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Serena Tubertini - Scriviconloscrittore.org

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42 - TUBERTINI SERENA<br />

Nella storia, tutte noi<br />

Poi è arrivata la crisi e la Nulla S.p.a® ha chiuso.<br />

Così, da un giorno all’altro, mandando in frantumi tutti i nostri prevedibili progetti futuri e le<br />

misere, scontate programmazioni spazio temporali che ci separavano dalla pensione.<br />

E così è finita, mi dico posando gli occhiali sul giornale ancora aperto. E’ arrivata la crisi, e la<br />

ditta ha chiuso. La ditta. Così la chiamiamo da queste parti, da sempre. Perché la Nulla S.p.a. per la<br />

gente di qui è solo questo, la ditta. Da quasi un secolo.<br />

Non c’è più nessuno che se la ricordi com’era allora, agli inizi. Solo le foto, seppiate dal tempo e<br />

dagli eventi. La distesa dei prati di periferia e lei, massiccia, poco elegante, quasi impacciata. Come<br />

la famiglia dei fondatori, i padroni, si chiamavano allora, in posa davanti al cancello in ferro<br />

battuto, baffi folti a coprire l’espressione degli uomini, larghe tese sugli sguardi un po’ sorpresi<br />

delle mogli. Cavalier Nulla Ermete e figli. Corsetteria per signora. Biancheria ricamata. Seta, raso,<br />

pizzi delicati e destinati a donne sconosciute, spesso lontane da qui. Donne che non erano certo<br />

quelle che varcavano a passi frettolosi, nella nebbia o ai primi raggi di sole le mattine d’estate, il<br />

cancello della ditta. Per uscirne dopo molte ore, strette nei loro scialli, i piedi nel fango, ancora un<br />

po’ di voce per due chiacchiere sulla strada di casa. Dove la fatica non era finita. Dove le<br />

attendevano uomini esigenti, figli, case faticose. Erano tante, già allora. E la ditta, Nulla Ermete e<br />

figli, le prendeva tutte. Giovani, vecchie, bambine di scuola. Nessun orario, nessuna regola, nessun<br />

diritto. Solo lavoro. Alla prima malattia o gravidanza o altra disgrazia, se andava bene due soldi di<br />

buonuscita, e a casa. Così era. Per le nostre madri e le madri delle madri. Così è stato.<br />

Non so di ribellioni da queste parti, perlomeno prima della guerra. Forse in altre zone d’Italia ma<br />

qui no. Almeno così mi hanno raccontato, mamma e zie. La ditta non si toccava, era sacra, era una<br />

su cui poter contare, l’unica alternativa alla fame e al disonore della miseria. Non c’era scelta se<br />

dovevi aiutare in casa e rimediare un corredo da sposa dignitoso, per farcela ad andartene prima o<br />

poi.<br />

Io sono nata dopo, quando Mussolini era già diventato il duce e la Nulla Ermete e figli, sempre<br />

là sul prato dopo la ferrovia, si era allargata. C’era stato il periodo duro della prima guerra, con gli<br />

uomini al fronte e le donne a casa con tutto sulle spalle. Pochissime le clienti, e la ditta si era<br />

arrangiata producendo stoffe scadenti per le divise dei soldati, e bottoni e bretelle e lacci da scarpe e<br />

tutto quello che poteva servire a quei disgraziati nascosti nelle trincee.<br />

Quando io ero bambina, lavorare alla ditta per le donne era quasi una vergogna. Gli uomini mica<br />

avevano tanto piacere che le donne guadagnassero per conto loro E infatti se potevano – e anche se<br />

non potevano – le lasciavano a casa, a mettere insieme pranzo e cena, incollare le foto del duce e a<br />

partorire figli per la patria. Proprio come Sofia Loren, in quel film con Mastroianni, Una giornata<br />

particolare, mi pare che si chiami così. Intanto alla Nulla avevano ripreso con i rasi e i merletti di<br />

seta, e dopo le sanzioni per la guerra d’Etipia si inventarono il ryon e il lanital, che andavano a<br />

vestire le giovani italiane tanto in voga allora.<br />

Quanto a diritti e regole, per quelli che ci lavoravano non era cambiato niente, soprattutto per le<br />

donne. Non che gli uomini stessero molto meglio, era dura per tutti. Un giorno il duce venne a<br />

visitare la ditta. Si fece fare una foto in piedi fra le operaie al telaio. La prima volta che la vidi<br />

quella foto, fu quando entrai lì a lavorare, alla Nulla Ermete e figli, nel ’37. Avevo dodici anni.<br />

