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Veronica Menelao - Sogno di Prigioniero - Padis

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VERONICA MENELAO<br />

SOGNO DI PRIGIONIERO<br />

TRE SENTIERI TRA ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE<br />

Tesi <strong>di</strong> Dottorato - XVII CICLO


Università degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Roma “La Sapienza”<br />

Dipartimento <strong>di</strong> Sociologia e Comunicazione<br />

Scuola <strong>di</strong> dottorato in “Scienze della Comunicazione,<br />

Ricerca Avanzata, Gestione delle Risorse e Processi Formativi”<br />

Direttore: Prof. Alberto Abruzzese<br />

XVII CICLO<br />

SOGNO DI PRIGIONIERO<br />

TRE SENTIERI TRA ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE<br />

Tutor: Prof. Sergio Brancato<br />

Dottoranda: Dott.ssa <strong>Veronica</strong> <strong>Menelao</strong><br />

Commissione giu<strong>di</strong>catrice:<br />

Prof. Alberto Abruzzese<br />

Prof. Luciano Benadusi<br />

Prof.ssa Antonietta Censi


NOTE SUL METODO 4<br />

INTRODUZIONE 7<br />

1. IL CINEMA E L’IMMAGINARIO 26<br />

1.1 “La Fonte Meravigliosa”: Frank Lloyd Wright<br />

Il bisogno <strong>di</strong> comunicare la propria solitu<strong>di</strong>ne intellettuale<br />

1.2 “Batman”: Shin Takamatsu<br />

La trasfigurazione della realtà attraverso il <strong>Sogno</strong><br />

1.3 “Truman Show”: Léon Krier<br />

L'utopia dell'Eterno Presente<br />

2. LA LETTERATURA E IL TEMPO 46<br />

2.1 “Le Città Invisibili”: Aldo Rossi<br />

La sospensione del Tempo e dello Spazio<br />

2.2 “L'Aleph”: Frank O. Gehry<br />

Involuzione ed Entropia negli spazi della Cultura<br />

2.3 “L'isola <strong>di</strong> cemento”: Richard Rogers<br />

L'Architetto e la Farfalla: Leggerezza per uno sviluppo [in]sostenibile<br />

3. IL FUMETTO E LO SPAZIO 56<br />

3.1 “Appleseed”: Euralille [R. Koolhaas, J. Nouvel, C. De Portzamparc, K.<br />

Shinoara, C. Vasconi]<br />

Architettura e comunicazione totale per un progetto <strong>di</strong> “Città Futura”<br />

3.2 “Blame!”: Giovanni Battista Piranesi<br />

La Prigione come metafora del Corpo e della Struttura<br />

3.3 “ Ghost in the Shell”: Massimiliano Fuksas e Toyo Ito<br />

Nuovi significati nella Metropoli moderna: Vertigine e Trasparenza<br />

POSTILLA 73<br />

1<br />

27<br />

35<br />

42<br />

47<br />

50<br />

53<br />

57<br />

60<br />

64


APPENDICI<br />

In<strong>di</strong>ce delle Figure 74<br />

Filmografia 75<br />

Bibliografia 90<br />

Licenza 96<br />

Per una migliore comprensione del testo:<br />

i nomi degli e<strong>di</strong>fici e dei progetti sono in MAIUSCOLETTO<br />

i titoli dei film, dei libri e dei fumetti sono in corsivo<br />

le citazioni da film e libri trattati nel testo sono tra “”<br />

i riferimenti bibliografici sono tra «»<br />

I cre<strong>di</strong>ti dell’immagine <strong>di</strong> copertina sono <strong>di</strong> Matteo Pericoli [www.matteopericoli.com]<br />

2


3<br />

ai desideranti <strong>di</strong> luce


NOTE SUL METODO<br />

Questo lavoro seguirà un percorso dettato da un <strong>di</strong>alogo a più voci tra me<strong>di</strong>a e<br />

architettura. Articolato in tre parti <strong>di</strong>stinte, cinema, letteratura e fumetto,<br />

metterà a confronto le tecniche dei linguaggi della comunicazione architettonica<br />

con quelli della comunicazione au<strong>di</strong>ovisiva, secondo il filo conduttore della<br />

Metropoli, intesa come spazio fisico e simbolico. Verranno presi in esame per<br />

ciascuna sezione tre architetti o mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> intendere/interpretare la realtà<br />

metropolitana, e tre oggetti comunicativi.<br />

La tesi portante è che questi oggetti nel momento in cui vengono progettati,<br />

scelti e costruiti, rispondono ad un’esigenza comunicativa da parte del pubblico.<br />

Contenitori <strong>di</strong> significato da un lato, veicoli essi stessi <strong>di</strong> una percezione del<br />

mondo dall’altro, <strong>di</strong>ventano protagonisti <strong>di</strong> un nuovo modello <strong>di</strong> consumo<br />

culturale. È proprio nel collegamento tra l’immaginario del pubblico e il costruito<br />

che si rintracciano le relazioni ormai strette tra architettura e me<strong>di</strong>a. Me<strong>di</strong>a<br />

ispiratori da una parte e ispirati alla realtà circostante dall’altra, fattore dovuto<br />

anche alla capacità degli architetti <strong>di</strong> comunicare il proprio sapere.<br />

Questo spunto si offre ad una lunga serie <strong>di</strong> riflessioni sulla visibilità che alcuni<br />

progettisti hanno ottenuto grazie alla notevole esposizione me<strong>di</strong>atica dei loro<br />

lavori. Per citare qualche esempio è il caso dell’AUDITORIUM ad opera <strong>di</strong> Renzo<br />

Piano e del GUGGENHEIM <strong>di</strong> Bilbao, realizzato da Frank O. Ghery. Due lavori <strong>di</strong><br />

entità e realizzazione formale <strong>di</strong>verse tra loro, accomunati dal fatto che la<br />

presenza sui giornali <strong>di</strong> Piano e Ghery è aumentata in modo esponenziale,<br />

generando in tal modo un interesse anche per i loro lavori successivi.<br />

Il passo <strong>di</strong> questa tesi è stato volutamente introdotto sul rapporto tra cinema e<br />

architettura, proprio per comprenderne le influenze storiche e <strong>di</strong> costruzione della<br />

rispettiva immagine. La chiave <strong>di</strong> lettura per la parte filmica può essere quella<br />

4


dell’ Immaginario. La riproposizione in chiave nostalgica <strong>di</strong> temi ed estetiche del<br />

passato ha avuto forti ripercussioni sull’architettura reale. In quest’ottica possono<br />

essere letti progetti come Seaside, la citta<strong>di</strong>na in cui è ambientato The Truman<br />

Show [1998], luogo realmente esistente e costruito inseguendo un fine non<br />

<strong>di</strong>chiarato: quello proposto da film come La vita è meravigliosa [1946] dove con,<br />

peraltro finto, ottimismo il <strong>Sogno</strong> Americano viene realizzato perfino in forma<br />

immobiliare.<br />

La deco<strong>di</strong>fica aberrante dei segni della Metropoli, provoca quel senso <strong>di</strong><br />

spaesamento dovuto all’organizzazione ambigua del messaggio rispetto al co<strong>di</strong>ce.<br />

La cosa rappresentata viene osservata non solo in modo <strong>di</strong>verso, ma cambia<br />

anche il metodo <strong>di</strong> interpretazione dei mezzi <strong>di</strong> rappresentazione e dei co<strong>di</strong>ci. Se<br />

il fine dell’immagine non è <strong>di</strong> rendere più vicina alla nostra comprensione la<br />

significazione che veicola, ma <strong>di</strong> creare una percezione particolare dell’oggetto,<br />

questo proposito viene sicuramente raggiunto da autori come Mead e Furst o<br />

architetti come Shin Takamatsu, che hanno cercato <strong>di</strong> sviare consapevolmente,<br />

l’attenzione dalla struttura narrativa per concentrarsi sulle valenze estetiche della<br />

metropoli e degli oggetti che contiene. L’operazione è riuscita maggiormente a<br />

Takamatsu perché il suo progetto non ha mai aspirato ad essere<br />

totale/totalizzante, ma semplicemente a violare il ritmo del contesto urbano. La<br />

violazione della Los Angeles del 2019 e in misura maggiore <strong>di</strong> Gotham City,<br />

<strong>di</strong>venta invece regola, canone, perdendo tutta la sua forza trasgressiva.<br />

La lettura lineare del romanzo e ipertestuale del fumetto giapponese entrano<br />

in gioco insieme al concetto <strong>di</strong> Tempo e Spazio della Metropoli contemporanea,<br />

attraverso i continui riman<strong>di</strong> con il cinema.<br />

Il Tempo, visto come <strong>di</strong>latazione anche visuale, si intreccia con il ricordo e la<br />

memoria, come nelle architetture <strong>di</strong> Aldo Rossi, così legate alle Città Invisibili e<br />

immaginarie <strong>di</strong> Calvino. Quando la <strong>di</strong>latazione temporale non è più traccia del<br />

5


passato, ma eternità senza scampo, il pessimismo quasi cosmico della tra<strong>di</strong>zione<br />

della sci-fi si scontra con l’insostenibilità dei luoghi che abita. James Ballard ha<br />

descritto più volte abilmente le perversioni architettoniche delle Metropoli, la<br />

brutalità del cemento <strong>di</strong>rettamente connessa con la ruvi<strong>di</strong>tà dell’animo umano.<br />

Quando il Tempo si è contorto in una spirale, involuta e senza aperture, in cui<br />

dominano solo le leggi dei numeri, le biblioteche iperreali <strong>di</strong> Borges hanno<br />

trovato la loro effettiva realizzazione nei nuovi spazi museali come il GUGGENHEIM<br />

<strong>di</strong> Bilbao. La città si è popolata <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici indecifrabili, <strong>di</strong> presenze ambigue che<br />

hanno ri<strong>di</strong>segnato lo spazio urbano secondo mappe misteriose e nuove città nella<br />

città.<br />

Il passaggio dalla biblioteca borgesiana alle carceri piranesiane è stato breve.<br />

L’atemporalità <strong>di</strong> Borges prende forma nella struttura priva <strong>di</strong> corpo, Spazio<br />

nudo, in Blame!, fumetto rivoluzionario dal punto <strong>di</strong> vista stilistico <strong>di</strong> Tsutomu<br />

Nihei, privo <strong>di</strong> trama e personaggi ben definiti, groviglio scuro <strong>di</strong> allucinazioni<br />

mentali e estensioni del corpo. Lo Spazio della Metropoli del futuro, <strong>di</strong>viso tra<br />

terrain vague e megastruttura, tra ibrido e moderno ha generato ulteriori<br />

visioni/realizzazioni: la <strong>di</strong>gitalizzazione del mondo contemporaneo, riletta<br />

attraverso il corpo trasparente e cibernetico della protagonista <strong>di</strong> Ghost in the<br />

Shell, così come in molti e<strong>di</strong>fici delle megalopoli orientali da un lato; dall’altro il<br />

compimento dell’utopia <strong>di</strong> Sant’Elia, attraverso la costruzione della Città Perfetta,<br />

Euralille, frutto <strong>di</strong> sinergie tra Architettura, Politica e Scienza, e rivista attraverso<br />

la sua forma <strong>di</strong>segnata, in Appleseed <strong>di</strong> Masamune Shirow.<br />

6


INTRODUZIONE<br />

Il rapporto tra la città e la sua rappresentazione filmica coincide con la nascita<br />

dell'apparato cinematografico, e se ne può in<strong>di</strong>viduare un primario punto <strong>di</strong><br />

snodo con l’uscita contemporanea <strong>di</strong> Metropolis e Aurora nel 1927. Da quel<br />

momento la Metropoli ha subìto tante mo<strong>di</strong>ficazioni nella sua struttura e nel suo<br />

significato, quante nella sua raffigurazione. Dalla visione insana e teatrale della<br />

città in Il gabinetto del Dottor Caligari [1920], si è passati in pochi anni alla<br />

rappresentazione <strong>di</strong>stopica del futuro urbano in Metropolis e nel suo epigono<br />

inglese Vita Futura [1936]. Le possibili relazioni tra cinema e architettura sono<br />

state <strong>di</strong>scusse soprattutto durante l’epoca del muto nella Germania della<br />

Repubblica <strong>di</strong> Weimar.<br />

Le aspettative da parte degli urbanisti sulle possibilità del nuovo me<strong>di</strong>um <strong>di</strong><br />

rappresentare il futuro della Metropoli erano molto forti. Alcuni architetti<br />

credevano fermamente nella rinascita dell’architettura grazie all’esperienza<br />

filmica, che permetteva la realizzazione <strong>di</strong> quelle utopie <strong>di</strong>segnate nei primi due<br />

decenni del secolo da artisti d’avanguar<strong>di</strong>a come Bruno Taut, Antonio Sant’Elia,<br />

Tony Garnier. Questi architetti proponevano delle visioni totalizzanti della<br />

Metropoli, progettata con una notevole ricchezza formale intorno al concetto <strong>di</strong><br />

<strong>di</strong>stribuzione dello spazio.<br />

Il ruolo dell'Immaginario nella costruzione <strong>di</strong> questi ambienti venne così<br />

<strong>di</strong>scusso da architetti d’avanguar<strong>di</strong>a e scenografi molti anni prima che il<br />

Movimento Moderno ne facesse il proprio para<strong>di</strong>gma. Si può senza dubbio<br />

affermare che se l’architettura metropolitana ha influenzato la sua<br />

rappresentazione filmica, è anche vero che certe visioni <strong>di</strong> città hanno anticipato i<br />

concetti fondamentali della moderna teoria architettonica. L’assenza <strong>di</strong> particolari<br />

restrizioni economiche o finanziarie, permise ai set designer degli anni Venti e<br />

7


Trenta <strong>di</strong> realizzare dei mon<strong>di</strong> possibili, intere città costruite dal nulla, ma dotate<br />

<strong>di</strong> una propria storia o <strong>di</strong> un particolare retroterra filosofico. Si spiegano così le<br />

Metropoli cannibali dei film <strong>di</strong> Murnau come L’ultima risata [1924] o Aurora, o<br />

ancora le città visionarie ed ottimistiche dei primi musical come Just Imagine<br />

[1930].<br />

Robert Mallet-Stevens, principale esponente francese dell’Art Déco ed autore<br />

<strong>di</strong> una ventina <strong>di</strong> scenografie tra il 1919 ed il 1929, scrisse in quegli anni che il<br />

set doveva avere una sua caratterizzazione forte e precisa, e riunire tutti quegli<br />

elementi in<strong>di</strong>viduali che rappresentano i concetti <strong>di</strong> gusto, stile <strong>di</strong> vita e posizione<br />

sociale, sotto un’unica immagine <strong>di</strong> spazio 1 .<br />

Collocare Metropolis [1926] come punto <strong>di</strong> partenza per spiegare l’evoluzione<br />

e l’intreccio della rappresentazione cinematografica della città è quasi d’obbligo,<br />

se non ad<strong>di</strong>rittura scontato. E’ pur sempre vero che non si può prescindere dal<br />

capolavoro <strong>di</strong> Lang per spiegare la storia del cinema dal punto <strong>di</strong> vista<br />

dell’architettura metropolitana. Lang è riuscito a mescolare abilmente<br />

l’Espressionismo <strong>di</strong> Mendelsohn e <strong>di</strong> Scharoun con il Costruttivismo russo <strong>di</strong><br />

Mel’nikov. Lo stesso architetto russo si ispirerà nel 1934 alle architetture<br />

allucinate <strong>di</strong> Metropolis per il suo progetto per un QUARTIER GENERALE DEL<br />

COMMISSARIATO PER L’INDUSTRIA PESANTE; l’e<strong>di</strong>ficio-città riprende così gli archetipi<br />

dell’utopia russa e tedesca degli anni Venti.<br />

Il <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Lang, architetto nella sua formazione, è strettamente legato con<br />

la nascita del regime nazista. L’architettura si fa cinema in maniera definitiva<br />

quando incontra il <strong>di</strong>scorso politico: le strade <strong>di</strong> Norimberga <strong>di</strong>ventano<br />

scenografie per il kolossal <strong>di</strong> Leni Riefenstahl Il trionfo della volontà [1936], in un<br />

gioco <strong>di</strong> ruoli nel quale non si <strong>di</strong>stingue più la finzione dalla rappresentazione<br />

dell’[ir]reale massa nazista.<br />

1 R. Mallet-Stevens, 1925, “Architecture et Cinema”, Les Cahiers du Mois, n. 16-17, pp. 95-98.<br />

8


La forma e visibilità della città moderna, caratterizzata dall’uso dell’automobile<br />

si rintraccia comunque nel capolavoro <strong>di</strong> Lang. Gli scenografi Hunte, Kettelhut e<br />

Vollbrecht, che avevano già lavorato per Fritz Lang in I Nibelunghi [1924]<br />

ricreando le atmosfere oniriche <strong>di</strong> Wagner, si trovarono alle prese con una città<br />

totalmente da inventare, operando tanto sull’immaginario espressionista quanto<br />

su quello futurista e realizzando così una sintesi singolare e inimitabile. La messa<br />

in scena <strong>di</strong> opere visibilmente <strong>di</strong>verse tra loro per forma, teoria e sostanza<br />

contribuì a creare quell’aura <strong>di</strong> futuribilità fino ad allora sconosciuta nel cinema<br />

mon<strong>di</strong>ale. La genialità della scelta scenografica risiedeva soprattutto nel<br />

<strong>di</strong>stinguo tra i <strong>di</strong>versi livelli della città.<br />

La città visibile, definita da una skyline ispirata in parte a New York, riprende i<br />

motivi della CITÉ INDUSTRIELLE [1917] <strong>di</strong> Tony Garnier 2 : le<br />

sopraelevate sono un filo conduttore che unisce le<br />

megastrutture tra loro, delle linee <strong>di</strong> demarcazione del<br />

territorio su cui il traffico automobilistico è un flusso<br />

continuo e veloce. La prima versione del downtown <strong>di</strong><br />

Metropolis <strong>di</strong>segnata da Kettelhut era i<strong>di</strong>lliaca: i flussi del<br />

traffico scorrevano a più livelli; era pieno <strong>di</strong> parcheggi per le automobili, i pedoni<br />

camminavano liberamente tra i grattacieli ed osservavano le vetrine dei negozi ai<br />

piani inferiori 3 .<br />

In una parte del <strong>di</strong>segno era raffigurata anche una cattedrale gotica modellata<br />

sul progetto della SAGRADA FAMILLA [1884-1903] <strong>di</strong> Anton Gaudì e sulla cattedrale<br />

<strong>di</strong> Colonia. Il riferimento al Gotico voleva essere anche una <strong>di</strong>retta citazione del<br />

romanzo <strong>di</strong> Thea Von Harbou, dal quale era stato tratto il film 4 . Nel libro, la parte<br />

antica della città era presentata come l’ultimo baluardo che tentava<br />

2<br />

Teorico dell’organizzazione spaziale della città, il suo Cité industrielle può essere collocato tra i gran<strong>di</strong> progetti<br />

utopistici <strong>di</strong> inizio secolo. Cfr. T. Garnier, 1917, Une cité industrielle. Étude pour la construction des villes,<br />

Paris.<br />

3<br />

Cfr. D. Neumann [ed.], 1996, Film Architecture. From Metropolis to Blade Runner, Prestel-Verlag, Munich pp.<br />

94-103.<br />

4<br />

T. Von Harbou, 1926, Metropolis, Granillo, Torino 1973.<br />

9


<strong>di</strong>speratamente <strong>di</strong> <strong>di</strong>fendersi dall’assalto della modernità. Accanto alla cattedrale<br />

si trovava, infatti, un imponente e<strong>di</strong>ficio curvilineo realizzato sulla falsariga del<br />

GRATTACIELO IN VETRO <strong>di</strong> Mies van der Rohe [1922].<br />

Lang si oppose fermamente a questa versione antimodernista, intervenendo<br />

<strong>di</strong>rettamente sugli schizzi e suggerendo <strong>di</strong> sostituire la cattedrale con una<br />

moderna Torre <strong>di</strong> Babele. Riflettendo le idee degli architetti dell’epoca, Lang fece<br />

intendere agli scenografi che le città moderne dovevano essere dominate non dai<br />

picchi <strong>di</strong> una chiesa, ma dalle nuove architetture del lavoro, come i grattacieli.<br />

Nella seconda versione dei <strong>di</strong>segni preparatori, era stata eliminata la cattedrale e<br />

sostituita da un pilastro polifunzionale con una piattaforma <strong>di</strong> atterraggio per<br />

aeroplani; lo stile degli e<strong>di</strong>fici circostanti era <strong>di</strong>sadorno, un gusto derivato dalle<br />

avanguar<strong>di</strong>e. Era evidente l’influsso, subìto da Kettelhut, dei progetti<br />

megastrutturali <strong>di</strong> Garnier 5 .<br />

I <strong>di</strong>segni definitivi riflettevano quello che probabilmente chiunque immaginava<br />

in una città tedesca del prossimo futuro. Lo splen<strong>di</strong>do grattacielo <strong>di</strong> vetro della<br />

prima versione era scomparso in favore <strong>di</strong> una più rigida struttura a gradoni, che<br />

sembrava quasi anticipare le successive<br />

tendenze del Brutalismo. La versione finale<br />

della torre sullo sfondo della città era un<br />

grattacielo dalla punta a stella derivato dalle<br />

ALPINE ARCHITEKTUR <strong>di</strong> Bruno Taut e fu vista<br />

successivamente dai critici come un tentativo<br />

<strong>di</strong> riaffermazione dell’imperialismo tedesco 6 . Il mito della verticalizzazione e della<br />

struttura monumentale <strong>di</strong>venta subito popolare tra gli urbanisti negli anni<br />

successivi all’uscita del film: Ludwig Hilberseimer nel suo progetto per una CITTÀ<br />

DEL FUTURO immagina le residenze ed il traffico pedonale nella parte alta, la città<br />

5 Cfr. nota 2.<br />

6 B. Taut, 1919, Alpine Architektur, Folkwang-Verlag, Hagen.<br />

10


del commercio e degli affari con il traffico veicolare nella parte bassa, nel<br />

sottosuolo, ed infine le linee ferroviarie e metropolitane 7 .<br />

La rappresentazione della città era visibilmente utopistica, ingenua<br />

nell’inscenare una vita metropolitana auspicabile negli ideali, ma d’impossibile<br />

realizzazione. Lo spirito naïf <strong>di</strong> Lang era con<strong>di</strong>viso dalla maggioranza dei<br />

tedeschi, già affascinati da quell’icona della modernità che era la New York<br />

rappresentata in Preferisco l’ascensore [1923] con Harold Lloyd. Gli architetti, gli<br />

urbanisti ed i politici, invece, non erano altrettanto entusiasti ed in un acceso<br />

<strong>di</strong>battito che proseguì per lungo tempo, venne fuori tutto lo spirito anti-<br />

americano e conservatore proprio degli opinion-makers dell’epoca. In numerose<br />

<strong>di</strong>chiarazioni i grattacieli furono accusati <strong>di</strong> togliere luce ed aria alle costruzioni<br />

vicine e <strong>di</strong> essere i simboli più volgari del capitalismo rampante 8 . Le intenzioni dei<br />

critici erano <strong>di</strong> stimolare una germanizzazione nella progettazione dei grattacieli,<br />

<strong>di</strong>staccandosi dall’esempio americano, per rivelare «il vero significato insito nel<br />

grattacielo» 9 . Gli architetti tedeschi proponevano una visione socialmente più<br />

responsabile della pianificazione citta<strong>di</strong>na, con un’unica torre che si doveva<br />

innalzare al <strong>di</strong> sopra della città, vista come un aggiornamento moderno del ruolo<br />

centralizzante della cattedrale me<strong>di</strong>oevale.<br />

L’avanguar<strong>di</strong>a architettonica rifiutava simili posizioni conservatrici: la vera<br />

realtà era il Funzionalismo che nasceva proprio in quegli anni; alla città che sale<br />

<strong>di</strong> matrice futurista si opposero le prime fortunate realizzazioni <strong>di</strong> Mies come il<br />

WEISSENHOF [1927], un’estensione orizzontale basata sulla serialità e sulla<br />

collettività, nella piena applicazione dei princìpi del Movimento Moderno.<br />

La parte visibile <strong>di</strong> Metropolis, oltre all’e<strong>di</strong>ficio centrale, è costituita dai<br />

grattacieli a metà strada tra lo STUDIO PER LA CITTÀ NUOVA <strong>di</strong> Sant’Elia [1914] ed i<br />

