a esso<br />

attraverso i decreti predeterminanti, mentre l‟impostazione esperienziale ed etica<br />

di L. Molina e la polemica di L. Lessio con il calvinismo predestinazionista dei<br />

Paesi Bassi porterà ad affermare la libertà dell‟uomo nel quadro di una identità in<br />

actu primo di grazia sufficiente e grazia efficace, di una predestinazione post<br />

previsa merita e di una scientia media attraverso cui Dio coglie la libera risposta<br />

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dell‟uomo. La storia della controversia è piuttosto lunga e noiosa: si sviluppa dalla<br />

contrapposizione dei due sistemi alle congregazioni de auxiliis radunate per<br />

risolvere lo spinoso problema, dalla più volte pronta, ma mai emanata, condanna<br />

del molinismo come forma di pelagianesimo al divieto che Paolo V farà alle<br />

scuole di censurare l‟opinione avversaria. L‟intervento dei superiori dei<br />

dominicani e dei gesuiti che obbligheranno i teologi dei rispettivi ordini a<br />

difendere il banezianesimo o il molinismo sarà una ragione in più per radicalizzare<br />

tutta la questione. Mi sembra importante offrire a riguardo qualche osservazione.<br />

La prima riguarda l‟accettazione del molinismo nel quadro della teologia cattolica:<br />

la sua dichiarata ortodossia equivale ad accettare la libertà umana come un valore<br />

in sé, come una realtà non strumentalizzabile neppure per affermare il primato di<br />

Dio. Vi è qui un guadagno che nessun credente potrà più lasciare perdere:<br />

l‟ortodossia del molinismo equivale a dire che l‟affermazione della libertà umana<br />

non è automaticamente pelagianesimo. Naturalmente il molinismo sottolinea<br />

questo più come prospettiva e come esigenza che non come reale soluzione.<br />

Perciò al di là delle polemiche di scuole, si deve vedere qui una conquista della<br />

fede della chiesa che, se anche raggiunge una delle corde più vive dello spirito<br />

moderno, rimane nell‟ambito della fedeltà alla tradizione. Detto questo non si<br />

potrà fare a meno di annotare l‟andamento sostanzialmente filosofico di tutto<br />

questo dibattito sul primato di Dio e la libertà. I due sistemi lasciano l‟impressione<br />

di perdere di vista il vero senso di Dio salvatore e signore, per cercare di<br />

impadronirsi razionalmente del mistero delle sue trascendenti decisioni: ne viene<br />

una sorta di antropomorfismo dove Dio è pensato secondo un metro umano fino a<br />

porre una antitesi, un antagonismo fra Dio e l‟uomo. Ognuno dei due appare il<br />

limite dell‟altro in una sorta di tunnel oscuro privo di uscite: ciò che si dà a Dio è<br />

tolto all‟uomo e viceversa. Non si può che ritenere che la questione legittima dei<br />

rapporti fra grazia e libertà sia qui male impostata e abbia bisogno di una nuova<br />

riflessione; in realtà occorre partire dal Dio vivente e dalla sua volontà di salvezza<br />

così da cogliere la sua misericordia e il suo amore come l‟ambito per la vita<br />

umana e non come il suo limite, come lo spazio per l‟esistenza della persona e non<br />

come la sua negazione. Solo dopo che la libertà umana sia stata posta in Dio come<br />

nella sua più vera salvaguardia, si potrà vedere la differenza fra l‟atto buono e<br />

l‟atto peccaminoso, fra l‟aderire a Dio o il rifiutarsi a lui: la fondazione metafisica<br />

della libertà non può essere uno statuto di neutralità fra il bene e il male. La<br />

soluzione dei rapporti fra primato di Dio e libertà dell‟uomo deve tener conto di<br />

tutta la tradizione che, pur riconducendo l‟atto buono alla grazia, conosce e lascia<br />

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spazio alla libertà fallibile dell‟uomo. Bene e male non possono venire<br />

neutramente assimilati in una superiore sovraordinazione alla libertà: proprio<br />

perché la libertà si fonda in Dio, è il bene a realizzarla come adesione a quel Dio<br />

che salva. L‟intera controversia invece si muoverà al di fuori di queste visioni e<br />

risulterà filosofica nelle sue argomentazioni. Esasperando i suoi termini, si<br />

potrebbe dire che mira a dissolvere il mistero dell‟incontro tra la grazia divina e la<br />

libertà umana in una impossibile anticipazione logica invece di collocarsi<br />

all‟interno del disegno di Dio per crescere nell‟adesione a Dio di grazia. La<br />

legittimità del problema, ed anche la sua importanza, finisce così per svuotarsi nel<br />

concreto andamento del suo dibattito.<br />

Il problema della tradizione agostiniana: oltre un’antropologia storica?<br />

La controversia de auxiliis può spiegare il significato della sopravvivenza e della<br />

rinascita di interesse per l‟agostinismo. L‟ansia di non giustapporre la creatura al<br />

creatore, la preoccupazione di non porre Dio nell‟ambito della libertà umana, la<br />

volontà di non intendere la provvidenza divina come un rigido e normativo agire<br />

spiega il ritorno di Agostino di tanti sinceri credenti e teologi. Tra questi vanno<br />

indicati gli eremitani di s. Agostino tra i quali spiccano soprattutto E. Noris, G.<br />

Berti e F. Belleli ma anche il teologo di Lovanio M. Baio e i molti autori<br />

giansenisti da C. Giansenio all‟abate di Saint Cyran, da B. Pascal ad A. Arnauld e<br />

molti altri. Nascerà così un vero dibattito attorno ad Agostino tanto che la<br />

condanna degli autori che vi si ispirano produrrà come conseguenza, l‟abbandono<br />

di ogni rimando al maestro di Ippona. Tenendo presente che si tratta di<br />

controversie discusse tanto nella loro ricostruzione quanto nella loro<br />

interpretazione, mi pare utile per il mio intento offrire solo qualche nota di<br />

inquadratura. In accordo con H. De Lubac e in parte con J. H. Walgrave, ritengo<br />

che il pensiero di M. Baio sia animato da un ingiustificato ostruzionismo<br />

metafisico ispirato da un positivismo che lo mantiene aperto alla sola storia<br />

salvifica, vista quale unica possibilità di comprensioni delle intenzioni di Dio; la<br />

sua relazione alla scolastica risulterà alla fine fuorviante. Costruendo in positivo il<br />

suo pensiero in termini storici, parlerà di natura integra per indicare la situazione<br />

del primo uomo creato da Dio che egli, fraintendendo la tradizionale visione del<br />

soprannaturale e perciò anche dell‟uomo, pensa commisurata anche nel fine alle<br />

esigenze create; allo stesso modo parlerà dell‟atto morale e meritorio del primo<br />

uomo, del suo operare buono, quasi lasciando a parte la sua dignità<br />

soprannaturale. La sua riluttanza al comune linguaggio metafisico darà origine a<br />

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una teologia dell‟agire soprannaturalizzato, almeno apparentemente indipendente<br />

dalla grazia che rinnova la persona. Ovviamente a questa immagine ideale della<br />

persona umana prima del peccato corrisponde una situazione del tutto diversa<br />

dopo il peccato; l‟uomo sta ormai totalmente sotto il dominio del peccato da cui<br />

viene salvato solo per mezzo di quell‟amore divino che lo Spirito riversa nei cuori<br />

umani. Allo stesso modo Giansenio partirà da Agostino per ripensare i rapporti fra<br />

grazia e libertà tanto nell‟Adamo innocente quanto in noi peccatori: mentre Baio<br />

legge questi rapporti nel quadro di una natura integra e della sua capacità di<br />

meritare, Giansenio sottolinea a tal punto la forza della grazia che anima la libertà<br />

innocente di Adamo da vedere lo stato di giustizia originale come lo stato di una<br />

natura sana e forte in cui l‟uomo, in conseguenza del dono con cui Dio è fedele<br />

alla sua sapienza e alla sua bontà, poteva effettivamente compiere il bene, il<br />

peccato originale e la redenzione, nel pensiero del vescovo di Ypes, capovolgono<br />

la situazione e portano a sottolineare la profonda distanza fra il merito che<br />

caratterizza Adamo e la grazia che qualifica la nostra condizione di peccatori<br />

salvati: Giansenio parlerà di questa grazia come grazia efficace e invincibile che<br />

Dio dà liberamente agli eletti per il Regno; allo stesso modo parlerà della<br />

corruzione della capacità morale della persona, nell‟attuale condizione storica<br />

dominata dalla concupiscenza. Legata alla sua visione della grazia efficacia,<br />

Giansenio presenterà infine la morte di Cristo come avvenuta solo per gli eletti:<br />

non una goccia del suo sangue redentore, infatti potrebbe andare perduto. La<br />

valutazione di queste controversie è complessa. Non è però sostenibile<br />

l‟affermazione che con la condanna di Baio e di Giansenio, si abbia anche la<br />

condanna di Agostino e la definitiva separazione dal cattolicesimo da lui. E‟ vero<br />

che un effetto di rimbalzo di queste controversie fu l‟abbandono dello studio di<br />

Agostino, ma non sarebbe corretto appiattire Agostino su questi due autori che<br />

come ricorda H. De Lubac, sono due agostiniani fuorviati. Nemmeno pare<br />

giustificato il tentativo da parte della storiografia recente per una loro piena<br />

valorizzazione. La loro condanna infatti permette di cogliere la permanenza di una<br />

concezione cattolica in cui la salvezza è l‟agire di un Dio che sostiene e stimola la<br />

nostra volontà di bene: se è vero che non vi è bene che non venga da Dio, si dovrà<br />

però evitare di esaltare Adamo o di abbassare l‟attuale condizione umana fino a<br />

sembrare di porre come una separazione tra Dio e l‟uomo. L‟uomo non si gloria<br />

che in Dio, ma la gloria di Dio è l‟uomo vivente. Entro queste visioni nascerà una<br />

comprensione del soprannaturale come ciò che constitutive, exigite, consecutive,<br />

non è dovuto alla persona umana. Queste precisazioni sono comprensibili fino in<br />

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fondo solo là dove il rapporto dell‟attività morale con il Dio che ricompensa è<br />

situato all‟interno del rapporto più globale della natura umana con quel Dio che gli<br />

si comunica. Solo ritrovando il tema della presenza e della comunione santificante<br />

con le persone divine si può cogliere davvero il carattere soprannaturale del dono<br />

divino all‟uomo intelligente e insieme il suo profondo realizzare le dimensioni<br />

proprie dello spirito creato. In un contesto diverso da queste precisazioni, la stessa<br />

nozione di natura umana verrebbe profondamente falsata: è ciò che avverrà nei<br />

dibattiti suscitati da queste controversie. Invece di cogliere l‟uomo aperto a quel<br />

dono di Dio che rimane infinitamente superiore alle sue forze, questi teologi<br />

inclineranno a una opposizione tra grazia e libertà, così da descrivere l‟uomo o nel<br />

suo alzarsi orgogliosamente fino a Dio come l‟Adamo capace di meritare o nel suo<br />

abbattersi rovinosamente nel peccato per la sua nullità senza la grazia. Che poi a<br />

partire da ciò, si derida la libertà di scelta come la libertà dell‟asino di Buridano,<br />

cogliendo così il limite filosofico del molinismo e del suarezianesimo, non assolve<br />

questi autori dall‟essersi collocati in una prospettiva falsamente tradizionale.<br />

Contro P. Fransen, perciò non ritengo che la loro nozione di natura, nemmeno<br />

quella baiana, sia equiparabile all‟autentica autonomia della persona entro cui<br />

cogliere e interpretare la grazia: si tratta piuttosto di una concezione falsata di<br />

autonomia dopo l‟elevazione dell‟uomo non sa sintetizzare in modo adeguato il<br />

primato di Dio e la libertà della persona.<br />

Il suarezianesimo<br />

Questa corrente di pensiero va collocata all‟interno di un‟epoca entusiasta<br />

dell‟uomo, delle sue scoperte e delle sue possibilità. Nel dialogo con una simile<br />

esperienza, i teologi finiranno per perseguire una esaltazione della dignità della<br />

persona umana, intesa come base per un incontro con il mondo dell‟uomo e per<br />

una sua più agevole cristianizzazione. Lo sfondo dottrinale per questo dialogo è<br />

costituito dalla distinzione tra theologia naturalis o trattazione razionale o<br />

theologia supernaturalis o teologia propriamente detta: questa distinzione<br />

permetteva di recuperare un preciso corpo di dottrine cristiane, affrontabili anche<br />

filosoficamente, su cui aprire un dialogo con il mondo moderno. L‟antropologia<br />

verrà considerata all‟interno della theologia naturalis, in particolare all‟interno<br />

della dottrina della creazione, e verrà letta in termini aristotelico-tomisti: la<br />

questione dell‟anima, delle sue facoltà e della sua composizione con il corpo, ne<br />

sarà il contenuto. Sul piano propriamente teologico la tematica della salvezza<br />

donata da Dio vedrà un‟accentuazione della grazia creata che, unita a una cattiva<br />

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lettura del tridentino, ne farà l‟unica causa formale della giustificazione. Verrà a<br />

galla un‟ontologia della grazia creata che configura un‟entatività statica e avulsa<br />

dalla vita, in forza della quale Dio si rende presente all‟uomo. Del suarezianesimo<br />

andrà apprezzato il fortissimo impegno apostolico, missionario ed ecclesiale che<br />

ha espresso. Non si può però prendere le distanze da una teologia che rapporta<br />

natura e sopra natura nei termini di una dispositio negativa, se appena lo si legge<br />

sullo schema dell‟atto salutare, dell‟atto cioè che conduce alla vita eterna in forza<br />

della grazia di Cristo: la distinzione tra capacità di evitare il peccato e buona<br />

azione morale appare concettualmente astratta. Tocchiamo qui l‟eccessiva<br />

separazione tra stato naturale e soprannaturale che, a volte, si fa addirittura<br />

esteriorismo ed estrinsecismo. Il dato emerge con forza sia nella questione della<br />

preparazione alla grazia e della conversione, sia nel problema della salvezza dei<br />

non-cristiani che si pone con urgenza dopo le scoperte geografiche, sia con la<br />

concezione dello stato dopo il peccato come stato di natura pura, come semplice<br />

spoliazione, tamquam spoliatus a nudo e non come corruzione. Si arriva a una<br />

visione eccessivamente positiva e ottimista della natura umana che, per il solo<br />

fatto di evitare il peccato mortale, sarebbe già naturalmente orientata alla salvezza,<br />

faciendi quod in se est, Deus non denegat gratiam. Non si può dare che un<br />

giudizio severo su questa teologia: l‟esaltazione dell‟uomo e dei suoi sforzi riduce<br />

l‟esperienza quasi a un moralismo a cui, da fuori, si aggiunge il dato<br />

soprannaturale della viva presenza di Dio. Lo stesso dialogo con la società respira<br />

il clima umanistico di una filosofia che si unisce al razionalismo nell‟esaltare le<br />

capacità della ragione umana e nel combattere le tesi protestanti e gianseniste di<br />

una radicale corruzione della persona umana. In questo clima di pensiero si<br />

perderà addirittura la tipicità stessa dell‟antropologia cristiana: avverrà con il tema<br />

della natura pura, a cui dedico qualche specifica osservazione.<br />

La perdita della tipicità dell’antropologia cristiana<br />

J. Alfaro ha mostrato come la nozione di natura pura non abbia la sua origine<br />

nelle controversie del XVI secolo ma risalga alla tardo-scolastica e forse<br />

addirittura a Tommaso per il quale la natura umana manterrebbe un suo senso<br />

anche senza la sovraordinazione soprannaturale per altro storicamente certa.<br />

L‟osservazione è interessante ma ha più il valore di una puntualizzazione storica<br />

che non di una smentita delle tesi di H. De Lubac; per questi la nozione di natura<br />

pura realizzerà, a partire dal XVI secolo, un reale sfaldamento della tipicità<br />

dell‟antropologia cristiana. In una linea anche gli studi di J. Auer e H. A. Oberman<br />

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confermano, H. De Lubac colloca l‟origine di questa nozione nel XV-XVI secolo:<br />

affonderebbe le sue radici nell‟uso arbitrario e cervellotico del potentia Dei<br />

absoluta proprio del nominalismo, nel tentativo di risolvere il problema dei<br />

bambini morti senza il battesimo, ai quali non si addiceva la visione beatifica, ma<br />

ai quali non si voleva nemmeno infliggere l‟eterna condanna e, infine nel filone<br />

umanistico del XV secolo volto a valorizzare una religiosità universale e naturale.<br />

L‟affermazione teologica di questa categoria però si dovrà al Caietano e al Suarez.<br />

Con loro la natura pura non è più soltanto un‟ipotesi ordinata all‟affermazione<br />

della gratuità del soprannaturale ma diventa un vero e proprio ordine storico, una<br />

vera e propria interpretazione della realtà. Poiché ogni sostanza naturale ha un fine<br />

connaturale a cui tendere e dei mezzi proporzionati per raggiungerlo, ecco che la<br />

persona umana, letta alla luce della natura pura, sarà presentata come ordinata a<br />

una beatitudine strettamente naturale, rispetto alla quale ogni fine più alto non può<br />

che essere aggiuntivo. Nascerà così una visione dell‟ordine soprannaturale come<br />

accessorio e secondario rispetto a una natura umana considerata autosufficiente.<br />

Contropartita di questa tesi sarà un‟interpretazione della gratuità del<br />

soprannaturale in senso puramente negativo: invece di definire un rapporto con<br />

Cristo, il soprannaturale indica solo ciò che non è dovuto. Stanno qui i drammi di<br />

una concezione teologicamente ambigua e insufficiente. Se inizialmente il doppio<br />

fine poteva apparire lo strumento concettuale necessario per salvaguardare la<br />

chiesa da una totale identificazione con il mondo e per indicare lo spazio di una<br />

autonomia dello stato, finirà però per originare una distanza, una neutralità<br />

dell‟esperienza cristiana rispetto alla storia. Attorno al fine naturale nascerà<br />

l‟equivoco antropologico di un uomo amputato della sua relazione all‟assoluto e<br />

della sua finalità trascendente; emergerà un homo physicus, un uomo che vive<br />

secondo la sua ragione, un uomo che si rapporta alle cose e alle persone nella linea<br />

dell‟homo faber e dell‟animal politicum. Ormai è un uomo lontanissimo dalla<br />

descrizione biblica e patristica dell‟immagine di Dio; ormai la tipicità cristiana<br />

della persona è andata persa: al massimo potrà sapere negativamente che la sua<br />

felicità non sta in questo o in quell‟altro bene creato ma non saprà positivamente<br />

decidersi per quel Bene sommo che è il suo Dio.<br />

Bilancio di un’epoca<br />

Questa epoca come abbiamo visto, è un‟epoca complessa, percorsa da più filoni e<br />

tendenze; per ciò stesso, è un‟epoca difficile da inquadrare. Per farlo bisogna<br />

ricordare che il suo problema era quello di ricomprendere il tema cristiano della<br />

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salvezza in un contesto culturale nuovo, segnato dall‟autonomia e dalla<br />

soggettività umana. Mentre la fede e la tradizione esigevano che l‟essere-persona<br />

fosse il frutto della relazione di salvezza posta in atto da Dio, fosse il frutto della<br />

grazia, il dibattito tridentino attorno alla giustificazione e quello scolastico sui<br />

rapporti tra natura e grazia appariranno episodi culturalmente determinati di un più<br />

vasto e decisivo problema. In questo senso il dibattito teologico si configura come<br />

un momento di incontro, anche se non sempre del tutto consapevole, con il<br />

decisivo problema moderno della soggettività. Su questo sfondo si può cogliere il<br />

senso delle differenze confessionali tra cattolici e protestanti, prima che come<br />

problema controversiale, come sensibilità e accenti diversi circa la questione della<br />

soggettività. Mentre la riforma vede come decisivo il rapporto tra il Dio di grazia e<br />

la storia di peccato propria di un uomo peccatore, il cattolicesimo accentua<br />

l‟attenzione della creaturalità come fonte di un rapporto e di una positività che non<br />

può andare persa. A partire da qui il discorso sulla natura umana, sul suo carattere<br />

analogico e non puramente dialettico, sulla sua funzione all‟interno del disegno di<br />

grazia, sulla sua capacità di accoglienza del dono di Dio. Il fatto che tutto un<br />

filone teologico accentui le prospettive di una natura pura e autosufficiente e<br />

stravolga il discorso della grazia con la centralità della grazia creata non<br />

impedisce di cogliere che, mentre il protestantesimo elude il problema attestandosi<br />

attorno all‟originarietà del fatto cristiano difeso da ogni riduzione metafisica, il<br />

cattolicesimo si misura con la consistenza della libertà dell‟uomo, affermata<br />

insieme e in forza del primato di Dio. Procedendo per questa linea la riforma finirà<br />

per destoricizzare la storia salvifica rinchiudendola nell‟incontro, proprio della<br />

fede fiduciale, tra la parola di misericordia e la realtà peccaminosa dell‟uomo; il<br />

cattolicesimo, invece avrà il problema di chiarire la consistenza storica della<br />

libertà all‟interno della vita di grazia: le controversie di questo periodo dicono che<br />

non si tratterà di un compito facile; si avvierà a soluzione non già prolungando la<br />

riflessione sulla soggettività ma ritrovando, alla luce di una rinascita biblica e<br />

tradizionale, i tratti autentici della persona credente, che sarà il compito del XX<br />

secolo.<br />

4. L’estraneità della teologia dell’evoluzione dell’antropologia moderna<br />

a. La sistemazione di Ch. Wolff e la nascita della manualistica<br />

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Esporre i fondamenti del discorso teologico sull‟uomo esige anzitutto di tener<br />

conto del cammino, ricco di insegnamento e provocazioni, che la storia della<br />

teologia ha compiuto in questo campo. In secondo luogo si tratta di presentare le<br />

scelte di fondo e la prospettiva che orientano il percorso che verrà proposto (vedi<br />

la parte tra cristologia e antropologia). Volendo fornire un rapido schizzo del<br />

cammino storico compiuto dall‟antropologia teologica è opportuno fare da subito<br />

una precisazione. Mentre l‟attenzione alle problematiche relative all‟uomo è<br />

sempre stato un dato rilevante nella riflessione teologica di ogni tempo e scuola,<br />

l‟elaborazione di una trattazione specifica e completa è relativamente recente.<br />

