Veronica Menelao - Sogno di Prigioniero - Padis
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VERONICA MENELAO<br />
SOGNO DI PRIGIONIERO<br />
TRE SENTIERI TRA ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE<br />
Tesi <strong>di</strong> Dottorato - XVII CICLO
Università degli Stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> Roma “La Sapienza”<br />
Dipartimento <strong>di</strong> Sociologia e Comunicazione<br />
Scuola <strong>di</strong> dottorato in “Scienze della Comunicazione,<br />
Ricerca Avanzata, Gestione delle Risorse e Processi Formativi”<br />
Direttore: Prof. Alberto Abruzzese<br />
XVII CICLO<br />
SOGNO DI PRIGIONIERO<br />
TRE SENTIERI TRA ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE<br />
Tutor: Prof. Sergio Brancato<br />
Dottoranda: Dott.ssa <strong>Veronica</strong> <strong>Menelao</strong><br />
Commissione giu<strong>di</strong>catrice:<br />
Prof. Alberto Abruzzese<br />
Prof. Luciano Benadusi<br />
Prof.ssa Antonietta Censi
NOTE SUL METODO 4<br />
INTRODUZIONE 7<br />
1. IL CINEMA E L’IMMAGINARIO 26<br />
1.1 “La Fonte Meravigliosa”: Frank Lloyd Wright<br />
Il bisogno <strong>di</strong> comunicare la propria solitu<strong>di</strong>ne intellettuale<br />
1.2 “Batman”: Shin Takamatsu<br />
La trasfigurazione della realtà attraverso il <strong>Sogno</strong><br />
1.3 “Truman Show”: Léon Krier<br />
L'utopia dell'Eterno Presente<br />
2. LA LETTERATURA E IL TEMPO 46<br />
2.1 “Le Città Invisibili”: Aldo Rossi<br />
La sospensione del Tempo e dello Spazio<br />
2.2 “L'Aleph”: Frank O. Gehry<br />
Involuzione ed Entropia negli spazi della Cultura<br />
2.3 “L'isola <strong>di</strong> cemento”: Richard Rogers<br />
L'Architetto e la Farfalla: Leggerezza per uno sviluppo [in]sostenibile<br />
3. IL FUMETTO E LO SPAZIO 56<br />
3.1 “Appleseed”: Euralille [R. Koolhaas, J. Nouvel, C. De Portzamparc, K.<br />
Shinoara, C. Vasconi]<br />
Architettura e comunicazione totale per un progetto <strong>di</strong> “Città Futura”<br />
3.2 “Blame!”: Giovanni Battista Piranesi<br />
La Prigione come metafora del Corpo e della Struttura<br />
3.3 “ Ghost in the Shell”: Massimiliano Fuksas e Toyo Ito<br />
Nuovi significati nella Metropoli moderna: Vertigine e Trasparenza<br />
POSTILLA 73<br />
1<br />
27<br />
35<br />
42<br />
47<br />
50<br />
53<br />
57<br />
60<br />
64
APPENDICI<br />
In<strong>di</strong>ce delle Figure 74<br />
Filmografia 75<br />
Bibliografia 90<br />
Licenza 96<br />
Per una migliore comprensione del testo:<br />
i nomi degli e<strong>di</strong>fici e dei progetti sono in MAIUSCOLETTO<br />
i titoli dei film, dei libri e dei fumetti sono in corsivo<br />
le citazioni da film e libri trattati nel testo sono tra “”<br />
i riferimenti bibliografici sono tra «»<br />
I cre<strong>di</strong>ti dell’immagine <strong>di</strong> copertina sono <strong>di</strong> Matteo Pericoli [www.matteopericoli.com]<br />
2
3<br />
ai desideranti <strong>di</strong> luce
NOTE SUL METODO<br />
Questo lavoro seguirà un percorso dettato da un <strong>di</strong>alogo a più voci tra me<strong>di</strong>a e<br />
architettura. Articolato in tre parti <strong>di</strong>stinte, cinema, letteratura e fumetto,<br />
metterà a confronto le tecniche dei linguaggi della comunicazione architettonica<br />
con quelli della comunicazione au<strong>di</strong>ovisiva, secondo il filo conduttore della<br />
Metropoli, intesa come spazio fisico e simbolico. Verranno presi in esame per<br />
ciascuna sezione tre architetti o mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> intendere/interpretare la realtà<br />
metropolitana, e tre oggetti comunicativi.<br />
La tesi portante è che questi oggetti nel momento in cui vengono progettati,<br />
scelti e costruiti, rispondono ad un’esigenza comunicativa da parte del pubblico.<br />
Contenitori <strong>di</strong> significato da un lato, veicoli essi stessi <strong>di</strong> una percezione del<br />
mondo dall’altro, <strong>di</strong>ventano protagonisti <strong>di</strong> un nuovo modello <strong>di</strong> consumo<br />
culturale. È proprio nel collegamento tra l’immaginario del pubblico e il costruito<br />
che si rintracciano le relazioni ormai strette tra architettura e me<strong>di</strong>a. Me<strong>di</strong>a<br />
ispiratori da una parte e ispirati alla realtà circostante dall’altra, fattore dovuto<br />
anche alla capacità degli architetti <strong>di</strong> comunicare il proprio sapere.<br />
Questo spunto si offre ad una lunga serie <strong>di</strong> riflessioni sulla visibilità che alcuni<br />
progettisti hanno ottenuto grazie alla notevole esposizione me<strong>di</strong>atica dei loro<br />
lavori. Per citare qualche esempio è il caso dell’AUDITORIUM ad opera <strong>di</strong> Renzo<br />
Piano e del GUGGENHEIM <strong>di</strong> Bilbao, realizzato da Frank O. Ghery. Due lavori <strong>di</strong><br />
entità e realizzazione formale <strong>di</strong>verse tra loro, accomunati dal fatto che la<br />
presenza sui giornali <strong>di</strong> Piano e Ghery è aumentata in modo esponenziale,<br />
generando in tal modo un interesse anche per i loro lavori successivi.<br />
Il passo <strong>di</strong> questa tesi è stato volutamente introdotto sul rapporto tra cinema e<br />
architettura, proprio per comprenderne le influenze storiche e <strong>di</strong> costruzione della<br />
rispettiva immagine. La chiave <strong>di</strong> lettura per la parte filmica può essere quella<br />
4
dell’ Immaginario. La riproposizione in chiave nostalgica <strong>di</strong> temi ed estetiche del<br />
passato ha avuto forti ripercussioni sull’architettura reale. In quest’ottica possono<br />
essere letti progetti come Seaside, la citta<strong>di</strong>na in cui è ambientato The Truman<br />
Show [1998], luogo realmente esistente e costruito inseguendo un fine non<br />
<strong>di</strong>chiarato: quello proposto da film come La vita è meravigliosa [1946] dove con,<br />
peraltro finto, ottimismo il <strong>Sogno</strong> Americano viene realizzato perfino in forma<br />
immobiliare.<br />
La deco<strong>di</strong>fica aberrante dei segni della Metropoli, provoca quel senso <strong>di</strong><br />
spaesamento dovuto all’organizzazione ambigua del messaggio rispetto al co<strong>di</strong>ce.<br />
La cosa rappresentata viene osservata non solo in modo <strong>di</strong>verso, ma cambia<br />
anche il metodo <strong>di</strong> interpretazione dei mezzi <strong>di</strong> rappresentazione e dei co<strong>di</strong>ci. Se<br />
il fine dell’immagine non è <strong>di</strong> rendere più vicina alla nostra comprensione la<br />
significazione che veicola, ma <strong>di</strong> creare una percezione particolare dell’oggetto,<br />
questo proposito viene sicuramente raggiunto da autori come Mead e Furst o<br />
architetti come Shin Takamatsu, che hanno cercato <strong>di</strong> sviare consapevolmente,<br />
l’attenzione dalla struttura narrativa per concentrarsi sulle valenze estetiche della<br />
metropoli e degli oggetti che contiene. L’operazione è riuscita maggiormente a<br />
Takamatsu perché il suo progetto non ha mai aspirato ad essere<br />
totale/totalizzante, ma semplicemente a violare il ritmo del contesto urbano. La<br />
violazione della Los Angeles del 2019 e in misura maggiore <strong>di</strong> Gotham City,<br />
<strong>di</strong>venta invece regola, canone, perdendo tutta la sua forza trasgressiva.<br />
La lettura lineare del romanzo e ipertestuale del fumetto giapponese entrano<br />
in gioco insieme al concetto <strong>di</strong> Tempo e Spazio della Metropoli contemporanea,<br />
attraverso i continui riman<strong>di</strong> con il cinema.<br />
Il Tempo, visto come <strong>di</strong>latazione anche visuale, si intreccia con il ricordo e la<br />
memoria, come nelle architetture <strong>di</strong> Aldo Rossi, così legate alle Città Invisibili e<br />
immaginarie <strong>di</strong> Calvino. Quando la <strong>di</strong>latazione temporale non è più traccia del<br />
5
passato, ma eternità senza scampo, il pessimismo quasi cosmico della tra<strong>di</strong>zione<br />
della sci-fi si scontra con l’insostenibilità dei luoghi che abita. James Ballard ha<br />
descritto più volte abilmente le perversioni architettoniche delle Metropoli, la<br />
brutalità del cemento <strong>di</strong>rettamente connessa con la ruvi<strong>di</strong>tà dell’animo umano.<br />
Quando il Tempo si è contorto in una spirale, involuta e senza aperture, in cui<br />
dominano solo le leggi dei numeri, le biblioteche iperreali <strong>di</strong> Borges hanno<br />
trovato la loro effettiva realizzazione nei nuovi spazi museali come il GUGGENHEIM<br />
<strong>di</strong> Bilbao. La città si è popolata <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici indecifrabili, <strong>di</strong> presenze ambigue che<br />
hanno ri<strong>di</strong>segnato lo spazio urbano secondo mappe misteriose e nuove città nella<br />
città.<br />
Il passaggio dalla biblioteca borgesiana alle carceri piranesiane è stato breve.<br />
L’atemporalità <strong>di</strong> Borges prende forma nella struttura priva <strong>di</strong> corpo, Spazio<br />
nudo, in Blame!, fumetto rivoluzionario dal punto <strong>di</strong> vista stilistico <strong>di</strong> Tsutomu<br />
Nihei, privo <strong>di</strong> trama e personaggi ben definiti, groviglio scuro <strong>di</strong> allucinazioni<br />
mentali e estensioni del corpo. Lo Spazio della Metropoli del futuro, <strong>di</strong>viso tra<br />
terrain vague e megastruttura, tra ibrido e moderno ha generato ulteriori<br />
visioni/realizzazioni: la <strong>di</strong>gitalizzazione del mondo contemporaneo, riletta<br />
attraverso il corpo trasparente e cibernetico della protagonista <strong>di</strong> Ghost in the<br />
Shell, così come in molti e<strong>di</strong>fici delle megalopoli orientali da un lato; dall’altro il<br />
compimento dell’utopia <strong>di</strong> Sant’Elia, attraverso la costruzione della Città Perfetta,<br />
Euralille, frutto <strong>di</strong> sinergie tra Architettura, Politica e Scienza, e rivista attraverso<br />
la sua forma <strong>di</strong>segnata, in Appleseed <strong>di</strong> Masamune Shirow.<br />
6
INTRODUZIONE<br />
Il rapporto tra la città e la sua rappresentazione filmica coincide con la nascita<br />
dell'apparato cinematografico, e se ne può in<strong>di</strong>viduare un primario punto <strong>di</strong><br />
snodo con l’uscita contemporanea <strong>di</strong> Metropolis e Aurora nel 1927. Da quel<br />
momento la Metropoli ha subìto tante mo<strong>di</strong>ficazioni nella sua struttura e nel suo<br />
significato, quante nella sua raffigurazione. Dalla visione insana e teatrale della<br />
città in Il gabinetto del Dottor Caligari [1920], si è passati in pochi anni alla<br />
rappresentazione <strong>di</strong>stopica del futuro urbano in Metropolis e nel suo epigono<br />
inglese Vita Futura [1936]. Le possibili relazioni tra cinema e architettura sono<br />
state <strong>di</strong>scusse soprattutto durante l’epoca del muto nella Germania della<br />
Repubblica <strong>di</strong> Weimar.<br />
Le aspettative da parte degli urbanisti sulle possibilità del nuovo me<strong>di</strong>um <strong>di</strong><br />
rappresentare il futuro della Metropoli erano molto forti. Alcuni architetti<br />
credevano fermamente nella rinascita dell’architettura grazie all’esperienza<br />
filmica, che permetteva la realizzazione <strong>di</strong> quelle utopie <strong>di</strong>segnate nei primi due<br />
decenni del secolo da artisti d’avanguar<strong>di</strong>a come Bruno Taut, Antonio Sant’Elia,<br />
Tony Garnier. Questi architetti proponevano delle visioni totalizzanti della<br />
Metropoli, progettata con una notevole ricchezza formale intorno al concetto <strong>di</strong><br />
<strong>di</strong>stribuzione dello spazio.<br />
Il ruolo dell'Immaginario nella costruzione <strong>di</strong> questi ambienti venne così<br />
<strong>di</strong>scusso da architetti d’avanguar<strong>di</strong>a e scenografi molti anni prima che il<br />
Movimento Moderno ne facesse il proprio para<strong>di</strong>gma. Si può senza dubbio<br />
affermare che se l’architettura metropolitana ha influenzato la sua<br />
rappresentazione filmica, è anche vero che certe visioni <strong>di</strong> città hanno anticipato i<br />
concetti fondamentali della moderna teoria architettonica. L’assenza <strong>di</strong> particolari<br />
restrizioni economiche o finanziarie, permise ai set designer degli anni Venti e<br />
7
Trenta <strong>di</strong> realizzare dei mon<strong>di</strong> possibili, intere città costruite dal nulla, ma dotate<br />
<strong>di</strong> una propria storia o <strong>di</strong> un particolare retroterra filosofico. Si spiegano così le<br />
Metropoli cannibali dei film <strong>di</strong> Murnau come L’ultima risata [1924] o Aurora, o<br />
ancora le città visionarie ed ottimistiche dei primi musical come Just Imagine<br />
[1930].<br />
Robert Mallet-Stevens, principale esponente francese dell’Art Déco ed autore<br />
<strong>di</strong> una ventina <strong>di</strong> scenografie tra il 1919 ed il 1929, scrisse in quegli anni che il<br />
set doveva avere una sua caratterizzazione forte e precisa, e riunire tutti quegli<br />
elementi in<strong>di</strong>viduali che rappresentano i concetti <strong>di</strong> gusto, stile <strong>di</strong> vita e posizione<br />
sociale, sotto un’unica immagine <strong>di</strong> spazio 1 .<br />
Collocare Metropolis [1926] come punto <strong>di</strong> partenza per spiegare l’evoluzione<br />
e l’intreccio della rappresentazione cinematografica della città è quasi d’obbligo,<br />
se non ad<strong>di</strong>rittura scontato. E’ pur sempre vero che non si può prescindere dal<br />
capolavoro <strong>di</strong> Lang per spiegare la storia del cinema dal punto <strong>di</strong> vista<br />
dell’architettura metropolitana. Lang è riuscito a mescolare abilmente<br />
l’Espressionismo <strong>di</strong> Mendelsohn e <strong>di</strong> Scharoun con il Costruttivismo russo <strong>di</strong><br />
Mel’nikov. Lo stesso architetto russo si ispirerà nel 1934 alle architetture<br />
allucinate <strong>di</strong> Metropolis per il suo progetto per un QUARTIER GENERALE DEL<br />
COMMISSARIATO PER L’INDUSTRIA PESANTE; l’e<strong>di</strong>ficio-città riprende così gli archetipi<br />
dell’utopia russa e tedesca degli anni Venti.<br />
Il <strong>di</strong>scorso <strong>di</strong> Lang, architetto nella sua formazione, è strettamente legato con<br />
la nascita del regime nazista. L’architettura si fa cinema in maniera definitiva<br />
quando incontra il <strong>di</strong>scorso politico: le strade <strong>di</strong> Norimberga <strong>di</strong>ventano<br />
scenografie per il kolossal <strong>di</strong> Leni Riefenstahl Il trionfo della volontà [1936], in un<br />
gioco <strong>di</strong> ruoli nel quale non si <strong>di</strong>stingue più la finzione dalla rappresentazione<br />
dell’[ir]reale massa nazista.<br />
1 R. Mallet-Stevens, 1925, “Architecture et Cinema”, Les Cahiers du Mois, n. 16-17, pp. 95-98.<br />
8
La forma e visibilità della città moderna, caratterizzata dall’uso dell’automobile<br />
si rintraccia comunque nel capolavoro <strong>di</strong> Lang. Gli scenografi Hunte, Kettelhut e<br />
Vollbrecht, che avevano già lavorato per Fritz Lang in I Nibelunghi [1924]<br />
ricreando le atmosfere oniriche <strong>di</strong> Wagner, si trovarono alle prese con una città<br />
totalmente da inventare, operando tanto sull’immaginario espressionista quanto<br />
su quello futurista e realizzando così una sintesi singolare e inimitabile. La messa<br />
in scena <strong>di</strong> opere visibilmente <strong>di</strong>verse tra loro per forma, teoria e sostanza<br />
contribuì a creare quell’aura <strong>di</strong> futuribilità fino ad allora sconosciuta nel cinema<br />
mon<strong>di</strong>ale. La genialità della scelta scenografica risiedeva soprattutto nel<br />
<strong>di</strong>stinguo tra i <strong>di</strong>versi livelli della città.<br />
La città visibile, definita da una skyline ispirata in parte a New York, riprende i<br />
motivi della CITÉ INDUSTRIELLE [1917] <strong>di</strong> Tony Garnier 2 : le<br />
sopraelevate sono un filo conduttore che unisce le<br />
megastrutture tra loro, delle linee <strong>di</strong> demarcazione del<br />
territorio su cui il traffico automobilistico è un flusso<br />
continuo e veloce. La prima versione del downtown <strong>di</strong><br />
Metropolis <strong>di</strong>segnata da Kettelhut era i<strong>di</strong>lliaca: i flussi del<br />
traffico scorrevano a più livelli; era pieno <strong>di</strong> parcheggi per le automobili, i pedoni<br />
camminavano liberamente tra i grattacieli ed osservavano le vetrine dei negozi ai<br />
piani inferiori 3 .<br />
In una parte del <strong>di</strong>segno era raffigurata anche una cattedrale gotica modellata<br />
sul progetto della SAGRADA FAMILLA [1884-1903] <strong>di</strong> Anton Gaudì e sulla cattedrale<br />
<strong>di</strong> Colonia. Il riferimento al Gotico voleva essere anche una <strong>di</strong>retta citazione del<br />
romanzo <strong>di</strong> Thea Von Harbou, dal quale era stato tratto il film 4 . Nel libro, la parte<br />
antica della città era presentata come l’ultimo baluardo che tentava<br />
2<br />
Teorico dell’organizzazione spaziale della città, il suo Cité industrielle può essere collocato tra i gran<strong>di</strong> progetti<br />
utopistici <strong>di</strong> inizio secolo. Cfr. T. Garnier, 1917, Une cité industrielle. Étude pour la construction des villes,<br />
Paris.<br />
3<br />
Cfr. D. Neumann [ed.], 1996, Film Architecture. From Metropolis to Blade Runner, Prestel-Verlag, Munich pp.<br />
94-103.<br />
4<br />
T. Von Harbou, 1926, Metropolis, Granillo, Torino 1973.<br />
9
<strong>di</strong>speratamente <strong>di</strong> <strong>di</strong>fendersi dall’assalto della modernità. Accanto alla cattedrale<br />
si trovava, infatti, un imponente e<strong>di</strong>ficio curvilineo realizzato sulla falsariga del<br />
GRATTACIELO IN VETRO <strong>di</strong> Mies van der Rohe [1922].<br />
Lang si oppose fermamente a questa versione antimodernista, intervenendo<br />
<strong>di</strong>rettamente sugli schizzi e suggerendo <strong>di</strong> sostituire la cattedrale con una<br />
moderna Torre <strong>di</strong> Babele. Riflettendo le idee degli architetti dell’epoca, Lang fece<br />
intendere agli scenografi che le città moderne dovevano essere dominate non dai<br />
picchi <strong>di</strong> una chiesa, ma dalle nuove architetture del lavoro, come i grattacieli.<br />
Nella seconda versione dei <strong>di</strong>segni preparatori, era stata eliminata la cattedrale e<br />
sostituita da un pilastro polifunzionale con una piattaforma <strong>di</strong> atterraggio per<br />
aeroplani; lo stile degli e<strong>di</strong>fici circostanti era <strong>di</strong>sadorno, un gusto derivato dalle<br />
avanguar<strong>di</strong>e. Era evidente l’influsso, subìto da Kettelhut, dei progetti<br />
megastrutturali <strong>di</strong> Garnier 5 .<br />
I <strong>di</strong>segni definitivi riflettevano quello che probabilmente chiunque immaginava<br />
in una città tedesca del prossimo futuro. Lo splen<strong>di</strong>do grattacielo <strong>di</strong> vetro della<br />
prima versione era scomparso in favore <strong>di</strong> una più rigida struttura a gradoni, che<br />
sembrava quasi anticipare le successive<br />
tendenze del Brutalismo. La versione finale<br />
della torre sullo sfondo della città era un<br />
grattacielo dalla punta a stella derivato dalle<br />
ALPINE ARCHITEKTUR <strong>di</strong> Bruno Taut e fu vista<br />
successivamente dai critici come un tentativo<br />
<strong>di</strong> riaffermazione dell’imperialismo tedesco 6 . Il mito della verticalizzazione e della<br />
struttura monumentale <strong>di</strong>venta subito popolare tra gli urbanisti negli anni<br />
successivi all’uscita del film: Ludwig Hilberseimer nel suo progetto per una CITTÀ<br />
DEL FUTURO immagina le residenze ed il traffico pedonale nella parte alta, la città<br />
5 Cfr. nota 2.<br />
6 B. Taut, 1919, Alpine Architektur, Folkwang-Verlag, Hagen.<br />
10
del commercio e degli affari con il traffico veicolare nella parte bassa, nel<br />
sottosuolo, ed infine le linee ferroviarie e metropolitane 7 .<br />
La rappresentazione della città era visibilmente utopistica, ingenua<br />
nell’inscenare una vita metropolitana auspicabile negli ideali, ma d’impossibile<br />
realizzazione. Lo spirito naïf <strong>di</strong> Lang era con<strong>di</strong>viso dalla maggioranza dei<br />
tedeschi, già affascinati da quell’icona della modernità che era la New York<br />
rappresentata in Preferisco l’ascensore [1923] con Harold Lloyd. Gli architetti, gli<br />
urbanisti ed i politici, invece, non erano altrettanto entusiasti ed in un acceso<br />
<strong>di</strong>battito che proseguì per lungo tempo, venne fuori tutto lo spirito anti-<br />
americano e conservatore proprio degli opinion-makers dell’epoca. In numerose<br />
<strong>di</strong>chiarazioni i grattacieli furono accusati <strong>di</strong> togliere luce ed aria alle costruzioni<br />
vicine e <strong>di</strong> essere i simboli più volgari del capitalismo rampante 8 . Le intenzioni dei<br />
critici erano <strong>di</strong> stimolare una germanizzazione nella progettazione dei grattacieli,<br />
<strong>di</strong>staccandosi dall’esempio americano, per rivelare «il vero significato insito nel<br />
grattacielo» 9 . Gli architetti tedeschi proponevano una visione socialmente più<br />
responsabile della pianificazione citta<strong>di</strong>na, con un’unica torre che si doveva<br />
innalzare al <strong>di</strong> sopra della città, vista come un aggiornamento moderno del ruolo<br />
centralizzante della cattedrale me<strong>di</strong>oevale.<br />
L’avanguar<strong>di</strong>a architettonica rifiutava simili posizioni conservatrici: la vera<br />
realtà era il Funzionalismo che nasceva proprio in quegli anni; alla città che sale<br />
<strong>di</strong> matrice futurista si opposero le prime fortunate realizzazioni <strong>di</strong> Mies come il<br />
WEISSENHOF [1927], un’estensione orizzontale basata sulla serialità e sulla<br />
collettività, nella piena applicazione dei princìpi del Movimento Moderno.<br />
La parte visibile <strong>di</strong> Metropolis, oltre all’e<strong>di</strong>ficio centrale, è costituita dai<br />
grattacieli a metà strada tra lo STUDIO PER LA CITTÀ NUOVA <strong>di</strong> Sant’Elia [1914] ed i<br />
7<br />
Cfr. i progetti in L. Hilberseimer, 1927, Großtadt-Architektur, L’Architettura della Grande Città, Clean E<strong>di</strong>zioni,<br />
Napoli 1998.<br />
8<br />
Cfr., ad esempio, le affermazioni <strong>di</strong> C. Gurlit, 1914, “Stadt der Zukunft”, Bauwelt 21, p. 21. Lo storico dell’arte<br />
definiva il grattacielo come «la peggiore invenzione del genere umano».<br />
9<br />
M. Mächler, 1920, “Zum Problem des Wolkenkratzers”, Wasmuths Monatshefte für Baukunst 5, p. 260.<br />
11
primi progetti razionalisti. Kettelhut voleva che gli e<strong>di</strong>fici costituissero qualcosa in<br />
più <strong>di</strong> uno sfondo: dovevano partecipare attivamente alla storia, sottolinearne le<br />
contrad<strong>di</strong>zioni e provocare un <strong>di</strong>battito sul futuro dell’architettura. Probabilmente<br />
l’unico <strong>di</strong>fetto dei suoi <strong>di</strong>segni definitivi era che gli e<strong>di</strong>fici erano troppo omogenei<br />
tra loro: sembrava una città <strong>di</strong>segnata da una sola mano, contrariamente a<br />
quanto accade in realtà, e perciò falsa.<br />
La prima versione del 1925 era forse insuperabile, con il suo melting pot <strong>di</strong><br />
antico e moderno, con gli spazi più aperti e vivibili. Kettelhut aveva mantenuto i<br />
suoi proponimenti nelle abitazioni dei ricchi che erano una chiara citazione del<br />
Secessionismo viennese <strong>di</strong> Joseph M. Olbrich. Il teorico del Decorativismo<br />
proponeva un controllo del processo costruttivo fin nei minimi particolari: dalle<br />
strutture principali alle tappezzerie fino al più piccolo oggetto d’arredo.<br />
La “Città dei Figli” derivava invece dalle opere <strong>di</strong> Poelzig, ed in particolare dalla<br />
GROSSES SCHAUSPIELHAUS [1918-19], il Teatro dei Cinquemila a Berlino: le<br />
