file PDF - Economia
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La politica degli alti salari come causa dei<br />
“due Mezzogiorno d’Europa”<br />
di F. E. Caroleo<br />
1. Le modalità dell’unificazione..<br />
Dopo la caduta del muro di Berlino, i criteri perseguiti dalle autorità tedesche per raggiungere la<br />
cosiddetta “German Economic Monetary and Social Union” (GEMSU) sono per certi versi analoghi<br />
con quanto è avvenuto al momento della nascita dello Stato italiano oltre un secolo prima. In<br />
entrambi i casi, infatti, l’area che aveva una struttura istituzionale ed economica più forte ha di<br />
fatto annesso quella più debole.<br />
In Germania, in particolare, il processo di unificazione è stato portato avanti secondo un<br />
approccio coerente con quei canoni di “economia sociale di mercato” (Soziale Marktwirtschaft) che<br />
hanno caratterizzato lo sviluppo economico della Germania Ovest dopo la seconda guerra<br />
mondiale. L’intento del governo federale tedesco era di dare a tutto il popolo della Germania<br />
unita uguali opportunità. La straordinarietà dell’evento, e il particolare periodo di prosperità di<br />
quegli anni, aveva ingenerato una gran fiducia nel fatto che l’apertura delle regioni dell’Est<br />
all’economia di mercato potesse determinare le condizioni per una transizione veloce, non<br />
traumatica e con costi economici e sociali minimi.<br />
I problemi da affrontare erano quelli di stabilire un nuovo assetto istituzionale, di creare<br />
l’integrazione e la stabilità monetaria e di adattare la struttura economica reale alle nuove<br />
condizioni. Ciascuno di questi, inoltre, poteva essere affrontato con diverse opzioni di policy.<br />
L’integrazione politico-istituzionale ha seguito lo stesso processo avvenuto nel 1861, nel<br />
momento dell’unificazione d’Italia, allorquando il regno d’Italia si è formato estendendo al Regno<br />
delle due Sicilie il sistema di leggi ed istituzioni, tra cui lo Statuto Albertino del 1848, vigente nel<br />
Regno di Sardegna. La Costituzione della Repubblica federale tedesca prevedeva peraltro, all’art.<br />
146, la possibilità che nel momento dell’unificazione si potesse procedere alla riformulazione<br />
della Costituzione stessa e che, quindi, il processo d’integrazione potesse avvenire tra partner<br />
uguali e con lo stesso peso politico. Si decise, invece, di applicare il principio dell’integrazione,<br />
previsto all’art. 23, per cui il sistema istituzionale della Germania Ovest era esteso a tutto il<br />
territorio tedesco. I Länder tedesco-orientali sono quindi diventati parte della Repubblica federale<br />
tedesca, facendo proprio il suo assetto economico e istituzionale. Le motivazioni per una tale<br />
scelta erano sia di tipo politico sia d’equità sociale. La prima strada, sebbene politicamente più<br />
“giusta”, tuttavia avrebbe necessariamente posposto il processo d’integrazione economica nel<br />
tempo e avrebbe aggravato i problemi della transizione. Inoltre, non risolvendo in tempo il<br />
problema dei diritti di proprietà, avrebbe creato incertezza nelle decisioni degli investitori.<br />
Sui diritti di proprietà l’indicazione è stata quella di far prevalere il principio della restituzione su<br />
quello dell’indennizzo. Questa decisione, tuttavia, ha creato non pochi problemi, soprattutto per<br />
quanto riguarda la definizione dei diritti di proprietà delle imprese, ripercuotendosi negativamente<br />
sul lavoro della Treuhand (THA), l’istituzione creata al fine di organizzare la ristrutturazione e la<br />
privatizzazione della struttura industriale dell’ex repubblica democratica tedesca.<br />
Ancora più controversa è stata la decisione di adottare una moneta unica e di procedere al cambio<br />
alla pari della valuta della Germania Est (Ost Mark). Secondo le autorità tedesche, l’adozione di<br />
una moneta unica avrebbe accelerato l’adozione di un efficiente mercato dei capitali e di una<br />
riforma del sistema dei prezzi. Al contrario, un tasso di cambio differenziato avrebbe costretto le<br />
autorità pubbliche ad adottare un sistema di prezzi sussidiati con conseguenti distorsioni nella<br />
distribuzione delle risorse.
A questa decisione si erano inizialmente contrapposte la maggior parte delle istituzioni<br />
economiche, e in particolare la Bundesbank. Le argomentazioni erano molteplici, ma soprattutto si<br />
sottolineava come l’adozione di una cambio alla pari rappresentasse un vero e proprio shock da<br />
apprezzamento. Il forte apprezzamento dell’Ostmark, infatti, avrebbe comportato per le imprese<br />
dell’Est una grave perdita di competitività dal momento che avrebbero avuto molte difficoltà nel<br />
competere sui mercati internazionali. Le alternative erano diverse, per esempio adottare due<br />
diverse monete con un tasso di cambio flessibile o uno fisso ma con adeguamenti, oppure, come<br />
suggerito dalla Banca centrale della Germania Ovest, adottare un tasso di cambio meno<br />
favorevole (un Deutsche Mark contro due Ost Mark). Alla fine, adottando un tasso di cambio<br />
diverso a seconda del tipo di attività da convertire, si raggiunse il compromesso di determinare un<br />
tasso di cambio effettivo di 1 contro 1,8.<br />
2. La politica salariale e il sistema di relazioni industriali..<br />
Il punto più controverso circa il modo attraverso cui si è proceduto all’unificazione tedesca<br />
riguarda soprattutto la scelta dei criteri di determinazione del salario e l’adozione del sistema di<br />
relazioni industriali. Si decise, infatti, di convertire alla “pari” i contratti salariali ed estendere<br />
all’Est la legislazione del lavoro e gli schemi di sicurezza sociale vigenti nella Germania Ovest.<br />
Anche in questo caso la decisione è stata di tipo politico e guidata dal principio della salvaguardia<br />
del potere d’acquisto, specie dei salari, dei tedeschi dell’Est, al fine di non aggravare i differenziali<br />
salariali tra le due aree.<br />
La decisione di estendere il modello di relazioni industriali, basato sul consenso tra le parti sociali<br />
e sul diritto del sindacato e degli imprenditori di esercitare la contrattazione salariale collettiva, su<br />
base settoriale o regionale, senza interventi da parte del governo, era fondato sul fatto che tale<br />
modello, adottato sin dalla prima guerra mondiale, aveva contribuito a far sviluppare l’economia<br />
tedesca negli anni sessanta e settanta a ritmi notevoli. Dall’altro lato, il governo giustificò l’assetto<br />
contrattuale prescelto con l’opportunità di dover minimizzare il pericolo di un forte flusso di<br />