L‟attenzione sarà rivolta all‟antropologia teologica intesa come disciplina del<br />

sapere teologico dotata di una precisa configurazione di contenuto e metodo. Sono<br />

due le tappe fondamentali che la storia della teologia documenta: in primo luogo<br />

va considerato il tentativo di una trattazione unitaria sull‟uomo realizzato<br />

all‟interno del genere letterario del manuale (1a. La trattazione manualistica<br />

sull’uomo) e la sua messa in discussione all‟interno del rinnovamento realizzato<br />

dalla teologia cattolica in questo secolo (1 b. La messa in questione della teologia<br />

del manuale). Fra gli elementi più significativi di tale rinnovamento si possono<br />

indicare due prospettive, profondamente unite tra di loro, indispensabili per<br />

l‟elaborazione di una adeguata antropologia teologica: esse sono rispettivamente<br />

una migliore comprensione del principio di rivelazione (2 a. La rivelazione come<br />

evento), da cui deriva l‟esigenza di una rigorosa articolazione cristocentrica del<br />

sapere teologico (2b. Il cristocentrismo obiettivo). Sulla nascita dell‟antropologia<br />

teologica bisogna parlare della trattazione manualistica sull‟uomo. Solo con il<br />

XIX secolo l‟espressione antropologia teologica o antropologia soprannaturale,<br />

incomincia a designare la raccolta sistematica delle affermazioni teologiche<br />

sull‟uomo. La scienza teologica seguendo la strada intrapresa nel XVIII secolo da<br />

Christian Wolff (1679-1754) per ordinare in un sistema il sapere filosofico,<br />

incomincia a produrre nel secolo scorso, testi che appartengono al genere<br />

letterario del manuale. Nasce così nell‟ambito della teologia, un manuale<br />

specificatamente dedicato all‟antropologia che si propone di raccogliere in unità le<br />

diverse problematiche che nella tradizione teologica pre-moderna, soprattutto in<br />

quella del pensiero patristico e scolastico, venivano trattate in diversi contesti.<br />

Come si vedrà subito l‟interesse antropologico non coincide di fatto con<br />

l‟elaborazione di un trattato di <strong>Antropologia</strong> teologica: questa tappa sarà compiuta<br />

solamente negli ultimi decenni di questo secolo. Concretamente nella seconda<br />

metà del XIX secolo, fa la sua apparizione un nuovo trattato dal titolo De Deo<br />

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creante et elevante, nel quale viene raccolta buona parte della materia relativa<br />

all‟uomo prima sparsa in diversi capitoli nel discorso teologico. Il contenuto di<br />

questo nuovo trattato è lo studio dell‟esito dell‟atto creativo di Dio secondo<br />

un‟articolazione tripartita: il mondo, gli angeli, l‟uomo. A proposito di<br />

quest‟ultimo poi vengono messe in luce tre questioni centrali: l‟uomo nella sua<br />

natura di anima e corpo; il fine soprannaturale dell‟uomo, la condizione decaduta<br />

dell‟uomo dopo il peccato originale. Gli storici della teologia hanno rilevato<br />

concordemente un fatto singolare. Questo trattato è nato e si è sviluppato in<br />

sostanziale autonomia da quello già esistente sulla grazia. Quest‟ultimo infatti<br />

prende corpo nel secolo XVII come messa a punto sintetica delle complesse<br />

controversie che attraversano la teologia cattolica a partire dalla riforma luterana.<br />

L‟interesse antropologico è evidente: l‟opposizione alla riforma mette in gioco un<br />

modo di concepire l‟uomo, la sua libertà, la forma stessa del suo rapporto con Dio.<br />

Nonostante ciò i due trattati rimangono di fatto l‟uno estraneo all‟altro, impedendo<br />

la realizzazione di una convincente sintesi antropologica. Le ragioni sono le<br />

seguenti. Il De Deo creante et elevante, già nel suo impianto bipartito, sembra<br />

costituirsi in modo acritico, all‟interno del discorso teologico, la separazione tra<br />

fede e ragione, propria della modernità. Così alla domanda su cosa sia l‟uomo, il<br />

trattato risponde elaborando un profilo della sua natura creata, costruito seguendo<br />

il percorso della cosmologia filosofica. In essa si presenta anzitutto Dio come<br />

origine e causa di tutte le cose create compreso l‟uomo. In secondo luogo si può<br />

universalmente riconoscere come vero nella descrizione dell‟uomo viene tutto<br />

affidato alla nozione di natura. Lo specifico teologico della trattazione di questi<br />

due temi si limita per lo più, a mostrare la congruenza di questi elementi con i dati<br />

presenti nella Rivelazione. La trattazione dell‟evoluzione dell‟uomo assume di<br />

conseguenza, un andamento tutto particolare: si riduce ad una riflessione sulla sua<br />

chiamata a partecipare alla vita divina(la cosiddetta elevazione soprannaturale).<br />

Essa è pensata però come un fattore che si aggiunge ad un soggetto già totalmente<br />

costituito, quasi fosse un elemento senza alcuna implicazione con l‟interrogazione<br />

fondamentale dell‟antropologia: “Chi è l‟uomo?”. Tale chiamata rischia di essere<br />

concepita come irrimediabilmente accessoria ed estrinseca, certamente gratuita ma<br />

nello stesso tempo quasi incidente ai fini di determinare la verità sull‟uomo. Nella<br />

manualistica i trattati di antropologia teologica erano parecchi: andavano dal De<br />

Virtutibus al De Novissimis al De peccato originali; i principali però erano il De<br />

Gratia e il De Deo creante et elevante. Qui mi interesserò soprattutto degli ultimi<br />

due. Va detto subito che una trattazione sistematica, nel senso che al termine<br />

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diamo oggi non esiste prima dell‟epoca moderna. Non che si trattasse di parlare<br />

dell‟uomo; tuttavia le questioni a suo riguardo erano sparse in diversi settori del<br />

sapere teologico. I padri ad esempio parlavano dell‟uomo nel contesto della<br />

creazione e del commento ai capi iniziali della Genesi o nel contesto delle<br />

spiegazioni battesimali; Tommaso dedica ampi squarci di questioni<br />

all‟antropologia, dedica Ia IIae, q.109-114 al tema della grazia ad esempio, ma<br />

molto altro materiale è presente un po‟ ovunque nella Summa Theologica. Il<br />

motivo ultimo di questa presenza di una trattazione organica va ricercato nello<br />

scarso interesse di quelle epoche per le realtà terrene: non avevano per loro, la<br />

forza di coagulare un interesse preciso, dato che la vita terrena era ordinata a<br />

quella celeste e che l‟uomo era il pellegrino incamminato verso la patria del cielo.<br />

Il crollo del mondo medievale e l‟emergere dell‟umanesimo condurrà ad una<br />

rivalutazione dell‟uomo mentre l‟investigazione scientifica della natura darà un<br />

nuovo orientamento alla scienza. In questo nuovo contesto sorgono i trattati<br />

scolastici De Deo creatore e De Gratia. Un esempio tipico di questa teologia si ha<br />

in F. Suarez (+ 1611). Il suo De Deo rerum omnium creatore inizia distinguendo<br />

una conoscenza di Dio assoluta da una conoscenza di Dio relativa; la prima riflette<br />

su Dio in se stesso e perciò, affronta i temi della natura divina e dei suoi attributi e<br />

la problematica delle persone divine, mentre la seconda riflette su Dio nei rapporti<br />

con le creature. Questa distinzione rispecchia quella propria dell‟epoca tra<br />

theologia supernaturalis, formulabile solo in base alla rivelazione, e una theologia<br />

naturalis, che si avvale dell‟apporto della ragione. L‟intento di questa distinzione<br />

era quello di favorire, attraverso la theologia naturalis, un incontro e un confronto<br />

con l‟umanesimo nascente, accettando la sfida della ragione e opponendosi al<br />

tempo stesso al pessimismo protestante. F. Suarez lo dichiara a tutte lettere<br />

quando, nell‟introduzione, formula l‟orientamento e il metodo del suo lavoro; per<br />

lui lo studio di Dio nel suo rivolgersi alle creature non può avvenire che nella<br />

forma del rapporto di causa-effetto: di conseguenza il titolo di creatore sarà<br />

illustrato sotto il profilo della causa efficiente e della causa finale presentando Dio<br />

come l‟autore e il fine del mondo. Quanto al contenuto, distingue due parti: l‟atto<br />

creatore per primo e lo studio delle creature per seconde. Queste ultime sono<br />

distinte in creature spirituali o angeli e in creature materiali o risultato di sei giorni<br />

della Genesi; nell‟ambito della creazione materiale colloca anche la creazione del<br />

primo uomo nello stato di innocenza ma da essa distacca la trattazione dell‟uomo<br />

perché osserva inter omnes creaturas singularem habet corporis ac spiritus<br />

compositionem. Questa concessione non toglie che alla fin fine, collochi l‟uomo<br />

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nell‟ambito della realtà materiale, sacrificandone la specificità. Il suo interesse si<br />

ferma soprattutto sull‟anima ed è preoccupato di preparare il terreno per il<br />

problema morale. Nonostante la sua riduttività questa impostazione farà scuola.<br />

La ritroviamo nel De Deo creante et elevante che si costituirà nell‟ambito della<br />

neoscolastica e il cui primo autore è D. Palmieri nel 1878. L‟aggiunta del De Deo<br />

elevante estrapola le tesi della condizione originaria e del peccato di Adamo e ne<br />

fa un blocco a sé in base ai risultati scaturiti dalla controversia baiano-giansenista.<br />

In pratica l‟intento ultimo di questi lavori, che era quello di rendere ragione<br />

all‟uomo, non viene raggiunto; abbandonata la prospettiva storico-salvifica di<br />

Agostino e la complessa visione medioevale, descrivono l‟uomo come natura, cioè<br />

lo descrivono con categorie cosmologiche: ad esse rimane, alla fin fine,<br />

logicamente subordinata la stessa presentazione dell‟anima. Questa visione,<br />

indipendentemente dall‟alleanza, risulta filosofica e dimentica ogni<br />

determinazione cristologica. Su questo sfondo il rapporto con la grazia, benchè<br />

affermato, non può che risultare accessorio e marginale. Il De Gratia invece nasce<br />

nell‟ambito della teologia controversista. Questa teologia aveva isolato le<br />

questioni dibattute fra cattolici e protestanti per discuterle in modo polemico e<br />

settoriale, teso più a smontare le posizioni dell‟avversario che a formalizzare in<br />

modo globale il proprio pensiero. Queste controversie vengono raccolte attorno a<br />

quattro dimensioni e cioè la Scrittura, la chiesa, i sacramenti e la giustificazione,<br />

offrendo un primo nucleo al futuro De Gratia. Ben presto però la parzialità e la<br />

farraginosità di un simile procedere, R. Bellarmino enuncerà ben millecento punti<br />

di controversia, spingerà a raccogliere le controversie in brevi sintesi, separando le<br />

verità di fede dal resto. Alle controversie si rimprovera tanto di aver abbandonato<br />

le questioni fondamentali per far spazio a tematiche singole quanto un eccesso di<br />

polemica che rende difficile separare la dottrina della chiesa dalle polemiche di<br />

scuola. Da qui l‟abbandono dei dibattiti scolastici ed il ritorno all‟insegnamento<br />

ecclesiale; nascerà così quella teologia che, almeno a partire dal secolo XVII, Y.<br />

Congar chiamerà teologia dogmatica. Nel suo ambito sorgerà il De Gratia. Un<br />

esempio tipico è il Tractatus De Gratia Dei seu De Deo salvatore, iustificatione et<br />

liberi arbitrii adiutore per gratiam suam di F. Suarez. L‟autore indica chiaramente<br />

i riferimenti del suo pensiero là dove, a introduzione, discute come non<br />

sufficientemente preciso il titolo della Ia-IIae, q. 109 De exteriori principio<br />

humanurom actuum, scilicet gratia Dei. F. Suarez teme che questa formulazione<br />

riecheggi il pelagianesimo che, identificando la grazia con la legge e la dottrina<br />

divina, ne aveva fatto una realtà esteriore all‟uomo; per quanto distingue tra Dio e<br />

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la grazia: accetta che si dica che la grazia è principio esterno solo nel senso che<br />

non proviene da noi ma da altri, da Dio, mentre la ritiene realtà salvifica interna<br />

all‟uomo, cosa che del resto riconosce volentieri allo stesso Tommaso. Queste<br />

precisazioni ci chiariscono il pensiero di Suarez: da una parte ribadisce il rifiuto di<br />

Pelagio e il debito agostiniano, dall‟altra parte ricorre a Tommaso e alla dottrina<br />

della grande scolastica per sostenere la dottrina tridentina di una grazia inerente,<br />

opposta alla concezione protestante dell‟extra nos. Il tema agostiniano della<br />

gratuità e della necessità della grazia e quelli ontologici della scolastica che parla<br />

della grazia abituale come grazia santificante diventano l‟ossatura del suo<br />

discorso. Quanto al contenuto, lo pone sullo sfondo della sua abituale distinzione<br />

tra una conoscenza assoluta di Dio, o di Dio in sé, e una conoscenza relativa, o di<br />

Dio nel suo rivolgersi alle sue creature; su questo sfondo distingue accuratamente<br />

due azioni divine, tra Dio santificatore e Dio redentore: nam esse sanctificatorem<br />

ad Deum, ut Deus est, esse redemptorem ad ipsum, ut Deus homo est, spectat.<br />

Non si può che apprezzare questa volontà di mantenere Dio e le sue azioni al<br />

centro della riflessione teologica ma si rimane almeno sconcertati dalla pretesa di<br />

separare la santificazione dalla cristologia: selezionando indebitamente il pensiero<br />

di Tommaso, F. Suarez dà vita a un concetto di grazia non determinato<br />

cristologicamente, non qualificato dalla storia della salvezza. La grazia<br />

santificante fa riferimento a ciò che commune est tribus personis e appare il dono<br />

con cui il Dio trino intellectualem creaturam ad se tanquam ad ultimum<br />

supernaturalem finem converti atque perducit. Da qui la sua grandezza: è dono<br />

soprannaturale, è seme della gloria futura, è singolare possibilità di conoscenza di<br />

Dio. Da qui l‟organizzazione del trattato: si tratta innanzitutto di conoscere la<br />

realtà della grazia e dei suoi doni e di metterli poi in rapporto con la libertà umana.<br />

Il primo tema è sviluppato in linea con la scolastica medioevale, il secondo<br />

mettendo a frutto i dibattiti della controversia de auxiliis; il primo tema verte sulla<br />

grazia abituale o santificante, il secondo sulla grazia attuale. In entrambi i casi la<br />

grazia non è compresa nei termini cristologici del disegno di Dio, non è compresa<br />

in sé ma in ordine ad altro; nel primo caso è pensata in ordine alla creatura<br />

intelligente cui è assegnato il fine soprannaturale, nel secondo in ordine alla libertà<br />

umana. Lo strumento basilare per queste precisazioni è l‟antropologia dei due fini,<br />

una novità di questo periodo; introducendo un fine naturale a fianco di quello<br />

tradizionale soprannaturale F. Suarez e T. de Vio, detto il Cajetano,<br />

modificheranno radicalmente il paradosso medioevale di una creatura orientata a<br />

un fine soprannaturale, eccedente le sue possibilità. In ordine a questa<br />

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antropologia, la grazia è pensata come mezzo, come aiuto gratuito e necessario<br />

insieme, per quel fine soprannaturale che supera comunque l‟uomo. Il trattato<br />

rimarrà entro questi binari, salva qualche precisazione e qualche aggiunta. Si<br />

indicherà ad esempio che la grazia supera constitutive, consecutive ed exigite la<br />

natura umana: si tratta però di precisazioni storiche, in fondo precomprese<br />

nell‟impianto del trattato. La trattazione della grazia rimarrà stabile, immunizzata<br />

dai dibattiti successivi, in una sorta di difensivo isolamento; non stabilirà rapporti<br />

nemmeno con il De Deo elevante che pure, intendeva determinare il fine<br />

soprannaturale assegnato all‟uomo. Solo il rinnovamento biblico e patristico, si<br />

deve pensare a D. Petavio, L. Thomassin ma soprattutto a J. A. Mohler e M.J.<br />

Scheeben, imporrà il ripensamento della grazia, la ripenserà attorno al dono<br />

increato dello Spirito Santo e metterà a nudo i limiti metodologici e contenutistici<br />

della manualistica. Anche se il distacco dalla teologia manualistica è in larga<br />

misura un fatto assodato, non è inutile richiamare le ragioni; sono le stesse ragioni<br />

che sono alla base dell‟ispirazione attuale. La prima critica alla teologia<br />

manualistica sta nel fatto che essa ha reso la teologia sempre più estranea al<br />

processo culturale di questi ultimi secoli. La ragione sta nel fatto che la teologia<br />

manualistica non solo si rifà alla fede ma pretende di esserne anche un‟espressione<br />

oggettiva e irreformabile: da qui l‟affermazione della verità della Scrittura e<br />

dell‟immutabilità della Tradizione fino al rifiuto del metodo storico-critico,<br />

bollato come razionalismo, e da qui l‟insistenza su uno strumento filosofico, il<br />

tomismo, visto non come strumento tra altri ma come la philosophia perennis o<br />

come l‟espressione autentica del senso comune, recuperato al di là di sempre<br />

possibili deformazioni. L‟unità della teologia, realizzata in questa prospettiva, era<br />

un‟unità nella conformità al movimento tomista e solo attorno a esso; inoltre, la<br />

sua lettura essenzialista precludeva l‟accoglienza della coscienza storica nella<br />

teologia e allontanava la possibilità di un dialogo con i mutamenti in atto nella<br />

cultura del tempo. La seconda critica riguardava la metodologia della teologia<br />

manualistica e pone sotto accusa la giustapposizione di fede e di ragione:<br />

l‟impegno neoscolastico per una filosofia conforme alla fede finisce per presentare<br />

la fede come una struttura autoritaria e impositiva e per cogliere la ragione<br />

filosofica, ancella della teologia, come pura capacità di ripetizione e di conferma<br />

del dato rivelato. Nasce così un estrinsecismo dannoso che impedisce alla fede di<br />

pensarsi correttamente nel suo concreto contesto umano per privilegiare un<br />

terreno, quello tomista, già preparato, del pari alla ragione è chiesta un‟anticipata<br />

strumentalità in ordine a una fede che, in ogni caso, non potrà che confermare.<br />

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Questa estraneità metodologica tra fede e ragione si aggrava sul piano<br />

contenutistico con l‟incapacità di pensare la persona, nella sua specificità, come<br />

chiamata all‟alleanza: da una parte la persona è pensata in ordine al cosmo e alla<br />

nozione di essere, più o meno come natura; dall‟altra il riferimento cristologico<br />

non tocca la profondità della persona finendo per mantenere il dono della grazia in<br />

termini esteriori e accidentali. Queste critiche troveranno sbocco nei dibattiti sul<br />

metodo teologico e in quelli sulla fede e sulla questione del soprannaturale che<br />

occuperanno la prima metà del XX secolo. Il dibattito sul metodo imporrà una<br />

migliore considerazione della storicità delle fonti della fede e una più coraggiosa<br />

valorizzazione della cultura, mentre quello sulla fede, con P. Rousselot, metterà al<br />

centro la grazia, il dono di Dio, fino a considerarla costitutiva del credente stesso.<br />

Quanto al soprannaturale, il risultato più grande sarà l‟abbandono<br />

dell‟antropologia dei due fini: il dibattito sulla thèologie nouvelle concluderà alla<br />

convinzione che l‟unico ordine storicamente esistente è quello soprannaturale e<br />

che, quindi, la vita umana, la vita di ogni uomo è accompagnata dalla grazia quale<br />

esistenziale soprannaturale. Da qui al bisogno di ricentrare il soprannaturale<br />

attorno a Cristo, il passo sarà breve. Queste impostazioni risulteranno così radicali<br />

da rendere impossibile un semplice riaggiustamento di proporzioni o di tematiche<br />

del manuale; ciò che occorrerà, in realtà, sarà una ristesura della riflessione<br />

teologica sull‟uomo, una rifondazione dell‟antropologia teologica.<br />

5. Una vicenda esemplare: il De Gratia e l’evanescenza del soprannaturale<br />

Il trattato De Gratia nasce dopo Trento ed è polarizzato sulla grazia creata e<br />

santificante. Attorno a questo fulcro organizza tutto il discorso sulla grazia,<br />

sull‟inabitazione dello Spirito e sullo sviluppo della vita di grazia. Lo stesso tema<br />

della giustificazione, pomo della discordia con la Riforma, riceve sul versante<br />

protestante e sul versante cattolico una differente interpretazione dottrinale, ma<br />

produce l‟esito comune di organizzare attorno ad esso il discorso sulla grazia: sul<br />

fronte luterano la giustificazione imputata e forense: sul fronte cattolico la<br />

giustificazione come modificazione reale accidentale, dono creato della natura<br />

umana; anzi proprio la concentrazione polemica attorno alla giustificazione da<br />

parte di ambedue i fronti in controversia fa nascere una riflessione sulla grazia<br />

strutturata in un trattato autonomo, mentre precedentemente essa era collocata nel<br />

più ampio discorso teologico.<br />

5.1. Il De Gratia, un trattato moderno<br />

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Partiamo dal punto di approdo: il rinnovamento del De Gratia, avvenuto nel<br />

Novecento, ha superato la prevalentemente connotazione antropologica della<br />

grazia come iustificatio impii. Tutto ciò ha affidato alla trattazione sistematica<br />

sulla grazia il compito di ripensare il senso, la funzione e le articolazioni interne al<br />

trattato. Tuttavia vi sono motivi, su cui nell‟attuale riflessione teologica il<br />

consenso non è però univoco, che raccomandano persino la risoluzione del De<br />