7<br />

Cfr. i progetti in L. Hilberseimer, 1927, Großtadt-Architektur, L’Architettura della Grande Città, Clean E<strong>di</strong>zioni,<br />

Napoli 1998.<br />

8<br />

Cfr., ad esempio, le affermazioni <strong>di</strong> C. Gurlit, 1914, “Stadt der Zukunft”, Bauwelt 21, p. 21. Lo storico dell’arte<br />

definiva il grattacielo come «la peggiore invenzione del genere umano».<br />

9<br />

M. Mächler, 1920, “Zum Problem des Wolkenkratzers”, Wasmuths Monatshefte für Baukunst 5, p. 260.<br />

11


primi progetti razionalisti. Kettelhut voleva che gli e<strong>di</strong>fici costituissero qualcosa in<br />

più <strong>di</strong> uno sfondo: dovevano partecipare attivamente alla storia, sottolinearne le<br />

contrad<strong>di</strong>zioni e provocare un <strong>di</strong>battito sul futuro dell’architettura. Probabilmente<br />

l’unico <strong>di</strong>fetto dei suoi <strong>di</strong>segni definitivi era che gli e<strong>di</strong>fici erano troppo omogenei<br />

tra loro: sembrava una città <strong>di</strong>segnata da una sola mano, contrariamente a<br />

quanto accade in realtà, e perciò falsa.<br />

La prima versione del 1925 era forse insuperabile, con il suo melting pot <strong>di</strong><br />

antico e moderno, con gli spazi più aperti e vivibili. Kettelhut aveva mantenuto i<br />

suoi proponimenti nelle abitazioni dei ricchi che erano una chiara citazione del<br />

Secessionismo viennese <strong>di</strong> Joseph M. Olbrich. Il teorico del Decorativismo<br />

proponeva un controllo del processo costruttivo fin nei minimi particolari: dalle<br />

strutture principali alle tappezzerie fino al più piccolo oggetto d’arredo.<br />

La “Città dei Figli” derivava invece dalle opere <strong>di</strong> Poelzig, ed in particolare dalla<br />

GROSSES SCHAUSPIELHAUS [1918-19], il Teatro dei Cinquemila a Berlino: le<br />

strutture scomposte e sovrapposte fra loro e le linee<br />

che si spezzano all’improvviso, sono una<br />

caratteristica dell’artista espressionista cui Kettelhut<br />

ha voluto rendere omaggio.<br />

Il doppio volto del film e della metropoli stessa si trova sottoterra, nelle<br />

labirintiche catacombe <strong>di</strong> chiara ispirazione paleocristiana, e nel villaggio operaio,<br />

vera chiave <strong>di</strong> volta del film. Le architetture sono ispirate ai quartieri popolari<br />

progettati da J.J.P. Oud a Rotterdam negli anni Venti, basati sulla teoria<br />

dell’existenzminimum, la concentrazione <strong>di</strong> spazi esterni e interni. Il centro della<br />

piazza è costituito da una statua liberamente ispirata al monumento <strong>di</strong> Gropius<br />

per i Caduti <strong>di</strong> Weimar. Nel ritorno serale degli operai verso casa, la statua<br />

svolge il ruolo <strong>di</strong> idolo, intorno al quale girare in uno stato catatonico che ricorda<br />

tanto una danse macabre, quanto un rituale sacro. La sensazione <strong>di</strong><br />

12


soffocamento derivata dalla mancanza <strong>di</strong> spazi, le anguste finestre/fessure incise<br />

come ferite negli e<strong>di</strong>fici, si trasformano in stati d’animo che si riflettono sui volti<br />

degli operai, scavati ed ombrosi come le loro abitazioni.<br />

La teoria del minimo necessario era allora agli albori: Adolf Loos aveva scritto<br />

nel 1909 il saggio Ornamento e Delitto, ma le sue parole finirono in seguito<br />

veramente nel vuoto, travisate dai funzionalisti come condanna non solo del<br />

Decorativismo, ma <strong>di</strong> tutta l’architettura antecedente gli anni Venti. Loos era<br />

invece favorevole ad un recupero della classicità, vista come para<strong>di</strong>gma<br />

immutabile nel tempo 10 . La condanna della storia, perpetrata da Walter Gropius<br />

nella scuola del Bauhaus, trovava valvola <strong>di</strong> sfogo proprio nelle irreali<br />

architetture <strong>di</strong> Metropolis: oggetti inanimati e privi <strong>di</strong> riferimenti culturali, ma<br />

tenacemente attaccati al realismo socialista dell’epoca. Negli anni precedenti il<br />

film <strong>di</strong> Lang era stato tentato un altro esperimento <strong>di</strong> film come architettura<br />

totale: Hans Poelzig aveva realizzato nel 1920 le scenografie me<strong>di</strong>evali de Il<br />

Golem, infondendovi tutta la sua visionarietà.<br />

Le abitazioni come fusti d’albero, organiche come un quadro <strong>di</strong> Klimt ed al<br />

tempo stesso imponenti e moderne come un’architettura espressionista, rivelano<br />

quel <strong>di</strong>stacco che Poelzig nutriva nei confronti delle correnti moderniste. I<br />

chiaroscuri derivano <strong>di</strong>rettamente dalla modulazione della linea, sempre protesa<br />

verso una comunione intima con la terraferma. L’intenzione <strong>di</strong> Poelzig era <strong>di</strong><br />

creare delle case che respirassero come i loro abitanti, delle costruzioni vive. Il<br />

ghetto ebreo <strong>di</strong> Praga <strong>di</strong>venta quin<strong>di</strong> un ideale, un sogno impastato della stessa<br />

argilla del Golem, uscito anch’esso dalle mani del Rabbino. Poelzig rimane un<br />

esempio <strong>di</strong> come un architetto prestato al cinema riesca a trasmettere la stessa<br />

vitalità e lo stesso senso del fantastico provenienti dalle sue opere. Il suo lavoro<br />

era espressionista quel tanto che bastava per associarlo con la moda della luce<br />

10 Cfr. A. Loos, 1921, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972 pp. 217-228.<br />

13


deformata/deformante, senza la brutalità delle forme ed i contorsionismi<br />

scenografici de Il gabinetto del Dottor. Caligari.<br />

Nel film <strong>di</strong> Robert Wiene, gli scenografi Reimann, Röhrig e Warm volevano una<br />

rappresentazione onirica e non un’imitazione della realtà. Essi riba<strong>di</strong>rono più<br />

volte le <strong>di</strong>fferenze tra l’architettura moderna ed i set dei film, sottolineando che il<br />

termine film architecture doveva essere rimpiazzato dal termine film painting.<br />

Secondo le parole <strong>di</strong> Reimann, «il film, l’arte delle illusioni ottiche, ha bisogno<br />

dell’utopia. Ha bisogno <strong>di</strong> un set che sia uno spazio utopico, che simuli<br />

l’atmosfera <strong>di</strong> uno spazio immaginato» 11 . Le prospettive impossibili e angoscianti,<br />

i graffiti sui muri delle case, l’atmosfera claustrofobica che permea tutto il film,<br />

ne fa un ritratto potente delle inquietu<strong>di</strong>ni che agitavano la Repubblica <strong>di</strong><br />

Weimar, appena nata, ma data già per morta, come i personaggi del film, ombre<br />

simili a fantasmi, privi <strong>di</strong> un agire comune e sensato, insensibili agli acca<strong>di</strong>menti<br />

esterni.<br />

In un altro film <strong>di</strong> Robert Wiene, Genuine [1920], le atmosfere oltre che<br />

oniriche rasentano quasi il fantastico. Lo scenografo Klein inventò appositamente<br />

degli interni che, pur filmati in lucido bianco e nero, riuscivano a trasmettere la<br />

sensazione dei colori. Il risultato fu che era impossibile <strong>di</strong>stinguere i personaggi<br />

dallo sfondo bi<strong>di</strong>mensionale e si muovevano all’interno <strong>di</strong> esso come marionette<br />

impazzite. Il film costituì la punta più alta dell’Espressionismo cinematografico,<br />

proprio per la fusione totale degli attori nello spazio immateriale/mentale<br />

circostante: un incubo cui era impossibile sottrarsi e che rifletteva l’angoscia<br />

metropolitana <strong>di</strong> essere inghiottiti da un ambiente onnivoro.<br />

L’ultimo film che si colloca a metà strada tra realismo e fantasia scenica è<br />

forse King Kong [1933]. La New York imponente che era stata ispiratrice per la<br />

Metropolis <strong>di</strong> Lang, <strong>di</strong>venta letteralmente cibo per la Grande Scimmia. Ultimo<br />

11 W. Reimann, 1926, “Filmarchitektur – heute und morgen?”, Filmtechnik un Filmindustrie 4, pp. 64-65.<br />

14


aluardo della vita selvaggia, King Kong s’impossessa dei due simboli della vita<br />

metropolitana: Fay Wray, simbolo della lussuria, è la fonte della per<strong>di</strong>zione<br />

mentre l’EMPIRE STATE BUILDING è l’icona del Nuovo Mondo. Impadronendosi del<br />

suo e<strong>di</strong>ficio simbolico, King Kong <strong>di</strong>venta il re <strong>di</strong> una metropoli che può essere<br />

vista come una giungla moderna, materia rigida nelle sue costrizioni sociali come<br />

nella sua forma, esemplificata dal grattacielo.<br />

Il fatto che l’architettura sia fatta della stessa materia della città, è fuori<br />

<strong>di</strong>scussione; che la città sia una singola architettura, un’idea avanzata da Leon<br />

Battista Alberti, è un’affermazione più problematica. Per Alberti, uomo del<br />

Rinascimento, la città era concepita come una grande architettura in cui ogni<br />

singolo esempio al suo interno poteva essere inteso come una città in<br />

miniatura 12 . Una simile concezione è strettamente connessa all’idea <strong>di</strong> città come<br />

palcoscenico teatrale. Le facciate romane non erano sola architettura, ma<br />

rappresentazione <strong>di</strong> un modo <strong>di</strong> vivere in cui si tendeva a mostrare l’esteriorità.<br />

Gli architetti del tempo mettevano in scena, più che costruire. Una simile<br />

concezione è stata ripresa nelle megastrutture <strong>di</strong>segnate da Paolo Soleri 13 : MESA<br />

CITY [1961], per esempio, un cubo sospeso sorretto da pilotis alla Le Corbusier<br />

che doveva ospitare due milioni <strong>di</strong> abitanti.<br />

L’eliminazione progressiva dello spazio pubblico della Metropoli coinciderà con<br />

la nascita dello star system, e quin<strong>di</strong> con lo spostamento dell’attenzione dal<br />

contesto urbano alla figura del <strong>di</strong>vo ed alla struttura narrativa, che si andava<br />

proprio in quegli anni co<strong>di</strong>ficando nei generi classici. Il periodo d’oro <strong>di</strong> Hollywood<br />

vede quin<strong>di</strong> il passaggio della Metropoli dal ruolo <strong>di</strong> protagonista a quello <strong>di</strong><br />

comprimario. Solo in un caso, con La fonte meravigliosa, biografia non<br />

autorizzata <strong>di</strong> Frank Lloyd Wright, <strong>di</strong>retta da King Vidor nel 1949, la Metropoli<br />

sembra recuperare quel ruolo primario, fungendo da pretesto per raccontare la<br />

12 L. B. Alberti, 1485, L’architettura – De re ae<strong>di</strong>ficatoria, ed. a cura <strong>di</strong> G. Orlan<strong>di</strong> e P. Portoghesi, Milano 1966.<br />

13 Cfr. E. Jones, 1990, Metropoli. Le più gran<strong>di</strong> città del mondo, Donzelli, Roma 1993, pag. 146 e segg.<br />

15


storia <strong>di</strong> un maverick, un ribelle inserito nel sistema, nel quale si identificava lo<br />

stesso regista.<br />

La città <strong>di</strong>venta nuovamente un’icona nel momento in cui, verso la fine degli<br />

anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Hollywood non ha più storie nuove da<br />

raccontare se non recuperando il passato in chiave nostalgica, come in<br />

Chinatown [1974] <strong>di</strong> Roman Polanski, ed operando attraverso un rimescolamento<br />

dei generi classici. Gli anni Sessanta hanno spesso dato origine, grazie alle<br />

speranze in uno sviluppo tecnologico senza fine, a progetti megalomani/utopistici<br />

come quelli del gruppo Archigram 14 , fautori <strong>di</strong> città impossibili, ma affascinanti,<br />

come la PLUG-IN CITY [1963-64] <strong>di</strong> Peter Cook, strutture urbane accumulate su<br />

sovrastrutture metalliche senza soluzione <strong>di</strong> continuità. Per gli Stati Uniti sono i<br />

tempi degli ultimi gran<strong>di</strong> kolossal a caratterizzazione fortemente<br />

melodrammatica: Cleopatra, l’ultimo film “pensato in grande” è del 1963.<br />

L’Esposizione Universale <strong>di</strong> Montreal del 1967, vero e proprio<br />

baraccone/archivio del pensiero infruttuoso e cumulativo <strong>di</strong> quel decennio,<br />

rappresenta il canto del cigno dell’Utopia. Costruito quasi come un set<br />

cinematografico, sarà intelligentemente sfruttato da Robert Altman per<br />

l’apocalittico Quintet [1978].<br />

I gusti del pubblico cinematografico si evolvono più rapidamente delle<br />

intenzioni <strong>di</strong> progettisti ed architetti, anche in fatto <strong>di</strong> abitazioni private. Verso la<br />

seconda metà degli anni Sessanta comincia, infatti, il grande processo <strong>di</strong><br />

riconversione delle periferie urbane, ad opera il più delle volte dello stesso<br />

Citta<strong>di</strong>no, vero e proprio bricoleur della domenica, che opera un montaggio sulla<br />

propria abitazione con lo stesso metodo dei giovani cineasti francesi della<br />

nouvelle vague: destrutturando e ricostruendo per associazioni <strong>di</strong> idee, più che<br />

basandosi su <strong>di</strong> un canovaccio/progetto. Robert Venturi si accorge <strong>di</strong> questi<br />

14 Cfr. Archigram, 1973, Archigram, International Thomson Publishing, New York, ed i progetti della PLUG-IN<br />

CITY in P. Cook, 1970, Experimental Architecture, London.<br />

16


cambiamenti alla fine degli anni Sessanta, analizzando ferocemente ed<br />

ironicamente le proprie opere e quelle dei suoi colleghi razionalisti, nel<br />

promemoria del pensiero postmoderno Learning from Las Vegas.<br />

La sua tesi sul «brutto e or<strong>di</strong>nario», elemento tipico delle accumulazioni<br />

suburbane, che sta prevaricando sul «bello ed eroico», elemento fondamentale<br />

della teoria funzionalista, fatica a prendere piede nelle riviste specializzate, ma<br />

spalanca le porte già aperte degli allarmisti 15 . La speculazione sugli orrori <strong>di</strong><br />

periferia era già iniziata da tempo, ed il cinema, in questo caso, calca la mano:<br />

Terremoto, L’inferno <strong>di</strong> cristallo e Il mondo dei robot appartengono agli stessi<br />

anni [1973-74], e mettono in mostra, da un lato la rivolta contro l’uomo della<br />

tecnologia, e dall’altro lo sviluppo insostenibile delle città verticali, non più<br />

sorretto dal progresso tecnologico. Passati gli anni dei film catastrofici, si arriva<br />

agli anni Ottanta, con la frattura operata dalla fantascienza filosofica <strong>di</strong> Blade<br />

Runner, vero spartiacque del cinema decostruito e re-immaginato dal<br />

postmodernismo.<br />

Tramite questa decostruzione ed ibridazione dei generi, la Metropoli recupera<br />

la propria visibilità e centralità in film come Blade Runner [1982] appunto,<br />

Batman [1989] e Dick Tracy [1990], i cui rispettivi ideatori delle scenografie, Syd<br />

Mead, Anton Furst e Richard Sylbert, hanno non a caso una formazione da<br />

architetti ancor prima che da scenografi. Questi tre autori hanno avuto la<br />

capacità <strong>di</strong> fare delle loro scene dei veri e propri manifesti programmatici, che<br />

riconducono idealmente alle <strong>di</strong>chiarazioni entusiastiche degli scenografi degli anni<br />

Venti. L’idea centrale attorno a cui ruotano questi tre film è la presenza <strong>di</strong> un<br />

luogo forte, un e<strong>di</strong>ficio, come la ziqqurat in Blade Runner, o un’intera città, come<br />

la Gotham City <strong>di</strong> Batman, che si pone quale segno imme<strong>di</strong>atamente riconoscibile<br />

15 E’ rilevante il fatto che la bibliografia in fondo al testo sia composta quasi esclusivamente da articoli presenti<br />

su quoti<strong>di</strong>ani nazionali e regionali; cfr. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, 1972, Imparando da Las<br />

Vegas, Cluva, Venezia 1984.<br />

17


ed identificabile, e che costringe lo spettatore a tener conto della sua presenza,<br />

anche per una piena comprensione della struttura narrativa.<br />

Blade Runner, oggetto <strong>di</strong> culto degli anni Ottanta, ha generato il grande<br />

equivoco <strong>di</strong> cui stanno soffrendo attualmente le metropoli americane: la<br />

rappresentazione dolente e pessimistica proposta dal film ha provocato il<br />

sospetto che se fosse questa la prospettiva del Modello Abitativo Moderno,<br />

nessun uomo ragionevole sarebbe <strong>di</strong>sposto ad abitare in una città simile. Il film<br />

<strong>di</strong> Ridley Scott [furbo nel concentrare l’attenzione su una location destinata a<br />

rimanere impressa nella memoria, anziché sull’esile plot], non mette in scena il<br />

futuro dell’urbanizzazione, ma è, al contrario, l’ultima e definitiva<br />

rappresentazione della Metropoli Moderna così come l’avevano immaginata, con<br />

le gotiche verticalizzazioni alla Sant’Elia, i suoi progettisti.<br />

È quin<strong>di</strong> più il ritratto <strong>di</strong> New York che non <strong>di</strong> Los Angeles. La Città<br />

Contemporanea non è mai esistita se non come ripetizione all’infinito del già<br />

esistente: in quest’ottica può essere inquadrata Las Vegas, il non-luogo<br />

postmoderno per eccellenza, un concentrato <strong>di</strong> locations cinematografiche e<br />

metropolitane provenienti dall’intero pianeta, ad uso e consumo delle famiglie. Le<br />

riproduzioni-cartolina <strong>di</strong> Manhattan, delle Pirami<strong>di</strong> <strong>di</strong> Giza e <strong>di</strong> Piazza San Marco 16<br />

permettono al turista me<strong>di</strong>o americano <strong>di</strong> avere i luoghi per eccellenza in unico<br />

luminescente agglomerato, senza soluzione <strong>di</strong> continuità. La prima realistica<br />

rappresentazione del post-modernism è stata messa in scena da William Friedkin<br />

nel migliore noir degli anni Ottanta.: Vivere e morire a Los Angeles [1985].<br />

L’immagine della città è devastante, onnivora, fatta <strong>di</strong> sno<strong>di</strong> autostradali e<br />

periferie degradate; non uno sguardo viene levato verso le dorate colline <strong>di</strong> Bel<br />

Air e Beverly Hills. Tutto è offuscato da una patina <strong>di</strong> sporco, con un finale<br />

segnato da un sole morente all’orizzonte.<br />

16 Il suolo italiano è da sempre preda dell’immaginario collettivo statunitense; oltre ad una rappresentazione <strong>di</strong><br />

Venezia, è presente anche una riproduzione in scala delle località sul lago <strong>di</strong> Como.<br />

18


Secondo i migliori archetipi del noir, gli abitanti sono quello che abitano,<br />

corrotti, senza morale ma privi, in questo caso, dell’eroismo che caratterizzava<br />

capolavori degli anni Quaranta come La città nuda [1948].<br />

La banalizzazione della città si infiltra in questi personaggi, quasi anonimi e<br />

senza forti caratterizzazioni. La Città dei Sogni si trasforma a partire da questo<br />

film in un luogo privo <strong>di</strong> riferimenti culturali e <strong>di</strong> qualità estetiche, nella cui<br />

rappresentazione <strong>di</strong>ventano fondamentali i luoghi <strong>di</strong> ritrovo <strong>di</strong> passaggio, come<br />

tavole calde o stazioni <strong>di</strong> servizio. In questa fase si collocano film come Thelma &<br />

Louise [1990] e Pulp Fiction [1994], nei quali le locations sono un<br />

ovunque/nessun luogo, delle «eroiche pompe» 17 uguali a tante altre, sia che si<br />

trovino in mezzo al deserto dell’Arizona, sia che appartengano al nucleo urbano<br />

<strong>di</strong> Los Angeles. Da qui prende forma l’idea che Los Angeles sia un agglomerato <strong>di</strong><br />

tante piccole città <strong>di</strong> provincia, slegate ideologicamente, ma strutturalmente<br />

interconnesse da quell’unico esile fil rouge che è l’autostrada.<br />

Il concetto <strong>di</strong> «metropoli <strong>di</strong> seconda generazione» definito da Gui<strong>di</strong>cini 18 non è<br />

applicabile a Los Angeles: un nuovo progetto e<strong>di</strong>lizio su larga scala, chiamato<br />

PLAYAVISTA, contempla che residenza, ufficio e luoghi ricreativi si trovino<br />

all’interno <strong>di</strong> un unico nucleo, isolato da ciò che lo circonda. La nuova cittadella<br />

fortificata dovrebbe rifarsi esteticamente alle case sul Thaoe Lake, in Nevada, un<br />

ritrovo chic in stile Tudor per i losangeleni altoborghesi, sito celebrato più volte<br />

nel cinema [l’ultimo esempio è City of Angels, 1998]. Il progetto originale<br />

prevede che una parte del centro residenziale, sia a<strong>di</strong>bita ai nuovi stu<strong>di</strong>os <strong>di</strong><br />

Steven Spielberg e <strong>di</strong> James Cameron.<br />

I luoghi della produzione cinematografica, tendono quin<strong>di</strong> ad assomigliare<br />

all’iperreale sogno della vita <strong>di</strong> provincia americana, rappresentata<br />

cinematograficamente dai film con Doris Day ed iconograficamente ispirata dalle<br />

17 Cfr. AA.VV., 1998, Gomorra 1, Costa & Nolan.<br />

18 Nella quale, accanto alla popolazione notturna e <strong>di</strong>urna, compaiono i pendolari del consumo metropolitano.<br />

Cfr. P. Gui<strong>di</strong>cini, 1971, Sviluppo urbano e immagine della città, FrancoAngeli, Milano.<br />

19


tavole domenicali <strong>di</strong> Norman Rockwell. La rappresentazione della città ne è<br />

l’esatto contrario: il ritorno in auge del noir, genere pessimista e metropolitano<br />

per eccellenza, ne è la chiara <strong>di</strong>mostrazione. Strange Days [1995], è il film<br />

emblema <strong>di</strong> questa nuova realtà nata negli anni Novanta: lo sguardo dolente sul<br />

futuro della Metropoli ne costituisce il presente più crudo.<br />

Lo scenario italiano negli stessi anni presentava un’involuzione. Lo<br />

spiazzamento <strong>di</strong>mostrato dagli architetti e la mancanza <strong>di</strong> collaborazione con<br />

urbanisti ed ingegneri, fece sì che molti sban<strong>di</strong>erati progetti rimanessero solo<br />

sulla carta. Il periodo della «architettura <strong>di</strong>segnata» durò quasi <strong>di</strong>eci anni. Un<br />

decennio, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, che farà perdere agli architetti<br />

italiani il sottile filo rosso che li collega alla realtà, e che si concluderà con la<br />

tar<strong>di</strong>va esposizione della Biennale del 1980, curata da Paolo Portoghesi, dal tema<br />

LA VIA NOVISSIMA 19 . L’idea nuova <strong>di</strong> Portoghesi, era <strong>di</strong> portare il tema del<br />

postmoderno in Italia, in un ambiente culturale dove si <strong>di</strong>batteva ancora sul tema<br />

del funzionalismo applicato in via definitiva solo a metà degli anni Ottanta. Quello<br />

che è già passato <strong>di</strong> moda altrove, ad esempio in Francia, dove fu presto<br />

sostituito dall’High Tech, nel Belpaese non riuscirà quasi a mettere ra<strong>di</strong>ci,<br />

nonostante le buone intenzioni dei curatori della mostra.<br />

LA VIA NOVISSIMA era una struttura effimera costituita da una serie <strong>di</strong> facciate,<br />

che volevano essere rappresentative del nuovo corso architettonico mon<strong>di</strong>ale. Al<br />

progetto collaborarono molti volti nuovi, come Ghetti, Moore, ed alcune vecchie<br />

glorie come Michael Graves. Tra tutti questi solo Charles Moore proseguirà il<br />

cammino del vero postmoderno, rivelandosi il più “cinematografico” tra tutti.<br />