Non ne sono più uscita. Come la mamma, come le zie, le mie sorelle. Le compagne di scuola, le<br />

vicine di casa. Le donne di questa città, perlomeno quelle che conoscevo io. Sottomesse al lavoro,<br />

come in casa. Sfruttate dai padroni. Allora era così. Prendere o lasciare.<br />

La Nulla non era diversa. Ti dava da mangiare, e poco altro. Ma non dovevi farti domande, su<br />

quello che vedevi, su quello che toccavi, su quello che respiravi e che ti rimaneva attaccato,<br />

nascosto fra le pieghe della sottana o sotto le forcine dei capelli. Non dovevi ribattere se il<br />

sorvegliante o qualcuno più in alto allungava le mani e le parole passandoti vicino. Non dovevi


protestare per le prepotenze, le ingiustizie, le umiliazioni. A te o alle compagne. Non dovevi e<br />

basta.<br />

Intanto era tornata la guerra, e questa me la ricordo ancora bene, in tutti i momenti. Prima la<br />

piazza piena di gente, quegli urli gutturali all’altoparlante, e poi le prime partenze. Doveva durare<br />

poco pochissimo e invece non finiva mai. Nel ’43 cominciarono a bombardare. Lasciammo il<br />

lavoro, e poi le case e la città. Cercammo riparo lontano, chi in montagna chi presso le famiglie<br />

contadine dei dintorni.<br />

Riuscimmo a sopravvivere. Nonostante i fascisti, i tedeschi, e le bombe degli alleati. Anche la<br />

Nulla ce l’aveva fatta. Lesionata dalle bombe ma ancora in piedi. Il cavalier Ermete era morto,<br />

adesso toccava ai figli. I macchinari nascosti ripresero a funzionare, i cancelli si riaprirono. Si<br />

ricominciava ancora una volta da noi donne.<br />

Ma quegli anni brutti non erano passati per niente. E ci avevano cambiate. Ci avevano aperto gli<br />

occhi. Eravamo giovani e pronte al futuro. Con i partigiani avevamo cacciato tedeschi e fascisti,<br />

con il nostro voto avevamo mandato a casa il re. Adesso toccava ai padroni.<br />

Potevamo farcela, eravamo tante. Con noi operaie di città c’erano le contadine, le mondariso, le<br />

lavoratrici delle filande. Furono anni duri ma esaltati e pieni di speranza e di guai. Scioperi, proteste<br />

in piazza, occupazioni. E rincorse, manganellate dei celerini, compagni che morivano per le strade,<br />

e ritorsioni dei padroni. La Nulla rispose nell’unico modo che conosceva, con i licenziamenti. Chi<br />

faceva attività sindacale o politica perdeva il lavoro. E questo voleva dire miseria, e fame. Ma si<br />

teneva duro, la posta era un modo di lavorare più umano, il rispetto dell’orario di lavoro, le malattie<br />

coperte, la maternità. La posta era un mondo più giusto, per i figli.<br />

Più avanti, quando sembrò che l’economia andasse alla grande, e la gente viaggiava in<br />

automobile, riempiva le case di elettrodomestici e nel frattempo faceva figli, la biancheria della<br />

Nulla cominciò a essere venduta anche nei negozi, e la compravano anche le segretarie, le<br />

parrucchiere e le sartine, e insomma ci fu un aumento della produzione in serie. Molte donne,<br />

soprattutto se avevano una famiglia da guardare, lavoravano a casa propria, quando potevano. La<br />

ditta cominciò a licenziare le operaie e far fare loro lo stesso lavoro ma a casa. Dove non si<br />

guardava l’orologio e con una paga da miseria. La legge lo vietava solo nella forma, ma nei fatti<br />

chiudeva un occhio. Senza contare gli appoggi politici su cui potevano contare i padroni, in cambio<br />

di mazzette sotto banco e voti garantiti al momento giusto.<br />

Abbiamo attraversato quegli anni di corsa, donne e uomini, fianco a fianco nella fabbrica e nella<br />

vita, guardando all’avvenire che sognavamo e intorno a noi, in un mondo che ci cambiava sotto gli<br />

occhi. Non ci siamo mai stancati di chiedere quello che era giusto per il nostro lavoro e le nostre<br />

vite, anche quando mettevamo in pericolo entrambi.<br />

Abbiamo discusso, studiato e sfilato insieme agli altri lavoratori e agli studenti delle università.<br />