migrazione verso la Germania Ovest, specie dei lavoratori altamente qualificati che avrebbe<br />
provocato, tra l’altro, il depauperamento del capitale umano nelle regioni dell’Est.<br />
Anche i sindacati della Germania Ovest, i quali in buona sostanza ebbero l’onere di contrattare le<br />
scelte salariali a causa della scarsa esperienza che i lavoratori dell’Est avevano in questo campo,<br />
hanno fortemente favorito la conversione dei salari alla pari. Essi, infatti, avevano tutto l’interesse<br />
a far sì che il loro potere contrattuale non fosse intaccato da politiche di differenziazione salariale<br />
che avrebbero comportato una maggiore concorrenza al ribasso dei salari. I manager dell’Est,<br />
d’altro lato, non erano interessati a contrastare le rivendicazioni dei sindacati per il fatto che essi<br />
stessi correvano seri rischi di essere licenziati e, poiché il sussidio di disoccupazione era legato<br />
all’ultimo stipendio ricevuto, era chiaro che l’interesse era che questo fosse il più alto possibile.<br />
In definitiva, il cambio alla pari dei salari accordato ai lavoratori della Germania Est risultò una<br />
parziale compensazione delle espropriazioni di fatto realizzate ai loro danni. Infatti, come detto,<br />
l’unione valutaria comportò un cambio medio di un Deutsche Mark contro 1,8 Ost Mark<br />
comportando, quindi, per le famiglie dell’Est una perdita complessiva di un terzo della loro<br />
ricchezza. Ciò ha limitato la spesa sia in consumi ma anche in beni d’investimento avendo, tra<br />
l’altro, la conseguenza di impedire ai cittadini dell’Est di poter partecipare alla privatizzazione<br />
delle imprese tramite il THA.<br />
La decisione politica sui salari è stata fortemente criticata sia dagli economisti di ispirazione<br />
liberista che da economisti di tradizione keynesiana. La scelta di ripristinare istantaneamente la<br />
parità salariale tra le due aree, infatti, non rifletteva secondo costoro le condizioni di equilibrio del<br />
mercato del lavoro. Al momento dell’unificazione la produttività della ex Rdt era circa il 30% di
quella della Germania Ovest, mentre i salari erano il 34%. Date queste condizioni di partenza, la<br />
strada da percorrere era di fare aumentare i salari in linea, se non addirittura al di sotto<br />
dell’aumento della produttività. Al contrario le due variabili si sono mosse nei primi anni dopo<br />
l’unificazione in senso opposto. L’aumento dei costi salariali e la riduzione dei prezzi alla<br />
produzione avrebbe comportato, quindi, uno schiacciamento tra costi e ricavi tale per cui la quasi<br />
totalità delle imprese dell’Est non sarebbe stata in grado di vendere i prodotti a prezzi di mercato<br />
e di competere con le imprese dell’Ovest. Alti costi salariali, quindi, avrebbero contribuito ad<br />
accelerare la distruzione del vecchio apparato industriale dell’Est, impedendo alla THA di salvare<br />
quelle in un qualche modo salvabili e scoraggiando gli investitori esteri.<br />
Le conseguenze ancora più drammatiche riguardavano tuttavia gli effetti sulla disoccupazione.<br />
Infatti, le regioni dell’ex Germania Est partivano da una condizione di economia over labored. In<br />
pratica non esistevano disoccupati e il tasso di attività e di occupazione erano più alti che nella<br />
Germania Ovest. Era, quindi, evidente che in queste regioni vi fosse una alta disoccupazione<br />
“nascosta” che il passaggio ad un’economia di mercato, e la scelta salariale, avrebbe fatto<br />
esplodere. Infatti, si stimava che, se si fossero riportate nei Länder dell’Est le medesime<br />
condizioni del mercato del lavoro che vigevano in Germania Ovest, i disoccupati sarebbero<br />
dovuti diventare 2,4 milioni. Ed effettivamente, nel 1992, sommando i disoccupati registrati ai<br />
lavoratori occupati in programmi di “short term work”, ai lavoratori in formazione e ai pendolari, i<br />
disoccupati erano circa 3 milioni, pari a un tasso di disoccupazione del 37%. A costoro, per avere<br />
una dimensione approssimativa della disoccupazione nascosta, bisogna aggiungere anche circa<br />
900 000 prepensionamenti e 2 milioni di lavoratori che avevano lasciato le forze di lavoro.<br />
Se da un lato vi fu un consenso tra economisti e policy maker di diversa estrazione sugli effetti<br />
perversi della scelta del cambio dei salari alla pari, le posizioni si sono fortemente differenziate<br />
sulle possibili opzioni di policy. Alcuni economisti di estrazione keynesiana (Akerlof et al. 1991)<br />
propendevano verso sussidi all’occupazione e alle imprese, almeno nel breve periodo (Burda<br />
1990), al fine rendere, mediante l’abbattimento dei costi del capitale e del lavoro, un maggior<br />
numero di imprese concorrenziali e, quindi, vendibili sul mercato. Nella misura in cui, poi, si<br />
fosse verificato un aumento dell’occupazione, ciò avrebbe comportato anche una riduzione del<br />
peso dei sussidi alla disoccupazione. Economisti di estrazione liberista (Siebert 1991, Oecd 1992),<br />
invece, erano nettamente contrari a queste forme di sussidio ai fattori della produzione. Solo il<br />
mercato e il meccanismo dei prezzi relativi sarebbero stati capaci, secondo costoro, di indurre gli<br />
effetti benefici dell’unificazione e di riequilibrare le differenze strutturali fra le due parti del paese.<br />
Come abbiamo detto, vi era una notevole fiducia nel fatto che il tempo necessario al riequilibrio<br />
sarebbe stato molto breve e legato al naturale processo di un’economia di transizione da<br />
un’economia socialista ad una di mercato 1 . Le politiche che potevano essere effettuate erano,<br />
quindi, quelle volte alla momentanea protezione dei lavoratori espulsi, mediante sussidi di<br />
disoccupazione e programmi di “short term works” o politiche di formazione volte alla<br />
riqualificazione dei lavoratori.<br />
3. La politica degli alti salari come causa dei “due Mezzogiorno d’Europa”..<br />
Per quanto riguarda il dibattito sul ruolo dei sussidi ai fattori della produzione, il confronto con il<br />
problema del Mezzogiorno d’Italia risulta molto interessante. Infatti, le ragioni per cui gli<br />
economisti di estrazione liberista erano, e sono tuttora, contrari ad essi sono le stesse per le quali<br />
in Italia veniva criticata la stagione dei Mezzogiorno sussidiato. La “sindrome del Mezzogiorno”<br />
tedesca nasce appunto da questo punto.<br />
1 Hallet e Ma (1993) non concordano su queste ipotesi prevedendo un periodo necessario al riequilibrio tra le due<br />
aree di oltre 30 anni. Vedi anche Canova - Ravn 2000.