Gratia nel quadro più ampio dell‟antropologia teologica. Non solo si propone di<br />

far confluire il trattato nel discorso sull‟uomo, ma di porlo in stretto rapporto con<br />

la sacramentaria e l‟ecclesiologia. La relazione tra cristologia e antropologia<br />

appare il contesto nel quale inserire la trattazione sul dono dello Spirito, che<br />

mediante i sacramenti, forma l‟uomo nuovo nella Chiesa. Il De Gratia riveste la<br />

funzione di collegamento tra molti temi teologici, senza perdere la sua consistenza<br />

di tema specifico. La situazione attuale della trattazione, e tuttavia differenziata.<br />

La sensibilità che cerca di collegare i temi del De Gratia con la pneumatologia, la<br />

sacramentaria e l‟ecclesiologia, oltre che all‟antropologia, è più diffusa di quanto<br />

poi essa influisca sulla ristrutturazione del trattato. Il guadagno raggiunto dal<br />

novecento dev‟essere messo in salvo sia per ragioni bibliche, sia per ragioni<br />

ecumeniche, ma soprattutto per motivi teologici. Le ragioni bibliche<br />

sostanzialmente riducono la giustificazione per la fede ad essere un momento del<br />

cristocentrismo paolino, superando quindi l‟alternativa tra valenza teologica e<br />

risvolto antropologico-ecclesiologico del tema. Le ragioni teologiche premono per<br />

collocare il discorso sulla giustificazione nella struttura dell‟uomo secondo la<br />

predestinazione, come un elemento dell‟incorporazione a Cristo, in virtù del suo<br />

Spirito. Le ragioni ecumeniche richiedono non solo di superare la<br />

contrapposizione controversistica sul tema, ma di verificare la convergenza<br />

interconfessionale sulla giustificazione. La formula consenso sulla fede, diversitàcomplementarietà<br />

delle dottrine, deve realizzarsi dentro una riflessione teologica<br />

che sappia istituire i criteri di una reciproca accoglienza delle differenze e non si<br />

rassegni a perseguire l‟unità della fede su alcune formule generiche. Solo il<br />

confronto sulle diverse mentalità soggiacenti potrà consentire di proseguire sulla<br />

strada del consenso avvenuto (cf. Dichiarazione comune sulla giustificazione,<br />

1999), vedendone le ricadute anche sul versante sacramentale ed ecclesiologico.<br />

Come i critici della Dichiarazione comune hanno ripetutamente invocato. La<br />

prospettiva che si ricava della storia prevede non solo il superamento della<br />

separazione tra il De Deo creante et elevante e il De Gratia, ma il ripensamento<br />

sistematico di tutti i temi antropologici a partire dal cristocentrismo e in<br />

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particolare dalla tesi della predestinazione di tutti gli uomini di Cristo. Ciò<br />

comporta non solo la risoluzione del De Gratia nell‟antropologia teologica, ma<br />

anche il superamento dell‟impostazione dualistica del De Deo creante et elevante.<br />

Quest‟ultimo giustificava sistematicamente la soprannaturalità della grazia, la sua<br />

gratuità, a partire dalla natura umana, compresa teologicamente come creazione di<br />

Dio. Al fine di illustrare tale traguardo è utile riprendere la storia dei trattati di un<br />

superamento della loro separazione. Nel pensiero moderno, è un dato assodato<br />

dalla storiografia, la storia del trattato De Gratia accompagna il processo con cui<br />

il soprannaturale è stato sottoposto ad una comprensione sempre più accidentale a<br />

partire nei confronti della natura umana. L‟affermazione della gratuità della grazia<br />

sembra possibile solo col presupposto della natura, ma tale punto di avvio, la<br />

natura umana che va pensandosi nella modernità in forma sempre più autonoma,<br />

configura spontaneamente il dono di grazia secondo uno schema addizionale, di<br />

sopra-natura, sottoponendo l‟azione divina ad un sottile processo di evanescenza.<br />

Perciò storia moderna della grazia e storia del trattato vanno di pari passo. Con un<br />

procedimento un po‟ schematico, tento una descrizione diacronica o genetica del<br />

sorgere e del tramontare del trattato; e insieme seguiamo il dipanarsi della<br />

problematica sulla grazia come dono superaddito della natura. La vicenda che qui<br />

s‟intende ricostruire non è tanto la storia delle controversie sulla grazia da Trento<br />

a noi, ma lo sviluppo delle tipologie della grazia come spiegazione genetica<br />

dell‟articolazione della trattazione De Gratia. Il trattato si organizza in diversi<br />

momenti, che hanno ricevuto la loro configurazione a partire da alcune<br />

sollecitazioni teologiche. E‟ necessario ripercorrere le tappe che hanno contribuito<br />

a dare al trattato il suo volto receptus nella manualistica. Prima non si può parlare<br />

di un De Gratia nel senso che si dà al genere trattato postridentino, anche se<br />

ovviamente il discorso sulla grazia esiste già nel medioevo. In san Tommaso la<br />

grazia è collocata nella prospettiva del raggiungimento del fine soprannaturale,<br />

nella Summa contra Gentiles III, qq. 147-163 e nella Summa Theologiae I-II, qq.<br />

109-114.<br />

5.2. La controversia sulla giustificazione<br />

Il trattato vero e proprio nasce nell‟ambito della teologia controversistico-dogmatica.<br />

Per le caratteristiche tipiche di questa teologia, il suo principale punto di riferimento è<br />

il Magistero, in particolare il concilio di Trento; infatti contro la riforma forense o<br />

solo imputata, proposta dalla Riforma, insegna il carattere interiore della<br />

giustificazione (cf. Sessione VI: Decr. De Iustificatione), come un fatto che modifica<br />

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realmente l‟uomo giustificato. Mi interessa l‟interpretazione che diede la parte<br />

cattolica, poiché fu tale lettura che influì sul momento postridentino. Il concilio si<br />

trovò particolarmente sguarnito di fronte alla novità del discorso della Riforma sulla<br />

giustificazione, anche se oggi siamo in grado di dire che i padri conciliari potevano<br />

avere una qualche conoscenza diretta dei testi dei riformatori. Il concilio di Trento<br />

per rispondere alla nozione luterana di giustificazione ha ricuperato il discorso<br />

medievale, ricollegandosi ad un momento della teologia che, pur non contemplando<br />

un trattato esplicito De Gratia (cf. le Summe medievali), presentava diverse tesi sulla<br />

grazia. Ora la considerazione medievale della grazia si concentra sulla nozione di<br />

habitus e intende la grazia come una qualitas data alla natura umana, che produce una<br />

reale modificazione accidentale della natura dell‟uomo. Per comprendere la nozione<br />

bisogna prendere le mosse dal primo medioevo, quando il punto di partenza per<br />

designare la grazia è la problematica delle virtù. Ugo di San Vittore(1096-1141) e<br />

Abelardo (1079-1142), inaugurano due posizioni diverse. La prima posizione è quella<br />

agostiniana, Ugo di San Vittore, che pone uno stretto rapporto tra la grazia e la virtù,<br />

nel senso che tende a risolvere la grazia nella virtù. Ugo prende avvio dalla<br />

concezione agostiniana della grazia come adiutorium (o auxilium), concessa alla<br />

volontà umana per fare il bene. In questa prospettiva la grazia come amor, delectatio,<br />

charitas, appare come la virtus capace di compiere il bene nell‟uomo. Pier Lombardo<br />

si riferisce ancora a san Agostino affermando che virtus est, ut ait Augustinus, bona<br />

qualitas mentis qua recte vivitur et qua nullus male utilitur, quam Deus solus in<br />

homine operatur. La seconda posizione Abelardo, dà una definizione filosofica delle<br />

virtù, partendo da Aristotele che riceve attraverso Boezio. Aristotele nelle sue<br />

categorie aveva distinto due tipi di qualità: quelle che chiama semplici disposizioni,<br />

mutevoli poco radicate nell‟anima, e gli abiti, permanenti e difficili a mutarsi. Ora<br />

dice Aristotele, la virtù è un abito, non una semplice disposizione. Abelardo accetta<br />

questa posizione precisando che l‟abito è il frutto di un atteggiamento riflesso e<br />

costante. Di conseguenza diventa problematica l‟equivalenza della grazia con la virtù.<br />

Per questo la linea agostiniana dominerà fino al XIII secolo, imponendo la<br />

risoluzione della grazia in virtù. Essa preordinerà i termini per una sua rilettura nel<br />

quadro della filosofia aristotelica. Nella grande Scolastica, infatti la progressiva<br />

introduzione di Aristotele porta quasi insensibilmente ad accettare il concetto<br />

aristotelico di virtù e fissa l‟attenzione sulla stabilità dell‟atteggiamento virtuoso, e<br />

quindi sulla ripetizione degli atti necessari per acquisirlo, cioè la virtù come habitus.<br />

Di conseguenza, poiché l’habitus inerisce in un soggetto, la grazia è presentata come<br />

uno accidens in rapporto alla natura (essenza) dell‟uomo. E se ancora in Pier<br />

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Lombardo la grazia era risolta nella presenza dello Spirito nell‟uomo giustificato, i<br />

commentatori delle Sentenze affermano che una nuova realtà nell‟uomo in<br />

conseguenza dell‟azione dello Spirito. La realtà nuova che inerisce nell‟uomo non<br />

potrà essere definita che nei termini di un accidens. La presenza della grazia<br />

nell‟uomo troverà una diversa interpretazione nelle due scuole francescana e<br />

domenicana del XIII secolo. La scuola francescana, fedele alla tradizione agostiniana,<br />

porrà la nuova realtà nella volontà, che viene resa capace di operare il bene mediante<br />

l’habitus della carità soprannaturale. La linea domenicana, in particolare Tommaso,<br />

distingue la natura umana dalle sue facoltà, recuperando la distinzione da Aristotele,<br />

e colloca la nuova trasformazione a livello della natura umana. In essa viene infuso<br />

l’habitus soprannaturale della grazia che trasforma la vita dell‟anima elevandola<br />

all‟amicizia con Dio. Al di là delle differenze di scuola, fondate su antropologie<br />

diverse, avviene quasi senza accorgersi il passaggio su una concezione psicologicomorale<br />

della grazia, Dio che partecipa la sua bontà all‟uomo per fare il bene, a una<br />

concezione ontologica della grazia, essa è una elevazione della natura che viene<br />

abilitata al fine soprannaturale. E‟ questa la nozione che Trento riprenderà, del tutto<br />

naturalmente, per contrastare la concezione della giustificazione imputata dalla<br />

Riforma: la grazia è una modificazione reale accidentale dell‟uomo, cioè è quella<br />

trasformazione-modificazione che abilita realmente la natura umana in modo gratuito<br />

accidentale alla vita della grazia. Non è imputata ma reale, non deriva da un decreto<br />

divino attribuito all‟uomo ma è una vera trasformazione, è gratuita ma inerisce<br />

nell‟uomo come un nuovo habitus-accidens infuso nella natura, substantia<br />

dell‟uomo. Dopo Trento la concezione della grazia come habitus configura la prima<br />

parte del nascente trattato, il quale attraverso il concilio ricupera il discorso<br />

medievale sulla giustificazione. La prospettiva è diversa, perché la nozione di grazia<br />

che eleva la natura umana, grazia creata, elevante, santificante, non è più, come nel<br />

medioevo, un momento dell‟agire dello Spirito in noi, ma diviene il punto di partenza<br />

del discorso, contro la negazione protestante. L‟affermazione di Trento: unica<br />

formalis causa (della giustificazione) est iustitia Dei, non qua ipse iustus est, sed qua<br />

non iustos facit (DH 1529), con l‟alternativa contenuta, è il punto della riflessione del<br />

manuale: la giustificazione è la realtà nuova di giustizia inerente nell‟uomo. La<br />

nozione della grazia come habitus, designa l‟architettura del primo momento del<br />

trattato De Gratia che svolge i temi della: 1) esistenza; 2) natura; 3) proprietà della<br />

giustificazione cristiana; poi tratta il tema 4) preparazione alla giustificazione; e 5)<br />

sviluppo della vita di grazia. Questi sono i capitoli con cui si dispiega l‟ordito del<br />

trattato, che registra l‟insegnamento del Magistero tridentino.<br />

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5.3. Momento postridentino: la grazia come auxilium<br />

La Riforma, d‟altra parte, agita un problema che viene ricondotto da Trento ai corretti<br />

termini della rivelazione, ma non viene risolto. Né d‟altra parte, era compito del<br />

Magistero risolverlo. E‟ il problema della consistenza dell‟uomo nel piano di Dio, la<br />

questione dell‟autonomia e del significato della libertà di fronte all‟assoluto primato<br />

dell‟iniziativa salvifica di Dio (grazia). Resta in sospeso una questione decisiva: che<br />

posto ha la libertà all‟interno del primato salvifico di Dio (sola gratia) che nella croce<br />

di Cristo (solus Christus) raggiunge l‟uomo nella predicazione (solo Verbo)<br />

giustificando l‟uomo per mezzo della fede soltanto (sola fide)? La coscienza cattolica<br />

del tempo trova inaccettabile la negazione della libertà che sembra proposta dalla<br />

Riforma, perché la risolve nella fede fiduciale; tuttavia l‟istanza della libertà è solo<br />

riaffermata dalla risposta cattolica del Magistero, perché si proclama che il primato<br />

della grazia non deve essere sostenuto a scapito della consistenza dell‟agire libero<br />

dell‟uomo (merito). Lo stesso dono di grazia suppone che anche nell‟uomo peccatore<br />

permanga il libero arbitrio. Non poteva che nascere il conflitto tra la grazia e la<br />

libertà. In effetti, l‟esigenza sempre risorgente di aprire il confronto con i<br />

Riformatori, soprattutto nei paesi a forte concentrazione protestante, fa nascere le<br />

tipiche controversie postridentine sul rapporto grazia-libertà (controversia de auxiliis,<br />

c. baiana, c. giansenista). Dovremo ritornare nel capitolo sulla predestinazione a<br />

parlare della controversia de auxiliis. Già fin d‟ora si può fare un‟osservazione per<br />

così dire strutturale. Nella controversia che vide contrapposte la linea agostinianotomista,<br />

rappresentata da D. Banez (1528-1604), e la linea gesuitica molinista,<br />

inaugurata da L. Molina (1535-1600) e proseguita da L. Lessio (1554-1623), il<br />

rapporto tra la grazia e la libertà si fondava paradossalmente sullo stesso presupposto:<br />

l‟esteriorità tra le due grandezze in gioco. I modi e le leggi secondo cui la volontà<br />

salvifica universale di Dio era concessa all‟agire libero dell‟uomo connotavano il<br />

rapporto tra Dio che salva e gli uomini salvati a partire dalla medesima premessa: la<br />

grazia resta estrinseca e alternativa alla risposta umana. Quindi se si afferma l‟una (la<br />

grazia), l‟altra (la libertà) in qualche modo viene sopraffatta e vinta; perciò la grazia<br />

non può essere data a tutti in egual misura, giacché tutti si salverebbero, è<br />

l‟orientamento agostiniano in tutte le sue varianti, denominato ante praevisa merita.<br />

Se invece si valorizza la libertà e il suo comportamento, l‟agire divino rimane in<br />

qualche modo condizionato o legato alla risposta dell‟uomo, e quindi è in pericolo il<br />

primato della grazia che è un‟esigenza tipicamente cristiana, è l‟inclinazione della<br />

posizione molinista, definita post praevisa merita. Al di là delle contrapposizioni, si<br />

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registra una sostanziale convergenza delle due sensibilità teologiche, prima ancora<br />

che delle soluzioni escogitate su un medesimo punto. Esse concepiscono la libertà<br />

come qualcosa di inizialmente irrelato alla grazia e da porre successivamente in<br />

rapporto con l‟agire salvifico divino. Orbene, la modalità non originaria, ma<br />

successiva, di istituire il rapporto tra libertà finita e libertà infinita concepisce come<br />

problematico quello che dovrebbe invece essere dato come presupposto pacifico, cioè<br />

che la grazia non è una forza concorrenziale nei confronti della libertà, ma è forza di<br />

comunione divina suscitatrice di libertà. Le grandezze chiamate in causa, cioè la<br />

grazia di Dio e la libertà dell‟uomo, hanno una infinità, sia pure di diverso genere,<br />

che esclude una soluzione del loro rapporto, preordinata al loro effettivo darsi storico,<br />

in particolare nella storia di Gesù. La riflessione teologica riscopre l‟intreccio tra la<br />

misteriosità donata della grazia, l‟aspetto agostiniano, e l‟evento della libertà degli<br />

uomini, la preoccupazione molinista, proprio nella vicenda di Gesù, cioè deve<br />

riflettere sulle modalità secondo cui la grazia e la libertà si sono attuate nel Cristo.<br />

Ciò che qui interessa è il fatto che le discussioni postridentine, compresa la<br />

controversia baiana e giansenista, si ricollegavano, benchè con intenzioni<br />

metodologiche diverse, ad un altro momento della tradizione. Esse risalivano, oltre il<br />

medioevo, sino ad Agostino, cioè al momento patristico che era all‟origine del<br />

pensiero dei Riformatori. Ora della teologia agostiniana della grazia, veniva<br />

enfatizzato il suo aspetto antipelagiano, soprattutto la grazia come auxilium o<br />

adiutorium gratuito concesso da Dio alla libertà peccatrice, impotente e immeritevole<br />

dell‟uomo. Anche qui non importa la nozione di grazia di Agostino si possa<br />

concentrare esclusivamente sulla grazia come aiuto psicologico, o se invece il<br />

Dottore della grazia abbia professato una visione molto più ampia del dono divino<br />

come charitas, collegandolo all‟inabitazione dello Spirito e alla comunione con<br />

Cristo nella Chiesa. Di fatto, nel periodo delle controversie sulla grazia fu privilegiata<br />

la nozione di auxilium. La concezione della grazia come auxilium entrava così a<br />

costituire un secondo momento della trattazione del De Gratia, soffermandosi sui<br />

temi della predestinazione, del rapporto tra grazia e libertà. E‟ facile vedere come<br />

questa sezione potesse dilatarsi a registrare la controversia più affascinante della<br />

storia della teologia, ma anche la più complicata e inconcludente, circondata persino<br />

da un vero intrigo di eventi, degno delle trame migliori. In tal modo il nascente<br />

trattato riproduceva il resoconto delle controversie postridentine, ricuperando dalla<br />

tradizione agostiniana la nozione di grazia come delectatio victrix, auxilium dato alla<br />

libertà sotto la signoria del peccato e liberata dall‟attrazione irresistibile dell‟azione<br />

divina.<br />

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5.4. Ricupero della patristica greca: la grazia come divinizzazione<br />

Il bisogno di ridimensionare dalla tradizione agostiniana, ad opera delle menzionate<br />

controversie, spinge ad un‟analisi più completa della tradizione patristica che non può<br />

dirsi tutta espressa in Agostino. In realtà si tratta della dottrina agostiniana, come è<br />

stata proposta dalla controversia predestinazionista (de auxiliis) che s‟era impuntata<br />

su una ripresa del Dottore della grazia attraverso la lente per certi versi deformante di<br />

Banez. Lo stesso Agostino condivide con la tradizione a lui precedente una<br />

concezione più ampia della grazia. La sua dottrina presuppone i grandi temi della<br />

patristica greca, in particolare quello dell‟inabitazione-divinizzazione da parte dello<br />

Spirito e quello della comunione a Cristo. Nell‟epistola 187 e 140 Agostino parla<br />

dell‟inabitazione di Dio nel giusto e nella Chiesa. L‟anima del giusto è tempio dello<br />

Spirito Santo; la sua presenza in noi precede ogni atto libero; la santità è<br />

corrispondente all‟intensità di questa presenza. Questa dottrina riceve in Agostino<br />

una particolare tonalità soprattutto nel Commento alla Prima lettera a Giovanni viene<br />

accentuata la funzione della carità nell‟opera della santificazione. Dio dimora in noi,<br />

ma insieme ci invita a rimanere nella carità, cioè in lui, perché Dio è carità. L‟altro<br />

tema che Agostino eredita nella tradizione greca è il tema dell‟unione a Cristo, che<br />

egli sviluppa nella linea del Christus totus, cioè del corpo mistico, vale a dire<br />

l‟unione reale di Cristo con la Chiesa. Questa dottrina caratteristica di Agostino<br />

afferma l‟identità tra noi e il Cristo che trova la sua legge nella carità: erit unus<br />

Christus amans seipsum. La migliore conoscenza di Agostino e il bisogno di<br />

ridimensionare la sua lettura controversistica, concentrata attorno alla nozione di<br />

grazia come auxilium, spingono alla lettura dei Padri greci. Avviene così il recupero<br />

della tradizione patristica greca che presenta la grazia in prospettiva di divinizzazione,<br />

cioè come la presenza dello Spirito Santo che dimora nel cristiano e lo mette in<br />

comunione con Dio. La riscoperta della tradizione greca, in particolare di Cirillo di<br />

Alessandria, è dovuta soprattutto agli studi di Petavio (Dènis Petau, 1583-1652), e di<br />

Thomassin (Louis Thomassin d‟Eynac, 1619-1695) nel XVII secolo. Essa viene<br />

proseguita, nel secolo XIX, dalla teologia romantica, che è portata a riconoscere le<br />

voci ricche e risonanti della tradizione contro l‟appiattimento razionalistico di un<br />

certo illuminismo. Questa rinascita, che avviene per il contributo della Scuola di<br />

Tubinga (cf. Mohler) e si fa sentire anche in alcuni teologi della Scuola Romana<br />

(Passaglia, Schrader), ha il suo frutto più maturo nella teologia di Scheeben, che per<br />

primo introduce nella sua opera in maniera organica il tema. Istruttivo il travaglio di<br />

M.J. Scheeben (1835-1888) sul tema dell‟inabitazione dello Spirito. Le voci della<br />