strutture scomposte e sovrapposte fra loro e le linee<br />
che si spezzano all’improvviso, sono una<br />
caratteristica dell’artista espressionista cui Kettelhut<br />
ha voluto rendere omaggio.<br />
Il doppio volto del film e della metropoli stessa si trova sottoterra, nelle<br />
labirintiche catacombe <strong>di</strong> chiara ispirazione paleocristiana, e nel villaggio operaio,<br />
vera chiave <strong>di</strong> volta del film. Le architetture sono ispirate ai quartieri popolari<br />
progettati da J.J.P. Oud a Rotterdam negli anni Venti, basati sulla teoria<br />
dell’existenzminimum, la concentrazione <strong>di</strong> spazi esterni e interni. Il centro della<br />
piazza è costituito da una statua liberamente ispirata al monumento <strong>di</strong> Gropius<br />
per i Caduti <strong>di</strong> Weimar. Nel ritorno serale degli operai verso casa, la statua<br />
svolge il ruolo <strong>di</strong> idolo, intorno al quale girare in uno stato catatonico che ricorda<br />
tanto una danse macabre, quanto un rituale sacro. La sensazione <strong>di</strong><br />
12
soffocamento derivata dalla mancanza <strong>di</strong> spazi, le anguste finestre/fessure incise<br />
come ferite negli e<strong>di</strong>fici, si trasformano in stati d’animo che si riflettono sui volti<br />
degli operai, scavati ed ombrosi come le loro abitazioni.<br />
La teoria del minimo necessario era allora agli albori: Adolf Loos aveva scritto<br />
nel 1909 il saggio Ornamento e Delitto, ma le sue parole finirono in seguito<br />
veramente nel vuoto, travisate dai funzionalisti come condanna non solo del<br />
Decorativismo, ma <strong>di</strong> tutta l’architettura antecedente gli anni Venti. Loos era<br />
invece favorevole ad un recupero della classicità, vista come para<strong>di</strong>gma<br />
immutabile nel tempo 10 . La condanna della storia, perpetrata da Walter Gropius<br />
nella scuola del Bauhaus, trovava valvola <strong>di</strong> sfogo proprio nelle irreali<br />
architetture <strong>di</strong> Metropolis: oggetti inanimati e privi <strong>di</strong> riferimenti culturali, ma<br />
tenacemente attaccati al realismo socialista dell’epoca. Negli anni precedenti il<br />
film <strong>di</strong> Lang era stato tentato un altro esperimento <strong>di</strong> film come architettura<br />
totale: Hans Poelzig aveva realizzato nel 1920 le scenografie me<strong>di</strong>evali de Il<br />
Golem, infondendovi tutta la sua visionarietà.<br />
Le abitazioni come fusti d’albero, organiche come un quadro <strong>di</strong> Klimt ed al<br />
tempo stesso imponenti e moderne come un’architettura espressionista, rivelano<br />
quel <strong>di</strong>stacco che Poelzig nutriva nei confronti delle correnti moderniste. I<br />
chiaroscuri derivano <strong>di</strong>rettamente dalla modulazione della linea, sempre protesa<br />
verso una comunione intima con la terraferma. L’intenzione <strong>di</strong> Poelzig era <strong>di</strong><br />
creare delle case che respirassero come i loro abitanti, delle costruzioni vive. Il<br />
ghetto ebreo <strong>di</strong> Praga <strong>di</strong>venta quin<strong>di</strong> un ideale, un sogno impastato della stessa<br />
argilla del Golem, uscito anch’esso dalle mani del Rabbino. Poelzig rimane un<br />
esempio <strong>di</strong> come un architetto prestato al cinema riesca a trasmettere la stessa<br />
vitalità e lo stesso senso del fantastico provenienti dalle sue opere. Il suo lavoro<br />
era espressionista quel tanto che bastava per associarlo con la moda della luce<br />
10 Cfr. A. Loos, 1921, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972 pp. 217-228.<br />
13
deformata/deformante, senza la brutalità delle forme ed i contorsionismi<br />
scenografici de Il gabinetto del Dottor. Caligari.<br />
Nel film <strong>di</strong> Robert Wiene, gli scenografi Reimann, Röhrig e Warm volevano una<br />
rappresentazione onirica e non un’imitazione della realtà. Essi riba<strong>di</strong>rono più<br />
volte le <strong>di</strong>fferenze tra l’architettura moderna ed i set dei film, sottolineando che il<br />
termine film architecture doveva essere rimpiazzato dal termine film painting.<br />
Secondo le parole <strong>di</strong> Reimann, «il film, l’arte delle illusioni ottiche, ha bisogno<br />
dell’utopia. Ha bisogno <strong>di</strong> un set che sia uno spazio utopico, che simuli<br />
l’atmosfera <strong>di</strong> uno spazio immaginato» 11 . Le prospettive impossibili e angoscianti,<br />
i graffiti sui muri delle case, l’atmosfera claustrofobica che permea tutto il film,<br />
ne fa un ritratto potente delle inquietu<strong>di</strong>ni che agitavano la Repubblica <strong>di</strong><br />
Weimar, appena nata, ma data già per morta, come i personaggi del film, ombre<br />
simili a fantasmi, privi <strong>di</strong> un agire comune e sensato, insensibili agli acca<strong>di</strong>menti<br />
esterni.<br />
In un altro film <strong>di</strong> Robert Wiene, Genuine [1920], le atmosfere oltre che<br />
oniriche rasentano quasi il fantastico. Lo scenografo Klein inventò appositamente<br />
degli interni che, pur filmati in lucido bianco e nero, riuscivano a trasmettere la<br />
sensazione dei colori. Il risultato fu che era impossibile <strong>di</strong>stinguere i personaggi<br />
dallo sfondo bi<strong>di</strong>mensionale e si muovevano all’interno <strong>di</strong> esso come marionette<br />
impazzite. Il film costituì la punta più alta dell’Espressionismo cinematografico,<br />
proprio per la fusione totale degli attori nello spazio immateriale/mentale<br />
circostante: un incubo cui era impossibile sottrarsi e che rifletteva l’angoscia<br />
metropolitana <strong>di</strong> essere inghiottiti da un ambiente onnivoro.<br />
L’ultimo film che si colloca a metà strada tra realismo e fantasia scenica è<br />
forse King Kong [1933]. La New York imponente che era stata ispiratrice per la<br />
Metropolis <strong>di</strong> Lang, <strong>di</strong>venta letteralmente cibo per la Grande Scimmia. Ultimo<br />
11 W. Reimann, 1926, “Filmarchitektur – heute und morgen?”, Filmtechnik un Filmindustrie 4, pp. 64-65.<br />
14
aluardo della vita selvaggia, King Kong s’impossessa dei due simboli della vita<br />
metropolitana: Fay Wray, simbolo della lussuria, è la fonte della per<strong>di</strong>zione<br />
mentre l’EMPIRE STATE BUILDING è l’icona del Nuovo Mondo. Impadronendosi del<br />
suo e<strong>di</strong>ficio simbolico, King Kong <strong>di</strong>venta il re <strong>di</strong> una metropoli che può essere<br />
vista come una giungla moderna, materia rigida nelle sue costrizioni sociali come<br />
nella sua forma, esemplificata dal grattacielo.<br />
Il fatto che l’architettura sia fatta della stessa materia della città, è fuori<br />
<strong>di</strong>scussione; che la città sia una singola architettura, un’idea avanzata da Leon<br />
Battista Alberti, è un’affermazione più problematica. Per Alberti, uomo del<br />
Rinascimento, la città era concepita come una grande architettura in cui ogni<br />
singolo esempio al suo interno poteva essere inteso come una città in<br />
miniatura 12 . Una simile concezione è strettamente connessa all’idea <strong>di</strong> città come<br />
palcoscenico teatrale. Le facciate romane non erano sola architettura, ma<br />
rappresentazione <strong>di</strong> un modo <strong>di</strong> vivere in cui si tendeva a mostrare l’esteriorità.<br />
Gli architetti del tempo mettevano in scena, più che costruire. Una simile<br />
concezione è stata ripresa nelle megastrutture <strong>di</strong>segnate da Paolo Soleri 13 : MESA<br />
CITY [1961], per esempio, un cubo sospeso sorretto da pilotis alla Le Corbusier<br />
che doveva ospitare due milioni <strong>di</strong> abitanti.<br />
L’eliminazione progressiva dello spazio pubblico della Metropoli coinciderà con<br />
la nascita dello star system, e quin<strong>di</strong> con lo spostamento dell’attenzione dal<br />
contesto urbano alla figura del <strong>di</strong>vo ed alla struttura narrativa, che si andava<br />
proprio in quegli anni co<strong>di</strong>ficando nei generi classici. Il periodo d’oro <strong>di</strong> Hollywood<br />
vede quin<strong>di</strong> il passaggio della Metropoli dal ruolo <strong>di</strong> protagonista a quello <strong>di</strong><br />
comprimario. Solo in un caso, con La fonte meravigliosa, biografia non<br />
autorizzata <strong>di</strong> Frank Lloyd Wright, <strong>di</strong>retta da King Vidor nel 1949, la Metropoli<br />
sembra recuperare quel ruolo primario, fungendo da pretesto per raccontare la<br />
12 L. B. Alberti, 1485, L’architettura – De re ae<strong>di</strong>ficatoria, ed. a cura <strong>di</strong> G. Orlan<strong>di</strong> e P. Portoghesi, Milano 1966.<br />
13 Cfr. E. Jones, 1990, Metropoli. Le più gran<strong>di</strong> città del mondo, Donzelli, Roma 1993, pag. 146 e segg.<br />
15
storia <strong>di</strong> un maverick, un ribelle inserito nel sistema, nel quale si identificava lo<br />
stesso regista.<br />
La città <strong>di</strong>venta nuovamente un’icona nel momento in cui, verso la fine degli<br />
anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Hollywood non ha più storie nuove da<br />
raccontare se non recuperando il passato in chiave nostalgica, come in<br />
Chinatown [1974] <strong>di</strong> Roman Polanski, ed operando attraverso un rimescolamento<br />
dei generi classici. Gli anni Sessanta hanno spesso dato origine, grazie alle<br />
speranze in uno sviluppo tecnologico senza fine, a progetti megalomani/utopistici<br />
come quelli del gruppo Archigram 14 , fautori <strong>di</strong> città impossibili, ma affascinanti,<br />
come la PLUG-IN CITY [1963-64] <strong>di</strong> Peter Cook, strutture urbane accumulate su<br />
sovrastrutture metalliche senza soluzione <strong>di</strong> continuità. Per gli Stati Uniti sono i<br />
tempi degli ultimi gran<strong>di</strong> kolossal a caratterizzazione fortemente<br />
melodrammatica: Cleopatra, l’ultimo film “pensato in grande” è del 1963.<br />
L’Esposizione Universale <strong>di</strong> Montreal del 1967, vero e proprio<br />
baraccone/archivio del pensiero infruttuoso e cumulativo <strong>di</strong> quel decennio,<br />
rappresenta il canto del cigno dell’Utopia. Costruito quasi come un set<br />
cinematografico, sarà intelligentemente sfruttato da Robert Altman per<br />
l’apocalittico Quintet [1978].<br />
I gusti del pubblico cinematografico si evolvono più rapidamente delle<br />
intenzioni <strong>di</strong> progettisti ed architetti, anche in fatto <strong>di</strong> abitazioni private. Verso la<br />
seconda metà degli anni Sessanta comincia, infatti, il grande processo <strong>di</strong><br />
riconversione delle periferie urbane, ad opera il più delle volte dello stesso<br />
Citta<strong>di</strong>no, vero e proprio bricoleur della domenica, che opera un montaggio sulla<br />
propria abitazione con lo stesso metodo dei giovani cineasti francesi della<br />
nouvelle vague: destrutturando e ricostruendo per associazioni <strong>di</strong> idee, più che<br />
basandosi su <strong>di</strong> un canovaccio/progetto. Robert Venturi si accorge <strong>di</strong> questi<br />
14 Cfr. Archigram, 1973, Archigram, International Thomson Publishing, New York, ed i progetti della PLUG-IN<br />
CITY in P. Cook, 1970, Experimental Architecture, London.<br />
16
cambiamenti alla fine degli anni Sessanta, analizzando ferocemente ed<br />
ironicamente le proprie opere e quelle dei suoi colleghi razionalisti, nel<br />
promemoria del pensiero postmoderno Learning from Las Vegas.<br />
La sua tesi sul «brutto e or<strong>di</strong>nario», elemento tipico delle accumulazioni<br />
suburbane, che sta prevaricando sul «bello ed eroico», elemento fondamentale<br />
della teoria funzionalista, fatica a prendere piede nelle riviste specializzate, ma<br />
spalanca le porte già aperte degli allarmisti 15 . La speculazione sugli orrori <strong>di</strong><br />
periferia era già iniziata da tempo, ed il cinema, in questo caso, calca la mano:<br />
Terremoto, L’inferno <strong>di</strong> cristallo e Il mondo dei robot appartengono agli stessi<br />
anni [1973-74], e mettono in mostra, da un lato la rivolta contro l’uomo della<br />
tecnologia, e dall’altro lo sviluppo insostenibile delle città verticali, non più<br />
sorretto dal progresso tecnologico. Passati gli anni dei film catastrofici, si arriva<br />
agli anni Ottanta, con la frattura operata dalla fantascienza filosofica <strong>di</strong> Blade<br />
Runner, vero spartiacque del cinema decostruito e re-immaginato dal<br />
postmodernismo.<br />
Tramite questa decostruzione ed ibridazione dei generi, la Metropoli recupera<br />
la propria visibilità e centralità in film come Blade Runner [1982] appunto,<br />
Batman [1989] e Dick Tracy [1990], i cui rispettivi ideatori delle scenografie, Syd<br />
Mead, Anton Furst e Richard Sylbert, hanno non a caso una formazione da<br />
architetti ancor prima che da scenografi. Questi tre autori hanno avuto la<br />
capacità <strong>di</strong> fare delle loro scene dei veri e propri manifesti programmatici, che<br />
riconducono idealmente alle <strong>di</strong>chiarazioni entusiastiche degli scenografi degli anni<br />
Venti. L’idea centrale attorno a cui ruotano questi tre film è la presenza <strong>di</strong> un<br />
luogo forte, un e<strong>di</strong>ficio, come la ziqqurat in Blade Runner, o un’intera città, come<br />
la Gotham City <strong>di</strong> Batman, che si pone quale segno imme<strong>di</strong>atamente riconoscibile<br />
15 E’ rilevante il fatto che la bibliografia in fondo al testo sia composta quasi esclusivamente da articoli presenti<br />
su quoti<strong>di</strong>ani nazionali e regionali; cfr. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, 1972, Imparando da Las<br />
Vegas, Cluva, Venezia 1984.<br />
17
ed identificabile, e che costringe lo spettatore a tener conto della sua presenza,<br />
anche per una piena comprensione della struttura narrativa.<br />
Blade Runner, oggetto <strong>di</strong> culto degli anni Ottanta, ha generato il grande<br />
equivoco <strong>di</strong> cui stanno soffrendo attualmente le metropoli americane: la<br />
rappresentazione dolente e pessimistica proposta dal film ha provocato il<br />
sospetto che se fosse questa la prospettiva del Modello Abitativo Moderno,<br />
nessun uomo ragionevole sarebbe <strong>di</strong>sposto ad abitare in una città simile. Il film<br />
<strong>di</strong> Ridley Scott [furbo nel concentrare l’attenzione su una location destinata a<br />
rimanere impressa nella memoria, anziché sull’esile plot], non mette in scena il<br />
futuro dell’urbanizzazione, ma è, al contrario, l’ultima e definitiva<br />
rappresentazione della Metropoli Moderna così come l’avevano immaginata, con<br />
le gotiche verticalizzazioni alla Sant’Elia, i suoi progettisti.<br />
È quin<strong>di</strong> più il ritratto <strong>di</strong> New York che non <strong>di</strong> Los Angeles. La Città<br />
Contemporanea non è mai esistita se non come ripetizione all’infinito del già<br />
esistente: in quest’ottica può essere inquadrata Las Vegas, il non-luogo<br />
postmoderno per eccellenza, un concentrato <strong>di</strong> locations cinematografiche e<br />
metropolitane provenienti dall’intero pianeta, ad uso e consumo delle famiglie. Le<br />
riproduzioni-cartolina <strong>di</strong> Manhattan, delle Pirami<strong>di</strong> <strong>di</strong> Giza e <strong>di</strong> Piazza San Marco 16<br />
permettono al turista me<strong>di</strong>o americano <strong>di</strong> avere i luoghi per eccellenza in unico<br />
luminescente agglomerato, senza soluzione <strong>di</strong> continuità. La prima realistica<br />
rappresentazione del post-modernism è stata messa in scena da William Friedkin<br />
nel migliore noir degli anni Ottanta.: Vivere e morire a Los Angeles [1985].<br />
L’immagine della città è devastante, onnivora, fatta <strong>di</strong> sno<strong>di</strong> autostradali e<br />
periferie degradate; non uno sguardo viene levato verso le dorate colline <strong>di</strong> Bel<br />
Air e Beverly Hills. Tutto è offuscato da una patina <strong>di</strong> sporco, con un finale<br />
segnato da un sole morente all’orizzonte.<br />
16 Il suolo italiano è da sempre preda dell’immaginario collettivo statunitense; oltre ad una rappresentazione <strong>di</strong><br />
Venezia, è presente anche una riproduzione in scala delle località sul lago <strong>di</strong> Como.<br />
18
Secondo i migliori archetipi del noir, gli abitanti sono quello che abitano,<br />
corrotti, senza morale ma privi, in questo caso, dell’eroismo che caratterizzava<br />
capolavori degli anni Quaranta come La città nuda [1948].<br />
La banalizzazione della città si infiltra in questi personaggi, quasi anonimi e<br />
senza forti caratterizzazioni. La Città dei Sogni si trasforma a partire da questo<br />
film in un luogo privo <strong>di</strong> riferimenti culturali e <strong>di</strong> qualità estetiche, nella cui<br />
rappresentazione <strong>di</strong>ventano fondamentali i luoghi <strong>di</strong> ritrovo <strong>di</strong> passaggio, come<br />
tavole calde o stazioni <strong>di</strong> servizio. In questa fase si collocano film come Thelma &<br />
Louise [1990] e Pulp Fiction [1994], nei quali le locations sono un<br />
ovunque/nessun luogo, delle «eroiche pompe» 17 uguali a tante altre, sia che si<br />
trovino in mezzo al deserto dell’Arizona, sia che appartengano al nucleo urbano<br />
<strong>di</strong> Los Angeles. Da qui prende forma l’idea che Los Angeles sia un agglomerato <strong>di</strong><br />
tante piccole città <strong>di</strong> provincia, slegate ideologicamente, ma strutturalmente<br />
interconnesse da quell’unico esile fil rouge che è l’autostrada.<br />
Il concetto <strong>di</strong> «metropoli <strong>di</strong> seconda generazione» definito da Gui<strong>di</strong>cini 18 non è<br />
applicabile a Los Angeles: un nuovo progetto e<strong>di</strong>lizio su larga scala, chiamato<br />
PLAYAVISTA, contempla che residenza, ufficio e luoghi ricreativi si trovino<br />
all’interno <strong>di</strong> un unico nucleo, isolato da ciò che lo circonda. La nuova cittadella<br />
fortificata dovrebbe rifarsi esteticamente alle case sul Thaoe Lake, in Nevada, un<br />
ritrovo chic in stile Tudor per i losangeleni altoborghesi, sito celebrato più volte<br />
nel cinema [l’ultimo esempio è City of Angels, 1998]. Il progetto originale<br />
prevede che una parte del centro residenziale, sia a<strong>di</strong>bita ai nuovi stu<strong>di</strong>os <strong>di</strong><br />
Steven Spielberg e <strong>di</strong> James Cameron.<br />
I luoghi della produzione cinematografica, tendono quin<strong>di</strong> ad assomigliare<br />
all’iperreale sogno della vita <strong>di</strong> provincia americana, rappresentata<br />
cinematograficamente dai film con Doris Day ed iconograficamente ispirata dalle<br />
17 Cfr. AA.VV., 1998, Gomorra 1, Costa & Nolan.<br />
18 Nella quale, accanto alla popolazione notturna e <strong>di</strong>urna, compaiono i pendolari del consumo metropolitano.<br />
Cfr. P. Gui<strong>di</strong>cini, 1971, Sviluppo urbano e immagine della città, FrancoAngeli, Milano.<br />
19
tavole domenicali <strong>di</strong> Norman Rockwell. La rappresentazione della città ne è<br />
l’esatto contrario: il ritorno in auge del noir, genere pessimista e metropolitano<br />
per eccellenza, ne è la chiara <strong>di</strong>mostrazione. Strange Days [1995], è il film<br />
emblema <strong>di</strong> questa nuova realtà nata negli anni Novanta: lo sguardo dolente sul<br />
futuro della Metropoli ne costituisce il presente più crudo.<br />
Lo scenario italiano negli stessi anni presentava un’involuzione. Lo<br />
spiazzamento <strong>di</strong>mostrato dagli architetti e la mancanza <strong>di</strong> collaborazione con<br />
urbanisti ed ingegneri, fece sì che molti sban<strong>di</strong>erati progetti rimanessero solo<br />
sulla carta. Il periodo della «architettura <strong>di</strong>segnata» durò quasi <strong>di</strong>eci anni. Un<br />
decennio, tra gli anni Settanta e gli Ottanta, che farà perdere agli architetti<br />
italiani il sottile filo rosso che li collega alla realtà, e che si concluderà con la<br />
tar<strong>di</strong>va esposizione della Biennale del 1980, curata da Paolo Portoghesi, dal tema<br />
LA VIA NOVISSIMA 19 . L’idea nuova <strong>di</strong> Portoghesi, era <strong>di</strong> portare il tema del<br />
postmoderno in Italia, in un ambiente culturale dove si <strong>di</strong>batteva ancora sul tema<br />
del funzionalismo applicato in via definitiva solo a metà degli anni Ottanta. Quello<br />
che è già passato <strong>di</strong> moda altrove, ad esempio in Francia, dove fu presto<br />
sostituito dall’High Tech, nel Belpaese non riuscirà quasi a mettere ra<strong>di</strong>ci,<br />
nonostante le buone intenzioni dei curatori della mostra.<br />
LA VIA NOVISSIMA era una struttura effimera costituita da una serie <strong>di</strong> facciate,<br />
che volevano essere rappresentative del nuovo corso architettonico mon<strong>di</strong>ale. Al<br />
progetto collaborarono molti volti nuovi, come Ghetti, Moore, ed alcune vecchie<br />
glorie come Michael Graves. Tra tutti questi solo Charles Moore proseguirà il<br />
cammino del vero postmoderno, rivelandosi il più “cinematografico” tra tutti.<br />
Progetti come PIAZZA ITALIA a New Orleans costituiscono già sulla carta la<br />
rappresentazione <strong>di</strong> un set <strong>di</strong> Tarantino, un accumulo <strong>di</strong> generi e scenografie, un<br />
nulla/dappertutto denso <strong>di</strong> riferimenti culturali, ma totalmente slegato dalla<br />
19<br />
P. Portoghesi, V. Scully, C. Norberg-Schulz, C. Jenks, 1980, La presenza del passato, catalogo della mostra,<br />
Biennale <strong>di</strong> Venezia 1980.<br />
20
ealtà.<br />
Michael Graves, uno dei “Five Architets“, ritornerà alla costruzione delle sue<br />
costose abitazioni private, adorate soprattutto dai losangeleni ra<strong>di</strong>cal-chic, tutte<br />
uguali sia tra loro che tra gli e<strong>di</strong>fici dell’altro grande inganno degli anni Ottanta:<br />
Richard Meier. La breve parentesi del post-modernism non sembra aver sfiorato<br />
questi due gran<strong>di</strong> dell’architettura contemporanea. Fedeli al credo <strong>di</strong> Rudolf M.<br />
Schindler 20 , i due “Bianchi” operano attraverso la purezza della piastrella bianca,<br />
che rende i loro e<strong>di</strong>fici simili a piscine immacolate [CHIESA PER IL GIUBILEO a Roma,<br />
1996; GETTY CENTER <strong>di</strong> Los Angeles, 1994].<br />
Nel frattempo in Italia, le <strong>di</strong>scussioni sull’efficacia <strong>di</strong> un’architettura<br />
funzionalista troveranno lungo sfogo nelle polemiche seguite alla costruzione<br />
dello ZEN a Palermo, e <strong>di</strong> CORVIALE e TORBELLAMONACA a Roma. Il progetto <strong>di</strong> Mario<br />
Fiorentino, in particolare, ha avuto una cassa <strong>di</strong> risonanza notevole anche per chi<br />
non ne è stato <strong>di</strong>rettamente responsabile o interessato. Visivamente perfetto dal<br />
punto <strong>di</strong> vista progettuale, una volta costruito si è rivelato inadeguato ed<br />
incoerente con l’ambiente circostante. All’incoerenza formale si è poi aggiunto il<br />
rifiuto mentale del destinatario d’uso. La domanda <strong>di</strong> spazi abitativi si era<br />
mo<strong>di</strong>ficata notevolmente nel lasso <strong>di</strong> tempo intercorso tra il concorso per<br />
l’assegnazione del progetto [1973], e la consegna del manufatto [1981]. Accanto<br />
e dentro l’unité d’habitation nasceva così, ad opera degli stessi abitanti una<br />
nuova corrente architettonica, che avrebbe sicuramente fatto inorri<strong>di</strong>re Le<br />
Corbusier, uomo tanto funzionalista quanto poco pratico della vita in un<br />
condominio popolare <strong>di</strong> periferia.<br />
Il costruire/sfondare dentro il costruito rese CORVIALE, simile ad un piccolo<br />
borgo me<strong>di</strong>evale, dove si andava per accumulo <strong>di</strong> abitazioni e non per<br />
organizzazione razionale. Scomparvero subito i negozi, <strong>di</strong>vorati dalla<br />
20 Il cui progetto - tipo assimilava tramite forme nette il cemento armato a vista e pilotis a pianta quadra.<br />
21