In altri termini, secondo questa impostazione i sussidi al salario e agli investimenti non avrebbero<br />
fatto altro che ripetere quanto è avvenuto nel meridione d’Italia, e cioè avrebbero contribuito a<br />
proteggere la vecchia struttura produttiva e avrebbero rallentato il processo di cambiamento,<br />
impedendo l’avvio in tempi rapidi della modernizzazione e lo sviluppo le regioni dell’Est. La tesi<br />
sottostante è che i problemi della transizione non possono essere risolti mediante politiche<br />
strutturali ma lasciando che siano le forze del mercato a determinare il normale processo di<br />
trasformazione economica e produttiva di paesi ad economia socialista ad una di mercato.<br />
I sussidi dati alle imprese esistenti al fine di salvaguardarne l’occupazione, se politicamente e<br />
socialmente auspicabili, dal punto di vista economico sono poco efficaci perché proteggono<br />
quelle inefficienti, impediscono l’entrata di quelle nuove. Inoltre creano una competizione nella<br />
distribuzione delle risorse finanziarie, e sono alla lunga distorsivi proprio a sfavore del fattore<br />
lavoro. Le imprese non vendibili avrebbero dovuto essere chiuse poiché il tentativo di favorirne<br />
la trasformazione strutturale non avrebbe fatto altro che perpetuare per lungo tempo il compito<br />
del THA, snaturandone così la funzione primaria.<br />
I sussidi ai salari, infine, sono costosi e mantengono lo status quo, dal momento che riducono<br />
l’incentivo per le imprese a ristrutturarsi, inducono investimenti ad alta intensità di lavoro e non<br />
impediscono adeguatamente gli atteggiamenti di moral hazard nel comportamento dei sindacati.<br />
Essi, inoltre, favoriscono ulteriori spinte all’uniformità salariale e verso una contrattazione<br />
salariale guidata da considerazioni politiche piuttosto che dal vincolo della produttività, non<br />
permettendo quindi la formazione di differenziali necessari alla ricomposizione settoriale,<br />
regionale e tra imprese.<br />
Allo stesso modo i sussidi agli investimenti sono distorsivi nell’uso delle risorse e non incentivano<br />
la domanda di lavoro dal momento che favoriscono investimenti capital intensive. Infine, sono<br />
anche da evitare politiche basate su eccessivi trasferimenti pubblici per gli effetti negativi sul<br />
deficit pubblico, nonché per le conseguenze sul tasso di cambio del marco rispetto alle altre<br />
monete europee.<br />
Come si può notare, le considerazioni negative sulle politiche strutturali di sussidio al salario e alle<br />
imprese, durante i primi anni dell’unificazione, ripercorrono con straordinaria similitudine la<br />
contrapposizione che si determinò alla fine degli anni cinquanta sulle modalità dell’intervento per<br />
lo sviluppo del Mezzogiorno e la successiva critica, venti anni dopo, al ruolo dell’intervento<br />
straordinario.<br />
All’inizio degli anni Novanta, un diffuso timore accomunava gli studiosi dell’unificazione tedesca<br />
e cioè che la zona orientale del paese potesse diventare quello che per l’Italia è tuttora il<br />
Mezzogiorno: una regione a minor grado di sviluppo, a minore produttività, un’area assistita<br />
mediante politiche di trasferimenti, non in grado di affrancarsi da questa situazione di dipendenza<br />
e incapace di sperimentare forme di sviluppo endogeno. È quindi l’esperienza italiana del dopo<br />
guerra, ed in particolare la storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, che assume un<br />
rilievo non trascurabile come termine di paragone per l’esperienza tedesca.<br />
La decisione del governo federale, com’è noto, non fu univocamente a favore della posizione<br />
liberista. A fronte della scelta sul livellamento dei salari, il governo decise di attuare un mix di<br />
politiche che avevano lo scopo, da un lato, di proteggere i lavoratori, attraverso l’estensione dei<br />
sussidi di disoccupazione validi nella Germania Ovest e, all’altro lato, incentivi volti a stimolare<br />
l’economia attraverso finanziamenti dello stato federale – programma Improving the Regional<br />
Economic Structure – che prevedevano crediti d’imposta per acquisti di macchinari ed impianti e<br />