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tradizione sono assunte da lui in una sintesi superiore che è stata definita il principio<br />

costruttivo della sua teologia. Tale principio può essere indicato nella considerazione<br />

dei misteri del cristianesimo, visti nella loro essenza, nel loro significato e<br />

concatenamento, nella prospettiva del loro carattere soprannaturale. Come scienza<br />

della fede nei misteri, la teologia ha il compito di illuminare mediante le immagini, le<br />

analogie e l‟aiuto della ragione le connessioni e le armonie interne, cogliendo il nexus<br />

mysteriorum, per farlo brillare e ricondurlo alla sintesi superiore della rivelazione<br />

soprannaturale, che in Scheeben equivale alla comunicazione della vita di grazia. Si<br />

innestano qui due temi su cui il teologo di Colonia porterà la sua attenzione: quello<br />

dell‟inabitazione dello Spirito e quello della Chiesa. Sul cambiamento riguardo alla<br />

realtà della grazia increata, intesa come una speciale unione dell‟anima con lo Spirito<br />

Santo, prima negata contro Petavio e Passaglia che l‟affermavano, poi riaffermata<br />

approfondendo il pensiero dell‟antico maestro. Scheeben passò a riconsiderare la<br />

dottrina della inabitazione dello Spirito, difendendola dagli attacchi di Granderath,<br />

che gli contestava la fedeltà dell‟affermazione del Tridentino circa la causa formale<br />

della giustificazione. La revisione definitiva si ha nei Misteri § 29, databile l‟anno<br />

della morte, e resta la formulazione ultima della sua dottrina, che ritorna nel Libro 3<br />

della Dogmatica § 169. La difficoltà a darne una corretta definizione deriva anche<br />

dalle successive posizioni degli interpreti. Scheeben tutto sommato andrà sempre più<br />

approfondendo il carattere interiore dell‟inabitazione dello Spirito, nella linea della<br />

causalità formale, anche se il tema maturerà nel Novecento. La dottrina<br />

dell‟inabitazione ha avuto il suo campo di irradiazione sull‟ecclesiologia, nella quale<br />

Scheeben riprese la dottrina del corpo mistico di Passaglia e di Schrader.<br />

Quest‟ultimo tra l‟altro, sembra aver steso lo schema de Ecclesia Christi del Vaticano<br />

I, in seguito non approvato per la sospensione dell‟assise conciliare, che iniziava con<br />

il capitolo Ecclesia esse corpus Christi mysticum. In questo modo la considerazione<br />

della grazia come divinizzazione o Spirito Santo entra a costituire il terzo momento<br />

della trattazione, come ricupero della tradizione patristica integrale.<br />

5.5. Teologia del secolo XX: la ristrutturazione del De Gratia<br />

Alla teologia del Novecento non sembra rimanere alcun compito per la ripresa della<br />

coscienza di fede sulla grazia. Nella logica della risalita a ritroso, restava l‟approdo al<br />

momento biblico. Tuttavia questo traguardo non fu raggiunto direttamente almeno<br />

nella teologia cattolica. Esso dovette aspettare verso la metà del secolo per<br />

beneficiare del generale rinnovamento biblico in teologia dogmatica. La teologia<br />

della grazia del XX secolo, proseguendo sulla strada aperta dai pionieri<br />

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dell‟Ottocento, cerca di tracciare i rapporti tra le nozioni sinora ricostruite, la grazia<br />

come habitus, auxilium, divinizzazione. Pertanto da un lato approfondisce il tema<br />

della grazia come Spirito Santo, in linguaggio tecnico si dice dono increato, in<br />

rapporto al tema della grazia come modificazione ontologica, la grazia come habitus:<br />

detta anche dono creato; dall‟altro, pone in relazione l‟inabitazione dello Spirito al<br />

tema della grazia come aiuto psicologico, la grazia come auxilium. Nascono così due<br />

linee di approfondimento che introducono una duplice dinamica nel trattato: la prima<br />

rimane, tutto sommato, nella logica del trattato e viene riassorbita in esso; la seconda<br />

invece finisce per scompaginare la logica del trattato e pone il problema di una sua<br />

radicale ristrutturazione. La prima linea istituisce il rapporto tra dono creato e dono<br />

increato e produce un approfondimento che rimane nella logica del trattato. Mentre<br />

precedentemente si partiva dal dono creato, grazia come habitus, cioè la<br />

giustificazione e le sue caratteristiche, e si facevano derivare da esso gli altri aspetti<br />

della vita di grazia, inabitazione dello Spirito, remissione dei peccati, figliolanza<br />

adottiva, partecipazione alla natura divina, incorporazione a Cristo, nel corso del<br />

Novecento l‟orientamento si è gradualmente invertito. Considerando la sproporzione<br />

tra la finitezza del dono creato e l‟infinitezza del dono increato, ora si preferisce come<br />

punto di partenza l‟azione dello Spirito Santo, alla quale vengono collegati gli altri<br />

aspetti della vita di grazia. Di conseguenza si tende a vedere nel dono creato la<br />

necessaria trasformazione che l‟essere dell‟uomo subisce in presenza del dono<br />

increato. D‟altra parte la considerazione dell‟azione dello Spirito Santo spinge nella<br />

direzione del ricupero della pasqua di Gesù, dimensione cristologica, a cui lo Spirito<br />

introduce e fa partecipare gli uomini, dimensione pneumatologica. Occorre intendere<br />

in senso forte il ricupero, avvenuto nel Novecento, dello Spirito Santo come chiave di<br />

volta della dottrina sulla grazia. Non si tratta solo di un rovesciamento delle<br />

posizioni, dal dono creato al dono increato, quasi che invece di risalire dagli effetti<br />

alla causa, ora si discenda dalla causa prima agli effetti nell‟uomo, dal dono increato<br />

al dono creato. In questa prospettiva si tratterebbe di un riordino delle tematiche della<br />

grazia che resta ancora nell‟ottica manualistica. Così in realtà sembra muoversi la<br />

teologia nella prima metà del Novecento quando con la proposta di M. de la Taille (+<br />

1933) proseguita da K. Rahner, si parla del modo della presenza dello Spirito Santo<br />

nell‟uomo giustificato secondo la categoria di causalità quasi-formale, producendo<br />

ad un tempo un approfondimento e un superamento della concettualità scolastica. Lo<br />

stesso Rahner è poi approdato a un ulteriore sviluppo della concezione quando, a<br />

partire dalla riflessione più generale sulla rivelazione come autocomunicazione di<br />

Dio, che pone l‟uomo come la grammatica della sua stessa autodonazione, ha<br />

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sottolineato meglio l‟intrinsecità della presenza dello Spirito, affermando non solo la<br />

causalità quasi-formale che si attua nel dono creato, ma anche il suo risvolto storicoantropologico<br />

mediante la tesi dell‟esistenziale soprannaturale. In tale prospettiva<br />

l‟esistenziale soprannaturale significa un‟attuazione dell‟uomo come destinatario<br />

dell‟autocomunicazione divina, in cui la positiva apertura, potentia oboedientialis,<br />

dell‟uomo alla presenza divina riceve un‟abilitazione ad accogliere il dono dello<br />

Spirito come il suo centro e il suo fondamento più intimo nel quale affonda le radici.<br />

L‟analisi antropologico-trascendentale come condizione di possibilità nell‟essere<br />

storico dell‟uomo, diventa quindi il punto di avvio per superare la concettualità<br />

scolastica della causalità integrandola con l‟aspetto esistenziale. La causalità dello<br />

Spirito come dono dell‟alto dev‟essere mostrata non solo attraverso l‟attuazione,<br />

causa quasi-formale, che avviene nel dono creato, ma anche nella gratuita<br />

soprannaturale abilitazione della storicità umana, esistenziale, nella quale si può e si<br />

deve mostrare un‟apertura illimitata, potentia oboedientialis, alla autocomunicazione<br />

divina. Punto di vista teologico-trinitario e punto di vista antropologicotrascendentale<br />

convergono per mostrare l‟intrinseca presenza dello Spirito Santo nella<br />

vita dell‟uomo giustificato. Il merito della proposta di Rahner e gli ulteriori<br />

approfondimenti di H. Volk e soprattutto di J. Alfaro sull‟esistenziale cristico<br />

consentono ormai nella seconda metà del Novecento di mettere in salvo due risultati:<br />

l‟uno teologico, che riguarda la forza sistematica del punto di partenza del dono<br />

increato o Spirito Santo, che procede verso una progressiva connotazione storicosalvifica,<br />

in particolare cristica, trasponendosi nel rapporto tra cristologia, trinitaria e<br />

antropologia; l‟altro filosofico, che riguarda il trapasso di una concettualità<br />

essenzialista a una storica. E‟ sul modo di intendere lo storico, che il discorso sulla<br />

grazia o Spirito Santo, riparte venendo a contatto con le diverse prospettive culturali:<br />

la linea trascendentale di Rahner e Alfaro, la prospettiva del personalismo dialogicosociale<br />

di Muhlen, le diverse versioni della storia della salvezza, Darlapp, Culmann,<br />

Pannenberg, Rahner, Metz, teologia della liberazione, e il filone del confronto con<br />

l‟istanza storico-pratica delle teologie influenzate dal neomarxismo, teologia politica<br />

della liberazione. A questo punto il tema si traspone nella discussione su soteriologia<br />

e prassi emancipatrice, una linea egemone negli anni ‟70 e ‟80, ma tramontata dopo<br />

la fine della guerra fredda. Non mette conto di riferire su questi filoni: il discorso<br />

della grazia si è dislocato nel centro più frequentato del discorso teologico, sulla<br />

direttrice che va dalla cristologia all‟antropologia. Si può solo aggiungere per<br />

desiderio di completezza, che il nesso tra queste trattazioni teologiche, ma più ancora<br />

la necessità di non costringere il rapporto cristologia-antropologia in una prospettiva<br />

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angustamente individualistica ed esistenzialista, fa riemergere il tema dello Spirito<br />

Santo, più in particolare la necessità di una pneumatologia. Gli anni ‟80 e ‟90<br />

registrano il fenomeno della riscoperta dello Spirito, che viene a colmare la tanto<br />

lamentata dimenticanza dello Spirito, attribuita alla tradizione occidentale. Si tratta di<br />

una vera e propria esplosione d‟interesse, alimentata dalle esperienze del<br />

rinnovamento dello Spirito, i nuovi movimenti religiosi, la spinta delle chiese<br />

orientali, e più in generale del movimento ecumenico, la stessa enciclica di Giovanni<br />

Paolo II, Dominum et Vivificantem. Tutto ciò ha suscitato un forte interesse fino a<br />

parlare di un ossessione dello Spirito. La funzione della pneumatologia si rivela<br />

duplice: da un lato, quella di trovare il nesso tra la trattazione trinitaria, che era<br />

tradizionalmente il luogo della riflessione sulla terza Persona e cristologica, con la<br />

dottrina sacramentaria, l‟antropologia e la creazione e l‟ecclesiologia; dall‟altro<br />

quella di orientare la prassi ecclesiale ed ecumenica, legata ai nuovi fenomeni della<br />

reviviscenza dello Spirito, del sacro e del religioso diffuso e qualche volta selvaggio,<br />

del rapporto con le altre religioni, e non da ultimo il movimento ecumenico con una<br />

concezione differenziata della communio. D‟altra parte quanto l‟orizzonte si allarga,<br />

il discorso finisce per stemperarsi e la trattazione diventare indominabile. Nell‟ottica<br />

della teologia della grazia, la pneumatologia ha certamente il merito di dilatare la<br />

prospettiva antropocentrica del discorso sulla grazia, ma deve ancora attendere una<br />

più precisa specificazione dei suoi temi e della sua collocazione teologica.<br />

5.6. Il superamento del De Gratia come trattato autonomo<br />

La seconda linea di sviluppo della teologia della grazia nel Novecento considera il<br />

rapporto tra dono creato e grazia come auxilium. Questo secondo asse introduce una<br />

dinamica di rottura del trattato. L‟approfondimento del rapporto tra Spirito Santo e<br />

aiuto psicologico mostra il carattere astorico e carente di riferimento all‟evento di<br />

Gesù Cristo che aveva preso la relazione grazia e libertà e tutta la controversia sulla<br />

predestinazione. Il discorso sulla grazia come necessario audiutorium per l‟uomo<br />

peccatore, incapace di salvezza, era logicamente sfociato nell‟ulteriore questione<br />

sulle leggi e le modalità secondo le quali Dio distribuisce la grazia. Era nata così la<br />

problematica della predestinazione, intesa come rapporto tra la volontà salvifica di<br />

Dio e la libertà dei singoli uomini. La difficoltà di interpretazione di tale rapporto<br />

faceva oscillare inesorabilmente la ragione della salvezza o sull‟uno o sull‟altro<br />

termine della relazione, senza riuscire ad indicarne la ragione convincente. Ciò è<br />

avvenuto, nella lettura restrittiva della volontà universale fatta da Agostino e portata<br />

all‟esasperazione dall‟agostinismo seguente; e poi, in un secondo tempo, nelle<br />

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interminabili dispute e nelle inconciliabili posizioni teologiche circa la<br />

predestinazione ante oppure post praevisa merita della controversia de auxiliis.<br />

Orbene la riflessione sulla grazia come Spirito Santo non poteva non condurre il<br />

discorso sull‟economia salvifica, dove il rapporto grazia-libertà si pone in riferimento<br />

a Gesù Cristo. Solo la considerazione della predestinazione di Cristo e dell‟umanità<br />

in Lui consente di strappare il discorso dall‟inesorabile oscillazione tra la volontà<br />

salvifica di Dio, inconoscibile e imperscrutabile, che quindi dà alla predestinazione<br />

un sapore di arbitrarietà, e la libertà degli uomini, che non può costituire il criterio<br />

della predestinazione, perché negherebbe la priorità dell‟azione salvifica divina. La<br />

considerazione dello Spirito di Gesù, effuso dal Signore risorto, principio e capo di<br />

tutta la creazione, introduce un nuovo orientamento nel pensare la predestinazione e<br />

più in genere, tutta la vita di grazia. Essa viene tolta dalla sua astrattezza, ma ancora<br />

di più viene superato l‟insolubile dilemma Dio che salva uomini salvati, mediante il<br />

ricupero del luogo cristologico. La grazia descrive la situazione dell‟uomo a partire<br />

da Cristo, non dunque immediatamente a partire dall‟uomo peccatore o dalla natura<br />

umana, e neppure per sé da un generico concetto di volontà salvifica universale, cioè<br />

a partire dalla sua predestinazione ad essere il Figlio di Dio e Salvatore, dalla sua<br />

Pasqua, dai sacramenti medianti i quali egli effonde lo Spirito. Il cristocentrismo<br />

della rivelazione, che ha in Barth il suo antesignano, approda sulla sponda della<br />

teologia cattolica, con le debite revisioni, esattamente intorno alla metà del<br />

Novecento. L‟incorporazione a Cristo, cioè la partecipazione alla sua stessa<br />

predestinazione, diventa il modo con cui si dispiega la teologia della grazia: in tale<br />

ottica va collocato il tema della predestinazione e acquistano nuovo significato i temi<br />

dell‟inabitazione dello Spirito, della giustificazione, della figliolanza divina, della<br />

remissione del peccato, della modificazione reale. Sul fondamento della<br />

predestinazione di Cristo e degli uomini in Cristo si raccolgono in modo ordinato i<br />

momenti della teologia della grazia incentrati sull‟evento della pasqua di Gesù.<br />

Questo è il primo guadagno sistematico della nostra ricostruzione storica. Per tale<br />

strada tuttavia il trattato tende a dissolversi, poiché la sua condensazione in una<br />

trattazione a parte viene vista come il frutto di una concezione cosificata della grazia,<br />

separata dai suoi contesti reali. Tale concezione è il frutto della controversia<br />

postridentina sulla giustificazione, che ha enfatizzato il dato negato dalla Riforma,<br />

cioè la trasformazione reale e profonda operata dall‟azione salvifica dello Spirito<br />

Santo nell‟uomo. Questa enfasi ha spinto a costruire tutta la dottrina della grazia<br />

come una costellazione attorno alla giustificazione e al dono creato. D‟altra parte<br />

simile sbilanciamento, al tempo della controversia, appariva funzionale a contrastare<br />

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l‟interpretazione esclusivamente imputata della giustificazione. Il ricupero su<br />

ambedue i fronti protestante e cattolico di più marcato cristocentrismo non solo<br />

colloca la dottrina della giustificazione al suo giusto posto nel processo della<br />

confermazione dell‟uomo a Cristo, ma fa comprendere anche le accentuazioni proprie<br />

della tradizione cattolica e della contestazione protestante. Ciò raccomanda di uscire<br />

dalla controversia e di istituire il discorso sulla giustificazione in un quadro più<br />

comprensivo, dentro il quale trova posto sia la sottolineatura protestante della<br />

assoluta priorità dell‟azione di Dio nella salvezza, sia quella cattolica della reale<br />

trasformazione operata nella libertà umana.<br />

6.0. La nascita del De Deo creante et elevante e la nozione di natura pura<br />

Il tema della natura pura accompagna la storia del De Deo creante et elevante. A<br />

differenza del De Gratia che ha una lunga storia quanto alla costituzione e al<br />

rinnovamento, la vicenda di questo trattato mostra che si è costituito in modo più<br />

affrettato ed è stato messo in crisi più celermente. In un breve ma puntuale contributo<br />

M. Flick ci offre informazioni preziose sull‟origine del manuale. Il primo trattato che<br />

compare con questo titolo è quello di D. Palmieri nel 1878, l‟anno della Aeterni<br />

Patris, preceduto da qualche anticipazione parziale. E‟ interessante la breve<br />

presentazione della trattazione fatta dal Palmieri: in essa si dice che il De Deo creante<br />

raccoglie le tesi teologiche riguardanti l‟attività creatrice di Dio e i suoi effetti, tesi<br />

per sé accessibili anche alla sola ragione, mentre il De Deo elevante raccoglie le tesi<br />

sul soprannaturale formatesi in seguito alla controversia baiana, tesi fornite dalla<br />

rivelazione. Già questa contrapposizione delle due parti è significativa. Essa allude a<br />

due separate considerazioni dell‟uomo: una secondo la ragione, l‟altra secondo la<br />

rivelazione.<br />

6.1. Filosofizzazione del tema della creazione<br />

Lo sfondo della trattazione è il mondo moderno di pensare i rapporti tra ragione e<br />

fede e tra natura e soprannatura, secondo uno schema giustapposto e dualistico. Il<br />

trattato viene a concludere una lunga storia che inizia nelle Summae medievali, passa<br />

attraverso la mediazione di Suàrez, trova il suo culmine nel sistema wolffiano e viene<br />

ripresa nella neoscolastica. Quest‟ultima pensa di rifarsi a san Tommaso, ma in realtà<br />

riceve un Tommaso filtrato dal binomio Suàrez-Wolff. Tale storia contempla l‟oblio<br />

della dimensione storico-cristologica nella considerazione della creazione e la<br />

sottolineatura della sua dimensione cosmologico-essenzialista. La tendenza nel<br />

medioevo non è evidente, perché i rapporti ragione e fede sono concepiti in modo<br />

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complesso e articolato, sostanzialmente all‟interno dell‟unità del disegno divino.<br />

Diventa evidente anzi espressamente tematizzata, quando il modo moderno di<br />

concepire i rapporti ragione e fede esige di mostrare che tra le verità affermate dalla<br />

rivelazione ci sono alcune verità di per sé accessibili alla ragione, e tra queste c‟è la<br />

creazione, e altre non accessibili, ma non ripugnanti alla ragione. Il carattere<br />

puramente filosofico del trattato è in sintonia con l‟insegnamento del Vaticano I<br />

(1870) ed è candidamente confessato dal Palmieri nella citata prefazione. Esso si<br />

manifesta anche nei contenuti in cui si articola il trattato De Deo creante, si svolge il<br />

tema della creazione in due momenti. Nel primo momento si parla di Dio in quanto<br />

creatore. La creazione è vista anzitutto, non sul versante della realtà originata da Dio,<br />

ma sul versante di Dio, considerato come causa ed origine delle cose. L‟essere<br />

creatore è un attributo di Dio, considerato non nel suo agire salvifico nella storia, ma<br />

nel suo essere assoluto e necessario posto a confronto con la contingenza degli esseri<br />

creati. La creazione come l‟atto divino che pone in essere l‟ente, aveva ricevuto nella<br />

Scolastica, in particolare in Tommaso, un approfondimento speculativo (STh I, q. 45<br />

a.3): il dipendere da Dio in tutto il suo essere porta a concludere che la creazione è<br />

una relazione(Unde relinquitur quod creatio in creatura non sit nisi relatio quaedam<br />

ad Creatorem, ut ad principium sui esse), uno stare davanti a Dio in forma immediata,<br />

totale e totalmente disponibile. L‟agire creatore è così strappato dal vincolo al<br />

problema dell‟inizio del mondo ed è collocato nella prospettiva metafisica del<br />

fondamento dell‟ente contingente. Questa visione è rimasta però rinchiusa in una<br />

prospettiva essenzialista e non si è intravista la fecondità e la possibile apertura anche<br />

ad una concezione evolutiva del mondo. Nel secondo momento del trattato vengono<br />

descritti gli effetti della creazione: mondo, uomo e angeli. La successione con cui<br />

queste realtà create sono presentate è varia (cf. le Summae, Suàrez, i manuali più<br />

recenti), a seconda dell‟influsso aristotelico o neoplatonico, ma costanti sono i<br />

seguenti orientamenti. Nella considerazione della creazione prevale l‟orizzonte<br />

cosmologico su quello antropologico: sia che si parta dal mondo in prospettiva<br />

aristotelica, sia che si parta dagli angeli in un‟ottica neoplatonica, la creazione viene<br />

vista come produzione di enti, il cui orizzonte significativo è il mondo naturale.<br />