microcriminalità, e sostituiti dalle cellule aggiunte degli abusivi 21 . Il Nuovo<br />
Me<strong>di</strong>oevo sorto tra le mura della perfezione era l’evoluzione naturale della crisi<br />
del modello abitativo moderno. La <strong>di</strong>fficoltà <strong>di</strong> controllo <strong>di</strong> un progetto troppo<br />
grande aveva fatto perdere <strong>di</strong> vista ai progettisti il vero scopo del loro agire, in<br />
pratica il benessere dell’assegnatario IACP, i cui bisogni si erano allargati tanto<br />
quanto la sua famiglia. Fuori del palazzo-lungo-un-chilometro la situazione non<br />
era <strong>di</strong>versa: l’installazione autogestita delle nuove periferie aveva trasformato<br />
negli anni le baracche degli anni Sessanta in case allargate e rialzate<br />
proporzionalmente al crescere del numero degli occupanti. Quando la famiglia<br />
cessò <strong>di</strong> crescere, si pensò a come aumentare i comfort interni ed esterni: la<br />
comparsa <strong>di</strong> verande, paraboliche, sale hobby scavate nel sottosuolo non<br />
cambiarono comunque l’aspetto esteriore <strong>di</strong> abitazioni rimaste con il cemento<br />
armato a vista ed i tetti <strong>di</strong> eternit 22 .<br />
Al giorno d’oggi gli elementi costitutivi della vita urbana tendono ad esulare<br />
completamente dall’opera professionale dell’architetto. La città va <strong>di</strong> là degli<br />
e<strong>di</strong>fici e delle architetture che la compongono. Gli strumenti tra<strong>di</strong>zionali <strong>di</strong> analisi<br />
del territorio raramente rispondono ai requisiti della vita della metropoli<br />
contemporanea che necessita in particolare <strong>di</strong> reti <strong>di</strong> trasporto, <strong>di</strong> autostrade, <strong>di</strong><br />
spazi riservati alla logistica della <strong>di</strong>stribuzione, <strong>di</strong> aree naturali protette e <strong>di</strong> spazi<br />
virtuali per la comunicazione e lo svago. L’attuale con<strong>di</strong>zione urbana,<br />
caratterizzata dalle megalopoli estese e ben collegate, <strong>di</strong> cui Jean Gottmann 23<br />
parlò già negli anni Sessanta, esige un nuovo approccio da parte del progettista.<br />
Questo vale anche per i tentativi classici e modernisti <strong>di</strong> ripensare la relazione tra<br />
l’architettura e la città.<br />
La nuova natura della città è stata rilevata da Peter Hall, quando scrive che<br />
21<br />
Per una storia “sociale” e civica <strong>di</strong> Corviale, cfr. A.R. Montani, 1993, Le comunità locali urbane, Bulzoni,<br />
Roma.<br />
22 Cfr. P. Desideri, 1997, La città <strong>di</strong> latta, Costa & Nolan, Genova.<br />
23 J. Gottmann, 1961, Megalopoli. Funzioni e relazioni <strong>di</strong> una pluricittà, Einau<strong>di</strong>, Torino 1970.<br />
22
l’esplosiva e vertiginosa crescita urbana riguarda non più solo i paesi sviluppati,<br />
ma che si sta verificando con velocità allarmante anche nei paesi<br />
sottosviluppati 24 . Gli elementi con cui ci si trova ad operare sono processi già<br />
esistenti, privi <strong>di</strong> consapevolezza o <strong>di</strong> qualunque processo critico, ma sono<br />
tuttavia consuetu<strong>di</strong>ni alla base dell’organizzazione della vita nelle città moderne.<br />
Sono proprio gli esperti privi <strong>di</strong> qualunque formazione architettonica che hanno<br />
preso controllo e possesso delle tecniche <strong>di</strong> progettazione urbana dei nostri<br />
giorni. Secondo loro un architetto <strong>di</strong>mostra scarsa comprensione delle<br />
autostrade, degli aeroporti, dei sistemi <strong>di</strong> trasporto, dei centri commerciali, delle<br />
zone per il tempo libero, delle aree turistiche, delle zone residenziali spontanee,<br />
delle case mobili e delle case per la nuova famiglia non–tra<strong>di</strong>zionale. Le richieste<br />
<strong>di</strong> un nuovo consumo <strong>di</strong> massa guidano il rinnovamento e la conservazione dei<br />
patrimoni artistici, dei parchi e delle zone industriali abbandonate. I mass me<strong>di</strong>a<br />
generano poi copie multiple e immaginarie <strong>di</strong> questo ambiente, creando e<br />
ricreando realtà virtuali non meno vissute delle realtà fisiche della grande città.<br />
In molti casi, questi sistemi e fenomeni sono estranei se non nemici delle<br />
modalità consolidate <strong>di</strong> pensiero e azione con<strong>di</strong>vise da molti progettisti.<br />
Attraverso le mutazioni, in<strong>di</strong>ce <strong>di</strong> cambiamento generazionale delle città, è<br />
possibile avvertire i nuovi strati, continuamente sovrapposti, tra vecchio e nuovo.<br />
Nella città si vive sempre <strong>di</strong> più in un processo <strong>di</strong> mutazione improvvisa e<br />
sconvolgente, <strong>di</strong>mostrata da tutta quella serie <strong>di</strong> film appartenenti al genere del<br />
thriller metropolitano.<br />
Tramite il cinema è stato possibile vedere il cambiamento epocale subìto dalla<br />
metropoli: alla fissità delle scenografie negli anni Quaranta, si è passati, intorno<br />
agli anni Ottanta, ad un cinema caratterizzato dal flusso continuo <strong>di</strong> macchine,<br />
persone, un cinema fatto essenzialmente <strong>di</strong> movimento.<br />
24 P. Hall, 1988, Cities of Tomorrow, Blackwell, Oxford.<br />
23
Il potere del cinema <strong>di</strong> rendere reale solo ciò che è inquadrato velocemente<br />
dalla mdp, ha permesso una visibilità, anche se il più delle volte in modo acritico,<br />
al popolo sommerso degli immigrati e dei senzatetto. Le loro abitazioni sono<br />
<strong>di</strong>ventate un terreno fertile per la sperimentazione dell’architetto, impossibilitato<br />
<strong>di</strong> lavorare per le grosse committenze pubbliche. Ne è prova visibile il nuovo<br />
centro per i senzatetto creato nel Downtown <strong>di</strong> Los Angeles, una decina <strong>di</strong><br />
semicupole che “simulano” un’abitazione visibile agli abitanti, ma nascosta agli<br />
occhi degli uomini d’affari. Un lavoro esemplare dal punto <strong>di</strong> vista sociale, ma<br />
veramente scarso dal lato concettuale, e visibile in Verdetto Finale [1991].<br />
La simulazione, in uno scambio continuo tra architettura e set, caratterizza<br />
anche i moderni templi del consumo collettivo, nei quali assume sempre più<br />
importanza il palcoscenico sul quale si tiene la rappresentazione del mercato 25 .<br />
Questi involucri che dovrebbero essere pubblici, ma non sono per tutto il<br />
pubblico, trasparenti, ma allo stesso tempo sono chiusi come gusci, sono i nuovi<br />
luoghi <strong>di</strong> aggregazione.<br />
Ma se lo spazio pubblico storico è un luogo grazie alla riconoscibilità della sua<br />
identità, allora davvero lo spazio pubblico contemporaneo è l’esatto opposto <strong>di</strong><br />
un luogo. Nel non-luogo l’agire sociale è destinato a rimanere la somma <strong>di</strong> tante<br />
insignificanti in<strong>di</strong>vidualità, senza mai <strong>di</strong>ventare espressione integrale <strong>di</strong> un agire<br />
comune. Nei contenitori come gli shopping mall domina la legge dell’entropia: «il<br />
grado <strong>di</strong> mescolanza, <strong>di</strong>sor<strong>di</strong>ne, in<strong>di</strong>fferenzazione, impreve<strong>di</strong>bilità e casualità<br />
delle relazioni tra le componenti <strong>di</strong> un qualunque aggregato» 26 . Lo spazio è<br />
sempre artificiale, trasparente e recintato; prodotto da mezzi effimeri, molteplici<br />
e variabili, è avvolto dal rigido rivestimento del contenitore.<br />
Il TEATRO DEL MONDO <strong>di</strong> Aldo Rossi per la Biennale del 1980 era una struttura<br />
25 Per ulteriori confronti con il concetto <strong>di</strong> rappresentazione e <strong>di</strong> “vita come il palcoscenico”, cfr. J. Meyrowitz,<br />
1985, Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna 1995 e E. Goffman, 1959, La vita quoti<strong>di</strong>ana come<br />
rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969<br />
26 G. Bateson, 1980, Mente e natura, Adelphi, Milano 1984, p. 300.<br />
24
effimera che simulava una torre fortificata: un prodotto visibile a tutti ma che<br />
tendeva più ad escludere che ad includere. Forse non siamo ancora pronti per<br />
progetti come quello <strong>di</strong> Massimiliano Fuksas per il CENTRO CONGRESSI all’EUR: un<br />
parallelepipedo trasparente che racchiude in uno scrigno come fossero oggetti<br />
preziosi i visitatori/attori; visibilità ed artificio si mescolano mirabilmente in una<br />
struttura in cui sono spettatori coloro che si trovano all’esterno.<br />
Raro esempio <strong>di</strong> architettura slegata dalle correnti artistiche, impensabile in un<br />
territorio come quello romano, in cui non si riesce mai a trovare una via <strong>di</strong> mezzo<br />
tra la conservazione ad ogni costo ed il sensazionalismo facile, il parallelepipedo<br />
<strong>di</strong> Fuksas è scenografia pura, ma senza la pretesa <strong>di</strong> violentare ideologicamente<br />
il fruitore dello spazio. Non rimane quin<strong>di</strong> che adeguarsi, come ha fatto il cinema,<br />
all’idea <strong>di</strong> appartenere ad un terrain vague, con i suoi vuoti <strong>di</strong>simpegni, e con la<br />
sua incertezza formale. Un’indeterminatezza che sembra trovare nella memoria<br />
del passato, la sua unica via <strong>di</strong> fuga: solo tramite il recupero si può alimentare il<br />
nuovo.<br />
Ecco quin<strong>di</strong> in architettura, il revival del razionalismo [Aldo Rossi] e del<br />
neoclassicismo [Léon Krier]; al cinema, la meto<strong>di</strong>ca <strong>di</strong>struzione/ricostruzione <strong>di</strong><br />
tutti i generi, cominciata con Star Wars [1977] e culminata con lo stupefacente<br />
Matrix [1999], l’ultimo e definitivo film <strong>di</strong> fine millennio.<br />
25
1<br />
IL CINEMA E L’IMMAGINARIO<br />
26
1.1 “LA FONTE MERAVIGLIOSA”: FRANK LLOYD WRIGHT.<br />
IL BISOGNO DI COMUNICARE LA PROPRIA SOLITUDINE INTELLETTUALE<br />
Il processo <strong>di</strong> specializzazione frantuma la compiutezza che era<br />
propria della prima fase progettuale e impoverisce il <strong>di</strong>scorso<br />
critico, lo impoverisce anche quando ne rende estremamente<br />
complesse le articolazioni e le regole.<br />
27<br />
Alberto Abruzzese [1979]<br />
Il romanzo <strong>di</strong> gran successo <strong>di</strong> Ayn Rand 27 ed il meno fortunato film <strong>di</strong> King Vidor<br />
[1949], servono da introduzione sulla filosofia oggettivistica <strong>di</strong> Frank Lloyd<br />
Wright, la cui idea centrale è costituita dalla <strong>di</strong>fesa della libertà personale<br />
assoluta e dal suo inflessibile in<strong>di</strong>vidualismo. Lo scontro ideologico è tutto giocato<br />
sulle strutture neoclassiche elaborate dalla Maggioranza, e la Nuova Plasticità<br />
modellata dal protagonista del film. La figura <strong>di</strong> Howard Roark è palesemente<br />
ricalcata su quella del grande architetto americano, all’epoca tornato alla ribalta<br />
grazie ad alcuni e<strong>di</strong>fici largamente pubblicizzati come FALLINGWATER [1936] e la<br />
JOHNSON & SON COMPANY [1936-39]. È rimarchevole il fatto che nel film venga<br />
fatto un riassunto <strong>di</strong> tutta l’architettura americana moderna, incentrandola su <strong>di</strong><br />
una sola figura. Se nella prima parte del film vengono, infatti, ripresi<br />
perfettamente i <strong>di</strong>segni <strong>di</strong> Wright nella parte centrale, alcuni bozzetti possono<br />
essere associati all’International Style.<br />
Il famoso concorso per la realizzazione della sede del CHICAGO TRIBUNE [1922]<br />
sembra essere stato per lo scenografo del film, Edward Carrere, un’utile fonte<br />
d’ispirazione. Il progetto che risultò vincitore, realizzato da Raymond Hood,<br />
rispecchiava fedelmente quelle che nel film sono definite come architetture<br />
27 A. Rand, 1943, La fonte meravigliosa, Corbaccio, Milano 1996.
tra<strong>di</strong>zionali, “scopiazzate malamente da tutti gli stili del passato”. Il personaggio<br />
<strong>di</strong> Peter Keating, “l’artista del compromesso”, prende le mosse da quella miriade<br />
<strong>di</strong> architetti che fecero la loro fortuna grazie all’eclettismo americano. Uno dei<br />
capolavori <strong>di</strong> questo stile, il WOOLWORTH BUILDING <strong>di</strong> New York [1913], progettato<br />
da Cass Gilbert, è stato a lungo definito come l’ottava meraviglia del mondo. La<br />
torre goticizzante unita alla struttura del grattacielo era un elemento comune tra<br />
gli e<strong>di</strong>fici dell’epoca. Come afferma un committente al rifiuto <strong>di</strong> Roark <strong>di</strong> adattare<br />
il proprio lavoro al gusto delle masse, “l’originalità piace se non è eccessiva”.<br />
Sigfried Gie<strong>di</strong>on fu uno dei primi critici ad intravedere il pericolo dell’eclettismo:<br />
a suo parere, il Neoclassicismo dello stile Beaux-Arts non rispondeva né al livello<br />
della tecnologia né a criteri funzionali 28 .<br />
L’origine <strong>di</strong> questo arretramento culturale, sempre secondo Giedeon, stava<br />
nell’allestimento della WORLD FAIR <strong>di</strong> Chicago nel 1893, curata da Daniel H.<br />
Burnham. Nel momento in cui la Scuola <strong>di</strong> Chicago «aveva raggiunto la<br />
padronanza dei nuovi strumenti che essa stessa aveva creato» 29 , il classicismo<br />
mercantile importato dagli architetti newyorchesi educati al Beaux-Arts <strong>di</strong> Parigi,<br />
aveva sconvolto le nuove geometrie urbane che si andavano allora delineando.<br />
New York era vista come la patria <strong>di</strong> questo stile, una sensazione resa<br />
esplicitamente nel film, dove svettano in ogni angolo grattacieli <strong>di</strong> chiara matrice<br />
neoclassica. Il puntiglio con il quale Gie<strong>di</strong>on e gli altri critici proto-funzionalisti si<br />
scagliarono contro le aberrazioni <strong>di</strong> questa vecchia/nuova corrente, riguardava<br />
comunque più una questione dello stile e decorazione, piuttosto che il risultato<br />
dell’insieme. La capacità <strong>di</strong> alcuni eclettici come Daniel H. Burnham, responsabile<br />
tra l’altro del CHICAGO PLAN, <strong>di</strong> avere una visione più urbanistica che<br />
architettonica, gli consentì <strong>di</strong> avere un meritato successo all’inizio del secolo.<br />
Per gli scopi del film, la pomposa architettura storicistica ed eclettica,<br />
28 Cit. in W. R. Taylor, 1992, New York. Le origini <strong>di</strong> un mito, Marsilio, Venezia 1994, p. 91.<br />
29 Cfr. S. Gie<strong>di</strong>on, 1941, Spazio, tempo e architettura, Hoepli, Milano 1954, pp. 393-95.<br />
28
appresentava l’impotenza artistica e la debolezza <strong>di</strong> carattere dell’architettura<br />
americana, mentre le semplici e rigorose forme del Modernismo europeo erano il<br />
simbolo <strong>di</strong> un in<strong>di</strong>vidualismo senza compromessi. La realtà, e il romanzo della<br />
Rand, erano però molto più complessi. Nel romanzo la lotta dell’eroe per la<br />
propria integrità è un simbolo della battaglia <strong>di</strong> Wright per un’architettura<br />
americana più genuina e onesta. La Rand aveva chiaramente posto delle<br />
<strong>di</strong>fferenze tra lo stile <strong>di</strong> Roark – modellato sui lavori più tar<strong>di</strong> <strong>di</strong> Wright – ed il<br />
severo Modernismo.<br />
Un chiaro esempio <strong>di</strong> questa tendenza fu il progetto dell’olandese Bernard<br />
Bijvoet, sempre per il concorso del Tribune, che<br />
doveva avere evidentemente influenzato Carrere nel<br />
<strong>di</strong>segnare l’e<strong>di</strong>ficio Enright. Questo grattacielo si<br />
presenta come un assemblaggio <strong>di</strong> due stili <strong>di</strong>versi.<br />
Da un lato la purezza delle linee orizzontali<br />
dell’e<strong>di</strong>ficio principale rivelano la struttura a scheletro<br />
interna in un sottile gioco <strong>di</strong> trasparenze, dall’altro<br />
l’ala specchiata ricorda il PALAZZO DEL SEGRETARIATO DELL’ONU a New York, i cui<br />
lavori erano iniziati proprio nel 1949.<br />
Il primo è un chiaro segnale <strong>di</strong> in<strong>di</strong>pendenza <strong>di</strong> pensiero e <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidualismo<br />
formale, mentre il secondo un chiaro omaggio all’International Style ed ai<br />
monoliti in vetro <strong>di</strong> Mies. Gli architetti europei come Bijvoet, si sarebbero<br />
probabilmente trovati a proprio agio con alcune forme <strong>di</strong> collettivismo <strong>di</strong> cui si<br />
parla nel film 30 e verso le quali era rivolta la polemica <strong>di</strong> Wright. Nel film, la<br />
critica <strong>di</strong> Roark era invece <strong>di</strong>retta verso il collettivismo eclettico dei newyorchesi<br />
provenuti dal Beaux-Arts. All’interno del film i confini tra uno stile e l’altro sono<br />
più sfumati. In certi momenti sembra ad<strong>di</strong>rittura che Carrere si sia ispirato più<br />
30 Non a caso il PALAZZO ONU era il risultato <strong>di</strong> un lavoro <strong>di</strong> gruppo cui parteciparono <strong>di</strong>eci gran<strong>di</strong> nomi<br />
dell’architettura internazionale, tra cui Le Corbusier e Oscar Niemeyer.<br />
29
alle opere californiane <strong>di</strong> Schindler, Neutra e dei loro seguaci, che a Wright<br />
stesso.<br />
Nella parte centrale del film vengono inquadrate alcune opere che Roark<br />
realizza nel suo periodo <strong>di</strong> crisi professionale. Wright, durante lo stesso periodo<br />
realizzò a Los Angeles alcune delle sue opere più controverse ed audacemente<br />
dettagliate, come la ENNIS HOUSE [1923-24] <strong>di</strong> chiara ispirazione messicana.<br />
Quelli che Carrere realizzò per Roark, furono invece delle felici anticipazioni<br />
dell’architettura losangelena postmoderna. Il primo bozzetto, un negozio con un<br />
tetto aggettante ed un profilo convesso verso l’interno, ricorda molto le miria<strong>di</strong> <strong>di</strong><br />
caffè e ristoranti che si trovano lungo le aree più commerciali della metropoli<br />
californiana. La struttura rientrante del palazzo per uffici, chiaro riferimento al<br />
CBS HEADQUARTERS 31 [1936], è stata recentemente ripresa per gli HARVARD<br />
APARTMENTS [1992], in chiave postmoderna: associando un colore, invece <strong>di</strong> una<br />
forma, ad ogni funzione presente nell’e<strong>di</strong>ficio. Un altro<br />
progetto raffigurante una residenza privata è forse l’unico<br />
che ricorda Wright nel periodo in cui esasperò le linee<br />
orizzontali come nella LOWELL HOUSE [1948] in Iowa. Le<br />
gran<strong>di</strong> sorprese del film sono costituite comunque, più<br />
che dai lavori <strong>di</strong> Roark, dai progetti che Carrere <strong>di</strong>segnò per Henry Cameron. Il<br />
personaggio <strong>di</strong> Cameron è, almeno in teoria, un omaggio a Louis Sullivan,<br />
esponente <strong>di</strong> punta della Scuola <strong>di</strong> Chicago, e maestro <strong>di</strong> Wright prima del<br />
volgere del secolo.<br />
Nel suo capolavoro, i magazzini CARSON, PIRIE & SCOTT [1904], seppe coniugare<br />
lo sperimentalismo delle linee orizzontali intersecate con le verticali, con un<br />
decorativismo leggero e mai banale. In realtà, i progetti <strong>di</strong> Cameron surclassano<br />
quelli <strong>di</strong> Roark per audacia delle forme ed una forte comunicazione visiva,<br />
31 Realizzato da William Lescaze, è l’e<strong>di</strong>ficio che si vuole sia il capostipite dell’International Style in California.<br />
Cfr. R. Banham, 1971, Los Angeles, l’architettura <strong>di</strong> quattro ecologie, Costa & Nolan, Genova 1983, pp. 166-<br />
67.<br />
30
sconosciute al vero Sullivan.<br />
I volumi pesantemente concreti anticipano <strong>di</strong> qualche anno la tendenza<br />
brutalista dell’architettura moderna da un lato, mentre svelano la struttura a<br />
scheletro dei grattacieli dall’altro. L’e<strong>di</strong>ficio che Cameron mostra a Roark, mentre<br />
si <strong>di</strong>rigono verso l’ospedale, sembra un’anticipazione <strong>di</strong> quel CRAWFORD MANOR <strong>di</strong><br />
Paul Rudolph, che Venturi definisce «pure architecture» 32 . L’e<strong>di</strong>ficio in questione,<br />
costruito nel 1962, era la punta più avanzata della tendenza verso la<br />
megastruttura, in cui si cercava <strong>di</strong> «elevare il sistema <strong>di</strong> valori/budget del<br />
committente grazie ad un riferimento alle Arti ed alla Metafisica» 33 .<br />
Come <strong>di</strong>ce Cameron a Roark, “la forma <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio deve avere una sua<br />
funzione” e curiosamente il testamento morale <strong>di</strong> Cameron si rispecchia nella<br />
pianta sagomata ed elegante del CRAWFORD MANOR. Paul Rudolph rimane un<br />
personaggio importante per l’architettura americana per aver avviato una<br />
corrente parallela al Brutalismo britannico, grazie all’uso aggressivo del cemento<br />
armato.<br />
Quando il film uscì, la risposta dei critici fu unanimemente negativa. La stampa<br />
specializzata fece notare, anzitutto, i gran<strong>di</strong> problemi strutturali causati dagli<br />
enormi cantieri che si vedono nel film 34 . Oltre a denigrare l’interpretazione rigida<br />
ed inadeguata <strong>di</strong> Gary Cooper, ed alcune debolezze nell’intreccio della trama, la<br />
critica si accese in un <strong>di</strong>battito infuocato sulla nozione <strong>di</strong> Genio e sulla questione<br />
del <strong>di</strong>ritto assoluto <strong>di</strong> un artista sul suo lavoro. Nonostante il ritratto della Rand <strong>di</strong><br />
un architetto visto come un genio infallibile fosse esagerato, non era in ogni caso<br />
troppo lontano dalla verità. Ci sono giunte molte immagini <strong>di</strong> architetti<br />
contemporanei nella posa <strong>di</strong> orgogliosi creatori, che possono aver influenzato<br />
Carrere e tanto Wright, quanto Gropius, si trovano tra questi.<br />
Ellsworth Toohey, il critico artistico del “The Banner”, è la figura<br />
32<br />
R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, 1972, op. cit., pag. 102.<br />
33<br />
Ivi.<br />
34<br />
Cfr. G. Nelson, 1949, “Mr. Roark goes to Hollywood”, Interiors 108, pp. 106-11.<br />
31
appresentativa del gusto dominante ed il vero nemico dell’in<strong>di</strong>pendenza <strong>di</strong><br />
pensiero nella creazione. Il personaggio è stato probabilmente ricalcato sulla<br />
figura <strong>di</strong> Montgomery Schuyler, il maggiore critico <strong>di</strong><br />
architettura del tempo, che a proposito della World Fair<br />
<strong>di</strong> Chicago aveva detto che «il successo è prima <strong>di</strong> tutto<br />
un successo dell’unità, un trionfo dell’ensemble» 35 .<br />
Schuyler esaltava la superiorità del lavoro collettivo<br />
rispetto all’esperienza in<strong>di</strong>viduale; Ellsworth Toohey, dal<br />
canto suo, sopporta ben poco gli architetti <strong>di</strong> genio come<br />
Roark, “perché un uomo superiore è un insulto a quelli comuni”. La sua è<br />
soprattutto una critica all’in<strong>di</strong>vidualismo <strong>di</strong> Roark, raffigurato come un uomo<br />
concentrato solo sul suo valore personale.<br />
F.L. Wright, in realtà, non lavorava da solo, ma nella sua comunità, Taliesin,<br />
aveva instaurato più un rapporto tra maestro e <strong>di</strong>scepoli che tra colleghi paritari.<br />
Walter Gropius, invece, credeva fermamente nella fecon<strong>di</strong>tà del lavoro collettivo<br />
e firmò molte delle sue ultime opere con il The Architects Collaborative, lo stu<strong>di</strong>o<br />
da lui fondato su <strong>di</strong> un rapporto paritetico con gli altri.<br />
Alberto Abruzzese fa presente riguardo il <strong>di</strong>scorso della critica, che la<br />
progressiva settorializzazione dell’attività intellettuale ha ovvie ripercussioni<br />
anche su quella artistica 36 . E proprio nel passaggio tra l’astrazione del lavoro<br />
intellettuale e la concretizzazione voluta dall’industria culturale si rintracciano le<br />
evidenti analogie con i meccanismi che regolavano la vita <strong>di</strong> artisti solitari come<br />