sussidi a fondo perduto agli investimenti.<br />
4. Il dibattito sui differenziali regionali a dieci anni dall’Unificazione.
A distanza di dieci anni la sindrome del Mezzogiorno è ritornata a dominare il dibattito sulla<br />
valutazione del processo di unificazione tedesco (Sinn - Westermann 2001; Sinn 2000). Infatti, il<br />
processo di catching up, contrariamente a quanto pensato dai politici che fortissimamente vollero<br />
l’unificazione tra le due Germanie, e anche dopo il promettente processo di crescita che si era<br />
verificato tra il 1990 e il 1995 (Burda - Hunt 2001), sembra essersi fermato. In questo le<br />
similitudini tra Mezzogiorno e Centro-Nord dell’Italia e tra Est e Ovest della Germania sono<br />
diventate più evidenti dal momento che in quest’ultimo paese ciò che inizialmente era una<br />
semplice ipotesi ora sembra diventare realtà.<br />
All’inizio del 2000 la produttività relativa del lavoro è il 60% e il 59% delle rispettive aree più<br />
avanzate. In Germania nel 1990 la produttività del lavoro nelle regioni dell’Est era del 30%<br />
rispetto a quelle dell’Ovest. Il processo di convergenza si attua fino al 1994, quando la<br />
percentuale raggiunge il 59% e poi si stabilizza. Nel Sud, invece, la convergenza si ferma verso la<br />
fine degli anni sessanta in concomitanza, secondo alcuni, della fine delle cosiddette “gabbie<br />
salariali” (Boltho et al. 1997; Kustoris Padoa Schioppa - Basile 2002) 2 .<br />
Che, poi, le due aree si caratterizzino come economie sussidiate si evidenzia nel fatto che, proprio<br />
a causa della politica di eccessivi trasferimenti pubblici adottata dai due paesi, a fronte di un<br />
differenziale di produttività non corrisponde un differenziale di reddito. In Germania, come<br />
abbiamo detto, i trasferimenti hanno riguardato prevalentemente il sistema di sicurezza sociale –<br />
salute, pensioni, sussidi alla disoccupazione – e i trasferimenti finanziari – fiscalizzazioni e spese<br />
federali per infrastrutture. Inoltre, poiché questi non sono stati finanziati tramite imposte ma con<br />
prestiti nel mercato dei capitali, il tasso d’interesse si è mantenuto a livelli elevati contribuendo ad<br />
aumentare i problemi del deficit pubblico e mettendo in pericolo il patto di stabilità europeo..<br />
In Italia, i canali attraverso cui si sono attuati i trasferimenti sono stati gli accordi tra le parti<br />
sociali, che hanno incentivato spese in sanità, pensioni sociali, spese pubbliche e sussidi finanziari<br />
agli investimenti, e i trasferimenti indiretti, ovvero finanziamenti alle partecipazioni statali e<br />
l’occupazione nella Pubblica Amministrazione. Nemmeno la fine dell’intervento straordinario<br />
nella metà degli anni Novanta ha contribuito a modificare la forbice tra i differenziali di<br />
produttività e del reddito.<br />
Una diversa peculiarità tra i due paesi riguarda i differenziali di reddito tra le aree più sviluppate e<br />
quella meno sviluppate. Infatti, questi risultano minori in Germania (85%) che nel Mezzogiorno<br />
(65%) e, tuttavia, in entrambi i casi minori rispetto ai differenziali di produttività. Ciò è dovuto al<br />
fatto che nelle regioni della Germania Est, per determinare l’assorbimento totale, ai trasferimenti<br />
pubblici si devono aggiungere le importazioni di capitale privato dall’Ovest o dall’estero. I<br />
trasferimenti di capitale mancano quasi del tutto nel Mezzogiorno. Infatti, nella Germania Est il<br />
peso dei trasferimenti esteri sul totale dell’assorbimento è del 46%, ben più elevato rispetto al<br />
12% del Mezzogiorno.<br />
La domanda che si pone, a questo punto, è perché per i due paesi non si può applicare il<br />
principio della convergenza assoluta del tradizionale modello di sviluppo neoclassico. Secondo<br />
questo principio, quando in un paese vi è lo stesso sistema economico e legale e vi è un completo<br />
accesso alla tecnologia, ci dovrebbe essere una eguaglianza dei prezzi dei fattori e nella intensità di<br />
capitale e, quindi, eguaglianza nella produttività del capitale tra le varie regioni.<br />
La convergenza può al più essere rallentata se si aggiungono le ipotesi di preferenze localizzative<br />
della popolazione e costi di aggiustamento del capitale. Secondo la visione neoclassica, dunque, i<br />
motivi per cui non si verifica la convergenza in Germania e in Italia potrebbero essere dovuti ai<br />
fattori localizzativi – costi di trasporto, infrastrutture inefficienti e troppo costose – che<br />
comportano una più bassa produttività complessiva dei fattori. La produzione a più bassa<br />
intensità di capitale implica anche una più bassa produttività del lavoro e salari più bassi. Ciò<br />
2 Per un’ipotesi differente sulle cause dell’interruzione del processo di convergenza in Italia, si veda il contributo di<br />
Garofalo e Caroleo nel presente volume.
implica che in condizioni di steady state l’investimento pro capite in impianti e macchinari e<br />
capannoni dovrebbe essere più basso. E in effetti ciò si verifica in entrambe le aree più arretrate.<br />
In particolare, gli investimenti in macchinari nel Mezzogiorno sono il 40% del Centro-Nord e<br />
anche in Germania, sia pure in misura minore, la percentuale delle regioni dell’Est è l’88%<br />
rispetto alla Germania Ovest.<br />
Tuttavia, se l’andamento degli investimenti pro capite è in linea con il principio neoclassico,<br />
l’andamento della disoccupazione non lo è. Il modello neoclassico, infatti, prevede la piena<br />
occupazione. Al contrario, nel 2000 la disoccupazione in Germania interessava 1,3 milioni di<br />
lavoratori, pari a un tasso di disoccupazione esplicito di circa il 17% e che corrisponde a circa il<br />
doppio del tasso di disoccupazione della Germania Ovest. A questi, se si aggiungono i short time<br />
workers, i lavoratori in formazione o coloro che sono coinvolti nei programmi per la creazione di<br />
occupazione, si avrebbe un numero di disoccupati nascosti maggiore del 40% rispetto alla<br />
disoccupazione registrata (per un totale di 1,9 milioni). Inoltre, i 200 000 emigrati e i 400 000<br />
lavoratori pendolari, che contribuiscono a ridurre la forza lavoro delle regioni dell’Est, fanno sì<br />
che il tasso di disoccupazione complessivo risultava essere del 33%. Una percentuale che si è<br />
ridotta ben poco rispetto al 1992, quando il tasso di disoccupazione complessivo era, come<br />