Progetti come PIAZZA ITALIA a New Orleans costituiscono già sulla carta la<br />

rappresentazione <strong>di</strong> un set <strong>di</strong> Tarantino, un accumulo <strong>di</strong> generi e scenografie, un<br />

nulla/dappertutto denso <strong>di</strong> riferimenti culturali, ma totalmente slegato dalla<br />

19<br />

P. Portoghesi, V. Scully, C. Norberg-Schulz, C. Jenks, 1980, La presenza del passato, catalogo della mostra,<br />

Biennale <strong>di</strong> Venezia 1980.<br />

20


ealtà.<br />

Michael Graves, uno dei “Five Architets“, ritornerà alla costruzione delle sue<br />

costose abitazioni private, adorate soprattutto dai losangeleni ra<strong>di</strong>cal-chic, tutte<br />

uguali sia tra loro che tra gli e<strong>di</strong>fici dell’altro grande inganno degli anni Ottanta:<br />

Richard Meier. La breve parentesi del post-modernism non sembra aver sfiorato<br />

questi due gran<strong>di</strong> dell’architettura contemporanea. Fedeli al credo <strong>di</strong> Rudolf M.<br />

Schindler 20 , i due “Bianchi” operano attraverso la purezza della piastrella bianca,<br />

che rende i loro e<strong>di</strong>fici simili a piscine immacolate [CHIESA PER IL GIUBILEO a Roma,<br />

1996; GETTY CENTER <strong>di</strong> Los Angeles, 1994].<br />

Nel frattempo in Italia, le <strong>di</strong>scussioni sull’efficacia <strong>di</strong> un’architettura<br />

funzionalista troveranno lungo sfogo nelle polemiche seguite alla costruzione<br />

dello ZEN a Palermo, e <strong>di</strong> CORVIALE e TORBELLAMONACA a Roma. Il progetto <strong>di</strong> Mario<br />

Fiorentino, in particolare, ha avuto una cassa <strong>di</strong> risonanza notevole anche per chi<br />

non ne è stato <strong>di</strong>rettamente responsabile o interessato. Visivamente perfetto dal<br />

punto <strong>di</strong> vista progettuale, una volta costruito si è rivelato inadeguato ed<br />

incoerente con l’ambiente circostante. All’incoerenza formale si è poi aggiunto il<br />

rifiuto mentale del destinatario d’uso. La domanda <strong>di</strong> spazi abitativi si era<br />

mo<strong>di</strong>ficata notevolmente nel lasso <strong>di</strong> tempo intercorso tra il concorso per<br />

l’assegnazione del progetto [1973], e la consegna del manufatto [1981]. Accanto<br />

e dentro l’unité d’habitation nasceva così, ad opera degli stessi abitanti una<br />

nuova corrente architettonica, che avrebbe sicuramente fatto inorri<strong>di</strong>re Le<br />

Corbusier, uomo tanto funzionalista quanto poco pratico della vita in un<br />

condominio popolare <strong>di</strong> periferia.<br />

Il costruire/sfondare dentro il costruito rese CORVIALE, simile ad un piccolo<br />

borgo me<strong>di</strong>evale, dove si andava per accumulo <strong>di</strong> abitazioni e non per<br />

organizzazione razionale. Scomparvero subito i negozi, <strong>di</strong>vorati dalla<br />

20 Il cui progetto - tipo assimilava tramite forme nette il cemento armato a vista e pilotis a pianta quadra.<br />

21


microcriminalità, e sostituiti dalle cellule aggiunte degli abusivi 21 . Il Nuovo<br />

Me<strong>di</strong>oevo sorto tra le mura della perfezione era l’evoluzione naturale della crisi<br />

del modello abitativo moderno. La <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> controllo <strong>di</strong> un progetto troppo<br />

grande aveva fatto perdere <strong>di</strong> vista ai progettisti il vero scopo del loro agire, in<br />

pratica il benessere dell’assegnatario IACP, i cui bisogni si erano allargati tanto<br />

quanto la sua famiglia. Fuori del palazzo-lungo-un-chilometro la situazione non<br />

era <strong>di</strong>versa: l’installazione autogestita delle nuove periferie aveva trasformato<br />

negli anni le baracche degli anni Sessanta in case allargate e rialzate<br />

proporzionalmente al crescere del numero degli occupanti. Quando la famiglia<br />

cessò <strong>di</strong> crescere, si pensò a come aumentare i comfort interni ed esterni: la<br />

comparsa <strong>di</strong> verande, paraboliche, sale hobby scavate nel sottosuolo non<br />

cambiarono comunque l’aspetto esteriore <strong>di</strong> abitazioni rimaste con il cemento<br />

armato a vista ed i tetti <strong>di</strong> eternit 22 .<br />

Al giorno d’oggi gli elementi costitutivi della vita urbana tendono ad esulare<br />

completamente dall’opera professionale dell’architetto. La città va <strong>di</strong> là degli<br />

e<strong>di</strong>fici e delle architetture che la compongono. Gli strumenti tra<strong>di</strong>zionali <strong>di</strong> analisi<br />

del territorio raramente rispondono ai requisiti della vita della metropoli<br />

contemporanea che necessita in particolare <strong>di</strong> reti <strong>di</strong> trasporto, <strong>di</strong> autostrade, <strong>di</strong><br />

spazi riservati alla logistica della <strong>di</strong>stribuzione, <strong>di</strong> aree naturali protette e <strong>di</strong> spazi<br />

virtuali per la comunicazione e lo svago. L’attuale con<strong>di</strong>zione urbana,<br />

caratterizzata dalle megalopoli estese e ben collegate, <strong>di</strong> cui Jean Gottmann 23<br />

parlò già negli anni Sessanta, esige un nuovo approccio da parte del progettista.<br />

Questo vale anche per i tentativi classici e modernisti <strong>di</strong> ripensare la relazione tra<br />

l’architettura e la città.<br />

La nuova natura della città è stata rilevata da Peter Hall, quando scrive che<br />

21<br />

Per una storia “sociale” e civica <strong>di</strong> Corviale, cfr. A.R. Montani, 1993, Le comunità locali urbane, Bulzoni,<br />

Roma.<br />

22 Cfr. P. Desideri, 1997, La città <strong>di</strong> latta, Costa & Nolan, Genova.<br />

23 J. Gottmann, 1961, Megalopoli. Funzioni e relazioni <strong>di</strong> una pluricittà, Einau<strong>di</strong>, Torino 1970.<br />

22


l’esplosiva e vertiginosa crescita urbana riguarda non più solo i paesi sviluppati,<br />

ma che si sta verificando con velocità allarmante anche nei paesi<br />

sottosviluppati 24 . Gli elementi con cui ci si trova ad operare sono processi già<br />

esistenti, privi <strong>di</strong> consapevolezza o <strong>di</strong> qualunque processo critico, ma sono<br />

tuttavia consuetu<strong>di</strong>ni alla base dell’organizzazione della vita nelle città moderne.<br />

Sono proprio gli esperti privi <strong>di</strong> qualunque formazione architettonica che hanno<br />

preso controllo e possesso delle tecniche <strong>di</strong> progettazione urbana dei nostri<br />

giorni. Secondo loro un architetto <strong>di</strong>mostra scarsa comprensione delle<br />

autostrade, degli aeroporti, dei sistemi <strong>di</strong> trasporto, dei centri commerciali, delle<br />

zone per il tempo libero, delle aree turistiche, delle zone residenziali spontanee,<br />

delle case mobili e delle case per la nuova famiglia non–tra<strong>di</strong>zionale. Le richieste<br />

<strong>di</strong> un nuovo consumo <strong>di</strong> massa guidano il rinnovamento e la conservazione dei<br />

patrimoni artistici, dei parchi e delle zone industriali abbandonate. I mass me<strong>di</strong>a<br />

generano poi copie multiple e immaginarie <strong>di</strong> questo ambiente, creando e<br />

ricreando realtà virtuali non meno vissute delle realtà fisiche della grande città.<br />

In molti casi, questi sistemi e fenomeni sono estranei se non nemici delle<br />

modalità consolidate <strong>di</strong> pensiero e azione con<strong>di</strong>vise da molti progettisti.<br />

Attraverso le mutazioni, in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> cambiamento generazionale delle città, è<br />

possibile avvertire i nuovi strati, continuamente sovrapposti, tra vecchio e nuovo.<br />

Nella città si vive sempre <strong>di</strong> più in un processo <strong>di</strong> mutazione improvvisa e<br />

sconvolgente, <strong>di</strong>mostrata da tutta quella serie <strong>di</strong> film appartenenti al genere del<br />

thriller metropolitano.<br />

Tramite il cinema è stato possibile vedere il cambiamento epocale subìto dalla<br />

metropoli: alla fissità delle scenografie negli anni Quaranta, si è passati, intorno<br />

agli anni Ottanta, ad un cinema caratterizzato dal flusso continuo <strong>di</strong> macchine,<br />

persone, un cinema fatto essenzialmente <strong>di</strong> movimento.<br />

24 P. Hall, 1988, Cities of Tomorrow, Blackwell, Oxford.<br />

23


Il potere del cinema <strong>di</strong> rendere reale solo ciò che è inquadrato velocemente<br />

dalla mdp, ha permesso una visibilità, anche se il più delle volte in modo acritico,<br />

al popolo sommerso degli immigrati e dei senzatetto. Le loro abitazioni sono<br />

<strong>di</strong>ventate un terreno fertile per la sperimentazione dell’architetto, impossibilitato<br />

<strong>di</strong> lavorare per le grosse committenze pubbliche. Ne è prova visibile il nuovo<br />

centro per i senzatetto creato nel Downtown <strong>di</strong> Los Angeles, una decina <strong>di</strong><br />

semicupole che “simulano” un’abitazione visibile agli abitanti, ma nascosta agli<br />

occhi degli uomini d’affari. Un lavoro esemplare dal punto <strong>di</strong> vista sociale, ma<br />

veramente scarso dal lato concettuale, e visibile in Verdetto Finale [1991].<br />

La simulazione, in uno scambio continuo tra architettura e set, caratterizza<br />

anche i moderni templi del consumo collettivo, nei quali assume sempre più<br />

importanza il palcoscenico sul quale si tiene la rappresentazione del mercato 25 .<br />

Questi involucri che dovrebbero essere pubblici, ma non sono per tutto il<br />

pubblico, trasparenti, ma allo stesso tempo sono chiusi come gusci, sono i nuovi<br />

luoghi <strong>di</strong> aggregazione.<br />

Ma se lo spazio pubblico storico è un luogo grazie alla riconoscibilità della sua<br />

identità, allora davvero lo spazio pubblico contemporaneo è l’esatto opposto <strong>di</strong><br />

un luogo. Nel non-luogo l’agire sociale è destinato a rimanere la somma <strong>di</strong> tante<br />

insignificanti in<strong>di</strong>vidualità, senza mai <strong>di</strong>ventare espressione integrale <strong>di</strong> un agire<br />

comune. Nei contenitori come gli shopping mall domina la legge dell’entropia: «il<br />

grado <strong>di</strong> mescolanza, <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne, in<strong>di</strong>fferenzazione, impreve<strong>di</strong>bilità e casualità<br />

delle relazioni tra le componenti <strong>di</strong> un qualunque aggregato» 26 . Lo spazio è<br />

sempre artificiale, trasparente e recintato; prodotto da mezzi effimeri, molteplici<br />

e variabili, è avvolto dal rigido rivestimento del contenitore.<br />

Il TEATRO DEL MONDO <strong>di</strong> Aldo Rossi per la Biennale del 1980 era una struttura<br />

25 Per ulteriori confronti con il concetto <strong>di</strong> rappresentazione e <strong>di</strong> “vita come il palcoscenico”, cfr. J. Meyrowitz,<br />

1985, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1995 e E. Goffman, 1959, La vita quoti<strong>di</strong>ana come<br />

rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969<br />

26 G. Bateson, 1980, Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, p. 300.<br />

24


effimera che simulava una torre fortificata: un prodotto visibile a tutti ma che<br />

tendeva più ad escludere che ad includere. Forse non siamo ancora pronti per<br />

progetti come quello <strong>di</strong> Massimiliano Fuksas per il CENTRO CONGRESSI all’EUR: un<br />

parallelepipedo trasparente che racchiude in uno scrigno come fossero oggetti<br />

preziosi i visitatori/attori; visibilità ed artificio si mescolano mirabilmente in una<br />

struttura in cui sono spettatori coloro che si trovano all’esterno.<br />

Raro esempio <strong>di</strong> architettura slegata dalle correnti artistiche, impensabile in un<br />

territorio come quello romano, in cui non si riesce mai a trovare una via <strong>di</strong> mezzo<br />

tra la conservazione ad ogni costo ed il sensazionalismo facile, il parallelepipedo<br />

<strong>di</strong> Fuksas è scenografia pura, ma senza la pretesa <strong>di</strong> violentare ideologicamente<br />

il fruitore dello spazio. Non rimane quin<strong>di</strong> che adeguarsi, come ha fatto il cinema,<br />

all’idea <strong>di</strong> appartenere ad un terrain vague, con i suoi vuoti <strong>di</strong>simpegni, e con la<br />

sua incertezza formale. Un’indeterminatezza che sembra trovare nella memoria<br />

del passato, la sua unica via <strong>di</strong> fuga: solo tramite il recupero si può alimentare il<br />

nuovo.<br />

Ecco quin<strong>di</strong> in architettura, il revival del razionalismo [Aldo Rossi] e del<br />

neoclassicismo [Léon Krier]; al cinema, la meto<strong>di</strong>ca <strong>di</strong>struzione/ricostruzione <strong>di</strong><br />

tutti i generi, cominciata con Star Wars [1977] e culminata con lo stupefacente<br />

Matrix [1999], l’ultimo e definitivo film <strong>di</strong> fine millennio.<br />

25


1<br />

IL CINEMA E L’IMMAGINARIO<br />

26


1.1 “LA FONTE MERAVIGLIOSA”: FRANK LLOYD WRIGHT.<br />

IL BISOGNO DI COMUNICARE LA PROPRIA SOLITUDINE INTELLETTUALE<br />

Il processo <strong>di</strong> specializzazione frantuma la compiutezza che era<br />

propria della prima fase progettuale e impoverisce il <strong>di</strong>scorso<br />

critico, lo impoverisce anche quando ne rende estremamente<br />

complesse le articolazioni e le regole.<br />

27<br />

Alberto Abruzzese [1979]<br />

Il romanzo <strong>di</strong> gran successo <strong>di</strong> Ayn Rand 27 ed il meno fortunato film <strong>di</strong> King Vidor<br />

[1949], servono da introduzione sulla filosofia oggettivistica <strong>di</strong> Frank Lloyd<br />

Wright, la cui idea centrale è costituita dalla <strong>di</strong>fesa della libertà personale<br />

assoluta e dal suo inflessibile in<strong>di</strong>vidualismo. Lo scontro ideologico è tutto giocato<br />

sulle strutture neoclassiche elaborate dalla Maggioranza, e la Nuova Plasticità<br />

modellata dal protagonista del film. La figura <strong>di</strong> Howard Roark è palesemente<br />

ricalcata su quella del grande architetto americano, all’epoca tornato alla ribalta<br />

grazie ad alcuni e<strong>di</strong>fici largamente pubblicizzati come FALLINGWATER [1936] e la<br />

JOHNSON & SON COMPANY [1936-39]. È rimarchevole il fatto che nel film venga<br />

fatto un riassunto <strong>di</strong> tutta l’architettura americana moderna, incentrandola su <strong>di</strong><br />

una sola figura. Se nella prima parte del film vengono, infatti, ripresi<br />

perfettamente i <strong>di</strong>segni <strong>di</strong> Wright nella parte centrale, alcuni bozzetti possono<br />

essere associati all’International Style.<br />

Il famoso concorso per la realizzazione della sede del CHICAGO TRIBUNE [1922]<br />

sembra essere stato per lo scenografo del film, Edward Carrere, un’utile fonte<br />

d’ispirazione. Il progetto che risultò vincitore, realizzato da Raymond Hood,<br />

rispecchiava fedelmente quelle che nel film sono definite come architetture<br />

27 A. Rand, 1943, La fonte meravigliosa, Corbaccio, Milano 1996.


tra<strong>di</strong>zionali, “scopiazzate malamente da tutti gli stili del passato”. Il personaggio<br />

<strong>di</strong> Peter Keating, “l’artista del compromesso”, prende le mosse da quella miriade<br />

<strong>di</strong> architetti che fecero la loro fortuna grazie all’eclettismo americano. Uno dei<br />

capolavori <strong>di</strong> questo stile, il WOOLWORTH BUILDING <strong>di</strong> New York [1913], progettato<br />

da Cass Gilbert, è stato a lungo definito come l’ottava meraviglia del mondo. La<br />

torre goticizzante unita alla struttura del grattacielo era un elemento comune tra<br />

gli e<strong>di</strong>fici dell’epoca. Come afferma un committente al rifiuto <strong>di</strong> Roark <strong>di</strong> adattare<br />

il proprio lavoro al gusto delle masse, “l’originalità piace se non è eccessiva”.<br />

Sigfried Gie<strong>di</strong>on fu uno dei primi critici ad intravedere il pericolo dell’eclettismo:<br />

a suo parere, il Neoclassicismo dello stile Beaux-Arts non rispondeva né al livello<br />

della tecnologia né a criteri funzionali 28 .<br />

L’origine <strong>di</strong> questo arretramento culturale, sempre secondo Giedeon, stava<br />

nell’allestimento della WORLD FAIR <strong>di</strong> Chicago nel 1893, curata da Daniel H.<br />

Burnham. Nel momento in cui la Scuola <strong>di</strong> Chicago «aveva raggiunto la<br />

padronanza dei nuovi strumenti che essa stessa aveva creato» 29 , il classicismo<br />

mercantile importato dagli architetti newyorchesi educati al Beaux-Arts <strong>di</strong> Parigi,<br />

aveva sconvolto le nuove geometrie urbane che si andavano allora delineando.<br />

New York era vista come la patria <strong>di</strong> questo stile, una sensazione resa<br />

esplicitamente nel film, dove svettano in ogni angolo grattacieli <strong>di</strong> chiara matrice<br />

neoclassica. Il puntiglio con il quale Gie<strong>di</strong>on e gli altri critici proto-funzionalisti si<br />

scagliarono contro le aberrazioni <strong>di</strong> questa vecchia/nuova corrente, riguardava<br />

comunque più una questione dello stile e decorazione, piuttosto che il risultato<br />

dell’insieme. La capacità <strong>di</strong> alcuni eclettici come Daniel H. Burnham, responsabile<br />

tra l’altro del CHICAGO PLAN, <strong>di</strong> avere una visione più urbanistica che<br />

architettonica, gli consentì <strong>di</strong> avere un meritato successo all’inizio del secolo.<br />

Per gli scopi del film, la pomposa architettura storicistica ed eclettica,<br />

28 Cit. in W. R. Taylor, 1992, New York. Le origini <strong>di</strong> un mito, Marsilio, Venezia 1994, p. 91.<br />

29 Cfr. S. Gie<strong>di</strong>on, 1941, Spazio, tempo e architettura, Hoepli, Milano 1954, pp. 393-95.<br />

28


appresentava l’impotenza artistica e la debolezza <strong>di</strong> carattere dell’architettura<br />

americana, mentre le semplici e rigorose forme del Modernismo europeo erano il<br />

simbolo <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>vidualismo senza compromessi. La realtà, e il romanzo della<br />

Rand, erano però molto più complessi. Nel romanzo la lotta dell’eroe per la<br />

propria integrità è un simbolo della battaglia <strong>di</strong> Wright per un’architettura<br />

americana più genuina e onesta. La Rand aveva chiaramente posto delle<br />

<strong>di</strong>fferenze tra lo stile <strong>di</strong> Roark – modellato sui lavori più tar<strong>di</strong> <strong>di</strong> Wright – ed il<br />

severo Modernismo.<br />

Un chiaro esempio <strong>di</strong> questa tendenza fu il progetto dell’olandese Bernard<br />

Bijvoet, sempre per il concorso del Tribune, che<br />

doveva avere evidentemente influenzato Carrere nel<br />

<strong>di</strong>segnare l’e<strong>di</strong>ficio Enright. Questo grattacielo si<br />

presenta come un assemblaggio <strong>di</strong> due stili <strong>di</strong>versi.<br />

Da un lato la purezza delle linee orizzontali<br />

dell’e<strong>di</strong>ficio principale rivelano la struttura a scheletro<br />

interna in un sottile gioco <strong>di</strong> trasparenze, dall’altro<br />

l’ala specchiata ricorda il PALAZZO DEL SEGRETARIATO DELL’ONU a New York, i cui<br />

lavori erano iniziati proprio nel 1949.<br />

Il primo è un chiaro segnale <strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendenza <strong>di</strong> pensiero e <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidualismo<br />

formale, mentre il secondo un chiaro omaggio all’International Style ed ai<br />

monoliti in vetro <strong>di</strong> Mies. Gli architetti europei come Bijvoet, si sarebbero<br />

probabilmente trovati a proprio agio con alcune forme <strong>di</strong> collettivismo <strong>di</strong> cui si<br />

parla nel film 30 e verso le quali era rivolta la polemica <strong>di</strong> Wright. Nel film, la<br />

critica <strong>di</strong> Roark era invece <strong>di</strong>retta verso il collettivismo eclettico dei newyorchesi<br />

provenuti dal Beaux-Arts. All’interno del film i confini tra uno stile e l’altro sono<br />

più sfumati. In certi momenti sembra ad<strong>di</strong>rittura che Carrere si sia ispirato più<br />

30 Non a caso il PALAZZO ONU era il risultato <strong>di</strong> un lavoro <strong>di</strong> gruppo cui parteciparono <strong>di</strong>eci gran<strong>di</strong> nomi<br />

dell’architettura internazionale, tra cui Le Corbusier e Oscar Niemeyer.<br />

29


alle opere californiane <strong>di</strong> Schindler, Neutra e dei loro seguaci, che a Wright<br />

stesso.<br />

Nella parte centrale del film vengono inquadrate alcune opere che Roark<br />

realizza nel suo periodo <strong>di</strong> crisi professionale. Wright, durante lo stesso periodo<br />

realizzò a Los Angeles alcune delle sue opere più controverse ed audacemente<br />

dettagliate, come la ENNIS HOUSE [1923-24] <strong>di</strong> chiara ispirazione messicana.<br />

Quelli che Carrere realizzò per Roark, furono invece delle felici anticipazioni<br />

dell’architettura losangelena postmoderna. Il primo bozzetto, un negozio con un<br />

tetto aggettante ed un profilo convesso verso l’interno, ricorda molto le miria<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />

caffè e ristoranti che si trovano lungo le aree più commerciali della metropoli<br />

californiana. La struttura rientrante del palazzo per uffici, chiaro riferimento al<br />

CBS HEADQUARTERS 31 [1936], è stata recentemente ripresa per gli HARVARD<br />

APARTMENTS [1992], in chiave postmoderna: associando un colore, invece <strong>di</strong> una<br />

forma, ad ogni funzione presente nell’e<strong>di</strong>ficio. Un altro<br />

progetto raffigurante una residenza privata è forse l’unico<br />

che ricorda Wright nel periodo in cui esasperò le linee<br />

orizzontali come nella LOWELL HOUSE [1948] in Iowa. Le<br />

gran<strong>di</strong> sorprese del film sono costituite comunque, più<br />

che dai lavori <strong>di</strong> Roark, dai progetti che Carrere <strong>di</strong>segnò per Henry Cameron. Il<br />

personaggio <strong>di</strong> Cameron è, almeno in teoria, un omaggio a Louis Sullivan,<br />

esponente <strong>di</strong> punta della Scuola <strong>di</strong> Chicago, e maestro <strong>di</strong> Wright prima del<br />

volgere del secolo.<br />

Nel suo capolavoro, i magazzini CARSON, PIRIE & SCOTT [1904], seppe coniugare<br />

lo sperimentalismo delle linee orizzontali intersecate con le verticali, con un<br />

decorativismo leggero e mai banale. In realtà, i progetti <strong>di</strong> Cameron surclassano<br />

quelli <strong>di</strong> Roark per audacia delle forme ed una forte comunicazione visiva,<br />