Wright. Nei suoi scritti l’architetto ha più volte fatto notare quanto fosse<br />
fondamentale la sua <strong>di</strong>fferenza culturale dalla massa:<br />
35 Cit. in W. R. Taylor, 1992, op. cit., p. 84.<br />
36 A. Abruzzese, 1976, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Liguori, Napoli, pp. 131-161.<br />
32
dapprima il grattacielo non era che una pila <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici a cornicione in stile, a cavalcioni l’uo<br />
sull’altro. Poi, un grande architetto lo sentì come un’unità e come bella architettura [1930, p.<br />
169]<br />
Differenza che si fa <strong>di</strong>ffidenza nei confronti del prossimo e della massa. Wright<br />
pur essendo anche uno scultore <strong>di</strong> opere pubbliche, come il GUGGENHEIM, rimase<br />
legato soprattutto alla relazione con il singolo. Nei primi e<strong>di</strong>fici insisteva spesso<br />
per il progetto totale, rimanendo deluso quando i suoi committenti non<br />
accettavano anche le sue soluzioni interne. Un buon esempio <strong>di</strong> architettura<br />
d’interni è ripreso proprio nel film, dove la sistemazione dell’appartamento <strong>di</strong><br />
Enright è la proiezione del progetto a spirale del SOLOMON GUGGENHEIM <strong>di</strong> New<br />
York [1955-59]. Gli affacci rientranti dei piani superiori sul salone principale, la<br />
scala che si erge sinuosamente verso il primo piano, sono tutti elementi che<br />
ricorrevano già in opere precedenti <strong>di</strong> Wright, come le balconate nell’e<strong>di</strong>ficio della<br />
LARKIN COMPANY [1903-05].<br />
La leggera scala è stata invece ripresa nel recente Gattaca [1997]. Le<br />
ambientazioni gelide <strong>di</strong> Wright ben si adattano a questo atipico film <strong>di</strong><br />
fantascienza, dove sono riprese in chiave <strong>di</strong> alienazione e <strong>di</strong> <strong>di</strong>stacco. Il MARIN<br />
COUNTY CIVIC CENTER [1957-66], una delle ultime realizzazioni <strong>di</strong> Wright in<br />
California, è il nucleo centrale del misterioso mondo <strong>di</strong> Gattaca, dove i vasti spazi<br />
interni vogliono essere una rappresentazione simbolica della solitu<strong>di</strong>ne interiore<br />
dei personaggi. Nella realtà, quando Wright costruì questo e<strong>di</strong>ficio pubblico, il suo<br />
intento era esattamente l’opposto: egli voleva porre il citta<strong>di</strong>no in un ambiente<br />
luminoso, piacevole, immerso nella natura. Aveva ideato una <strong>di</strong>sposizione interna<br />
che avrebbe permesso agli uffici <strong>di</strong> essere <strong>di</strong>sposti in maniera <strong>di</strong>fferente secondo<br />
le esigenze dei lavoratori e dei <strong>di</strong>fferenti perio<strong>di</strong> lavorativi.<br />
Contrariamente alla monumentalità della maggior parte delle costruzioni<br />
ufficiali, il centro civico si estende in tutta la sua lunghezza tra le colline ed è<br />
costituito da una bassa cupola circolare, seguita da un lungo e<strong>di</strong>ficio a pianta<br />
rettangolare. Probabilmente è stata la purezza delle geometrie degli archi che<br />
33
attraversano tutta la costruzione, ad attirare il regista Andrew Niccol, che ha<br />
lavorato in stretta collaborazione con lo scenografo Jan Roelfs per ricreare le<br />
atmosfere wrightiane, tanto negli esterni quanto negli interni. La scala, cui si<br />
faceva cenno precedentemente, si trova all’interno dell’appartamento del<br />
protagonista ed assume un significato ancora più simbolico se si pensa che<br />
rappresenta la barriera [quasi] insormontabile per l’amico immobilizzato del<br />
protagonista.<br />
Le geometrie ricorrenti del cerchio e della spirale ritornano perio<strong>di</strong>camente sia<br />
nella <strong>di</strong>sposizione degli uffici, sia nell’evoluzione della trama. Gli affacci dei<br />
corridoi sui piani inferiori sono nuovamente quelli del GUGGENHEIM, mentre la<br />
<strong>di</strong>sposizione delle scrivanie nella sala principale richiama la JOHNSON & SON<br />
COMPANY. La storia del film è costituita da un cerchio che si chiude intorno ai<br />
protagonisti, con la rinascita per uno e la morte per l’altro. Lo stesso Wright,<br />
nelle ultime opere, era ossessionato dal cerchio, quasi volesse chiudere la sua<br />
carriera artistica con la figura che più considerava perfetta.<br />
34
1.2 “BATMAN”: SHIN TAKAMATSU<br />
LA TRASFIGURAZIONE DELLA REALTÀ ATTRAVERSO IL SOGNO<br />
35<br />
La Metropoli è folla <strong>di</strong> piaceri, <strong>di</strong> vizi, <strong>di</strong> virtù […] E’<br />
negazione della forma organica, <strong>di</strong>struzione dell’<br />
”animo” della Gemeinschaft, è folla.<br />
Massimo Cacciari [1973]<br />
Il film <strong>di</strong> Tim Burton ha richiesto una lunga gestazione per quanto riguarda le<br />
scelte scenografiche. Il desiderio del regista era <strong>di</strong> creare una città che non fosse<br />
identificabile né geograficamente, né storicamente, ma che riuscisse a restituire<br />
l’idea <strong>di</strong> una metropoli occidentale. Priva <strong>di</strong> riferimenti temporali, ma con una<br />
sensazione da anni Quaranta, Gotham City è il risultato <strong>di</strong> un duro lavoro<br />
iconografico da parte dello scenografo Anton Furst. Andando contro ogni più<br />
semplice regola urbanistica, Furst ha costruito 37 una città che sembra fuoriuscita<br />
<strong>di</strong>rettamente dalla pavimentazione stradale.<br />
Scura e fumosa, Gotham City rifiuta la logica che vorrebbe, come nelle città<br />
normali, un limite all’altezza dei grattacieli, per permettere il passaggio della<br />
luce, un piano regolatore che rappresenti un filo conduttore tra una zona e<br />
l’altra. Dopo un’attenta lettura <strong>di</strong> Metropolis, Furst decise che voleva creare una<br />
città <strong>di</strong>versa da tutte le altre:<br />
Metropolis ha l’aria <strong>di</strong> una città progettata da una sola persona. New York o qualunque altra<br />
metropoli ha, invece, l’aria <strong>di</strong> essere state progettata da migliaia <strong>di</strong> architetti, attraverso<br />
centinaia <strong>di</strong> anni. […] Ho tradotto immagini <strong>di</strong> Architettura, non l’architettura stessa, in<br />
scenografia 38 .<br />
L’idea nuova <strong>di</strong> Anton Furst è proprio nell’aver voluto realizzare un concetto<br />
<strong>di</strong>verso <strong>di</strong> metropoli. Sprovvista dei riferimenti tra<strong>di</strong>zionali all’eclettismo, Gotham<br />
37<br />
Realizzato negli stu<strong>di</strong> Pinewood [Londra], il set <strong>di</strong> Batman è stata la più grossa struttura scenografica<br />
realizzata fuori da Hollywood, dai tempi <strong>di</strong> Cleopatra.<br />
38<br />
Cit. in J. D. Shannon, 1990, “A Dark and Stormy Knight”, Cinefex 41, pp. 4-33.
City è un abile melting pot <strong>di</strong> Brutalismo britannico, Futurismo italiano,<br />
Costruttivismo russo, Decorativismo austriaco e Modernismo spagnolo. In<br />
Gotham City ogni struttura ha, non solo un significato particolare, ma<br />
rappresenta idealmente una parte della storia dell’architettura appartenente a<br />
questo secolo.<br />
Si possono notare i segni lasciati da Otto Wagner nella Vienna d’inizio<br />
Novecento, così come le strutture forti <strong>di</strong> Mel’nikov; il nuovo espressionismo<br />
strutturale <strong>di</strong> Norman Foster, ma anche certo razionalismo italiano, come quello<br />
originale del gruppo BBPR nella TORRE VELASCA [1958] <strong>di</strong> Milano, oppure il<br />
sentimento gotico <strong>di</strong> Antoni Gaudì nella sua SAGRADA FAMILLA. Gotham City è tutto<br />
questo, con in più un notevole senso del concetto <strong>di</strong> architettura industriale<br />
postmoderna. Il riassunto <strong>di</strong> un secolo <strong>di</strong> modernismo, non ha, infatti, impe<strong>di</strong>to a<br />
Furst <strong>di</strong> richiamare l’attenzione sulle nuove tendenze.<br />
Nel progettare l’e<strong>di</strong>ficio che accoglie il Fulgenheim Museum, il luogo dove si<br />
svolge il ballet mécanique <strong>di</strong> Joker, lo scenografo si è <strong>di</strong>chiaratamente ispirato ad<br />
un architetto <strong>di</strong> Kyoto, Shin Takamatsu. Erede <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione che ha fatto<br />
della sperimentazione sui modelli precostituiti la propria ban<strong>di</strong>era, Takamatsu ha<br />
sempre saputo infondere alle sue architetture un senso <strong>di</strong> spaesamento,<br />
centrando l’obiettivo <strong>di</strong> suggerire sempre un giu<strong>di</strong>zio,<br />
positivo e negativo, che fosse. È impossibile rimanere<br />
in<strong>di</strong>fferenti <strong>di</strong> fronte all’e<strong>di</strong>ficio che ha ispirato Furst, la<br />
clinica odontoiatrica ARK .<br />
Ponendosi più come un oggetto autoreferente che un<br />
aggiornamento delle tematiche meccanicistiche, la clinica<br />
ARK rappresenta un approccio nuovo al rapporto tra<br />
architettura e spazio. Costruita semplicemente in cemento armato e acciaio, ARK<br />
ha l’aspetto <strong>di</strong> una locomotiva a vapore immobilizzata nel tempo. Secondo le<br />
36
parole dello stesso Takamatsu, la struttura non va interpretata come un’allusione<br />
al passato, ma piuttosto come una proiezione nel futuro. L’architetto fa<br />
riferimento alla nozione <strong>di</strong> scala, <strong>di</strong>cendo che nel posizionamento strutturale <strong>di</strong><br />
un e<strong>di</strong>ficio, bisogna sempre tenere d’occhio in che modo si rapporta all’ambiente<br />
circostante: «Se un e<strong>di</strong>ficio è nuovo o no, <strong>di</strong>pende da certe relazioni <strong>di</strong> scala» 39 .<br />
Nel caso <strong>di</strong> Gotham City, il Flugenheim Museum si correla perfettamente con il<br />
resto delle architetture. Anton Furst ha avuto l’abilità <strong>di</strong> creare una sorta <strong>di</strong><br />
accumulo <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici, tanto <strong>di</strong>sadorni <strong>di</strong> applicazioni, quanto pieni <strong>di</strong> tutti quegli<br />
elementi che sono presenti in una fabbrica dell’Ottocento. Pinnacoli che sbuffano<br />
vapore, gran<strong>di</strong> finestre offuscate dalla fuliggine, serpentine <strong>di</strong> tubi lasciate a<br />
vista: gli e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong> Gotham City sono coperti da strutture espressionistiche che si<br />
rifanno all’immaginario industriale.<br />
L’impressione, ad un occhio non allenato, potrebbe essere quella <strong>di</strong> una<br />
ridondanza <strong>di</strong> segni. Forse il fascino <strong>di</strong> Gotham City, però, consisteva proprio nel<br />
poter seguire il <strong>di</strong>panarsi dello scenario, esattamente come il fluire dell’azione.<br />
Anton Furst, uomo colto e abilissimo nella gestione <strong>di</strong> un così vasto progetto 40 ,<br />
non riuscì più ad esprimere un così alto concetto <strong>di</strong> total design 41 .<br />
Il cammino del suo ispiratore, è proseguito invece notevolmente dal 1982,<br />
anno <strong>di</strong> costruzione <strong>di</strong> ARK, fino a farne uno degli architetti più importanti del<br />
Giappone contemporaneo. Staccatosi progressivamente dalla tendenza verso la<br />
megastruttura spoglia del Metabolismo, Takamatsu ha ripreso molto delle idee<br />
del Futurismo italiano e dell’Espressionismo tedesco. Della corrente dei padri, il<br />
Metabolismo, appunto, ha recuperato il concetto <strong>di</strong> città vista come un organismo<br />
soggetto a cicli <strong>di</strong> crescite e ricadute, ma ha eliminato il concetto fondamentale<br />
della megastruttura vista come unico progetto, capace <strong>di</strong> resistere nel lungo<br />
39<br />
Cit. in M. Vitta [ed.], 1996, Shin Takamatsu. Architecture and nothingness, L’Arca E<strong>di</strong>zioni, Milano, p. 39.<br />
40<br />
Il set <strong>di</strong> Batman richiese una lunga gestazione formale, ma solo cinque mesi per la realizzazione effettiva.<br />
41<br />
Lo scenografo è morto suicida nel 1991, dopo la sua prima commissione da vero architetto: la progettazione<br />
dell’HOLLYWOOD PLANET <strong>di</strong> New York.<br />
37
periodo.<br />
Riprendendo le idee <strong>di</strong> Sant’Elia, che vedeva la sua CITTÀ NUOVA come uno<br />
spazio complesso dove ha luogo il processo produttivo, Takamatsu ha realizzato<br />
delle strutture che rivelano la propria tensione verso il futuro, mostrando questo<br />
progresso sia nella struttura [forma], che nella <strong>di</strong>stribuzione dell’e<strong>di</strong>ficio<br />
[funzione], che ancora nelle relazioni con il tessuto urbano [contesto]. L’interesse<br />
<strong>di</strong> Sant'Elia era rivolto soprattutto verso «la capacità <strong>di</strong> programmare e utilizzare<br />
plasticamente movimenti or<strong>di</strong>nati e precisi» 42 ; la mancanza <strong>di</strong> planimetrie<br />
presupponeva il primato dell’immagine nei confronti della fredda analisi della<br />
pianta. Negli e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong> Takamatsu non solo nulla viene lasciato al caso, ma la<br />
visione <strong>di</strong> una pianta non ne rivela tutta la ricchezza formale.<br />
Come in un quadro <strong>di</strong> Giacomo Balla [ad esempio Compenetrazione iridescente<br />
ra<strong>di</strong>ale, 1914], nei suoi e<strong>di</strong>fici, gli elementi vengono scomposti e riassemblati<br />
secondo modalità <strong>di</strong> derivazione industriale, seguendo una logica meccanicistica.<br />
Attraverso l’andamento contratto della comunicazione <strong>di</strong> inizio secolo, la<br />
macchina si affermò come oggetto centrale nel rituale della metropoli moderna,<br />
grazie alla propria mobilità.<br />
Allo stesso modo le macchine da lavoro <strong>di</strong> Takamatsu non sono solo oggetti<br />
fermi nell’incanto del momento, ma la loro percezione cambia secondo la mobilità<br />
dello sguardo. Nel momento in cui i futuristi tendevano ad immobilizzare il tempo<br />
nei limiti del quadro, così l’architettura <strong>di</strong> Takamatsu rimane un oggetto, solo<br />
apparentemente scoor<strong>di</strong>nato dall’ambiente, e fissato nello spazio urbano grazie a<br />
degli ancoraggi invisibili. La sospensione temporale <strong>di</strong> questi oggetti architettonici<br />
li situa in un mondo parallelo, in cui l’utilizzo <strong>di</strong> materiale industriale funge da<br />
pretesto per una parziale relazione con la realtà.<br />
Il concetto <strong>di</strong> Killing Moon, che torna spesso negli e<strong>di</strong>fici <strong>di</strong> Takamatsu, è <strong>di</strong><br />
42 P. Portoghesi, 1998, I gran<strong>di</strong> architetti del Novecento, Newton & Compton, Roma, p. 259.<br />
38
chiara matrice futurista: lo stesso Marinetti lo citava spesso. Ultimamente la<br />
rappresentazione della Luna è tornata in un progetto per un albergo situato nella<br />
prefettura <strong>di</strong> Osaka. Strutturalmente simile ad un grattacielo, la MOON TOWER è<br />
dotata <strong>di</strong> un’espressività formale notevole, grazie all’inserimento <strong>di</strong> un’enorme<br />
luna luminosa, che ne spacca verticalmente la composizione.<br />
Considerata dallo stesso architetto come una «transizione verso<br />
l’irreversibilità» 43 , la luna assume il significato specifico <strong>di</strong> collegamento con lo<br />
spazio dell’immaginario. I sentimenti che suscita sono quelli <strong>di</strong> un senso <strong>di</strong><br />
astrazione dalla realtà, e <strong>di</strong> un precipitare in un mondo parallelo. Questa visione<br />
onirica era stata esplorata da Lewis Hine, il grande fotografo statunitense, verso<br />
gli anni Venti.<br />
Dotato <strong>di</strong> una forte sensibilità nello stabilire rapporti insoliti, tra figura umana<br />
e ambiente, sapeva isolare con il suo obiettivo l’astrattezza della città moderna e<br />
del macchinario industriale. Nelle sue fotografie, gli uomini venivano ridotti a<br />
figure lillipuziane, quasi ingoiate dalle macchine. In Steamfitter 44 [1921], si<br />
riconosce tutta l’astrattezza che caratterizzò le ultime opere del famoso<br />
fotografo: dal realismo sociale degli anni Dieci era passato ad una <strong>di</strong>mensione<br />
onirica del lavoro e dei suoi referenti meccanici. Allo stesso modo si possono<br />
leggere i mutamenti <strong>di</strong> significato insiti in un’opera <strong>di</strong> Takamatsu. Nel desiderio <strong>di</strong><br />
esplorare il lato oscuro della psiche umana, i suoi oggetti d’architettura si<br />
presentano in maniera sinistra. Il KIRIN PLAZA <strong>di</strong> Osaka [1987], ad esempio, si<br />
presta ad una deco<strong>di</strong>fica aberrante. Niente, in questo e<strong>di</strong>ficio, è ciò che sembra<br />
essere. Costruito in cemento armato, ed inframmezzato da inserti in acciaio ed<br />
alluminio, il KIRIN PLAZA presenta sulla cima quattro torri traslucide, realizzate in<br />
vetro e carta <strong>di</strong> riso, che alla luce notturna simulano gli andon, le tra<strong>di</strong>zionali<br />
lampade giapponesi. Le torri non rappresentano un elemento casuale nel<br />
43<br />
Cit. in M. Vitta, 1996, op. cit., p. 187.<br />
44<br />
L’opera raffigura un uomo intento ad avvitare dei bulloni ad una macchina a vapore che presenta la stessa<br />
struttura frontale <strong>di</strong> ARK.<br />
39
contesto generale, ma fungono da riferimento per i pedoni che affollano lo strip<br />
commerciale <strong>di</strong> Shinsaibashisuji.<br />
L’immaginario meccanico è sempre stato una fonte <strong>di</strong> ispirazione, anche prima<br />
che Le Corbusier affermasse che la casa è una macchina per abitare. In e<strong>di</strong>fici<br />
come il KIRIN PLAZA, lo spiazzamento determinato dalla [presunta] ignoranza sulla<br />
destinazione d’uso, prevale sull’ammirazione che si può provare nel vedere un<br />
oggetto cesellato con precisione. Gli oggetti <strong>di</strong> Takamatsu <strong>di</strong>mostrano la continua<br />
capacità della macchina, <strong>di</strong> eccitare i nostri sensi. Queste costruzioni sono meglio<br />
definibili degli oggetti d’architettura, in quanto mancano allo sguardo gli elementi<br />
costitutivi <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio.<br />
Nel KIRIN, ad esempio, non si <strong>di</strong>stingue la separazione tra un piano e l’altro;<br />
mancando anche le finestre, la sensazione istintiva è <strong>di</strong> trovarsi <strong>di</strong> fronte ad un<br />
oggetto ermetico ed ostile. Questa sensazione deriva dalla mancata sincronia tra<br />
un ambiente in continua evoluzione, ed il linguaggio formale dell’architettura.<br />
Volendo applicare le classificazioni formali redatte da Paolo Castelnovi,<br />
riguardo alla percezione della struttura urbana 45 , si potrebbe affermare che il<br />
citta<strong>di</strong>no formula i propri giu<strong>di</strong>zi sull’ambiente circostante, attraverso un<br />
vocabolario semantico ormai datato. Il dover procedere per sintesi<br />
approssimative <strong>di</strong> questo linguaggio, in modo da permettere una definizione<br />
dell’oggetto, non ne aiuta la comprensione formale. L’architettura <strong>di</strong> Takamatsu<br />
va oltre questo alfabeto architettonico, non è riconducibile a nessun para<strong>di</strong>gma,<br />
ma si pone esplicitamente come oggetto che riferisce soltanto a sé stesso.<br />
Trovandosi a lavorare in un ambiente urbanistico saturo, Takamatsu ha dovuto<br />
stabilire dei rapporti nuovi tra architettura e natura, tra testo e contesto. Si<br />
spiega così il posizionamento semantico <strong>di</strong> ARK: influenzata dalla vicina stazione<br />
ferroviaria, la clinica determina un’ulteriore ridefinizione dell’ambiente<br />
45<br />
Cfr. P. Castelnovi, 1980, La città: istruzioni per l’uso. Semiotica della comunicazione nel progetto e nello<br />
spazio urbano, Einau<strong>di</strong>, Torino, pp. 126-130.<br />
40
circostante, determinando il passaggio da una sostanza meccanicistica, data dalla<br />
sua struttura, ad un’essenza onirica, data dal suo essere “destabilizzante”.<br />
L’architettura può così spiegarsi come una macchina produttrice <strong>di</strong> senso, inteso<br />
come senso in<strong>di</strong>viduale, sollecitato in mo<strong>di</strong> <strong>di</strong>fferenti secondo il proprio<br />
vocabolario semantico.<br />
La mobilità dello sguardo, provocata dal continuo sovrapporsi <strong>di</strong> riman<strong>di</strong><br />
ipertestuali, costituiti dal citazionismo industriale degli oggetti <strong>di</strong> Takamatsu,<br />
provoca quella Steigerung des Nervenlebens <strong>di</strong> cui aveva parlato Georg Simmel<br />
con riferimento alla Metropoli Moderna 46 .<br />
L’osservazione <strong>di</strong> questo tipo <strong>di</strong> oggetti va nella <strong>di</strong>rezione opposta rispetto<br />
all’atrofizzazione intellettuale provocata da certo razionalismo spinto all’eccesso.<br />
L’architettura <strong>di</strong> Takamatsu si impone come luogo, perché riconcilia le sensazioni<br />
destate, in un unico flusso <strong>di</strong> coscienza, <strong>di</strong>stogliendo l’impressione in<strong>di</strong>viduale<br />
dalla propria tenacia osservativa, ed elevandola a natura spirituale. Il luogo ARK<br />
o il luogo KIRIN PLAZA, appartengono <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto alla Metropoli, in quanto evocativi<br />
del ciclo <strong>di</strong> produzione:<br />
Finché il valore della città è semplicemente sintesi <strong>di</strong> forma e funzione nella appercezione<br />
originaria della sua totalità, la <strong>di</strong>mensione temporale rimane assente. […] Anche il tempo va<br />
conciliato. Anche nel tempo deve esserci forma 47 .<br />
Takamatsu va oltre questa appercezione: la forma del nostro tempo potrebbe<br />
essere quella <strong>di</strong> questa architettura, così provocatoria da spingere al <strong>di</strong>battito,<br />
così evocativa da riportare alla mente le mille citazioni, filmiche e architettoniche,<br />
presenti nella nostra coscienza.<br />
46 Cfr. M. Cacciari, 1973, Metropolis, Officina, Roma, p. 10.<br />
47 Ibid., p. 82.<br />
41
1.3 “TRUMAN SHOW”: LÉON KRIER.<br />
L'UTOPIA DELL'ETERNO PRESENTE<br />
42<br />
Broadacre è la nostra città libera per la Sovranità<br />
dell’In<strong>di</strong>viduo! Quando la democrazia e<strong>di</strong>fica, questa è<br />
la naturale città della libertà nello spazio, del riflesso<br />
umano.<br />
Frank Ll. Wright [1958]<br />
Quando nel 1998 Andrew Niccol firma la sceneggiatura <strong>di</strong> The Truman Show,<br />
l'autore <strong>di</strong> Gattaca mette nuovamente in pie<strong>di</strong> una struttura basata sull’effetto<br />
della nostalgia, come fu nel 1982 per Blade Runner. Partendo dallo stesso spunto<br />
[la città immaginata come reale] The Truman Show opera in maniera <strong>di</strong>versa sul<br />
terreno della fantascienza. Se Blade Runner voleva essere una sintesi tra lo stile<br />
architettonico del 2020 e lo stile narrativo del 1940, fondando quin<strong>di</strong> la propria<br />
tesi sugli archetipi narrativi del noir, The Truman Show mostra «uno scenario del<br />
futuro basato su una sorta <strong>di</strong> conto alla rovescia» 48 . La visione apocalittica <strong>di</strong><br />
Ridley Scott ha lasciato il posto ad un piccolo mondo antico tanto puro, quanto<br />
inquietante. L’inquietu<strong>di</strong>ne deriva soprattutto dal fatto che la città dove vive il<br />
protagonista Truman Burbank, Seahaven, esiste veramente: si tratta <strong>di</strong> una<br />
località turistica situata in Florida.<br />
Costruita negli anni Ottanta, SEASIDE, questo il suo vero nome, è un’unica<br />
architettura congelata nel tempo, una sfida aperta al concetto fortemente<br />
americano <strong>di</strong> in<strong>di</strong>vidualismo. Dall’unicità dell’opera <strong>di</strong> Wright [un progetto per un<br />
solo utente], si giunge qui al pluralismo [non] intellettuale, all’architettura <strong>di</strong>ffusa<br />
[perché democratica] e con<strong>di</strong>visa [tanti progettisti per altrettanti utenti]. Il<br />
<strong>Sogno</strong> Americano è dunque realizzato: siamo dalle parti del politicamente<br />