L‟uomo dopo che è studiato insieme con il mondo in generale, viene considerato in<br />

ciò che lo differenzia dagli esseri umani, cioè nell‟anima, così come voleva la<br />

tradizione platonico-aristotelica, codificata nella Psychologia rationalis di Wolff. Da<br />

qui derivano i tipici problemi affrontati dalla teologia manualistica: il sinolo animacorpo;<br />

la spiritualità è immortalità come caratteristiche proprie dell‟anima.<br />

L‟antropologia si configura come dottrina dell’anima, nella sua differenza specifica<br />

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dal mondo materiale e con un interesse più marcatamente soteriologico nella<br />

direzione neoplatonica. Non manca una preoccupazione simile anche nella dottrina<br />

aristotelico-tomista, orientata a un‟esperienza della salvezza sul registro dell‟uomo<br />

come spirito incarnato. Al di sotto di questa esterna configurazione del trattato sta<br />

una concezione dell‟uomo come natura, cioè come un essere la cui definizione può<br />

prescindere dal rapporto storico-salvifico con Dio e può essere compresa<br />

semplicemente in base ad alcune caratteristiche che compongono la sua essenza, al di<br />

là delle variabili storiche. Alla natura così concepita vengono ricondotte alcune tesi<br />

proposte dalla rivelazione, ma di per sé accessibili anche alla ragione; ma come in<br />

questo momento il patrimonio antropologico, le tesi sulla creazione e le tesi<br />

sull‟uomo, assume un carattere marcatamente filosofico. Il pregio di tale<br />

impostazione consiste certamente nell‟approfondimento metafisico dell‟ente creato e<br />

della natura dell‟uomo. Il limite sta nella disattenzione all‟evolversi storico della<br />

realtà creata, e in particolare dell‟uomo, proprio mentre la cultura va costituendo tutta<br />

la sua ricerca e la sua riflessione scientifica e filosofica sulla storia dell‟uomo, sul suo<br />

esistere concreto. A tale processo di reificazione dell‟uomo come natura si è potuti<br />

arrivare in base a un percorso che diventa evidente nel De Deo elevante.<br />

6.2. La natura pura: Baio e la controversia post-baiana<br />

Stando alle dichiarazioni del Palmieri, la seconda sezione del trattato, il De Deo<br />

elevante, raccoglie le tesi sorte in occasione della disputa baiana. In realtà il Palmieri,<br />

più che a Baio, da cui lo dividono tre secoli, si rifà ad una tradizione teologica che<br />

certamente prende avvio dalla controversia baiana, ma poi si arricchisce di nuovi<br />

elementi legati dalla maniera di impostare i rapporti ragione-fede. Questa vicenda,<br />

che ha dato origine all‟ipotesi di natura pura, è stata descritta dalla trilogia di H. de<br />

Lubac. Con una certa schematizzazione posso descrivere le tappe secondo le quali si<br />

è costituita questa tradizione nel seguente modo. Michele Baio (1513-1589), un<br />

autore che si colloca totalmente nel secolo della Riforma e insegna a Lovanio dal<br />

1550 in una regione, i Paesi Bassi, dove il confronto con i protestanti è vivo, ha<br />

distinto la situazione dell‟uomo dopo il peccato, per il quale la grazia è gratuita, in<br />

quanto non può pretenderla, da quella dell‟uomo prima del peccato, cioè lo stato<br />

originario. Per Baio in quest‟ultima condizione i doni di grazia erano naturali.<br />

Occorre ricordare la preoccupazione e il metodo del teologo di Lovanio, che non<br />

furono direttamente compresi dai suoi contemporanei. La sua preoccupazione è<br />

quella di porre un freno all‟influsso dei Riformatori, scendendo sul loro stesso terreno<br />

e adottando il medesimo metodo. Per questo egli, come i Riformatori, si rifà ad<br />

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Agostino, proponendone un‟interpretazione che non tratteggia solo la grazia nello<br />

stato infralapsario, ma anche nello stato originario dell‟uomo. Inoltre adotta lo stesso<br />

metodo dei Riformatori che, saltando la scolastica, risalivano ai Padri e in particolare<br />

ad Agostino. Baio si allontanava così dall‟analisi metafisica della natura umana per<br />

collocarsi in una prospettiva storica. Nel De prima hominis iustitia (1564) la<br />

descrizione dello stato originario di Adamo è fatta in rapporto allo stato di natura<br />

decaduta e di natura redenta. L‟intenzione è quella di mitigare il pessimismo<br />

protestante nella elaborazione della nozione di grazia. In Baio è cosciente la<br />

considerazione dell‟uomo nella prospettiva storica e ciò comporta anche l‟esclusione<br />

della prospettiva filosofica. Questo non è stato avvertito dai suoi detrattori, mentre<br />

egli si è sempre richiamato al fatto che si atteneva alla considerazione dell‟uomo in<br />

quanto rivelata. La considerazione filosofica della natura poteva essere praticata dal<br />

filosofo, ma risultava non pertinente per il cristiano (impertinens est) e quindi per il<br />

teologo, il quale considera le cose nella loro relazione con Dio. Di qui il suo metodo<br />

che considera la natura dell‟uomo, secondo la prospettiva dalla Scrittura e ripresa da<br />

Agostino, nei diversi stadi di natura innocente, decaduta e redenta. Il metodo era<br />

quindi chiaramente in dialogo con il procedimento dei Riformatori. Baio afferma che<br />

nello stato originario i doni di grazia sono naturali. La corretta esegesi del pensiero<br />

baiano è controversa, ma è importante sapere come l‟ha capito la teologia del tempo,<br />

perché è in base a quella comprensione o fraintendimento che i teologi hanno reagito<br />

nei suoi confronti. Per definire lo stato di natura innocente, il teologo di Lovanio<br />

parte dalla definizione classica: nella condizione originaria di Adamo è caratterizzato<br />

dalla integritas o rectitudo. E‟ noto che nel medioevo c‟erano due linee liberamente<br />

dibattute che descrivevano lo stato di natura integra (rectitudo): l‟una che affermava<br />

che Dio ha creato l‟uomo immediatamente con il dono dello Spirito Santo; l‟altra<br />

sosteneva che il dono dello Spirito sarebbe stato concesso solo in un secondo tempo.<br />

La questione era aperta, tanto neppure il concilio di Trento aveva preso posizione,<br />

tenendosi al di qua delle discussioni di scuola (sanctitatem et iustitiam in qua<br />

constitutus fuerat, DS 1511). La prima linea era tradizionale di tutti gli antichi Padri,<br />

ed quella seguita dall‟autore, mentre la seconda era la posizione dei recentiores ed è<br />

da respingere, perché configura la relazione con Dio non come originaria, ma come<br />

sopraggiunta in un secondo tempo. Da buon agostiniano Baio non può pensare ad una<br />

condizione originaria che non si caratterizza dal rapporto essenziale con Dio. Ora se<br />

l‟uomo è caratterizzato sin dall‟inizio dalla presenza dello Spirito inabitante, è nella<br />

condizione di rectitudo o di natura integra, nel senso che lo Spirito presiede<br />

all‟armonia complessiva delle sue componenti, la conoscenza della legge morale in<br />

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mente; l‟obbedienza perfetta a Dio in voluntate, l‟ordinamento delle passioni inferiori<br />

alle parti superiori dell‟anima e, infine la sottomissione di tutto il corpo alla volontà.<br />

Qui si inserisce la particolarità di Baio. Egli definisce lo stato di natura innocente<br />

come naturale, perché assumendo la prospettiva storico-rivelata, usa il termine<br />

soprannaturale nel senso di miracoloso, e in questa prospettiva la grazia dopo il<br />

peccato dove ben dirsi soprannaturale, mentre i doni dati nello stato di natura<br />

innocenti erano naturali. In una prospettiva rivelata, così come l‟uomo fattualmente<br />

appare nello stato innocente, l’integritas deve ritenersi naturale, non nel senso di<br />

deducibile dai principi costitutivi della natura (considerazione filosofica), ma nel<br />

senso di derivante dalla nascita (creazione): naturalis quia ex nativitate trahitur<br />

(considerazione storica). In che senso Baio intendesse tale qualifica è questione<br />

controversa. Per i doni dati con la nascita (ex nativitate) egli distingue<br />

consapevolmente tra l‟originaria disposizione divina concessa ad Adamo e la<br />

condizione attuale in cui l‟uomo viene al mondo (sicut homo nunc nascitur): nel<br />

primo senso i doni sono naturali, nel secondo soprannaturali. Allora nello stato<br />

innocente, così sembra di dover concludere, i doni sono naturali perché dati all‟uomo<br />

insieme alla natura creata, doni all‟uomo nel momento della creazione, quasi fossero<br />

una dotazione nativa, cioè appartenenti alla sua nascita. Questo non significa che<br />

fossero gratuiti, appunto doni, come del resto era dono essere creatura. Il fatto che<br />

Baio collocasse sullo stesso terreno semantico la natura innocente e i doni di grazia<br />

concessi appunto per natura/nascita e in tal senso naturali per l‟uomo, lo esponeva<br />

certamente nel fraintendimento. Per un ascoltatore aduso al linguaggio scolastico,<br />

naturale significava dovuto alla natura umana, a partire dai suoi elementi costitutivi o<br />

dalle sue esigenze ontologiche e morali. Baio invece si manteneva in una prospettiva<br />

storica, e intendeva descrivere il fatto rivelato della creazione dell‟uomo dotato<br />

gratuitamente dei doni di grazia, concessi simultaneamente alla natura creata.<br />

Sembra che non volesse parlare, almeno così dicono gli esegeti recenti del suo<br />

pensiero, di un‟esigenza morale o ontologica dei doni soprannaturali a partire dalla<br />

natura. Prospettiva storico-teologica e prospettiva ontologica sembravano non capirsi<br />

e non incontrarsi. Ciò spiega l‟obiettiva ambiguità del pensiero di Baio, soprattutto<br />

per orecchi che pensavano la natura in termini essenzialisti. In quest‟ottica nessun<br />

dono di grazia poteva essere dovuto o ricavato come esigenza e conseguenza della<br />

natura umana. Doveva essere in ogni caso anche nello stato originario sopranaturale.<br />

La teologia antibaiana elabora la nozione di natura pura per combattere<br />

l‟ambiguità del teologo di Lovanio. Con ciò tuttavia si lascia imporre la forma del<br />

pensiero del nuovo status quaestionis. La nozione di natura pura viene assunta come<br />

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ipotesi perché a quanto pare, essa non è nata in funzione antibaiana, ma esisteva<br />

precedentemente per contrastare l‟affermazione di Baio sui doni della grazia, di cui<br />

Adamo era dotato in modo naturale, cioè i dati con la nascita. Finora la teologia era<br />

abituata a proclamare la gratuità della grazia in rapporto all‟uomo peccatore: secondo<br />

la linea agostiniana, la grazia (auxilium, adiutorium), è gratuita perché consta di<br />

mezzi di salvezza non dovuti all‟uomo resosi immeritevole con il peccato. In<br />

quest‟ottica la gratuità della grazia appariva di un‟evidenza solare ed assoluta, poiché<br />

la libertà peccatrice non poteva in alcun modo pretendere la grazia persa con il<br />

proprio comportamento. La teologia antibaiana, invece elaborò nuovi strumenti<br />

concettuali per interpretare la gratuità in rapporto all‟uomo nello stato originario che<br />

sembrava minacciata dall‟impostazione di Baio. Lo fece con un nuovo strumento<br />

concettuale, cioè formulando l‟ipotesi di una natura pura. L‟ipotesi suonava così:<br />

nella condizione originaria, Dio per sé avrebbe potuto creare l‟uomo in uno stato di<br />

natura pura, senza la grazia, cioè senza un fine soprannaturale e i mezzi per<br />

conseguirlo. Se anche in questo stato l‟uomo appare dotato della grazia e chiamato<br />

all‟unico fine dell‟amicizia con Dio, questo ha un indubitabile carattere<br />

soprannaturale. L‟ipotesi della natura pura, cioè di una natura per sé pensabile anche<br />

con un fine solo naturale, appare dunque un dispositivo logico per spiegare e salvare<br />

la soprannaturalità del fine, che anche questa teologia, in piena fedeltà alla tradizione,<br />

riconosceva come l‟unico storicamente esistente per l‟uomo. La censura di Baio<br />

avviene a ondate successive e rappresenta uno dei momenti più intricati della<br />

controversia. Gli storici segnalano almeno tre momenti. 1) E‟ antecedente alla Bolla<br />

di Pio V Ex omnibus afflictionibus del 1567, anzi per sé precede la stessa opera De<br />

prima hominis iustitia (1564) e si riferisce alle censure di due università spagnole di<br />

Alcalà e di Salamanca intorno al 1550, che si erano tra l‟altro espresse<br />

indipendentemente. La Bolla avrebbe raccolto le proposizioni censurate delle due<br />

Facoltà, in particolare quelle riferentisi allo stato originario, prop. nn. 21.23.24 da<br />

ambedue le Università, prop. n. 26 solo da Salamanca. Sullo sfondo di queste censure<br />

ci sarebbe un indirizzo tomista, ispirato al Gaetano, nel senso che al pensiero baiano<br />

si contrappone la teologia che interpretava la condizione originaria dell‟uomo, e più<br />

in genere il rapporto natura-soprannaturale, in base allo schema di pensiero incentrato<br />

sulla possibilità di natura pura. I teologi di Salamanca osservano che il concetto di<br />

integritas è molto ampio, integrità naturale fino a includere i doni soprannaturali, e<br />

questo lascia lo spazio alle ambiguità di Baio. Perciò ne propongono una<br />

determinazione in funzione antibaiana. Questa prima risposta è forse quella che<br />

meglio si colloca nella prospettiva propria di Baio. Il secondo momento della<br />

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reazione a Baio è ormai condizionato dalla Bolla di Pio V, anzi il pronunciamento<br />

papale diventerà d‟ora in poi la lente di lettura dei testi del dottore di Lovanio, anche<br />

perché sovente gli ulteriori critici, Suàrez lo dice apertamente, non hanno accesso ai<br />

testi di Baio in quanto era proibito leggere gli scritti bollati con la censura. Sembra<br />

che dopo il 1567 la teologia antibaiana non abbia più a disposizione i testi e quindi<br />

fatalmente legga Baio in un‟altra prospettiva, quella ormai delineata dalla Bolla. Si<br />

deve supporre che avvenga così per il Commentario dell‟Università di Lovanio del<br />

1586, per Bellarmino e certamente per Suarez. Del resto i nuovi commentatori critici<br />

condividevano la prospettiva filosofica, che era assai distante dalla prospettiva<br />

storico-rivelata di Baio. La letteratura di opposizione, pertanto, si dedicherà a definire<br />

l‟integritas originaria sul filo degli elementi costitutivi. Il Commentario della Facoltà<br />

di Lovanio afferma che l‟elevazione è sempre soprannaturale prima e dopo il peccato,<br />

perché essa è definita in rapporto agli elementi costitutivi o esigiti della natura e non<br />

in rapporto alla derivazione dell‟uomo da Dio. L‟uomo avrebbe potuto essere creato<br />

in puris naturalibus con un destino religioso-morale, anche senza il fine della<br />

beatitudine. Ormai la prospettiva è mutata, per cui le stesse proporzioni hanno un<br />

significato diverso: l‟una delinea il soprannaturale a partire dalla natura e dal fine,<br />

l‟altra a partire dalla storia e dai diversi stati in cui l‟uomo transita, stato innocente,<br />

decaduto, redento. Il processo è compiuto con Suàrez, quando non solo le due<br />

prospettive si contrappongono senza intendersi, ma ormai la prospettiva filosofica<br />

tende ad assorbire quella storica: il soprannaturale è in ogni caso pensato sulla base<br />

dell‟impossibilità ed essere esigito dall‟uomo, gratuito significa immeritorio,<br />

certamente dopo il peccato e così anche prima del peccato. Il terzo momento della<br />

teologia antibaiana si incentra su J.M. Ripalda (SJ 1594-1648) che confuta Baio<br />

attraverso Giansenio. Ripalda darà al pensiero baiano la sua versione recepta,<br />

collegando strettamente i due momenti: l‟interpretazione dello stato originario di<br />

Baio e il problema della possibilità della natura pura. Si deve a Ripalda, secondo la<br />

revisione storiografica, non solo la connessione logica dei due problemi, ma la<br />

filiazione diretta tra Baio e Giansenio proprio sulla questione del soprannaturale, uno<br />

schema che perdurerà immutato fino a De Lubac compreso (Deux augustiniens<br />

fourvoyès). Si tratta di una filiazione che schiaccia il giansenismo, almeno quello di<br />

Giansenio, sulla questione del soprannaturale. Quest‟ultima rappresenta un momento,<br />

ma non certo la prospettiva fondamentale di Giansenio, incentrata invece sul rapporto<br />

tra grazia e libertà. L. Ceyssens ha proposto una revisione storiografica del<br />

giansenismo, che lo sottrae alla questione del soprannaturale, anzi Giansenio sarebbe<br />

pienamente d‟accordo su questo punto con la Bolla antibaiana, mentre<br />

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l‟accorpamento di Baio e di Giansenio è un frutto del fronte antigiansenista<br />

inaugurato da Ripalda. De Lubac ha ripercorso l‟emergere quasi in sordina della<br />

nozione di natura pura introdotta da Gaetano(Tommaso de Vio OP, 1468-1533), ed<br />

elaborata, in forma diversa da Bellarmino (SJ, 1542-1621), ma che deve a Suàrez (SJ,<br />

1568-1617) la sua fortuna, sullo sfondo della sua impostazione del rapporto naturasoprannatura.<br />

La teologia post-baiana, coniugando le due questione già medievali<br />

dello stato originale (nel sec. XII ci si chiedeva se l‟uomo sia creato in gratuitis o in<br />

puris naturalibus e della chiamata alla beatitudine (s. Tommaso) spostò quasi senza<br />

accorgersene la propria riflessione sulla grazia, il collegamento avviene con<br />

Bellarmino dalla prospettiva dei mezzi (auxilia) a quella del fine. La situazione<br />

originaria era gratuita perché orientava l‟uomo ad un fine nuovo eccedente, non<br />

dovuto alla natura umana come tale, un fine appunto soprannaturale. Alla base di<br />

questa concezione del tutto nuova sta la considerazione che l‟uomo può essere<br />

orientato a un duplice fine naturale e soprannaturale. Il primo viene avanzato come<br />

ipotesi, nel senso che l‟uomo può essere pensato con un fine semplicemente naturale,<br />

che però storicamente non si è realizzato, perché sostituito nella realtà, cioè<br />

nell‟attuale piano storico-salvifico, dal fine soprannaturale. L‟ipotesi della natura<br />

pura, pensabile cioè con un fine naturale, in conclusione aveva la funzione di salvare<br />

la gratuità del fine soprannaturale. La teologia antibaiana tentava così di rifiutare<br />

l‟ambiguità contenuta nella teologia di Baio, ma accettando da lui lo spostamento<br />

della considerazione della grazia dalla condizione dopo il peccato allo stato<br />

originario, dislocava ma ciò non era richiesto dalla teologia di Baio, anche il tema<br />

della gratuità dalla prospettiva dei mezzi a quella dei fini. Introducendo la possibilità,<br />

almeno ipotetica, di un fine esclusivamente naturale per l‟uomo, insinuava un<br />

dualismo che sarebbe potuto diventare pericoloso. Alla elaborazione di questo modo<br />

di pensare contribuì una discutibile interpretazione data dal Gaetano alla tesi tomista<br />

del desiderio naturale di vedere Dio che apre la strada alla teologia del duplex ordo e<br />

del duplice fine.<br />

6.3. L’inesorabile influsso sullo schema apologetico<br />

Lo svolgimento della vicenda sulla natura pura (secolo XVIII e XIX) segnala un<br />

fenomeno curioso ma decisivo per lo sviluppo dell‟antropologia teologica.<br />

Lentamente avviene un trapasso di mentalità, che è difficilmente documentabile, ma<br />

che si avverte come inclinazione inesorabile del pensiero. Il discorso sulla natura<br />

pura, introdotto come ipotesi per spiegare la gratuità del fine soprannaturale, l‟unico<br />

storicamente riconosciuto, trapassa insensibilmente alla natura pura considerata come<br />

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entità storicamente realizzata. Avviene la progressiva storicizzazione dell‟ipotesi<br />

della natura pura che produrrà la conseguenza di relegare sempre più nel campo del<br />

possibile, dell‟ipotetico e quindi dell‟irrilevante, il fine soprannaturale. A questo<br />

trapasso concorrono due fenomeni, che sono condizionati dall‟interlocutore che la<br />

teologia prenderà di mira. In questo periodo la riflessione teologica si muove<br />

sostanzialmente con una preoccupazione apologetica, nel senso che cerca di<br />

interloquire/rispondere all‟uomo moderno e alle sue contestazioni della fede. Tuttavia<br />

lo fa con uno schema di pensiero che cerca di salvare uno spazio per la fede oltre la<br />

ragione, che viene accolta o lasciata nella sua pretesa insindacabile di valere come<br />

evidenza originaria. Il primo fenomeno è interno alla teologia. La tendenza ad<br />

opporsi al pessimismo protestante e al sempre risorgente agostinismo, nelle sue<br />

diverse versioni postridentine, incentrato sulla situazione dell‟uomo peccatore,<br />

orienta la teologia verso una minimizzazione delle conseguenze del peccato.<br />