31 Realizzato da William Lescaze, è l’e<strong>di</strong>ficio che si vuole sia il capostipite dell’International Style in California.<br />

Cfr. R. Banham, 1971, Los Angeles, l’architettura <strong>di</strong> quattro ecologie, Costa & Nolan, Genova 1983, pp. 166-<br />

67.<br />

30


sconosciute al vero Sullivan.<br />

I volumi pesantemente concreti anticipano <strong>di</strong> qualche anno la tendenza<br />

brutalista dell’architettura moderna da un lato, mentre svelano la struttura a<br />

scheletro dei grattacieli dall’altro. L’e<strong>di</strong>ficio che Cameron mostra a Roark, mentre<br />

si <strong>di</strong>rigono verso l’ospedale, sembra un’anticipazione <strong>di</strong> quel CRAWFORD MANOR <strong>di</strong><br />

Paul Rudolph, che Venturi definisce «pure architecture» 32 . L’e<strong>di</strong>ficio in questione,<br />

costruito nel 1962, era la punta più avanzata della tendenza verso la<br />

megastruttura, in cui si cercava <strong>di</strong> «elevare il sistema <strong>di</strong> valori/budget del<br />

committente grazie ad un riferimento alle Arti ed alla Metafisica» 33 .<br />

Come <strong>di</strong>ce Cameron a Roark, “la forma <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio deve avere una sua<br />

funzione” e curiosamente il testamento morale <strong>di</strong> Cameron si rispecchia nella<br />

pianta sagomata ed elegante del CRAWFORD MANOR. Paul Rudolph rimane un<br />

personaggio importante per l’architettura americana per aver avviato una<br />

corrente parallela al Brutalismo britannico, grazie all’uso aggressivo del cemento<br />

armato.<br />

Quando il film uscì, la risposta dei critici fu unanimemente negativa. La stampa<br />

specializzata fece notare, anzitutto, i gran<strong>di</strong> problemi strutturali causati dagli<br />

enormi cantieri che si vedono nel film 34 . Oltre a denigrare l’interpretazione rigida<br />

ed inadeguata <strong>di</strong> Gary Cooper, ed alcune debolezze nell’intreccio della trama, la<br />

critica si accese in un <strong>di</strong>battito infuocato sulla nozione <strong>di</strong> Genio e sulla questione<br />

del <strong>di</strong>ritto assoluto <strong>di</strong> un artista sul suo lavoro. Nonostante il ritratto della Rand <strong>di</strong><br />

un architetto visto come un genio infallibile fosse esagerato, non era in ogni caso<br />

troppo lontano dalla verità. Ci sono giunte molte immagini <strong>di</strong> architetti<br />

contemporanei nella posa <strong>di</strong> orgogliosi creatori, che possono aver influenzato<br />

Carrere e tanto Wright, quanto Gropius, si trovano tra questi.<br />

Ellsworth Toohey, il critico artistico del “The Banner”, è la figura<br />

32<br />

R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, 1972, op. cit., pag. 102.<br />

33<br />

Ivi.<br />

34<br />

Cfr. G. Nelson, 1949, “Mr. Roark goes to Hollywood”, Interiors 108, pp. 106-11.<br />

31


appresentativa del gusto dominante ed il vero nemico dell’in<strong>di</strong>pendenza <strong>di</strong><br />

pensiero nella creazione. Il personaggio è stato probabilmente ricalcato sulla<br />

figura <strong>di</strong> Montgomery Schuyler, il maggiore critico <strong>di</strong><br />

architettura del tempo, che a proposito della World Fair<br />

<strong>di</strong> Chicago aveva detto che «il successo è prima <strong>di</strong> tutto<br />

un successo dell’unità, un trionfo dell’ensemble» 35 .<br />

Schuyler esaltava la superiorità del lavoro collettivo<br />

rispetto all’esperienza in<strong>di</strong>viduale; Ellsworth Toohey, dal<br />

canto suo, sopporta ben poco gli architetti <strong>di</strong> genio come<br />

Roark, “perché un uomo superiore è un insulto a quelli comuni”. La sua è<br />

soprattutto una critica all’in<strong>di</strong>vidualismo <strong>di</strong> Roark, raffigurato come un uomo<br />

concentrato solo sul suo valore personale.<br />

F.L. Wright, in realtà, non lavorava da solo, ma nella sua comunità, Taliesin,<br />

aveva instaurato più un rapporto tra maestro e <strong>di</strong>scepoli che tra colleghi paritari.<br />

Walter Gropius, invece, credeva fermamente nella fecon<strong>di</strong>tà del lavoro collettivo<br />

e firmò molte delle sue ultime opere con il The Architects Collaborative, lo stu<strong>di</strong>o<br />

da lui fondato su <strong>di</strong> un rapporto paritetico con gli altri.<br />

Alberto Abruzzese fa presente riguardo il <strong>di</strong>scorso della critica, che la<br />

progressiva settorializzazione dell’attività intellettuale ha ovvie ripercussioni<br />

anche su quella artistica 36 . E proprio nel passaggio tra l’astrazione del lavoro<br />

intellettuale e la concretizzazione voluta dall’industria culturale si rintracciano le<br />

evidenti analogie con i meccanismi che regolavano la vita <strong>di</strong> artisti solitari come<br />

Wright. Nei suoi scritti l’architetto ha più volte fatto notare quanto fosse<br />

fondamentale la sua <strong>di</strong>fferenza culturale dalla massa:<br />

35 Cit. in W. R. Taylor, 1992, op. cit., p. 84.<br />

36 A. Abruzzese, 1976, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Liguori, Napoli, pp. 131-161.<br />

32


dapprima il grattacielo non era che una pila <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici a cornicione in stile, a cavalcioni l’uo<br />

sull’altro. Poi, un grande architetto lo sentì come un’unità e come bella architettura [1930, p.<br />

169]<br />

Differenza che si fa <strong>di</strong>ffidenza nei confronti del prossimo e della massa. Wright<br />

pur essendo anche uno scultore <strong>di</strong> opere pubbliche, come il GUGGENHEIM, rimase<br />

legato soprattutto alla relazione con il singolo. Nei primi e<strong>di</strong>fici insisteva spesso<br />

per il progetto totale, rimanendo deluso quando i suoi committenti non<br />

accettavano anche le sue soluzioni interne. Un buon esempio <strong>di</strong> architettura<br />

d’interni è ripreso proprio nel film, dove la sistemazione dell’appartamento <strong>di</strong><br />

Enright è la proiezione del progetto a spirale del SOLOMON GUGGENHEIM <strong>di</strong> New<br />

York [1955-59]. Gli affacci rientranti dei piani superiori sul salone principale, la<br />

scala che si erge sinuosamente verso il primo piano, sono tutti elementi che<br />

ricorrevano già in opere precedenti <strong>di</strong> Wright, come le balconate nell’e<strong>di</strong>ficio della<br />

LARKIN COMPANY [1903-05].<br />

La leggera scala è stata invece ripresa nel recente Gattaca [1997]. Le<br />

ambientazioni gelide <strong>di</strong> Wright ben si adattano a questo atipico film <strong>di</strong><br />

fantascienza, dove sono riprese in chiave <strong>di</strong> alienazione e <strong>di</strong> <strong>di</strong>stacco. Il MARIN<br />

COUNTY CIVIC CENTER [1957-66], una delle ultime realizzazioni <strong>di</strong> Wright in<br />

California, è il nucleo centrale del misterioso mondo <strong>di</strong> Gattaca, dove i vasti spazi<br />

interni vogliono essere una rappresentazione simbolica della solitu<strong>di</strong>ne interiore<br />

dei personaggi. Nella realtà, quando Wright costruì questo e<strong>di</strong>ficio pubblico, il suo<br />

intento era esattamente l’opposto: egli voleva porre il citta<strong>di</strong>no in un ambiente<br />

luminoso, piacevole, immerso nella natura. Aveva ideato una <strong>di</strong>sposizione interna<br />

che avrebbe permesso agli uffici <strong>di</strong> essere <strong>di</strong>sposti in maniera <strong>di</strong>fferente secondo<br />

le esigenze dei lavoratori e dei <strong>di</strong>fferenti perio<strong>di</strong> lavorativi.<br />

Contrariamente alla monumentalità della maggior parte delle costruzioni<br />

ufficiali, il centro civico si estende in tutta la sua lunghezza tra le colline ed è<br />

costituito da una bassa cupola circolare, seguita da un lungo e<strong>di</strong>ficio a pianta<br />

rettangolare. Probabilmente è stata la purezza delle geometrie degli archi che<br />

33


attraversano tutta la costruzione, ad attirare il regista Andrew Niccol, che ha<br />

lavorato in stretta collaborazione con lo scenografo Jan Roelfs per ricreare le<br />

atmosfere wrightiane, tanto negli esterni quanto negli interni. La scala, cui si<br />

faceva cenno precedentemente, si trova all’interno dell’appartamento del<br />

protagonista ed assume un significato ancora più simbolico se si pensa che<br />

rappresenta la barriera [quasi] insormontabile per l’amico immobilizzato del<br />

protagonista.<br />

Le geometrie ricorrenti del cerchio e della spirale ritornano perio<strong>di</strong>camente sia<br />

nella <strong>di</strong>sposizione degli uffici, sia nell’evoluzione della trama. Gli affacci dei<br />

corridoi sui piani inferiori sono nuovamente quelli del GUGGENHEIM, mentre la<br />

<strong>di</strong>sposizione delle scrivanie nella sala principale richiama la JOHNSON & SON<br />

COMPANY. La storia del film è costituita da un cerchio che si chiude intorno ai<br />

protagonisti, con la rinascita per uno e la morte per l’altro. Lo stesso Wright,<br />

nelle ultime opere, era ossessionato dal cerchio, quasi volesse chiudere la sua<br />

carriera artistica con la figura che più considerava perfetta.<br />

34


1.2 “BATMAN”: SHIN TAKAMATSU<br />

LA TRASFIGURAZIONE DELLA REALTÀ ATTRAVERSO IL SOGNO<br />

35<br />

La Metropoli è folla <strong>di</strong> piaceri, <strong>di</strong> vizi, <strong>di</strong> virtù […] E’<br />

negazione della forma organica, <strong>di</strong>struzione dell’<br />

”animo” della Gemeinschaft, è folla.<br />

Massimo Cacciari [1973]<br />

Il film <strong>di</strong> Tim Burton ha richiesto una lunga gestazione per quanto riguarda le<br />

scelte scenografiche. Il desiderio del regista era <strong>di</strong> creare una città che non fosse<br />

identificabile né geograficamente, né storicamente, ma che riuscisse a restituire<br />

l’idea <strong>di</strong> una metropoli occidentale. Priva <strong>di</strong> riferimenti temporali, ma con una<br />

sensazione da anni Quaranta, Gotham City è il risultato <strong>di</strong> un duro lavoro<br />

iconografico da parte dello scenografo Anton Furst. Andando contro ogni più<br />

semplice regola urbanistica, Furst ha costruito 37 una città che sembra fuoriuscita<br />

<strong>di</strong>rettamente dalla pavimentazione stradale.<br />

Scura e fumosa, Gotham City rifiuta la logica che vorrebbe, come nelle città<br />

normali, un limite all’altezza dei grattacieli, per permettere il passaggio della<br />

luce, un piano regolatore che rappresenti un filo conduttore tra una zona e<br />

l’altra. Dopo un’attenta lettura <strong>di</strong> Metropolis, Furst decise che voleva creare una<br />

città <strong>di</strong>versa da tutte le altre:<br />

Metropolis ha l’aria <strong>di</strong> una città progettata da una sola persona. New York o qualunque altra<br />

metropoli ha, invece, l’aria <strong>di</strong> essere state progettata da migliaia <strong>di</strong> architetti, attraverso<br />

centinaia <strong>di</strong> anni. […] Ho tradotto immagini <strong>di</strong> Architettura, non l’architettura stessa, in<br />

scenografia 38 .<br />

L’idea nuova <strong>di</strong> Anton Furst è proprio nell’aver voluto realizzare un concetto<br />

<strong>di</strong>verso <strong>di</strong> metropoli. Sprovvista dei riferimenti tra<strong>di</strong>zionali all’eclettismo, Gotham<br />

37<br />

Realizzato negli stu<strong>di</strong> Pinewood [Londra], il set <strong>di</strong> Batman è stata la più grossa struttura scenografica<br />

realizzata fuori da Hollywood, dai tempi <strong>di</strong> Cleopatra.<br />

38<br />

Cit. in J. D. Shannon, 1990, “A Dark and Stormy Knight”, Cinefex 41, pp. 4-33.


City è un abile melting pot <strong>di</strong> Brutalismo britannico, Futurismo italiano,<br />

Costruttivismo russo, Decorativismo austriaco e Modernismo spagnolo. In<br />

Gotham City ogni struttura ha, non solo un significato particolare, ma<br />

rappresenta idealmente una parte della storia dell’architettura appartenente a<br />

questo secolo.<br />

Si possono notare i segni lasciati da Otto Wagner nella Vienna d’inizio<br />

Novecento, così come le strutture forti <strong>di</strong> Mel’nikov; il nuovo espressionismo<br />

strutturale <strong>di</strong> Norman Foster, ma anche certo razionalismo italiano, come quello<br />

originale del gruppo BBPR nella TORRE VELASCA [1958] <strong>di</strong> Milano, oppure il<br />

sentimento gotico <strong>di</strong> Antoni Gaudì nella sua SAGRADA FAMILLA. Gotham City è tutto<br />

questo, con in più un notevole senso del concetto <strong>di</strong> architettura industriale<br />

postmoderna. Il riassunto <strong>di</strong> un secolo <strong>di</strong> modernismo, non ha, infatti, impe<strong>di</strong>to a<br />

Furst <strong>di</strong> richiamare l’attenzione sulle nuove tendenze.<br />

Nel progettare l’e<strong>di</strong>ficio che accoglie il Fulgenheim Museum, il luogo dove si<br />

svolge il ballet mécanique <strong>di</strong> Joker, lo scenografo si è <strong>di</strong>chiaratamente ispirato ad<br />

un architetto <strong>di</strong> Kyoto, Shin Takamatsu. Erede <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione che ha fatto<br />

della sperimentazione sui modelli precostituiti la propria ban<strong>di</strong>era, Takamatsu ha<br />

sempre saputo infondere alle sue architetture un senso <strong>di</strong> spaesamento,<br />

centrando l’obiettivo <strong>di</strong> suggerire sempre un giu<strong>di</strong>zio,<br />

positivo e negativo, che fosse. È impossibile rimanere<br />

in<strong>di</strong>fferenti <strong>di</strong> fronte all’e<strong>di</strong>ficio che ha ispirato Furst, la<br />

clinica odontoiatrica ARK .<br />

Ponendosi più come un oggetto autoreferente che un<br />

aggiornamento delle tematiche meccanicistiche, la clinica<br />

ARK rappresenta un approccio nuovo al rapporto tra<br />

architettura e spazio. Costruita semplicemente in cemento armato e acciaio, ARK<br />

ha l’aspetto <strong>di</strong> una locomotiva a vapore immobilizzata nel tempo. Secondo le<br />

36


parole dello stesso Takamatsu, la struttura non va interpretata come un’allusione<br />

al passato, ma piuttosto come una proiezione nel futuro. L’architetto fa<br />

riferimento alla nozione <strong>di</strong> scala, <strong>di</strong>cendo che nel posizionamento strutturale <strong>di</strong><br />

un e<strong>di</strong>ficio, bisogna sempre tenere d’occhio in che modo si rapporta all’ambiente<br />

circostante: «Se un e<strong>di</strong>ficio è nuovo o no, <strong>di</strong>pende da certe relazioni <strong>di</strong> scala» 39 .<br />

Nel caso <strong>di</strong> Gotham City, il Flugenheim Museum si correla perfettamente con il<br />

resto delle architetture. Anton Furst ha avuto l’abilità <strong>di</strong> creare una sorta <strong>di</strong><br />

accumulo <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici, tanto <strong>di</strong>sadorni <strong>di</strong> applicazioni, quanto pieni <strong>di</strong> tutti quegli<br />

elementi che sono presenti in una fabbrica dell’Ottocento. Pinnacoli che sbuffano<br />

vapore, gran<strong>di</strong> finestre offuscate dalla fuliggine, serpentine <strong>di</strong> tubi lasciate a<br />

vista: gli e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong> Gotham City sono coperti da strutture espressionistiche che si<br />

rifanno all’immaginario industriale.<br />

L’impressione, ad un occhio non allenato, potrebbe essere quella <strong>di</strong> una<br />

ridondanza <strong>di</strong> segni. Forse il fascino <strong>di</strong> Gotham City, però, consisteva proprio nel<br />

poter seguire il <strong>di</strong>panarsi dello scenario, esattamente come il fluire dell’azione.<br />

Anton Furst, uomo colto e abilissimo nella gestione <strong>di</strong> un così vasto progetto 40 ,<br />

non riuscì più ad esprimere un così alto concetto <strong>di</strong> total design 41 .<br />

Il cammino del suo ispiratore, è proseguito invece notevolmente dal 1982,<br />

anno <strong>di</strong> costruzione <strong>di</strong> ARK, fino a farne uno degli architetti più importanti del<br />

Giappone contemporaneo. Staccatosi progressivamente dalla tendenza verso la<br />

megastruttura spoglia del Metabolismo, Takamatsu ha ripreso molto delle idee<br />

del Futurismo italiano e dell’Espressionismo tedesco. Della corrente dei padri, il<br />

Metabolismo, appunto, ha recuperato il concetto <strong>di</strong> città vista come un organismo<br />

soggetto a cicli <strong>di</strong> crescite e ricadute, ma ha eliminato il concetto fondamentale<br />

della megastruttura vista come unico progetto, capace <strong>di</strong> resistere nel lungo<br />

39<br />

Cit. in M. Vitta [ed.], 1996, Shin Takamatsu. Architecture and nothingness, L’Arca E<strong>di</strong>zioni, Milano, p. 39.<br />

40<br />

Il set <strong>di</strong> Batman richiese una lunga gestazione formale, ma solo cinque mesi per la realizzazione effettiva.<br />

41<br />

Lo scenografo è morto suicida nel 1991, dopo la sua prima commissione da vero architetto: la progettazione<br />

dell’HOLLYWOOD PLANET <strong>di</strong> New York.<br />

37


periodo.<br />

Riprendendo le idee <strong>di</strong> Sant’Elia, che vedeva la sua CITTÀ NUOVA come uno<br />

spazio complesso dove ha luogo il processo produttivo, Takamatsu ha realizzato<br />

delle strutture che rivelano la propria tensione verso il futuro, mostrando questo<br />

progresso sia nella struttura [forma], che nella <strong>di</strong>stribuzione dell’e<strong>di</strong>ficio<br />

[funzione], che ancora nelle relazioni con il tessuto urbano [contesto]. L’interesse<br />

<strong>di</strong> Sant'Elia era rivolto soprattutto verso «la capacità <strong>di</strong> programmare e utilizzare<br />

plasticamente movimenti or<strong>di</strong>nati e precisi» 42 ; la mancanza <strong>di</strong> planimetrie<br />

presupponeva il primato dell’immagine nei confronti della fredda analisi della<br />

pianta. Negli e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong> Takamatsu non solo nulla viene lasciato al caso, ma la<br />

visione <strong>di</strong> una pianta non ne rivela tutta la ricchezza formale.<br />

Come in un quadro <strong>di</strong> Giacomo Balla [ad esempio Compenetrazione iridescente<br />

ra<strong>di</strong>ale, 1914], nei suoi e<strong>di</strong>fici, gli elementi vengono scomposti e riassemblati<br />

secondo modalità <strong>di</strong> derivazione industriale, seguendo una logica meccanicistica.<br />

Attraverso l’andamento contratto della comunicazione <strong>di</strong> inizio secolo, la<br />

macchina si affermò come oggetto centrale nel rituale della metropoli moderna,<br />

grazie alla propria mobilità.<br />

Allo stesso modo le macchine da lavoro <strong>di</strong> Takamatsu non sono solo oggetti<br />

fermi nell’incanto del momento, ma la loro percezione cambia secondo la mobilità<br />

dello sguardo. Nel momento in cui i futuristi tendevano ad immobilizzare il tempo<br />

nei limiti del quadro, così l’architettura <strong>di</strong> Takamatsu rimane un oggetto, solo<br />

apparentemente scoor<strong>di</strong>nato dall’ambiente, e fissato nello spazio urbano grazie a<br />

degli ancoraggi invisibili. La sospensione temporale <strong>di</strong> questi oggetti architettonici<br />

li situa in un mondo parallelo, in cui l’utilizzo <strong>di</strong> materiale industriale funge da<br />

pretesto per una parziale relazione con la realtà.<br />

Il concetto <strong>di</strong> Killing Moon, che torna spesso negli e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong> Takamatsu, è <strong>di</strong><br />

42 P. Portoghesi, 1998, I gran<strong>di</strong> architetti del Novecento, Newton & Compton, Roma, p. 259.<br />

38


chiara matrice futurista: lo stesso Marinetti lo citava spesso. Ultimamente la<br />

rappresentazione della Luna è tornata in un progetto per un albergo situato nella<br />

prefettura <strong>di</strong> Osaka. Strutturalmente simile ad un grattacielo, la MOON TOWER è<br />

dotata <strong>di</strong> un’espressività formale notevole, grazie all’inserimento <strong>di</strong> un’enorme<br />

luna luminosa, che ne spacca verticalmente la composizione.<br />

Considerata dallo stesso architetto come una «transizione verso<br />

l’irreversibilità» 43 , la luna assume il significato specifico <strong>di</strong> collegamento con lo<br />

spazio dell’immaginario. I sentimenti che suscita sono quelli <strong>di</strong> un senso <strong>di</strong><br />

astrazione dalla realtà, e <strong>di</strong> un precipitare in un mondo parallelo. Questa visione<br />

onirica era stata esplorata da Lewis Hine, il grande fotografo statunitense, verso<br />

gli anni Venti.<br />

Dotato <strong>di</strong> una forte sensibilità nello stabilire rapporti insoliti, tra figura umana<br />

e ambiente, sapeva isolare con il suo obiettivo l’astrattezza della città moderna e<br />

del macchinario industriale. Nelle sue fotografie, gli uomini venivano ridotti a<br />

figure lillipuziane, quasi ingoiate dalle macchine. In Steamfitter 44 [1921], si<br />

riconosce tutta l’astrattezza che caratterizzò le ultime opere del famoso<br />

fotografo: dal realismo sociale degli anni Dieci era passato ad una <strong>di</strong>mensione<br />

onirica del lavoro e dei suoi referenti meccanici. Allo stesso modo si possono<br />

leggere i mutamenti <strong>di</strong> significato insiti in un’opera <strong>di</strong> Takamatsu. Nel desiderio <strong>di</strong><br />

esplorare il lato oscuro della psiche umana, i suoi oggetti d’architettura si<br />

presentano in maniera sinistra. Il KIRIN PLAZA <strong>di</strong> Osaka [1987], ad esempio, si<br />

presta ad una deco<strong>di</strong>fica aberrante. Niente, in questo e<strong>di</strong>ficio, è ciò che sembra<br />

essere. Costruito in cemento armato, ed inframmezzato da inserti in acciaio ed<br />

alluminio, il KIRIN PLAZA presenta sulla cima quattro torri traslucide, realizzate in<br />

vetro e carta <strong>di</strong> riso, che alla luce notturna simulano gli andon, le tra<strong>di</strong>zionali<br />

lampade giapponesi. Le torri non rappresentano un elemento casuale nel<br />

43<br />

Cit. in M. Vitta, 1996, op. cit., p. 187.<br />

44<br />

L’opera raffigura un uomo intento ad avvitare dei bulloni ad una macchina a vapore che presenta la stessa<br />

struttura frontale <strong>di</strong> ARK.<br />

39


contesto generale, ma fungono da riferimento per i pedoni che affollano lo strip<br />

commerciale <strong>di</strong> Shinsaibashisuji.<br />

L’immaginario meccanico è sempre stato una fonte <strong>di</strong> ispirazione, anche prima<br />

che Le Corbusier affermasse che la casa è una macchina per abitare. In e<strong>di</strong>fici<br />

come il KIRIN PLAZA, lo spiazzamento determinato dalla [presunta] ignoranza sulla<br />

destinazione d’uso, prevale sull’ammirazione che si può provare nel vedere un<br />

oggetto cesellato con precisione. Gli oggetti <strong>di</strong> Takamatsu <strong>di</strong>mostrano la continua<br />

capacità della macchina, <strong>di</strong> eccitare i nostri sensi. Queste costruzioni sono meglio<br />

definibili degli oggetti d’architettura, in quanto mancano allo sguardo gli elementi<br />

costitutivi <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio.<br />

Nel KIRIN, ad esempio, non si <strong>di</strong>stingue la separazione tra un piano e l’altro;<br />

mancando anche le finestre, la sensazione istintiva è <strong>di</strong> trovarsi <strong>di</strong> fronte ad un<br />

oggetto ermetico ed ostile. Questa sensazione deriva dalla mancata sincronia tra<br />

un ambiente in continua evoluzione, ed il linguaggio formale dell’architettura.<br />