abbiamo detto, del 37%. Questo dato, inoltre, diventa più grave se si prendono in considerazione<br />
i circa 300 000 prepensionamenti e la considerazione che la ristrutturazione produttiva della<br />
Germania dell’Est ha avuto un impatto drammatico sull’occupazione. L’occupazione si è ridotta,<br />
infatti, del 40% rispetto all’inizio del processo dell’unificazione, passando dai 9,89 milioni di<br />
occupati nel 1989 ai 5,75 milioni dell’inizio degli anni 2000.<br />
In Italia il tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno negli ultimi anni si attesta intorno al 20%, un<br />
valore di circa quattro volte maggiore del tasso di disoccupazione del Centro-Nord. In buona<br />
sostanza nelle regioni meridionali è concentrato circa il 65% della disoccupazione italiana<br />
esplicita.<br />
Sempre secondo la teoria della crescita neoclassica, i differenziali di disoccupazione si dovrebbero<br />
annullare adottando salari più bassi che, da un lato, indurrebbero un aumento della domanda di<br />
lavoro nelle regioni meno sviluppate e, dall’altro, favorirebbero il riequilibrio spingendo la<br />
popolazione ad emigrare. La spiegazione della persistenza di una così alta disoccupazione è,<br />
quindi, data dalla presenza di salari fissati a un livello più elevato di quelli market clearing. Salari<br />
troppo elevati creano disoccupazione, inducono a livello macro il capitale a emigrare e, quindi,<br />
contribuiscono a ridurre la produttività totale dei fattori produttivi.<br />
Le ragioni del perdurare dei differenziali regionali di disoccupazione vanno, quindi, ricondotte<br />
alla politica degli alti salari praticata nei due paesi. Nel Mezzogiorno il fenomeno inizia tra la fine<br />
degli anni sessanta e i primi anni settanta, come conseguenza dell’abolizione delle gabbie salariali..<br />
Da quella data le relazioni industriali, basate sostanzialmente sulla contrattazione centralizzata in<br />
cui viene esaltato ancora di più l’aumentato potere contrattuale dei sindacati a seguito delle lotte<br />
operaie nel periodo dell’autunno caldo, hanno teso al raggiungimento del livellamento dei salari tra<br />
le diverse aree del paese (Boltho et al. 1997; Kostoris Padoa Schioppa 1999).<br />
Anche in Germania, pur partendo da una situazione in cui i salari dell’Est all’inizio degli anni<br />
Novanta era 1/3 di quelli dell’Ovest, vi è stato un recupero salariale straordinario, almeno fino<br />
alla metà degli anni Novanta. E ciò, come abbiamo detto, è avvenuto grazie alle scelte salariali<br />
fortemente influenzate dai sindacati della Germania Ovest, in assenza di una cultura sindacale ed<br />
imprenditoriale nella ex Germania Est. Anche in questo caso la similitudine con quanto è<br />
avvenuto in Italia è interessante; infatti, anche in questo paese la contrattazione è stata<br />
sostanzialmente guidata dalla esigenze degli imprenditori e degli operai del Nord.<br />
La spiegazione, in linea con la teoria neoclassica, che il perdurare dei differenziali di produttività<br />
sia dovuto a una politica di alti salari e tendente alla salvaguardia degli interessi dei lavoratori più<br />
sindacalizzati, non è tuttavia molto convincente. Infatti, nonostante la tendenza al livellamento
salariale, nei due paesi permane ancora un certo differenziale salariale. In Italia, tra il Nord e il<br />
Sud del paese tale differenziale è del 15% (Casavola - Sestito 2000), in Germania il gap tra le<br />
regioni dell’Ovest e dell’Est è doppio (30%).<br />
Una spiegazione plausibile è che in entrambi paesi i salari di fatto, nell’area più sviluppata,<br />
eccedono normalmente i salari contrattuali, mentre nell’area più arretrata i primi rimangono<br />
sostanzialmente in linea con quelli contrattuali. In Germania, poi, negli ultimi anni i salari all’Est<br />
mostrano una tendenza a muoversi a livelli più bassi di quelli contrattuali. Le imprese, infatti,<br />
riescono a contrattare livelli salariali ben al di fuori dei minimi contrattuali o addirittura non<br />
contrattano con i sindacati (Burda - Hunt 2001).<br />
In conclusione, anche se i differenziali salariali sono minori di quelli della produttività, tuttavia la<br />
politica salariale perseguita nei due paesi non basta a spiegare la rigidità del salario verso il basso.<br />
In Germania, in un periodo di forte crisi, i sindacati non sembrano capaci di ottenere salari elevati<br />
e comunque slegati dalla produttività e, addirittura, nella stessa Germania Est la contrattazione<br />
sindacale sta subendo molte deroghe. Anche in Italia è difficile credere che i differenziali di<br />
disoccupazione possano essere spiegati esclusivamente da rigidità salariali.<br />
5.. Le cause dei differenziali regionali di disoccupazione: alti salari o problemi di offerta?<br />
Il problema dei differenziali regionali nei due paesi e il mancato catch up richiede, dunque, ulteriori<br />
motivazioni. Una spiegazione, che rientra ancora nell’ambito delle argomentazioni legate agli alti<br />
salari, è quella che i differenziali regionali di disoccupazione vanno ricercati nelle politiche<br />
adottate per attenuare i problemi sociali e di sostegno al reddito ai disoccupati. Ricalcando ancora<br />
una volta il dibattito avvenuto all’inizio del processo di unificazione, tali cause vengono<br />
ricondotte agli effetti dovuti al processo di privatizzazione attuato dalla Treuhandanstalt, laddove la<br />
vendita delle imprese della ex Germania Est si è accompagnata a un’eccessiva negoziazione sulle<br />
garanzie sul mantenimento dell’occupazione e sulle garanzie per la stabilità dell’occupazione<br />
temporanea, tramite gli short term works. A questo si devono aggiungere i sussidi alla<br />
disoccupazione, l’assistenza alla disoccupazione e l’assistenza sociale, che sono tutte forme di<br />
sussidi passivi che contribuiscono a mantenere il reddito delle famiglie disoccupate dell’Est<br />
troppo elevato rispetto al salario che avrebbero preso se avessero lavorato.<br />
Secondo i sostenitori della posizione liberista, anche le politiche attive sono state eccessive ed<br />
inefficaci. Le misure strutturali di aggiustamento, e cioè i programmi di lavori pubblici e i<br />
programmi di formazione finanziati dai fondi pubblici, hanno comportato spese troppo elevate<br />
soprattutto se paragonate a quelle effettuate negli altri paesi che stanno attuando il processo di<br />