48 D. M. Steiner, 1999, “The Truman Show”, Domus 816, p. 8.
corretto in versione immobiliare, «una terra promessa per i ceti me<strong>di</strong> urbani <strong>di</strong><br />
tutto il mondo» 49 .<br />
La forza del film risiede proprio nel fatto che la finzione, in questo caso<br />
fantascientifica, opera su <strong>di</strong> un substrato reale, che amplifica il dramma della<br />
solitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> Truman Burbank. Il protagonista, uomo più moderno <strong>di</strong> Rick<br />
Deckard, è un integrato: si trova perfettamente a suo agio in quello che lui<br />
considera un habitat naturale, ed assume quell’atteggiamento <strong>di</strong> buona creanza<br />
così frequente nei film ambientati nei sobborghi. Rick Dekard è invece in una<br />
situazione <strong>di</strong> <strong>di</strong>stopia: completamente slacciato da una città che lo rifiuta, si<br />
considera incapace, forse perché deluso, <strong>di</strong> stringere dei rapporti interpersonali<br />
con chiunque, tipico rigurgito della vita nella grande ed inospitale metropoli. Che<br />
la vita vera [perché più accessibile dal punto <strong>di</strong> vista personale, ma non per<br />
questo meno terrificante], risieda a Seaside/Seahaven piuttosto che nella Los<br />
Angeles del 2019, è un dato <strong>di</strong> fatto.<br />
Al drammatico conflitto tra inferno fantascientifico ed inferno realizzato,<br />
sembra rispondere il lavoro <strong>di</strong> Léon Krier, architetto lussemburghese, il cui lavoro<br />
è caratterizzato dalla stessa immobilità atemporale <strong>di</strong> The Truman Show. Se la<br />
sua prima realizzazione tri<strong>di</strong>mensionale è costituita da una delle facciate della VIA<br />
NOVISSIMA 50 , la sua prima costruzione effettiva è un’abitazione realizzata per sé<br />
proprio a Seaside. Il regolamento e<strong>di</strong>lizio della citta<strong>di</strong>na prescriveva il linguaggio<br />
classico come fattore unificante e prendeva spunto<br />
dal pensiero <strong>di</strong> Krier. Il suo classicismo non ha mai<br />
avuto nulla a che vedere con la retorica della École<br />
des Beaux-Arts. Fuori del raggio d’azione<br />
dell’eclettismo, Krier ha dunque realizzato un accomodamento tra «antichità e<br />
Rinascimento, […] filtrato da una parte da uno spirito <strong>di</strong> razionalità e <strong>di</strong><br />
49 Ibid., p. 9.<br />
50 Cfr. P. Portoghesi, V. Scully, C. Norberg-Schulz, C. Jenks, 1980, op. cit.<br />
43
semplicità, e dall’altra dal rispetto per le tra<strong>di</strong>zioni locali e l‘interesse per il<br />
vernacolo» 51 . Ovviamente nessuno all’inizio degli anni Ottanta avrebbe mai<br />
previsto un tale revival dell’urbanesimo <strong>di</strong> fine Ottocento. Aiutato dalla passione<br />
del principe <strong>di</strong> Galles per l’architettura, il movimento New Urbanism ha preso<br />
lentamente piede ottenendo una piena legittimazione. Le città giar<strong>di</strong>no hanno<br />
cominciato a fiorire in Inghilterra, Stati Uniti, In<strong>di</strong>a, Giappone. Negli Stati Uniti, in<br />
particolare, si è sviluppato attraverso il connubio con la crescente preoccupazione<br />
da parte dei citta<strong>di</strong>ni per la propria incolumità. Il principio originario, la vivibilità<br />
sostenibile, si è così mo<strong>di</strong>ficato escludendo a priori dai regolamenti citta<strong>di</strong>ni tutto<br />
ciò che non fosse conforme alla Regola dell’Or<strong>di</strong>ne.<br />
Celebration, Modesto, Liberty Harbor, Seaside, e molte città della Florida e<br />
della California sono state costruite secondo i dettami della rigi<strong>di</strong>tà dell’accesso.<br />
Ogni pretendente alla citta<strong>di</strong>nanza deve superare dei rigi<strong>di</strong> esami da parte della<br />
comunità, e osservare le regole contenute nel contratto <strong>di</strong> acquisto<br />
dell’abitazione. Come un mondo a parte, all’interno <strong>di</strong> queste citta<strong>di</strong>ne vigono<br />
regole inusitate per qualunque altra città. Il più delle volte non possono essere<br />
apportate mo<strong>di</strong>fiche all’aspetto esterno della propria abitazione, previo consenso<br />
della comunità, per non turbare l’or<strong>di</strong>ne formale dell’intero quartiere 52 . Il sogno<br />
usoniano <strong>di</strong> Wright sembra quin<strong>di</strong> completarsi: i principi fondativi <strong>di</strong><br />
luoghi/nonluoghi come Celebration sono basati esclusivamente e rigidamente su<br />
sei stili architettonici <strong>di</strong> base.<br />
La nuova tendenza è dunque quella del «progetto sempre uguale»?<br />
L’affermazione è <strong>di</strong> Bruno Minar<strong>di</strong>, architetto italiano legato ai volumi classici.<br />
Minar<strong>di</strong> così descrive il suo fare architettura:<br />
il progetto sempre uguale e sempre <strong>di</strong>verso, assume nella inclinazione <strong>di</strong> un tetto, nella<br />
<strong>di</strong>mensione <strong>di</strong> una finestra, nei materiali della costruzione, una propria in<strong>di</strong>ssolubile<br />
localizzazione che non si esprime con il capriccio o l’artificio dell’uomo, ma attraverso le<br />
51<br />
P. Portoghesi, 1998, op. cit., p. 660.<br />
52<br />
Una <strong>di</strong>ssacrante visione <strong>di</strong> quest tipologia <strong>di</strong> vita è stata recentemente portata sugli schermi con La donna<br />
perfetta.<br />
44
gran<strong>di</strong> regole della natura 53 .<br />
Quest’ipotesi <strong>di</strong> lavoro sull’artificio/natura, descrive la tendenza al<br />
neoconservatorismo, ad un recupero degli archetipi classici. Il riciclaggio degli<br />
stili è sostenibile attraverso due percorsi <strong>di</strong>fferenti: decontestualizzando in forma<br />
ironica l’elemento classico, come nell’opera <strong>di</strong> Robert Venturi, oppure ripreso<br />
rigidamente per un’immersione totalizzante nell’antichità, come nel caso<br />
dell’architetto greco Demetri Porphyrios 54 . L’uguaglianza <strong>di</strong> questi luoghi è<br />
favorita dalla volontà precisa <strong>di</strong> esporne pubblicamente le facciate. La casa<br />
privata assume così valore <strong>di</strong> vita pubblica, pubblicizzata e controllata dai propri<br />
vicini. Scrive Denise Scott Brown:<br />
se gran parte degli e<strong>di</strong>fici privati hanno una facciata pubblica, qual è la natura dell’interesse<br />
pubblico nei confronti <strong>di</strong> quesa facciata? Gli e<strong>di</strong>fici privati dovrebbero essere e<strong>di</strong>fici sfondo al<br />
settore pubblico? […] il settore pubblico è interessato agli e<strong>di</strong>fici privati nella misura in cui<br />
questi coinvolgono il pubblico interesse e si rapportano all’ambito pubblico [1990 p. 30].<br />
L’apertura verso l’esterno , la piazza, del privato se da un lato rafforza la<br />
coesione ed i rapporti interpersonali, perduti nell’anonimato della metropoli,<br />
dall’altro incide irrime<strong>di</strong>abilmente sulle <strong>di</strong>namiche familiari, esposte come in<br />
vetrina. L’agorà <strong>di</strong>venta luogo per l’occhio panottico del citta<strong>di</strong>no, strumento <strong>di</strong><br />
controllo sociale e coercizione dei propri gesti. Le abitu<strong>di</strong>ni devono farsi uguali: la<br />
tendenza alla democratizzazione influenza quin<strong>di</strong> non tanto la forma, quanto la<br />
funzione stessa dell’essere. Il corpo nostalgico <strong>di</strong> Truman, vestito come negli anni<br />
Cinquanta, rappresenta l’uomo dei reality show e delle fortezze impenetrabili <strong>di</strong><br />
città come Los Angeles. Represso in uno spazio caramelloso ed edulcorato da<br />
ogni possibile violenza, Truman vive il suo Eterno Presente senza domande,<br />
finché non entra in gioco un elemento <strong>di</strong> <strong>di</strong>sturbo. Il New Urbanism <strong>di</strong> Krier e dei<br />
teorici non contempla evasioni dalla prigione o deviazioni da quella sostanza che<br />
è la Forma anzitutto: «non esiste un’architettura rivoluzionaria o reazionaria.<br />
Esiste solo un’architettura o la sua assenza, cioè la sua astrazione».<br />
53<br />
Ibid., p. 669.<br />
54<br />
Autore, tra l’altro, <strong>di</strong> un piccolo pa<strong>di</strong>glione nel quartiere ultramoderno <strong>di</strong> Battery Park [New York], dalla<br />
struttura <strong>di</strong> un tempio greco.<br />
45
2<br />
La Letteratura e il Tempo<br />
46
2.1 “LE CITTÀ INVISIBILI”: ALDO ROSSI<br />
LA SOSPENSIONE DEL TEMPO E DELLO SPAZIO<br />
Nel 1980 si inaugura la prima Biennale <strong>di</strong> Architettura a Venezia. Il tema è LA VIA<br />
NOVISSIMA, percorso attraverso lo sguardo degli architetti su un’ipotetica strada<br />
citta<strong>di</strong>na. Quella mostra segnerà l’epoca dell’architettura <strong>di</strong>segnata, periodo nel<br />
quale la Forma immaginaria della città prenderà il sopravvento sul costruito<br />
effettivo. Partendo dallo spunto <strong>di</strong> Anastasia, descritta da Calvino ne Le Città<br />
Invisibili, si può tentare <strong>di</strong> comprendere meglio il significato che ha avuto<br />
l’architettura effimera nella nostra cultura:<br />
mentre la descrizione <strong>di</strong> Anastasia non fa che risvegliare i desideri uno per volta per<br />
obbligarti a soffocarli, a chi si trova un mattino in mezzo ad Anastasia i desideri si risvegliano<br />
tutti insieme e ti circondano. La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va<br />
perduto e <strong>di</strong> cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non go<strong>di</strong>, a te non resta<br />
che abitare questo desiderio ed esserne contento [1972, p. 12]<br />
Il desiderio entra prepotentemente nell’immaginario dell’architettura, un<br />
desiderio nostalgico, come nel caso successivo ma ben più gelido del New<br />
Urbanism. Calvino descrive Anastasia, solo una delle tante forme della sua idea<br />
<strong>di</strong> città, come «ingannatrice», e Aldo Rossi ha a lungo giocato con l’inganno della<br />
memoria nello spettatore.<br />
47
Il TEATRO DEL MONDO costruito in occasione della Biennale era una struttura<br />
effimera perché nata e morta solo per quel momento storico. Rappresentazione<br />
del suo modo <strong>di</strong> fare architettura negli ultimi anni <strong>di</strong> lavoro, il teatro voleva<br />
mettere in scena un sogno leggero e spensierato. Un mondo intero, racchiuso in<br />
un ottagono, ancorato alla realtà terrena tramite delle funi: «l’uomo si incontra<br />
ad Anastasia, città bagnata da canali concentrici e sorvolata da aquiloni» 55 .<br />
L’immaterialità dell’effimero <strong>di</strong>viene plasma nelle mani <strong>di</strong> un autore conosciuto<br />
precedentemente per la pesantezza del costruire [come nel caso del quartiere<br />
gallaratese]. La questione oggettiva del movimento moderno stava per essere<br />
messa da parte in favore <strong>di</strong> una nuova soggettività, <strong>di</strong> un percorso più personale<br />
nel proprio pensiero. La lievità <strong>di</strong> questo ragionamento può esere rintracciata in<br />
uno degli scritti <strong>di</strong> Antonio Sant’Elia che sosteneva: «che ciascuna generazione<br />
possa costruire la città secondo le proprie necessità».<br />
Il bisogno <strong>di</strong> un progetto più personale e vicino al citta<strong>di</strong>no, è forse il<br />
sentimento che ha guidato Rossi verso delle strutture più capaci <strong>di</strong> comprendere<br />
l’anima <strong>di</strong> chi le abitava. Ma anche nel TEATRO si nota la questione del<br />
razionalismo. Forma classica e priva <strong>di</strong> funzione [e quin<strong>di</strong><br />
antirazionalista], rivela una evidente chiusura verso il<br />
mondo esterno. Come nel caso <strong>di</strong> Ghery e delle strutture<br />
decostruttiviste, in questi e<strong>di</strong>fici si realizza il <strong>Sogno</strong> del<br />
<strong>Prigioniero</strong>. Quello <strong>di</strong> un uomo costretto dalla gabbia <strong>di</strong> una<br />
città che lo respinge e <strong>di</strong> cubi vuoti <strong>di</strong> sentimento che lo<br />
respingono. Il Teatro <strong>di</strong> Rossi è come la summa delle tante<br />
città <strong>di</strong> Calvino, una architettura femmina perché attraente al primo istinto e<br />
respingente come un’onda anomala. I luoghi calviniani della Memoria del<br />
passato, del Desiderio si completano nelle città dei Morti. Tuguri senza sbocco,<br />
55 Ivi.<br />
48
privi <strong>di</strong> luce e speranza, sono quegli artifici in cui il citta<strong>di</strong>no moderno si è trovato<br />
più volte senza alternativa. Una moltitu<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> strade senza sbocco, che<br />
conducevano unicamente ad un’idea razionalista <strong>di</strong> Or<strong>di</strong>ne. La lievità del Teatro<br />
non ne esemplifica la formalità. Il razionalismo spinto all’eccesso <strong>di</strong> Rossi è come<br />
Marozia, la citta che «quando meno te l’aspetti ve<strong>di</strong> aprirsi uno spriraglio e<br />
apparire una città <strong>di</strong>versa, che dopo un istante è già sparita» 56 . Un guscio vuoto<br />
la cui facciata è costituita dal Desiderio, dall’aspirazione alla Libertà che animava<br />
gli spiriti del Movimento Moderno, ma che al momento stesso precludeva ogni<br />
possibile deviazione dal percorso originario. Un’eterna illusione fattasi scena.<br />
56 Ibid. p. 155.<br />
49
2.2 “L'ALEPH”: FRANK O. GEHRY<br />
INVOLUZIONE ED ENTROPIA NEGLI SPAZI DELLA CULTURA<br />
Quando J. L. Borges descrisse ne L’immortale [1947] il palazzo del protagonista,<br />
un luogo impossibile come una figura <strong>di</strong> Escher, non poteva immaginare che la<br />
costruzione formale <strong>di</strong> quel racconto sarebbe stata realizzata in forma <strong>di</strong> titanio<br />
più <strong>di</strong> 50 anni dopo. Così descrive l’autore argentino la Città degli Immortali:<br />
Un labirinto è un e<strong>di</strong>ficio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura ricca <strong>di</strong><br />
simmetrie è subor<strong>di</strong>nata a tal fine. Nel palazzo che imperfettamente esplorai l’architettura<br />
mancava d’ogni fine. Abbondavano il corridoio senza sboco, l’alta finestra irraggiungibile, la<br />
fastosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incre<strong>di</strong>bili scale rovesciate, coi<br />
gra<strong>di</strong>ni e la balaustra all’ingiù [1949, p. 17].<br />
La ricchezza letteraria <strong>di</strong> Borges si <strong>di</strong>pana lungo questo racconto attraverso la<br />
metafora del labirinto e del palazzo, come espressioni del tempo che [non]<br />
passa. Un’involuzione della curva temporale che attraversa la vita/non vita <strong>di</strong><br />
Omero, l’immortale del titolo. L’or<strong>di</strong>ne costituito della letteratura contemporanea<br />
è per Borges un puro strumento <strong>di</strong> esplorazione del suo scheletro e <strong>di</strong><br />
rivoluzionamento attraverso il linguaggio. Partire quin<strong>di</strong> da una funzione statica<br />
per rielaborarla attraverso più Forme.<br />
Nel 1997 viene completato il GUGGENHEIM MUSEUM a Bilbao, dopo circa <strong>di</strong>eci<br />
anni <strong>di</strong> progettazione. Osannato, criticato, ha comunque raggiunto il suo scopo<br />
facendo parlare <strong>di</strong> sé, del suo autore e riportando alla ribalta il <strong>di</strong>scorso sul futuro<br />
e la funzione dell’architettura.<br />
50
Il GHERY MUSEUM, è più giusto chiamarlo così, riassume in un unico concetto <strong>di</strong><br />
metallo fuso venti anni <strong>di</strong> lavoro dell’architetto americano intorno alla struttura e<br />
alla funzione dell’architettura contemporanea. Frank O. Ghery, californiano <strong>di</strong><br />
nascita, inizia a farsi conoscere esattamente come Robert Venturi, tramite la<br />
progettazione della propria casa, primo esempio del decostruzionismo. La<br />
tendenza alla destrutturazione formale della metropoli è visibile fin da questo<br />
progeto, espanso, in continuo rivoluzionamento. Una forma instabile<br />
continuamente soggetta a cambiamenti e aggiunte, come stralci <strong>di</strong> un romanzo<br />
mai completato. Ghery lavora per accumulo <strong>di</strong> informazioni, da un certo punto <strong>di</strong><br />
vista, come Borges. Limando continuamente, sino a rasentare il perfezionismo il<br />
proprio costruito, seguendo il filo del labirinto. Entrare in un suo e<strong>di</strong>ficio vuol <strong>di</strong>re<br />
non sapere cosa trovare <strong>di</strong>etro una voluta o una curva. I volumi sono pesanti e<br />
allo stesso tempo lievi, come leggendo tra le righe dello scrittore argentino e<br />
riuscire a trovare nelle sue infinite citazioni un <strong>di</strong>scorso ormai perduto. Il tema è<br />
quello dell’Entropia. Di uno spazio talmente espanso da potersi ridurre in<br />
pulviscolo nel palmo <strong>di</strong> una mano. Le volute del GUGGENHEIM attirano il visitatore<br />
facendogli perdere il senso originario del suo vedere.<br />
Il museo <strong>di</strong>venta luogo <strong>di</strong> esposizione del sé, in cui non si va tanto ad<br />
ammirare una collezione <strong>di</strong> opere d’arte, ma è la stessa sovrastruttura a farsi<br />
capolavoro. Facendo rientrare anche in questo caso il desiderio e le forme che<br />
l’immaginario possono ricreare, si può affermare che le spire avvolgenti del<br />
GUGGENHEIM possono essere paragonate alle biblioteche infinite <strong>di</strong> Borges. Quei<br />
luoghi privi <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni [o le cui misure sono totalmente fuori scala] che<br />
costringono lo sguardo verso l’alto e verso la propria struttura più che su ciò che<br />
si sta effettivamente cercando. Il museo <strong>di</strong>venta un nuovo luogo <strong>di</strong> culto per farsi<br />
avvolgere appieno dallo spirito dell’Arte, in tutti i sensi. La tendenza ad escludere<br />
l’esterno è simile a quanto già visto per l’architettura razionalista <strong>di</strong> Rossi. La<br />
51
maggior parte dei lavori <strong>di</strong> Gehry sono caratterizzati da un «look da stato<br />
d’asse<strong>di</strong>o» 57 , come lo ha definito Mike Davis, intendendo far notare quanto<br />
queste fortificazioni fossero in contrasto con il loro dovere <strong>di</strong> essere e<strong>di</strong>fici per un<br />
pubblico più vasto possibile.<br />
Le sue costruzioni a Los Angeles ne sono un<br />
classico esempio. Metropoli in perenne conflitto<br />
con il proprio subsrato sociale e l’inarrestabile<br />
espansione urbana, Los Angeles vive del rituale<br />
della rappresentazione del consumo, attraverso<br />
gli shopping mall ed i quartieri simulanti la realtà<br />
come Citywalk, agorà pulite e fortificate, dalle quali sono esclusi gli inhumaines.<br />
Fuori dal pulito e l’or<strong>di</strong>ne c’è il caos, sembrano <strong>di</strong>re i nuovi grattacieli costruiti<br />
durante il riassestamento del Downtown losangeleno. Un caos denso <strong>di</strong> conflitti<br />
sociali e determinanto unicamente dal possesso e dalla capacità <strong>di</strong> consumo.<br />
All’interno <strong>di</strong> questa logica, gli spazi museali e le biblioteche, luoghi <strong>di</strong><br />
arricchimento personale e non solo materiale, procedono nella stessa strada. Le<br />
dolci curve dei musei <strong>di</strong> Gehry possono quin<strong>di</strong> trasformarsi in guglie acuminate<br />
per chi non ha la conoscenza adatta a superarle. Nuvole non suadenti come<br />
quelle <strong>di</strong> Fuksas, ma bocche pronte ad ingerire il passante incauto, come un<br />
Minotauro borgesiano, affamato <strong>di</strong> visione.<br />
57 M. Davis, 1990, La città <strong>di</strong> quarzo. Indagine sul futuro <strong>di</strong> Los Angeles, Manifestolibri, Roma 1993, p. 121.<br />
52
2.3 “L'ISOLA DI CEMENTO”: RICHARD ROGERS<br />
L'ARCHITETTO E LA FARFALLA: LEGGEREZZA PER UNO SVILUPPO<br />
[IN]SOSTENIBILE<br />
In L’isola <strong>di</strong> cemento [1974], romanzo <strong>di</strong> James G. Ballard, il protagonista si<br />
trova dopo una curva sbagliata su una tangenziale ad affrontare un incubo che<br />
ne mina l’identità <strong>di</strong> citta<strong>di</strong>no e <strong>di</strong> uomo. Scaraventato sotto i piloni<br />
dell’autostrada dopo un incidente e impossibilitato dall’uscire da quella che lui<br />
definirà appunto isola, Maitland, un architetto <strong>di</strong> successo, deve azzerare le<br />
proprie conoscenze sulle strutture che ha intorno e adattarsi ad una vita da<br />
Crusoe in mezzo al cemento.<br />
Maitland perde la citta<strong>di</strong>nanza <strong>di</strong> Londra, luogo invisibile nel romanzo se non<br />
per le luci che riverberano la notte, perché nel momento in cui scompare,<br />
ingoiato dalla scarpata, termina <strong>di</strong> esistere. Nessuno si accorge <strong>di</strong> lui, gli<br />
automobilisti lo evitano, considerandolo un barbone o un pazzo. L’architetto, allo<br />