Volendo applicare le classificazioni formali redatte da Paolo Castelnovi,<br />

riguardo alla percezione della struttura urbana 45 , si potrebbe affermare che il<br />

citta<strong>di</strong>no formula i propri giu<strong>di</strong>zi sull’ambiente circostante, attraverso un<br />

vocabolario semantico ormai datato. Il dover procedere per sintesi<br />

approssimative <strong>di</strong> questo linguaggio, in modo da permettere una definizione<br />

dell’oggetto, non ne aiuta la comprensione formale. L’architettura <strong>di</strong> Takamatsu<br />

va oltre questo alfabeto architettonico, non è riconducibile a nessun para<strong>di</strong>gma,<br />

ma si pone esplicitamente come oggetto che riferisce soltanto a sé stesso.<br />

Trovandosi a lavorare in un ambiente urbanistico saturo, Takamatsu ha dovuto<br />

stabilire dei rapporti nuovi tra architettura e natura, tra testo e contesto. Si<br />

spiega così il posizionamento semantico <strong>di</strong> ARK: influenzata dalla vicina stazione<br />

ferroviaria, la clinica determina un’ulteriore ridefinizione dell’ambiente<br />

45<br />

Cfr. P. Castelnovi, 1980, La città: istruzioni per l’uso. Semiotica della comunicazione nel progetto e nello<br />

spazio urbano, Einau<strong>di</strong>, Torino, pp. 126-130.<br />

40


circostante, determinando il passaggio da una sostanza meccanicistica, data dalla<br />

sua struttura, ad un’essenza onirica, data dal suo essere “destabilizzante”.<br />

L’architettura può così spiegarsi come una macchina produttrice <strong>di</strong> senso, inteso<br />

come senso in<strong>di</strong>viduale, sollecitato in mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenti secondo il proprio<br />

vocabolario semantico.<br />

La mobilità dello sguardo, provocata dal continuo sovrapporsi <strong>di</strong> riman<strong>di</strong><br />

ipertestuali, costituiti dal citazionismo industriale degli oggetti <strong>di</strong> Takamatsu,<br />

provoca quella Steigerung des Nervenlebens <strong>di</strong> cui aveva parlato Georg Simmel<br />

con riferimento alla Metropoli Moderna 46 .<br />

L’osservazione <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong> oggetti va nella <strong>di</strong>rezione opposta rispetto<br />

all’atrofizzazione intellettuale provocata da certo razionalismo spinto all’eccesso.<br />

L’architettura <strong>di</strong> Takamatsu si impone come luogo, perché riconcilia le sensazioni<br />

destate, in un unico flusso <strong>di</strong> coscienza, <strong>di</strong>stogliendo l’impressione in<strong>di</strong>viduale<br />

dalla propria tenacia osservativa, ed elevandola a natura spirituale. Il luogo ARK<br />

o il luogo KIRIN PLAZA, appartengono <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto alla Metropoli, in quanto evocativi<br />

del ciclo <strong>di</strong> produzione:<br />

Finché il valore della città è semplicemente sintesi <strong>di</strong> forma e funzione nella appercezione<br />

originaria della sua totalità, la <strong>di</strong>mensione temporale rimane assente. […] Anche il tempo va<br />

conciliato. Anche nel tempo deve esserci forma 47 .<br />

Takamatsu va oltre questa appercezione: la forma del nostro tempo potrebbe<br />

essere quella <strong>di</strong> questa architettura, così provocatoria da spingere al <strong>di</strong>battito,<br />

così evocativa da riportare alla mente le mille citazioni, filmiche e architettoniche,<br />

presenti nella nostra coscienza.<br />

46 Cfr. M. Cacciari, 1973, Metropolis, Officina, Roma, p. 10.<br />

47 Ibid., p. 82.<br />

41


1.3 “TRUMAN SHOW”: LÉON KRIER.<br />

L'UTOPIA DELL'ETERNO PRESENTE<br />

42<br />

Broadacre è la nostra città libera per la Sovranità<br />

dell’In<strong>di</strong>viduo! Quando la democrazia e<strong>di</strong>fica, questa è<br />

la naturale città della libertà nello spazio, del riflesso<br />

umano.<br />

Frank Ll. Wright [1958]<br />

Quando nel 1998 Andrew Niccol firma la sceneggiatura <strong>di</strong> The Truman Show,<br />

l'autore <strong>di</strong> Gattaca mette nuovamente in pie<strong>di</strong> una struttura basata sull’effetto<br />

della nostalgia, come fu nel 1982 per Blade Runner. Partendo dallo stesso spunto<br />

[la città immaginata come reale] The Truman Show opera in maniera <strong>di</strong>versa sul<br />

terreno della fantascienza. Se Blade Runner voleva essere una sintesi tra lo stile<br />

architettonico del 2020 e lo stile narrativo del 1940, fondando quin<strong>di</strong> la propria<br />

tesi sugli archetipi narrativi del noir, The Truman Show mostra «uno scenario del<br />

futuro basato su una sorta <strong>di</strong> conto alla rovescia» 48 . La visione apocalittica <strong>di</strong><br />

Ridley Scott ha lasciato il posto ad un piccolo mondo antico tanto puro, quanto<br />

inquietante. L’inquietu<strong>di</strong>ne deriva soprattutto dal fatto che la città dove vive il<br />

protagonista Truman Burbank, Seahaven, esiste veramente: si tratta <strong>di</strong> una<br />

località turistica situata in Florida.<br />

Costruita negli anni Ottanta, SEASIDE, questo il suo vero nome, è un’unica<br />

architettura congelata nel tempo, una sfida aperta al concetto fortemente<br />

americano <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidualismo. Dall’unicità dell’opera <strong>di</strong> Wright [un progetto per un<br />

solo utente], si giunge qui al pluralismo [non] intellettuale, all’architettura <strong>di</strong>ffusa<br />

[perché democratica] e con<strong>di</strong>visa [tanti progettisti per altrettanti utenti]. Il<br />

<strong>Sogno</strong> Americano è dunque realizzato: siamo dalle parti del politicamente<br />

48 D. M. Steiner, 1999, “The Truman Show”, Domus 816, p. 8.


corretto in versione immobiliare, «una terra promessa per i ceti me<strong>di</strong> urbani <strong>di</strong><br />

tutto il mondo» 49 .<br />

La forza del film risiede proprio nel fatto che la finzione, in questo caso<br />

fantascientifica, opera su <strong>di</strong> un substrato reale, che amplifica il dramma della<br />

solitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> Truman Burbank. Il protagonista, uomo più moderno <strong>di</strong> Rick<br />

Deckard, è un integrato: si trova perfettamente a suo agio in quello che lui<br />

considera un habitat naturale, ed assume quell’atteggiamento <strong>di</strong> buona creanza<br />

così frequente nei film ambientati nei sobborghi. Rick Dekard è invece in una<br />

situazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>stopia: completamente slacciato da una città che lo rifiuta, si<br />

considera incapace, forse perché deluso, <strong>di</strong> stringere dei rapporti interpersonali<br />

con chiunque, tipico rigurgito della vita nella grande ed inospitale metropoli. Che<br />

la vita vera [perché più accessibile dal punto <strong>di</strong> vista personale, ma non per<br />

questo meno terrificante], risieda a Seaside/Seahaven piuttosto che nella Los<br />

Angeles del 2019, è un dato <strong>di</strong> fatto.<br />

Al drammatico conflitto tra inferno fantascientifico ed inferno realizzato,<br />

sembra rispondere il lavoro <strong>di</strong> Léon Krier, architetto lussemburghese, il cui lavoro<br />

è caratterizzato dalla stessa immobilità atemporale <strong>di</strong> The Truman Show. Se la<br />

sua prima realizzazione tri<strong>di</strong>mensionale è costituita da una delle facciate della VIA<br />

NOVISSIMA 50 , la sua prima costruzione effettiva è un’abitazione realizzata per sé<br />

proprio a Seaside. Il regolamento e<strong>di</strong>lizio della citta<strong>di</strong>na prescriveva il linguaggio<br />

classico come fattore unificante e prendeva spunto<br />

dal pensiero <strong>di</strong> Krier. Il suo classicismo non ha mai<br />

avuto nulla a che vedere con la retorica della École<br />

des Beaux-Arts. Fuori del raggio d’azione<br />

dell’eclettismo, Krier ha dunque realizzato un accomodamento tra «antichità e<br />

Rinascimento, […] filtrato da una parte da uno spirito <strong>di</strong> razionalità e <strong>di</strong><br />

49 Ibid., p. 9.<br />

50 Cfr. P. Portoghesi, V. Scully, C. Norberg-Schulz, C. Jenks, 1980, op. cit.<br />

43


semplicità, e dall’altra dal rispetto per le tra<strong>di</strong>zioni locali e l‘interesse per il<br />

vernacolo» 51 . Ovviamente nessuno all’inizio degli anni Ottanta avrebbe mai<br />

previsto un tale revival dell’urbanesimo <strong>di</strong> fine Ottocento. Aiutato dalla passione<br />

del principe <strong>di</strong> Galles per l’architettura, il movimento New Urbanism ha preso<br />

lentamente piede ottenendo una piena legittimazione. Le città giar<strong>di</strong>no hanno<br />

cominciato a fiorire in Inghilterra, Stati Uniti, In<strong>di</strong>a, Giappone. Negli Stati Uniti, in<br />

particolare, si è sviluppato attraverso il connubio con la crescente preoccupazione<br />

da parte dei citta<strong>di</strong>ni per la propria incolumità. Il principio originario, la vivibilità<br />

sostenibile, si è così mo<strong>di</strong>ficato escludendo a priori dai regolamenti citta<strong>di</strong>ni tutto<br />

ciò che non fosse conforme alla Regola dell’Or<strong>di</strong>ne.<br />

Celebration, Modesto, Liberty Harbor, Seaside, e molte città della Florida e<br />

della California sono state costruite secondo i dettami della rigi<strong>di</strong>tà dell’accesso.<br />

Ogni pretendente alla citta<strong>di</strong>nanza deve superare dei rigi<strong>di</strong> esami da parte della<br />

comunità, e osservare le regole contenute nel contratto <strong>di</strong> acquisto<br />

dell’abitazione. Come un mondo a parte, all’interno <strong>di</strong> queste citta<strong>di</strong>ne vigono<br />

regole inusitate per qualunque altra città. Il più delle volte non possono essere<br />

apportate mo<strong>di</strong>fiche all’aspetto esterno della propria abitazione, previo consenso<br />

della comunità, per non turbare l’or<strong>di</strong>ne formale dell’intero quartiere 52 . Il sogno<br />

usoniano <strong>di</strong> Wright sembra quin<strong>di</strong> completarsi: i principi fondativi <strong>di</strong><br />

luoghi/nonluoghi come Celebration sono basati esclusivamente e rigidamente su<br />

sei stili architettonici <strong>di</strong> base.<br />

La nuova tendenza è dunque quella del «progetto sempre uguale»?<br />

L’affermazione è <strong>di</strong> Bruno Minar<strong>di</strong>, architetto italiano legato ai volumi classici.<br />

Minar<strong>di</strong> così descrive il suo fare architettura:<br />

il progetto sempre uguale e sempre <strong>di</strong>verso, assume nella inclinazione <strong>di</strong> un tetto, nella<br />

<strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> una finestra, nei materiali della costruzione, una propria in<strong>di</strong>ssolubile<br />

localizzazione che non si esprime con il capriccio o l’artificio dell’uomo, ma attraverso le<br />

51<br />

P. Portoghesi, 1998, op. cit., p. 660.<br />

52<br />

Una <strong>di</strong>ssacrante visione <strong>di</strong> quest tipologia <strong>di</strong> vita è stata recentemente portata sugli schermi con La donna<br />

perfetta.<br />

44


gran<strong>di</strong> regole della natura 53 .<br />

Quest’ipotesi <strong>di</strong> lavoro sull’artificio/natura, descrive la tendenza al<br />

neoconservatorismo, ad un recupero degli archetipi classici. Il riciclaggio degli<br />

stili è sostenibile attraverso due percorsi <strong>di</strong>fferenti: decontestualizzando in forma<br />

ironica l’elemento classico, come nell’opera <strong>di</strong> Robert Venturi, oppure ripreso<br />

rigidamente per un’immersione totalizzante nell’antichità, come nel caso<br />

dell’architetto greco Demetri Porphyrios 54 . L’uguaglianza <strong>di</strong> questi luoghi è<br />

favorita dalla volontà precisa <strong>di</strong> esporne pubblicamente le facciate. La casa<br />

privata assume così valore <strong>di</strong> vita pubblica, pubblicizzata e controllata dai propri<br />

vicini. Scrive Denise Scott Brown:<br />

se gran parte degli e<strong>di</strong>fici privati hanno una facciata pubblica, qual è la natura dell’interesse<br />

pubblico nei confronti <strong>di</strong> quesa facciata? Gli e<strong>di</strong>fici privati dovrebbero essere e<strong>di</strong>fici sfondo al<br />

settore pubblico? […] il settore pubblico è interessato agli e<strong>di</strong>fici privati nella misura in cui<br />

questi coinvolgono il pubblico interesse e si rapportano all’ambito pubblico [1990 p. 30].<br />

L’apertura verso l’esterno , la piazza, del privato se da un lato rafforza la<br />

coesione ed i rapporti interpersonali, perduti nell’anonimato della metropoli,<br />

dall’altro incide irrime<strong>di</strong>abilmente sulle <strong>di</strong>namiche familiari, esposte come in<br />

vetrina. L’agorà <strong>di</strong>venta luogo per l’occhio panottico del citta<strong>di</strong>no, strumento <strong>di</strong><br />

controllo sociale e coercizione dei propri gesti. Le abitu<strong>di</strong>ni devono farsi uguali: la<br />

tendenza alla democratizzazione influenza quin<strong>di</strong> non tanto la forma, quanto la<br />

funzione stessa dell’essere. Il corpo nostalgico <strong>di</strong> Truman, vestito come negli anni<br />

Cinquanta, rappresenta l’uomo dei reality show e delle fortezze impenetrabili <strong>di</strong><br />

città come Los Angeles. Represso in uno spazio caramelloso ed edulcorato da<br />

ogni possibile violenza, Truman vive il suo Eterno Presente senza domande,<br />

finché non entra in gioco un elemento <strong>di</strong> <strong>di</strong>sturbo. Il New Urbanism <strong>di</strong> Krier e dei<br />

teorici non contempla evasioni dalla prigione o deviazioni da quella sostanza che<br />

è la Forma anzitutto: «non esiste un’architettura rivoluzionaria o reazionaria.<br />

Esiste solo un’architettura o la sua assenza, cioè la sua astrazione».<br />

53<br />

Ibid., p. 669.<br />

54<br />

Autore, tra l’altro, <strong>di</strong> un piccolo pa<strong>di</strong>glione nel quartiere ultramoderno <strong>di</strong> Battery Park [New York], dalla<br />

struttura <strong>di</strong> un tempio greco.<br />

45


2<br />

La Letteratura e il Tempo<br />

46


2.1 “LE CITTÀ INVISIBILI”: ALDO ROSSI<br />

LA SOSPENSIONE DEL TEMPO E DELLO SPAZIO<br />

Nel 1980 si inaugura la prima Biennale <strong>di</strong> Architettura a Venezia. Il tema è LA VIA<br />

NOVISSIMA, percorso attraverso lo sguardo degli architetti su un’ipotetica strada<br />

citta<strong>di</strong>na. Quella mostra segnerà l’epoca dell’architettura <strong>di</strong>segnata, periodo nel<br />

quale la Forma immaginaria della città prenderà il sopravvento sul costruito<br />

effettivo. Partendo dallo spunto <strong>di</strong> Anastasia, descritta da Calvino ne Le Città<br />

Invisibili, si può tentare <strong>di</strong> comprendere meglio il significato che ha avuto<br />

l’architettura effimera nella nostra cultura:<br />

mentre la descrizione <strong>di</strong> Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per<br />

obbligarti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano<br />

tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va<br />

perduto e <strong>di</strong> cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non go<strong>di</strong>, a te non resta<br />

che abitare questo desiderio ed esserne contento [1972, p. 12]<br />

Il desiderio entra prepotentemente nell’immaginario dell’architettura, un<br />

desiderio nostalgico, come nel caso successivo ma ben più gelido del New<br />

Urbanism. Calvino descrive Anastasia, solo una delle tante forme della sua idea<br />

<strong>di</strong> città, come «ingannatrice», e Aldo Rossi ha a lungo giocato con l’inganno della<br />

memoria nello spettatore.<br />

47


Il TEATRO DEL MONDO costruito in occasione della Biennale era una struttura<br />

effimera perché nata e morta solo per quel momento storico. Rappresentazione<br />

del suo modo <strong>di</strong> fare architettura negli ultimi anni <strong>di</strong> lavoro, il teatro voleva<br />

mettere in scena un sogno leggero e spensierato. Un mondo intero, racchiuso in<br />

un ottagono, ancorato alla realtà terrena tramite delle funi: «l’uomo si incontra<br />

ad Anastasia, città bagnata da canali concentrici e sorvolata da aquiloni» 55 .<br />

L’immaterialità dell’effimero <strong>di</strong>viene plasma nelle mani <strong>di</strong> un autore conosciuto<br />

precedentemente per la pesantezza del costruire [come nel caso del quartiere<br />

gallaratese]. La questione oggettiva del movimento moderno stava per essere<br />

messa da parte in favore <strong>di</strong> una nuova soggettività, <strong>di</strong> un percorso più personale<br />

nel proprio pensiero. La lievità <strong>di</strong> questo ragionamento può esere rintracciata in<br />

uno degli scritti <strong>di</strong> Antonio Sant’Elia che sosteneva: «che ciascuna generazione<br />

possa costruire la città secondo le proprie necessità».<br />

Il bisogno <strong>di</strong> un progetto più personale e vicino al citta<strong>di</strong>no, è forse il<br />

sentimento che ha guidato Rossi verso delle strutture più capaci <strong>di</strong> comprendere<br />

l’anima <strong>di</strong> chi le abitava. Ma anche nel TEATRO si nota la questione del<br />

razionalismo. Forma classica e priva <strong>di</strong> funzione [e quin<strong>di</strong><br />

antirazionalista], rivela una evidente chiusura verso il<br />

mondo esterno. Come nel caso <strong>di</strong> Ghery e delle strutture<br />

decostruttiviste, in questi e<strong>di</strong>fici si realizza il <strong>Sogno</strong> del<br />

<strong>Prigioniero</strong>. Quello <strong>di</strong> un uomo costretto dalla gabbia <strong>di</strong> una<br />

città che lo respinge e <strong>di</strong> cubi vuoti <strong>di</strong> sentimento che lo<br />

respingono. Il Teatro <strong>di</strong> Rossi è come la summa delle tante<br />

città <strong>di</strong> Calvino, una architettura femmina perché attraente al primo istinto e<br />

respingente come un’onda anomala. I luoghi calviniani della Memoria del<br />

passato, del Desiderio si completano nelle città dei Morti. Tuguri senza sbocco,<br />

55 Ivi.<br />

48


privi <strong>di</strong> luce e speranza, sono quegli artifici in cui il citta<strong>di</strong>no moderno si è trovato<br />

più volte senza alternativa. Una moltitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> strade senza sbocco, che<br />

conducevano unicamente ad un’idea razionalista <strong>di</strong> Or<strong>di</strong>ne. La lievità del Teatro<br />

non ne esemplifica la formalità. Il razionalismo spinto all’eccesso <strong>di</strong> Rossi è come<br />

Marozia, la citta che «quando meno te l’aspetti ve<strong>di</strong> aprirsi uno spriraglio e<br />

apparire una città <strong>di</strong>versa, che dopo un istante è già sparita» 56 . Un guscio vuoto<br />

la cui facciata è costituita dal Desiderio, dall’aspirazione alla Libertà che animava<br />

gli spiriti del Movimento Moderno, ma che al momento stesso precludeva ogni<br />

possibile deviazione dal percorso originario. Un’eterna illusione fattasi scena.<br />

56 Ibid. p. 155.<br />

49


2.2 “L'ALEPH”: FRANK O. GEHRY<br />

INVOLUZIONE ED ENTROPIA NEGLI SPAZI DELLA CULTURA<br />

Quando J. L. Borges descrisse ne L’immortale [1947] il palazzo del protagonista,<br />

un luogo impossibile come una figura <strong>di</strong> Escher, non poteva immaginare che la<br />

costruzione formale <strong>di</strong> quel racconto sarebbe stata realizzata in forma <strong>di</strong> titanio<br />

più <strong>di</strong> 50 anni dopo. Così descrive l’autore argentino la Città degli Immortali:<br />

Un labirinto è un e<strong>di</strong>ficio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura ricca <strong>di</strong><br />

simmetrie è subor<strong>di</strong>nata a tal fine. Nel palazzo che imperfettamente esplorai l’architettura<br />

mancava d’ogni fine. Abbondavano il corridoio senza sboco, l’alta finestra irraggiungibile, la<br />

fastosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incre<strong>di</strong>bili scale rovesciate, coi<br />

gra<strong>di</strong>ni e la balaustra all’ingiù [1949, p. 17].<br />

La ricchezza letteraria <strong>di</strong> Borges si <strong>di</strong>pana lungo questo racconto attraverso la<br />

metafora del labirinto e del palazzo, come espressioni del tempo che [non]<br />

passa. Un’involuzione della curva temporale che attraversa la vita/non vita <strong>di</strong><br />

Omero, l’immortale del titolo. L’or<strong>di</strong>ne costituito della letteratura contemporanea<br />

è per Borges un puro strumento <strong>di</strong> esplorazione del suo scheletro e <strong>di</strong><br />

rivoluzionamento attraverso il linguaggio. Partire quin<strong>di</strong> da una funzione statica<br />

per rielaborarla attraverso più Forme.<br />

Nel 1997 viene completato il GUGGENHEIM MUSEUM a Bilbao, dopo circa <strong>di</strong>eci<br />

anni <strong>di</strong> progettazione. Osannato, criticato, ha comunque raggiunto il suo scopo<br />

facendo parlare <strong>di</strong> sé, del suo autore e riportando alla ribalta il <strong>di</strong>scorso sul futuro<br />

e la funzione dell’architettura.<br />

50


Il GHERY MUSEUM, è più giusto chiamarlo così, riassume in un unico concetto <strong>di</strong><br />

metallo fuso venti anni <strong>di</strong> lavoro dell’architetto americano intorno alla struttura e<br />

alla funzione dell’architettura contemporanea. Frank O. Ghery, californiano <strong>di</strong><br />

nascita, inizia a farsi conoscere esattamente come Robert Venturi, tramite la<br />

progettazione della propria casa, primo esempio del decostruzionismo. La<br />

tendenza alla destrutturazione formale della metropoli è visibile fin da questo<br />

progeto, espanso, in continuo rivoluzionamento. Una forma instabile<br />

continuamente soggetta a cambiamenti e aggiunte, come stralci <strong>di</strong> un romanzo<br />

mai completato. Ghery lavora per accumulo <strong>di</strong> informazioni, da un certo punto <strong>di</strong><br />

vista, come Borges. Limando continuamente, sino a rasentare il perfezionismo il<br />

proprio costruito, seguendo il filo del labirinto. Entrare in un suo e<strong>di</strong>ficio vuol <strong>di</strong>re<br />

non sapere cosa trovare <strong>di</strong>etro una voluta o una curva. I volumi sono pesanti e<br />

allo stesso tempo lievi, come leggendo tra le righe dello scrittore argentino e<br />

riuscire a trovare nelle sue infinite citazioni un <strong>di</strong>scorso ormai perduto. Il tema è<br />

quello dell’Entropia. Di uno spazio talmente espanso da potersi ridurre in<br />

pulviscolo nel palmo <strong>di</strong> una mano. Le volute del GUGGENHEIM attirano il visitatore<br />

facendogli perdere il senso originario del suo vedere.<br />

Il museo <strong>di</strong>venta luogo <strong>di</strong> esposizione del sé, in cui non si va tanto ad<br />

ammirare una collezione <strong>di</strong> opere d’arte, ma è la stessa sovrastruttura a farsi<br />

capolavoro. Facendo rientrare anche in questo caso il desiderio e le forme che<br />

l’immaginario possono ricreare, si può affermare che le spire avvolgenti del<br />