Soprattutto il filone dei gesuiti ha avuto un peso in questo spostamento d‟accento. Per<br />

descrivere la differenza tra l‟uomo peccatore e l‟uomo nella condizione originaria la<br />

teologia di ispirazione agostiniana usava l‟immagine del tamquam vulneratus a sano,<br />

l‟uomo dopo il peccato è ferito, mentre prima del peccato era sano. Tale immagine<br />

era ancora segnata dal troppo pessimismo. La scuola gesuitica conia una nuova<br />

espressione parallela alla prima, descrivendo la differenza tra l‟uomo prima e dopo il<br />

peccato con l‟immagine tamquam spoliatus a nudo, l‟uomo dopo il peccato è<br />

spogliato dall‟abito della grazia. La sua situazione è equiparabile a quella di Adamo<br />

prima dell‟elevazione allo stato soprannaturale, rivestito dell‟abito della grazia. Dal<br />

punto di vista sostanziale non c‟è alcuna differenza, se non la perdita di un dono. Alla<br />

luce di questa immagine della scuola gesuitica è facile identificare l‟uomo lapsus con<br />

l‟uomo in stato di natura pura, cioè di natura prima dell‟elevazione della grazia<br />

divina. La natura pura viene così storicizzata per una inconsapevole identificazione<br />

con lo stato storico dell‟uomo peccatore, concepito in modo ambiguo con l‟immagine<br />

del tamquam spoliatus a nudo. Si comprende bene la funzione della diversa<br />

impostazione teologica: la condizione dell‟uomo dopo il peccato è descritta nell‟una<br />

scuola agostiniana nei termini di una libertà ferita, bisognosa di una grazia che la sani<br />

fin nella radice; nell‟altra scuola gesuitica come una libertà spogliata dalla grazia,<br />

tutto sommato disponibile e riaccoglierla. La differente ricaduta spirituale, morale e<br />

pastorale delle due impostazioni è abbastanza evidente. La vicenda storica della<br />

battaglia tra giansenismo e scuola gesuitica è il momento più emblematico di una più<br />

diffusa differenza di sensibilità. Il secondo fenomeno è extrateologico e pone la<br />

teologia in confronto con la cultura moderna. La tendenza della cultura moderna<br />

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interpreta l‟uomo, i suoi progetti, le sue relazioni, le sue istituzioni, il suo futuro, nel<br />

senso di un radicale autonomismo, ma ciò mette in questione la teologia. La teologia<br />

moderna si è lasciata influenzare da tale provocazione, spinta sia dal bisogno di<br />

giustificare la propria specificità, la gratuità della fede/soprannatura presso la sempre<br />

più sfuggente cultura moderna dell‟autonomia dell‟uomo, sia dall‟interpretazione di<br />

un dato costante della tradizione cattolica, cioè la consistenza riconosciuta alla libertà<br />

umana, anche la libertà peccatrice dentro il rapporto salvifico con Dio. Tuttavia,<br />

mentre la tradizione precedente patristica e medievale collocava la consistenza<br />

relativa della libertà dentro l‟unico fine soprannaturale, la nuova interpretazione tende<br />

a leggere la stessa libertà come qualcosa che può esistere anche fuori dalla fede. Del<br />

resto ciò ha anche all‟origine una serie di fatti storici: la Riforma che, rompendo<br />

l‟unità della fede, le fa perdere il carattere di principio unitario del sapere universale;<br />

le guerre di religione successive che fanno cercare altrove nella ragione il principio di<br />

sintesi dell‟esperienza umana e della vita sociale. L‟illuminismo rappresenta appunto<br />

l‟esecuzione programmatica di questa tendenza nel campo del sapere scientifico o<br />

dell‟agire sociale. Ciò finisce per attribuire alla fede un carattere di esteriorità e<br />

sopravvenienza che, se le salva uno spazio accanto e oltre la ragione, consacra<br />

l‟impostazione apologetica tipica di questa stagione del pensiero teologico. Così della<br />

libertà si danno due considerazioni: la prima proviene alla teologia dalla fede, la<br />

quale afferma che l‟uomo è libero perché deve essere il consapevole e responsabile<br />

interlocutore del dialogo salvifico; la seconda assume il dato dell‟effettiva libertà<br />

dell‟uomo, la sperimenta e la studia razionalmente, e anche al di fuori della visione di<br />

fede, soprattutto nelle sue condizioni storiche, libertà psicologica, sociologica, libertà<br />

di fronte alle cose, libertà interpersonale. La storia dell‟antropologia nella cultura<br />

moderna, sopra evocata, è l‟illustrazione del clamoroso successo che ha avuto questa<br />

seconda considerazione dell‟uomo. La teologia avrebbe dovuto studiare i rapporti tra<br />

libertà cristiana e le varie forme ed esperienze della libertà espresse nelle diverse<br />

manifestazioni culturali della modernità. La teologia moderna invece, sul presupposto<br />

di fede della relativa autonomia dell‟uomo, ha accolto semplicemente il discorso<br />

culturale, assumendo la nozione di libertà emergente dalla cultura. Prendendo<br />

esperienza e nozione come punto di partenza ha aggiunto, in seconda battuta, il<br />

discorso della fede e ha delineato la specificità cristiana, la grazia come dono<br />

superaddito, nei termini di un fine sopraggiunto successivamente, innescando un<br />

sottile processo di estrinsecismo. Il risultato fu l‟elaborazione della teologia naturale<br />

che mira a giustificarsi di fronte al fondamento della pura ragione. Ne è derivata<br />

l‟apologetica come giustificazione della fede di fronte alla ragione. Il discorso su Dio<br />

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patì la conseguenza di doversi misurare con il deismo, mettendo in sordina l‟aspetto<br />

propriamente trinitario. Ugualmente il discorso sull‟uomo dovette confrontarsi con il<br />

discorso della natura umana, relegando in secondo piano il discorso sul<br />

soprannaturale. Nasce così l‟antropologia del duplice fine, ma con l‟esito di concepire<br />

per l‟uomo la possibilità di un destino puramente naturale, in parallelo con la teologia<br />

naturale, in quanto la visione beatifica (la Trinità) non era necessaria a partire dalla<br />

considerazione dell‟uomo come natura, se questi non fosse stato sopraelevato dalla<br />

grazia soprannaturale. L‟antropologia appare quindi funzionale all‟istanza moderna,<br />

in quanto accetta il suo presupposto del fine naturale, mentre salva al prezzo di una<br />

deriva estrinsecista, tutto ciò che si riferisce all‟economia cristiana. Essa risulta così<br />

assolutamente gratuita non solo per ciò che riguarda i mezzi, ma anche per il suo fine.<br />

Al moderno veniva concesso il massimo pensabile, lasciandogli la possibilità di<br />

ipotizzare un uomo in stato di natura, con un proprio fine naturale. Il dato paradossale<br />

della tradizione, che pensava l‟uomo con le sue capacità naturali ordinato ad un unico<br />

fine soprannaturale, correva il rischio di essere sottilmente razionalizzato. La gratuità<br />

del soprannaturale era così affermata in modo estremo, col pericolo di renderlo<br />

talmente gratuito da ritenerlo secondario e superfluo rispetto ad una natura che poteva<br />

conseguire un proprio fine autonomo. L‟intenzione di salvare lo spazio della<br />

fede/grazia era certo preservato, ma al prezzo di uno schema che ne decretava la sua<br />

estrinsecità. La teologia moderna cattolica rispondeva allo spirito dell‟epoca cercando<br />

di collocarsi in una zona al riparo da ogni critica, in una condizione di obiettiva<br />

marginalità. Alla fine di questo processo, e ritorniamo di nuovo a Palmieri, risulta<br />

compiuto l‟accostamento tra considerazione della creazione/uomo secondo la ragione<br />

e visione dell‟uomo secondo la grazia. Dobbiamo riconoscere che l‟impostazione del<br />

De Deo creante et elevante corona la storia finora delineata. In particolare, se<br />

vogliamo dare uno sguardo al suo indice, il De Deo elevante si articola in due parti.<br />

1) L‟uomo nella condizione originaria ricopre la prima parte della trattazione. In essa<br />

si elencano i doni ricevuti da Dio secondo la triplice gradazione: naturali,<br />

preternaturali e soprannaturali. I doni proporzionati alla natura sono naturali: quelli<br />

che la superano sono solo quoad modum sono preternaturali (scienza infusa, integrità,<br />

immortalità); quelli che la superano quoad substantiam, cioè non sono un elemento<br />

costitutivo della natura, né una sua conseguenza, né una sua esigenza, nei termini<br />

tecnici della teologia della natura pura: non possono essere dedotti dall‟uomo neque<br />

constitutive, neque exigitive, neque consecutive, sono soprannaturali. 2) La trattazione<br />

sul peccato originale è intesa come perdita dello stato originario. Infatti la<br />

considerazione del peccato originale è svolta in rapporto a un concetto di giustizia da<br />

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cui è assente la dimensione storico-cristologica, perché è svolta in rapporto alla<br />

natura creata. Pertanto i contenuti di tale peccato, la disobbedienza di Adamo, che<br />

cosa si trasmette ai discendenti di Adamo, che tipo di legame intercorre tra lui e i<br />

discendenti: rispettivamente, peccato originale originante, peccato originale originato,<br />

modo della trasmissione, vengono pensati a partire dalla caduta di Adamo più che in<br />

riferimento a Gesù Cristo.<br />

6.4. Sgretolamento di un traguardo rassicurante<br />

Il trattato De Deo creante et elevante, alle cui radici siamo risaliti, appare dunque una<br />

registrazione dello stato della teologia della fine dell‟Ottocento. La sua fortuna<br />

sembrò consacrata anche al di là del magistero del Vaticano I (Cost. Dei Filius, 1870)<br />

e dall‟enciclica Aeterni Patris (1879). La fragilità del trattato, però, proviene, dalla<br />

capacità con cui è riuscito a collocarsi in una sorta di zona franca, al riparo sia dalle<br />

provocazioni della fede che considera l‟uomo entro la storia della salvezza, sia dalle<br />

sollecitudini della cultura, che oltrepassando l‟illuminismo wolffiano, andava<br />

elaborando nuove concezioni antropologiche contrassegnate dall‟attenzione<br />

all‟esistente concreto. La disgregazione e il superamento del trattato provengono<br />

dall‟intervento incrociato della riscoperta della historia salutis, dovuta al<br />

rinnovamento biblico, e dallo sviluppo della filosofia, in particolare della svolta<br />

antropologica in teologia. Le tappe della problematizzazione del trattato possono<br />

essere solo qui evocate. Si potrebbe dire che rappresentano la storia del rinnovamento<br />

teologico nel Novecento. Il rinnovamento biblico e lo sviluppo filosofico hanno agito<br />

in modo convergente nel senso di mettere in discussione l‟ovvietà dello strumento<br />

filosofico di cui la teologia si era servita, denunciandone il carattere sostanzialmente<br />

ellenistico. Da un lato, gli studi biblici hanno messo in luce il contesto semitico in cui<br />

si era espresso il messaggio cristiano prima dell‟inculturazione ellenistica. Dall‟altro,<br />

lo sviluppo filosofico ha messo in discussione la metafisica greca, in realtà la<br />

metafisica suareziano-wolffiana, oltrepassandola verso nuove forme di<br />

interpretazione dell‟esistenza dell‟uomo. Tutto ciò ha problematizzato il valore<br />

teoretico e la fedeltà biblica delle tesi antropologiche elaborate con una<br />

precomprensione greca. L‟influsso filosofico/teologico ha condotto al superamento di<br />

un concetto di soprannaturale non calibrato in modo cristiano. La lunga vicenda del<br />

soprannaturale raccoglie una serie di influssi convergenti che sfociano nel<br />

superamento di una impostazione pregiudicata dalla tematica. Si ricordi il<br />

superamento dei rapporti ragione e fede e la critica all‟apologetica ottocentesca<br />

estrinsecista, il filone che prende avvio da Blondel. Si pensi alla critica storica e<br />

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teoretica della nozione di natura pura operata dalla cosiddetta thèologie nouvelle tra i<br />

cui esponenti spicca De Lubac. Si ripercorra la discussione delle interpretazioni della<br />

tesi tomista sul desiderio naturale di vedere Dio. Si veda in campo protestante la<br />

reazione alla teologia liberale, capeggiata da Barth e da coloro che l‟hanno seguito.<br />

Tutti questi filoni, in forme a volte assai differenti, hanno spinto l‟antropologia<br />

teologica a ricuperare la sua originaria derivazione da Gesù Cristo, piuttosto che<br />

essere definita a partire da un concetto previo di natura. Il ritorno alla Bibbia, d‟altra<br />

parte, ha permesso di reinterpretare i temi cristiani riguardanti l‟uomo, espressi in<br />

forma parziale o disseminati in vari contesti dalla tradizione teologica, soprattutto<br />

quella del manuale. C‟è stato un ripensamento della creazione, dell‟unità dell‟uomo,<br />

della corporeità, del rapporto tra immortalità e risurrezione, in un contesto più<br />

biblico. Approfondendo in questa linea, si è capito che si trattava solo di ripensare<br />

alcuni temi, ma di riscoprire il senso stesso della rivelazione e le linee di forza della<br />

sua visione circa l‟uomo: essa non è prima di tutto un deposito di verità, di<br />

definizioni, di dogmi, ma l‟autocomunicazione di Dio nella storia. Questa nuova<br />

visione imponeva di chiarire i due poli entro cui avviene il dialogo salvifico: Gesù<br />

Cristo, come vertice dell‟autocomunicazione divina, e l‟uomo, propriamente<br />

l‟umanità come suo destinatario. Gesù diventa il senso dell‟uomo, la sua piena<br />

rivelazione. Essere uomini significa scoprire e vivere il proprio destino in rapporto<br />

con il destino di Gesù. La conclusione emergente da questa revisione radicale è la<br />

seguente: fare l‟antropologia secondo la Rivelazione, e non a partire da un concetto<br />

previo di natura, significa elaborare l‟antropologia secondo la cristologia. Tuttavia,<br />

nell‟esecuzione concreta del progetto di antropologia teologica si fanno evidenti<br />

ancora le differenze provenienti dallo strumento filosofico che interviene a strutturare<br />

le cristologie degli autori contemporanei. Se l‟antropologia va strutturata sulla<br />

cristologia, è evidente che la diversità di impostazione delle cristologie influisce sul<br />

disegno dell‟antropologia stessa. I due grandi filoni che hanno influenzato<br />

l‟esecuzione della cristologia contemporanea derivano dalle filosofie dell‟esistenza e<br />

dalle filosofie della storia. Il punto di vista sintetico che presiede all‟architettura della<br />

cristologia rifluisce sul modo di intendere la relazione tra Cristo e l‟uomo. Per questo<br />

alla fine del percorso storico nasce l‟istanza di istituire correttamente la relazione tra<br />

cristologia e antropologia.<br />

7.Cristologia e antropologia: l’approdo contemporaneo<br />

La lezione della storia sin qui riscostruita approda ad un traguardo che è stato<br />

inaugurato dal concilio Vaticano II ed è proseguito nella stagione postconciliare.<br />

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L‟approdo si può formulare sinteticamente così: l‟antropologia teologia deve essere<br />

costruita sul principio architettonico della rivelazione e in particolare deve strutturarsi<br />

sull‟evento di Gesù Cristo. Questo è anche l‟esito della storia dei trattati, la ragione<br />

del loro superamento e della confluenza dei percorsi nell‟antropologia teologica.<br />

a. La natura della modernità<br />

Il risultato della costruzione storica rappresenta un punto di non ritorno. Infatti, esso<br />

mette in salvo la coscienza sempre più nitida che l‟antropologia teologica tratteggia il<br />

sapere cristiano sull’uomo in forza dell‟evento cristologico. La storia di Gesù è il<br />

luogo dell‟autocomunicazione di Dio all‟uomo, una presenza/comunione che non<br />

assorbe la diversità di uomo e mondo, bensì la istituisce. E‟ il senso fondamentale del<br />

concilio di Calcedonia. Questo si realizza nell‟evento dell‟incarnazione e nella<br />

dinamica della vicenda storica di Gesù che culmina nella Pasqua. Cristo appare<br />

l‟uomo pienamente corrispondente a Dio, cioè l‟Immagine ultima e definitiva del<br />

Padre. Su questo punto, pur nella diversità dei linguaggi, c‟è una corale convergenza,<br />

sia sul versante protestante che su quello cattolico. D‟altra parte, questa convergenza<br />

sembra subito differenziarsi quando si mette in luce che l‟umanità singolare di Gesù<br />

comporta una determinazione dell‟essere uomo per tutti gli uomini. Infatti, la fede<br />

cristiana proclama un‟affermazione che rivendica una pretesta universale: l‟umanità<br />

di Gesù Cristo è la figura escatologica di ogni uomo e lo Spirito è la condizione di<br />

possibilità perché l‟umano si conformi liberamente a Gesù. Cristo è la figura<br />

escatologica di ogni uomo e lo Spirito è la condizione di possibilità perché l‟umano si<br />

conformi liberamente a Gesù. Cristo è la figura compiuta del destino di ogni uomo e<br />

di tutta l‟umanità, la predestinazione. E lo Spirito rende persino possibile che questo<br />

compimento possa essere recuperato, la conversione, allorquando l‟uomo si<br />

allontanasse da tale destino. In tal modo Gesù diventa il Redentore dell‟uomo, perché<br />

lo giustifica, cioè lo riporta alla corrispondenza della sua destinazione originaria. Il<br />

carattere realistico della destinazione dell‟umanità a Cristo e della sua redenzione e<br />

giustificazione in Lui ci rimanda, ancora una volta, alla necessità di un riferimento<br />

storico e ontologico dell‟autocomprensione dell‟uomo nella storia. In altri termini<br />

esige di collegare la verità di Dio, comunicata in Gesù come la vita dell‟uomo, alla<br />

vicenda con cui gli uomini cercano liberamente la verità. La ricerca della verità di se<br />

stessi, con gli altri, nel mondo, e quindi ultimamente davanti a Dio, è un evento<br />

spirituale. Lo Spirito consente che l‟uomo, mentre si affida a Dio, decida anche di sé<br />

nella storia con gli altri uomini. Per questa via sembra riemergere ancora il<br />

riferimento alla natura dell‟uomo o almeno, alla sua storia, e alle forme culturali e<br />

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religiose con cui si esprime. A questo proposito si nota un diverso atteggiamento<br />

rispetto alla teologia dei due ordini e al suo significato sistemico nella costruzione<br />

architettonica dell‟antropologia teologica. Alcuni sembrano avere semplicemente<br />

aggiornato lo schema del duplex ordo, il quale si mostra assai duttile, perché il punto<br />

di partenza dell‟uomo come natura è stato aggiornato nella teologia recente nella<br />

considerazione dell‟uomo come storia, nel senso della storicità essenziale, o alla<br />

storicità etico-pratica o più recente, della storicità religiosa universale. Altri hanno<br />

operato a una concezione cristologica dell‟antropologia cristiana, ma faticano a<br />

metterne in luce la mediazione antropologica e si espongono obiettivamente<br />

all‟influsso incontrollato di prospettive filosofiche più o meno dichiarate, si pensi in<br />

modo emblematico a Barth. In ogni caso, la lezione della storia invita a superare la<br />

funzione sistemica della teologia dei due ordini: il fine rivelato nell‟ordine storico<br />

salvifico è l‟unica destinazione e il compimento escatologico dell‟uomo. Esso è<br />

comunicato nell‟evento della pasqua di Gesù. Ciò può essere saputo solo a posteriori<br />

dalla rivelazione, poiché tale destinazione/compimento intende essere una reale<br />

determinazione di tutto l‟uomo e di tutti gli uomini, accessibile soltanto nella forma<br />

di un‟abilitazione della libertà che vi acconsente, la fede. Tuttavia proprio per questo,<br />

tale fine non può non correlarsi con la figura di una coscienza credente e con le forme<br />

storiche con cui essa si configura in un‟epoca determinata. L‟analisi della coscienza<br />

credente appare obiettivamente richiesta come il momento a priori, contenuto<br />

nell‟affermazione che l‟uomo si compie conformandosi a Gesù Cristo. La relativa<br />

autonomia dell‟analisi della struttura della coscienza credente e delle sue forme non<br />

può essere pensata come un momento preambolare o estrinseco alla destinazione<br />

cristologica, ma come la mediazione della sua intenzione reale: Dio ci dona Gesù, la<br />

grazia, la sua vicenda umana, la figura archetipa della fides Iesu, dell‟obbedienza di<br />

Gesù, come il compimento inattingibile ed eccedente della nostra libertà, che può<br />

pervenire a se stessa solo attraverso l‟affidamento radicale di sé. Soltanto così si può<br />

effettivamente superare lo schema del duplice fine, senza perdere la gratuità del<br />

soprannaturale che il modello maldestramente difendeva, affermando la necessità di<br />

una coordinazione e di un oltrepassamento di natura e soprannatura. L‟unico fine<br />

storico esistente per l‟uomo è l‟umanità predestinata in Cristo ed è un fine<br />

assolutamente gratuito, perché non può essere prefigurato né a partire dalla natura, né<br />

dalla storia, né dalla religiosità universale e tanto meno a partire dal peccato. Una<br />

volta dato, però deve essere riconosciuto e accolto come il compimento<br />

corrispondente e indeducibile dei modi con cui l‟uomo si autodetermina nella ricerca<br />

della pienezza di sé e della verità di Dio. Ora poiché, secondo la rivelazione, Gesù<br />

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Cristo, o meglio la sua Pasqua, è il luogo personale della coincidenza tra verità/vita di<br />

Dio e pienezza dell‟umanità, allora la vicenda di Gesù è anche la via per raggiungere<br />

la beatitudine dell‟uomo, singola e comunitaria. All‟uomo però è possibile<br />

raggiungere la beatitudine soltanto nella forma di un dono gratuito, che non è<br />

concesso soltanto all‟uomo peccatore o ad un‟eventuale natura, che potrebbe vivere<br />

anche senza di esso. Il dono gratuito è propriamente l‟azione dello Spirito che plasma<br />

la libertà, perché disponga di sé nella forma della fede, teologale. La fede che fiorisce<br />

nella carità è infatti, la forma con cui la libertà si autodetermina per ritrovare il volto<br />

cristiano dell‟uomo spirituale, del discepolo. L‟antropologia teologica deve rendere<br />

ragione criticamente della conformazione dell‟uomo a Cristo che si attua nello<br />

Spirito. Questa è la prospettiva critica a cui è approdata l‟antropologia teologica nel<br />

Novecento.<br />

b. L’antropologia della modernità<br />

L‟orientamento di fondo sembra ormai essere consolidato attorto alla tesi di<br />

un‟antropologia teologica incentrata su Gesù Cristo. La tesi va precisata nella linea<br />

del cristocentrismo trinitario. Questo consente anzitutto, di raccogliere la lezione<br />

fondamentale del momento conciliare, cioè il guadagno metodologico della<br />

rivelazione come principio della ragione teologica. Ne consegue che svolgere<br />

l‟antropologia secondo la rivelazione equivale a pensarla in riferimento a Gesù<br />