stesso modo, pur essendo un uomo controllato, perde il proprio status <strong>di</strong><br />
umanità, riducendosi a belva. La sua incapacità <strong>di</strong> adattamento a dei luoghi che<br />
dovrebbe comunque conoscere e capirne la sostanza <strong>di</strong> cemento che lo circonda,<br />
rende il personaggio <strong>di</strong> Ballard una vittima della modernizzazione della città e<br />
53
dell’anonimato che permea le architetture autostradali.<br />
Schermandosi dal sole, Maitland vide che si era arrestato in una piccola isola spartitraffico<br />
triangolare, lunga meno <strong>di</strong> duecento metri, che si stendeva in una zona incolta fra tre<br />
autostrade convergenti. […] La vista delle sei corsie <strong>di</strong> traffico era preclusa da schermi<br />
paraspruzzi <strong>di</strong> metalo ondulato, installati per proteggere i veicoli sotto [1974, p. 12].<br />
Il mondo da patinato e lineare, come la sua Jaguar <strong>di</strong>strutta, si fa pieno <strong>di</strong><br />
segni incomprensibili e brutale, come l’architettura inglese degli anni Cinquanta e<br />
Sessanta, denominata proprio brutalista, dalla<br />
pesantezza plastica del cemento armato. A<br />
questa rigi<strong>di</strong>tà e grevità <strong>di</strong> segni si sono opposte<br />
le utopistiche megastrutture del gruppo<br />
Archigram.<br />
Questo gruppo <strong>di</strong> architetti, operanti in<br />
Inghilterra a partire dagli anni Sessanta, sono da sempre considerati come<br />
l’ultima avanguar<strong>di</strong>a <strong>di</strong> fine secolo. Ispirato da una fede smisurata nel progresso<br />
tecnologico, e nell’illimitatezza delle risorse <strong>di</strong>sponibili, il gruppo Archigram ha<br />
concepito una visione <strong>di</strong> città costruita come monolito, abitate da centinaia <strong>di</strong><br />
migliaia <strong>di</strong> persone 58 . Da sempre fautori <strong>di</strong> un’architettura in continuo movimento<br />
e mutazione, il gruppo ha avuto una grossa influenza sulla tendenza High Tech,<br />
che a partire dal 1977, si è affermata come nuova corrente <strong>di</strong> pensiero. Il merito<br />
dell’Archigram è <strong>di</strong> aver saputo dare leggerezza nel tocco ad un’utopia fondata<br />
sulla cultura pop e sull’ibridazione tra massa, cultura e architettura. I passi<br />
successivi ai sogni <strong>di</strong> Cook e del suo gruppo hanno denotato l’affaticamento <strong>di</strong><br />
questa visione, e la per<strong>di</strong>ta dell’utopistico volo <strong>di</strong> farfalla.<br />
Il 1977 è l’anno dell’inaugurazione del CENTRE GEORGES POMPIDOU a Parigi,<br />
progettato da Renzo Piano e Richard Rogers, ed è l’anno spartiacque tra la<br />
concezione razionalista ed il nuovo concetto ingegneristico del fare architettura 59 .<br />
58 Cfr. Archigram, 1973, op. cit.<br />
59 «Non sono preparato a considerare architetti gente come Renzo Piano o Nouvel o altri ingegneri del genere»:<br />
<strong>di</strong>chiarazione <strong>di</strong> Ettore Sottsass in F. Irace, 1998, “2000 & fine secolo. Risposte <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> architetti.”, Abitare<br />
379, p. 59.<br />
54
La tendenza High Tech mette in risalto non solo la struttura dell’e<strong>di</strong>ficio, ma<br />
anche tutte quelle infrastrutture che fin ad ora erano tenute nascoste dal<br />
cemento armato. Questa nuova estetica della tecnologia ha preso poi due<br />
<strong>di</strong>rezioni <strong>di</strong>verse. Da un lato la realizzazione <strong>di</strong> forme appartenenti al mondo<br />
naturale, tramite l’utilizzo della tecnologia, strada intrapresa da Renzo Piano;<br />
dall’altro il revisionismo macchinistico<br />
dell’ingegneria industriale dell’Ottocento, come nel<br />
lavoro <strong>di</strong> Richard Rogers, Jean Nouvel, Norman<br />
Foster.<br />
Nello stupefacente LLOYD’S BUILDING [1978-86],<br />
Richard Rogers ha dato una nuova forma al concetto <strong>di</strong> architettura flessibile: il<br />
suo sembrare un work in progress ne ha fatto non solo un e<strong>di</strong>ficio destabilizzante<br />
dal punto <strong>di</strong> vista visivo, ma anche una vera macchina per lavorare, dal punto <strong>di</strong><br />
vista strutturale. Come nell’architettura High Tech, Blade Runner, il film più<br />
simile ai libri <strong>di</strong> Ballard e alle architetture <strong>di</strong> Rogers, mostra non l’in<strong>di</strong>spensabile,<br />
ma il complementare: è necessario, nel film, integrare la visione con la<br />
rievocazione del passato. L’officina meccanica del LLOYD’S BUILDING si colloca a<br />
metà tra corpo e macchina senziente. Levare lo sguardo verso il verticalismo<br />
spinto all’eccesso delle architetture <strong>di</strong> Rogers è come il tentativo <strong>di</strong> scalata<br />
impossibile <strong>di</strong> Maitland. L’essere farfalla vuol forse <strong>di</strong>re che con il LLOYD’S, corpo<br />
<strong>di</strong> metallo e cemento, si è in parte realizzato quello sfioramento dell’utopia del<br />
gruppo Archigram. Sfiorare, esattamente come un librarsi in volo verso l’alto,<br />
arrampicandosi sulle strutture nude e a vista, come avrebbe fatto Maitland.<br />
55
3<br />
Il Fumetto e lo Spazio<br />
56
3.1 “APPLESEED”: EURALILLE [R. KOOLHAAS, J. NOUVEL, C. DE PORTZAMPARC, K.<br />
SHINOARA, C. VASCONI]<br />
ARCHITETTURA E COMUNICAZIONE TOTALE PER UN PROGETTO DI “CITTÀ<br />
FUTURA”<br />
Nel 1985 Masamune Shirow pubblica i primi due volumi <strong>di</strong> Appleseed, un manga<br />
fantascientifico destinato a rivoluzionare il concetto <strong>di</strong> sci-fi. La serie, incentrata<br />
su una coppia <strong>di</strong> cyborg, si svolge in un ipotetico futuro post-apocalittico, in una<br />
metropoli <strong>di</strong> nuova generazione, Olympia, costruita completamente ex-novo.<br />
Olympia è caratterizzata dalla monumentalità mostruosa <strong>di</strong> alcune strutture,<br />
destinate ad accogliere migliaia <strong>di</strong> abitanti, secondo un progetto <strong>di</strong> gran<strong>di</strong>osità,<br />
insita nei suoi progettisti. La bigness architecture, termine coniato da Rem<br />
Koolhaas, è il termine <strong>di</strong> paragone più vicino ai mostri urbani <strong>di</strong> Appleseed, e<strong>di</strong>fici<br />
non più solo gran<strong>di</strong>, ma significativi nella loro espansione gigantica.<br />
Lo sprawl urbano è il concetto intorno al quale e’ nato il nuovo centro<br />
urbanistico <strong>di</strong> Euralille. Concepito nel master plan da Rem Koolhaas e realizzato<br />
alla fine degli anni Novanta, Euralille nasce principalmente come snodo per il TGV<br />
e come collegamento, vista la posizione geografica, tra la Francia e il Belgio.<br />
L’innesto <strong>di</strong> nuovi e<strong>di</strong>fici, come il terminal del TGV e tutto lo spazio de<strong>di</strong>cato agli<br />
uffici progettato da un team guidato dallo stesso Koolhaas, toglie la definizione<br />
57
dei confini alla antica Lille, città storica, e la riconfigura come <strong>di</strong>ffusione ed<br />
estensione.<br />
Un terrain vague che si potrebbe rinominare<br />
secondo l’accezione <strong>di</strong> Calvino, città continua,<br />
bisognosa comunque <strong>di</strong> un centro forte,<br />
facilmente riconoscibile. Dato, appunto dalla<br />
torre <strong>di</strong> Portzamparc del CREDIT LYONNAIS. Secondo le stesse parole <strong>di</strong> Koolhaas,<br />
Euralille eludes tra<strong>di</strong>tional analysis […] this is why it is generating confusion, conflict and<br />
contra<strong>di</strong>ction”. […] the <strong>di</strong>scovery of a newtype of urbanism which opposes the concept of the<br />
city as an ordered series of objects; we should be promoting forms which are rarely<br />
expressed and which havo no architectural relation whatsoever with one another [Espace<br />
Croisé, 1996, p. 9].<br />
È chiaro l’intento messianico <strong>di</strong> Koolhaas, il cui aim è certamente quello <strong>di</strong><br />
creare forme nuove non riconoscibili nell’urbanistica tra<strong>di</strong>zionale. Ma la <strong>di</strong>fficoltà<br />
nel citta<strong>di</strong>no è proprio nel riconoscere la stabilità <strong>di</strong> questi luoghi. Euralille è una<br />
città costruita secondo la logica della velocità, data dal treno e dall’automobile,<br />
una <strong>di</strong>spersione <strong>di</strong> senso civico che ritrova il proprio centro negli elementi forti<br />
del centro <strong>di</strong>rezionale.<br />
Così simile a questo concetto è stato recentemente assegnato al gruppo<br />
Citylife, con progetto <strong>di</strong> Libeskind-Ha<strong>di</strong>d-Isozaki-Maggiora, la gara per il nuovo<br />
POLO FIERA DI MILANO. La possibilità <strong>di</strong> erigere un<br />
corpo uniforme che non devastasse la già <strong>di</strong>fforme<br />
area lombarda, è stata eliminata a favore della nuova<br />
cultura dell’imposizione <strong>di</strong> un luogo. Secondo questa<br />
nuova forma <strong>di</strong> progetto, il creare forme così evidenti<br />
da risultare volgari, è l’unico sistema per rendere il terrain vague visibile, infinito<br />
in quanto in<strong>di</strong>menticabile. Nel 1917 Tony Garnier progettava un ideale <strong>di</strong> Città<br />
Industriale fondata sull’equilibrio tra il razionalismo della macchina e il<br />
sentimento della natura. Un luogo in cui il transito tra vecchio e nuovo poteva<br />
definirsi attraverso un passaggio dolce tra vernacolo e modernismo:<br />
58
créer une cité de type nouveau, qui apporte le bien-être, l’hygiène, les avantages des<br />
services publics et même la verdure, au profit d’une société industrielle, la société socialisée<br />
de l’ère industrielle [1917, p. 40].<br />
La funzionalità <strong>di</strong> questi luoghi è invece quella non <strong>di</strong> elemento stanziale e<br />
sicuro, ma <strong>di</strong> passaggio attraverso una città ed un’altra, determinato<br />
dall’estremismo visivo <strong>di</strong> alcune sculture. Gli elementi costitutivi <strong>di</strong> queste città<br />
devono, in virtù della velocità dell’automobile o del treno, imprimersi nella<br />
memoria come opere d’arte, e quin<strong>di</strong> stupire, meravigliare.<br />
La caratterizzazione <strong>di</strong> metropoli continue come Los Angeles e Las Vegas,<br />
<strong>di</strong>ffuse attraverso infiniti quartieri residenziali, si sta <strong>di</strong>ffondendo anche in<br />
Europa, attraverso un gusto irrazionale per la <strong>di</strong>scontinuità. Entrando ad Olympia<br />
o Euralille si interrompe il flusso della campagna e della piccola urbanizzazione.<br />
Significa trovarsi in un contenitore vuoto <strong>di</strong> signficati culturali e umani, ma denso<br />
<strong>di</strong> contenuti vali<strong>di</strong> per chi ha la capacità <strong>di</strong> comprenderne la complessità.<br />
59
3.2 “BLAME!”: GIOVANNI BATTISTA PIRANESI<br />
LA PRIGIONE COME METAFORA DEL CORPO E DELLA STRUTTURA<br />
La rovina ha contribuito alla nascita del paesaggio come genere<br />
pittorico poiché ha contribuito a inquadrare la natura e a creare un<br />
gusto alla moda<br />
60<br />
Franco Speroni [2002]<br />
La scena tragica, palcoscenico nato nel furore estetico del barocco, e<br />
organizzatosi semanticamente nel settecento, rappresentò per Giovanni Battista<br />
Piranesi un punto <strong>di</strong> partenza da cui sviluppare i suoi caprices. Architetture<br />
fantastiche che si <strong>di</strong>spiegarono secondo una logica unica nel suo genere, capace<br />
<strong>di</strong> passare dal concetto <strong>di</strong> immaginazione a quello <strong>di</strong> immaginario. Secondo<br />
Abruzzese l’immaginario è legato in modo imprescin<strong>di</strong>bile a quello <strong>di</strong> costruzione<br />
<strong>di</strong> senso della metropoli 60 , e le carceri piranesiane possono essere lette seguendo<br />
un percorso nel corpo sotterraneo della città.<br />
Le Carceri [1749] non esistono se non<br />
nella loro rappresentazione, rovina tragica ed<br />
eccessiva <strong>di</strong> un’idea <strong>di</strong> città <strong>di</strong>ssolta. La<br />
scarnificazione degli antri umi<strong>di</strong>, residui <strong>di</strong><br />
un’epoca non appartenente a questa realtà,<br />
<strong>di</strong>ventano corpi deprivati <strong>di</strong> luce, vita e<br />
colore. Il gusto ecessivo <strong>di</strong> Piranesi per la costruzione formale e il dettaglio del<br />
costruito ha influenzato più <strong>di</strong> una visione successiva.<br />
60 A. Abruzzese, 1973, Forme estetiche e società <strong>di</strong> massa, Marsilio, Venezia.
Nel nero e [poco] bianco <strong>di</strong> un futuro fantascientifico, Tsutomu Nihei sceglie <strong>di</strong><br />
ambientare il suo fumetto Blame! [1998-2004] tra false prospettive e scale senza<br />
approdo. L’influenza delle Carceri nel <strong>di</strong>segno dell’autore giapponese è notevole e<br />
richiama altri significati, nascosti nei <strong>di</strong>segni originari. Se in Piranesi i corpi dei<br />
carcerati erano minuscoli e senza forma tra gigantesche macchine <strong>di</strong> pietra, in<br />
Nihei <strong>di</strong>ventano scheletri impazziti, circondati da un buio che ingoia. Sangue,<br />
lacerazioni, umori corporali sono gli unici segnali <strong>di</strong> vita della piccola gente che<br />
affolla questo fumetto, in una storia il cui senso è legato unicamente al<br />
passaggio, come in un videogame, al livello superiore e più complesso.<br />
Parafrasando Robert Venturi e le sue complessità e contrad<strong>di</strong>zioni in<br />
architettura 61 , il nodo <strong>di</strong> Blame! non si scioglie fino all’ultimo, costringendo il<br />
lettore ad una <strong>di</strong>namica visiva sempre più indecifrabile. Le normali linee <strong>di</strong> lettura<br />
seguono il filo della china <strong>di</strong> Nihei, un groviglio inestrcabile <strong>di</strong> tubi, lacci,<br />
prospettive cieche.<br />
La densità <strong>di</strong> segno <strong>di</strong> Piranesi era finalizzata alla [non] visione <strong>di</strong> una città<br />
infinita. Come scrive Rullani «in essa il massimo dell’entropia possibile ha<br />
<strong>di</strong>strutto le vecchie forme, ma ha creato spazio per i flussi, per i movimenti, per il<br />
<strong>di</strong>stacco che rende mobili» 62 . Questa visione <strong>di</strong> un passato che non esiste ma che<br />
è comunque nostalgia, <strong>di</strong>spega i propri rami secchi nella città panico descritta da<br />
Virilio. Il filosofo parla <strong>di</strong> carcerazione del progresso 63 , riferendosi alla gabbia<br />
della globalizzazione. Una simile visione può essere associata ai corpi decostruiti<br />
e postumani del manga, figure esili e scarne come una scultura <strong>di</strong> Giacometti,<br />
avvolte da un Carcere infinito chiamato Mondo. Quando la sensibilità si fa<br />
perturbante irrompe sulla scena <strong>di</strong> questo teatro <strong>di</strong>segnato la geografia del corpo<br />
61<br />
R. Venturi, 1966, Complessità e contrad<strong>di</strong>zione in architettura, Dedalo, Bari 1980.<br />
62<br />
E. Rullani, 2004, “La città infinita: spazio e trama della modernità riflessiva”, in A. Abruzzese, A. Bonomi<br />
[ed.], La città infinita, Bruno Mondadori, Milano, p. 71.<br />
63<br />
P. Virilio, 2004, Città panico, Raffaello Cortina E<strong>di</strong>tore, Milano 2004, p. 61.<br />
61
<strong>di</strong> Perniola 64 .<br />
Anti-mimetici per eccellenza, i corpi <strong>di</strong> Blame! si configurano come svuotati <strong>di</strong><br />
umanità, carni putride ed esibite la cui funzione si esplica solo attraverso una<br />
violenza fuori controllo. La pretesa <strong>di</strong> Nihei, come <strong>di</strong> Piranesi, non è quella <strong>di</strong><br />
imitare la realtà, ma <strong>di</strong> sviluppare un <strong>di</strong>scorso sull’organcità dei luoghi. Le Carceri<br />
e la Città <strong>di</strong> Blame! sono vive del sangue dei morti e del respiro dei muri umi<strong>di</strong>. Il<br />
concetto <strong>di</strong> transito 65 <strong>di</strong> Perniola è in questo caso il passaggio dal corporeo al<br />
fuori da sé, dal naturale al triviale, ai limiti dell’eccesso. Il sovraccarico visivo è<br />
ancora denso della cultura barocca, che concentrava lo sguardo su un punto <strong>di</strong><br />
fuga. Le prospettive dall’alto [Blame!] e dal basso [Carceri], tendono ad<br />
ingigantire le architetture schiacciando i corpi, mortificandoli. Le volte, gli archi<br />
ed i ponti sono veri e propri passages benjaminiani tra la vita della città e la<br />
morte degli inumani, dei tramiti per l’espansione virale ed ipertrofica della<br />
Metropoli.<br />
Una città che somiglia sempre più ad una prigione pregna delle sofferenze dei<br />
propri citta<strong>di</strong>ni/carcerati.<br />
In pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso<br />
o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. È scomparso il corpo<br />
come bersaglio della repressione penale [Foucault, 1975, p. 4].<br />
E dallo spettacolo della morte descritto da Foucault si è avuto il transito verso<br />
l’esibizione della mortalità nel costruito, intendo con questo termine identificare<br />
una tipologia architettonica repressiva dell’iniziale spirito <strong>di</strong> bellezza e gusto.<br />
I mostri piranesiani furono ripresi ad esempio in Italia da Armando Brasini, con<br />
progetti e costruzioni che non si riappellavano ad una sognante megalomania ma<br />
ad una concezione malata dell’esplosione della metropoli. Brasini <strong>di</strong>segnò mostri<br />
soverchianti ogni possibile figura umana, quasi sculture fuori scala rispetto allo<br />
spettatore. Nel progetto del 1956 per il PONTE SULLO STRETTO, il naturale<br />
64 Cfr. M. Perniola, 1994, Il sex appeal dell’inorganico, Einau<strong>di</strong>, Torino.<br />
65 M. Perniola, 1998, Transiti. Filosofia e perversione, Castelvecchi, Roma.<br />
62
passaggio dalla terra alla sospensione sull’acqua è stravolto da una pesante<br />
struttura simile ad una torre, vera e propria rimembranza delle pietre<br />
piranesiane.<br />
Simili architetture, da Piranesi a Brasini, passando per i costruttivisti russi fino<br />
ad arrivare alla città <strong>di</strong> Blame! sono accomunate dall’allargamento dei volumi,<br />
invasivi ed invadenti, che <strong>di</strong>vorano letteralmente gli spazi vuoti. Gli attori <strong>di</strong><br />
questa scena recitano su un palcoscenico in cui si ritrovano vittime delle strutture<br />
carnefici, schiacciati dal gelo <strong>di</strong> una città che li respinge. Queste prigioni, vere e<br />
proprie macchine desideranti 66 , secondo l’accezione <strong>di</strong> Deleuze e Guattarì, sono<br />
pietre eterne concentrano su <strong>di</strong> sé lo sguardo, nutrendosi dello spirito <strong>di</strong> chi le<br />
osserva e non può viverle se non subendole.<br />
66<br />
Cfr. G. Deleuze, F. Guattarì, 1971, Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia, Ombre Corte, Milano<br />
2004.<br />
63
3.3 “GHOST IN THE SHELL”: M. FUKSAS E TOYO ITO<br />
NUOVI SIGNIFICATI NELLA METROPOLI MODERNA: VERTIGINE E<br />
TRASPARENZA<br />
64<br />
Delle noti <strong>di</strong> luce che l’architettura <strong>di</strong> vetro ci<br />
procurerà non possiamo tuttavia <strong>di</strong>re nient’altro se<br />
non che esse saranno davvero «indescrivibili»<br />
Paul Scheerbart [1914]<br />
Paul Scheerbart pubblica nel 1914 Architettura <strong>di</strong> vetro, un saggio visionario<br />
destinato a cambiare la visione dell’architettura moderna. Influenzato dalle teorie<br />
<strong>di</strong> Bruno Taut e dalla sua Alpine Arkitektur 67 , Scheerbart si fa promotore <strong>di</strong> un<br />
nuovo modo <strong>di</strong> intendere la modernità della metropoli. Il gusto per il ferro e il<br />
vetro <strong>di</strong> luoghi come il pa<strong>di</strong>glione inglese dell’Esposizione Universale <strong>di</strong> Londra,<br />
che l’architetto-scrittore vede come simbolo <strong>di</strong> progresso, ne rivelano la grande<br />
preveggenza in fatto <strong>di</strong> utilizzo <strong>di</strong> materiali.<br />
Le descrizioni <strong>di</strong> queste architetture <strong>di</strong> luce sono state fonte <strong>di</strong> ispirazione ad<br />
esempio, per il GRATTACIELO DI VETRO <strong>di</strong> Mies, progetto mai portato a termine, ma<br />
<strong>di</strong>venuto nel frattempo uno standard per le costruzioni americane degli anni<br />
Trenta. L’evoluzione tecnologica dei nuovi materiali <strong>di</strong>venta il fulcro delle teorie<br />
miesiane, il ferro sostituito dal cemento, fino all’arrivo della deriva brutalista<br />
degli anni Cinquanta. Nella sua forma più pura, il ferro può essere associato<br />
all’età dell’ingranaggio industriale, abbinato al vetro che cominciava a comparire<br />
per le strade, con le prime illuminazioni notturne per le vie <strong>di</strong> Parigi e <strong>di</strong> Londra.<br />