GUGGENHEIM possono essere paragonate alle biblioteche infinite <strong>di</strong> Borges. Quei<br />

luoghi privi <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni [o le cui misure sono totalmente fuori scala] che<br />

costringono lo sguardo verso l’alto e verso la propria struttura più che su ciò che<br />

si sta effettivamente cercando. Il museo <strong>di</strong>venta un nuovo luogo <strong>di</strong> culto per farsi<br />

avvolgere appieno dallo spirito dell’Arte, in tutti i sensi. La tendenza ad escludere<br />

l’esterno è simile a quanto già visto per l’architettura razionalista <strong>di</strong> Rossi. La<br />

51


maggior parte dei lavori <strong>di</strong> Gehry sono caratterizzati da un «look da stato<br />

d’asse<strong>di</strong>o» 57 , come lo ha definito Mike Davis, intendendo far notare quanto<br />

queste fortificazioni fossero in contrasto con il loro dovere <strong>di</strong> essere e<strong>di</strong>fici per un<br />

pubblico più vasto possibile.<br />

Le sue costruzioni a Los Angeles ne sono un<br />

classico esempio. Metropoli in perenne conflitto<br />

con il proprio subsrato sociale e l’inarrestabile<br />

espansione urbana, Los Angeles vive del rituale<br />

della rappresentazione del consumo, attraverso<br />

gli shopping mall ed i quartieri simulanti la realtà<br />

come Citywalk, agorà pulite e fortificate, dalle quali sono esclusi gli inhumaines.<br />

Fuori dal pulito e l’or<strong>di</strong>ne c’è il caos, sembrano <strong>di</strong>re i nuovi grattacieli costruiti<br />

durante il riassestamento del Downtown losangeleno. Un caos denso <strong>di</strong> conflitti<br />

sociali e determinanto unicamente dal possesso e dalla capacità <strong>di</strong> consumo.<br />

All’interno <strong>di</strong> questa logica, gli spazi museali e le biblioteche, luoghi <strong>di</strong><br />

arricchimento personale e non solo materiale, procedono nella stessa strada. Le<br />

dolci curve dei musei <strong>di</strong> Gehry possono quin<strong>di</strong> trasformarsi in guglie acuminate<br />

per chi non ha la conoscenza adatta a superarle. Nuvole non suadenti come<br />

quelle <strong>di</strong> Fuksas, ma bocche pronte ad ingerire il passante incauto, come un<br />

Minotauro borgesiano, affamato <strong>di</strong> visione.<br />

57 M. Davis, 1990, La città <strong>di</strong> quarzo. Indagine sul futuro <strong>di</strong> Los Angeles, Manifestolibri, Roma 1993, p. 121.<br />

52


2.3 “L'ISOLA DI CEMENTO”: RICHARD ROGERS<br />

L'ARCHITETTO E LA FARFALLA: LEGGEREZZA PER UNO SVILUPPO<br />

[IN]SOSTENIBILE<br />

In L’isola <strong>di</strong> cemento [1974], romanzo <strong>di</strong> James G. Ballard, il protagonista si<br />

trova dopo una curva sbagliata su una tangenziale ad affrontare un incubo che<br />

ne mina l’identità <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>no e <strong>di</strong> uomo. Scaraventato sotto i piloni<br />

dell’autostrada dopo un incidente e impossibilitato dall’uscire da quella che lui<br />

definirà appunto isola, Maitland, un architetto <strong>di</strong> successo, deve azzerare le<br />

proprie conoscenze sulle strutture che ha intorno e adattarsi ad una vita da<br />

Crusoe in mezzo al cemento.<br />

Maitland perde la citta<strong>di</strong>nanza <strong>di</strong> Londra, luogo invisibile nel romanzo se non<br />

per le luci che riverberano la notte, perché nel momento in cui scompare,<br />

ingoiato dalla scarpata, termina <strong>di</strong> esistere. Nessuno si accorge <strong>di</strong> lui, gli<br />

automobilisti lo evitano, considerandolo un barbone o un pazzo. L’architetto, allo<br />

stesso modo, pur essendo un uomo controllato, perde il proprio status <strong>di</strong><br />

umanità, riducendosi a belva. La sua incapacità <strong>di</strong> adattamento a dei luoghi che<br />

dovrebbe comunque conoscere e capirne la sostanza <strong>di</strong> cemento che lo circonda,<br />

rende il personaggio <strong>di</strong> Ballard una vittima della modernizzazione della città e<br />

53


dell’anonimato che permea le architetture autostradali.<br />

Schermandosi dal sole, Maitland vide che si era arrestato in una piccola isola spartitraffico<br />

triangolare, lunga meno <strong>di</strong> duecento metri, che si stendeva in una zona incolta fra tre<br />

autostrade convergenti. […] La vista delle sei corsie <strong>di</strong> traffico era preclusa da schermi<br />

paraspruzzi <strong>di</strong> metalo ondulato, installati per proteggere i veicoli sotto [1974, p. 12].<br />

Il mondo da patinato e lineare, come la sua Jaguar <strong>di</strong>strutta, si fa pieno <strong>di</strong><br />

segni incomprensibili e brutale, come l’architettura inglese degli anni Cinquanta e<br />

Sessanta, denominata proprio brutalista, dalla<br />

pesantezza plastica del cemento armato. A<br />

questa rigi<strong>di</strong>tà e grevità <strong>di</strong> segni si sono opposte<br />

le utopistiche megastrutture del gruppo<br />

Archigram.<br />

Questo gruppo <strong>di</strong> architetti, operanti in<br />

Inghilterra a partire dagli anni Sessanta, sono da sempre considerati come<br />

l’ultima avanguar<strong>di</strong>a <strong>di</strong> fine secolo. Ispirato da una fede smisurata nel progresso<br />

tecnologico, e nell’illimitatezza delle risorse <strong>di</strong>sponibili, il gruppo Archigram ha<br />

concepito una visione <strong>di</strong> città costruita come monolito, abitate da centinaia <strong>di</strong><br />

migliaia <strong>di</strong> persone 58 . Da sempre fautori <strong>di</strong> un’architettura in continuo movimento<br />

e mutazione, il gruppo ha avuto una grossa influenza sulla tendenza High Tech,<br />

che a partire dal 1977, si è affermata come nuova corrente <strong>di</strong> pensiero. Il merito<br />

dell’Archigram è <strong>di</strong> aver saputo dare leggerezza nel tocco ad un’utopia fondata<br />

sulla cultura pop e sull’ibridazione tra massa, cultura e architettura. I passi<br />

successivi ai sogni <strong>di</strong> Cook e del suo gruppo hanno denotato l’affaticamento <strong>di</strong><br />

questa visione, e la per<strong>di</strong>ta dell’utopistico volo <strong>di</strong> farfalla.<br />

Il 1977 è l’anno dell’inaugurazione del CENTRE GEORGES POMPIDOU a Parigi,<br />

progettato da Renzo Piano e Richard Rogers, ed è l’anno spartiacque tra la<br />

concezione razionalista ed il nuovo concetto ingegneristico del fare architettura 59 .<br />

58 Cfr. Archigram, 1973, op. cit.<br />

59 «Non sono preparato a considerare architetti gente come Renzo Piano o Nouvel o altri ingegneri del genere»:<br />

<strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> Ettore Sottsass in F. Irace, 1998, “2000 & fine secolo. Risposte <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> architetti.”, Abitare<br />

379, p. 59.<br />

54


La tendenza High Tech mette in risalto non solo la struttura dell’e<strong>di</strong>ficio, ma<br />

anche tutte quelle infrastrutture che fin ad ora erano tenute nascoste dal<br />

cemento armato. Questa nuova estetica della tecnologia ha preso poi due<br />

<strong>di</strong>rezioni <strong>di</strong>verse. Da un lato la realizzazione <strong>di</strong> forme appartenenti al mondo<br />

naturale, tramite l’utilizzo della tecnologia, strada intrapresa da Renzo Piano;<br />

dall’altro il revisionismo macchinistico<br />

dell’ingegneria industriale dell’Ottocento, come nel<br />

lavoro <strong>di</strong> Richard Rogers, Jean Nouvel, Norman<br />

Foster.<br />

Nello stupefacente LLOYD’S BUILDING [1978-86],<br />

Richard Rogers ha dato una nuova forma al concetto <strong>di</strong> architettura flessibile: il<br />

suo sembrare un work in progress ne ha fatto non solo un e<strong>di</strong>ficio destabilizzante<br />

dal punto <strong>di</strong> vista visivo, ma anche una vera macchina per lavorare, dal punto <strong>di</strong><br />

vista strutturale. Come nell’architettura High Tech, Blade Runner, il film più<br />

simile ai libri <strong>di</strong> Ballard e alle architetture <strong>di</strong> Rogers, mostra non l’in<strong>di</strong>spensabile,<br />

ma il complementare: è necessario, nel film, integrare la visione con la<br />

rievocazione del passato. L’officina meccanica del LLOYD’S BUILDING si colloca a<br />

metà tra corpo e macchina senziente. Levare lo sguardo verso il verticalismo<br />

spinto all’eccesso delle architetture <strong>di</strong> Rogers è come il tentativo <strong>di</strong> scalata<br />

impossibile <strong>di</strong> Maitland. L’essere farfalla vuol forse <strong>di</strong>re che con il LLOYD’S, corpo<br />

<strong>di</strong> metallo e cemento, si è in parte realizzato quello sfioramento dell’utopia del<br />

gruppo Archigram. Sfiorare, esattamente come un librarsi in volo verso l’alto,<br />

arrampicandosi sulle strutture nude e a vista, come avrebbe fatto Maitland.<br />

55


3<br />

Il Fumetto e lo Spazio<br />

56


3.1 “APPLESEED”: EURALILLE [R. KOOLHAAS, J. NOUVEL, C. DE PORTZAMPARC, K.<br />

SHINOARA, C. VASCONI]<br />

ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE TOTALE PER UN PROGETTO DI “CITTÀ<br />

FUTURA”<br />

Nel 1985 Masamune Shirow pubblica i primi due volumi <strong>di</strong> Appleseed, un manga<br />

fantascientifico destinato a rivoluzionare il concetto <strong>di</strong> sci-fi. La serie, incentrata<br />

su una coppia <strong>di</strong> cyborg, si svolge in un ipotetico futuro post-apocalittico, in una<br />

metropoli <strong>di</strong> nuova generazione, Olympia, costruita completamente ex-novo.<br />

Olympia è caratterizzata dalla monumentalità mostruosa <strong>di</strong> alcune strutture,<br />

destinate ad accogliere migliaia <strong>di</strong> abitanti, secondo un progetto <strong>di</strong> gran<strong>di</strong>osità,<br />

insita nei suoi progettisti. La bigness architecture, termine coniato da Rem<br />

Koolhaas, è il termine <strong>di</strong> paragone più vicino ai mostri urbani <strong>di</strong> Appleseed, e<strong>di</strong>fici<br />

non più solo gran<strong>di</strong>, ma significativi nella loro espansione gigantica.<br />

Lo sprawl urbano è il concetto intorno al quale e’ nato il nuovo centro<br />

urbanistico <strong>di</strong> Euralille. Concepito nel master plan da Rem Koolhaas e realizzato<br />

alla fine degli anni Novanta, Euralille nasce principalmente come snodo per il TGV<br />

e come collegamento, vista la posizione geografica, tra la Francia e il Belgio.<br />

L’innesto <strong>di</strong> nuovi e<strong>di</strong>fici, come il terminal del TGV e tutto lo spazio de<strong>di</strong>cato agli<br />

uffici progettato da un team guidato dallo stesso Koolhaas, toglie la definizione<br />

57


dei confini alla antica Lille, città storica, e la riconfigura come <strong>di</strong>ffusione ed<br />

estensione.<br />

Un terrain vague che si potrebbe rinominare<br />

secondo l’accezione <strong>di</strong> Calvino, città continua,<br />

bisognosa comunque <strong>di</strong> un centro forte,<br />

facilmente riconoscibile. Dato, appunto dalla<br />

torre <strong>di</strong> Portzamparc del CREDIT LYONNAIS. Secondo le stesse parole <strong>di</strong> Koolhaas,<br />

Euralille eludes tra<strong>di</strong>tional analysis […] this is why it is generating confusion, conflict and<br />

contra<strong>di</strong>ction”. […] the <strong>di</strong>scovery of a newtype of urbanism which opposes the concept of the<br />

city as an ordered series of objects; we should be promoting forms which are rarely<br />

expressed and which havo no architectural relation whatsoever with one another [Espace<br />

Croisé, 1996, p. 9].<br />

È chiaro l’intento messianico <strong>di</strong> Koolhaas, il cui aim è certamente quello <strong>di</strong><br />

creare forme nuove non riconoscibili nell’urbanistica tra<strong>di</strong>zionale. Ma la <strong>di</strong>fficoltà<br />

nel citta<strong>di</strong>no è proprio nel riconoscere la stabilità <strong>di</strong> questi luoghi. Euralille è una<br />

città costruita secondo la logica della velocità, data dal treno e dall’automobile,<br />

una <strong>di</strong>spersione <strong>di</strong> senso civico che ritrova il proprio centro negli elementi forti<br />

del centro <strong>di</strong>rezionale.<br />

Così simile a questo concetto è stato recentemente assegnato al gruppo<br />

Citylife, con progetto <strong>di</strong> Libeskind-Ha<strong>di</strong>d-Isozaki-Maggiora, la gara per il nuovo<br />

POLO FIERA DI MILANO. La possibilità <strong>di</strong> erigere un<br />

corpo uniforme che non devastasse la già <strong>di</strong>fforme<br />

area lombarda, è stata eliminata a favore della nuova<br />

cultura dell’imposizione <strong>di</strong> un luogo. Secondo questa<br />

nuova forma <strong>di</strong> progetto, il creare forme così evidenti<br />

da risultare volgari, è l’unico sistema per rendere il terrain vague visibile, infinito<br />

in quanto in<strong>di</strong>menticabile. Nel 1917 Tony Garnier progettava un ideale <strong>di</strong> Città<br />

Industriale fondata sull’equilibrio tra il razionalismo della macchina e il<br />

sentimento della natura. Un luogo in cui il transito tra vecchio e nuovo poteva<br />

definirsi attraverso un passaggio dolce tra vernacolo e modernismo:<br />

58


créer une cité de type nouveau, qui apporte le bien-être, l’hygiène, les avantages des<br />

services publics et même la verdure, au profit d’une société industrielle, la société socialisée<br />

de l’ère industrielle [1917, p. 40].<br />

La funzionalità <strong>di</strong> questi luoghi è invece quella non <strong>di</strong> elemento stanziale e<br />

sicuro, ma <strong>di</strong> passaggio attraverso una città ed un’altra, determinato<br />

dall’estremismo visivo <strong>di</strong> alcune sculture. Gli elementi costitutivi <strong>di</strong> queste città<br />

devono, in virtù della velocità dell’automobile o del treno, imprimersi nella<br />

memoria come opere d’arte, e quin<strong>di</strong> stupire, meravigliare.<br />

La caratterizzazione <strong>di</strong> metropoli continue come Los Angeles e Las Vegas,<br />

<strong>di</strong>ffuse attraverso infiniti quartieri residenziali, si sta <strong>di</strong>ffondendo anche in<br />

Europa, attraverso un gusto irrazionale per la <strong>di</strong>scontinuità. Entrando ad Olympia<br />

o Euralille si interrompe il flusso della campagna e della piccola urbanizzazione.<br />

Significa trovarsi in un contenitore vuoto <strong>di</strong> signficati culturali e umani, ma denso<br />

<strong>di</strong> contenuti vali<strong>di</strong> per chi ha la capacità <strong>di</strong> comprenderne la complessità.<br />

59


3.2 “BLAME!”: GIOVANNI BATTISTA PIRANESI<br />

LA PRIGIONE COME METAFORA DEL CORPO E DELLA STRUTTURA<br />

La rovina ha contribuito alla nascita del paesaggio come genere<br />

pittorico poiché ha contribuito a inquadrare la natura e a creare un<br />

gusto alla moda<br />

60<br />

Franco Speroni [2002]<br />

La scena tragica, palcoscenico nato nel furore estetico del barocco, e<br />

organizzatosi semanticamente nel settecento, rappresentò per Giovanni Battista<br />

Piranesi un punto <strong>di</strong> partenza da cui sviluppare i suoi caprices. Architetture<br />

fantastiche che si <strong>di</strong>spiegarono secondo una logica unica nel suo genere, capace<br />

<strong>di</strong> passare dal concetto <strong>di</strong> immaginazione a quello <strong>di</strong> immaginario. Secondo<br />

Abruzzese l’immaginario è legato in modo imprescin<strong>di</strong>bile a quello <strong>di</strong> costruzione<br />

<strong>di</strong> senso della metropoli 60 , e le carceri piranesiane possono essere lette seguendo<br />

un percorso nel corpo sotterraneo della città.<br />

Le Carceri [1749] non esistono se non<br />

nella loro rappresentazione, rovina tragica ed<br />

eccessiva <strong>di</strong> un’idea <strong>di</strong> città <strong>di</strong>ssolta. La<br />

scarnificazione degli antri umi<strong>di</strong>, residui <strong>di</strong><br />

un’epoca non appartenente a questa realtà,<br />

<strong>di</strong>ventano corpi deprivati <strong>di</strong> luce, vita e<br />

colore. Il gusto ecessivo <strong>di</strong> Piranesi per la costruzione formale e il dettaglio del<br />

costruito ha influenzato più <strong>di</strong> una visione successiva.<br />

60 A. Abruzzese, 1973, Forme estetiche e società <strong>di</strong> massa, Marsilio, Venezia.


Nel nero e [poco] bianco <strong>di</strong> un futuro fantascientifico, Tsutomu Nihei sceglie <strong>di</strong><br />

ambientare il suo fumetto Blame! [1998-2004] tra false prospettive e scale senza<br />

approdo. L’influenza delle Carceri nel <strong>di</strong>segno dell’autore giapponese è notevole e<br />

richiama altri significati, nascosti nei <strong>di</strong>segni originari. Se in Piranesi i corpi dei<br />

carcerati erano minuscoli e senza forma tra gigantesche macchine <strong>di</strong> pietra, in<br />

Nihei <strong>di</strong>ventano scheletri impazziti, circondati da un buio che ingoia. Sangue,<br />

lacerazioni, umori corporali sono gli unici segnali <strong>di</strong> vita della piccola gente che<br />

affolla questo fumetto, in una storia il cui senso è legato unicamente al<br />

passaggio, come in un videogame, al livello superiore e più complesso.<br />

Parafrasando Robert Venturi e le sue complessità e contrad<strong>di</strong>zioni in<br />

architettura 61 , il nodo <strong>di</strong> Blame! non si scioglie fino all’ultimo, costringendo il<br />

lettore ad una <strong>di</strong>namica visiva sempre più indecifrabile. Le normali linee <strong>di</strong> lettura<br />

seguono il filo della china <strong>di</strong> Nihei, un groviglio inestrcabile <strong>di</strong> tubi, lacci,<br />

prospettive cieche.<br />

La densità <strong>di</strong> segno <strong>di</strong> Piranesi era finalizzata alla [non] visione <strong>di</strong> una città<br />

infinita. Come scrive Rullani «in essa il massimo dell’entropia possibile ha<br />

<strong>di</strong>strutto le vecchie forme, ma ha creato spazio per i flussi, per i movimenti, per il<br />

<strong>di</strong>stacco che rende mobili» 62 . Questa visione <strong>di</strong> un passato che non esiste ma che<br />

è comunque nostalgia, <strong>di</strong>spega i propri rami secchi nella città panico descritta da<br />

Virilio. Il filosofo parla <strong>di</strong> carcerazione del progresso 63 , riferendosi alla gabbia<br />

della globalizzazione. Una simile visione può essere associata ai corpi decostruiti<br />

e postumani del manga, figure esili e scarne come una scultura <strong>di</strong> Giacometti,<br />

avvolte da un Carcere infinito chiamato Mondo. Quando la sensibilità si fa<br />

perturbante irrompe sulla scena <strong>di</strong> questo teatro <strong>di</strong>segnato la geografia del corpo<br />

61<br />

R. Venturi, 1966, Complessità e contrad<strong>di</strong>zione in architettura, Dedalo, Bari 1980.<br />

62<br />

E. Rullani, 2004, “La città infinita: spazio e trama della modernità riflessiva”, in A. Abruzzese, A. Bonomi<br />

[ed.], La città infinita, Bruno Mondadori, Milano, p. 71.<br />

63<br />

P. Virilio, 2004, Città panico, Raffaello Cortina E<strong>di</strong>tore, Milano 2004, p. 61.<br />

61


<strong>di</strong> Perniola 64 .<br />

Anti-mimetici per eccellenza, i corpi <strong>di</strong> Blame! si configurano come svuotati <strong>di</strong><br />

umanità, carni putride ed esibite la cui funzione si esplica solo attraverso una<br />

violenza fuori controllo. La pretesa <strong>di</strong> Nihei, come <strong>di</strong> Piranesi, non è quella <strong>di</strong><br />

imitare la realtà, ma <strong>di</strong> sviluppare un <strong>di</strong>scorso sull’organcità dei luoghi. Le Carceri<br />

e la Città <strong>di</strong> Blame! sono vive del sangue dei morti e del respiro dei muri umi<strong>di</strong>. Il<br />

concetto <strong>di</strong> transito 65 <strong>di</strong> Perniola è in questo caso il passaggio dal corporeo al<br />

fuori da sé, dal naturale al triviale, ai limiti dell’eccesso. Il sovraccarico visivo è<br />

ancora denso della cultura barocca, che concentrava lo sguardo su un punto <strong>di</strong><br />

fuga. Le prospettive dall’alto [Blame!] e dal basso [Carceri], tendono ad<br />

ingigantire le architetture schiacciando i corpi, mortificandoli. Le volte, gli archi<br />

ed i ponti sono veri e propri passages benjaminiani tra la vita della città e la<br />

morte degli inumani, dei tramiti per l’espansione virale ed ipertrofica della<br />

Metropoli.<br />

Una città che somiglia sempre più ad una prigione pregna delle sofferenze dei<br />

propri citta<strong>di</strong>ni/carcerati.<br />

In pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso<br />

o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. È scomparso il corpo<br />

come bersaglio della repressione penale [Foucault, 1975, p. 4].<br />

E dallo spettacolo della morte descritto da Foucault si è avuto il transito verso<br />

l’esibizione della mortalità nel costruito, intendo con questo termine identificare<br />

una tipologia architettonica repressiva dell’iniziale spirito <strong>di</strong> bellezza e gusto.<br />

I mostri piranesiani furono ripresi ad esempio in Italia da Armando Brasini, con<br />

progetti e costruzioni che non si riappellavano ad una sognante megalomania ma<br />

ad una concezione malata dell’esplosione della metropoli. Brasini <strong>di</strong>segnò mostri<br />

soverchianti ogni possibile figura umana, quasi sculture fuori scala rispetto allo<br />

spettatore. Nel progetto del 1956 per il PONTE SULLO STRETTO, il naturale<br />

64 Cfr. M. Perniola, 1994, Il sex appeal dell’inorganico, Einau<strong>di</strong>, Torino.<br />

65 M. Perniola, 1998, Transiti. Filosofia e perversione, Castelvecchi, Roma.<br />

62


passaggio dalla terra alla sospensione sull’acqua è stravolto da una pesante<br />

struttura simile ad una torre, vera e propria rimembranza delle pietre<br />

piranesiane.<br />

Simili architetture, da Piranesi a Brasini, passando per i costruttivisti russi fino<br />

ad arrivare alla città <strong>di</strong> Blame! sono accomunate dall’allargamento dei volumi,<br />

invasivi ed invadenti, che <strong>di</strong>vorano letteralmente gli spazi vuoti. Gli attori <strong>di</strong><br />

questa scena recitano su un palcoscenico in cui si ritrovano vittime delle strutture<br />

carnefici, schiacciati dal gelo <strong>di</strong> una città che li respinge. Queste prigioni, vere e<br />

proprie macchine desideranti 66 , secondo l’accezione <strong>di</strong> Deleuze e Guattarì, sono<br />

pietre eterne concentrano su <strong>di</strong> sé lo sguardo, nutrendosi dello spirito <strong>di</strong> chi le<br />

osserva e non può viverle se non subendole.<br />

66<br />

Cfr. G. Deleuze, F. Guattarì, 1971, Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia, Ombre Corte, Milano<br />