transizione. Questi programmi, inoltre, non hanno efficacia sia che se ne faccia una valutazione<br />
degli effetti micro sia che si stimino gli effetti macro (Hujer et al. 2002).<br />
Le argomentazioni di costoro, che da alcuni vengono definiti “ayatollah della transizione”<br />
(Dornbush 2000), come detto, ricalcano il dibattito avvenuto all’inizio del processo<br />
dell’unificazione. Troppo welfare state incentiva una struttura produttiva e un’allocazione delle<br />
risorse umane lontane dai settori più produttivi. I sussidi contribuiscono a innalzare il salario<br />
minimo e, quindi, aumentano la durata e il livello della disoccupazione e riducono l’occupazione,<br />
o anche, come in Italia, accrescono l’economia sommersa. I trasferimenti sociali aumentano il<br />
salario nei settori non tradeble e quindi meno produttivi (Siebert 2003). È questo ciò che è<br />
avvenuto in Italia ed è questo ciò che con molta probabilità sta avvenendo in Germania.<br />
Le opzioni di policy sono, quindi, quella di decentrare la contrattazione a livello aziendale per poter<br />
avere un andamento del salario maggiormente compatibile con la produttività e quella di<br />
riformare il sistema sociale e di prevedere sussidi non già ai disoccupati ma a chi già lavora. Ciò<br />
incentiva i lavoratori a lavorare anche con salari più bassi. Un’ulteriore riforma dovrebbe
iguardare le pensioni e, piuttosto che spendere per il sostegno sociale, si dovrebbero incentivare<br />
investimenti in infrastrutture.. Infine, sarebbe necessario ridurre il carico fiscale sul lavoro. Tali<br />
riforme, inoltre non dovrebbero indurre il timore che la riduzione delle garanzie possano<br />
aumentare la povertà, così come avviene in America, dal momento che i sistemi di welfare italiano<br />
e tedesco rimangono comunque molto garantisti.<br />
In sintesi, la posizione neoclassica sulle cause della disoccupazione nelle aree a minore sviluppo<br />
riguarda due punti: alti salari, o un rapido processo di convergenza salariale, inducono un più<br />
basso livello di investimenti e di produzione. Dall’altro lato, il processo di riequilibrio viene<br />
impedito da rigidità istituzionali volte alla salvaguardia dei redditi o dell’occupazione di lavoratori<br />
che dovrebbero invece ricollocarsi nel mercato del lavoro ed essere più competitivi mediante<br />
salari più flessibili. La sindrome del Mezzogiorno nasce appunto dal fatto che queste sono<br />
esattamente le cause del persistere dei differenziali economici che caratterizzano le regioni<br />
italiane.<br />
La tesi liberista è stata criticata da più parti. Bonin e Zimmerman (2000) affermano, per esempio,<br />
che il ruolo dei salari sulla riduzione dell’occupazione sembra in realtà essere stato sovrastimato.<br />
Anche se, infatti, la convergenza del salario contrattuale è stata rapida, i salari di fatto sono<br />
cresciuti più lentamente. Inoltre, come abbiamo già detto, all’Est molte aziende non applicano gli<br />
accordi sindacali e, mediante accordi separati, senza il coinvolgimento dei sindacati, pagano salari<br />
inferiori ai minimi contrattuali. Ciò fa sì che il gap salariale è appena il 10% superiore al gap di<br />
produttività (70% contro il 60%).<br />
Dal punto di vista teorico, la critica alla tesi neoclassica riguarda la considerazione che, mentre<br />
per quest’ultima la condizione che il salario debba seguire la produttività vale in una situazione di<br />
crescita di stady state, ciò potrebbe non valere quando ci si trova in un processo di transizione o di<br />
trasformazione strutturale. Lo stock di capitale nella Germania Est era estremamente obsoleto e<br />
molti dei beni prodotti non si sarebbero comunque potuti vendere a qualsiasi livello di salario<br />
reale socialmente accettabile. Quando si deve procedere al rinnovamento dello stock di capitale,<br />
salari più alti non sono un problema, anzi la tecnologia avanzata richiede alti salari. Un iniziale<br />
rapido incremento salariale contribuisce ad aumentare la “distruzione creativa”. Mentre i bassi<br />
salari potrebbero comportare uno stock di capitale a bassa produttività e una lenta convergenza.<br />
Il problema, semmai, è perché gli imprenditori non hanno proceduto al rinnovo del capitale.<br />
Anche in Italia le critiche alla tesi che gli alti salari sono la causa dei differenziali regionali seguono<br />
un percorso molto simile alle considerazioni precedenti (Caroleo 1991; e il dibattito in Biagioli et<br />
al. 1999).<br />
Le argomentazioni, diverse da quelle liberiste, che cercano di giustificare i più elevati tassi di<br />
disoccupazione dell’Est, quindi, sono riconducibili a problemi di offerta. In altri termini, nelle<br />
regioni della Germani Est permane ancora un tasso di partecipazione più elevato di 10 punti<br />
percentuali rispetto alla Germania Ovest (78,1 contro il 68,8). Le ragioni sono molteplici: in<br />
primo luogo perché, in genere, la partecipazione è più elevata laddove si effettuano massicce<br />
politiche per incentivare l’occupazione. Un altro motivo riguarda la maggiore partecipazione<br />
femminile che trova giustificazione nella struttura del mercato del lavoro ad alta partecipazione<br />
che prevaleva prima dell’unificazione nell’ex Rdt e, dall’altro lato, nella necessità per le donne di<br />
trovare lavoro al fine di completare il reddito familiare che altrimenti sarebbe troppo basso.<br />
Dall’altro lato, le occasioni di lavoro per le donne sono poche e il risultato è l’alto tasso di<br />
disoccupazione relativo. La bassa probabilità di trovare un’occupazione da parte delle donne non<br />
è certamente dovuta a forme di discriminazione ma a diverse propensioni alla mobilità regionale e<br />
alla particolare composizione delle qualifiche.<br />
Bonin e Zimmerman, sottolineano anche come, mentre i differenziali nell’occupazione effettiva<br />
sono alti, meno evidente risulta la differenza regionale quando si misura l’occupazione in ore<br />
lavorate. Le ore lavorate contrattate sono più elevate all’Est; inoltre, se si prende in
considerazione il numero di ore complessivamente lavorate da ciascun occupato, all’Est si lavora<br />
di più ma anche più a lungo. Uno dei principali motivi di questo fenomeno è la bassa percentuale<br />
di lavoratori part-time rispetto all’Ovest. Il tasso di occupazione nelle due aree sarebbe, pertanto,<br />