67 B. Taut, 1917, op. cit.
Contrariamente all’ottica dadaista il valore e la funzione dell’architettura<br />
convivono in uno scambio reciproco <strong>di</strong> ruoli e la forma assume le sembianze<br />
ibride della virtualità. Non astrazione pura, architettura <strong>di</strong>segnata nelle<br />
multiformi apparenze del C.A.D., ma immersione suggestiva nei meandri della<br />
mente dell’architetto, libero <strong>di</strong> costruire volumi e volute senza le costrizioni delle<br />
infrastrutture. Il vissuto della metropoli contemporanea americana si identifica in<br />
questa simbiosi <strong>di</strong> forma e funzione: la cultura <strong>di</strong>gitale entra a far parte della vita<br />
<strong>di</strong> ogni giorno e l’evanescenza, l’incorporeità del bit è il punto <strong>di</strong> partenza per<br />
questo nuovo modo <strong>di</strong> intendere un’architettura evocatrice <strong>di</strong> altre realtà anziché<br />
pura astrazione formale.<br />
La simulazione, termine ere<strong>di</strong>tato dall’estetica postmoderna, <strong>di</strong>venta il nuovo<br />
credo per tutta una schiera <strong>di</strong> giovani architetti: partendo dagli assunti<br />
dell’architettura <strong>di</strong> vetro dei padri del Movimento Moderno, come Walter Gropius<br />
e Mies Van Der Rohe, questi artisti del traslucido creano una nuova commistione<br />
tra la struttura razionale del chip informatico ed una superficie vitrea,<br />
trasparente ma allo stesso tempo priva <strong>di</strong> contorni pienamente definiti.<br />
La simulazione ed il flusso [<strong>di</strong> byte] sono quin<strong>di</strong> caratteristiche appartenenti<br />
alla scienza informatica, che architetti contemporanei come Toyo Ito, Rem<br />
Koolhaas, Massimiliano Fuksas interpretano in modo <strong>di</strong>fferente, inserendoli nei<br />
contesti più vari. Rem Koolhaas opera nel contesto olandese seguendo la strada<br />
del riassemblaggio dei volumi secondo una precisa logica del caos: l’instabilità<br />
apparente delle sue strutture nasce con l’intento <strong>di</strong> creare un movimento<br />
continuo <strong>di</strong> corpi e <strong>di</strong> cose, come in un loop informatico si ha quel circolo infinito<br />
<strong>di</strong> informazioni, creando complessità e non <strong>di</strong>sgregazione. Una complessità solo<br />
apparentemente superficiale: i vuoti interni a queste scatole trasparenti riescono<br />
a creare una densità <strong>di</strong> significato ed un’interazione tra le parti ormai raramente<br />
riscontrabile nella metropoli vissuta all’esterno. Il flusso <strong>di</strong> energia osservabile in<br />
65
molti dei progetti <strong>di</strong> Ito è anch’esso <strong>di</strong> chiara derivazione informatica. Inserendo<br />
delle variabili che influenzano l’apparenza dell’e<strong>di</strong>ficio a seconda dell’ora o del<br />
tempo atmosferico, Ito sceglie la strada della trasparenza totale: le persone, gli<br />
oggetti contenuti nei suoi progetti sono sempre osservabili dall’esterno, secondo<br />
una precisa scelta <strong>di</strong> smaterializzazione della superficie. Ecco che quin<strong>di</strong> tanto i<br />
musei quanto le abitazioni <strong>di</strong>ventano dei nuovi piccoli mon<strong>di</strong> aggreganti che<br />
permettono all’in<strong>di</strong>viduo <strong>di</strong> interagire con l’ambiente circostante.<br />
Se la casa […], dev’essere soffice e flessibile e non rigida e densa, sarà, allora, concepita<br />
come un vestito elettronico, indossando il quale le persone potranno abitare la natura<br />
virtuale della metropoli <strong>di</strong>ventando «come Tarzan nella foresta dei me<strong>di</strong>a». Affascinato dalla<br />
natura, Ito considera l’elettronica come l’energia in grado <strong>di</strong> reintegrare l’uomo<br />
nell’ambiente, nel fluire della vita [Prestinenza Puglisi 1998, p.23].<br />
La percezione assume il valore <strong>di</strong> senso ottuso: la forma e l’essenza<br />
dell’oggetto architettonico varia secondo il<br />
momento nel quale viene recepito dallo<br />
spettatore/attore. Così è anche per Fuksas<br />
che nel suo progetto per il CENTRO CONGRESSI<br />
ITALIA EUR metabolizza il sogno attraverso<br />
nuvole interne a teche trasparenti: la compenetrazione tra ambiente<br />
metropolitano ed e<strong>di</strong>ficio eccezionale si realizza grazie alla sua abilità nel saper<br />
cogliere la rapida evoluzione dell’informazione.<br />
L’involucro <strong>di</strong>viene così un vetro attraverso il quale osservare i mutamenti<br />
interni del corpo centrale, che sia una nuvola sospesa nell’aria <strong>di</strong> un museo o<br />
delle onde che solcano i soffitti <strong>di</strong> uno shopping mall, secondo gli insegnamenti<br />
cari a Scheerbart. Il lavoro <strong>di</strong> questi architetti è quello <strong>di</strong> sottrarre gli elementi<br />
base <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio [l’opacità della superficie esterna, le articolazioni interne alla<br />
struttura] per favorire un completamento della visione da parte dell’astante.<br />
Non comunque un’architettura-spettacolo, destinata allo stupore, ma un nuovo<br />
modo <strong>di</strong> favorire l’integrazione ormai <strong>di</strong>fficile <strong>di</strong> un e<strong>di</strong>ficio con la metropoli che lo<br />
ospita. Sempre più spesso infatti si è assistito ad e<strong>di</strong>ficazioni perturbanti in<br />
66
quanto provocatrici <strong>di</strong> uno scollamento tra la realtà quoti<strong>di</strong>ana e l’eccezionalità<br />
dell’evento. Proprio questa necessità <strong>di</strong> fuga dalla banalizzazione del reale ha<br />
provocato negli anni precedenti l’epoca postmoderna una ricerca forzata nella<br />
gran<strong>di</strong>osità, ovvero in quelle forme architettoniche definite nel contesto italiano<br />
come megastrutture, ere<strong>di</strong> delle teorie funzionaliste <strong>di</strong> Le Corbusier spinte<br />
all’estremo.<br />
Con il già citato progetto per il CENTRO CONGRESSI ITALIA EUR, Fuksas si è posto<br />
in una posizione decisamente alternativa alla concezione <strong>di</strong> spazio pubblico<br />
chiuso. Raro esempio <strong>di</strong> architettura slegata dalle correnti artistiche, impensabile<br />
in un territorio come quello romano, in cui si riesce raramente a trovare una via<br />
<strong>di</strong> mezzo tra la conservazione ad ogni costo ed il facile sensazionalismo, il<br />
parallelepipedo immaginato dall’architetto romano è scenografia pura, ma senza<br />
la pretesa <strong>di</strong> violentare ideologicamente il fruitore dello spazio. Non rimane<br />
quin<strong>di</strong> che adeguarsi, come ha fatto il cinema, all’idea <strong>di</strong> appartenere ad un<br />
terrain vague, con i suoi vuoti <strong>di</strong>simpegni, e con la sua incertezza formale.<br />
Un’indeterminatezza che sembra trovare nella memoria del passato, la sua unica<br />
via <strong>di</strong> fuga: solo tramite il recupero si può alimentare il nuovo. Un recupero non<br />
fine a se stesso [<strong>di</strong> impronta postmoderna], ma basato sul fascino del passato<br />
più che sul suo aspetto formale, ed aperto alle nuove istanze tecnologiche, <strong>di</strong><br />
chiara derivazione informatica, della metropoli.<br />
Fuksas pone <strong>di</strong> continuo l’accento sulla <strong>di</strong>stinzione tra metropoli e megalopoli,<br />
il cui punto principale è nella <strong>di</strong>fferenza nella crescita urbana e tecnologica. La<br />
megalopoli contemporanea è più afflitta da problemi <strong>di</strong> noma<strong>di</strong>smo culturale <strong>di</strong><br />
quanto non lo sia una metropoli moderna, che trova comunque il suo nodo<br />
nell’essere policentrica. Il concetto <strong>di</strong> urban sprawl, in questo caso viene<br />
giustamente affidato alle <strong>di</strong>stese <strong>di</strong> Los Angeles, così simili, quin<strong>di</strong>, come fasci <strong>di</strong><br />
luci intermittenti ai circuiti <strong>di</strong> un apparecchio elettronico. La sostanziale <strong>di</strong>fferenza<br />
67
tra città elettronica e città elettrica è data dal tempo. Tempo moderno che<br />
definisce l’appartenenza dell’elettricità ai primi del Novecento, confinandola ai<br />
boulevard parigini illuminati e Tempo della contemporaneità, o secondo<br />
Abruzzese del postumano, che definisce i labili confini della città elettronica e<br />
informatica.<br />
Il modello <strong>di</strong> visione più simile a quello descritto dalle parole <strong>di</strong> Fuksas e Ito<br />
proviene dalla sci-fi spinta <strong>di</strong> Ghost in the Shell [1991], manga <strong>di</strong> Masamune<br />
Shirow. Il fumetto rappresenta per vie affatto narrative la <strong>di</strong>ffusione dello spirito<br />
della protagonista in una megalopoli orientale dopo la morte del suo corpo<br />
artificiale. Diffusione, proprio perché alimentata dalla corrente informatica e<br />
destinata a defluire come liquido attraverso le reti. La protagonista Motoko è il<br />
vero corpo nomade descritto da Pierre Lévy ne L’intelligenza collettiva: «Lo<br />
spazio del nuovo noma<strong>di</strong>smo non è né il territorio geografico né quello delle<br />
istituzioni e degli stati, ma uno spazio invisibile delle conoscenze, dei saperi,<br />
delle potenzialità <strong>di</strong> pensiero in seno alle quali si <strong>di</strong>schiudono e mutano le qualità<br />
d’essere, le maniere <strong>di</strong> fare la società» 68 . Il filosofo francese interpreta pur<br />
sempre il noma<strong>di</strong>smo come legame tra corpo e natura, territorio [seppur solo<br />
conoscitivo]. Motoko è invece trasparente per la società, così come traslucida è la<br />
pelle della protagonista.<br />
Il suo corpo cibernetico è la rappresentazione del caos sublime cui fa cenno<br />
Fuksas nei suoi scritti, struttura anarchica perché priva <strong>di</strong> padroni, leggi,<br />
referenti umani, e struttura trasparente deprivata delle sovrastrutture corporee.<br />
Il suo corpo è lo scheletro ideale <strong>di</strong> Scheerbart, ferro e vetro sostituiti da acciaio<br />
e fibre ottiche. La capacità <strong>di</strong> questi cyborg <strong>di</strong> adattarsi all’ambiente e alle<br />
circostanze li rende simili alla mutevole TORRE DEI VENTI <strong>di</strong> Ito e alle nuvole create<br />
da Fuksas in questi ultimi anni. Toyo Ito ha voluto, con il suo progetto <strong>di</strong>mostrare<br />
68 P. Levy, 1994, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996, p. 18.<br />
68
l’evanescenza e la immaterialità del contesto ambientale. Fuksas, partendo dal<br />
planare delle nuvole <strong>di</strong> Utzon 69 è arrivato a plasmare<br />
l’inconsistenza della metropoli in movimento.<br />
Questi passaggi, tra realtà immaginate e immagini <strong>di</strong> realtà<br />
impossibili sono state portate al cinema dalla trilogia <strong>di</strong> Matrix<br />
[1999-2003]. La verità nascosta del Matrix [viviamo<br />
veramente, oppure è un’illusione creata per controllarci?] si<br />
trova nella sua essenza: ha una consistenza nulla, sfuggente, come quando i<br />
personaggi del film trovano l’uscita e si <strong>di</strong>ssolvono. Più approfon<strong>di</strong>tamente il film<br />
può essere stu<strong>di</strong>ato lungo due <strong>di</strong>fferenti percorsi.<br />
Da un lato, tramite una riflessione sulle <strong>di</strong>rezioni del nuovo cinema <strong>di</strong><br />
fantascienza e su come stia progressivamente sparendo uno dei suoi topoi, la<br />
Metropoli del Futuro, in favore <strong>di</strong> una più ampia e instabile architettura mentale.<br />
Dall’altro analizzando le corrispondenze tra la sua struttura a scatole cinesi,<br />
mettendolo in relazione con l’inesistenza urbana <strong>di</strong> Las Vegas, che presenta lo<br />
stesso gioco citazionista.<br />
Come in Alice nel paese delle meravigle 70 , in Matrix si seguono le<br />
peregrinazioni <strong>di</strong> una persona in un mondo fittizio, assurdo, nel quale le immagini<br />
si riformulano continuamente secondo il percorso che si segue.<br />
Il protagonista Neo, esattamente alla maniera <strong>di</strong> un videogioco, è guidato da<br />
una voce [il giocatore] verso le uscite possibili, attraverso un sentiero <strong>di</strong> guerra<br />
che sembra tratto dal videogioco Metal Gear Solid 71 . Nel mondo <strong>di</strong> Matrix, come<br />
in quello <strong>di</strong> Ghost in the Shell, il “luogo” non esiste: è un’immagine mentale,<br />
come la stanza d’allenamento <strong>di</strong> Morpheus e Neo, un “nessun posto” dove si<br />
ritrova Neo all’inizio del suo viaggio [una stanza bianca]. La presenza <strong>di</strong> un<br />
69<br />
J. Utzon, 1962, Platforms and Plateau, Sidney.<br />
70<br />
Non a caso il film viene citato <strong>di</strong>rettamente nel momento in cui si vuole attirare il protagonista nell’altra<br />
<strong>di</strong>mensione/vita.<br />
71<br />
Oggetto videolu<strong>di</strong>co <strong>di</strong> culto grazie ad un intreccio complesso (trama spionistica, storia che cambia secondo le<br />
scelte effettuate, notevole approfon<strong>di</strong>mento psicologico dei protagonisti) e ad un meccanismo <strong>di</strong> gioco, che<br />
ribalta lo schema classico dei passaggi obbligati tra i vari livelli <strong>di</strong> gioco.<br />
69
vecchio televisore in<strong>di</strong>ca che la realtà la costruiamo noi con il nostro sguardo, ma<br />
non è detto che sia tutto vero: come in The Truman Show, siamo noi ora in<br />
ostaggio dei nostri occhi. Il luogo dove viveva Truman Burbank aveva però<br />
un’importanza fondamentale per il corretto svolgimento della storia, mentre nel<br />
loro film, i fratelli Wachowski hanno scelto un’anonima metropoli in cerca <strong>di</strong><br />
caratterizzazione come Sydney 72 . Nonostante i suoi sforzi, la metropoli<br />
australiana rimane un perfetto esempio <strong>di</strong> città incompiuta e banale e<br />
sicuramente è stata preferita alla più familiare New York per rappresentare il<br />
para<strong>di</strong>gma della città contemporanea.<br />
L’interesse vero degli autori non risiede, infatti, nella rappresentazione della<br />
metropoli del futuro, ma nelle architetture mentali che si <strong>di</strong>spiegano velocemente<br />
durante il film. La stanza bianca, l’interfaccia <strong>di</strong> Matrix, è la vera location: un<br />
posto che possa mo<strong>di</strong>ficarsi seguendo le linee <strong>di</strong> pensiero delle persone che vi si<br />
muovono. Una sorta <strong>di</strong> bolla che si adatta al flusso mentale, e che respinge i<br />
corpi che ne colpiscono le pareti come una stanza imbottita.<br />
Non è più importante in una <strong>di</strong>mensione simile lo spostamento lineare, da una<br />
stanza ad un’altra, da un luogo ad un altro ancora: le strade servono unicamente<br />
da nastri trasportatori che conducono verso una nuova uscita. I personaggi si<br />
muovono dalla cabina telefonica alla nave come in un ipertesto, e se devono<br />
spostarsi da un palazzo ad un altro preferiscono volare, quasi che il camminare<br />
sia <strong>di</strong>ventato la negazione del movimento. Una derivazione tipicamente da<br />
videogioco, quin<strong>di</strong>, <strong>di</strong> cui si ritrova la struttura nel continuo entrare ed uscire, da<br />
un livello ad un altro: la stanza dove inizialmente si rifugia Trinity, è la stessa<br />
dalla quale dovrebbe uscire Neo alla fine del film.<br />
72<br />
Ovviamente l’OPERA HOUSE <strong>di</strong> Jørn Utzon, l’unico e<strong>di</strong>ficio che conferisca a Sydney il titolo <strong>di</strong> “luogo” non è mai<br />
inquadrata.<br />
70
Come in Metal Gear Solid la verticalizzazione dei livelli <strong>di</strong> gioco [facile/<strong>di</strong>fficile,<br />
inferiore/superiore] viene eliminata in favore della circolarità dei passaggi, così in<br />
Matrix i passaggi <strong>di</strong> livello sono co<strong>di</strong>ficati da luoghi precisi, come le cabine<br />
telefoniche. La singolarità <strong>di</strong> una simile scelta è da rintracciare nell’essenza<br />
stessa del film: la comunicazione è alla base dell’intreccio, ma non si risolve nella<br />
banalizzazione <strong>di</strong> The Net [1995], dove la vita della protagonista veniva<br />
sconvolta dalla presenza invasiva/invadente della Rete che ne annullava<br />
inverosimilmente l’identità. È la comunicazione cellulare che mette in luce la<br />
necessità [a volte indesiderata] <strong>di</strong> essere sempre rintracciabili. Il lato oscuro è<br />
dato proprio dall’onnipresenza ed onniscienza della rete telefonica, ancora più<br />
che dalla Rete, che permette il passaggio tanto al para<strong>di</strong>so, se si riesce a fuggire,<br />
quanto all’inferno, se si è rintracciati.<br />
La città <strong>di</strong>gitale <strong>di</strong> Nicholas Negroponte <strong>di</strong>venta in questo caso soprattutto una<br />
città avvolta dalle spire invisibili della rete cellulare, e si rivela <strong>di</strong>gitale al<br />
momento della Rivelazione per Neo: quando, in pratica, comincia a vedere la<br />
struttura originaria del Matrix, una serilità cadente <strong>di</strong> numeri, invece della<br />
copertura dell’interfaccia. Nel mettere in scena la <strong>di</strong>gitalizzazione del mondo<br />
contemporaneo, i fratelli Wachowski hanno trovato un sicuro punto <strong>di</strong> riferimento<br />
nel film tratto dal manga Ghost in the Shell, l’unico ad aver messo in scena, in<br />
maniera adulta e non ingenua, il problema della comunicazione interpersonale<br />
avanzata: non più attraverso telefoni, computer e trasmettitori, ma tramite un<br />
flusso continuato del pensiero. L’omaggio degli autori <strong>di</strong> Matrix è palese fin dai<br />
titoli <strong>di</strong> testa, una cascata <strong>di</strong> numeri verde acido in una schermata <strong>di</strong> computer, e<br />
continua nella [ri]nascita <strong>di</strong> Neo, ambientata nello stesso liquido amniotico del<br />
Maggiore Kusanagi, la protagonista <strong>di</strong> Ghost in the Shell. La verità, sembrano<br />
voler <strong>di</strong>re i registi, è fittizia, come l’ambiente che ci circonda, e solo le macchine<br />
senzienti, come già in Ghost in the Shell, hanno il potere <strong>di</strong> ridurre la realtà ad<br />
71
un’astratta banalizzazione.<br />
L’idea che un cervello cibernetico possa autonomamente generare uno spirito<br />
– ossia un’anima senziente – mette in <strong>di</strong>scussione non solo la necessità, ma<br />
ad<strong>di</strong>rittura l’esistenza del genere umano. L’uomo, nella prospettiva <strong>di</strong> Shirow,<br />
<strong>di</strong>venta un accessorio che funge unicamente da veicolo; nella mente dei<br />
Wachowski serve ad<strong>di</strong>rittura da cibo agli Esseri Superiori.<br />
Il Maggiore Kusanagi, uno spirito dotato <strong>di</strong> memoria in un guscio <strong>di</strong> titanio,<br />