Cristo. Di qui l‟acquisizione comune che l‟antropologia deve essere ricostruita<br />

assumendo la cristologia come principio e forma del discorso cristiano sull‟uomo,<br />

perché l‟antropologia teologica e l‟antropologia della rivelazione, e non va costruita a<br />

partire dalla natura, o dalla storicità moderna, o dalla religiosità universale, e la<br />

rivelazione propriamente è Gesù Cristo. Tale guadagno è andato gradualmente<br />

chiarendosi negli ultimi due decenni del Novecento. Il significato della convergenza<br />

andrà precisato perché il consenso sulla tesi non risulti teorico. La prima precisazione<br />

è avvenuta sul tipo di cristocentrismo attorno a cui realizzare la sintesi<br />

dell‟antropologia teologica. Bisogna superare la nozione sia di un cristocentrismo<br />

cronologico, Cristo è il centro della storia della salvezza perché viene dopo la<br />

creazione dell‟uomo a redimere dal peccato, sia da un cristocentrismo obiettivo,<br />

secondo la definizione di Grillmeier: Cristo, è la cifra, il simbolo, il punto di vista<br />

sintetico, la forza gravitazionale delle grandi tensioni del reale, tra finito e infinito, tra<br />

verità e storia, tra macrocosmo e microcosmo. Il cristocentrismo all‟altezza del<br />

compito è quello della singolarità di Gesù: Cristo è il compimento e il redentore<br />

dell‟uomo, perché è Colui in cui siamo stati predestinati prima della fondazione del<br />

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mondo (cf. Ef 1,4-5), è Colui in virtù del quale, dià, e nel quale, en, e in vista di lui,<br />

eis, tutte le cose sussistono (Col 1,16-17), perché in Lui è la luce e la vita in pienezza<br />

per tutti gli uomini (Gv 1,4). Il disegno di Dio (creazione, uomo-donna, peccato,<br />

redenzione, grazia, chiesa, compimento), è originariamente cristocentrico e si precisa<br />

nella tesi della predestinazione di Gesù Cristo e della creazione dell‟umanità in Lui.<br />

La predestinazione in Cristo o con il linguaggio del Vaticano II, la sua altissima<br />

vocazione (cf. GS 22), istituisce una relazione tra Dio e la creazione/uomo non solo<br />

più radicale e originaria della relazione al peccato, ma anche tale da consentire la<br />

remissione del peccato. Così quest‟ultimo viene inteso non solo come trasgressione<br />

della legge o rottura di una generica amicizia con Dio, bensì come rifiuto della nuova<br />

e definitiva alleanza in Cristo. Tale forma radicale di cristocentrismo è certamente un<br />

guadagno già raggiunto attorno agli anni ‟70 e dispiegato con sempre maggiore<br />

precisione nel campo dell‟antropologia teologica. La seconda precisazione concerne<br />

il senso del cristocentrismo nella singolarità di Gesù: esso non va inteso come<br />

alternativo al teocentrismo e come esclusivo all‟azione dello Spirito Santo, bensì<br />

come capace di istruire sia l‟accesso al volto cristiano di Dio e alla sua pretesa<br />

universale, sia la mediazione per tutte le forme dell‟umano e del religioso che si<br />

lasciano plasmare dalla rivelazione divina. In tempi recenti, si è inteso superare anche<br />

una sorta di cristomonismo, che surrettiziamente assorbiva in Cristo il discorso su<br />

Dio e su l‟uomo. Se non fosse ancora bisognoso di precisazioni, si potrebbe parlare di<br />

un cristocentrismo inclusivo o normativo, prendendo a prestito i termini che<br />

emergono dal dibattito con la teologia delle religioni. Tuttavia mi sembra che il<br />

rapporto tra cristologia e Trinità sia la linea da seguire per non accostare<br />

semplicemente cristologia e pneumatologia, la missione di Cristo e l‟azione dello<br />

Spirito come due momenti cronologici successivi, nella strutturazione<br />

dell‟antropologia teologica. In conclusione occorre precisare che il modo con cui<br />

Gesù sta al centro della vocazione dell‟uomo e della storia umana è singolare, nel<br />

senso che è rivelativo al Padre e rivolto agli uomini. E‟ un cristocentrismo ek-statico,<br />

sporgente al di là di se stesso. La forma di tale sporgenza non è secondaria, ma si<br />

realizza nella missione e nella persona stessa di Gesù Cristo, nel suo insondabile<br />

mistero, di cui è impossibile comprendere l‟altezza, l‟ampiezza, la lunghezza,<br />

l‟altezza e la profondità se non dimorando in Lui (cf. Ef 3,18; Gv 15). La centralità di<br />

Gesù non può essere presentata come una forma provvisoria o pedagogica con cui<br />

siamo introdotti ad una relazione con Dio che si lascia alle spalle il modo cristico di<br />

tale relazione. La forma cristica è escatologica, è il Crocifisso risorto.<br />

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c. L’antropologia della postmodernità: l’indebolimento della concezione<br />

dell’uomo<br />

Bisogna riconoscere, che la preoccupazione metodologica, soprattutto per quanto<br />

riguarda il senso dell‟impostazione cristocentrica e l‟articolazione interna dei<br />

contenuti della sistematica del trattato di antropologia teologica, non è molto diffusa.<br />

Le panoramiche critiche riconoscono che il problema del ripensamento cristologico<br />

delle articolazioni interne della trattazione antropologica non si pone nella<br />

manualistica postconciliare tedesca, mentre in quella italiana le proposte sono assai<br />

disparate, anche se alla base rivelano un intendimento comune. Per quanto riguarda i<br />

manuali di produzione tedesca, e più in genere d‟oltralpe, si nota che questi, pur<br />

accettando la tesi del cristocentrismo e l‟affermazione della creazione in Cristo, non<br />

ne ricavano alcuna conseguenza in ordine alla ristrutturazione dell‟antropologia<br />

teologica. Chi prende tra mano la produzione manualistica postconciliare tedesca<br />

potrà verificare facilmente che l‟inerzia della suddivisione in trattati lascia<br />

sopravvivere ancora i diversi percorsi di una teologia della creazione, dell‟uomo, del<br />

peccato originale e della grazia. Per questo non solo persistono trattazioni distinte<br />

della creazione e della grazia, ma anche si moltiplicano trattati autonomi sul tema. In<br />

taluni casi si segnala persino l‟inserimento della pneumatologia. E‟ difficile osservare<br />

architetture complessive che discutono il problema, anche se all‟interno dei singoli<br />

trattati la dimensione cristologico-trinitaria non è certo disattesa. Probabilmente le<br />

ragioni sono due. La prima è la presa di distanza da Barth, per la quale la<br />

concentrazione cristologica comporta una determinazione ontologica della persona a<br />

partire dall‟umano di Gesù, ma tale specificazione produce più un assorbimento, che<br />

un‟integrazione e un compimento della nostra umanità nell‟uomo vero che è Gesù. La<br />

seconda è la sfida ecologica, la quale imputa alla visione cristiana un‟enfasi<br />

sull‟uomo che va a danno della relativa autonomia della natura/creazione. Anche<br />

autori come Rahner, von Balthasar, Kasper, Greshake, che non hanno prodotto un<br />

formale trattato di antropologia teologica, risolvono in modo differente la relazione<br />

tra cristologia e antropologia. La diversità con cui è pensato questo rapporto<br />

determina la figura particolare della loro teologia, in prospettiva trascendentale con<br />

Rahner, nella drammatica tra libertà divina e umana con von Balthasar, nel<br />

particolare rapporto tra creazione e redenzione con Kasper, nell‟ottica della Trinità<br />

come communio con Greshake. Sul versante della manualistica italiana c‟è stata una<br />

maggiore attenzione all‟assetto della trattazione di antropologia teologica: c‟è chi ha<br />

evidenziato la spinta per una unificazione della trattazione teologica sulla persona<br />

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umana: l‟uomo deve diventare centro sintetico di un discorso prima disperso. Il primo<br />

passo fu compiuto dai teologi M. Flick e Z. Alszeghy, che sono stati maestri<br />

all‟Università Gregoriana di molte generazioni di studenti. Nel 1970 essi hanno<br />

ripreso i precedenti lavori (Il Creatore, L‟inizio della salvezza [1961] e il Vangelo<br />

della grazia [1964]), fondendoli nell‟unico volume Fondamenti di antropologia<br />

teologica. Nella loro opera, il cristocentrismo funziona con il principio della storicità,<br />

nel senso della storia della salvezza, intesa ancora in modo piuttosto cronologico, così<br />

che la loro riflessione documenta più una situazione di trapasso che il raggiungimento<br />

dell‟obiettivo di una piena unificazione dell‟antropologia teologica. Con una<br />

maggiore attenzione metodologica si è mossa soprattutto la produzione di G.<br />

Colombo che ha insistito, lungo tutta la sua opera, anche in riferimento alla<br />

cristologica di G. Moioli, su una più rigorosa impostazione cristocentrica<br />

dell‟antropologia teologica. Ciò gli ha consentito non solo di collocare l‟antropologia<br />

nell‟ottica della cristologia, ma anche la teologia della creazione nel quadro<br />

dell‟antropologia. L‟hanno seguito in questa direzione L. Serenthà, G. Colzani e i<br />

docenti che si sono avvicendati nell‟insegnamento della Facoltà <strong>Teologica</strong> di Milano.<br />

Successivamente Colzani ha dato armonico sviluppo a tale esigenza nel suo manuale.<br />

Egli ha assunto la centralità della grazia di Cristo come il principio di lettura della<br />

libertà, della storicità e della socialità umane, cioè come il modo proprio dell‟uomo di<br />

partecipare all‟alleanza in Cristo. Nella scia di Flick e Alszeghy sembrano porsi le<br />

opere di L. Ladaria, I. Sanna e A. Scola. Il primo ha pubblicato diverse edizioni in un<br />

limpido manuale che ha guidato molti alunni della Gregoriana negli ultimi decenni<br />

appena trascorsi. Il secondo insegnante alla Lateranense, ha prodotto diverse<br />

riscritture dell‟antropologia teologica, fino all‟ultima della prima metà degli anni<br />

novanta. Il terzo nell‟ambito dell‟Istituto Giovanni Paolo II per la Famiglia, ha<br />

riflettuto con assiduità e in forma autonoma sull‟antropologia della differenza<br />

sessuale. Lo stesso Sanna ci presenta anche una panorama delle scuole accademiche,<br />

negli ordinamenti delle facoltà romane, sia per quanto riguarda la collocazione<br />

dell‟insegnamento dell‟antropologia nel concetto del sapere teologico, sia per quanto<br />

concerne la sua strutturazione interna. Questo percorso ci fa concludere che<br />

l‟esecuzione del principio cristocentrico è compatibile con una molteplicità di<br />

accentuazioni. Ciò si può vedere nelle opere di G. Iammarone, G. Gozzelino, G.<br />

Panteghini, B. Mondin, D. Tettamanzi e, in forma meno impegnata, in G. Agresti, A.<br />

Rizzi, G. Bof. In conclusione, si può sottoscrivere l‟annotazione finale di chi ha steso<br />

un bilancio sulla situazione italiana, l‟antropologia teologica è diventata una scelta<br />

abbastanza condivisa: ne accetta l‟impostazione cristocentrica, anche se si muove in<br />

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direzioni diverse quando si tratta tanto della fondazione del trattato e della<br />

giustificazione della sua unità, quanto della determinazione dei suoi contenuti. Questa<br />

diversità ha la sua spiegazione in una ridotta comprensione del principio<br />

cristocentrico e in un‟insufficiente riflessione metodologica a proposito<br />

dell‟antropologia teologica. Soprattutto questo secondo motivo è all‟origine della<br />

diversa sistemazione dei capitoli della trattazione, perché è differente<br />

l‟apprezzamento dello strumento culturale che entra a determinare la relazione tra<br />

cristologia e antropologia. Il rapporto della cultura fornisce l‟altra coordinata per<br />

delineare in modo critico la tesi della strutturazione cristocentrica dell‟antropologia<br />

teologica. Mentre andava imponendosi, nell‟ultimo ventennio, il ripensamento<br />

dell‟antropologia teologica, è emersa l‟obiezione contro un‟unilaterale focalizzazione<br />

sulla visione antropocentrica della realtà, che sarebbe da imputare al cristianesimo.<br />

La critica si è mossa contro una concentrazione del discorso teologico su un<br />

antropocentrismo riduttivo. Mentre la riflessione andava assestandosi, in seguito alla<br />

complessa vicenda fin qui descritta, è esplosa la contestazione soprattutto su un<br />

punto: il tema della creazione, sarebbe stato marginalizzato, perché l‟antropologia<br />

teologica ha posto al centro l‟uomo e il suo dominium terrae. L‟accanimento della<br />

riflessione sull‟uomo avrebbe messo la sordina sulla natura e sulla creazione, anzi<br />

avrebbe dato man forte alla tendenza moderna alla oggettivizzazione del mondo.<br />

L‟opposizione non si è rivelata subito, perché negli anni Settanta la svolta<br />

antropologica era ancora egemone in teologia, ma è esplosa negli anni Settanta-<br />

Ottanta, quando ormai stava emergendo con forza il problema ecologico. Fino a<br />

imporre nell‟ultimo scorcio del Novecento il ritorno ad una considerazione della<br />

creazione in sé e per sé. La contestazione si è rivolta contro l‟antropocentrismo<br />

cristiano e la tradizione ebraico-biblica che lo origina. Entrambi sarebbero<br />

responsabili del moderno atteggiamento oggettivante nei confronti del mondo e della<br />

natura. La critica viene dal movimento ecologista, che liquida insieme<br />

l‟antropocentrismo biblico, attribuito alla tradizione cristiana, e quello moderno di<br />

derivazione cartesiana, responsabile di una visione meccanicista del mondo. L‟accusa<br />

contro la concentrazione antropocentrica della teologia postconciliare contesta di aver<br />

assunto in modo acritico l‟antropologia moderna, rinforzando una visione dell‟uomo<br />

come soggetto senza mondo e di un mondo come oggetto di uno sfruttamento<br />

indiscriminato da parte dell‟uomo. L‟ecologismo propugna con tesi perentorie il<br />

superamento dell‟antropocentrismo. Moltmann nella sua teologia della creazione che<br />

ne ha raccolto la provocazione: “La storia è diventata paradigma della teologia<br />

moderna in un periodo in cui si affermava la visione antropocentrica del mondo: gli<br />

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uomini devono essere il coronamento del creato ed il centro del mondo. Noi<br />

riusciremo ad imprimere nella storia una misura davvero umana e naturale soltanto<br />

quando sostituiremo questo antropocentrismo con un nuovo teocentrismo<br />

cosmologico”. L‟affermazione di Moltmann è polemica rispetto alla sua stessa<br />

produzione precedente e richiede di essere attentamente ponderata. Se la teologia non<br />

vuole soggiacere di volta in volta al paradigma emergente, prima la storia e poi la<br />

natura, come documenta la vicenda intellettuale di Moltmann, è necessario ricuperare<br />

più da vicino la dimensione teologico-cristologica della creazione e dell‟uomo. A<br />

partire da qui si dovranno verificare i diversi paradigmi, in particolare l‟artificiosa<br />

contrapposizione tra uomo e mondo, tra storia e natura. Riprendiamo il discorso là<br />

dove lo aveva lasciato e un po‟ messo in ombra la concentrazione antropologica della<br />

teologia postconciliare. La svolta antropologica, se non viene indebitamente intesa<br />

come riduzione materiale al tema dell‟uomo, o non vuole assumere il punto di vista<br />

antropologico come profilo sintetico del discorso teologico, di fatto considerato in<br />

senso esistenziale o individuale, deve essere collocata nel quadro più ampio del<br />

mistero cristiano. Altrimenti anche l‟attuale ripresa del discorso sulla creazione si<br />

rivela non un superamento dell‟antropocentrismo, ma un semplice capovolgimento<br />

del paradigma interpretativo. Leggendo le analisi degli anni Settanta colpisce il fatto<br />

che le dichiarazioni sembra esattamente speculari a quelle recenti: allora si<br />

denunciava una comprensione prevalentemente cosmologica della creazione (la<br />

creazione come il problema dell‟origine del mondo da Dio) e si metteva in luce la<br />

mancanza di una chiara ispirazione antropologica in questa teologia della creazione,<br />

ora si lamenta una sorta di riduzione antropologica del tema (la creazione come teatro<br />

dell‟agire dell‟uomo sul mondo), invocando la ripresa di una concezione cosmologica<br />

della creazione. Evidentemente il significato del termine cosmologico nei due<br />

contesti non ritorna nella stessa accezione: nel primo caso comprensione cosmologica<br />

della creazione significa una considerazione della creazione in sé e per sé, in una<br />

prospettiva sostanzialmente filosofica (collegata alla teologia naturale nel quadro del<br />

problema della conoscenza di Dio); nel secondo caso cosmologico riguarda la<br />

conoscenza della creazione in vista della sua salvaguardia e, quindi, ha un intento<br />

pratico-emancipativo nei confronti delle pretese di sfruttamento indiscriminato della<br />

natura (il problema ecologico) e dell‟uso ideologico delle scienze (il problema della<br />

tecnica). Allora si trattava di una visione della creazione per la conoscenza naturale di<br />

Dio (analogico-ontologica), ora di una conoscenza di Dio in funzione di una teologia<br />

della natura (pratico-emancipativa). La diversità di approccio offre una spia<br />

dell‟insufficiente riflessione teologica sul problema della creazione nel quadro<br />

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dell‟antropologia. La riscoperta dell‟uomo rispetto alla modernità, ha messo in ombra<br />

il ruolo chiave che nella dottrina cristiana ha il mondo, il corpo, la salvezza del<br />

creato. Il tema della creazione è infatti il test per misurare la bontà dell‟unificazione<br />

profonda del trattato di antropologia teologica, perché l‟esito non sia solo un<br />

accostamento tra creazione e redenzione, tra natura e grazia; o inversamente, approdi,<br />

ad un assorbimento della creazione nella soteriologia e nell‟antropologia. Tutto ciò<br />

impone una duplice conclusione: occorre distaccare l‟antropologia cristiana dal<br />

ripiegamento moderno sull‟uomo separato dal mondo; bisogna ricuperare il discorso<br />

cristologico e trinitario sulla creazione/uomo. Non si tratta di contrapporre le tre<br />

grandezze ontologiche di Dio, uomo, mondo, né di privilegiarne una come punto di<br />

vista rispetto alle altre due, ma di collocare il discorso sull‟uomo nel mondo, nel<br />

punto focale della vicenda di Gesù Cristo e della missione dello Spirito, cioè nel<br />

nexus mysteriorum della rivelazione cristiana. Solo ciò costituisce un antidoto alla<br />

strozzatura individualista ed esistenzialista dell‟antropologia teologica.Tutto<br />

sommato le obiezioni avanzate dal fronte dell‟ecologia e delle scienze della natura si<br />

rivelano ancora parziali. Esse rappresentano un fenomeno interno alla riflessione<br />

critica sull‟antropologia teologica. La fine del XX secolo ha però registrato un<br />

passaggio di più vasta portata il cui significato non ha ancora mostrato tutta la sua<br />

carica dirompente sulla coscienza credente e, conseguentemente, anche sul discorso<br />

sull‟uomo. Si tratta della svolta culturale verso il postmoderno, caratterizzata dal<br />

pensiero debole. La datazione, la definizione, e le caratteristiche salienti del<br />

fenomeno sono assai controverse. Esse dipendono in sostanza dalla definizione e dal<br />

senso degli elementi essenziali della modernità, per cui il postmoderno può essere<br />

configurato come un superamento del moderno o come il compimento delle sue<br />

istanze non ancora realizzate. In ogni caso, occorre raccogliere l‟indicazione di un<br />

confronto con le dinamiche di questa temperie culturale, perché il risultato da temere<br />

è che venga proposta un‟antropologia per il passato, non per il presente, se il presente<br />

reale è qualcosa di simile al postmoderno e il postmoderno non è una proiezione<br />

fantastica di pochi intellettuale. Naturalmente il confronto non potrà avvenire per<br />

semplice trasposizione delle caratteristiche del postmoderno nel terreno teologico. La<br />

specularità tra moderno e postmoderno, nel senso di una opposizione o filiazione<br />

delle caratteristiche dell‟uno dall‟altro, rende comprensibile la lunga storia finora<br />

ricostruita dalle tendenze della modernità e della risposta per quanto tardiva che vi ha<br />

dato l‟antropologia teologica. Così come appare utile almeno un cenno alle tendenze<br />

del postmoderno. Nel nuovo contesto del pensiero debole la riflessione sull‟uomo<br />

dovrà gradualmente acclimatarsi, ma la sua novità non è apprezzabile se non nel<br />

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rapporto di derivazione dalla modernità. Ora, siccome il significato del moderno e la<br />

sua legittimità sono assai discussi, sia in rapporto alla pretesa emancipatrice della<br />

ragione dall‟ipoteca della fede/tradizione, sia in rapporto alla rivendicazione della<br />

legittimità cristiana della sua affermazione della libertà/autonomia dell‟uomo,<br />

altrettanto sarà discussa la questione del postmoderno. Le sue caratteristiche<br />

essenziali, la sua definizione dipendono strettamente da come si intende il suo<br />

rapporto di generazione/opposizione dal al moderno. Il postmoderno nasce dal crollo<br />

delle grandi sintesi della modernità, non solo quelle che si presentavano come sistemi<br />

olistici (Hegel e le sue propaggini successive), ma anche quelle che, contestandone il<br />

sistema totalizzante, ne ricalcavano l‟impianto mediante una soluzione<br />

criptometafisica (si pensi solo al significato dell‟antropologia di Feuerbach, o tutte le<br />

forme socio-politiche delle ideologie del Novecento, che nascono dal mito di un<br />

progresso indefinito). La postmodernità segna la fine delle grandi narrazioni: prodotta<br />

dal crollo delle grandi sintesi del pensiero moderno, l‟esistenza dell‟uomo si<br />

differenzia profondamente dal passato per il fatto che egli si rapporta in modo diverso<br />

dalla verità, dà molta più importanza alla dimensione del tempo e della storia,<br />

percepisce in forma dubbiosa e interrogativa il senso della fede e vive alla luce di una<br />

nuova prospettiva etica. Questa definizione, ancora molto generale, richiede di<br />

precisarsi secondo parametri determinati, per ritrovare i quali è necessario assumere<br />

criticamente le diverse posizioni degli autori che formano la galassia del postmoderno<br />