molto vicino (60% a Est contro il 61,7 % a Ovest) se il maggiore numero di ore lavorate da<br />
ciascun lavoratore dell’Est fosse redistribuito secondo gli standard dell’Ovest, dal momento che,<br />
facendo in questo modo, nella prima area si guadagnerebbero 390 000 ulteriori lavoratori.<br />
Le proposte di policy in questo caso pongono l’accento sulla mancata riforma istituzionale. La<br />
decisione di procedere in processo di unificazione veloce ha portato ad una sottostima, e spesso<br />
alla negazione, dei costi economici e sociali legati alla transizione ad una economia di mercato. Il<br />
processo doveva essere più graduale e doveva rappresentare un’occasione per ripensare al<br />
ridisegno del sistema politico e sociale dell’intera Germania. Il problema quindi era quello di<br />
procedere alla riforma della pubblica amministrazione, all’attuazione di una politica di<br />
adeguamento delle infrastrutture pubbliche e alla rivitalizzazione del sistema scolastico e della<br />
ricerca.<br />
Nel Mezzogiorno i fattori di offerta sono, invece, alquanto differenti e riconducibili piuttosto a<br />
una struttura produttiva ancora troppo diversa, mentre, per quanto riguarda la composizione<br />
dell’offerta, il fenomeno caratteristico è che per un lungo periodo vi è stato un costante<br />
scoraggiamento delle donne e dei giovani in entrata verso l’occupazione e ciò per la sistematica<br />
esclusione di costoro dal mondo del lavoro. Ciò ha comportato non solo alti tassi di<br />
disoccupazione ma anche una estremamente bassa partecipazione attiva. Le conclusioni di policy,<br />
invece, sarebbero molto simili dal momento che i problemi del mercato del lavoro sarebbero<br />
comunque riconducibili alla scarsità di capitale sociale e alla povertà istituzionale che<br />
caratterizzano l’economia meridionale.<br />
6. La disoccupazione tedesca: un problema di rigidità istituzionali?<br />
Quando si prende in considerazione l’altro aspetto delle rigidità salariali, ovvero il fatto che<br />
queste sono dovute alle cattive istituzioni – eccessivo potere sindacale, elevati sussidi e un sistema<br />
di welfare troppo protettivo – i termini del dibattito subiscono un cambiamento radicale (Siebert<br />
2003). Infatti, se la politica di alti salari a favore dei lavoratori dell’Est ha certamente una<br />
caratterizzazione regionale, il problema diventa più complessivo allorquando le cause dei<br />
differenziali regionali vengono ricondotte alle istituzioni che regolamentano il mercato del lavoro.<br />
Queste, come abbiamo detto, sono quelle vigenti nella Germania Ovest ed è, quindi, da queste<br />
che bisogna partire (Dornbush 2000). Ciò significa che la disoccupazione tedesca non è<br />
attribuibile all’unificazione ma è invece un problema di disoccupazione strutturale, che riguarda<br />
l’intero mercato del lavoro tedesco. In effetti, la figura 1 mostra abbastanza chiaramente come<br />
l’andamento della disoccupazione tedesca dipenda quasi completamente da quanto avviene nelle<br />
regioni dell’Ovest, mentre la disoccupazione nelle regioni dell’Est conta per appena il 10%.<br />
Su questo punto l’accordo è abbastanza generalizzato e si ricollega all’ampio consenso che si è<br />
coagulato, a livello europeo, intorno alle prescrizioni dell’Oecd – d’ora in poi Oecd consensus – in<br />
tema di politiche economiche, e di politiche del lavoro in particolare, da adottare per risolvere il<br />
problema della disoccupazione europea.<br />
La posizione dell’Oecd, infatti, è che al fine di attuare un’efficace strategia per l’occupazione in<br />
Europa è necessaria una profonda riforma degli assetti istituzionali che regolamentano il mercato<br />
del lavoro. Essa ha come obiettivo quello di portare alla riduzione delle rigidità del mercato del<br />
lavoro che contribuiscono agli eccessivi aumenti del costo del lavoro e include: una sostanziale<br />
riduzione dei sussidi alla disoccupazione e dei salari minimi e una maggiore flessibilità nelle<br />
norme a protezione dell’occupazione (Oecd 1994; Oecd 1999a). Il background teorico di tale
impostazione di politica del lavoro fa riferimento alla nozione di tasso di disoccupazione<br />
strutturale che è quel tasso di equilibrio verso il quale il mercato del lavoro converge, in assenza<br />
di shock, una volta che tutti i prezzi e i salari si siano aggiustati (Layard et al. 1991).<br />
Secondo questa visione il tasso di equilibrio è interamente determinato dalle frizioni reali a livello<br />
microeconomico quali: il potere di contrattazione salariale dei lavoratori o dei sindacati, i<br />
problemi di informazione e di incentivi a livello di impresa, l’efficienza nella ricerca di lavoro e<br />
nel matching. Esso non dipende invece dalle politiche di stabilizzazione fiscale e monetaria che<br />
hanno solo effetti transitori sull’occupazione. In base a questa visione, quindi, le cause della alta<br />
disoccupazione europea è dovuta alle eccessive rigidità che regolamentano le istituzioni che<br />
sovrintendono all’incontro tra domanda e offerta di lavoro e la soluzione non può che basarsi su<br />
una profonda e onnicomprensiva riforma istituzionale del mercato del lavoro (EEAG 2004;<br />
Caroleo 2000; IMF 1999). Questo è quanto è avvenuto negli Stati Uniti, e infatti in questo paese il<br />
tasso di disoccupazione negli ultimi decenni è stato mediamente meno della metà di quello<br />
europeo (Nickell 1997; Nickell - Layard 1999).<br />
Negli anni Novanta un tale mainstream teorico e di prescrizioni di policy si è fatto strada, come si è<br />
detto, anche in Europa, dove molti paesi hanno intrapreso, grazie soprattutto all’impulso dato<br />
dalla strategia per l’occupazione definita dall’Unione Europea, la strada delle riforme strutturali. Il<br />
consenso su tale impostazione, tuttavia, non ha significato che tutti i paesi si siano mossi secondo<br />
un disegno unico e con uniformità di intenti. Per esempio, i paesi anglosassoni effettivamente<br />
hanno scelto l’opzione di una riforma sostanziale, caratterizzata da una forte riduzione dei sussidi<br />
di disoccupazione. In Spagna si è data importanza ai lavori temporanei, salvo reintrodurre in un<br />
secondo tempo maggiori vincoli a causa delle forti distorsioni che si sono verificate nel mercato<br />
del lavoro. L’Olanda ha introdotto elementi di flessibilità sulla protezione all’occupazione<br />
mediante un disegno di riforma concordato con i sindacati. I paesi del Nord dell’Europa hanno<br />