avverte la necessità <strong>di</strong> espandersi, si sente prigioneria nei limiti del proprio<br />
corpo. “E ora dove andrà questo essere appena nato? … La Rete è vasta e<br />
infinita”, <strong>di</strong>ce il Maggiore, non appena rinata sotto nuove e più libere spoglie,<br />
svincolata da ogni legame terreno. La trasparenza del suo corpo <strong>di</strong>venta effettiva<br />
nell’espansione nello sprawl urbano, e acquista significato proprio nella sua<br />
<strong>di</strong>versità e mutabilità. Gli elementi progettati da Fuksas e Ito, in quanto corpi<br />
mobili allo sguardo, sono quanto <strong>di</strong> più simile si possa trovare nel cinema e<br />
fumetto <strong>di</strong> fantascienza.<br />
72
POSTILLA<br />
L’Immaginario <strong>di</strong> chi ha scritto questo lavoro è frutto non solo della visione <strong>di</strong> tanti film e<br />
letture in solitario, ma anche del confronto <strong>di</strong>alettico con chi, in questi anni ha con<strong>di</strong>viso<br />
con me la passione e lo stu<strong>di</strong>o. La passione per lo stu<strong>di</strong>o. Se quello che noi siamo è<br />
anche - e soprattutto - una costruzione sociale definita dal nostro rapporto con l’esterno,<br />
in un certo senso si potrebbe determinare una piccola civitas, costituita da menti tanto<br />
<strong>di</strong>verse quanto affini. Evgenij Vlá<strong>di</strong>mirovic Irikovskij, Kabiria Kotero, Man-Ah-Tek,<br />
Calogero Mascelloni, Ivano Merz, Jorge Santiago du Rinassimiento, Klaus Maria<br />
Shaubenburg e Axel fanno parte <strong>di</strong> una sezione <strong>di</strong> questa comunità poliedrica e<br />
stimolante.<br />
Zia rrose, la orsa, il cupo, lysandra, lo psikiatra, lefty e gloucester, insieme ad altre entità<br />
virtuose e traslucide hanno bucato i miei sche[r]mi con le loro visioni iperreali, pulsanti e<br />
vive. Desideranti.<br />
I giovani del Gotham, gli A<strong>di</strong>ni e soprattutto i Maestri - Sergio e Albert, Gino e Stefano –<br />
per sempre nel mio cuore.<br />
73
INDICE FIGURE<br />
Pag. 9 - Tony Garnier, Cité industrielle, 1917<br />
Pag. 10 - E. Kettelhut, Città vista dall’alto con Torre, Metropolis, 1927<br />
Pag. 12 – Hans Poelzig, Grosses Shauspielhaus, 1919<br />
Pag. 27 - Howard Roark [Gary Cooper] in La fonte meravigliosa, 1949<br />
Pag. 29 – “Enright Buil<strong>di</strong>ng” in La fonte meravigliosa, 1949<br />
Pag. 30 – Edward Carrere, bozzetto <strong>di</strong> residenza privata, La fonte meravigliosa, 1949<br />
Pag. 32 - Ellsworth Toohey mostra i progetti <strong>di</strong> Peter Keating, La fonte meravigliosa,<br />
1949<br />
Pag. 35 – Anton Furst, bozzetto per Batman, 1989<br />
Pag. 36 – Shin Takamatsu, The ARK, 1981<br />
Pag. 42 - Seahaven, The Truman Show, 1998<br />
Pag. 43 – Casa Krier, Seaside, Florida, 1987<br />
Pag. 47 – Aldo Rossi, bozzetto per il Teatro del Mondo, 1980<br />
Pag. 48 - Aldo Rossi, il Teatro del Mondo, 1980<br />
Pag. 50 – Frank O. Ghery, Guggenheim Museum, 1997<br />
Pag. 53 - Frank O. Ghery, Berlin Bank, 2001<br />
Pag. 53 – Richard Roger, Lloyd’s Buil<strong>di</strong>ng, 1986<br />
Pag. 54 – Peter Cook, Plug-in City, 1964<br />
Pag. 55 – Rogers, Piano, Franchini, Centre George Pompidou, 1977<br />
Pag. 57 – Masamune Shirow, Appleseed, 1985<br />
Pag. 58 – Business Center, Euralille, 1994<br />
Pag. 58 – Libeskind, Ha<strong>di</strong>d, Isozaki, Maggiora, progetto per il Polo Fiera <strong>di</strong> Milano, 2005<br />
Pag. 60 – Tsutomu Nihei, Blame!, 2004<br />
Pag. 60 – Giovanni B. Piranesi, Le carceri, 1749<br />
Pag. 64 – Msamune Shirow, Ghost in the Shell, 1991<br />
Pag. 66 – Massimiliano Fuksas, progetto per il Centro Congressi Italia Eur, 1999<br />
pag. 69 – Toyo Ito, Torre dei Venti, 1986<br />
74
FILMOGRAFIA<br />
1920 GENUINE<br />
Regia: Robert Wiene<br />
Fotografia: Willy Hameister<br />
Scenografia: César Klein<br />
1920 DER GOLEM [Il Golem]<br />
Regia: Paul Wegener<br />
Fotografia: Karl Freund<br />
Scenografia: Hans Poelzig<br />
1920 DAS KABINETT DES DR. CALIGARI [Il gabinetto del dottor Caligari]<br />
Regia: Robert Wiene<br />
Fotografia: Willy Hameister<br />
Scenografia: Walter Reinmann, Walter Röhrig, Hermann Warm<br />
1923 SAFETY LAST [Preferisco l’ascensore]<br />
Regia: Fred Newmeyer, Sam Taylor<br />
Fotografia: Walter Lun<strong>di</strong>n<br />
Scenografia: Fred Guiol<br />
1924 DIE NIBELUNGEN [I Nibelunghi]<br />
Regia: Fritz Lang<br />
Fotografia: Carl Hoffman, Günther Rittau<br />
Scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Vollbrecht<br />
1926 METROPOLIS<br />
Regia: Fritz Lang<br />
Fotografia: Karl Freund, Günther Rittau<br />
Scenografia: Otto Hunte, Erich Kettelhut, Karl Vollbrecht<br />
1927 UNDERWORLD [Le notti <strong>di</strong> Chicago]<br />
Regia: Josef von Sternberg<br />
Fotografia: Bert Glennon<br />
Scenografia: Hans Dreier<br />
1928 THE CROWD [La folla]<br />
75
Regia: King Vidor<br />
Fotografia: Henry Sharp<br />
1930 JUST IMAGINE<br />
Regia: David Butler<br />
Scenografia: Stephen Gossom<br />
1930 SCARFACE, SHAME OF A NATION [Scarface]<br />
Regia: Howard Hawks<br />
Fotografia: Lee Garmes, L.William O’Connell<br />
Scenografia: Harry Olivier<br />
1931 CITY STREETS [Le vie della città]<br />
Regia: Rouben Mamoulian<br />
Fotografia: Lee Garmes<br />
1931 STREET SCENE [Scena <strong>di</strong> strada]<br />
Regia: King Vidor<br />
Fotografia: Walter Barnes<br />
1933 KING KONG<br />
Regia: Ernest B. Schoedsack<br />
Fotografia: Edward Linden<br />
Scenografia: Byron L. Crabbe, Mario Larrinaga<br />
1936 THINGS TO COME [La vita futura – Nel 2000 guerra o pace]<br />
Regia: William Cameron Diaz<br />
Fotografia: George Périnal<br />
Scenografia: Vincent Korda<br />
1937 DEAD END [Strada sbarrata]<br />
Regia: William Wyler<br />
Fotografia: Gregg Toland<br />
1941 THE MALTESE FALCON [Il mistero del falco]<br />
Regia: John Huston<br />
Fotografia: Arthur Edeson<br />
Scenografia: Robert Haas<br />
76
1946 IT’S A WONDERFUL LIFE [La vita è meravigliosa]<br />
Regia: Frank Capra<br />
Fotografia: Joseph Biroc, Joseph Walker<br />
Scenografia: Jack Okey<br />
1946 MY DARLING CLEMENTINE [Sfida infernale]<br />
Regia: John Ford<br />
Fotografia: Joseph McDonald<br />
Scenografia: Lyle R. Wheeler<br />
1948 NAKED CITY [La città nuda]<br />
Regia: Jules Dassin<br />
Fotografia: William H.Daniels<br />
Scenografia: Oliver Emert, Russell A. Gausman<br />
1949 ACT OF VIOLENCE [Atto <strong>di</strong> violenza]<br />
Regia: Fred Zinnemann<br />
Fotografia: Robert Surtees<br />
Scenografia: Cedric Gibbons, Hans Peters<br />
1949 THE FOUNTAINHEAD [La fonte meravigliosa]<br />
Regia: King Vidor<br />
Fotografia: Robert Burks<br />
Scenografia: Edward Carrere<br />
1950 THE ASPHALT JUNGLE [Giungla d’asfalto]<br />
Regia: John Huston<br />
Fotografia: Harold Rosson<br />
Scenografia: Randall Duell, Cedric Gibbons<br />
1950 THE NIGHT AND THE CITY [I trafficanti della notte]<br />
Regia: Jules Dassin<br />
Fotografia: Max Greene<br />
1950 SUNSET BOULEVARD [Viale del tramonto]<br />
Regia: Billy Wilder<br />
Fotografia: John Seitz<br />
Scenografia: Hans Dreier, John Meehan<br />
77
1951 CRY DANGER [Nei bassifon<strong>di</strong> <strong>di</strong> Los Angeles]<br />
Regia: Robert Parrish<br />
Fotografia: Joseph Biroc<br />
Scenografia: Richard Day<br />
1954 ON THE WATERFRONT [Fronte del porto]<br />
Regia: Elia Kazan<br />
Fotografia: Boris Kaufman<br />
Scenografia: Richard Day<br />
1955 KILLER’S KISS [Il bacio dell’assassino]<br />
Regia: Stanley Kubrick<br />
Fotografia: Stanley Kubrick<br />
1956 BUS STOP [Fermata d’autobus]<br />
Regia: Joshua Logan<br />
Fotografia: Milton Krasner<br />
1956 THE KILLING [Rapina a mano armata]<br />
1956 PICNIC<br />
Regia: Stanley Kubrick<br />
Fotografia: Lucien Ballard<br />
Scenografia: Ruth Sobotka Kubrick<br />
Regia: Joshua Logan<br />
Fotografia: James Wong Howe<br />
1958 MON ONCLE [Mio zio]<br />
Regia: Jacques Tati<br />
Fotografia: Jean Bourgoin<br />
Scenografia: Jacques Lagrange<br />
1960 ROCCO E I SUOI FRATELLI<br />
Regia: Luchino Visconti<br />
Fotografia: Giuseppe Rotunno<br />
Scenografia: M.Garbuglia<br />
1961 BREAKFAST AT TIFFANY’S [Colazione da Tiffany]<br />
Regia: Blake Edwards<br />
Fotografia: Franz Planer<br />
78
Scenografia: Ronald Anderson, Hal Pereira<br />
1963 CLEOPATRA<br />
1964 EMPIRE<br />
Regia: Joseph L.Mankiewicz<br />
Fotografia: Leon Shamroy<br />
Scenografia: Paul S.Fox, Ray Mayer<br />
Regia: Andy Wharol<br />
Fotografia: Jonas Mekas<br />
1967 BONNIE AND CLYDE [Gangster Story]<br />
Regia: Arthur Penn<br />
Fotografia: Burnett Guffrey<br />
1967 PLAYTIME<br />
Scenografia: Dean Tavoularis<br />
Regia: Jaques Tati<br />
Fotografia: Jean Badal, Andréas Win<strong>di</strong>ng<br />
Scenografia: Jacques Lagrange<br />
1969 MIDNIGHT COWBOY [Un uomo da marciapiede]<br />
Regia: John Schlesinger<br />
Fotografia: Adam Holender<br />
Scenografia: John R.Lloyd<br />
1970 ZABRISKIE POINT<br />
Regia: Michelangelo Antonioni<br />
Fotografia: Alfio Contini<br />
Scenografia: Dean Tavoularis<br />
1971 THE FRENCH CONNECTION [Il braccio violento della legge]<br />
Regia: William Friedkin<br />
Fotografia: Owen Roizman<br />
Scenografia: Ben Kazaskov<br />
1973 WESTWORLD [Il mondo dei robot]<br />
Regia: Michael Crichton<br />
Fotografia: Gene Polito<br />
79
1974 CHINATOWN<br />
Regia: Roman Polanski<br />
Fotografia: John A.Alonzo<br />
Scenografia: Richard Sylbert<br />
1974 EARTHQUAKE [Terremoto]<br />
Regia: Mark Robson<br />
Fotografia: Philip H. Lathrop<br />
1974 THE TOWERING INFERNO [L’inferno <strong>di</strong> cristallo]<br />
Regia: John Guillermin<br />
Fotografia: Joseph Biroc, Fred M.Koenekamp<br />
1975 PROFONDO ROSSO<br />
Regia: Dario Argento<br />
Fotografia: Luigi Kuveiller<br />
1976 ASSAULT ON PRECINT 13 [Distretto 13 – Le brigate della morte<br />
Regia: John Carpenter<br />
Fotografia: Douglas Knapp<br />
1976 TAXI DRIVER<br />
Regia: Martin Scorsese<br />
Fotografia: Michael Chapman<br />
Scenografia: Charles Rosen<br />
1977 ANGEL CITY<br />
Regia: Jon Jost<br />
1977 ANNIE HALL [Io e Annie]<br />
Regia: Woody Allen<br />
Fotografia: Gordon Willis<br />
Scenografia: Mel Bourne<br />
1977 NEW YORK, NEW YORK<br />
Regia: Martin Scorsese<br />
Fotografia: Laszlo Kovacs<br />
Scenografia: Boris Leven<br />
80
1978 QUINTET<br />
Regia: Robert Altman<br />
Fotografia: Jean Boffety<br />
1979 MANHATTAN<br />
Regia: Woody Allen<br />
Fotografia: Gordon Willis<br />
Scenografia: Mel Bourne<br />
1979 THE WARRIORS [I guerrieri della notte]<br />
Regia: Walter Hill<br />
Fotografia: Andrew Laszlo<br />
Scenografia: Fred Weiler<br />
1980 WINDOWS<br />
Regia: Gordon Willis<br />
1981 ESCAPE FROM NEW YORK [1997 - Fuga da New York]<br />
Regia: John Carpenter<br />
Fotografia: Dean Cundey<br />
Scenografia: Don Sutton<br />
1982 BLADE RUNNER<br />
Regia: Ridley Scott<br />
Fotografia: Jordan Cronenweth<br />
Scenografia: Lawrence G.Paull [prod.design.], Syd Mead [visual futurist]<br />
1982 KOYAANISQATSI<br />
Regia: Godfrey Reggio<br />
Fotografia: Ron Fricke<br />
1982 ONE FROM THE HEART [Un sogno lungo un giorno]<br />
Regia: Francis F. Coppola<br />
Fotografia: Vittorio Storaro<br />
Scenografia: Dean Tavoularis<br />
1983 RUMBLE FISH [Rusty il selvaggio]<br />
Regia: Francis F. Coppola<br />
Fotografia: Stephen H. Burum<br />
Scenografia: Dean Tavoularis<br />
81
1985 AFTER HOURS [Fuori Orario]<br />
Regia: Martin Scorsese<br />
Fotografia: Michael Ballhaus<br />
Scenografia: Jeffrey Townsend<br />
1985 BACK TO THE FUTURE [Ritorno al futuro]<br />
1985 BRAZIL<br />
Regia: Robert Zemeckis<br />
Fotografia: Dean Cundey<br />
Scenografia: Todd Hallowell, Lawrence G.Paull<br />
Regia: Terry Gilliam<br />
Fotografia: Roger Pratt<br />
Scenografia: Maggie Gray, Norman Garwood<br />
1985 INTO THE NIGHT [Tutto in una notte]<br />
Regia: John Lan<strong>di</strong>s<br />
1985 SUBWAY<br />
Fotografia: Robert Paynter<br />
Regia: Luc Besson<br />
Fotografia: Carlo Varini<br />
Scenografia: Alexander Trauner<br />
1985 TO LIVE AND DIE IN L.A. [Vivere e morire a Los Angeles]<br />
Regia: William Friedkin<br />
Fotografia: Robby Müller<br />
Scenografia: Lilly Kilvert<br />
1985 YEAR OF THE DRAGON [L’anno del dragone]<br />
Regia: Michael Cimino<br />
Fotografia: Alex Thomson<br />
1986 SOMETHING WILD [Qualcosa <strong>di</strong> travolgente]<br />
Regia: Jonathan Demme<br />
Fotografia: Tak Fujimoto<br />
1986 TOKYO-GA<br />
Regia: Wim Wenders<br />
82
Fotografia: Edward Lachman<br />
1986 TRUE STORIES<br />
1987 BARFLY<br />
Regia: David Byrne<br />
Fotografia: Edward Lachman<br />
Scenografia: Barbara Ling<br />
Regia: Barbet Schroeder<br />
Fotografia: Robby Müller<br />
1987 THE UNTOUCHABLES [Gli Intoccabili]<br />
Regia: Brian De Palma<br />
Fotofrafia: Stephen H.Burum<br />
Scenografia: Barbara Lifsher<br />
1988 BEETLE JUICE<br />
Regia: Tim Burton<br />
Fotografia: Thomas Ackerman<br />
Scenografia: Bo Welch<br />
1988 COLORS [Colors - Colori <strong>di</strong> guerra]<br />
Regia: Dennis Hopper<br />
Fotografia: Haskell Wexler<br />
1988 DIE HARD [Die hard - Trappola <strong>di</strong> cristallo]<br />
Regia: John McTiernan<br />
Fotografia: Jan De Bont<br />
Scenografia: Jackson DeGovia<br />
1988 THEY LIVE! [Essi vivono]<br />
Regia: John Carpenter<br />
1989 AKIRA<br />
Fotografia: Gary B.Kibbe<br />
Regia: Katsushiro Otomo<br />
Fotografia: Katsuji Misawa<br />
Scenografia: Toshimaru Mizutami<br />
83
1989 BATMAN<br />
Regia: Tim Burton<br />
Fotografia: Roger Pratt<br />
Scenografia: Anton Furst<br />
1989 BLACK RAIN [Black Rain - Pioggia sporca]<br />
Regia: Ridley Scott<br />
Fotografia: Jan De Bont<br />
1990 DICK TRACY<br />
Regia: Warren Beatty<br />
Fotografia: Vittorio Storaro<br />
Scenografia: Richard Sylbert<br />
1990 END OF THE NIGHT [Aspettando la notte]<br />
Regia: Keith McNally<br />
Fotografia: Tom DiCillo<br />
1990 THELMA & LOUISE<br />
Regia: Ridley Scott<br />
Fotografia: Adrian Biddle, David B.Nowell<br />
Scenografia: Norris Spencer<br />
1991 BOYZ’N THE HOOD<br />
1991 BUGSY<br />
Regia: John Singleton<br />
Fotografia: Charles Mills<br />
Regia: Barry Levinson<br />
Fotografia: Allen Daviau<br />
Scenografia: Jeannine Oppewall<br />
1991 THE FISHER KING [La leggenda del Re Pescatore]<br />
Regia: Terry Gilliam<br />
Fotografia: Roger Pratt<br />
Scenografia: Mel Bourne<br />
1991 JUNGLE FEVER<br />
Regia: Spike Lee<br />
Fotografia: Ernest Dickerson<br />
84
Scenografia: Wynn Thomas<br />
1991 RICOCHET [Verdetto finale]<br />
Regia: Russel Mulcahy<br />
Fotografia: Peter Levy<br />
1993 FALLING DOWN [Un giorno <strong>di</strong> or<strong>di</strong>naria follia]<br />
Regia: Joel Schumacher<br />
Fotografia: Andrzej Bartkowiak<br />
Scenografia: Barbara Ling<br />
1993 SHORT CUTS [America oggi]<br />
Regia: Robert Altman<br />
Fotografia: Walt Lloyd<br />
Scenografia: Stephen Altman<br />
1993 SLEEPERS IN SEATTLE [Insonnia d’amore]<br />
Regia: Nora Ephron<br />
Fotografia: Sven Nykvist<br />
Scenografia: Jeffrey Townsend<br />
1994 THE HUDSUCKER PROXY [Mr. Hula Hoop]<br />
Regia: Joel Coen<br />
Fotografia: Roger Deakins<br />
Scenografia: Dennis Gassner<br />
1994 PULP FICTION<br />
Regia: Quentin Tarantino<br />
Fotografia: Andrzej Sekula<br />
Scenografia: David Vasco<br />
1995 CLOCKERS<br />
Regia: Spike Lee<br />
Fotografia: Malik Hassan Sayeed<br />
Scenografia: Ina Mayhew<br />
1995 GHOST IN THE SHELL<br />
Regia: Mamoru Oshii<br />
Fotografia: Hiromasa Ogura<br />
Scenografia: Takashi Watabe<br />
85
1995 LA HAINE [L’o<strong>di</strong>o]<br />
Regia: Mathieu Kassovitz<br />
Fotografia: Pierre Aïm<br />
1995 JOHNNY MNEMONIC<br />
Regia: Robert Longo<br />
Fotografia: François Protat<br />
1995 THE NET [The Net – Intrappolata nella rete]<br />
Regia: Irwin Winkler<br />
Fotografia: Jack N. Green<br />
1995 NICK OF TIME [Minuti contati]<br />
Regia: John Badham<br />
Fotografia: Roy H. Wagner<br />
1995 SE7EN [Seven]<br />
1995 SMOKE<br />
Regia: David Fincher<br />
Fotografia: Darius Kondhji<br />
Scenografia: Arthur Max<br />
Regia: Wayne Wang<br />
Fotografia: Adam Holender<br />
Scenografia: Kalina Ivanov<br />
1995 STRANGE DAYS<br />
Regia: Kathryn Bigelow<br />
Fotografia: Matthew F.Leonetti<br />
Scenografia: Lilly Kilvert<br />
1996 CHACUN CHERCHE SON CHAT [Ciascuno cerca il suo gatto]<br />
Regia: Cédric Klapisch<br />
Fotografia: Benoit Delhomme<br />
Scenografia: François Emmanuel<br />
1996 CONTACT<br />
Regia: Robert Zemeckis<br />
Fotografia: Don Burgess<br />
86
Scenografia: Ed Verraux<br />
1996 THE SUNCHASER [Verso il sole]<br />
Regia: Michael Cimino<br />
Fotografia: Doug Milsome<br />
Scenografia: Victoria Paul<br />
1996 TREES LOUNGE [Mosche da bar]<br />
Regia: Steve Buscemi<br />
1996 WILLIAM SHAKESPEARE’S ROMEO + JULIET [Romeo + Giulietta <strong>di</strong> William Shakespeare]<br />
Regia: Baz Luhrmann<br />
Fotografia: Donald McAlpine<br />
Scenografia: Brigitte Broch, Catherine Martin<br />
1997 THE BIG LEBOWSKI<br />
Regia: Joel Coen<br />
Fotografia: Roger Deakins<br />
Scenografia: Rich Heinrichs<br />
1997 BREAKDOWN [Breakdown - La trappola]<br />
Regia: John Mostow<br />
Fotografia: Douglas Milsome<br />
Scenografia: Victoria Paul<br />
1997 LE CINQUIÈME ELÉMENT [Il Quinto Elemento]<br />
Regia: Luc Besson<br />
Fotografia: Thierry Arbogast<br />
1997 GREAT EXPECTATIONS [Para<strong>di</strong>so perduto]<br />
1997 HANA-BI<br />
Regia: Alfonso Cuàron<br />
Fotografia: Emmanuel Lubezki<br />
Scenografia: Tony Burrough<br />
Regia: Takeshi Kitano<br />
Fotografia: H. Yamamoto<br />
1997 JACKIE BROWN<br />
Regia: Quentin Tarantino<br />
87
Fotografia: Guillermo Navarro<br />
Scenografia: David Wasco<br />
1997 JOHN CARPENTER’S ESCAPE FROM L.A. [Fuga da Los Angeles]<br />
Regia: John Carpenter<br />
Fotografia: Gary B. Kibbe<br />
1997 KEEP COOL<br />
Regia: Zhang Yimou<br />
Fotografia: Lu Yue<br />
Scenografia: Cao Jiuping<br />
1997 L.A. CONFIDENTIAL<br />
Regia: Curtis Hanson<br />
Fotografia: Dante Spinotti<br />
Scenografia: Jeannine Oppewall<br />
1997 U-TURN [U Turn – Inversione <strong>di</strong> marcia]<br />
Regia: Oliver Stone<br />
Fotografia: Robert Richardson<br />
Scenografia: Victor Kempster<br />
1998 CITY OF ANGELS<br />
Regia: Brian Silberling<br />
Fotografia: John Seale<br />
Scenografia: Lilly Kilvert<br />
1998 FEAR AND LOATHING IN LAS VEGAS [Paura e delirio a Las Vegas]<br />
Regia: Terry Gilliam<br />
1998 THE GAME [The Game - Nessuna regola]<br />
Regia: David Fincher<br />
Fotografia: Harris Savides<br />
Scenografia: Jeffrey Beecroft<br />
1998 GATTACA<br />
Regia: Andrew Niccols<br />
Fotografia: Slawomir Idziak<br />
Scenografia: Jan Roelfs<br />
88
1998 PRIMARY COLORS [I colori della vittoria]<br />
Regia: Mike Nichols<br />
Fotografia: Michael Ballhaus<br />
Scenografia: Bo Welch<br />
1998 THE TRUMAN SHOW<br />
1999 MATRIX<br />
Regia: Peter Weir<br />
Fotografia: Peter Biziou<br />
Scenografia: Dennis Gassner<br />
Regia: Andy e Larry Wachowski<br />
Fotografia: Bill Pope<br />
Scenografia: Owen Paterson<br />
2002 25 TH HOUR [La 25 a ora]<br />
Regia: Spike Lee<br />
Fotografia: Rodrigo Prieto<br />
Scenografia: James Chinlund<br />
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