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Dove non suoanano più i fucili - Europuglia

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Mostar again<br />

Dopo aver sperimentato anche i tram di Sarajevo che arrancavano dall’estrema<br />

periferia verso la nostra stazione degli autobus, siamo voluti subito ripartire per<br />

riservare ancora un paio di giorni alla cittadina erzegovese distante da Bari duecento<br />

chilometri di Adriatico. Ci è sembrato che Mostar, con le sue due piccole università<br />

che fra mille difficoltà cercano di conformare i programmi, con i tantissimi<br />

matrimoni misti (seconda città nell’area dopo Vukovar, per questo), con i suoi mille<br />

caffè sempre aperti, con la propensione meridiana alla chiacchiera protratta per ore,<br />

con i tanti giovani andati via e con quelli che eroicamente son rimasti, ci è sembrato<br />

che ricordasse talmente le nostre città del Meridione che immaginare che questa<br />

gente tiri avanti la carretta godendo di uno status economico giuridico e sociale<br />

incerto e di gran lunga <strong>più</strong> precario della ormai pure assai instabile way of life europea,<br />

restare a scambiare impressioni con loro fosse l’unico atto di amicizia colpevolmente<br />

ritardata che con umiltà avessimo potuto donar loro.<br />

Insieme ai ragazzi del MMT abbiamo trascorso l’ultima sera in Bosnia. Li abbiamo<br />

osservati mentre mettevano a punto una scena di una piece prima di partire per le<br />

vacanze estive. Abbiamo chiesto loro di raccontarci della loro esperienza al Mostar<br />

Youth Theatre, e della loro vita, della musica che ascoltano, dei progetti che hanno<br />

per il futuro.<br />

Un po’ tutti si appassionano a questo straordinario misto di musica, danza, recitazione,<br />

yoga, video e body-art “che solo dopo diecine e diecine di rappresentazioni<br />

diventa una vera opera”, come sottolinea amorevolmente l’ottimo Joha, per rilassarsi,<br />

per imparare a prendere confidenza con il proprio corpo e con il suo linguaggio<br />

<strong>non</strong>ché con le regioni emozionali <strong>più</strong> riposte di se stessi. È il metodo del vecchio<br />

Grotowskji, naturalmente, ma <strong>non</strong> senza disdegnare talune esperienze avanguardistiche<br />

del Novecento come quella del brasiliano Augusto Boal. Proseguiamo la serata<br />

sulla terrazza del “bagno turco” ristrutturato. I ragazzi si fanno in due dalle risate<br />

imitando i loro professori universitari di inglese e gli esercizi di pronuncia. Sembrano<br />

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spensierati e per nulla spaventati dal Futuro. Pure Joha, che ha 37 anni -la mia stessa<br />

età e del grande Sejo (di cui Joha si sente figlio putativo) che è appena tornato<br />

dal suo workshop sulla Luna (l’Italia, cioè, verso cui viaggiare è difficile come volare<br />

su un satellite: l’ambasciata che ti chiede di tornare sette volte, e di esibire le fotocopie<br />

degli euro che porterai con te, e le traversie del viaggio, e i soldi del progetto che<br />

chissà quando si vedranno, decurtati della tassazione sia in Italia che in Bosnia)-,<br />

pure Joha, dicevo, ha trovato la sua strada, e lo ha fatto ormai quindici anni fa e oggi<br />

è un uomo felice e innamorato della sua bella dolcissima regista greca incontrata<br />

grazie al MMT. Ci racconta del giorno in cui, seduto al bar a chiacchierare con un<br />

americano, gli era sembrato che il tizio avesse un aspetto familiare. E che quando,<br />

dopo aver conversato per due ore, quello disse: “Scusami, stiamo parlando da ore,<br />

presentiamoci, io sono Brian Eno”, lui, Joha, sarebbe voluto sprofondare in un buco<br />

nero piuttosto che ammettere di <strong>non</strong> aver riconosciuto uno dei due suoi <strong>più</strong> grandi<br />

idoli (l’altro è Sakamoto). Perché Mostar è così. Una città dove ti può capitare di trovarti<br />

a chiacchierare con Brian Eno. Una città che genera cultura ad altissimo livello<br />

e a ritmo incessante. La compagnia dei nostri amici, per esempio, oltre che sulla<br />

Luna, su questo brutto paese che sta diventando l’Italia (ché un Paese che <strong>non</strong><br />

rispetta gli artisti, che li umilia, <strong>non</strong> può che essere mostruoso e imbarazzante per<br />

noi stessi che lì viviamo), ha girato a lungo per l’Europa, per la Russia, l’Asia<br />

(Singapore, Taiwan), gli Stati Uniti portando l’antica cultura teatrale bosniaca, attraverso<br />

workshop e pièce, nelle Università e nei paesini, nei grandi teatri e nelle piazze,<br />

nei Festival e nei treni e negli aerei.<br />

A un certo punto m’ero distratto, lassù sulla terrazza. Stavo guardando il sole sparire<br />

oltre la montagna dove si staglia la croce cattolica. Ho sentito solo che Joha stava parlando<br />

con Francesco di qualcuno che viene dall’America ogni due anni a studiare i<br />

fenomeni teatrali della Bosnia-Erzegovina. Mi sono riavuto e fattomi ripetere il concetto.<br />

Ho collegato subito. “È una donna sui sessanta di origini greche?”. “Esattamente”,<br />

ha risposto Joha, “è una vecchia amica, un’antropologa di Washington che qui ha<br />

comprato casa e che rivediamo un mese d’estate ogni due anni”. Si tratta di Eugene,<br />

la donna che avevamo incontrato sulla corriera Dubrovnik-Mostar.<br />

Al ritorno in albergo ho pensato che sarebbe stato gentile, alla fine del viaggio, chia-<br />

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