continuato a privilegiare le politiche attive del lavoro. La Francia ha adottato politiche di<br />
riduzione dei salari minimi dei giovani.<br />
La Germania solo di recente -tra il 2002 e il 2003- ha cominciato a realizzare un processo di<br />
riforma del mercato del lavoro. Gli elementi più significativi di tale riforma hanno riguardato più<br />
stringenti misure sui sussidi di disoccupazione, la riforma dei Centri per l’Impiego che vengono<br />
investiti della gestione del sistema di welfare e una minore protezione contro i licenziamenti<br />
(Regini 2002; EEAG 2004).. Anche in Italia negli anni Novanta si è dato avvio a un processo<br />
riformatore incentrato soprattutto sull’introduzione di forme contrattuali più flessibili.<br />
Tuttavia, il modo variegato, la poca convinzione e i frequenti sbagli nel disegno delle politiche e<br />
nella loro efficienza (Coe - Snower 1997; Lindbeck 1996) con cui si sta attuando il processo<br />
riformatore in Europa fa concludere che esso si sta dimostrando difficoltoso se non impossibile,<br />
con il risultato di non riuscire, da un lato, a ridurre il tasso di disoccupazione medio e di creare,<br />
dall’altro, dei forti differenziali regionali.<br />
In conclusione, secondo i fautori dell’Oecd consensus i differenziali di disoccupazione tra Nord e<br />
Sud e tra Germania Est e Ovest vengono fatte risalire al poco coraggio e all’ancora insufficiente<br />
attuazione della riforma istituzionale dimostrata dai governi dei due paesi. Le ragioni di un tale<br />
insuccesso sono dovute a due ordini di motivi. Il primo è un vincolo politico: una riforma così<br />
strutturale che va a toccare gli interessi e le rendite consolidate di lavoratori tradizionalmente<br />
protetti, e che rappresentano i gruppi politicamente più numerosi, inducono i politici a essere<br />
molto reticenti, se non apertamente contrari, e a non capire fino in fondo il guadagno<br />
complessivo in termini di occupazione e di efficienza che può provenire dalla riforma stessa<br />
(Saint-Paul 2000 e 2004). Il secondo è dovuto al fatto che in Europa il dibattito economico è<br />
ancora dominato dalle ideologie che fanno sì che non ci sia un consenso deciso, così come<br />
avviene negli Stati Uniti, al mainstream teorico che vede nel ripristino della logica del mercato e<br />
della legge dell’unico prezzo la panacea di tutti i mali di cui soffre l’Europa.
7. Conclusione.<br />
Il dibattito sulle diversità regionali in Germania degli anni Novanta ha seguito in maniera<br />
straordinaria da vicino il dibattito sul dualismo italiano. La visione dominante è stata certamente<br />
quella di stampo liberista, che fa discendere tali differenziali dalle politiche salariali<br />
particolarmente generose a favore dei lavoratori dell’Est e a un sistema di relazioni industriali che<br />
rendono particolarmente rigido il mercato del lavoro tedesco. L’unico equilibrio possibile,<br />
l’equilibrio di piena occupazione, cosi come il catching up regionale, non possono che essere<br />
perseguiti, pertanto, ripristinando le condizioni di concorrenza nei mercati, e in quello del lavoro<br />
in particolare.<br />
Sia in Italia come in Germania l’errore è stato, dunque, quello di non avere avuto il coraggio di<br />
procedere fino in fondo alla flessibilità salariale e alla riforma strutturale del mercato del lavoro.<br />
In Germania per una eccessiva fiducia nel modello dell’economia sociale di mercato, in Italia per<br />
l’attenzione eccessiva alla capacità della concertazione tra le parti sociali di poter gestire il governo<br />
dello sviluppo dell’economia.<br />
Come abbiamo già detto, la nostra proposta interpretativa parte invece da un modello che vede lo<br />
sviluppo di aree in ritardo, e il riequilibrio tra regioni, basato sulla capacità di generare e di<br />
sostenere nessi tra istituzioni, intese in senso ampio, e le esternalità pecuniarie positive derivanti<br />
dal disegno di policy attuato. Poiché, poi, queste interrelazioni possono essere molteplici, e legate<br />
alle capacità e alla volontà dei soggetti coinvolti, molteplici possono essere anche i sentieri che<br />
possono portare allo sviluppo, oppure, in caso di fallimento, al persistere delle disparità regionali.<br />
Un punto di grande diversità tra i due casi di studio ci sembra tuttavia opportuno sottolineare. Il<br />
confronto tra i due grafici relativi ai tassi di disoccupazione nei due paesi mostra una decisa<br />
differenza strutturale. Infatti mentre il problema della disoccupazione in Germania si connota<br />
come un problema quasi esclusivamente legato all’area più forte del paese, in Italia, invece, la<br />
disoccupazione è, e rimane, un problema meridionale. Ciò ha conseguenze sostanziali in termini<br />
di prescrizioni di policy. Infatti, mentre il catching up delle regioni dell’Est può essere ricondotto a<br />
un obiettivo di recupero di produttività, nel Mezzogiorno permangono problemi di bassa crescita<br />
occupazionale e bassa partecipazione, che sono legati a una sostanziale povertà tecnologica e<br />
istituzionale che pervade queste regioni.
20<br />
18<br />
16<br />
14<br />
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0<br />
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gen-98<br />
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set-98<br />
Germania EST Germania Ovest Germania differ<br />
Grafico 1<br />
Tassi di disoccupazione regionali in Germania. Dati mensili, 1992:1-2004:3<br />
gen-99<br />
mag-99<br />
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gen-00<br />
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gen-01<br />
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gen-02<br />
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gen-04
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0<br />
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gennaio<br />
aprile<br />
luglio<br />
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gennaio<br />
aprile<br />
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ottobre<br />
gennaio<br />
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92 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 04<br />
Tasso di disocc. Centro-Nord Tasso di disocc. Sud Tasso di dis. Italia diff cn-it<br />
Grafico 2<br />
Tassi di disoccupazione regionali in Italia. Dati trimestrali, 1992:4-2004:1