Abbiamo mandato i nostri figli a scuola, e siamo tornati anche noi a scuola. Abbiamo rimesso in<br />

discussione i matrimoni, la maternità, il diritto alla libertà. Abbiamo davvero creduto che tutto<br />

potesse cambiare e che ci sarebbe stato un lieto fine.<br />

Quel finale a un certo punto ci è sembrato vicinissimo, a portata di mano, quasi di poterlo<br />

toccare.<br />

Ma non era così.<br />

All’improvviso sono tornate le bombe, i morti nelle banche, per le strade, sui treni. E’ tornata la<br />

paura, il buio, la minaccia sottile di chi vuole di nuovo il respiro breve e il silenzio delle coscienze.<br />

La nostra generazione di donne era forte, non si è persa d’animo, anche se ci sentivamo sempre<br />

più sole nelle battaglie, accusate o schernite, ancora una volta messe all’angolo.<br />

Non ci siamo arrese, neanche con la pensione, neanche quando ci siamo accorte con le compagne<br />

che eravamo diventate vecchie.<br />

E la Nulla? La ditta, ora S.p.a. è sempre rimasta lì, passata di padre in figlio come un titolo di re.<br />

Ampliata, modernizzata con capitali stranieri, diversificata nella produzione, quotata in borsa,<br />

attenta ai nuovi mercati. Sostenuta, sollevata e poi catapultata fra le luci di un mondo sempre più<br />

vicino e sempre più facile.


In questi anni dalla mia finestra ho guardato i cancelli della ditta. Il serpentone colorato delle<br />

operaie che entravano al mattino e all’uscita nel pomeriggio. Molte di loro le conosco, sono amiche<br />

delle mie figlie e delle nipoti. Sembrano così diverse da come eravamo noi alla loro età. I problemi<br />

invece sono sempre gli stessi.<br />

Poi è arrivata la crisi e la Nulla S.p.a® ha chiuso.<br />

Mi alzo e lentamente mi avvicino alla finestra. I cancelli della Nulla sono chiusi, come le porte e<br />

le finestre dei tanti palazzi che sono sorti intorno a lei, nel corso degli anni. Un enorme bozzolo di<br />

cemento, a proteggerla dal respiro del verde, e del cielo.<br />

Le luci della Borsa, dei mercati, del mondo si sono spente. Quello che rimane è solo un vecchio,<br />

massiccio edificio di provincia, avvolto dall’umidità di un mattino d’inverno.<br />

Torno alla mia poltrona e rileggo le ultime parole dell’articolo. Sono virgolettate.<br />

“Così, da un giorno all’altro, mandando in frantumi tutti i nostri prevedibili progetti futuri e le<br />

misere, scontate programmazioni spazio temporali che ci separavano dalla pensione”.<br />

Penso che nessuna delle ragazze e donne che lavoravano alla Nulla e che ora probabilmente sono<br />

davanti a un computer a scrivere un curriculum troppo lungo o troppo semplice o alle prese con<br />

improbabili offerte offerte di lavoro o semplicemente a casa loro a meditare su nuove economie da<br />

inventarsi per i prossimi mesi o anni, nessuna di loro parlerebbe in questo modo, programmazioni<br />

spazio temporali che ci separano dalla pensione.<br />

E’ la vita, quella che le aspetta senza la ditta, l’affitto tutti i mesi, il dentista per il bambino, la<br />

retta della mensa scolastica, la macchina da riparare, una malattia improvvisa, la voglia di un vestito<br />

nuovo o di una vacanza.<br />

Quand’è che i giornalisti impareranno a chiamare le cose con il loro nome?<br />

Bisogna ripartire da qui, dalle parole e dal loro significato.<br />

Dando valore a ciò in cui crediamo, e continuando a difenderlo. Con le unghie e coi denti. Anche<br />

quando sembra inutile, anche quando sembra che tutto sia perduto.<br />

Non sarà facile per queste ragazze, non lo è stato per nessuno. Noi vecchi lo sappiamo bene.<br />

Bisogna fare i conti con il dolore. La rabbia. La paura.<br />

Sarà dura ricominciare.<br />

Ma non è impossibile.<br />

Per conto mio, io continuerò a crederci. E a fare la mia parte. Per quello che posso. Per il tempo<br />

che mi resta.

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