(J.F. Lyotard, R. Rorty, J. Derrida, G. Deleuze, J. Baudrillard e in Italia, G. Vattimo,<br />

U. Eco, M. Cacciari). Chi si è avventurato nell‟impresa di precisarle ha dovuto<br />

compiere una lunga circumnavigazione, partendo da una ridiscussione dei tratti del<br />

moderno. Ha registrato di conseguenza diverse letture del nuovo momento epocale:<br />

chi ne parla nei termini di modernità in crisi o incompiuta (Habermas, Apel); chi resta<br />

decisivo definire su quali elementi il postmoderno si differenzi dall‟epoca precedente,<br />

pur portandone impressi i tratti come il conio rispetto alla moneta. Tre parametri<br />

balzano in primo piano: la concezione pluralistica dell‟approccio alla verità; la<br />

dimensione estetica della conoscenza, come forma di dimagrimento della razionalità<br />

forte; la portata critica del nichilismo nella sua valenza gnoseologica, ontologica ed<br />

etica. Questi tre parametri tuttavia danno luogo a configurazioni teoretiche<br />

diversissime. Un approccio alla questione del postmoderno viene delineato nel<br />

saggio-panorama di I. Sanna. Partendo dalle tre grandezze di Dio, uomo e mondo (K.<br />

Lowith), che nella modernità trovano il loro baricentro conoscitivo nell‟uomo, egli<br />

tenta di vedere come nel postmoderno (l‟epoca del dopo) la triade metafisica vada<br />

soggetta ad un triplice indebolimento. La triade di Dio, uomo e mondo, passerebbe,<br />

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transitando dal moderno al postmoderno, da una posizione forte ad una debole, in<br />

tutti i campi del sapere culturale, religioso e politico. Lo spazio per l‟antropologia,<br />

caratterizzato dalle due coppie Dio-uomo e Dio-mondo, andrebbe incontro a un<br />

deperimento e a una resistenza ad essere tradotto nei termini della triade teologica di<br />

Creatore, creatura e creato. Il saggio si muove in esplicito riferimento alla<br />

sistemazione di Vattimo e disegna le profonde trasformazioni a cui vanno soggette le<br />

tre grandezze in parola. In più cerca di mostrare come la teologia abbia assunto tali<br />

trasformazioni con un ambiguo processo di osmosi e qualche volta persino di<br />

contaminazione. Il risultato dell‟operazione mi sembra obiettivamente ancora aperto,<br />

sia per quanto riguarda la dimensione critica sia per l‟aspetto propositivo. I due<br />

aspetti sono infatti interdipendenti. Soprattutto sull‟antropologia e sulla concezione<br />

del mondo, se l‟analisi dell‟indebolimento dei soggetti uomo e mondo, nel loro<br />

reciproco rapporto in relazione a Dio, non viene ricondotta sino alla radice, appare<br />

ambiguo il processo di acclimatamento della fede nella sua capacità di dirsi di fronte<br />

alla nuova situazione culturale dell‟ultimo scorcio del XX secolo. Per stare<br />

nell‟antropologia del postmoderno i fenomeni che vengono segnalati sono i seguenti:<br />

la riduzione della creaturalità dell‟uomo a condizione umana; la spersonalizzazione<br />

del soggetto umano, l‟affermarsi del quarto uomo e della cultura radicale. A questa<br />

antropologia corrisponde anche una riduzione del mondo da creato a natura, la perdita<br />

della direzionalità del creato e del suo essere casa (habitat affidabile) per l‟uomo. I<br />

due fenomeni sono simultanei e conseguenti alla perdita della visione personalistica<br />

di Dio. In ogni caso, la proposta del saggio di Sanna, peraltro pionieristica e meritoria<br />

per l‟enorme analisi profusa, appare più persuasiva per l‟aspetto diagnostico del<br />

postmoderno che la possibilità di interazione teologica che viene prospettata.Le<br />

riflessioni fin qui svolte mostrano l‟obiettiva complessità della strutturazione<br />

cristocentrica dell‟antropologia teologica. Non solo la critica dell‟ecologia mette in<br />

discussione un antropocentrismo ingenuo, ma la stessa cultura postmoderna rende<br />

problematica la possibilità di assumere come referente una figura specifica<br />

dell‟antropologico. Il panorama è assai frammentato e disperso, non solo come esito<br />

di differenti antropologie in dialettica tra loro, come poteva essere nella modernità,<br />

ma si presenta in linea di principio con un pluralismo di concezioni. Dopo l‟uomo<br />

greco e l‟uomo della tradizione ebraico-cristiana, l‟uomo moderno ha secolarizzato la<br />

Provvidenza nel progresso. Alla fine però il quarto uomo ha secolarizzato anche il<br />

mito del progresso, per cui è un uomo senza storia, o meglio la sua storia è una<br />

sequenza di accadimenti, senza direzione. Affrancato dal bisogno, l‟uomo<br />

postmoderno non ha più bisogni da soddisfare, ma solo desideri da inventare. Ora è<br />

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facile osservare, a partire da queste premesse, che la strutturazione dell‟antropologia<br />

sul principio cristologico possa andare soggetta a differenti esecuzioni, come di fatto<br />

è avvenuto nella produzione postconciliare. La possibilità che essa sia stravolta a<br />

partire da precomprensioni determinate richiede ulteriore approfondimento. Ciò potrà<br />

avvenire istituendo, a partire dalla stessa prospettiva cristologica, perciò senza<br />

abbandonare il principio cristologico tanto faticosamente raggiunto, la relazione con<br />

le forme culturali con cui l‟uomo cerca di anticipare nel proprio agire e nel proprio<br />

comprendere la verità di se stesso. Il confronto con la prospettiva culturale e religiosa<br />

è richiesto dalla pretesa della fede che afferma il compimento dell‟uomo nella sua<br />

conformazione a Cristo. La necessità di istituire il confronto con la prospettiva<br />

culturale, proprio a partire dal rilievo della pluralità delle antropologie moderne e<br />

dalla frammentarietà e parzialità di quelle postmoderne, si è fatto particolarmente<br />

sentire in questi ultimi decenni. E‟ emersa sempre più l‟esigenza di pensare il<br />

rapporto tra l‟umano singolare di Gesù (la cristologia) e le forme storiche con cui<br />

l‟uomo sceglie e realizza il proprio destino. Ora le forme dell‟agire umano hanno di<br />

che essere indagate nelle loro figure storiche e in seconda battuta, vanno ricondotte<br />

alla struttura antropologico-trascendentale con cui l‟uomo accede alla verità di sé. Si<br />

tratta di ripercorrere una fenomenologia dell‟agire umano e, insieme, le condizioni di<br />

possibilità trascendentali che rendono possibile all‟uomo di decidere di sé di fronte a<br />

Dio. Questa è un‟operazione richiesta dalla stessa affermazione teologica e non solo<br />

una pretesa avanzata dalla ragione moderna, anche se può vantare lo spazio di una<br />

sua relativa autonomia. La teologia fondamentale in genere si incarica di tracciare il<br />

profilo epistemologico della relazione tra filosofia e teologia. La relazione tra lo<br />

specifico cristologico e l‟universale antropologico non può mettere in discussione la<br />

centralità del principio di rivelazione, ma ha la funzione di porre in evidenza che lo<br />

specifico cristiano apparso in Gesù è il compimento e l‟attuazione definitiva<br />

(escatologica) dell‟apertura dell‟uomo alla ricerca del senso e della verità. Tale<br />

compimento esige che l‟uomo si determini nella forma della fede per la figura del<br />

bene e della verità comunicati in Gesù. Così l‟antropologia cristiana può e deve<br />

apparire come la realizzazione indeducibile e il compimento corrispondente di<br />

un‟antropologia fondamentale della fede. La realizzazione del compimento si dà<br />

nella figura storica, libera e definitiva, con cui il mistero di Dio si rivela all‟uomo in<br />

Gesù e nello Spirito. Per questo tra il momento dogmatico e il momento<br />

fondamentale intercorre una benefica fecondazione reciproca e ciò vale in particolare<br />

per l‟antropologia teologica. Tale operazione istituisce una circolarità tra le forme<br />

specifiche della visione cristiana sull‟uomo e le condizioni universali con cui l‟uomo<br />

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si apre e si decide per la verità di se medesimo. Il ricupero del rapporto con il<br />

momento fondamentale dovrà, tuttavia, evitare una risoluzione dell‟antropologia<br />

dogmatica in una trattazione fondamentale. Questo assorbimento dei temi<br />

dell‟antropologia in una riflessione fondamentale non gioverebbe né all‟una, né<br />

all‟altra. Tanto meno è raccomandabile in un manuale per lo studio. Converrà trattare<br />

la riflessione fondamentale come un‟attenzione continua che attraversa l‟esame delle<br />

tematiche antropologiche. Se si guarda al panorama delle proposte esistenti, si deve<br />

dire che dopo la svolta antropologica, non si è avuto un confronto assiduo tra<br />

l‟antropologia culturale e la concezione antropologica cristiana. Anzi, in un primo<br />

tempo, la proposta di Rahner è potuta apparire un ostacolo alla elaborazione di<br />

un‟antropologia teologica regionale, perché affermava paradossalmente che non ci<br />

può essere una trattazione antropologica specifica, in quanto l‟antropologia è una<br />

dimensione generale e non un oggetto particolare della teologia. In realtà anche<br />

Rahner, nonostante le dichiarazioni di principio, ha rivolto un‟attenzione esplicita ad<br />

alcune questioni di antropologia ricevute dalla tradizione. Tuttavia a mio avviso,<br />

anche la stessa obiezione teorica di Rahner non si sostiene, poiché se è vero che<br />

l‟uomo è sempre presente come orizzonte atematico in ogni affermazione tematica,<br />

quindi anche nelle affermazioni teologiche, non è men vero che la riflessione<br />

dell‟uomo e del credente può rivolgersi anche all‟uomo stesso, che diventa così<br />

oggetto di affermazioni esplicite. La critica che Rahner rivolge alla possibilità stessa<br />

di un‟antropologia teologica dev‟essere assunta, invece, come un‟istanza necessaria<br />

per lo stesso svolgimento del discorso sull‟uomo. La trattazione antropologica deve<br />

svilupparsi nella circolarità tra i due aspetti dell‟antropologia teologica (l‟uomo come<br />

soggetto implicato e nel suo conoscere e agire e l‟uomo come oggetto della<br />

riflessione). Anzi, tra i due aspetti ci potrebbe essere un benefico influsso, come<br />

suggerisce un‟analogia col trattato di Dio. Anche il discorso su Dio è una prospettiva<br />

che accompagna ogni affermazione teologica, ma questo non ha impedito il sorgere<br />

di una trattazione specifica su Dio. La recente teologia mostra il benefico influsso che<br />

il rinnovamento del manuale esercita su altre tesi teologiche e viceversa (ad es.<br />

l‟incarnazione del Verbo, la pasqua di Gesù, l‟inabitazione dello Spirito). Al di là di<br />

questo episodio non sono certo mancati i confronti culturali: si pensi solo alla<br />

stagione della teologia politica e della teologia della liberazione, che hanno<br />

alimentato il confronto con il neomarxismo. Tuttavia non sembra che ci sia stata una<br />

riflessione esplicita sull‟infrastruttura antropologica del referente culturale,<br />

paragonabile a quella della stagione trascendentale. Si deve segnalare il tentativo, che<br />

mi sembra significativo, ma anche pionieristico di W. Pannenberg, che si è impegnato<br />

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nel confronto assiduo con le recenti correnti antropologiche. L‟opera di Pannenberg<br />

si propone come una vasta incursione nel campo dell‟antropologia contemporanea,<br />

nel tentativo di leggerla in prospettiva teologica. In questo senso mancherebbe<br />

l‟esecuzione del movimento inverso che legge l‟antropologia cristiana in prospettiva<br />

culturale. Tale operazione esige senza dubbio la mediazione di un‟antropologia<br />

fondamentale della fede quale mediazione critica per il confronto con le forme<br />

pratiche dell‟agire e del conoscere umano.Il quadro tracciato sinora consente di<br />

abbozzare l‟architettura sistematica dell‟antropologia teologica. Il traguardo<br />

raggiunto domanda di svolgere le articolazioni fondamentali della relazione tra<br />

cristologia e antropologia. Per questo l‟antropologia inizia con un paragrafo sintetico<br />

ad un tempo metodologico e contenutistico. E‟ intitolato: La visione cristica<br />

dell’uomo, quasi a raccogliere in un‟immagine unica le successive articolazioni. Il<br />

termine visione allude allo sguardo della fede circa la chiamata e la storia dell‟uomo<br />

ad essere in Cristo. L‟aggettivo cristica indica la visione cristiana della vita è<br />

originariamente pensata e voluta in Cristo: Gesù è il primo e l‟ultimo della storia<br />

dell‟umanità. Il genitivo dell‟uomo ha un valore universale: la visione cristiana è<br />

rivolta a ogni uomo e a tutti gli uomini. Afferma che essere in Cristo (con la forza che<br />

ha l‟espressione di Paolo) e dimorare in Lui (come suggerisce Giovanni) sono il<br />

destino dell‟umanità nella storia del mondo, nella drammatica di peccato e di<br />

redenzione. La visione cristiana non fa semplicemente delle affermazioni disperse<br />

sull‟uomo, sul corpo, sull‟anima, sulla creazione, sul destino della vita, ma ha una<br />

forma propria, dona uno sguardo sintetico dell‟esistenza umana. Proprio perché<br />

l‟esistenza dell‟uomo nel mondo è lo spazio della cura amorevole di Dio, essa è<br />

collocata nel roveto ardente del destino filiale di Gesù e si alimenta continuamente al<br />

soffio trasformante dello Spirito di Cristo. Questa è la visione cristica dell‟uomo, che<br />

sta al centro del sapere della fede, a cui la teologia rende il servizio della<br />

comprensione critica. In tale quadro, i temi classici dell‟antropologia (creazione,<br />

libertà creata, uomo-donna, peccato originale, grazia, compimento escatologico della<br />

libertà), prima disseminati in trattazioni distinte per ispirazione e metodo e,<br />

soprattutto, allineati sui due piani distinti e correlati dalla teologia del duplex ordo,<br />

possono trovare un punto di vista sintetico che tenti di configurare il sapere cristiano<br />

dell‟uomo. Meno importante resta la questione se tutta questa materia dovrà<br />

concentrarsi, dal punto di vista didattico, in un unico trattato di proporzioni<br />

incontrollabili. Decisivo è il tentativo di far scorrere e di reinterpretare questi temi a<br />

partire dalla visione cristica e più precisamente dalla figura di uomo che si rivela<br />

nella dedizione incondizionata di Gesù al Padre e agli uomini. Pertanto l‟antropologia<br />

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teologica si comprende nella luce di Gesù Cristo, in quanto Egli è la rivelazione e<br />

l‟autocomunicazione di Gesù Cristo, in quanto Egli è la rivelazione e<br />

l‟autocomunicazione di Dio all‟uomo, e dovrà intrecciarsi con la sacramentaria e<br />

l‟escatologia, perché non sono riducibili semplicemente e funzioni dell‟antropologia.<br />

Semmai l‟antropologia che deriva dal gesto pasquale di Gesù è la grammatica che,<br />

mediante i sacramenti, costituisce il popolo di Dio, in cammino verso il Regno. In<br />

effetti, questo è il fine dell‟alleanza e della rivelazione salvifica: la communio<br />

sanctorum. L‟esito a cui siamo approdati ci invita ad abbozzare l‟architettura<br />

dell‟antropologia teologica attorno a una visione cristica dell‟uomo; e aiuta a chiarire<br />

anche il rapporto tra l‟oggetto materiale (l‟antropologia cristiana) e l‟oggetto formale<br />

(l‟antropologia teologica) del corso. L‟antropologia cristiana è la visione della fede<br />

sull‟uomo nel mondo, chiamato alla conformazione a Cristo. Come visione essa<br />

risulta da molti elementi dell‟esperienza cristiana, alcuni espliciti, altri impliciti nella<br />

vita del discepolo e della Chiesa, di ieri e di oggi. L‟esperienza precede la riflessione,<br />

anche se è un‟esperienza che contiene in modo sintetico la consapevolezza del<br />

proprio essere credenti cristiani. Può persino capitare che nella vita concreta di<br />

singoli credenti o in un momento dell‟esperienza ecclesiale la visione cristiana non<br />

senta neppure il bisogno di pensarsi in modo riflesso e critico, ma questo non vuol<br />

dire che non sia, almeno implicitamente, cosciente delle sue buone ragioni e<br />

responsabile del proprio agire. L‟antropologia teologica è la comprensione critica e<br />

argomentata dell‟antropologia cristiana, che risulta necessaria per la figura cristiana<br />

dell‟uomo e per la coscienza della Chiesa nella storia. Altrimenti a lungo andare,<br />

l‟una e l‟altra potrebbero perdere il loro radicamento nella sorgente normativa della<br />

fede (la rivelazione) e il riferimento alla comprensione che l‟uomo ha di sé nella<br />

propria epoca (l‟esperienza culturale e religiosa). Soprattutto la coscienza cristiana<br />

non potrebbe diventare il luogo capace di suscitare attorno a tale visione un<br />

linguaggio di comunione. Talvolta anche per il singolo può essere decisivo che la sua<br />

comprensione sintetica abbia la necessità di esplicitarsi per poter rendere ragione del<br />

proprio essere cristiano, prima a se stesso che ad altri. Pertanto, in quanto<br />

comprensione critica e argomentata, l‟antropologia teologica rende ragione della<br />

struttura intrinseca dell‟antropologia cristiana. Il suo è un compito veritativo ed<br />

ecclesiale, un servizio all‟annuncio e alla celebrazione, e per questa via alla carità: la<br />

vita nell‟alleanza, che è la summa del Vangelo, dell‟essere cristiano nella Chiesa.<br />

L‟antropologia cristiana si suggella nella vita cristiana come culto spirituale e<br />

comunione ecclesiale. La teologia dovrà renderne ragione così che quanto avviene<br />

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nella storia realizzi proprio lo splendore della forma cristiana, nulla di meno.<br />

L‟antropologia cristiana:<br />

1) è la chiamata/predestinazione dell‟uomo ad essere e vivere in Gesù Cristo. Il<br />

cristocentrismo della rivelazione ha una valenza trinitaria, nel senso che Gesù è<br />

al centro della visione cristiana della realtà (e dell‟uomo): la centralità di Cristo<br />

va vista nel suo rapporto filiale al Padre e nella sua destinazione universale agli<br />

uomini, in virtù dello Spirito.<br />

2) E‟ il compimento della libertà creata, che è posta intrinsecamente come<br />

capacità di risposta a tale chiamata. Se la libertà creata è obiettivamente<br />

chiamata ad essere conformata a Cristo, allora la libertà dell‟uomo dev‟essere<br />

la possibilità effettiva di risposta a tale chiamata. Occorre perciò disegnare la<br />

relazione tra la predestinazione in Cristo e le forme culturali con cui l‟uomo<br />

anticipa nel suo agire, sperare e amare la ricerca della verità di se stesso.<br />

3) E‟ una libertà corporea nel mondo, nella differenza di uomo-donna, chiamata<br />

all‟incorporazione in Cristo, nello Spirito. La struttura della libertà creata,<br />

come essere nel mondo, nella differenza sessuale, va compresa nel fuoco della<br />

incorporazione a Cristo, come possibilità di comunione e necessità di<br />

determinazione. I temi della creazione, libertà, uomo-donna, trovano la loro<br />

attuazione nella grazia dell‟incorporazione, che è la conformazione filiale alla<br />

vita di Dio in Cristo, mediante lo Spirito di Gesù.<br />

4) E‟ una libertà che si irretisce nella drammatica della storia: il peccato<br />

(originale) è la perdita della conformità a Cristo. La vicenda della libertà alla<br />

luce della chiamata in Cristo mette in evidenza la dinamica storica della libertà,<br />

che si è determinata per il rifiuto e la perdita della conformazione a Cristo. Lo<br />

stato originale va visto come la forma della chiamata ad essere in Cristo e il<br />

peccato (fino alla sua radice sul peccato originale) è la perdita della conformità<br />

a Cristo, nella complicità degli uomini con il peccato di e in Adamo.<br />

5) E‟ una libertà che viene giustificata nella drammatica storica: grazia, carismi e<br />

virtù esprimono il recupero e il compimento della libertà in Cristo. La perdita<br />

della conformità a Cristo non muta la chiamata della libertà ad essere in Cristo,<br />

ma questa si attua come remissione del peccato, giustificazione mediante la<br />

fede, ripresa della vita filiale, esperienza storica della libertà donata mediante<br />

la virtù e i carismi, fino al compimento definitivo della libertà e della storia<br />

degli uomini in Cristo.<br />

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L‟architettura, qui proposta, delinea anche il profilo sintetico, cioè il punto di vista<br />

formale che presiede alla trattazione. La tesi sintetica, anticipata all‟inizio della prima<br />

parte, può essere riformulata così: l‟antropologia teologica indaga il procedimento<br />

con cui l‟uomo accede alla verità di se stesso, attuando nella fede la propria libertà e<br />

conformandola al senso dell‟umano apparso nella vicenda dell‟obbedienza di Gesù al<br />

Padre e della sua dedizione agli uomini mediante lo Spirito.<br />

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