2004.<br />

63


3.3 “GHOST IN THE SHELL”: M. FUKSAS E TOYO ITO<br />

NUOVI SIGNIFICATI NELLA METROPOLI MODERNA: VERTIGINE E<br />

TRASPARENZA<br />

64<br />

Delle noti <strong>di</strong> luce che l’architettura <strong>di</strong> vetro ci<br />

procurerà non possiamo tuttavia <strong>di</strong>re nient’altro se<br />

non che esse saranno davvero «indescrivibili»<br />

Paul Scheerbart [1914]<br />

Paul Scheerbart pubblica nel 1914 Architettura <strong>di</strong> vetro, un saggio visionario<br />

destinato a cambiare la visione dell’architettura moderna. Influenzato dalle teorie<br />

<strong>di</strong> Bruno Taut e dalla sua Alpine Arkitektur 67 , Scheerbart si fa promotore <strong>di</strong> un<br />

nuovo modo <strong>di</strong> intendere la modernità della metropoli. Il gusto per il ferro e il<br />

vetro <strong>di</strong> luoghi come il pa<strong>di</strong>glione inglese dell’Esposizione Universale <strong>di</strong> Londra,<br />

che l’architetto-scrittore vede come simbolo <strong>di</strong> progresso, ne rivelano la grande<br />

preveggenza in fatto <strong>di</strong> utilizzo <strong>di</strong> materiali.<br />

Le descrizioni <strong>di</strong> queste architetture <strong>di</strong> luce sono state fonte <strong>di</strong> ispirazione ad<br />

esempio, per il GRATTACIELO DI VETRO <strong>di</strong> Mies, progetto mai portato a termine, ma<br />

<strong>di</strong>venuto nel frattempo uno standard per le costruzioni americane degli anni<br />

Trenta. L’evoluzione tecnologica dei nuovi materiali <strong>di</strong>venta il fulcro delle teorie<br />

miesiane, il ferro sostituito dal cemento, fino all’arrivo della deriva brutalista<br />

degli anni Cinquanta. Nella sua forma più pura, il ferro può essere associato<br />

all’età dell’ingranaggio industriale, abbinato al vetro che cominciava a comparire<br />

per le strade, con le prime illuminazioni notturne per le vie <strong>di</strong> Parigi e <strong>di</strong> Londra.<br />

67 B. Taut, 1917, op. cit.


Contrariamente all’ottica dadaista il valore e la funzione dell’architettura<br />

convivono in uno scambio reciproco <strong>di</strong> ruoli e la forma assume le sembianze<br />

ibride della virtualità. Non astrazione pura, architettura <strong>di</strong>segnata nelle<br />

multiformi apparenze del C.A.D., ma immersione suggestiva nei meandri della<br />

mente dell’architetto, libero <strong>di</strong> costruire volumi e volute senza le costrizioni delle<br />

infrastrutture. Il vissuto della metropoli contemporanea americana si identifica in<br />

questa simbiosi <strong>di</strong> forma e funzione: la cultura <strong>di</strong>gitale entra a far parte della vita<br />

<strong>di</strong> ogni giorno e l’evanescenza, l’incorporeità del bit è il punto <strong>di</strong> partenza per<br />

questo nuovo modo <strong>di</strong> intendere un’architettura evocatrice <strong>di</strong> altre realtà anziché<br />

pura astrazione formale.<br />

La simulazione, termine ere<strong>di</strong>tato dall’estetica postmoderna, <strong>di</strong>venta il nuovo<br />

credo per tutta una schiera <strong>di</strong> giovani architetti: partendo dagli assunti<br />

dell’architettura <strong>di</strong> vetro dei padri del Movimento Moderno, come Walter Gropius<br />

e Mies Van Der Rohe, questi artisti del traslucido creano una nuova commistione<br />

tra la struttura razionale del chip informatico ed una superficie vitrea,<br />

trasparente ma allo stesso tempo priva <strong>di</strong> contorni pienamente definiti.<br />

La simulazione ed il flusso [<strong>di</strong> byte] sono quin<strong>di</strong> caratteristiche appartenenti<br />

alla scienza informatica, che architetti contemporanei come Toyo Ito, Rem<br />

Koolhaas, Massimiliano Fuksas interpretano in modo <strong>di</strong>fferente, inserendoli nei<br />

contesti più vari. Rem Koolhaas opera nel contesto olandese seguendo la strada<br />

del riassemblaggio dei volumi secondo una precisa logica del caos: l’instabilità<br />

apparente delle sue strutture nasce con l’intento <strong>di</strong> creare un movimento<br />

continuo <strong>di</strong> corpi e <strong>di</strong> cose, come in un loop informatico si ha quel circolo infinito<br />

<strong>di</strong> informazioni, creando complessità e non <strong>di</strong>sgregazione. Una complessità solo<br />

apparentemente superficiale: i vuoti interni a queste scatole trasparenti riescono<br />

a creare una densità <strong>di</strong> significato ed un’interazione tra le parti ormai raramente<br />

riscontrabile nella metropoli vissuta all’esterno. Il flusso <strong>di</strong> energia osservabile in<br />

65


molti dei progetti <strong>di</strong> Ito è anch’esso <strong>di</strong> chiara derivazione informatica. Inserendo<br />

delle variabili che influenzano l’apparenza dell’e<strong>di</strong>ficio a seconda dell’ora o del<br />

tempo atmosferico, Ito sceglie la strada della trasparenza totale: le persone, gli<br />

oggetti contenuti nei suoi progetti sono sempre osservabili dall’esterno, secondo<br />

una precisa scelta <strong>di</strong> smaterializzazione della superficie. Ecco che quin<strong>di</strong> tanto i<br />

musei quanto le abitazioni <strong>di</strong>ventano dei nuovi piccoli mon<strong>di</strong> aggreganti che<br />

permettono all’in<strong>di</strong>viduo <strong>di</strong> interagire con l’ambiente circostante.<br />

Se la casa […], dev’essere soffice e flessibile e non rigida e densa, sarà, allora, concepita<br />

come un vestito elettronico, indossando il quale le persone potranno abitare la natura<br />

virtuale della metropoli <strong>di</strong>ventando «come Tarzan nella foresta dei me<strong>di</strong>a». Affascinato dalla<br />

natura, Ito considera l’elettronica come l’energia in grado <strong>di</strong> reintegrare l’uomo<br />

nell’ambiente, nel fluire della vita [Prestinenza Puglisi 1998, p.23].<br />

La percezione assume il valore <strong>di</strong> senso ottuso: la forma e l’essenza<br />

dell’oggetto architettonico varia secondo il<br />

momento nel quale viene recepito dallo<br />

spettatore/attore. Così è anche per Fuksas<br />

che nel suo progetto per il CENTRO CONGRESSI<br />

ITALIA EUR metabolizza il sogno attraverso<br />

nuvole interne a teche trasparenti: la compenetrazione tra ambiente<br />

metropolitano ed e<strong>di</strong>ficio eccezionale si realizza grazie alla sua abilità nel saper<br />

cogliere la rapida evoluzione dell’informazione.<br />

L’involucro <strong>di</strong>viene così un vetro attraverso il quale osservare i mutamenti<br />

interni del corpo centrale, che sia una nuvola sospesa nell’aria <strong>di</strong> un museo o<br />

delle onde che solcano i soffitti <strong>di</strong> uno shopping mall, secondo gli insegnamenti<br />

cari a Scheerbart. Il lavoro <strong>di</strong> questi architetti è quello <strong>di</strong> sottrarre gli elementi<br />

base <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio [l’opacità della superficie esterna, le articolazioni interne alla<br />

struttura] per favorire un completamento della visione da parte dell’astante.<br />

Non comunque un’architettura-spettacolo, destinata allo stupore, ma un nuovo<br />

modo <strong>di</strong> favorire l’integrazione ormai <strong>di</strong>fficile <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio con la metropoli che lo<br />

ospita. Sempre più spesso infatti si è assistito ad e<strong>di</strong>ficazioni perturbanti in<br />

66


quanto provocatrici <strong>di</strong> uno scollamento tra la realtà quoti<strong>di</strong>ana e l’eccezionalità<br />

dell’evento. Proprio questa necessità <strong>di</strong> fuga dalla banalizzazione del reale ha<br />

provocato negli anni precedenti l’epoca postmoderna una ricerca forzata nella<br />

gran<strong>di</strong>osità, ovvero in quelle forme architettoniche definite nel contesto italiano<br />

come megastrutture, ere<strong>di</strong> delle teorie funzionaliste <strong>di</strong> Le Corbusier spinte<br />

all’estremo.<br />

Con il già citato progetto per il CENTRO CONGRESSI ITALIA EUR, Fuksas si è posto<br />

in una posizione decisamente alternativa alla concezione <strong>di</strong> spazio pubblico<br />

chiuso. Raro esempio <strong>di</strong> architettura slegata dalle correnti artistiche, impensabile<br />

in un territorio come quello romano, in cui si riesce raramente a trovare una via<br />

<strong>di</strong> mezzo tra la conservazione ad ogni costo ed il facile sensazionalismo, il<br />

parallelepipedo immaginato dall’architetto romano è scenografia pura, ma senza<br />

la pretesa <strong>di</strong> violentare ideologicamente il fruitore dello spazio. Non rimane<br />

quin<strong>di</strong> che adeguarsi, come ha fatto il cinema, all’idea <strong>di</strong> appartenere ad un<br />

terrain vague, con i suoi vuoti <strong>di</strong>simpegni, e con la sua incertezza formale.<br />

Un’indeterminatezza che sembra trovare nella memoria del passato, la sua unica<br />

via <strong>di</strong> fuga: solo tramite il recupero si può alimentare il nuovo. Un recupero non<br />

fine a se stesso [<strong>di</strong> impronta postmoderna], ma basato sul fascino del passato<br />

più che sul suo aspetto formale, ed aperto alle nuove istanze tecnologiche, <strong>di</strong><br />

chiara derivazione informatica, della metropoli.<br />

Fuksas pone <strong>di</strong> continuo l’accento sulla <strong>di</strong>stinzione tra metropoli e megalopoli,<br />

il cui punto principale è nella <strong>di</strong>fferenza nella crescita urbana e tecnologica. La<br />

megalopoli contemporanea è più afflitta da problemi <strong>di</strong> noma<strong>di</strong>smo culturale <strong>di</strong><br />

quanto non lo sia una metropoli moderna, che trova comunque il suo nodo<br />

nell’essere policentrica. Il concetto <strong>di</strong> urban sprawl, in questo caso viene<br />

giustamente affidato alle <strong>di</strong>stese <strong>di</strong> Los Angeles, così simili, quin<strong>di</strong>, come fasci <strong>di</strong><br />

luci intermittenti ai circuiti <strong>di</strong> un apparecchio elettronico. La sostanziale <strong>di</strong>fferenza<br />

67


tra città elettronica e città elettrica è data dal tempo. Tempo moderno che<br />

definisce l’appartenenza dell’elettricità ai primi del Novecento, confinandola ai<br />

boulevard parigini illuminati e Tempo della contemporaneità, o secondo<br />

Abruzzese del postumano, che definisce i labili confini della città elettronica e<br />

informatica.<br />

Il modello <strong>di</strong> visione più simile a quello descritto dalle parole <strong>di</strong> Fuksas e Ito<br />

proviene dalla sci-fi spinta <strong>di</strong> Ghost in the Shell [1991], manga <strong>di</strong> Masamune<br />

Shirow. Il fumetto rappresenta per vie affatto narrative la <strong>di</strong>ffusione dello spirito<br />

della protagonista in una megalopoli orientale dopo la morte del suo corpo<br />

artificiale. Diffusione, proprio perché alimentata dalla corrente informatica e<br />

destinata a defluire come liquido attraverso le reti. La protagonista Motoko è il<br />

vero corpo nomade descritto da Pierre Lévy ne L’intelligenza collettiva: «Lo<br />

spazio del nuovo noma<strong>di</strong>smo non è né il territorio geografico né quello delle<br />

istituzioni e degli stati, ma uno spazio invisibile delle conoscenze, dei saperi,<br />

delle potenzialità <strong>di</strong> pensiero in seno alle quali si <strong>di</strong>schiudono e mutano le qualità<br />

d’essere, le maniere <strong>di</strong> fare la società» 68 . Il filosofo francese interpreta pur<br />

sempre il noma<strong>di</strong>smo come legame tra corpo e natura, territorio [seppur solo<br />

conoscitivo]. Motoko è invece trasparente per la società, così come traslucida è la<br />

pelle della protagonista.<br />

Il suo corpo cibernetico è la rappresentazione del caos sublime cui fa cenno<br />

Fuksas nei suoi scritti, struttura anarchica perché priva <strong>di</strong> padroni, leggi,<br />

referenti umani, e struttura trasparente deprivata delle sovrastrutture corporee.<br />

Il suo corpo è lo scheletro ideale <strong>di</strong> Scheerbart, ferro e vetro sostituiti da acciaio<br />

e fibre ottiche. La capacità <strong>di</strong> questi cyborg <strong>di</strong> adattarsi all’ambiente e alle<br />

circostanze li rende simili alla mutevole TORRE DEI VENTI <strong>di</strong> Ito e alle nuvole create<br />

da Fuksas in questi ultimi anni. Toyo Ito ha voluto, con il suo progetto <strong>di</strong>mostrare<br />

68 P. Levy, 1994, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996, p. 18.<br />

68


l’evanescenza e la immaterialità del contesto ambientale. Fuksas, partendo dal<br />

planare delle nuvole <strong>di</strong> Utzon 69 è arrivato a plasmare<br />

l’inconsistenza della metropoli in movimento.<br />

Questi passaggi, tra realtà immaginate e immagini <strong>di</strong> realtà<br />

impossibili sono state portate al cinema dalla trilogia <strong>di</strong> Matrix<br />

[1999-2003]. La verità nascosta del Matrix [viviamo<br />

veramente, oppure è un’illusione creata per controllarci?] si<br />

trova nella sua essenza: ha una consistenza nulla, sfuggente, come quando i<br />

personaggi del film trovano l’uscita e si <strong>di</strong>ssolvono. Più approfon<strong>di</strong>tamente il film<br />

può essere stu<strong>di</strong>ato lungo due <strong>di</strong>fferenti percorsi.<br />

Da un lato, tramite una riflessione sulle <strong>di</strong>rezioni del nuovo cinema <strong>di</strong><br />

fantascienza e su come stia progressivamente sparendo uno dei suoi topoi, la<br />

Metropoli del Futuro, in favore <strong>di</strong> una più ampia e instabile architettura mentale.<br />

Dall’altro analizzando le corrispondenze tra la sua struttura a scatole cinesi,<br />

mettendolo in relazione con l’inesistenza urbana <strong>di</strong> Las Vegas, che presenta lo<br />

stesso gioco citazionista.<br />

Come in Alice nel paese delle meravigle 70 , in Matrix si seguono le<br />

peregrinazioni <strong>di</strong> una persona in un mondo fittizio, assurdo, nel quale le immagini<br />

si riformulano continuamente secondo il percorso che si segue.<br />

Il protagonista Neo, esattamente alla maniera <strong>di</strong> un videogioco, è guidato da<br />

una voce [il giocatore] verso le uscite possibili, attraverso un sentiero <strong>di</strong> guerra<br />

che sembra tratto dal videogioco Metal Gear Solid 71 . Nel mondo <strong>di</strong> Matrix, come<br />

in quello <strong>di</strong> Ghost in the Shell, il “luogo” non esiste: è un’immagine mentale,<br />

come la stanza d’allenamento <strong>di</strong> Morpheus e Neo, un “nessun posto” dove si<br />

ritrova Neo all’inizio del suo viaggio [una stanza bianca]. La presenza <strong>di</strong> un<br />

69<br />

J. Utzon, 1962, Platforms and Plateau, Sidney.<br />

70<br />

Non a caso il film viene citato <strong>di</strong>rettamente nel momento in cui si vuole attirare il protagonista nell’altra<br />

<strong>di</strong>mensione/vita.<br />

71<br />

Oggetto videolu<strong>di</strong>co <strong>di</strong> culto grazie ad un intreccio complesso (trama spionistica, storia che cambia secondo le<br />

scelte effettuate, notevole approfon<strong>di</strong>mento psicologico dei protagonisti) e ad un meccanismo <strong>di</strong> gioco, che<br />

ribalta lo schema classico dei passaggi obbligati tra i vari livelli <strong>di</strong> gioco.<br />

69


vecchio televisore in<strong>di</strong>ca che la realtà la costruiamo noi con il nostro sguardo, ma<br />

non è detto che sia tutto vero: come in The Truman Show, siamo noi ora in<br />

ostaggio dei nostri occhi. Il luogo dove viveva Truman Burbank aveva però<br />

un’importanza fondamentale per il corretto svolgimento della storia, mentre nel<br />

loro film, i fratelli Wachowski hanno scelto un’anonima metropoli in cerca <strong>di</strong><br />

caratterizzazione come Sydney 72 . Nonostante i suoi sforzi, la metropoli<br />

australiana rimane un perfetto esempio <strong>di</strong> città incompiuta e banale e<br />

sicuramente è stata preferita alla più familiare New York per rappresentare il<br />

para<strong>di</strong>gma della città contemporanea.<br />

L’interesse vero degli autori non risiede, infatti, nella rappresentazione della<br />

metropoli del futuro, ma nelle architetture mentali che si <strong>di</strong>spiegano velocemente<br />

durante il film. La stanza bianca, l’interfaccia <strong>di</strong> Matrix, è la vera location: un<br />

posto che possa mo<strong>di</strong>ficarsi seguendo le linee <strong>di</strong> pensiero delle persone che vi si<br />

muovono. Una sorta <strong>di</strong> bolla che si adatta al flusso mentale, e che respinge i<br />

corpi che ne colpiscono le pareti come una stanza imbottita.<br />

Non è più importante in una <strong>di</strong>mensione simile lo spostamento lineare, da una<br />

stanza ad un’altra, da un luogo ad un altro ancora: le strade servono unicamente<br />

da nastri trasportatori che conducono verso una nuova uscita. I personaggi si<br />

muovono dalla cabina telefonica alla nave come in un ipertesto, e se devono<br />

spostarsi da un palazzo ad un altro preferiscono volare, quasi che il camminare<br />

sia <strong>di</strong>ventato la negazione del movimento. Una derivazione tipicamente da<br />

videogioco, quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong> cui si ritrova la struttura nel continuo entrare ed uscire, da<br />

un livello ad un altro: la stanza dove inizialmente si rifugia Trinity, è la stessa<br />

dalla quale dovrebbe uscire Neo alla fine del film.<br />

72<br />

Ovviamente l’OPERA HOUSE <strong>di</strong> Jørn Utzon, l’unico e<strong>di</strong>ficio che conferisca a Sydney il titolo <strong>di</strong> “luogo” non è mai<br />

inquadrata.<br />

70


Come in Metal Gear Solid la verticalizzazione dei livelli <strong>di</strong> gioco [facile/<strong>di</strong>fficile,<br />

inferiore/superiore] viene eliminata in favore della circolarità dei passaggi, così in<br />

Matrix i passaggi <strong>di</strong> livello sono co<strong>di</strong>ficati da luoghi precisi, come le cabine<br />

telefoniche. La singolarità <strong>di</strong> una simile scelta è da rintracciare nell’essenza<br />

stessa del film: la comunicazione è alla base dell’intreccio, ma non si risolve nella<br />

banalizzazione <strong>di</strong> The Net [1995], dove la vita della protagonista veniva<br />

sconvolta dalla presenza invasiva/invadente della Rete che ne annullava<br />

inverosimilmente l’identità. È la comunicazione cellulare che mette in luce la<br />

necessità [a volte indesiderata] <strong>di</strong> essere sempre rintracciabili. Il lato oscuro è<br />

dato proprio dall’onnipresenza ed onniscienza della rete telefonica, ancora più<br />

che dalla Rete, che permette il passaggio tanto al para<strong>di</strong>so, se si riesce a fuggire,<br />

quanto all’inferno, se si è rintracciati.<br />

La città <strong>di</strong>gitale <strong>di</strong> Nicholas Negroponte <strong>di</strong>venta in questo caso soprattutto una<br />

città avvolta dalle spire invisibili della rete cellulare, e si rivela <strong>di</strong>gitale al<br />

momento della Rivelazione per Neo: quando, in pratica, comincia a vedere la<br />

struttura originaria del Matrix, una serilità cadente <strong>di</strong> numeri, invece della<br />

copertura dell’interfaccia. Nel mettere in scena la <strong>di</strong>gitalizzazione del mondo<br />

contemporaneo, i fratelli Wachowski hanno trovato un sicuro punto <strong>di</strong> riferimento<br />

nel film tratto dal manga Ghost in the Shell, l’unico ad aver messo in scena, in<br />

maniera adulta e non ingenua, il problema della comunicazione interpersonale<br />

avanzata: non più attraverso telefoni, computer e trasmettitori, ma tramite un<br />

flusso continuato del pensiero. L’omaggio degli autori <strong>di</strong> Matrix è palese fin dai<br />

titoli <strong>di</strong> testa, una cascata <strong>di</strong> numeri verde acido in una schermata <strong>di</strong> computer, e<br />

continua nella [ri]nascita <strong>di</strong> Neo, ambientata nello stesso liquido amniotico del<br />

Maggiore Kusanagi, la protagonista <strong>di</strong> Ghost in the Shell. La verità, sembrano<br />

voler <strong>di</strong>re i registi, è fittizia, come l’ambiente che ci circonda, e solo le macchine<br />

senzienti, come già in Ghost in the Shell, hanno il potere <strong>di</strong> ridurre la realtà ad<br />

71


un’astratta banalizzazione.<br />

L’idea che un cervello cibernetico possa autonomamente generare uno spirito<br />

– ossia un’anima senziente – mette in <strong>di</strong>scussione non solo la necessità, ma<br />

ad<strong>di</strong>rittura l’esistenza del genere umano. L’uomo, nella prospettiva <strong>di</strong> Shirow,<br />

<strong>di</strong>venta un accessorio che funge unicamente da veicolo; nella mente dei<br />

Wachowski serve ad<strong>di</strong>rittura da cibo agli Esseri Superiori.<br />

Il Maggiore Kusanagi, uno spirito dotato <strong>di</strong> memoria in un guscio <strong>di</strong> titanio,<br />

avverte la necessità <strong>di</strong> espandersi, si sente prigioneria nei limiti del proprio<br />

corpo. “E ora dove andrà questo essere appena nato? … La Rete è vasta e<br />

infinita”, <strong>di</strong>ce il Maggiore, non appena rinata sotto nuove e più libere spoglie,<br />

svincolata da ogni legame terreno. La trasparenza del suo corpo <strong>di</strong>venta effettiva<br />

nell’espansione nello sprawl urbano, e acquista significato proprio nella sua<br />

<strong>di</strong>versità e mutabilità. Gli elementi progettati da Fuksas e Ito, in quanto corpi<br />

mobili allo sguardo, sono quanto <strong>di</strong> più simile si possa trovare nel cinema e<br />

fumetto <strong>di</strong> fantascienza.<br />

72


POSTILLA<br />

L’Immaginario <strong>di</strong> chi ha scritto questo lavoro è frutto non solo della visione <strong>di</strong> tanti film e<br />

letture in solitario, ma anche del confronto <strong>di</strong>alettico con chi, in questi anni ha con<strong>di</strong>viso<br />

con me la passione e lo stu<strong>di</strong>o. La passione per lo stu<strong>di</strong>o. Se quello che noi siamo è<br />

anche - e soprattutto - una costruzione sociale definita dal nostro rapporto con l’esterno,<br />

in un certo senso si potrebbe determinare una piccola civitas, costituita da menti tanto<br />

<strong>di</strong>verse quanto affini. Evgenij Vlá<strong>di</strong>mirovic Irikovskij, Kabiria Kotero, Man-Ah-Tek,<br />

Calogero Mascelloni, Ivano Merz, Jorge Santiago du Rinassimiento, Klaus Maria<br />

Shaubenburg e Axel fanno parte <strong>di</strong> una sezione <strong>di</strong> questa comunità poliedrica e<br />

stimolante.<br />

Zia rrose, la orsa, il cupo, lysandra, lo psikiatra, lefty e gloucester, insieme ad altre entità<br />

virtuose e traslucide hanno bucato i miei sche[r]mi con le loro visioni iperreali, pulsanti e<br />

vive. Desideranti.<br />

I giovani del Gotham, gli A<strong>di</strong>ni e soprattutto i Maestri - Sergio e Albert, Gino e Stefano –<br />

per sempre nel mio cuore.<br />

73


INDICE FIGURE<br />

Pag. 9 - Tony Garnier, Cité industrielle, 1917<br />

Pag. 10 - E. Kettelhut, Città vista dall’alto con Torre, Metropolis, 1927<br />

Pag. 12 – Hans Poelzig, Grosses Shauspielhaus, 1919<br />

Pag. 27 - Howard Roark [Gary Cooper] in La fonte meravigliosa, 1949<br />

Pag. 29 – “Enright Buil<strong>di</strong>ng” in La fonte meravigliosa, 1949<br />

Pag. 30 – Edward Carrere, bozzetto <strong>di</strong> residenza privata, La fonte meravigliosa, 1949<br />

Pag. 32 - Ellsworth Toohey mostra i progetti <strong>di</strong> Peter Keating, La fonte meravigliosa,<br />

1949<br />

Pag. 35 – Anton Furst, bozzetto per Batman, 1989<br />

Pag. 36 – Shin Takamatsu, The ARK, 1981<br />

Pag. 42 - Seahaven, The Truman Show, 1998<br />

Pag. 43 – Casa Krier, Seaside, Florida, 1987<br />

Pag. 47 – Aldo Rossi, bozzetto per il Teatro del Mondo, 1980<br />

Pag. 48 - Aldo Rossi, il Teatro del Mondo, 1980<br />

Pag. 50 – Frank O. Ghery, Guggenheim Museum, 1997<br />

Pag. 53 - Frank O. Ghery, Berlin Bank, 2001<br />

Pag. 53 – Richard Roger, Lloyd’s Buil<strong>di</strong>ng, 1986<br />

Pag. 54 – Peter Cook, Plug-in City, 1964<br />

Pag. 55 – Rogers, Piano, Franchini, Centre George Pompidou, 1977<br />

Pag. 57 – Masamune Shirow, Appleseed, 1985<br />

Pag. 58 – Business Center, Euralille, 1994<br />

Pag. 58 – Libeskind, Ha<strong>di</strong>d, Isozaki, Maggiora, progetto per il Polo Fiera <strong>di</strong> Milano, 2005<br />

Pag. 60 – Tsutomu Nihei, Blame!, 2004<br />

Pag. 60 – Giovanni B. Piranesi, Le carceri, 1749<br />

Pag. 64 – Msamune Shirow, Ghost in the Shell, 1991<br />

Pag. 66 – Massimiliano Fuksas, progetto per il Centro Congressi Italia Eur, 1999<br />

pag. 69 – Toyo Ito, Torre dei Venti, 1986<br />

74


FILMOGRAFIA<br />

1920 GENUINE<br />

Regia: Robert Wiene<br />

Fotografia: Willy Hameister<br />

Scenografia: César Klein<br />

1920 DER GOLEM [Il Golem]<br />

Regia: Paul Wegener<br />

Fotografia: Karl Freund<br />

Scenografia: Hans Poelzig<br />

1920 DAS KABINETT DES DR. CALIGARI [Il gabinetto del dottor Caligari]<br />

Regia: Robert Wiene<br />

Fotografia: Willy Hameister<br />

Scenografia: Walter Reinmann, Walter Röhrig, Hermann Warm<br />

1923 SAFETY LAST [Preferisco l’ascensore]<br />

Regia: Fred Newmeyer, Sam Taylor<br />

Fotografia: Walter Lun<strong>di</strong>n<br />

Scenografia: Fred Guiol<br />

1924 DIE NIBELUNGEN [I Nibelunghi]<br />

Regia: Fritz Lang<br />

Fotografia: Carl Hoffman, Günther Rittau<br />

Scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Vollbrecht<br />

1926 METROPOLIS<br />

Regia: Fritz Lang<br />

Fotografia: Karl Freund, Günther Rittau<br />

Scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Vollbrecht<br />

1927 UNDERWORLD [Le notti <strong>di</strong> Chicago]<br />

Regia: Josef von Sternberg<br />

Fotografia: Bert Glennon<br />

Scenografia: Hans Dreier<br />

1928 THE CROWD [La folla]<br />

75


Regia: King Vidor<br />

Fotografia: Henry Sharp<br />

1930 JUST IMAGINE<br />

Regia: David Butler<br />

Scenografia: Stephen Gossom<br />

1930 SCARFACE, SHAME OF A NATION [Scarface]<br />

Regia: Howard Hawks<br />

Fotografia: Lee Garmes, L.William O’Connell<br />

Scenografia: Harry Olivier<br />

1931 CITY STREETS [Le vie della città]<br />

Regia: Rouben Mamoulian<br />

Fotografia: Lee Garmes<br />

1931 STREET SCENE [Scena <strong>di</strong> strada]<br />

Regia: King Vidor<br />

Fotografia: Walter Barnes<br />

1933 KING KONG<br />

Regia: Ernest B. Schoedsack<br />

Fotografia: Edward Linden<br />

Scenografia: Byron L. Crabbe, Mario Larrinaga<br />

1936 THINGS TO COME [La vita futura – Nel 2000 guerra o pace]<br />

Regia: William Cameron Diaz<br />

Fotografia: George Périnal<br />

Scenografia: Vincent Korda<br />

1937 DEAD END [Strada sbarrata]<br />

Regia: William Wyler<br />

Fotografia: Gregg Toland<br />

1941 THE MALTESE FALCON [Il mistero del falco]<br />

Regia: John Huston<br />

Fotografia: Arthur Edeson<br />

Scenografia: Robert Haas<br />

76


1946 IT’S A WONDERFUL LIFE [La vita è meravigliosa]<br />

Regia: Frank Capra<br />

Fotografia: Joseph Biroc, Joseph Walker<br />

Scenografia: Jack Okey<br />

1946 MY DARLING CLEMENTINE [Sfida infernale]<br />

Regia: John Ford<br />

Fotografia: Joseph McDonald<br />

Scenografia: Lyle R. Wheeler<br />

1948 NAKED CITY [La città nuda]<br />

Regia: Jules Dassin<br />

Fotografia: William H.Daniels<br />

Scenografia: Oliver Emert, Russell A. Gausman<br />

1949 ACT OF VIOLENCE [Atto <strong>di</strong> violenza]<br />

Regia: Fred Zinnemann<br />

Fotografia: Robert Surtees<br />

Scenografia: Cedric Gibbons, Hans Peters<br />

1949 THE FOUNTAINHEAD [La fonte meravigliosa]<br />

Regia: King Vidor<br />

Fotografia: Robert Burks<br />

Scenografia: Edward Carrere<br />

1950 THE ASPHALT JUNGLE [Giungla d’asfalto]<br />

Regia: John Huston<br />

Fotografia: Harold Rosson<br />

Scenografia: Randall Duell, Cedric Gibbons<br />

1950 THE NIGHT AND THE CITY [I trafficanti della notte]<br />

Regia: Jules Dassin<br />

Fotografia: Max Greene<br />

1950 SUNSET BOULEVARD [Viale del tramonto]<br />

Regia: Billy Wilder<br />

Fotografia: John Seitz<br />

Scenografia: Hans Dreier, John Meehan<br />

77


1951 CRY DANGER [Nei bassifon<strong>di</strong> <strong>di</strong> Los Angeles]<br />

Regia: Robert Parrish<br />

Fotografia: Joseph Biroc<br />

Scenografia: Richard Day<br />

1954 ON THE WATERFRONT [Fronte del porto]<br />

Regia: Elia Kazan<br />

Fotografia: Boris Kaufman<br />

Scenografia: Richard Day<br />

1955 KILLER’S KISS [Il bacio dell’assassino]<br />

Regia: Stanley Kubrick<br />

Fotografia: Stanley Kubrick<br />

1956 BUS STOP [Fermata d’autobus]<br />

Regia: Joshua Logan<br />

Fotografia: Milton Krasner<br />

1956 THE KILLING [Rapina a mano armata]<br />

1956 PICNIC<br />

Regia: Stanley Kubrick<br />

Fotografia: Lucien Ballard<br />

Scenografia: Ruth Sobotka Kubrick<br />

Regia: Joshua Logan<br />

Fotografia: James Wong Howe<br />

1958 MON ONCLE [Mio zio]<br />

Regia: Jacques Tati<br />

Fotografia: Jean Bourgoin<br />

Scenografia: Jacques Lagrange<br />

1960 ROCCO E I SUOI FRATELLI<br />

Regia: Luchino Visconti<br />

Fotografia: Giuseppe Rotunno<br />

Scenografia: M.Garbuglia<br />

1961 BREAKFAST AT TIFFANY’S [Colazione da Tiffany]<br />

Regia: Blake Edwards<br />

Fotografia: Franz Planer<br />

78


Scenografia: Ronald Anderson, Hal Pereira<br />

1963 CLEOPATRA<br />

1964 EMPIRE<br />

Regia: Joseph L.Mankiewicz<br />

Fotografia: Leon Shamroy<br />

Scenografia: Paul S.Fox, Ray Mayer<br />

Regia: Andy Wharol<br />

Fotografia: Jonas Mekas<br />

1967 BONNIE AND CLYDE [Gangster Story]<br />

Regia: Arthur Penn<br />

Fotografia: Burnett Guffrey<br />

1967 PLAYTIME<br />

Scenografia: Dean Tavoularis<br />

Regia: Jaques Tati<br />

Fotografia: Jean Badal, Andréas Win<strong>di</strong>ng<br />

Scenografia: Jacques Lagrange<br />

1969 MIDNIGHT COWBOY [Un uomo da marciapiede]<br />

Regia: John Schlesinger<br />

Fotografia: Adam Holender<br />

Scenografia: John R.Lloyd<br />

1970 ZABRISKIE POINT<br />

Regia: Michelangelo Antonioni<br />

Fotografia: Alfio Contini<br />

Scenografia: Dean Tavoularis<br />

1971 THE FRENCH CONNECTION [Il braccio violento della legge]<br />

Regia: William Friedkin<br />

Fotografia: Owen Roizman<br />

Scenografia: Ben Kazaskov<br />

1973 WESTWORLD [Il mondo dei robot]<br />

Regia: Michael Crichton<br />

Fotografia: Gene Polito<br />

79


1974 CHINATOWN<br />

Regia: Roman Polanski<br />

Fotografia: John A.Alonzo<br />

Scenografia: Richard Sylbert<br />

1974 EARTHQUAKE [Terremoto]<br />

Regia: Mark Robson<br />

Fotografia: Philip H. Lathrop<br />

1974 THE TOWERING INFERNO [L’inferno <strong>di</strong> cristallo]<br />

Regia: John Guillermin<br />

Fotografia: Joseph Biroc, Fred M.Koenekamp<br />

1975 PROFONDO ROSSO<br />

Regia: Dario Argento<br />

Fotografia: Luigi Kuveiller<br />

1976 ASSAULT ON PRECINT 13 [Distretto 13 – Le brigate della morte<br />

Regia: John Carpenter<br />

Fotografia: Douglas Knapp<br />

1976 TAXI DRIVER<br />

Regia: Martin Scorsese<br />

Fotografia: Michael Chapman<br />

Scenografia: Charles Rosen<br />

1977 ANGEL CITY<br />

Regia: Jon Jost<br />

1977 ANNIE HALL [Io e Annie]<br />

Regia: Woody Allen<br />

Fotografia: Gordon Willis<br />

Scenografia: Mel Bourne<br />

1977 NEW YORK, NEW YORK<br />

Regia: Martin Scorsese<br />

Fotografia: Laszlo Kovacs<br />

Scenografia: Boris Leven<br />

80


1978 QUINTET<br />

Regia: Robert Altman<br />

Fotografia: Jean Boffety<br />

1979 MANHATTAN<br />

Regia: Woody Allen<br />

Fotografia: Gordon Willis<br />

Scenografia: Mel Bourne<br />

1979 THE WARRIORS [I guerrieri della notte]<br />

Regia: Walter Hill<br />

Fotografia: Andrew Laszlo<br />

Scenografia: Fred Weiler<br />

1980 WINDOWS<br />

Regia: Gordon Willis<br />

1981 ESCAPE FROM NEW YORK [1997 - Fuga da New York]<br />

Regia: John Carpenter<br />

Fotografia: Dean Cundey<br />

Scenografia: Don Sutton<br />

1982 BLADE RUNNER<br />

Regia: Ridley Scott<br />

Fotografia: Jordan Cronenweth<br />

Scenografia: Lawrence G.Paull [prod.design.], Syd Mead [visual futurist]<br />

1982 KOYAANISQATSI<br />

Regia: Godfrey Reggio<br />

Fotografia: Ron Fricke<br />

1982 ONE FROM THE HEART [Un sogno lungo un giorno]<br />

Regia: Francis F. Coppola<br />

Fotografia: Vittorio Storaro<br />

Scenografia: Dean Tavoularis<br />

1983 RUMBLE FISH [Rusty il selvaggio]<br />

Regia: Francis F. Coppola<br />

Fotografia: Stephen H. Burum<br />

Scenografia: Dean Tavoularis<br />

81


1985 AFTER HOURS [Fuori Orario]<br />

Regia: Martin Scorsese<br />

Fotografia: Michael Ballhaus<br />

Scenografia: Jeffrey Townsend<br />

1985 BACK TO THE FUTURE [Ritorno al futuro]<br />

1985 BRAZIL<br />

Regia: Robert Zemeckis<br />

Fotografia: Dean Cundey<br />

Scenografia: Todd Hallowell, Lawrence G.Paull<br />

Regia: Terry Gilliam<br />

Fotografia: Roger Pratt<br />

Scenografia: Maggie Gray, Norman Garwood<br />

1985 INTO THE NIGHT [Tutto in una notte]<br />

Regia: John Lan<strong>di</strong>s<br />

1985 SUBWAY<br />

Fotografia: Robert Paynter<br />

Regia: Luc Besson<br />

Fotografia: Carlo Varini<br />

Scenografia: Alexander Trauner<br />

1985 TO LIVE AND DIE IN L.A. [Vivere e morire a Los Angeles]<br />

Regia: William Friedkin<br />

Fotografia: Robby Müller<br />

Scenografia: Lilly Kilvert<br />

1985 YEAR OF THE DRAGON [L’anno del dragone]<br />

Regia: Michael Cimino<br />

Fotografia: Alex Thomson<br />

1986 SOMETHING WILD [Qualcosa <strong>di</strong> travolgente]<br />

Regia: Jonathan Demme<br />

Fotografia: Tak Fujimoto<br />

1986 TOKYO-GA<br />

Regia: Wim Wenders<br />

82


Fotografia: Edward Lachman<br />

1986 TRUE STORIES<br />

1987 BARFLY<br />

Regia: David Byrne<br />

Fotografia: Edward Lachman<br />

Scenografia: Barbara Ling<br />

Regia: Barbet Schroeder<br />

Fotografia: Robby Müller<br />

1987 THE UNTOUCHABLES [Gli Intoccabili]<br />

Regia: Brian De Palma<br />

Fotofrafia: Stephen H.Burum<br />

Scenografia: Barbara Lifsher<br />

1988 BEETLE JUICE<br />

Regia: Tim Burton<br />

Fotografia: Thomas Ackerman<br />

Scenografia: Bo Welch<br />

1988 COLORS [Colors - Colori <strong>di</strong> guerra]<br />

Regia: Dennis Hopper<br />

Fotografia: Haskell Wexler<br />

1988 DIE HARD [Die hard - Trappola <strong>di</strong> cristallo]<br />

Regia: John McTiernan<br />

Fotografia: Jan De Bont<br />

Scenografia: Jackson DeGovia<br />

1988 THEY LIVE! [Essi vivono]<br />

Regia: John Carpenter<br />

1989 AKIRA<br />

Fotografia: Gary B.Kibbe<br />

Regia: Katsushiro Otomo<br />

Fotografia: Katsuji Misawa<br />

Scenografia: Toshimaru Mizutami<br />

83


1989 BATMAN<br />

Regia: Tim Burton<br />

Fotografia: Roger Pratt<br />

Scenografia: Anton Furst<br />

1989 BLACK RAIN [Black Rain - Pioggia sporca]<br />

Regia: Ridley Scott<br />

Fotografia: Jan De Bont<br />

1990 DICK TRACY<br />

Regia: Warren Beatty<br />

Fotografia: Vittorio Storaro<br />

Scenografia: Richard Sylbert<br />

1990 END OF THE NIGHT [Aspettando la notte]<br />

Regia: Keith McNally<br />

Fotografia: Tom DiCillo<br />

1990 THELMA & LOUISE<br />

Regia: Ridley Scott<br />

Fotografia: Adrian Biddle, David B.Nowell<br />

Scenografia: Norris Spencer<br />

1991 BOYZ’N THE HOOD<br />

1991 BUGSY<br />

Regia: John Singleton<br />

Fotografia: Charles Mills<br />

Regia: Barry Levinson<br />

Fotografia: Allen Daviau<br />

Scenografia: Jeannine Oppewall<br />

1991 THE FISHER KING [La leggenda del Re Pescatore]<br />

Regia: Terry Gilliam<br />

Fotografia: Roger Pratt<br />

Scenografia: Mel Bourne<br />

1991 JUNGLE FEVER<br />

Regia: Spike Lee<br />

Fotografia: Ernest Dickerson<br />

84


Scenografia: Wynn Thomas<br />

1991 RICOCHET [Verdetto finale]<br />

Regia: Russel Mulcahy<br />

Fotografia: Peter Levy<br />

1993 FALLING DOWN [Un giorno <strong>di</strong> or<strong>di</strong>naria follia]<br />

Regia: Joel Schumacher<br />

Fotografia: Andrzej Bartkowiak<br />

Scenografia: Barbara Ling<br />

1993 SHORT CUTS [America oggi]<br />

Regia: Robert Altman<br />

Fotografia: Walt Lloyd<br />

Scenografia: Stephen Altman<br />

1993 SLEEPERS IN SEATTLE [Insonnia d’amore]<br />

Regia: Nora Ephron<br />

Fotografia: Sven Nykvist<br />

Scenografia: Jeffrey Townsend<br />

1994 THE HUDSUCKER PROXY [Mr. Hula Hoop]<br />

Regia: Joel Coen<br />

Fotografia: Roger Deakins<br />

Scenografia: Dennis Gassner<br />

1994 PULP FICTION<br />

Regia: Quentin Tarantino<br />

Fotografia: Andrzej Sekula<br />

Scenografia: David Vasco<br />

1995 CLOCKERS<br />

Regia: Spike Lee<br />

Fotografia: Malik Hassan Sayeed<br />

Scenografia: Ina Mayhew<br />

1995 GHOST IN THE SHELL<br />

Regia: Mamoru Oshii<br />

Fotografia: Hiromasa Ogura<br />

Scenografia: Takashi Watabe<br />

85


1995 LA HAINE [L’o<strong>di</strong>o]<br />

Regia: Mathieu Kassovitz<br />

Fotografia: Pierre Aïm<br />

1995 JOHNNY MNEMONIC<br />

Regia: Robert Longo<br />

Fotografia: François Protat<br />

1995 THE NET [The Net – Intrappolata nella rete]<br />

Regia: Irwin Winkler<br />

Fotografia: Jack N. Green<br />

1995 NICK OF TIME [Minuti contati]<br />

Regia: John Badham<br />

Fotografia: Roy H. Wagner<br />

1995 SE7EN [Seven]<br />

1995 SMOKE<br />

Regia: David Fincher<br />

Fotografia: Darius Kondhji<br />

Scenografia: Arthur Max<br />

Regia: Wayne Wang<br />

Fotografia: Adam Holender<br />

Scenografia: Kalina Ivanov<br />

1995 STRANGE DAYS<br />

Regia: Kathryn Bigelow<br />

Fotografia: Matthew F.Leonetti<br />

Scenografia: Lilly Kilvert<br />

1996 CHACUN CHERCHE SON CHAT [Ciascuno cerca il suo gatto]<br />

Regia: Cédric Klapisch<br />

Fotografia: Benoit Delhomme<br />

Scenografia: François Emmanuel<br />

1996 CONTACT<br />

Regia: Robert Zemeckis<br />

Fotografia: Don Burgess<br />

86


Scenografia: Ed Verraux<br />

1996 THE SUNCHASER [Verso il sole]<br />

Regia: Michael Cimino<br />

Fotografia: Doug Milsome<br />

Scenografia: Victoria Paul<br />

1996 TREES LOUNGE [Mosche da bar]<br />

Regia: Steve Buscemi<br />

1996 WILLIAM SHAKESPEARE’S ROMEO + JULIET [Romeo + Giulietta <strong>di</strong> William Shakespeare]<br />

Regia: Baz Luhrmann<br />

Fotografia: Donald McAlpine<br />

Scenografia: Brigitte Broch, Catherine Martin<br />

1997 THE BIG LEBOWSKI<br />

Regia: Joel Coen<br />

Fotografia: Roger Deakins<br />

Scenografia: Rich Heinrichs<br />

1997 BREAKDOWN [Breakdown - La trappola]<br />

Regia: John Mostow<br />

Fotografia: Douglas Milsome<br />

Scenografia: Victoria Paul<br />

1997 LE CINQUIÈME ELÉMENT [Il Quinto Elemento]<br />

Regia: Luc Besson<br />

Fotografia: Thierry Arbogast<br />

1997 GREAT EXPECTATIONS [Para<strong>di</strong>so perduto]<br />

1997 HANA-BI<br />

Regia: Alfonso Cuàron<br />

Fotografia: Emmanuel Lubezki<br />

Scenografia: Tony Burrough<br />

Regia: Takeshi Kitano<br />

Fotografia: H. Yamamoto<br />

1997 JACKIE BROWN<br />

Regia: Quentin Tarantino<br />

87


Fotografia: Guillermo Navarro<br />

Scenografia: David Wasco<br />

1997 JOHN CARPENTER’S ESCAPE FROM L.A. [Fuga da Los Angeles]<br />

Regia: John Carpenter<br />

Fotografia: Gary B. Kibbe<br />

1997 KEEP COOL<br />

Regia: Zhang Yimou<br />

Fotografia: Lu Yue<br />

Scenografia: Cao Jiuping<br />

1997 L.A. CONFIDENTIAL<br />

Regia: Curtis Hanson<br />

Fotografia: Dante Spinotti<br />

Scenografia: Jeannine Oppewall<br />

1997 U-TURN [U Turn – Inversione <strong>di</strong> marcia]<br />

Regia: Oliver Stone<br />

Fotografia: Robert Richardson<br />

Scenografia: Victor Kempster<br />

1998 CITY OF ANGELS<br />

Regia: Brian Silberling<br />

Fotografia: John Seale<br />

Scenografia: Lilly Kilvert<br />

1998 FEAR AND LOATHING IN LAS VEGAS [Paura e delirio a Las Vegas]<br />

Regia: Terry Gilliam<br />

1998 THE GAME [The Game - Nessuna regola]<br />

Regia: David Fincher<br />

Fotografia: Harris Savides<br />

Scenografia: Jeffrey Beecroft<br />

1998 GATTACA<br />

Regia: Andrew Niccols<br />

Fotografia: Slawomir Idziak<br />

Scenografia: Jan Roelfs<br />

88


1998 PRIMARY COLORS [I colori della vittoria]<br />

Regia: Mike Nichols<br />

Fotografia: Michael Ballhaus<br />

Scenografia: Bo Welch<br />

1998 THE TRUMAN SHOW<br />

1999 MATRIX<br />

Regia: Peter Weir<br />

Fotografia: Peter Biziou<br />

Scenografia: Dennis Gassner<br />

Regia: Andy e Larry Wachowski<br />

Fotografia: Bill Pope<br />

Scenografia: Owen Paterson<br />

2002 25 TH HOUR [La 25 a ora]<br />

Regia: Spike Lee<br />

Fotografia: Rodrigo Prieto<br />

Scenografia: James Chinlund<br />

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